aprire o non aprire? questo è il dilemma, del dr Giuseppe Imbalzano

Giuseppe Imbalzano, medico, specialista in Igiene e Medicina preventiva. Direttore sanitario di ASL lombarde per 17 anni (Ussl Melegnano, Asl Milano 2, Ao Legnano, Asl Lodi, Ao Lodi, Asl Bergamo, Asl Milano 1). Direttore scientifico progetti UE (Servizi al cliente, Informatizzazione della Medicina Generale). Si è occupato di organizzazione sanitaria, prevenzione, informatica medica, etica, edilizia, umanizzazione ospedaliera e psicanalisi. Oggi consulente della Federazione Russa per la gestione dell’epidemia di Covid19

In tempo di Covid 19, per riaprire l’Italia, qual è la strada più breve, la più sicura, la meno rischiosa, la più veloce?

 

La situazione economica è l’elemento più critico che si sta rivelando connesso con
l’infezione da Covid 19 e che sta creando, se possibile, più danni della infezione stessa.
La modalità con cui è stata affrontata questa epidemia non sempre ha seguito la linea di
ridurre le fonti di infezione e di preservare il personale di assistenza da eventuali contagi, ma ha diffuso il virus negli ospedali e infettato un numero incredibile di operatori. Che sono certamente la causa di ulteriori infezioni tra i familiari e i pazienti. Così come la scelta di affidare ai medici di famiglia l’assistenza dei pazienti potenzialmente infetti ha costretto i primi ad affrontare, spesso senza gli strumenti di protezione necessari, situazioni del tutto critiche che dovevano esigere ben altra organizzazione. E la numerosità dei medici infetti ha creato ulteriori focolai territoriali.

In questi giorni sono fiorite proposte di riapertura delle attività lavorative che hanno posto come riferimento, tra le tante cose, le proiezioni di danno delle categorie secondo le età. Una scelta che cerca di dimostrare il basso rischio dei soggetti che devono partecipare al ciclo lavorativo in base a valutazioni che, nei fatti, appaiono assai discutibili, sia perché prive di certezza statistica, sia perché non tengono conto che non vi è una fungibilità di tutto il personale, di un possibile utilizzo di personale qualificato in tutti i settori senza la specifica competenza di chi debba gestire l’attività e il settore specifico. Dimenticando poi che i lavoratori hanno interazione anche con parenti e amici che potremmo inserire nelle categorie a rischio. E che accettare il rischio in se stesso (con quale garanzia per chi rischia?) non fa parte di una corretta valutazione e modello di attività. Sarebbe ancora più pesante che le imprese aggiungessero al peso dell’inattività il peso degli eventuali contagi correlati e dei danni immateriali e previsti dal decreto Lvo 81/08. E non credo, considerata la macchinosità del sistema, che verrebbe apprezzata dai lavoratori e quindi approvata per poter essere attivata e gestita come regola su tutto il territorio nazionale.

L’obiettivo è quindi quella di ridurre il rischio ai minimi termini, al livello più basso possibile.

Che è differente tra le diverse condizioni di rischio per differenti attività.

Tutta la nostra vita è un rischio, ma è necessario superare le condizioni di difficoltà, prevenendo, per quanto possibile, il rischio e il danno che ne possa derivare.

Se scalare una montagna è comunque rischioso, avere una attrezzatura appropriata, una condizione fisica ottimale ed una esperienza adeguata non è sufficiente se non teniamo conto delle condizioni climatiche e dei compagni di cordata. Se queste condizioni non sono garantite il rischio aumenta in modo importante.

Per arrivare in cima, comunque, ci sono mezzi alternativi, come l’elicottero o lanciarsi con il paracadute.

Possiamo immaginare lo stesso con una malattia infettiva che non ha terapie certe e non ha vaccini disponibili, che ha una mortalità significativa e necessità di servizi sanitari importanti, una infettività ragguardevole e una impossibilità ad essere identificato immediatamente e con certezza?

Arrivare in cima senza vaccino non è possibile. Essere certi di non infettarsi, senza vaccino non è possibile. Anche chi risulta positivo ad eventuali test biologici non è garantito.

Allora, in attesa di non avere neanche un caso in Italia, cosa possiamo fare?

Il primo e fondamentale punto è attivare un sistema di identificazione dei nuovi casi, molto puntuale e ben definito, come modalità e sede, la causa di esposizione e le modalità di contagio.

In carenza di un sistema di rilevazione puntuale dei nuovi casi noi rischiamo di rincorrere il virus al buio, con scarse possibilità di interrompere la catena di infezione.

Oggi la nostra attenzione prevale verso chi viene infettato e inseguiamo i casi che si moltiplicano.

I sistemi di “mitigazione” odierni non sono garantiti dalle azioni che vengono messe in atto per monitorare come il processo infettivo viene diffuso, se vi sono ambienti particolari o condizioni di rischio elevate che vengono trascurate. Se non si chiude il rubinetto, l’acqua continuerà a traboccare dal lavandino pieno.

Altra soluzione che è stata proposta è la identificazione dei “positivi”. La “mappatura” degli infetti non è necessaria con la descrizione soggettiva del proprio stato di salute poiché tutti i casi identificati di malati di covid 19 sono noti alle autorità sanitarie.

La richiesta di dare informazioni sul proprio stato di salute, che viene sollecitato da qualche sistema di monitoraggio, non solo è inutile ma rischia di far confondere una banale infezione ILI (Influenza Like Illness- malattia simile all’influenza) con la infezione da coronavirus che, quantomeno nelle fasi iniziali, ha la stessa sintomatologia e pertanto può creare maggiore (e inutile) ansia e preoccupazione nell’interessato e nella comunità.

Un monitoraggio serio è certamente un elemento di maggiore sicurezza e i luoghi di maggiore rischio sono quelli dove la presenza e la concentrazione dei malati è maggiore, e in particolare, nel nostro caso, gli ospedali e le case di cura, oltre ai domicili dei pazienti assistiti a domicilio.

È importante evitare le infezioni ed in particolare quelle prevedibili come le infezioni familiari.

La gestione dei positivi che non necessitano di assistenza ospedaliera è pericolosa perché le persone ammalate non possono vivere da sole e neanche badare a se stesse per tutte le esigenze quotidiane e le problematiche di salute che presentano.

Lasciare l’assistenza ai soli familiari ed in ambienti civili non garantisce nessuna sicurezza e ancora di meno la certezza che non ci potrà essere una trasmissione della infezione a chi accudisce queste persone. La protezione necessaria in ospedale è altrettanto indispensabile al domicilio e la preparazione del personale sanitario non è certo comparabile con la preparazione per evitare le infezioni in ambito familiare. Gli ambienti non sono adeguati e la sicurezza di protezione infettiva del tutto assente. E trascurare questi principi favorisce certamente la possibile diffusione virale domiciliare e comunitaria per l’attività sociale che comunque i familiari del malato svolgono normalmente (spesa, farmacia etc.).

Trattare questa infezione alla stregua delle altre è fortemente criticabile perché il rischio di diffusione è sicuramente molto elevato e l’assenza di strumenti terapeutici e di prevenzione non può rassicurare la comunità.

La gestione domiciliare dovrebbe consentire la separazione dei malati dal resto della comunità e lo stesso per i dimessi dagli ospedali ancora positivi.

Certamente non vanno inseriti in ambienti fortemente a rischio come le residenze per anziani ma in ambienti unicamente dedicati a malati di covid 19.

Il personale, naturalmente, deve essere adeguatamente formato e protetto.

Una attenzione particolare, più che alla vestizione, deve essere garantita per la svestizione, che diventa molto complicata in un ambiente domestico.

La separazione, nettamente definita e mantenuta sino alla eliminazione delle possibili criticità, deve essere mantenuta per i malati nei confronti dei non affetti dalla infezione.

Quando e dove aprire le attività.

Ovunque non ci siano casi di infetti può essere attivata l’intera organizzazione e possono essere garantiti tutti i servizi per la comunità.

Le aperture devono tenere conto della realtà territoriale e dell’impegno per garantire una totale assenza di infezioni e di nuovi infetti da almeno 20 giorni.

Noi già abbiamo, in Italia, con gli obblighi di confinamento attuali, comuni in cui le infezioni sono assenti e che possono, in piena tranquillità, riaprire tutte le proprie attività senza nessuna preoccupazione. Naturalmente con i residenti dei comuni stessi.

E questo potrà consentire di avviare due elementi fondamentali, l’attività lavorativa e l’interesse comunitario per ridurre le criticità che oggi non consentono una gestione adeguata della infezione. I sindaci in particolare avranno tutto l’interesse a mantenere o a favorire che il proprio comune diventi area virus free per riprendere le attività professionali, industriali e commerciali nella propria realtà, creando un circolo virtuoso per l’eliminazione dei fattori che favoriscono la diffusione del virus.

Solo una partecipazione attiva dell’autorità sanitaria locale, il Sindaco, e non una banale indicazione a non andare in giro o a non permettere di svolgere attività fisica possono determinare una riduzione del contagio. Una assistenza adeguata e coerente con le esigenze dei singoli malati può permettere di ridurre i contagi intra familiari e ambientali. E naturalmente una adeguata gestione della assistenza ospedaliera, con la separazione netta di ospedali per i malati infettivi e per malati non infettivi potrà, con la adeguata protezione del personale, ridurre le infezioni che sono possibili in un ambiente misto. E così per i trasporti dei malati infettivi, con una separazione dei sistemi di emergenza.

Con questo modello, con la assoluta attenzione ad evitare infezioni con alta probabilità di sopravvenire, possiamo immaginare di ampliare rapidamente le aree virus free e riprendere, in modo composto e sicuro, le attività in tutti i nostri comuni e poi i distretti che man mano si libereranno dall’infezione.

La domiciliazione senza la revisione dei comportamenti e delle azioni che oggi determinano nuovi casi è poco funzionale e creano forti tensioni tra i bisogni economici e quelli di salute.

Con questo modello il 30% abbondante dei nostri territori è in condizione di riprendere l’attività senza limitazioni e successivamente, nella espressione di questi comportamenti sicuri, le aree virus free si amplieranno rapidamente, senza dover decidere che cosa sia possibile fare.

La scelta di testare milioni di soggetti per verificare se gli stessi sono stati infettati porterà, oltre a costi non indifferenti, alla considerazione che la maggior parte della comunità ancora non lo è, ed in particolare non è certa l’immunità da una eventuale nuova infezione. Oltretutto questo modello, di copresenza dell’infezione endemica, mantiene in circolazione il virus e può, senza difficoltà, creare ulteriori focolai difficili da contrastare.

Una scelta “scorciatoia” non da garanzia di nulla e certamente non è possibile favorire il turismo e la mobilità comunitaria in sicurezza nelle nostre realtà.

Sino ad oggi è regnata molta confusione ma è indispensabile agire con grande rigore e modificare le linee di intervento sulle linee grigie che sono l’assistenza in ospedale e al domicilio di pazienti positivi o in attesa di valutazione in caso di contatto.

È indispensabile ridurre la semplificazione che si è fatta sino ad oggi per l’assistenza ed attivare tutti i servizi necessari per favorire una certificazione di area virus free sia nei singoli comuni che per tutta la comunità.

In questo modo, dal giorno di avvio della nuova organizzazione, saranno sufficienti poche settimane per giungere all’azzeramento dei nuovi casi e l’attività sociale potrà riprendere in modo completo e totale.

Giuseppe Imbalzano

http://CVBreveImbalzano

 

Due,tre cose che so sul coronavirus, di Max Bonelli

Due,tre cose che so sul coronavirus

 

Nell’ambiente dei patrioti sovranisti sono conosciuto per il mio impegno per la causa dei russi dell’est Ucraina,su cui ho scritto il libro Antimaidan , e per  vari articoli su quel mostro imperialista denominato Nato ma non sono uno scrittore di professione ne tanto meno un giornalista, vivo (per fortuna) di altro.

Ho alle spalle 30 anni di attività nel campo farmaceutico con svariati incarichi in diverse multinazionali del settore  in vari paesi europei (attualmente faccio consulenze in Scandinavia) e prima ancora quando ero ancora laureando in Farmacia ho prestato servizio come ufficiale nel 1 battaglione NBC Etruria come istruttore di difesa chimica e biologica. Fui mandato li perché avevo tanti esami in chimica, l’esercito cercava un laureato ma in mancanza si accontentarono di un laureando, il sottoscritto.

Mi diedero una settimana per prepararmi ed una serie di sinossi da digerire che divorai con facilità, niente di difficile per chi aveva superato chimica biologica, fisiologia etc.

Passai gli 11 mesi di servizio istruendo sottufficiali su come difendersi dagli attacchi chimici e biologici, come indossare le tute di difesa chimica e biologica, l’uso di autoclavi e l’immancabile maschera antigas.

 

Quando si seppe dei primi casi in Cina a Wuhan il germoglio della curiosità crebbe velocemente in me grazie ai miei trascorsi militari e professionali e trovai subito l’ottima pagina della università di Johns Hopkins che in tempo quasi reale aggiornava l’evoluzione del COVID-19.

https://coronavirus.jhu.edu/map.html

 

Capii subito già nella seconda metà di gennaio che il virus per le sue caratteristiche era inarrestabile nella diffusione e che l’unica forma di strategia di difesa era provare a limitare i danni ma seguendo questo invisibile parassita ho avuto delle interessanti ed istruttive lezioni di vita.

 

Primo:            Non farsi prendere dalla sindrome di Gesù

 

Seguendo l’evoluzione dell’invisibile nemico, incominciai  ben presto ad elaborare un piano di difesa biologica, ci pensavo continuamente me lo ripetevo nelle varie fasi mentre lavoravo, ne affinavo i particolari, poi mi feci coraggio e lo condivisi con persone che stimavo del partito sovranista in cui milito Vox Italia. Pensavo che me lo avrebbero buttato giù ed invece riscontrai entusiasmo ed incoraggiamento. Un ingegnere economico ed un medico collaborarono a strutturare un progetto articolato ed a sviluppare un calcolo degli oneri economici. Il risultato fu sorprendente con il mio piano che verteva sul principio di mettere gli anziani in strutture tenute asettiche od in alternativa di obbligarli ad una prolungata quarantena a casa supportati da personale che fornisse loro la logistica necessaria ad affrontare l’isolamento, si sarebbe continuato a tenere aperta l’azienda Italia, anche se con il freno a mano tirato in tanti settori. Il raffronto rispetto all’attuale sistema era di un risparmio di 170 miliardi di euro su un periodo di 3 mesi. Forte di tutto questo bussai alla protezione civile, alla sanità della regione Lazio. Risposte ? Nessuna, e nello stesso tempo giorno dopo giorno i morti aumentavano e  il paese era additato a “lebbrosario di Europa”. La cosa mi lasciava basito ancor più che gli unici due paesi che hanno adottato strategie simili alla mia proposta ottenevano dei risultati di letalità di molto migliori dell’Italia e mi riferisco a Russia ed Israele. La prima ha imposto agli anziani di rimanere in casa fino alla fine dell’emergenza insieme ad un moderata chiusura delle attività e la seconda ha scelto la via di focalizzare la protezione biologica sulle strutture che si prendono cura degli anziani più esposti. I risultati li lascio alla curiosità del lettore che può essere soddisfatta sul sito già messo in evidenza.

Avevo la conferma che il mio progetto stava in piedi ma non interessava a nessuno in Italia; parlai con un giornalista di Sputnik news ed ebbi da lui un intervista, articolo pubblicato fatto girare sui social; tanti like ma di concreto niente ed intanto il mio paese affondava.

Ad onor del vero anche nel Nord Europa  ho provato a proporre in ambiti delle grandi catene di distribuzione farmaceutiche micro progetti per salvaguardare dal contagio le “case per gli anziani” come le chiamano li. In teoria avevo il compito facilitato in quanto il virologo di riferimento locale, Anders Tegnall, aveva indicato che la priorità delle risorse e  delle attenzioni dovevano andare alla protezione biologica di queste strutture e nello stesso tempo si doveva evitare di fermare completamente l’economia. Tutto giusto solo che il governo svedese non ha avuto la forza di dare chiare direttive in tal senso, quindi trasformare la teoria in pratica. Risultato, tutto il mondo sanitario che gravitava intorno agli anziani si preoccupava più di perseguire il guadagno che di mettere in pratica costose ed onerose misure di prevenzione con il risultato che ai primi di aprile si contava 1 ospizio su 3 sotto contagio. In questo caso ho avuto la soddisfazione personale di vedermi scodinzolare intorno le stesse persone che 2 mesi prima mi avevano riso in faccia quando ai primi di febbraio dissi loro che il coronavirus si sarebbe diffuso anche in Svezia. All’epoca erano cosi fieri di avere solo casi isolati, perché stare a sentire un consulente italiano?

In sintesi puoi avere il piano migliore del mondo, la buona volontà ma di fronte all’inerzia dei comportamenti di gregge anche Gesù ebbe i suoi problemi ed io cosa pensavo di fare? Salvare il mondo?

 

Secondo:       Le persone molto intelligenti in situazione di stress perdono la loro qualità migliore

 

Basterebbe che i nostri governanti ma non solo loro, anche gran parte della classe politica mondiale si soffermasse ad osservare la cartina mondiale di diffusione del COVID-19.

Balzerebbe agli occhi che il nostro virus odia le alte temperature. Si diffonde con una velocità irrefrenabile nei climi temperati ma fatica nei climi equatoriali. Nei primi 13 posti per numero di contagiati ci sono 12 paesi con climi temperati ed 1 solo l’Iran con un clima parzialmente caldo. In realtà è stato colpito nella stagione “invernale” quando le temperature medie sono di 10-15 gradi; man mano che si riscaldava  il clima è stato superato in numero di contagi da paesi con sistemi sanitari migliori ma con un clima più

adatto al virus. L’OMS scrisse che la capacità di sopravvivenza su oggetti inanimati poteva essere intorno ai 3 giorni, una enormità di tempo se questo lasso scema notevolmente con il rialzo delle temperature ecco spiegato perché Malaysia, Filippine ed Indonesia sono sotto i 5 000 contagiati a testa in data 12 aprile o vogliamo pensare che il loro sistema sanitario sia migliore di quello dei paesi più avanzati?

Per finire vi invito a dare un’occhiata all’Australia: 6315 contagiati il 12 aprile del 2020, stesso sistema sanitario, stesse misure, quasi tutti i contagiati vivono nella parte temperata che guarda l’antartico, praticamente assenti nel nord caldo e secco.

 

In sintesi :il mondo è in mano a gente che non può essere stupida se ha fatto una carriera cosi brillante nella società ma non sono stati selezionati per fare analisi sotto stress e prendere decisioni coraggiose; la mancanza di questa dote, il coraggio sta diventando il maggior responsabile di una delle più grandi catastrofi economiche della storia dell’umanità.

 

 

Terzo: Il megafono di una stampa asservita al potere in crisi isterica

seppellisce definitivamente il senso critico del popolo sotto il

peso della paura.

 

La paura annebbia le menti ed il nostro virus è riuscito a risvegliare dei comportamenti seppelliti nel nostro DNA. La maggior parte di noi discende da chi è sopravvissuto alla peste del 1300. Pur con una letalità ufficiale intorno al 3,6% con punte nel bel paese che arrivano al 12% il coronavirus è ben lontano dalle letalità dei suoi parenti stretti SARS o MERS. Ha un’alta ospedalizzazione che mette in ginocchio i sistemi sanitari e che incide sul numero di morti ma siamo lontani dal 50% ed oltre della peste nera che colpì i nostri antenati per altro privi di un sistema sanitario in loro soccorso. I nostri media hanno fomentato con piacere l’asservimento delle menti impaurite, sentivano che con gli anni lo scetticismo della gente aumentava di giorno in giorno e non poteva che essere altrimenti di fronte a chi propugnava e propugna l”’accoglienza infinita in un mondo finito”. Questa pestilenza benigna gli ha ridato il potere che avevano perso; quello di poter ottenebrare le menti. Da qui una riflessione:

Solo il pensiero chiaro e limpido aiuta il raggiungimento della verità ed il valore degli uomini è dato da quanta verità riescono a tollerare

 

 

Max Bonelli

 

 

 

 

 

 

Coronavirus ridetermina l’economia globale: il Giappone finanzia le aziende Giapponesi, a cura di Gianfranco Campa

Riportiamo qui sotto la traduzione di un articolo del periodico International Business Times (IBTimes) che rivela la spinta offerta dalla crisi pandemica del coronavirus ad un radicale cambiamento del sistema di relazioni economiche, parte integrante di quello delle relazioni geopolitiche. Il Giappone, sulla scia degli Stati Uniti pur tra mille contraddizioni e contrasti politici, è tra i primi paesi ad assecondare questa strategia. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Coronavirus ridetermina l’economia globale: il Giappone finanzia le aziende Giapponesi per spostare la produzione fuori dalla Cina

 

https://www.ibtimes.com/coronavirus-reshapes-global-economy-japan-fund-companies-shift-production-out-china-2956336

 

PUNTI CHIAVE

 

  • Abe ha annunciato un piano economico da 990 miliardi di dollari per aiutare l’economia a superare la crisi. Di questi 990 miliardi, 2,2 sono destinati alle aziende Giapponesi che sposteranno la loro produzione fuori dalla Cina

 

  • Le compagnie giapponesi da tempo volevano ridurre la propria dipendenza dalla Cina

 

  • Le speranze della Cina per un ritorno alla normalità dopo la crisi potrebbero essere mal poste

 

 

Le aziende giapponesi che già da molto tempo avevano in programma di ridurre la dipendenza dalla Cina dovrebbero essere soddisfatte della sostanziosa misura economica di 2,2 miliardi di dollari varata dal primo ministro Giapponese Shinzo Abes. soldi messi a disposizione delle aziende per aiutarli a trasferire le attività produttive. Queste aziende, ancor prima della crisi del Coronavirus, erano già preoccupate di non farsi  travolgere e diventare esse stesse vittime della sempre più acuta guerra commerciale USA-Cina.

 

Abe ha annunciato un pacchetto di incentivi di quasi $ 990 miliardi per aiutare l’economia a superare la crisi e l’esborso può modificare enormemente la scena dell’industria post-pandemica.

 

Il pacchetto di stimolo economico prevede 220 miliardi di yen;  2,2 miliardi, come già detto alle aziende che riportano la produzione in Giappone e 23,5 miliardi di yen per coloro che vogliono spostare la produzione in altri paesi.

 

La Cina è stata il principale partner commerciale del Giappone fino a quando il coronavirus non ha colpito, portando a un sostanziale ridimensionamento del commercio. La battuta d’arresto nei rapporti Giappone-Cina ha portato alla cancellazione della visita del presidente cinese Xi Jinping a Tokyo prevista per l’inizio di questo mese. La visita è stata rinviata a causa della crisi del Coronavirus, ma una nuova data non è stata ancora pianificata. La somma assegnata alle aziende Giapponesi per facilitare lo spostamento delle produzioni fuori dalla Cina potrebbe ulteriormente acuire la distanza tra i due giganti economici asiatici nonostante gli sforzi , fino ad ora a parole, di Abe per avvicinare i due tradizionali rivali.

 

Secondo un rapporto governativo Giapponese, il governo di Tokyo ritiene che le aziende debbano mantenere una base produttiva in Cina solo per merci destinate al mercato cinese. Lo scorso mese un gruppo di studio governativo sui futuri investimenti ha discusso della necessità di manifatturare prodotti ad alto valore aggiunto e strategico in Giappone. La produzione di altri beni, meno importanti, potrebbe essere diversificata in tutto il sud-est asiatico; una mossa che andrà a beneficio dei centri di produzione a basso costo come il Vietnam e la Cambogia e alcune altre economie asiatiche.

 

Ci sarà una sorta di svolta“, scrive nel suo rapporto Shinichi Seki, economista del Japan Research Institute, aggiungendo che alcune aziende giapponesi che fabbricano merci in Cina per l’esportazione stavano già prendendo in considerazione l’idea di uscire. “Avere questo stimolo economico nel budget fornirà sicuramente uno ulteriore slancio“. Alcune aziende, come le case automobilistiche, che fabbricano per il mercato interno cinese, probabilmente rimarranno dove sono, ha dichiarato Seki

 

Secondo il rapporto del Tokyo Shoko Research; circa un migliaio di aziende giapponesi avevano già lo scorso Febbraio iniziato a diversificare l’acquisto di componenti per la loro produzione, abbandonando i fornitori cinesi. Il Giappone esporta in Cina una quota molto più importante di parti e merci parzialmente finite rispetto alle altre nazioni industrializzate del mondo. La Tokyo Shoko Research ha rilevato che il 37% delle oltre 2.600 aziende hanno dichiarato che stanno diversificando i propri approvvigionamenti in luoghi diversi rispetto alla Cina.

 

Dopo la crisi, la Cina aspirerebbe tornare a uno scenario normale, pre-coronavirus. “Stiamo facendo del nostro meglio per riprendere lo sviluppo economico“, ha detto il portavoce del ministero degli Esteri cinese Zhao Lijian. “In questo processo, speriamo che altri paesi agiscano come la Cina e prendano le misure adeguate per garantire che l’economia mondiale sarà modificata il meno possibile e per garantire che le catene di approvvigionamento siano influenzate il meno possibile“.

 

Il fatto che molti a Tokyo condividono l’opinione degli Stati Uniti secondo cui la Cina ha nascosto al mondo la gravità della pandemia, soprattutto all’inizio, può indurre a stabilire legami molto più ridotti tra i due paesi, nonostante l’apparente distensione nelle relazioni avvenuta nei primi giorni dell’epidemia quando il Giappone ha inviato aiuti sanitari alla Cina.

 

I due paesi sono anche coinvolti in una disputa territoriale sulle isole del Mar Cinese Orientale, che tuttora continua ad alimentare tensioni sino a trascinarli vicino a uno scontro militare nel 2012.

 

PAESE CHE VAI, VIRUS CHE TROVI….SOCIALISMO CHE FAI, di Pierluigi Fagan

PAESE CHE VAI, VIRUS CHE TROVI. Rapido giro mattutino della stampa int’le (SPA,FRA,UK,GER,USA).

1) L’EUROPA. Nel gruppo euro, siamo a 15 paesi contro 4 (GER-OLA-AUS-FIN). I 4 hanno capito di aver clamorosamente sbagliato il primo round, critiche interne si sono sollevate soprattutto in Olanda ed un po’ anche in Germania. Soprattutto hanno capito di star mettendo seriamente a rischio euro ed UE. Così ora scatta l’operazione elemosina ovvero gettare in pasto alle opinioni pubbliche un marasma di ipotesi di intervento tutte largamente insufficienti, ma che possono dar l’impressione si stia facendo fattivamente qualcosa. Si parla di un fondo per la disoccupazione di 100 mld () e l’olandese Rutte, si è anche spinto fino all’idea di una donazione caritatevole da 10 mld che i Paesi “ricchi” farebbero ai “poveri”🤣. Von der Leyen ci scrive chiedendoci scusa, i tedeschi ci prendono qualche decina di malati da qualche giorno, Rutte ha chiesto scusa alla Spagna per l’infelice uscita che gli è valso quel “ripugnante” da parte del premier portoghese. L’importante è non fare nulla o poco, guadagnare tempo, minimizzare i danni d’immagine ed evitare che il “sogno europeo” venga percepito come “incubo europeo”. “Percepire”, questo è secondo questi illusionisti il problema, diagnosi che si commenta da sé. Segnalo però anche l’avvenuta gara europea per le fornitura centralizzata di miliardi di mascherine (Cina, India, Vietnam). Aspettiamoci quindi una invasione di mascherine con il logo europeista da portare tutti quando sarà obbligatorio, di modo da confermarci che l’Europa ci protegge.

2) POPOLI E GOVERNI. FAZ pubblica un sondaggio a 100.000 casi (Cambridge, Princeton, Harvard) sull’umore dei popoli. I più contenti del proprio governo sono gli austriaci, poi noi. Due terzi di consenso per Merkel, mentre così così (sotto o sopra 50%) stanno gli olandesi e svizzeri sebbene più positivi che negativi, mentre un po’ meno positivi ed un po’ più negativi francesi e spagnoli. Più di due terzi critici i britannici, più dell’80% degli americani (russi e turchi ancora peggio, secondo il sondaggio). Britannici, americani ed olandesi si auto-criticano anche come reazioni e comportamenti della popolazione all’emergenza, ma anche un po’ francesi e canadesi. Giudizi critici sull’onestà del proprio governo nel dire come stanno le cose soprattutto in USA, ma anche in Francia, Gran Bretagna e Spagna. Italia, più o meno a livello di Germania, Olanda, Svizzera e Svezia in territorio decisamente positivo.

3) CAPITALE vs SALUTE. Ovunque si mostra il conflitto tra interessi economici ed interessi sanitari. Segnalo che i governi spagnolo ovviamente ma anche francese, britannico e tedesco, sembrano voler frenare (come in Italia per altro) l’impeto a “riapriamo e fatturiamo”. Ovunque e stamane ne ho letto addirittura sulla stampa tedesca, c’è il semplice problema che noto ad alcuni fatica ad entrare in testa, della capacità ricettiva degli ospedali. Gli “altri” poi, sono indietro a noi nella tempistica di sviluppo dell’epidemia. Segnalo che oltre ovviamente a noi che abbiamo iniziato per primi e gli spagnoli che stanno sotto un treno, in termini di rapporto morti per 1 milioni di abitanti, cominciano a star maluccio anche francesi, belgi, olandesi e svizzeri, più indietro i britannici. Com’è noto i tedeschi sono invulnerabili, perché allora si preoccupino non si capisce. A proposito di tedeschi segnalo che per la terza volta in breve tempo, dopo la tempestosa riunione dei premier eurogruppo ed un messaggio alla nazione, Merkel continua a mandare messaggi vocali ma si rifiuta di comparire in video come nella conferenza stampa di ieri. Ricordo che Merkel è ufficialmente in “isolamento”, forse non si è fatta la messa in piega e non vuole mostrasi “scapigliata”?

4) SALUTIAMO L’AMERICA. Trump sta capendo in che razza di casino è capitata l’America. Diventato a fatica serio e preoccupato, pochi giorni fa ha annunciato di aspettarsi 100.000 morti poi appena qualche giorno dopo è passato a 240.000. L’America sta mostrando un livello di organizzazione pari forse solo all’Iran. Manca tutto in termini di materiali, c’è un casino tra entità federali pazzesco, non sanno dove mettere i morti e sono solo a poco più di un terzo dei nostri morti (e sono pure cinque volte più grandi di noi per non parlare della ricchezza). Non hanno fatto scattare alcun lockdown serio e quindi continueranno a contagiarsi e finire in ospedale per mesi e mesi. In più stanno fallendo compagnie di shale gas una dopo l’altra e seguiranno vari tipo di industria. La foto che gira degli homeless messi sdraiati per terra a distanza di sicurezza occupando – per “distanziamento sociale” – ognuno uno scacco dei parcheggi vuoti di Las Vegas con tutti gli alberghi vuoti a teorica disposizione dice dello stato di civiltà di quella nazione. Ricordo qualche settimana fa i commenti dei liberali italici indignati per i miseri ospedali messi su in una settimana dai cinesi, ma si sa, noi viviamo in un eterno presente e nessuno si ricorda quello che ha detto l’altro appena due giorni fa. Poi arriveranno i ghetti in rivolta e con la nazione che ha un terzo della popolazione con almeno un’arma (ma in complesso in USA ci sono più armi private che abitanti quindi alcuni hanno veri e propri arsenali), vedremo film à la Carpenter con Jena Plissken dal vivo.

Di cinesi, giapponesi, indiani, brasiliani ed africani ci occuperemo un’altra volta. A chiedere tre punti: 1) nonostante le difficoltà in cui si dibattono, i popoli si stringono al proprio leader o forse solo alla nazione detto in senso culturale, il “noi”. In emergenza, nessuno sente il bisogno di far esagerate polemiche, non è il momento, ora. Ma il momento arriverà, sembra che pochi abbiamo capito l’entità e la durata di questa storia; 2) l’epidemia è come un apparato radiografico semovente. Mano a mano che procede, rivela di ogni Paese e di ogni popolo, le nudità strutturali. Ogni giorno qualcuno scopre qualcosa di nuovo e di inaspettato, è un bagno di realismo il che in un’epoca surreale è interessante; 3) ricordo che i cinesi, a Wuhan, hanno chiuso tutto ma tutto davvero per dieci settimane. Oggi però sono alle prese con nuovi possibili focolai ed hanno richiuso Hong Kong. L’Imperial College, in uno studio -mi sembra logicamente affidabile-, ha detto settimane fa che la faccenda, a cicli di up&down, durerà probabilmente 18 mesi. Ognuno ne tragga la conclusione che crede su tempo e spazio del fenomeno.

[La foto è Associated Press, la prima agenzia di stampa del mondo ed è tratta da Time. Nulla meglio di foto+AP+Time dice dello stato delle cose occidentali]

IDEE DI SOCIALISMO SANITARIO. Oggi ci lanciamo in una semplice idea guida, un esempio di modo di ragionare che può tornare utile quando le cose saranno se non normali, meno eccezionali. Ed a tale proposito, da ieri possiamo dire -per il momento- che si vede forse la fine almeno della fase 1, quella emergenziale. L’emergenza era data da un semplice fatto, bisognava diminuire il flusso dei contagiati negli ospedali perché questi si riempivano più di quanto non si svuotassero. In quelle condizioni i morti sarebbero aumentati di molto.

In questi giorni molti hanno continuato a non darsi conto del fatto che i morti complessivi per e con coronavirus non fossero più delle normali epidemia di influenza. A parte il fatto che più di 11.000 morti in poco più di un mese sono ben più dello standard statistico delle influenze annuali, il problema principale in termini di “urgenza” (ciò che viene prime vs ciò che viene dopo) non erano solo i morti ma i bisognosi di ricovero (terapia d’assistenza respiratoria + terapia intensiva), tant’è che molti non ce l’hanno fatta, rimanendo a casa perché non c’erano posti nelle strutture ricettive. Nonostante giri da febbraio un disegnino con le curve a picco del “se non fai niente” o a curva sdraiata “se fai il lockdown”, ovvero spalmare i richiedenti ricovero bloccando i contatti sociali, come hanno capito per altro tutti i dotati di senno in tutto il mondo, vedo che molti hanno avuto insormontabili difficoltà a collegare un numero sufficiente di neuroni per capire questo fatto. Ieri però Callera ha detto che tra entrati ed usciti dagli ospedali lombardi, il saldo era solo di +2 e quei due letti in più ci sono, quindi incrociamo le dita per gli andamenti futuri e passiamo ad altro.

L’altro non è la fase 2 o 3 del coronavirus, ma quella posteriore l’epidemia. Ieri mi veniva in mente un sistema circolare di questo tipo. Lo Stato con suoi capitali, potrebbe creare un sistema che chiameremo Officine Sanitarie Nazionali. Sarebbe un network di imprese che producono, non tutto ma una buona parte dei materiali necessari al Servizio Sanitario Nazionale. Ora abbiamo avuto lo shock da mascherine, disinfettanti e ventilatori polmonari, ma ci sono anche molti farmaci con le molecole a libera produzione, solventi, vari tipi di liquidi necessari in varie terapie, strumenti diagnostici, strumenti di cura, fino ai letti reclinabili, l’arredo delle ambulanze e quant’altro d’uso comune e non solo per il coronavirus che prima o poi avremo domato. Tutto il necessario per un SSN in un Paese con un terzo di abitanti anziani quale abbiamo scoperto finalmente di essere. Una gran parte del valore di spesa della voce di bilancio “Sanità” che ogni anno lo Stato italiano deve spendere attingendo alla fiscalità generale, oltre a gli stipendi per le maestranze, se ne va per comprare tutto il necessario sul libero mercato, italiano ed estero.

La cosa tra l’altro produce costi enormi per via del’enorme macchina amministrativa (ordini-fatturazioni-rendicontazione) che deve indire gare a ripetizione. In più, oltre al costo vivo dei materiali ed al costo indiretto di gestione, c’è il costo occulto delle migliaia di atti di micro o macro corruzione che affliggono la gestione della spesa pubblica in Italia. Questi tre costi sarebbero semplicemente eliminati o abbassati grandemente perché se il fornitore è unico ed è dello Stato: 1) la spesa d’acquisto del SSN diventa guadagno del produttore statale, una buona parte della spesa sanitaria annua diventa una partita di giro; 2) non c’è da mantenere alcun ipertrofico apparato amministrativo perché non c’è da fare alcuna gara, solo ordini; 3) non c’è alcuna mazzetta che gira tra privati, Regioni, partiti, ospedali e primari.

L’occupazione persa tra amministrativi degli ospedali e delle Regioni così come le maestranze che oggi lavorano in aziende private verrebbe semplicemente assorbita dal network di aziende pubbliche che crea una sorta di socialismo sanitario nazionale (SSN). Ci sarebbe ovviamente da meglio curare l’efficienza delle imprese pubbliche, un problema che il “socialismo teorico” dovrà prima o poi affrontare perché il problema c’è ed è innegabile. Ma studiando credo si possa trovarne soluzione almeno parziale. Gran parte di questi costi, rimarrebbero in Italia in quanto potremo produrre molte cose qui invece che esser dipendenti da fornitori esteri. Ovviamente questo non coprirebbe tutte le necessità. Molti farmaci speciali, macchinari particolari, strumenti troppo costosi da produrre in pochi pezzi, rimarrebbero da acquistare sul mercato. In più, altri stanziamenti in ricerca, potrebbero alimentare continuamente di idee nuove e nuove soluzioni l’upgrade tecno-scientifico delle produzioni magari competitive al punto da avere anche un loro mercato estero. Di base però, cedo che il risparmio e l’efficienza di costo e gestione, sarebbe comunque notevole. In più permetterebbe di acquisire una certa resilienza per un servizio che è sempre più necessario data l’estrema longevità dei connazionali e che non può dipendere dalle sempre più frequenti perturbazioni di quadro internazionale. Un buon servizio sanitario nazionale, ovviamente, sarebbe anche un risparmio di spesa per singoli e famiglie ed il servizio nazionale potrebbe esser implementato proprio a partire dai risparmi ottenuti fornendo materiali prodotti in casa su cui non è più necessario far profitto.

Non mi viene in mente altro modo di onorare le vite di coloro che sono morti oltre il dovuto solo perché ci siamo fatti trovare “impreparati”, che far del loro sacrificio una lezione da apprendere. Quando inizieranno le geremiadi retoriche per coprire con l’emozione empatica il disastro a cui non siamo stati in grado di far fronte, facciamoci trovare pronti con altre soluzioni che non i pianterelli di circostanza. Finiremmo con l’esser colpevoli due volte, il che è inammissibile. Glielo dobbiamo …

Lezioni dalla risposta dell’Italia al Coronavirus di Gary P. Pisano , Raffaella Sadun e Michele Zanini

Qui sotto un interessante articolo della HBR con il quale trae un primo bilancio dell’approccio italiano alla crisi del coronavirus. Riflessioni in linea con le considerazioni già portate avanti da questa testata e dalle prossime ben più critiche ed approfondite che seguiranno.Buona lettura_Giuseppe Germinario

Mentre i politici di tutto il mondo lottano per combattere la rapida pandemia di Covid-19, si trovano in un territorio inesplorato. Molto è stato scritto sulle pratiche e le politiche utilizzate in paesi come Cina, Corea del Sud, Singapore e Taiwan per reprimere la pandemia. Sfortunatamente, in gran parte dell’Europa e degli Stati Uniti, è già troppo tardi per contenere Covid-19 nella sua infanzia, ei politici stanno lottando per tenere il passo con la pandemia in espansione. Nel fare ciò, tuttavia, stanno ripetendo molti degli errori commessi all’inizio in Italia, dove la pandemia si è trasformata in un disastro. Lo scopo di questo articolo è di aiutare i politici statunitensi ed europei a tutti i livelli a imparare dagli errori dell’Italia in modo che possano riconoscere e affrontare le sfide senza precedenti presentate dalla crisi in rapida espansione.

Nel giro di poche settimane (dal 21 febbraio al 22 marzo), l’Italia è passata dalla scoperta del primo caso ufficiale Covid-19 a un decreto del governo che essenzialmente vietava tutti i movimenti di persone all’interno dell’intero territorio e la chiusura di tutti i attività commerciali essenziali. In questo brevissimo periodo, il paese è stato colpito da niente meno che da uno tsunami di forza senza precedenti, punteggiato da un flusso incessante di morti. È senza dubbio la più grande crisi italiana dalla seconda guerra mondiale.

Alcuni aspetti di questa crisi – a cominciare dai suoi tempi – possono senza dubbio essere attribuiti alla semplice e semplice sfortuna (“sfortuna” in italiano) che chiaramente non era sotto il pieno controllo dei politici. Altri aspetti, tuttavia, sono emblematici dei profondi ostacoli che i leader in Italia hanno affrontato nel riconoscere l’entità della minaccia rappresentata da Covid-19, nell’organizzare una risposta sistematica ad essa e nell’apprendere dai primi successi nell’implementazione – e, soprattutto, dai fallimenti.

Vale la pena sottolineare che questi ostacoli sono emersi anche dopo che Covid-19 aveva già avuto un impatto completo in Cina e alcuni modelli alternativi per il contenimento del virus (in Cina e altrove) erano già stati implementati con successo. Ciò che suggerisce è un fallimento sistematico nell’assorbire e agire sulle informazioni esistenti rapidamente ed efficacemente piuttosto che una completa mancanza di conoscenza di ciò che dovrebbe essere fatto.

Ecco le spiegazioni per quel fallimento – che si riferiscono alle difficoltà di prendere decisioni in tempo reale, quando si sta verificando una crisi – e ai modi per superarle.

Riconosci i tuoi pregiudizi cognitivi. Nelle sue fasi iniziali, la crisi di Covid-19 in Italia non assomigliava affatto a una crisi. Le dichiarazioni iniziali sullo stato di emergenza sono state accolte dallo scetticismo sia da parte del pubblico che da molti membri nei circoli politici, anche se diversi scienziati hanno avvertito del potenziale di una catastrofe per settimane. In effetti, alla fine di febbraio alcuni importanti politici italiani si sono impegnati nella stretta di mano pubblica a Milano per sottolineare che l’economia non dovrebbe andare nel panico e fermarsi a causa del virus. (Una settimana dopo, a uno di questi politici fu diagnosticato Covid-19.)

Reazioni simili sono state ripetute in molti altri paesi oltre all’Italia ed esemplificano ciò che gli scienziati comportamentali chiamano pregiudizio di conferma  – una tendenza a cogliere informazioni che confermano la nostra posizione preferita o ipotesi iniziale. Minacce come le pandemie che si evolvono in modo non lineare (ovvero iniziano in piccolo ma si intensificano in modo esponenziale) sono particolarmente difficili da affrontare a causa delle sfide dell’interpretazione rapida di ciò che sta accadendo in tempo reale. Il momento più efficace per agire con forza è estremamente precoce, quando la minaccia sembra essere piccola, o anche prima che ci siano casi. Ma se l’intervento funziona davvero, sembrerà a posteriori come se le azioni forti fossero una reazione eccessiva. Questo è un gioco che molti politici non vogliono giocare.

L’incapacità sistematica di ascoltare gli esperti evidenzia i problemi che i leader – e le persone in generale – hanno capito come comportarsi in situazioni terribili e altamente complesse in cui non esiste una soluzione facile. Il desiderio di agire fa sì che i leader facciano affidamento sul loro intestino o sulle opinioni del loro cerchio interno. Ma in un momento di incertezza, è essenziale resistere a quella tentazione e invece impiegare il tempo per scoprire, organizzare e assorbire la conoscenza parziale che è dispersa in diverse tasche di competenza.

Evita soluzioni parziali. Una seconda lezione che si può trarre dall’esperienza italiana è l’importanza degli approcci sistematici e dei pericoli delle soluzioni parziali. Il governo italiano ha affrontato la pandemia di Covid-19 emanando una serie di decreti che aumentavano gradualmente le restrizioni all’interno delle aree di blocco (“zone rosse”), che venivano poi espanse fino a quando non si applicavano infine all’intero paese.

In tempi normali, questo approccio sarebbe probabilmente considerato prudente e forse anche saggio. In questa situazione, ha fallito per due motivi. Innanzitutto, non era coerente con la rapida diffusione esponenziale del virus. I “fatti sul campo” in qualsiasi momento non erano semplicemente predittivi di quale sarebbe stata la situazione pochi giorni dopo. Di conseguenza, l’Italia ha seguito la diffusione del virus piuttosto che prevenirlo . In secondo luogo, l’approccio selettivo potrebbe aver involontariamente facilitato la diffusione del virus. Considera la decisione di bloccare inizialmente alcune regioni ma non altre. Quando il decreto che annunciava la chiusura dell’Italia settentrionale è diventato pubblico, ha fatto esplodere un massiccio esodo nell’Italia meridionale, senza dubbio diffondendo il virus in regioni in cui non era presente.

Ciò dimostra ciò che è ormai chiaro a molti osservatori: una risposta efficace al virus deve essere orchestrata come un sistema coerente di azioni intraprese contemporaneamente. I risultati degli approcci adottati in Cina e Corea del Sudsottolinea questo punto. Mentre la discussione pubblica sulle politiche seguite in questi paesi spesso si concentra su singoli elementi dei loro modelli (come test approfonditi), ciò che caratterizza veramente le loro risposte efficaci è la moltitudine di azioni che sono state intraprese contemporaneamente. Il test è efficace quando è combinato con una traccia di contatto rigorosa e la traccia è efficace fintanto che è combinata con un sistema di comunicazione efficace che raccoglie e diffonde informazioni sui movimenti di persone potenzialmente infette e così via.

Queste regole si applicano anche all’organizzazione del sistema sanitario stesso. Sono necessarie riorganizzazioni all’ingrosso all’interno degli ospedali (ad esempio, la creazione di flussi di cure Covid-19 e non Covid-19). Inoltre, è urgentemente necessario un passaggio dai modelli di assistenza incentrati sul paziente a un approccio basato sul sistema comunitario che offre soluzioni pandemiche per l’intera popolazione (con un’enfasi specifica sull’assistenza domiciliare). La necessità di azioni coordinate è particolarmente acuta in questo momento negli Stati Uniti.

L’apprendimento è fondamentale. Trovare il giusto approccio di implementazione richiede la capacità di apprendere rapidamente sia dai successi che dai fallimenti e la volontà di cambiare le azioni di conseguenza. Certamente, ci sono preziose lezioni da trarre dagli approcci di Cina, Corea del Sud, Taiwan e Singapore, che sono stati in grado di contenere il contagio abbastanza presto. Ma a volte le migliori pratiche possono essere trovate proprio accanto. Poiché il sistema sanitario italiano è altamente decentralizzato, diverse regioni hanno provato diverse risposte politiche. L’esempio più evidente è il contrasto tra gli approcci adottati dalla Lombardia e dal Veneto, due regioni limitrofe con profili socioeconomici simili.

La Lombardia, una delle aree più ricche e produttive d’Europa, è stata colpita in modo sproporzionato da Covid-19. Al 26 marzo, detiene il triste record di quasi 35.000 nuovi casi di coronavirus e 5.000 morti in una popolazione di 10 milioni. Il Veneto, al contrario, è andato molto meglio, con 7000 casi e 287 decessi in una popolazione di 5 milioni, nonostante si sia assistito a una diffusione sostenuta della comunità all’inizio.

Le traiettorie di queste due regioni sono state modellate da una moltitudine di fattori al di fuori del controllo dei responsabili politici, tra cui la maggiore densità di popolazione della Lombardia e il maggior numero di casi quando è scoppiata la crisi. Ma sta diventando sempre più evidente che anche le diverse scelte di salute pubblica fatte all’inizio del ciclo della pandemia hanno avuto un impatto.

In particolare, mentre la Lombardia e il Veneto hanno applicato approcci simili al distanziamento sociale e alle chiusure al dettaglio, il Veneto ha adottato un approccio molto più proattivo al contenimento del virus. La strategia veneta era articolata su più fronti:

  • Test approfonditi su casi sintomatici e asintomatici precoci.
  • Tracciamento proattivo di potenziali positivi. Se qualcuno è risultato positivo, sono stati testati tutti nella casa di quel paziente e anche i suoi vicini. Se i kit di test non erano disponibili, erano auto-messi in quarantena.
  • Una forte enfasi sulla diagnosi e l’assistenza domiciliare. Ove possibile, i campioni sono stati raccolti direttamente dalla casa di un paziente e quindi elaborati nei laboratori universitari regionali e locali.
  • Sforzi specifici per monitorare e proteggere l’assistenza sanitaria e altri lavoratori essenziali. Includevano professionisti del settore medico, quelli in contatto con popolazioni a rischio (ad es. Operatori sanitari nelle case di cura) e lavoratori esposti al pubblico (ad es. Cassieri di supermercati, farmacisti e personale dei servizi di protezione).

Seguendo le indicazioni delle autorità sanitarie del governo centrale, la Lombardia ha optato invece per un approccio più conservativo ai test. Su base pro capite, finora ha condotto la metà dei test condotti in Veneto e si è concentrato molto più solo sui casi sintomatici – e finora ha fatto investimenti limitati in tracciabilità proattiva, assistenza domiciliare e monitoraggio e protezione dell’assistenza sanitaria lavoratori.

Si ritiene che l’insieme delle politiche attuate in Veneto abbia notevolmente ridotto l’onere per gli ospedali e ridotto al minimo il rischio di diffusione di Covid-19 nelle strutture mediche, un problema che ha avuto un forte impatto sugli ospedali lombardi Il fatto che politiche diverse abbiano prodotto risultati diversi in regioni altrimenti simili avrebbe dovuto essere riconosciuto fin dall’inizio come una potente opportunità di apprendimento. I risultati emersi dal Veneto avrebbero potuto essere utilizzati per rivedere presto le politiche regionali e centrali. Tuttavia, è solo negli ultimi giorni, un mese intero dopo lo scoppio in Italia, che la Lombardia e altre regioni stanno prendendo provvedimenti per emulare alcuni degli aspetti dell ‘”approccio veneto”, che includono la pressione del governo centrale per aiutarli a rafforzare il loro capacità diagnostica.

La difficoltà nel diffondere le nuove conoscenze acquisite è un fenomeno ben noto sia nelle organizzazioni del settore privato che in quelle del settore pubblico. Ma, a nostro avviso, l’accelerazione della diffusione della conoscenza che sta emergendo da diverse scelte politiche (in Italia e altrove) dovrebbe essere considerata una priorità assoluta in un momento in cui “ogni paese sta reinventando la ruota”, come ci hanno detto diversi scienziati. Perché ciò accada, specialmente in questo momento di maggiore incertezza, è essenziale considerare diverse politiche come se fossero “esperimenti”, piuttosto che battaglie personali o politiche, e adottare una mentalità (così come sistemi e processi) che faciliti imparare dalle esperienze passate e attuali nel trattare con Covid-19 nel modo più efficace e rapido possibile.

È particolarmente importante capire cosa non funziona. Mentre i successi emergono facilmente grazie ai leader desiderosi di pubblicizzare i progressi, spesso i problemi vengono nascosti a causa della paura della punizione o, quando emergono, vengono interpretati come fallimenti individuali – piuttosto che sistemici. Ad esempio, è emerso che all’inizio della pandemia in Italia (25 febbraio), il contagio in un’area specifica della Lombardia avrebbe potuto essere accelerato attraverso un ospedale locale, dove un paziente Covid-19 non era stato diagnosticato correttamente e isolato. Nel parlare ai media, il primo ministro italiano ha fatto riferimento a questo incidente come prova di inadeguatezza gestionale presso l’ospedale specifica. Tuttavia, un mese dopo è diventato più chiaro che l’episodio avrebbe potuto essere emblematico di un problema molto più profondo: che gli ospedali tradizionalmente organizzati per fornire cure incentrate sui pazienti sono mal equipaggiati per fornire il tipo di assistenza focalizzata sulla comunità necessaria durante una pandemia.

La raccolta e la diffusione di dati è importante. L’Italia sembra aver sofferto di due problemi relativi ai dati. All’inizio della pandemia, il problema era la scarsità di dati . Più specificamente, è stato suggerito che la diffusione diffusa e inosservata del virus nei primi mesi del 2020 potrebbe essere stata facilitata dalla mancanza di capacità epidemiologiche e dall’incapacità di registrare sistematicamente picchi di infezione anomala in alcuni ospedali.

Più recentemente, il problema sembra essere di precisione dei dati . In particolare, nonostante il notevole sforzo che il governo italiano ha dimostrato nell’aggiornamento periodico delle statistiche relative alla pandemia su un sito Web accessibile al pubblico, alcuni commentatori hanno avanzato l’ipotesi che la notevole discrepanza nei tassi di mortalità tra l’Italia e altri paesi e all’interno dell’italiano le regioni possono (almeno in parte) essere guidate da diversi approcci di prova. Queste discrepanze complicano la gestione della pandemia in modi significativi, perché in assenza di dati realmente comparabili (all’interno e tra i paesi) è più difficile allocare risorse e capire cosa sta funzionando dove (ad esempio, cosa inibisce la traccia efficace della popolazione).

In uno scenario ideale, i dati che documentano la diffusione e gli effetti del virus dovrebbero essere il più possibile standardizzati tra le regioni e i paesi e seguire la progressione del virus e il suo contenimento a livello sia macro (statale) che micro (ospedaliero). La necessità di dati a livello micro non può essere sottovalutata. Mentre la discussione sulla qualità dell’assistenza sanitaria viene spesso svolta in termini di macroentità (paesi o stati), è noto che le strutture sanitarie variano notevolmente in termini di qualità e quantità dei servizi offerti e delle loro capacità manageriali, anche all’interno degli stessi stati e regioni. Invece di nascondere queste differenze di fondo, dovremmo esserne pienamente consapevoli e pianificare di conseguenza l’allocazione delle nostre risorse limitate. Solo disponendo di buoni dati al giusto livello di analisi, i politici e gli operatori sanitari possono trarre le giuste conclusioni su quali approcci stanno funzionando e quali no.

Un approccio decisionale diverso

C’è ancora un’enorme incertezza su cosa debba essere fatto esattamente per fermare il virus. Diversi aspetti chiave del virus sono ancora sconosciuti e oggetto di accesi dibattiti e probabilmente rimarranno tali per un considerevole periodo di tempo. Inoltre, si verificano ritardi significativi tra il tempo di azione (o, in molti casi, l’inazione) e gli esiti (sia infezioni che mortalità). Dobbiamo accettare che una comprensione inequivocabile di quali soluzioni funzioneranno probabilmente richiederà diversi mesi, se non anni.

Tuttavia, due aspetti di questa crisi sembrano essere chiari dall’esperienza italiana. Innanzitutto, non c’è tempo da perdere, vista la progressione esponenziale del virus. Come capo della Protezione Civile italiana (l’equivalente italiano della FEMA) metterlo , “Il virus è più veloce la nostra burocrazia.” In secondo luogo, un approccio efficace nei confronti di Covid-19 richiederà una mobilitazione simile alla guerra – sia in termini di entità delle risorse umane che economiche che dovranno essere impiegate, nonché l’estremo coordinamento che sarà richiesto in diverse parti della salute sistema di assistenza (strutture di prova, ospedali, medici di base, ecc.), tra entità diverse sia nel settore pubblico che privato, e la società in generale.

Insieme, la necessità di un’azione immediata e di una massiccia mobilitazione implicano che una risposta efficace a questa crisi richiederà un approccio decisionale che è tutt’altro che normale. Se i politici vogliono vincere la guerra contro Covid-19, è essenziale adottarne uno che sia sistemico, dia la priorità all’apprendimento ed è in grado di ridimensionare rapidamente gli esperimenti di successo e identificare e chiudere quelli inefficaci. Sì, questo è un ordine elevato, soprattutto nel mezzo di una crisi così enorme. Ma data la posta in gioco, deve essere fatto.

https://hbr.org/2020/03/lessons-from-italys-response-to-coronavirus

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