Via Fani: la soluzione del delitto è ancora lì ma non la cerca nessuno, di Piero Laporta
Il testo è tratto dal sito OltreLaNotizia http://www.pierolaporta.it/via-fani-la-soluzione-del-delitto-ancora-li-non-la-cerca-nessuno/ . E’ importante non solo per l’accuratezza dell’analisi e per l’evidente competenza dell’autore; soprattutto perché lascia intuire gli intrecci e il conflitto di interessi e strategie che ne hanno determinato l’epilogo. La vicenda si inquadra, come più volte sottolineato in passato sul sito conflittiestrategie, comunque all’interno del processo di avvicinamento e di inclusione del PCI nella sfera atlantista. Occorre sottolineare, non ostante la vulgata contraria, che Aldo Moro era contrario al “compromesso storico”, così come teorizzato dall’allora Segretario del PCI Enrico Berlinguer. La sua azione politica, evidentemente, suscitò le attenzioni di quella parte dell’establishment americano e occidentale contrari a quell’avvicinamento e contribuì a creare le condizioni di un momentaneo sodalizio di questi con le componenti dell’allora blocco sovietico interessate a scoraggiare il progetto politico berlingueriano.
Strage di via Fani: ogni anno, il 16 marzo, l’inutile commemorazione del rapimento di Aldo Moro e della strage dei cinque uomini della sua scorta.
E’ un evento di cui oramai non importa a nessuno. Chiedete nelle scuole chi fosse Aldo Moro e avrete risposte fra le più bizzarre dagli alunni e pure dagli insegnanti più giovani.
Quest’anno s’aggiunge il lavoro della commissione parlamentare di inchiesta, presieduta da Giuseppe Fioroni, persona degna del massimo rispetto. Non di meno, la tracotanza con la quale il pregiudicato Valerio Morucci ha trattato la commissione nel corso della propria udienza, fa dubitare della competenza dei commissari a interrogare testi e vagliarne le dichiarazioni.
I lavori cominciarono tre anni fa con l’audizione di Ferdinando Imposimato, il quale dichiarò d’aver precipitosamente lasciato l’incarico requirente, dopo aver sentito Morucci e Faranda per mesi, per aver «ricevuto minacce gravissime… che hanno riguardato non solo me, ma anche altri miei familiari. Io ho dovuto interrompere le indagini, che sono state proseguite da altri.»
Ah, sì? Vieni minacciato e scappi? Dice, hanno minacciato anche i miei familiari! E quindi? Li fai scortare, mandi via loro e tu rimani, oppure rimangono con te, come accade ogni giorno a qualunque investigatore impegnato seriamente contro la criminalità. Oppure, chissà, forse è un bene che tu sia andato via.
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Poi seguì la deposizione di monsignor Antonio Mennini, un prelato, annunciata come novità dai tromboni d’una stampa smemorata, ignorante che il prelato fu ascoltato dagli investigatori a giugno 1978, a gennaio 1979, a febbraio ’79 e a settembre 1986. Anche le commissioni parlamentari non erano una novità per costui: comparve davanti alla Commissione Moro il 22 ottobre 1980, fu trattato coi guanti, gli riconobbero volentieri di non essere stato per nulla “reticente”. Subito dopo la Segreteria di Stato lo collocò nel servizio diplomatico della Santa Sede, mandandolo in Uganda. Come mai così lontano? Mennini ha sempre negato d’aver incontrato Moro nel covo di via Montalcini, dove i criminali rinchiusero lo statista prima di ucciderlo. Il diavolo fa le pentole, non i coperchi. A ottobre 1990, le lettere di Moro ritrovate nel covo brigatista di via Monte Nevoso, dietro una parete di cartongesso, testimoniarono che Mennini aveva avuto con Moro qualche contatto ulteriore oltre a quelli da lui ammessi in precedenza. La Corte d’Assise lo ascoltò nel 1993 e s’accontentò della sua assicurazione di non aver ricevuto altre lettere rispetto a quelle da lui dichiarate in precedenza. Nessuno ha pensato di chiedere al Vaticano le relazioni che Mennini scrisse per la Segreteria di Stato; sono almeno quattro, custodite come il segreto di Fatima.
Imposimato se ne andò a Londra, Mennini in Uganda e la verità al diavolo.
Oggi si cerca la verità nell’autopsia o nella ricostruzione di quanto avvenne in via Montalcini.
Suggeriamo invece di ripartire da via Fani; ecco alcune delle ragioni.
Primo. La perizia balistica certifica che gli uomini sull’auto di Aldo Moro furono freddati da un solo tiratore abilissimo. Si lascia intendere che costui fosse Antonio Nirta, killer calabrese, perché fotografato fra la folla affluita in via Fani dopo l’eccidio e perché è di Nirta la mano che ha sparato per freddare Aldo Moro, secondo il giornalista investigativo Paolo Cucchiarelli.
Un conto è macellare una persona inerme, com’era nelle capacità di Nirta, altro è freddare tre agenti in auto con Moro senza fare neppure un graffio al presidente della DC. Costui era un professionista militare di altissima scuola. Chi era? A quale servizio segreto apparteneva? Come arrivò in via Fani? Come andò via?
Secondo. Perché l’’agguato si fa a un quadrivio, come accadde a via Fani? La risposta è univoca: per avere almeno tre vie di fuga nel caso giunga una minaccia inaspettata. Tale eventualità – si badi – non deve comunque pregiudicare l’operazione.
Per prevenire una tale evenienza, chi diresse l’operazione di via Fani (chi la diresse davvero?) dispose certamente dei nuclei armati a un centinaio di metri su ciascuna delle strade confluenti sul quadrivio. Tali nuclei erano pronti a sparare su chiunque potesse compromettere l’agguato. Per esempio, se una gazzella di carabinieri o un’auto di vigili urbani quel mattino si fosse casualmente diretta verso l’incrocio, gli agenti sarebbero stati neutralizzati, vivi o morti, più probabilmente morti stecchiti, visto il trattamento usato ai cinque della scorta. Questo è un dato di fatto operativo che non ammette discussioni ed eleva il numero di partecipanti all’agguato di almeno otto-dodici unità. Questi nuclei dovevano necessariamente avere capacità operativa analoga a quella del superkiller che freddò i tre uomini in auto con Moro.
E’ pure rimasta nella nebbia la modalità con la quale arrivarono e poi andarono via i brigatisti di cui è nota la partecipazione all’agguato.
Valerio Morucci ha quindi dimenticato qualche dettaglio nel suo memoriale. Non è il caso di torchiare costui e i suoi compari, visto che hanno mentito?
Terzo. E’ quanto meno da sciocchi se non da complici, accreditare Steve Piekzenic, il “consigliere” statunitense, come una monade, inviata in Italia dal Dipartimento di Stato USA a dare una mano a Francesco Cossiga. Per di più si è preso per oro colato quanto disse in varie occasioni. Anche costui meriterebbe di essere torchiato a dovere, da un maresciallo alla maniera antica. Perché? Un personaggio del genere si muove solo se accompagnato passo dopo passo da una costellazione invisibile di agenti clandestini, in grado di mutare i rapporti di forza nel teatro operativo intorno allo stesso Piekzenic. Come si mutano i rapporti di forza? Con la forza, appunto. In altre parole col ricatto, la corruzione, la violenza. Che cosa ha davvero fatto costui e che cosa hanno davvero fatto i sui complici?
Piekzenic e il suo compare Cossiga affermano di aver costretto i brigatisti a uccidere Aldo Moro. Bene. Con quali modalità operative? Rispondere, prego.
Quarto. Un’operazione di tale portata non si realizza senza complicità di pezzi importanti di tutti i servizi segreti incidenti sul teatro operativo; ovvero il SISMI e il SISDE, ma anche la CIA e, il servizio segreto militare sovietico, il GRU, ben più competente del KGB sulla vicenda Moro.
Quinto. Un agente del GRU, Sergey Sokolov sorvegliava Aldo Moro – lo riferì egli stesso – e alloggiava a Roma in via degli Orti di Alibert, in una casa di proprietà del Vaticano. Perché nessuno ha indagato su questo? Si direbbe che gli agenti sovietici stessero a Roma solo per gustare pizza e vino.
Sesto. Il piano per isolare e poi uccidere Aldo Moro fu avviato almeno un anno prima, nel 1977, guarda caso in coincidenza con la decisione politica di schierare gli Euromissili. Aldo Moro non avrebbe mai consentito di schierare gli Euromissili in Sicilia, nel feudo elettorale di Giulio Andreotti, sotto il controllo della mafia, con la quale Francesco Cossiga scese a patti.
Morto Aldo Moro, i missili furono dislocati a Comiso. La base di Comiso fu un enorme affare in forniture militari ma anche una cuccagna di appalti per le cooperative emiliane e di traffici d’ogni genere. Claudio Fava scrisse anni dopo: “Tutto questo, naturalmente, non è passato su Comiso e dintorni senza lasciare traccia: anzi; si è probabilmente avverata nel corso degli ultimi tre anni la “profezia” di Pio La Torre, il deputato comunista ucciso dalla mafia: «…Si vedrà presto a Comiso lo scatenarsi della più selvaggia speculazione, dal traffico di droga al mercato nero, alla prostituzione, con il degrado più triste della nostra cultura e della nostra tradizione»”.
Non bastasse, lo schieramento a Comiso fu sì un enorme affare ma fu anche alquanto discutibile proprio dal punto di vista militare.
Nel 1962, durante la crisi di Cuba, i missili furono schierati a Gioia del Colle, 40 chilometri a Sud di Bari. Comiso era 500 chilometri indietro di quanto fosse Gioia del Colle rispetto all’Unione Sovietica. Era dunque una scelta militarmente senza senso: un’arma strategica non rinuncia a una fascia di 500 chilometri, dov’è accertata la presenza di centinaia d’obiettivi remunerativi, compresa Mosca, la capitale. Gioia del Colle era una base attrezzata; Comiso invece dovettero costruirla da zero: piste, strade, case, hangar, magazzini, impianti… un fiume di miliardi, un fiume di droga, un fiume di potere per i Corleonesi, amici di Salvo Lima, a partire da quando? Quando si dice la coincidenza, dal 1977-1978…
Se Donald Trump e Vladimir Putin – troppo giovani per avere qualunque responsabilità – aprissero gli archivi sulla vicenda di Aldo Moro, scopriremmo come mai oggi certi “ex” del Partito Comunista Italiano e della Democrazia Cristiana – guarda caso quelli allora più intransigenti contro Moro – oggi si svelano genuflessi alla corte clintoniana. E, visto che ci siamo, scopriremmo pure come sono diventati straricchi.
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