L’IMPORTANZA DI DIFENDERE LA NAZIONE, (a cura di) Luigi Longo

 

Propongo due letture: una di Manlio Dinucci (Bipartisan il riarmo USA anti Russia) apparsa sul il Manifesto il 18/10/17, l’altra una dichiarazione di diversi studiosi (Una Europa in cui possiamo credere) pubblicata sul sito https://thetrueeurope.eu/uneuropa-in-cui-possiamo-credere/, ottobre 2017.

Le due letture apparentemente non sono connesse, ma riflettendo più a fondo ci si accorge che sono innervate su due questioni fondamentali che interessano la fase attuale del multicentrismo: la prima riguarda la sfera militare per l’aumento sempre più vistoso della spesa per gli armamenti e per l’importanza dello spazio italiano per le strategie statunitensi in funzione anti Russia (lo spettro dei decisori USA);

la seconda concerne il recupero di una Europa delle nazioni e l’importanza che assume in questa fase la sovranità nazionale, sia per contrastare l’Europa delle regioni sia per un’Europa protagonista tra Occidente e Oriente, per costruire una relazione tra i popoli rispettosa delle differenze.

 

BIPARTISAN IL RIARMO USA ANTI-RUSSIA

di Manlio Dinucci

I Democratici, che ogni giorno attaccano il repubblicano Trump per le sue dichiarazioni bellicose, hanno votato al Senato insieme ai Repubblicani per aumentare nel 2018 il budget del Pentagono a 700 miliardi di dollari, 60 miliardi in più di quanto richiesto dallo stesso Trump. Aggiungendo i 186 miliardi annui per i militari a riposo e altre voci, la spesa militare complessiva degli Stati uniti sale a circa 1000 miliardi, ossia a un quarto del bilancio federale. Decisivo il voto all’unanimità del Comitato sui servizi armati, formato da 14 senatori repubblicani e 13 democratici.

Il Comitato sottolinea che «gli Stati uniti devono rafforzare la deterrenza all’aggressione russa: la Russia continua ad occupare la Crimea, a destabilizzare l’Ucraina, a minacciare i nostri alleati Nato, a violare il Trattato Inf del 1987 sulle forze nucleari a raggio intermedio, e a sostenere il regime di Assad in Siria». Accusa inoltre la Russia di condurre «un attacco senza precedenti ai nostri interessi e valori fondamentali», in particolare attraverso «una campagna diretta a minare la democrazia americana». Una vera e propria dichiarazione di guerra, con cui lo schieramento bipartisan motiva il potenziamento dell’intera macchina bellica statunitense.

Queste alcune delle voci di spesa nell’anno fiscale 2018 (iniziato il 1° ottobre 2017):
10,6 miliardi di dollari per acquistare 94 caccia F-35, 24 in più di quanti richiesti dall’amministrazione Trump;
17 miliardi per lo «scudo anti-missili» e le attività militari spaziali, 1,5 in più della cifra richiesta dall’amministrazione;
25 miliardi per costruire altre 13 navi da guerra, 5 in più di quante richieste dall’amministrazione.

Dei 700 miliardi del budget 2018, 640 servono principalmente all’acquisto di nuovi armamenti e al mantenimento del personale militare, le cui paghe vengono aumentate portando il costo annuo a 141 miliardi; 60 miliardi servono alle operazioni belliche in Siria, Iraq, Afghanistan e altrove. Vengono inoltre destinati 1,8 miliardi all’addestramento e l’equipaggiamento di formazioni armate sotto comando Usa in Siria e Iraq, e 4,9 miliardi al «Fondo per le forze di sicurezza afghane».

Alla «Iniziativa di rassicurazione dell’Europa», lanciata nel 2014 dall’amministrazione Obama dopo «l’aggressione revanscista russa all’Ucraina», vengono destinati nel 2018 4,6 miliardi: essi servono ad accrescere la presenza di forze corazzate statunitensi e il «preposizionamento strategico» di armamenti Usa in Europa. Vengono inoltre stanziati 500 milioni di dollari per fornire «assistenza letale» (ossia armamenti) all’Ucraina.

L’aumento del budget del Pentagono traina quelli degli altri membri della Nato sotto comando Usa, compresa l’Italia la cui spesa militare, dagli attuali 70 milioni di euro al giorno, dovrà salire verso i 100.

Allo stesso tempo il budget del Pentagono prospetta che cosa si prepara per l’Italia.

Tra le voci di spesa minori, ma non per questo meno importanti, vi sono 27 milioni di dollari per la base di Aviano, a riprova che continua il suo potenziamento in vista dell’installazione delle nuove bombe nucleari B61-12, e 65 milioni per il programma di ricerca e sviluppo di «un nuovo missile con base a terra a raggio intermedio per cominciare a ridurre il divario di capacità provocato dalla violazione russa del Trattato Inf».

In altre parole, gli Stati uniti hanno in programma di schierare in Europa missili nucleari analoghi ai Pershing 2 e ai Cruise degli anni Ottanta, questi ultimi installati allora anche in Italia a Comiso. Ce lo annuncia dal Senato degli Stati uniti, con il suo unanime voto bipartisan, il Comitato sui servizi armati.

LA DICHIARAZIONE DI PARIGI

UN’EUROPA IN CUI POSSIAMO CREDERE

1. L’Europa ci appartiene e noi apparteniamo all’Europa. Queste terre sono la nostra casa; non ne abbiamo altra. Le ragioni per cui l’Europa ci è cara superano la nostra capacità di spiegare o di giustificare la nostra lealtà verso di essa. Sono storie, speranze e affetti condivisi. Usanze consolidate, e momenti di pathos e di dolore. Esperienze entusiasmanti di riconciliazione e la promessa di un futuro condiviso. Scenari ed eventi comuni si caricano di significato speciale: per noi, ma non per altri. La casa è un luogo dove le cose sono familiari e dove veniamo riconosciuti per quanto lontano abbiamo vagato. Questa è l’Europa vera, la nostra civiltà preziosa e insostituibile.

L’Europa è nostra casa.

2. L’Europa, in tutta la sua ricchezza e la sua grandezza, è minacciata da un falsa concezione di se stessa. Questa Europa falsa immagina di essere la realizzazione della nostra civiltà, ma in verità sta requisendo la nostra casa. Si appella alle esagerazioni e alle distorsioni delle autentiche virtù dell’Europa, e resta cieca di fronte ai propri vizi. Smerciando con condiscendenza caricature a senso unico della nostra storia, questa Europa falsa nutre un pregiudizio invincibile contro il passato. I suoi fautori sono orfani per scelta e danno per scontato che essere orfani ‒ senza casa ‒ sia una conquista nobile. In questo modo, l’Europa falsa incensa se stessa descrivendosi come l’anticipatrice di una comunità universale che però non è né universale né una comunità.

Una falsa Europa ci minaccia.

3. I padrini dell’Europa falsa sono stregati dalle superstizioni del progresso inevitabile. Credono che la Storia stia dalla loro parte, e questa fede li rende altezzosi e sprezzanti, incapaci di riconoscere i difetti del mondo post-nazionale e post-culturale che stanno costruendo. Per di più, ignorano quali siano le fonti vere del decoro autenticamente umano cui peraltro tengono caramente essi stessi, proprio come vi teniamo noi. Ignorano, anzi ripudiano le radici cristiane dell’Europa. Allo stesso tempo, fanno molta attenzione a non offendere i musulmani, immaginando che questi ne abbracceranno con gioia la mentalità laicista e multiculturalista. Affogata nel pregiudizio, nella superstizione e nell’ignoranza, oltre che accecata dalle prospettive vane e autogratulatorie di un futuro utopistico, per riflesso condizionato l’Europa falsa soffoca il dissenso. Tutto ovviamente in nome della libertà e della tolleranza.

La falsa Europa è utopica e tirannica.

4. Siamo in un vicolo cieco. La minaccia maggiore per il futuro dell’Europa non sono né l’avventurismo russo né l’immigrazione musulmana. L’Europa vera è a rischio a causa della stretta asfissiante che l’Europa falsa esercita sulla nostra capacità d’immaginare prospettive. I nostri Paesi e la cultura che condividiamo vengono svuotati da illusioni e autoinganni su ciò che l’Europa è e deve essere. Noi c’impegniamo dunque a resistere a questa minaccia diretta contro il nostro futuro. Noi difenderemo, sosterremmo e promuoveremo l’Europa vera, l’Europa a cui in verità noi tutti apparteniamo.

Dobbiamo difendere la Europa vera.

5. L’Europa vera si aspetta e incoraggia la partecipazione attiva al progetto di una vita politica e culturale comuni. Quello europeo è un ideale di solidarietà basato sull’assenso a un corpo di leggi che si applica a tutti, ma che è limitato nelle pretese. Questo assenso non ha sempre assunto la forma della democrazia rappresentativa. Ma le nostre tradizioni di lealtà civica riflettono un assenso fondamentale alle nostre tradizioni politiche e culturali, quali che ne siano le forme. Nel passato, gli europei hanno combattuto per rendere i propri sistemi politici più aperti alla partecipazione popolare e di questa storia andiamo giustamente orgogliosi. Pur facendolo, talora con modi apertamente ribelli, hanno vigorosamente affermato che, malgrado le ingiustizie e le mancanze, le tradizioni dei popoli di questo continente sono le nostre. Questo zelo riformatore rende l’Europa un luogo alla costante ricerca di una giustizia sempre maggiore. Questo spirito di progresso è nato dall’amore e dalla lealtà verso le nostre patrie.

La solidarietà e la lealtà civica incoraggiano la partecipazione attiva.

6. È uno spirito europeo di unità che ci permette di fidarci pubblicamente gli uni degli altri, anche tra stranieri. Sono i parchi pubblici, le piazze centrali e i grandi viali delle città e dei borghi europei a esprimere lo spirito politico europeo: noi condividiamo una vita e una res publica comuni. Riteniamo nostro dovere assumerci la responsabilità del futuro delle nostre società. Non siamo soggetti passivi sottoposto al dominio di poteri dispotici, sacrali o laici. E non ci prostriamo davanti all’implacabilità di forze storiche. Essere europei significa possedere la facoltà di agire nella politica e nella storia. Siamo noi gli autori del destino che ci accomuna.

Non siamo soggetti passivi.

7. L’Europa vera è una comunità di nazioni. Abbiamo lingue, tradizioni e confini propri. Eppure ci siamo sempre riconosciuti affini, anche quando siamo arrivati al contrasto, o persino alla guerra. A noi questa unità nella diversità sembra naturale. Tuttavia è una realtà notevole e preziosa poiché non è né naturale né inevitabile. La forma politica più comune di questa unità nella diversità è l’impero, che i re guerrieri europei hanno cercato di ricreare per secoli dopo la caduta dell’impero romano. L’attrattiva esercitata dal modello imperiale è perdurata, ma ha prevalso lo Stato-nazione, la forma politica che unisce l’essere popolo alla sovranità. Lo Stato-nazione è quindi diventato il tratto caratteristico della civiltà europea.

Lo Stato-nazione è un segno distintivo dell’Europa.

8. Una comunità nazionale è fiera di governarsi a modo proprio, spesso si vanta dei grandi traguardi raggiunti nelle arti e nelle scienze, e compete con gli altri Paesi, a volte anche sul campo di battaglia. Tutto ciò ha ferito l’Europa, talvolta gravemente, ma non ne ha mai compromesso l’unità culturale. Di fatto è accaduto semmai il contrario. Man mano che gli Stati-nazione dell’Europa sono venuti radicandosi e precisandosi, si è rafforzata una identità europea comune. A seguito del terribile bagno di sangue causato dalle guerre mondiali nella prima metà del secolo XX, ci siamo rialzati ancora più risoluti a onorare quell’eredità comune. Ciò testimonia quale profondità e quale potenza abbia l’Europa come civiltà cosmopolita nel senso più appropriato. Noi non cerchiamo l’unità imposta e forzata di un impero. Piuttosto, il cosmopolitismo europeo riconosce che l’amore patriottico e la lealtà civica aprono a un mondo più vasto.

Noi non sosteniamo un’unione imposta o forzata.

9. L’Europa vera è stata segnata dal cristianesimo. L’impero spirituale universale della Chiesa ha portato l’unità culturale all’Europa, ma lo ha fatto senza un impero politico. Questo ha permesso che entro una cultura europea condivisa fiorissero lealtà civiche particolari. L’autonomia di ciò che chiamiamo società civile è dunque diventata una peculiarità della vita europea. Inoltre, il Vangelo cristiano non consegna all’uomo una legge divina esaustiva da applicare alla società, e questo rende possibile affermare e onorare la varietà delle legislazioni positive delle diverse nazioni senza recare minaccia alla nostra unità europea. Non è un caso che il declino della fede cristiana in Europa sia stato accompagnato da sforzi sempre maggiori per raggiugerne l’unità politica: ovvero l’impero monetario e regolatorio, ammantato dai sentimenti di universalismo pseudoreligioso, che l’Unione Europea sta costruendo.

Il cristianesimo incoraggiava l’unità culturale.

10. L’Europa vera afferma la pari dignità di qualsiasi persona, senza fare differenze di sesso, di rango o di razza. Anche questo proviene dalle nostre radici cristiane. Le nostre virtù nobili hanno un’ascendenza inequivocabilmente cristiana: l’equità, la compassione, la misericordia, il perdono, l’operare per la pace, la carità. Il cristianesimo ha rivoluzionato le relazioni tra gli uomini e le donne, dando valore all’amore e alla fedeltà reciproca come mai era stato fatto prima. Il legame del matrimonio consente sia agli uomini sia alle donne di prosperare in comunione. La maggior parte dei sacrifici che compiamo sono a vantaggio dei nostri coniugi e dei nostri figli. Anche questo spirito di donazione di sé è un altro contributo cristiano all’Europa che amiamo.

Le radici cristiane nutrono l’Europa.

11. L’Europa vera trae ispirazione altresì dalla tradizione classica. Noi ci riconosciamo nella letteratura della Grecia e di Roma antiche. Da europei, ci sforziamo per raggiungere la magnificenza, gemma sulla corona delle virtù classiche. A volte questo ha condotto alla competizione violenta per la supremazia. Ma al suo meglio è l’aspirazione all’eccellenza che ispira gli uomini e le donne dell’Europa a creare opere musicali e artistiche d’ineguagliata bellezza o a compiere svolte straordinarie nella scienza e nella tecnologia. Le virtù profonde dei Romani che sapevano come dominare se stessi, nonché l’orgoglio nel partecipare alla vita civica e lo spirito dell’indagine filosofica dei Greci non sono mai stati dimenticati nell’Europa vera. Anche queste eredità sono nostre.

Le radici classiche incoraggiano l’eccellenza.

12. L’Europa vera non è mai stata perfetta. I fautori dell’Europa falsa non sbagliano nel proporre sviluppi e riforme, e tra il 1945 e il 1989 molte di apprezzabile e di onorevole è stato fatto. La nostra vita condivisa è un progetto che continua, non un’eredità sclerotizzata. Ma il futuro dell’Europa riposa in una lealtà rinnovata verso le nostre tradizioni migliori, non un universalismo spurio che impone la perdita della memoria e il ripudio di sé. L’Europa non è iniziata con l’Illuminismo. La nostra amata casa non troverà realizzazione di sé nell’Unione Europea. L’Europa vera è, e sempre sarà, una comunità di nazioni a volte chiuse, e talvolta ostinatamente tali, eppure unite da un’eredità spirituale che, assieme, discutiamo, sviluppiamo, condividiamo e sì, amiamo.

L’Europa è un progetto condiviso.

13. L’Europa vera è a rischio. I risultati ottenuti dalla sovranità popolare, dalla resistenza all’impero, dal cosmopolitismo capace di amore civico, il retaggio cristiano di una vita autenticamente umana e dignitosa, l’impegno vivo nei confronti della nostra eredità classica stanno tutti scemando. I padrini dell’Europa falsa costruiscono la loro fasulla Cristianità di diritti umani universali e noi perdiamo la nostra casa.

Stiamo perdendo la nostra casa.

14. L’Europa falsa si gloria di un impegno senza precedenti a favore della libertà umana. Questa libertà, però, è assolutamente a senso unico. Viene veduta come la liberazione da ogni freno: libertà sessuale, libertà di espressione di sé, libertà di “essere se stessi”. La generazione del 1968 considera queste libertà come vittorie preziose su quello che un tempo era un regime culturale onnipotente e oppressivo. I sessantottini si considerano grandi liberatori, e le loro trasgressioni vengono acclamate come nobili conquiste morali per le quali il mondo intero dovrebbe essere loro grato.

Sta prevalendo una libertà falsa.

15. Per le generazioni europee più giovani, invece, la realtà è molto meno dorata. L’edonismo libertino conduce spesso alla noia e a un profondo senso d’inutilità. Il vincolo matrimoniale si è indebolito. Nel mare torbido della libertà sessuale, il desiderio profondo dei giovani di sposarsi e di formare famiglie viene spesso frustrato. Una libertà che frustra le ambizioni più profonde del nostro cuore diventa una maledizione. Sembra che le nostre società stiano cadendo nell’individualismo, nell’isolamento e nell’inanità. Al posto della libertà, siamo condannati al vuoto conformismo di una cultura guidata dai consumi e dai media. È quindi nostro dovere dire la verità: la generazione del 1968 ha distrutto, ma non ha costruito. Ha creato un vuoto ora riempito dai social media, dal turismo di massa e dalla pornografia.

L’individualismo, l’isolamento e l’astuzia sono diffusi.

16. E mentre ascoltiamo i vanti di questa libertà senza precedenti, la vita dell’Europa si fa sempre più globalmente regolamentata. Ci sono regole ‒ spesso predisposte da tecnocrati senza volto legati a interessi forti ‒ che governano le nostre relazioni professionali, le nostre decisioni nel campo degli affari, i nostri titoli di studio, i nostri mezzi d’informazione e d’intrattenimento, la nostra stampa. E ora l’Europa cerca di restringere ancora di più la libertà di parola, una libertà che è stata europea sin dal principio e che equivale alla manifestazione della libertà di coscienza. Ma gli obiettivi di queste restrizioni non sono l’oscenità e le altre aggressioni alla decenza nella vita pubblica. Al contrario, la classe dirigente europea vuole manifestamente restringere la libertà di parola. Gli esponenti politici che danno voce a certe verità sconvenienti sull’islam e sull’immigrazione vengono trascinati in tribunale. La correttezza politica impone tabù così forti da squalificare in partenza qualsiasi tentativo di sfidare lo status quo. In realtà, l’Europa falsa non incoraggia la cultura della libertà. Promuove una cultura dell’omogeneità guidata da criteri mercantili e della conformità imposta da logiche politiche.

Siamo regolati e gestiti.

17. L’Europa falsa si vanta pure di un impegno senza precedenti a favore dell’eguaglianza. Pretende di promuovere la non-discriminazione e l’inclusione di tutte le razze, di tutte le religioni e di tutte le identità. In questo campo sono stati effettivamente compiuti progressi veri, ma il distacco utopistico dalla realtà ha preso il sopravvento. Negli ultimi decenni, l’Europa ha perseguito un grandioso progetto multiculturalista. Chiedere o figuriamoci promuovere l’assimilazione dei nuovi arrivati musulmani alle nostre usanze e ai nostri costumi, peggio ancora alla nostra religione, è stata giudicata un’ingiustizia triviale. L’impegno egualitario, ci è stato detto, impone che noi abiuriamo anche la più piccola pretesa di ritenere superiore la nostra cultura. Paradossalmente, l’impresa multiculturale europea, che nega le radici cristiane dell’Europa, vive in modo esagerato e insopportabile alle spalle dell’ideale cristiano di carità universale. Dai popoli europei pretende un grado di abnegazione da santi. Denunciamo quindi il tentativo di fare della completa colonizzazione delle nostre patrie e della rovina della nostra cultura il traguardo glorioso dell’Europa nel secolo XXI, da raggiungere attraverso il sacrificio collettivo di sé in nome di una nuova comunità globale di pace e di prosperità che sta per nascere.

Il multiculturalismo è impraticabile.

18. In quest’idea c’è una grande misura di malafede. La maggior parte degli esponenti dei nostri mondi politici è senza dubbio convinta che la cultura europea sia superiore, ma non lo può dire in pubblico perché offenderebbe gl’immigrati. Stante questa superiorità, pensano che l’assimilazione avverrà in modo naturale e rapido. Riecheggiando ironicamente l’antica idea imperialista, le classi dirigenti europee presumono infatti che, in qualche modo, in obbedienza alle leggi della natura o della storia, “loro” diventeranno necessariamente come “noi”; e non concepiscono che possa accadere invece l’inverso. Nel frattempo, s’impiega la dottrina multiculturalista ufficiale come strumento terapeutico per gestire le incresciose ma “temporanee” tensioni culturali.

Cresce la fede falsa.

19. Ma vi è una malafede ancora maggiore, di un genere più oscuro. Negli ultimi decenni, una parte sempre più ampia della nostra classe dirigente ha riposto i propri interessi nell’accelerazione della globalizzazione. I suoi esponenti mirano a dar vita a istituzioni sovranazionali che possano controllare senza l’inconveniente della sovranità popolare. È sempre più chiaro che il “deficit di democrazia” di cui soffre l’Unione Europea non è solo un problema tecnico che si può risolvere con mezzi tecnici, ma un impegno basilare difeso con zelo. Legittimati da presunte necessità economiche o attraverso l’elaborazione autonoma di una nuova legislazione internazionale dei diritti umani, i mandarini sovranazionali delle istituzioni comunitarie europee confiscano la vita politica dell’Europa, rispondendo alle sfide in modo tecnocratico: non esiste alternativa. È questa la tirannia morbida ma concreta che abbiamo oggi di fronte.

Aumenta la tirannia tecnologica.

20. Nonostante i migliori sforzi profusi dai suoi partigiani per cercare di tenere in piedi un castello d’illusioni confortanti, l’arroganza dell’Europa falsa sta però ora diventando del tutto evidente. Soprattutto, l’Europa falsa si sta rivelando più debole di quanto chiunque avrebbe mai immaginato. L’intrattenimento popolare e il consumo materiale non alimentano la vita civica. Depauperate d’ideali nobili e inibite dall’ideologia multiculturalista a esprimere orgoglio patriottico, le nostre società hanno difficoltà a trovare la volontà di difendersi. In più, non sono certo la retorica dell’inclusione o l’impersonalità di un sistema economico dominato da gigantesche società internazionali per azioni a poter ridare vigore al senso civico e alla coesione sociale. Dobbiamo essere franchi ancora una volta: le società europee si stanno sfilacciando malamente. Se non apriremo gli occhi, assisteremo a un uso sempre maggiore del potere statalista, dell’ingegneria sociale e dell’indottrinamento culturale. Non è solo il terrorismo islamico a portare soldati pesantemente armati nelle nostre strade. Per domare le contestazioni antisistema e persino le folle ubriache dei tifosi di calcio oggi sono necessari poliziotti in tenuta antisommossa. Il fanatismo delle tifoserie sportive è un segno disperato nel bisogno profondamente umano di solidarietà, un bisogno che d’altra parte l’Europa falsa disattende.

La Europa falsa è fragile e impotente.

21. In Europa, i ceti intellettuali sono, purtroppo, fra i principali partigiani ideologici della boria dell’Europa falsa. Senza dubbio, le nostre università sono una delle glorie della civiltà europea. Ma laddove un tempo esse cercavano di trasmettere a ogni nuova generazione la sapienza delle epoche passate, oggi per i più il pensiero critico equivale alla semplicistica ricusazione del passato. La stella polare dello spirito europeo è stata la rigorosa disciplina dell’onestà e dell’obiettività intellettuali. Ma da due generazioni questo nobile ideale è stato trasformato. L’ascetismo che un tempo cercava di liberare la mente dalla tirannia dell’opinione dominante si è mutata in un’animosità spesso compiaciuta e irriflessiva contro tutto ciò che ci appartiene. Questo atteggiamento di ripudio culturale è un modo semplice e a buon mercato per atteggiarsi a “critici”. Negli ultimi decenni, è stato sperimentato nelle sale da convegno, diventando una dottrina, un dogma. E l’unirsi a questo credo viene preso come segno di elezione spirituale da “illuminati”. Di conseguenza, le nostre università sono diventate agenti attivi della distruzione culturale.

Si è sviluppata una cultura del ripudio.

22. Le nostri classi dirigenti promuovono i diritti umani. Combattono i cambiamenti climatici. Progettano una economia di mercato più globalmente integrata e l’armonizzazione delle politiche fiscali. Supervisionano i passi compiuti verso l’eguaglianza di genere. Fanno così tanto per noi! Che importa dunque dei meccanismi con cui sono arrivati ai loro posti? Che importa se i popoli europei sono sempre più scettici delle loro gestioni?

Le èlite esibiscono in modo arrogante le loro virtù.

23. Lo scetticismo crescente è pienamente giustificato. Oggi l’Europa è dominata da un materialismo privo di obiettivi incapace di motivare gli uomini e le donne a generare figli e a formare famiglie. La cultura del ripudio defrauda le generazioni future del senso d’identità. In alcuni dei nostri Paesi vi sono zone intere in cui i musulmani vivono informalmente autonomi rispetto alle leggi vigenti, quasi fossero dei coloni invece che dei nostri connazionali. L’individualismo ci isola gli uni dagli altri. La globalizzazione trasforma le prospettive di vita di milioni di persone. Quando le si sfida, le nostre classi dirigenti dicono che la loro è semplicemente la gestione dell’inevitabile e la sistemazione delle necessità più impellenti. Nessun’altra strada è possibile, e resistere è irrazionale. Le cose non possono andare altrimenti. Chi si oppone, soffre di nostalgia, e per questo merita di essere moralmente condannato come razzista e fascista. Man mano che le divisioni sociali e la sfiducia civica si fanno evidenti, la vita pubblica europea diviene più rabbiosa, più rancorosa, e nessuno sa dove questo potrà condurre. Dobbiamo smettere di camminare lungo questa strada. Dobbiamo liberarci della tirannia dell’Europa falsa. Un’alternativa c’è.

Un’alternativa c’è.

24. L’opera di rinnovamento inizia con l’autocoscienza teologica. Le pretese universaliste e multiculturaliste dell’Europa falsa si rivelano essere surrogati della religione, con tanto di impegni di fede e pure di anatemi. È l’oppio potente che paralizza politicamente l’Europa. Noi dobbiamo quindi sottolineare che le aspirazioni religiose appartengono al mondo della religione, non a quello della politica, meno ancora a quello dell’amministrazione burocratica. Per ricuperare la nostra capacità di agire nella politica e nella storia, è imperativo risecolarizzare la vita politica dell’Europa.

Dobbiamo rifiutare i surrogati della religione.

25. Quest’impresa esigerà che ognuno di noi rinunci al linguaggio bugiardo che evita le responsabilità e che favorisce la manipolazione ideologica. I discorsi sulla diversità, sull’inclusione e sul multiculturalismo sono vuoti. Spesso è un linguaggio utilizzato per travestire i nostri fallimenti da conquiste: la dissoluzione della solidarietà sociale viene “in realtà” presa come un segnale di benvenuto, di tolleranza e d’inclusione. Ma questo è linguaggio da marketing, inteso a oscurare la realtà invece che a illuminarla. Dobbiamo allora ricuperare il rispetto profondo per la realtà. Il linguaggio è uno strumento delicato, e usandolo come un randello lo si degrada. Dobbiamo farci fautori del decoro linguistico. Il ricorso alla denuncia è il segno della decadenza che ha aggredito il nostro tempo. Non dobbiamo tollerare l’intimidazione verbale, men che meno le minacce di morte. Dobbiamo proteggere chi parla in modo ragionevole anche quando pensiamo che sbagli. Il futuro dell’Europa dev’essere liberale nel senso migliore del termine, ovvero garante di discussioni pubbliche appassionate, libere da ogni minaccia di violenza e di coercizione.

Dobbiamo ripristinare un vero e proprio liberalismo.

26. Rompere l’incantesimo dell’Europa falsa e della sua utopistica crociata pseudo-religiosa votata a costruire un mondo senza confini significa incoraggiare una nuova arte del governo e un nuovo tipo di uomini di governo. Un uomo politico di valore salvaguarda il bene comune di un determinato popolo. Un valido uomo di governo considera la nostra comune eredità europea e le nostre specifiche tradizioni nazionali doni magnifici e vivificanti, ma al contempo fragili. Quindi né le ricusa né rischia di smarrirle per inseguire sogni utopici. Gli uomini politici così desiderano sinceramente gli onori conferiti loro dalle proprie genti, non bramano l’approvazione di quella “comunità internazionale” che di fatto è solo la cerchia di relazioni pubbliche di una oligarchia.

Abbiamo bisogno di statisti responsabili.

27. Riconoscendo il carattere particolare dei Paesi europei, e la loro impronta cristiana, non dobbiamo lasciarci confondere dalle affermazioni pretestuose dei multiculturalisti. L’immigrazione senza l’assimilazione è solo una colonizzazione, e dev’essere respinta. Ci attendiamo giustamente che chi migra nelle nostre terre divenga parte dei nostri Paesi, adottando le nostre usanze. Quest’aspettativa deve però essere sostenuta da una politica solida. Il linguaggio del multiculturalismo è stato importato dagli Stati Uniti d’America. Ma l’età d’oro dell’immigrazione negli Stati Uniti è stata all’inizio del secolo XX, un periodo di crescita economica notevolmente rapida in un Paese sostanzialmente privo di Welfare State e caratterizzato da un forte senso d’identità nazionale che ci si attendeva gl’immigrati assimilassero. Dopo avere accolto numeri enormi d’immigrati, gli Stati Uniti hanno poi praticamente sigillato le porte per due generazioni. L’Europa deve imparare da quell’esperienza americana invece che adottare le ideologie americane contemporanee. Quell’esperienza dice che il lavoro è un potente forza di assimilazione, che un Welfare State indulgente può invece impedire l’assimilazione e che a volte la prudenza politica impone di ridurre le cifre dell’immigrazione, anche in modo drastico. Non dobbiamo permettere che l’ideologia multiculturalista deformi la nostra capacità di valutare in sede politica quale sia il modo migliore per servire il bene comune, cosa che peraltro esige che comunità nazionali sufficientemente unite e solidali considerino il proprio bene come comune.

Dobbiamo rinnovare l’unità nazionale e la solidarietà.

28. Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Europa Occidentale ha saputo far crescere sistemi democratici vitali. Dopo il crollo dell’impero sovietico, i Paesi dell’Europa Centrale hanno ricuperato la propria vitalità civica. Sono due delle conquiste più preziose cui l’Europa sia mai giunta. Ma andranno perdute se non affrontiamo il nodo dell’immigrazione e dei cambiamenti demografici in atto nei nostri Paesi. Solo gl’imperi possono essere multiculturali, ed è esattamente un impero ciò che l’Unione Europea diventerà se non riusciremo a fare di una nuova unità civica solidale il criterio per valutare le politiche sull’immigrazione e le strategie per l’assimilazione.

Solo gli imperi sono multiculturali.

29. Molti pensano erroneamente che l’Europa sia scossa solo dalle controversie sull’immigrazione. In verità, la questione dell’immigrazione è solo uno degli aspetti di un processo di disfacimento sociale più generale che dev’essere invertito. Dobbiamo ripristinare la dignità sociale che hanno i ruoli specifici. I genitori, gl’insegnanti e i professori hanno il dovere di formare coloro che sono affidati alle loro cure. Dobbiamo resistere al culto della competenza che s’impone a spese della sapienza, del garbo e della ricerca di una vita colta. L’Europa non conoscerà alcun rinnovamento senza il rifiuto deciso dell’egualitarismo esagerato e della riduzione del sapere a conoscenza tecnica. Noi abbracciamo con favore le conquiste politiche dell’età moderna. Ogni uomo e ogni donna debbono avere parità di voto. I diritti fondamentali debbono essere protetti. Ma una democrazia sana esige gerarchie sociali e culturali che incoraggino il perseguimento dell’eccellenza e che rendano onore a coloro che servono il bene comune. Dobbiamo restaurare il senso della grandezza spirituale e onorarlo in modo che la nostra civiltà possa contrastare il potere crescente della mera ricchezza da un lato e dell’intrattenimento triviale dall’altro.

Una giusta gerarchia nutre il benessere sociale.

30. La dignità umana è più del diritto a essere lasciati in pace e le dottrine dei diritti umani internazionali non esauriscono la sete di giustizia, meno ancora la sete del bene. L’Europa deve riorganizzare il consenso attorno alla cultura morale di modo che le gente possa essere guidata all’obiettivo di una vita virtuosa. Non possiamo consentire che una falsa idea di libertà impedisca l’uso prudente del diritto per scoraggiare il vizio. Dobbiamo perdonare la debolezza umana, ma l’Europa non può prosperare senza restaurare l’aspirazione comune alla rettitudine e all’eccellenza umana. La cultura della dignità sgorga dal decoro e dall’adempimento dei doveri che competono al nostro stato sociale. Dobbiamo ricuperare il rispetto reciproco fra le classi sociali che caratterizza una società che dà valore ai contributi di tutti.

Dobbiamo ripristinare la cultura morale.

31. Mentre riconosciamo gli aspetti positivi delle economie di libero mercato, dobbiamo resistere alle ideologie che cercano di rendere totalizzante la logica del mercato. Non possiamo permettere che tutto sia in vendita. I mercati che funzionano bene esigono che sia il diritto a precedere e a presiedere (rule of law) e il nostro diritto che tutto precede e presiede deve puntare più in alto della mera efficienza economica. Del resto i mercati funzionano meglio quando sono inseriti in istituzioni sociali forti organizzate sui princìpi autonomi non mercantili. La crescita economica, benché benefica, non è il bene sommo. I mercati debbono essere orientati a fini sociali. Oggi il gigantismo aziendale minaccia persino la sovranità politica. I Paesi debbono cooperare per dominare l’arroganza e l’irragionevolezza delle forze economiche globali. Noi ci riconosciamo quindi in un uso prudente del potere esercitato dai governi per sostenere beni sociali non economici.

I mercati devono essere ordinati verso fini sociali.

32. Noi crediamo che l’Europa abbia una storia e una cultura degne di essere difese. Troppo spesso, però, le nostre università tradiscono la nostra eredità culturale. Dobbiamo riformare i programmi scolastici per incoraggiare la trasmissione della nostra cultura comune invece che indottrinare i giovani con una cultura del ripudio. Gl’insegnanti e i mentori di ogni livello hanno il dovere della memoria. Dovrebbero essere orgogliosi del ruolo di ponte fra le generazioni passate e future che hanno. Dobbiamo ricuperare anche il senso della cultura europea alta, usando il bello e il sublime come norma comune e rigettando la degradazione delle arti a una fattispecie della propaganda politica. Questo esigerà che si allevi una nuova generazione di mecenati. Le società per azioni e le burocrazie si sono rivelate essere custodi davvero poveri delle arti.

L’istruzione deve essere riformata.

33. Il matrimonio è il fondamento della società civile e la base dell’armonia fra gli uomini e le donne. È il legame intimo tra un uomo e una donna che si organizza per il sostentamento della famiglia e per la crescita dei figli. Noi affermiamo che i ruoli più fondamentali che abbiamo sia nella società sia in quanto esseri umani sono quelli di padri e di madri. Il matrimonio e i figli sono parte integrante di qualsiasi prospettiva di prosperità umana. A coloro che li hanno generati al mondo i figli richiedono sacrificio. È un sacrificio nobile cui deve essere reso onore. Noi pertanto auspichiamo politiche sociali prudenti che incoraggino e rafforzino il matrimonio, la maternità e l’educazione dei figli. Una società che non accoglie i figli non ha futuro.

Il matrimonio e la famiglia sono essenziali.

34. L’Europa di oggi è attraversato da grande preoccupazione per il sorgere di quello che viene chiamato “populismo”, anche se il significato del termine non viene mai definito ed è usato per lo più solo come invettiva. Sul tema abbiamo le nostre riserve. L’Europa deve attingere alla sapienza profonda delle proprie tradizioni piuttosto che affidarsi a slogan semplicistici e a richiami emotivi divisivi. Eppure ci rendiamo conto che molti elementi di questo nuovo fenomeno politico possono rappresentare una sana ribellione contro la tirannia dell’Europa falsa, che etichetta come “antidemocratica” qualsiasi realtà ne minacci il monopolio della legittimità morale. Il cosiddetto “populismo” sfida la dittatura dello status quo, il “fanatismo del centro”, e lo fa giustamente. È un segno che persino nel mezzo della nostra cultura politica degradata e impoverita è possibile ridare vita all’agire storico dei popoli europei.

Il populismo dovrebbe essere combattuto.

35. Rifiutiamo perché falsa la pretesa di dire che non esiste alternativa responsabile alla solidarietà artificiale e senz’anima di un mercato unificato, di una burocrazia transnazionale e di un intrattenimento dozzinale. L’alternativa responsabile è l’Europa vera.

Il nostro futuro è la Europa vera.

36. In questo momento, chiediamo a tutti gli europei di unirsi a noi per respingere le fantasie utopistiche di un mondo multiculturale senza frontiere. Amiamo a buon diritto le nostre patrie e cerchiamo di trasmettere ai nostri figli ogni elemento nobile che noi stessi abbiamo ricevuto in dote. Da europei, condividiamo anche una eredità comune e questa eredità ci chiede di vivere assieme in pace in una Europa delle nazioni. Ripristiniamo la sovranità nazionale e ricuperiamo la dignità di una responsabilità politica condivisa per il futuro dell’Europa.

Dobbiamo assumerci la responsabilità.

Philippe Bénéton – Università di Rennes-(Francia)

Rémi Brague – Università di Parigi I Pantheon – Sorbonne– (Francia) Chantal Delsol – Istituto di ricerca Hannah Arend, Accademia delle Scieze morali e politiche – (Francia)

Roman Joch – Università di Praga – (Repubblica Ceca)

Lánczi András – Università Corvinus di Budapest – (Ungheria)

Ryszard Legutko – Università Jagiellonian di Cracovia (Polonia)

Roger Scruton – Università di Buckingham – (Regno Unito)

Robert Spaemann – Università di Monaco – (Germania)

Bart Jan Spruyt – Fondazione Edmund Burke – L’Aia – (Olanda)

Matthias Storme – Università cattolica di Leuven – (Belgio)

QUALE EUROPA?, a cura di Giuseppe Germinario

I redattori di “Italia e il mondo” intendono avviare un dibattito sull’Unione Europea, sulle attuali modalità di costruzione delle relazioni tra gli stati e le realtà istituzionali del continente e sulla possibilità di costruzioni politiche alternative più confacenti ad una politica più autonoma e indipendente rispetto all’attuale condizione di sudditanza e rese sempre più necessarie dall’evidente processo di relazioni multipolari ormai in corso. Alla vivace polemica in corso ormai da anni, paradossalmente, non corrisponde una adeguata produzione di elaborazioni e documenti più puntuali e riflessivi, propedeutici al sostegno di linee politiche più chiare e coerenti. Segno evidente dei ritardi, degli impacci e delle approssimazioni nei quali è impelagata la quasi totalità delle classi dirigenti europee, sia quelle imperanti sia quelle con pretese di alterità.

Qui sotto i link di due primi documenti individuati le cui tesi, ovviamente, non corrispondono necessariamente al pensiero dei redattori del sito:

https://thetrueeurope.eu/uneuropa-in-cui-possiamo-credere/

https://www.forum2000.cz/en/coalition-for-democratic-renewal-2017-event-coalition-for-democratic-renewal

Seguiranno nell’immediato le prime riflessioni

 

DALLE PRIMAVERE AGLI INVERNI DI SOROS. SARANNO CALDI, MOLTO CALDI di Giuseppe Germinario

UN TORRIDO INVERNO

Questo insolito tepore ottobrino, così siccitoso, lascia presagire un torrido ed infuocato inverno.

Dal punto di vista meteorologico potrebbe essere una previsione troppo azzardata; previsioni del tempo attendibili riescono a coprire un arco di tempo ancora troppo breve, di pochi giorni.

È la temperatura politica del pianeta, in particolare negli Stati Uniti e in Europa, che pare surriscaldarsi sino a sfiorare pericolosamente il punto critico di formazione di tempeste distruttive e roghi devastanti.

Provo a collegare, più o meno avventurosamente, quattro episodi apparentemente avulsi tra essi.

  1. Il discorso di Trump all’ONU_ Il 19 Settembre scorso Trump ha pronunciato il suo primo e per ora unico discorso all’ONU. Sul sito ne abbiamo già parlato con dovizia http://italiaeilmondo.com/2017/09/24/httpssoundcloud-comuser-159708855podcast-episode-13/

http://italiaeilmondo.com/2017/09/27/massimo-morigi-a-proposito-del-podcast-episode-13_-lo-smarrimento-dei-vincitori-di-gianfranco-campa/  ; allo stato attuale, potremmo arricchire e corroborare le nostre valutazioni con una ulteriore supposizione. Quel discorso così apparentemente contraddittorio e paradossale potrebbe essere in realtà un tentativo particolarmente sofisticato e pericoloso di mettere a nudo le debolezze, l’inconcludenza e l’avventurismo delle strategie di quello staff militare dal quale è ormai circondato e che sta cercando di erigere una vera e propria barriera in grado di filtrare rigorosamente i contatti del presidente americano. Sembra voler dire: “volete lo scontro con la Russia e la Cina, l’Iran e la Corea del Nord? Ve lo offro su un piatto d’argento e vediamo se avete la reale intenzione e capacità di portarlo avanti, con quali rischi e a che prezzo!”

Il recente viaggio degli esponenti del ramo prevalente dei Saud, dei regnanti quindi dell’Arabia Saudita, in Russia può essere d’altro canto letto non solo come un sussulto di autonomia di quella classe dirigente di fronte allo stallo della politica di destabilizzazione in Medio Oriente e al recupero di autorevolezza della Russia di Putin; ma anche come una sorta di diplomazia parallela e per interposta persona che le forze fautrici dell’avvento di Trump alla Presidenza Americana continuano a portare avanti. Le aperture ben più esplicite dei generali egiziani alla Russia da una parte e i contatti di Bannon, il mentore ufficialmente disconosciuto e reietto, in realtà ancora costantemente e discretamente consultato dal Presidente, con la dirigenza cinese sembrano confermare l’esistenza di questi doppi canali di comunicazioni e di relazioni.

  1. Lo scandalo a sfondo sessuale del produttore cinematografico americano Weinstein e le rivelazioni di wikileaks sul traffico di uranio con la Russia alimentato da personaggi politici di spicco del Partito Democratico americano hanno una cosa essenziale in comune. Entrambi colpiscono al cuore gli esponenti più importanti e decisivi della coorte che ha sostenuto e determinato in questi decenni l’ascesa e il consolidamento dell’affermazione del sodalizio tra neoconservatori e democratici americani. Più che i danni materiali e i vizi privati sbandierati sui media, risalta l’irrimediabile deterioramento di immagine e di credibilità del costrutto ideologico e mediatico sul quale si sono fondati trenta anni di politica estera e di gestione interna di quel paese.

Gli uni assestano un colpo tremendo all’ipocrisia disgustosa del politicamente corretto tanto fervido ed accorato nell’ostentare le pubbliche virtù e la coerenza del rispetto della dignità umana, quanto certosino nel coltivare nel privato della persona e nei canali riservati delle relazioni politiche i soprusi, le sopraffazioni, le meschinerie, i mercimoni più interessati.

Gli altri rivelano le relazioni e gli interessi inconfessabili di una classe dirigente così apertamente ostile alla formazione di un mondo multipolare, la quale ha individuato nella Russia di Putin il nemico acerrimo della pacificazione unipolare e globalistica, salvo intrattenere con settori di essa gli affari e i commerci più loschi. Le vittime sacrificali predestinate appaiono il produttore Weinstein e il politico Podesta, ma il capro espiatorio finale appare ben più emblematico.

  1. L’Open Society di Soros si è vista rimpolpare in breve tempo il proprio salvadanaio di ben 18.000.000.000 (diciotto miliardi) di dollari.gentiloni-soros Una cifra stratosferica in grado di impressionare manipolatori persino particolarmente adusi e avvezzi al denaro come Soros, in grado di muovere eserciti, bande armate, contestatori, manifestanti e Pussy Riot di mezzo mondo. Sino ad ora il nostro paladino delle libertà e del soccorso umanitario ha utilizzato un doppio metro di comportamento al centro e alla periferia dell’Impero, nonché nei confronti dei riottosi più ostinati esterni ad esso. Apertamente violento e destabilizzatore ai margini; più cauto e pervasivo, più suadente man mano che le trame riguardavano la geografia prossima al centro dei poteri. Qualcosa, evidentemente, comincia a cambiare in questa strategia in maniera assolutamente radicale. Come non bastasse saltano nuovamente alla ribalta organizzazioni, quasi sempre legate al filantropo e beneficiarie dei più disparati finanziamenti pubblici e privati, spesso concessi dagli stessi rappresentanti delle vittime delle loro azioni; tutte dedite, con solerzia e qualche dose inevitabile massiccia di stupidità ed ottusità, alla compilazione di liste di prescrizione foriere di una prossima caccia all’untore. Tra queste brilla ultimamente, secondo RT, https://www.rt.com/news/407347-rt-guests-list-ngo/ , l’associazione http://www.europeanvalues.net/ ,con questo documento http://www.europeanvalues.net/wp-content/uploads/2017/09/Overview-of-RTs-Editorial-Strategy-and-Evidence-of-Impact.pdf e secondo questo interessante documento fondativo, corredato da un elenco dei finanziatori sorprendente, ma non troppo http://www.europeanvalues.net/wp-content/uploads/2013/02/VZ2015_ENG_FIN.pdf L’analogia con la caccia alle streghe del Maccarthismo degli anni ’50 è inquietante. A ruoli invertiti, è probabile che le squadracce che vediamo infiltrate nelle manifestazioni di strada antisistema, prointegrazione e via dicendo, diventino lo strumento di giustizia sommaria e di fomentazione provocatoria di questi filantropi.
  2. L’investimento mortale a Charlottesville, in Virginia, di due mesi fa,riviera24-luca-botti-strage-los-angeles-390786 la drammatica strage del cecchino (dei cecchini?) a Las Vegas di due settimane fa, ancora coperta da una fitta e misteriosa coltre di nebbia da cui emergono i sussurri più inquietanti; il tentativo di secessione in Catalogna e lo stesso referendum nel quadrilatero lombardo-veneto annunciano alcune variazioni essenziali sul tema della strategia del caos perpetrata in questi ultimi anni. Le modalità di svolgimento di questi eventi apparentemente sconnessi lasciano sospettare, rispettivamente, a volte una vera e propria provocazione, altre volte una istigazione, altre ancora una manipolazione e per finire una capacità di cogliere opportunità. Non si tratta, quindi, semplicemente, di un complotto ordito a tavolino sin nei particolari; troppo semplicistico! Quanto, piuttosto, di sfruttamento di opportunità create e utilizzate in un contesto di crescente instabilità e di emersione di nuove forze antagoniste, spesso confuse e contraddittorie. Un terreno, tra l’altro, sul quale diventa particolarmente difficile ed insidioso l’intervento politico di forze sovraniste, specie quelle più sensibili alla suggestione della democrazia dal basso e della superiorità dei progetti autonomistici e localistici.

La “strategia del caos” che sino ad ora ha interessato i paesi riottosi al predominio unipolare, in particolare la Russia, ha investito le zone di confine e di contesa ai margini dell’impero, come il Nord-Africa, il Medio Oriente, in parte il Sud-Est Asiatico, l’estremità dell’Europa Orientale pare investire sempre più da vicino i luoghi e la geografia centrale dei centri di potere e delle formazioni sociali connesse attorno secondo gli stessi propositi degli attori-mestatori.

È il segno che lo scontro politico sta investendo direttamente questi centri di potere, piuttosto che essere condotto da essi per interposte persone; li sta costringendo ad un confronto diretto sempre più aspro e risolutivo.

Richiederà il sacrificio di alcuni illustri capri espiatori, alcuni dei quali particolarmente in auge nell’immediato passato.

Nel Partito Repubblicano neoconservatore abbiamo visto cadere qualche testa illustre, ma ancora senza particolare crudeltà.

Nel Partito Democratico americano, la ricomposizione che si sta tentando con buone probabilità di successo tra la componente pragmatica vicina ad Obama e la componente social-radicale prossima a Sanders, il candidato sconfitto da Hillary Clinton alle primarie, in parte lui stesso nominalmente esterno al partito, ma generosamente ricompensato con una buona presa e radicata presenza all’interno di esso, richiederà probabilmente il sacrificio ben più sanguinoso di una intera dinastia politica: quella dei Clinton. Sanguinosa riguardo al futuro delle carriere politiche, ma anche a quello degli averi e della sicurezza economica del sodalizio.

La figura che più si potrebbe attagliare a quella di Hillary Clinton, potrebbe essere metaforicamente proprio quella di Maria Antonietta, vittima predestinata della Rivoluzione Francese.

La signora Rodham Hillary C. si presenta come il capro espiatorio perfetto sul capo riverso della quale costruire le fortune di una nuova classe dirigente ansiosa di liquidare al più presto l’attuale mina vagante dello scenario politico americano: Donald Trump. Una classe dirigente ancora in grado di controllare la quasi totalità delle leve di potere e di controllo e di legarsi ai settori tecnologicamente più vivaci, ma sino ad ora incapace di dare un respiro strategico alla propria iniziativa che riesca a garantire una sufficiente coesione della formazione sociale americana e a coinvolgere in una nuova versione del sogno, buona parte del resto del mondo. Il cumularsi di errori grossolani e di una gretta difesa degli interessi di costoro e la boria legata ad un inguaribile senso di superiorità rischiano di far precipitare quel paese in una crisi analoga a quella che ha prodotto la guerra di secessione di metà ‘800, ma dagli effetti ancora più distruttivi piuttosto che creativi in un contesto di potenza declinante. Non solo, ma di lasciare i propri orfani e sodali disseminati nel mondo, soli ed esposti ad affrontare con scarso sostegno le intemperie e a cercare col tempo nuovi ripari, più per se stessi che per il gregge da accudire, come ogni buon Gattopardo o Generale Badoglio che si comandi.

 La forza e la possibile sopravvivenza delle componenti che hanno espresso Trump risiede proprio nella debolezza strategica dei suoi avversari, piuttosto che nella solidità dei propri mezzi.

Su questo “Italia e il Mondo” cercherà di concentrare la propria attenzione e le proprie scarse energie sin dai prossimi articoli con lo scopo di individuare le opportunità e gli spazi di formazione di una nuova classe dirigente così necessaria a questo nostro “pauvre pays”.

L’autunno della Fronda, di Roberto Buffagni

La vicenda catalana, che con l’odierna dichiarazione di indipendenza in standby tocca un vertice di comicità ineguagliato a memoria d’uomo, ci parla però di qualcosa di molto, molto serio. Ci parla della nuova fase in cui è entrata la Rivoluzione (con la Maiuscola) che da cinque secoli trascina con sé, non si sa dove, la civiltà europea e occidentale, e dunque il mondo. Pare follia impiegare questi paroloni per un’avventura politica di Peppa Pig® qual è l’indipendentismo catalano, come andare a caccia di tordi con i missili terra-aria. Ma «On a remarqué, avec grande raison, que la révolution …. mène les hommes plus que les hommes la mènent. Cette observation est de la plus grande justesse… […] Les scélérats mêmes qui paraissent conduire la révolution, n’y entrent que comme de simples instruments; et dès qu’ils ont la prétention de la dominer, ils tombent ignoblement.» (De Maistre, Considérations sur la Révolution, 1796).

La vicenda catalana ci parla infatti di una crisi che non è soltanto la crisi politica degli Stati nazionali, che si rivelano fragili, disuniti, disfunzionali: è la crisi del simbolo politico, del cosmion1 che ordina(va) e illumina(va) di significato la forma di civiltà assunta dall’Europa dopo la fine delle guerre di religione. Come tutti i simboli, un cosmion entra in crisi quando non ci parla più. Un simbolo può ammutolire per infiniti motivi; ma trattandosi di un simbolo politico, di solito la sua voce si fa fioca per l’azione congiunta di un abuso di autorità e di una contestazione di autorità. Se il dissenso in merito all’ordine non può essere ricomposto, entra in campo la nuda violenza politica, e il clamore delle armi copre la voce del simbolo.

La forma primaverile di questa lotta fra le autonomie e gli Stati sono le guerre della Fronda, che vedono lo Stato assoluto nascente opporsi agli “stati”, nel senso che questa parola assume nell’antica istituzione francese degli “Stati generali”: la forma politica che rivestono le autonomie sociali, allora rappresentate dai grandi signori e dai Parlamenti2. Lo scontro tra stati e Stato nasce dalla crisi di un altro grande cosmion: la cristianità medievale, frantumato e ammutolito dalle guerre di religione; e si svolge contemporaneamente in Inghilterra (Cromwell contro gli Stuart) e in Francia (de Retz e Condé contro Mazzarino e Turenne). In Inghilterra vincono gli stati, in Francia lo Stato3.

Oggi assistiamo (e volenti o nolenti partecipiamo) alla forma autunnale della lotta fra autonomie sociali o stati e lo Stato nazionale. Autunnale, per due ordini di ragioni. Anzitutto, lo Stato nazionale europeo non basta più a se stesso – non può autolegittimarsi – almeno da quando, entrato in crisi lo Stato liberale, sono sorti gli Stati nazionali totalitari fascista e nazista, sconfitti sul campo nella Seconda Guerra Mondiale. Lo Stato nazionale europeo è stato poi arruolato, insieme al cristianesimo, nella gigantomachia tra USA e URSS. Conclusa quella, la potenza imperiale egemone ha trattato gli Stati nazionali europei come un residuo o un ostacolo, come dimostrano sia l’appoggio americano all’Unione Europea, che agli Stati nazionali risucchia autorità e potenza, sia il disinvolto intervento nella guerre civili jugoslave, con la promozione delle indipendenze e la creazione dello Stato fantoccio del Kosovo. Ma ecco il secondo ordine di ragioni: questa Fronda 2.0 è autunnale cioè decadente perché entrambe le forze che la combattono, stati e Stato nazionale, sono in via di esaurimento, e alle loro spalle si stagliano forze imperiali nascenti: anzitutto la neocristianità russa, ma anche la Cina neoconfuciana. Questi, infatti, paiono essere i nuovi cosmion, i nuovi simboli politici che sorgono per rispondere alla sfida culturale e politica dell’impero statunitense. Dove l’insorgere, con Trump, di una nostalgia di Stato nazionale declinata in forma di isolazionismo pasticcione, illustra la crisi della potenza egemone mondiale in seguito ai terribili errori strategici, frutto di arroganza e avidità, commessi dopo il crollo del suo nemico storico, l’URSS.

Per trarre una conclusione provvisoria, potremmo dunque dire che la vicenda catalana ci insegna, per ora, questo: che lo Stato nazionale è un simbolo politico morente, che sopravvive come monumento storico-turistico, come nostalgia di un ordine perento, rifugio provvisorio di chi si sente debole e minacciato, psicofarmaco contro l’angoscia di un futuro che si profila caotico e minaccioso. E che gli stati che lo attaccano, come le iene e gli sciacalli attaccano il leone ferito, letteralmente non sanno quello che fanno, neppure che al leone ferito basta ancora una zampata per disperderli. Per finire, ci insegna di nuovo che l’Unione Europea non sarà mai un simbolo politico vitale. Non è un impero. Non è uno Stato nazionale. E’ un fascio di stati, un insieme arlecchinesco di forze economiche, sociali e politiche incapaci di legittimarsi e di fiorire in un ordine simbolico, che quando le cose si fanno serie – quando la crisi culturale e politica lo tocca da vicino – è costretto puntellare ipocritamente lo Stato nazionale del quale continua a minare le basi.

1 “Cosmion” è un’espressione che prima Adolf Stohr e poi Eric Voegelin impiegano per definire il simbolismo politico, pensato in analogia con il cosmo, che conferisce senso a una forma di civiltà e ne costituisce l’ordine politico. C’è dunque il cosmion imperiale ellenistico o romano, ma anche il cosmion dello Stato nazionale assoluto, etc.

2 I Parlamenti francesi dell’ancien régime sono istituzioni giuridiche con il compito di registrare gli atti del potere regale. Sono anche e soprattutto le istituzioni nelle quali siedono i rappresentanti delle 40.000 famiglie che detengono la ricchezze commerciale e industriale del regno di Francia, mentre i grandi signori frondisti sono i detentori di una larga quota delle terre, e, naturalmente, sono professionisti della guerra.

3 Le ragioni del diverso esito sono molteplici. Non secondaria la diversa statura dei contendenti, re Giacomo commette gravi errori politici e sul campo non si dimostra all’altezza di Cromwell, mentre Mazzarino e Turenne sono più che validi avversari di un politico geniale come Retz e di un grande soldato come Condé. Il risultato determina la diversità storica di cultura politica, che permane tuttora, tra l’anglosfera e il continente europeo: nei paesi anglosassoni lo Stato nazionale non assumerà mai il valore simbolico e la forza politica che invece prende nell’Europa continentale (la direzione politica del Regno Unito non deve la sua efficacia a uno Stato nazionale razionalmente strutturato, ma alla permanenza di un nucleo dirigente che si riproduce per cooptazione ed è l’erede diretto dell’alleanza tra alta aristocrazia e grande commercio che con la guida di Cromwell sconfisse re Giacomo) . In seguito alla sconfitta patita dall’Europa continentale nelle due guerre civili europee e all’egemonia dell’anglosfera, la cultura politica anglosassone, che privilegia sullo Stato nazionale la “società civile” ovvero, nell’accezione contemporanea, le autonomie sociali, ha egemonizzato anche l’Europa continentale: come ognuno vede.

CASA NOSTRA O COSA LORO? I MEDIA CONTINUANO A OMETTERE NOTIZIE DI RILIEVO, di Antonio De Martini (pubblicato su facebook)

 

Durante la visita del re saudita Salman ben Abdulaziz a Mosca, i corrispondenti italiani ci hanno detto che hanno parlato di petrolio.
Può darsi benissimo.

La SAMI (Saudi Arabian Military Industries) ha pubblicato un comunicato informando che sono stati sottoscritti una serie di MOU ( memorandum of understanding) – d’ordine del figlio del re, il crownprince Mohammed ben Salman – con la
Rosoboronexport, per la fornitura del sistema antiaereo A400 famoso ormai in tutto il vicino oriente per la sua inesorabile efficacia.

Altre forniture coinvolte,i missili anticarro Kornet -EM, i LRM TOS-1A e dei lanciabmbe ags30 con le granate relative, un numero imprecisato di Kalashnikov col relativo munizionamento è peggio di tutto, uno dei MOU riguarda l’impianto in Arabia Saudita di fabbriche, con particolare riguardo ai sistemi AS400.

Questo passo gravido di conseguenze, indica che la Russia è in Arabia per restarci; che il principe saudita vuole mostrare indipendenza rispetto all’alleato americano che continua a rifornire anche il rivale Katar ad onta delle sanzioni decise dai sauditi.
E soprattutto che la lobby delle armi ha perso l’esclusiva di un cliente che solo lo scorso anno ha piazzato ordini per 80 miliardi di dollari.

L’ AS 400 che era la garanzia di inattaccabilità dell’Iran potrebbe essere una garanzia a breve scadenza e quindi è bene che non disobbedisca a Mosca; che gli Emirati ( alleati dei sauditi nella vicenda Katar) mostrano interesse per i caccia S35 russi che surclassano nettamente i 24 Rafale francesi comprati dal Katar e che il cugino del crownprince , oggi agli arresti a casa, potrebbe a breve tornare in auge tra gli yankees visto che il giovane Mohammed non si limita a fare il galletto con gli yemeniti, ma alza la cresta anche con gli USA.

Siamo in un’altra vigilia di crisi e i nostri media ci tengono all’oscuro.

Forse vogliono scongiurare l’accaparramento delle scatole di sardine da parte delle nostre massaie.

MASSIMO MORIGI A PROPOSITO di CRISTIANESIMO, TOLLERANZA E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO. NOTE A MARGINE A TACCUINO FRANCESE! CHE COSA CI INSEGNA LA CRISI DEL FRONT NATIONAL? DI ROBERTO BUFFAGNI

15 Haec cum audisset quidam de simul discumbentibus, dixit illi: “Beatus, qui manducabit panem in regno Dei”.  16 At ipse dixit ei: “Homo quidam fecit cenam magnam et vocavit multos; 17 et misit servum suum hora cenae dicere invitatis: “Venite, quia iam paratum est”. 18 Et coeperunt simul omnes excusare. Primus dixit ei: “Villam emi et necesse habeo exire et videre illam; rogo te, habe me excusatum”. 19 Et alter dixit: “Iuga boum emi quinque et eo probare illa; rogo te, habe me excusatum”. 20 Et alius dixit: “Uxorem duxi et ideo non possum venire”. 21 Et reversus servus nuntiavit haec domino suo. Tunc iratus pater familias dixit servo suo: “Exi cito in plateas et vicos civitatis et pauperes ac debiles et caecos et claudos introduc huc”. 22 Et ait servus: “Domine, factum est, ut imperasti, et adhuc locus est”. 23 Et ait dominus servo: “Exi in vias et saepes, et compelle intrare, ut impleatur domus mea. 24 Dico autem vobis, quod nemo virorum illorum, qui vocati sunt, gustabit cenam meam” ”

 Evangeliun Secundum Lucam 14: 15-24

 

Facendo i più vivi complimenti all’analisi politica svolta per “L’Italia e il Mondo” da Roberto Buffagni in “Taccuino francese! Che cosa ci insegna la crisi del Front National?”, (1) un’analisi dove la puntuale conoscenza delle forze politiche che si scontrano sullo scenario transalpino viene eccellentemente unita ad una visione in profondità degli ultimi due secoli di storia francese, tale che vista l’importanza di questa nazione per la modernità politica occidentale, il “Taccuino francese!” può veramente aspirare ad essere una prima ricognizione non solo dei nostri problemi italiani (ed auspicabili soluzioni, posto, non mi stancherò mai di ripetere che in storia e nella vita delle società non si danno soluzioni come in matematica ma, semmai, nuovi problemi, dialetticamente connessi con quelli che li hanno preceduti) ma anche di quelli di tutte le odierne c.d. “democrazie”, è proprio sull’aspetto definito nell’analisi di Buffagni “metapolitico” (cioè della Weltanschauung e della politica culturale che dovrebbero connotare le consapevoli e più culturalmente attrezzate attuali forze antisistema) che si pone la necessità di una ulteriore puntualizzazione e messa a fuoco del problema. Una ulteriore puntualizzazione e messa a fuoco del problema che non può assolutamente sfuggire all’impostazione “culturalistica” datane da Antonio Gramsci quando nei suoi Quaderni del Carcere a livello di strategia politica preconizzava la graduale ed inesorabile conquista attraverso una lunga e paziente guerra di posizione delle “casematte” politico-culturali del nemico (dal suo punto di vista di comunista queste casematte erano occupate dalla borghesia e il movimento rivoluzionario non solo avrebbe dovuto battere il nemico di classe ma anche insignorirsi dei migliori valori di questa classe, in modo che non solo questi valori passassero al proletariato ma anche che i migliori rappresentanti della classe egemone ora sconfitta passassero dalla parte del proletariato) e formulava, con mentalità molto sorelliana, il mito del “moderno principe”, che non si riassumeva certo nell’ingannevole figura del classico “uomo forte”ma che rappresentava, piuttosto, la sintesi dialettica, incarnata in un movimento politico che sapesse fondere il momento più politico con quello di cultura politica – Buffagni lo definisce metapolitico – , fra le spinte dal basso politiche e culturali provenienti dal proletariato e le migliori istanze della borghesia che pur doveva venire sconfitta tramite la predetta guerra di posizione all’interno della società. Insomma, per Gramsci la cultura “nazionalpopolare” non era solo uno strumento per comprendere la società italiana del suo tempo ma era, soprattutto, un progetto rivoluzionario “in fieri” che doveva preludere alla rivoluzionaria vittoria del proletariato. E veniamo quindi ora ai punti “metapolitici” dell’articolo di Buffagni. Per farla breve, ed anche perché questo a mio giudizio è il cuore di tutto il ragionamento di Buffagni, cito direttamente il punto 3 che afferma: “L’opposizione al mondialismo è costretta ad essere, volens nolens, opposizione all’illuminismo e all’universalismo”. Ora, a parte il fatto che il termine ‘mondialismo’ dice troppo o troppo poco (ma si tratta di intendersi, tutti, compresi lo scrivente, soffrono della mancanza, dopo il fallimento storico delle esperienze e categorie marxiste, di un adeguato lessico rivoluzionario e ‘mondialismo’ – preso cum grano salis e con la consapevolezza della sua natura di strumento provvisorio da sostituire quanto prima con ben altre e più ficcanti terminologie, e il Repubblicanesimo Geopolitico è anche, se non soprattutto, impegnato nella formulazione di queste nuove “categorie del politico – può ben indicare la retoricizzazione a scopi di dominio politico interno e di proiezione imperialistica degli ideali democratici e dei c.d. diritti umani), è sull’opposizione totale e totalitaria all’illuminismo e all’universalismo che è necessario spendere qualche ulteriore riflessione (e diciamolo chiaramente anche qualche critica). Questo per due fondamentali motivi. Punto numero uno. Proprio perché come già affermato nelle vicende storiche e sociali non si danno mai soluzioni ma semmai nuovi problemi od assetti dialetticamente legati agli stati precedenti e che magari soddisfano, almeno parzialmente e per brevi periodi, coloro che li hanno generati ma che, in nessun modo, possono essere chiamati soluzioni alla stregua delle soluzioni matematiche, non ha dal punto di vista prettamente teorico alcun senso affermare che si è contro o a favore di una determinata situazione o periodo storico. O per essere ancora più radicali – ed anche apparentemente auto contraddittori – la teoresi politica e culturale è allo stesso tempo dialetticamente contro tutta la realtà che l’ha preceduta ma è anche attratta inesorabilmente da questa stessa realtà. Questo per il molto semplice e banale motivo che senza polarità di attrazione-repulsione della realtà che gli si pone di fronte, non solo non è possibile modificare la realtà stessa ma non esisterebbe nemmeno, a meno che non si voglia cadere nella “storia monumentale” di nietzschiana memoria, la teoresi stessa. E questa dialettica di attrazione-repulsione della teoresi verso la realtà non è altro, se ci si pensa bene, che la trasposizione su un piano prettamente teorico della dinamica del confronto-scontro strategico che avviene negli altri livelli della realtà, dalla evoluzione delle istituzioni e consuetudine umane all’evoluzione degli organismi in natura. Ma su questo fondamentale aspetto non mi voglio ora dilungare oltre, atteso che tutti i lettori sono a conoscenza della hegeliana dialettica servo-padrone ed anche perché – si parva licet componere magnis – è un aspetto che ho già precedentemente trattato e che troverà una ulteriore sistemazione nelle mie prossime Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico. Secondo – ed ultimo – fondamentale motivo per cui il punto 3 dell’articolo di Buffagni necessita di una ulteriore messa a fuoco: è vero noi siamo tutti, tanto per intenderci su un piano di praticità operativa e retorica e in attesa anche di più scaltrite categorie politiche – contro l’universalismo ed il mundialismo ma – e qui ritorna in campo l’impostazione culturalistica di Gramsci – non dobbiamo assolutamente dimenticare (e Buffagni nei suoi punti assolutamente non dimentica) che universalismo e una delle sue degenerazioni che chiamiamo per comodità operativa mondialismo, sono l’ultimo anello di una catena che parte dal mondialismo (e mondializzazione altrimenti detta globalizzazione) occidentale iniziata coll’impero romano, proseguita dal cristianesimo e sfociata per ultimo in epoca moderna nelle grandi illusioni illuministe prima e marxistiche in finale di partita: tutto ciò per dire che ragionando con procedure dialettiche e gramsciane sembra veramente difficile che possa avere vita e forza politica, come invece sembra voler indicare Buffagni, una cultura nazionalpopolare che inglobi al suo interno una prospettiva cristiana ma rifiutandone ab imis l’universalismo relegandola ad una sorta di astratto momento ma disgiunto dall’azione vera e propria. In esergo a queste brevi considerazioni ho posto la parabola del convito dal Vangelo secondo Luca. Il padrone dice ai servi, costringete la gente ad entrare nel banchetto (compelle intrare: Luca 14:23). Nella tradizione della Chiesa, da Agostino a S. Tommaso d’Aquino, questa parabola è sempre stata citata per giustificare la persecuzione e la conversione forzata degli atei e degli infedeli. Se il lascito del cristianesimo riguardo ai rapporti col diverso fosse solo l’universalistico e mondialistico compelle intrare non ho nessuna remora ad affermare, nonostante tutti gli sforzi di sintesi dialettica che si debbono compiere in sede di teoresi, che non avrei proprio nessuna difficoltà a schierarmi toto corde contro cristianesimo, illuminismo e – ovviamente ça va sans dire – contro l’universalismo retorico e contro la sua ulteriore ed imperialistica estensione del mondialismo. Ma il cristianesimo non è stato solo questo, è stato, anche se perseguitato, spesso il suo contrario, e dal punto di vista storico e quindi della teoresi non è forse del tutto inutile ricordare che il concetto di tolleranza, ancor prima di assumere le modalità liberali di individualismo metodologico come infine sono state elaborate prima auroralmente e contraddittoriamente da Hobbes (libertà di coscienza ma solo nel foro interno e decisionismo sovrano che prevale nella società esterna schiacciando il sorgere pubblico di sette e divisioni all’interno della stessa), poi da Spinoza e infine definitivamente compiute in Locke, fu nella modernità occidentale elaborato dalle sette ereticali sorte in seguito alla Riforma, sette ereticali che, in polemica con la riforma stessa, affermavano, in buona sostanza, che l’amore universalistico che deve unire tutti gli uomini impedisce senza possibilità di alcun dubbio che qualcuno sia costretto ad entrare, sia cioè costretto a convertirsi. E queste sette e movimenti ereticali che fecero della tolleranza il loro maggiore lascito religioso, politico e culturale (gli eroici nomi delle loro guide spirituali: Sebastiano Castellione, (2) Bernardino Ochino, i Sozzini) erano gli eredi culturali del miglior e più scaltrito umanesimo italiano (il suo principale ed archetipo esponente, Lorenzo Valla) che tramite la loro critica filologica avevano ben capito che il compelle intrare ed altri luoghi comuni testuali, compormentali e culturali del cristianesimo o erano stati mal interpretati allo scopo di politiche di puro potere o, comunque, come tutti le umane imprese che nascono e muoiono nella storia, andavano debitamente contestualizzati tenendo sempre presente come stella polare l’universalismo dell’amore – e quindi della tolleranza – che giudicavano come il vero cuore pulsante del cristianesimo. Penso che una Kultur che avversi l’universalismo liberista e l’imperialista mondialismo e che partendo dalla storia della modernità occidentale sia sempre più radicata fino a diventare nazionale popolare (e quindi politicamente efficace) debba tenere ben presente anche questi elementi e del cristianesimo (3) e di questo aspetto di storia della religione che si sono manifestati proprio con estremo rigore e vigore in Italia. Concludo con una situazione estranea al bell’articolo di Buffagni ma che, anche se con una battuta, ci consente e di stigmatizzare il falso mondialismo democratico e di mostrare che l’ epifania strategica del Repubblicanesimo Geopolitico (progetto che fu anche di Gramsci, anche se con categorie per ora smentite dalla storia, ma avendo ben presente che si doveva dare origine ad un movimento politico-culturale “nazionalpopolare” e quindi radicato nella storia storia) non significa la falsa visione, portata a livello di massa, di un mondo intrinsecamente violento ma la consapevolezza molto strategica ma non necessariamente violenta che, esprimendoci con Alexander Werndt “anarchy is what states make of it”. (4) La bestiale repressione in Catalogna – e tanti saluti alla democrazia e ai diritti politici universalistici del mondo liberal-liberista falsamente propagandati dall’UE – ha fatto sì che, in piena tradizione esegetica cristiana mainstream di Luca 14: 15-24, si sia passati dal compelle intrare al compelle legnare. (5) Si tratta, in senso terroristico e con una versione della Kultur occidentale che noi avversiamo (contraddizione: non avevo appena detto che non si fanno i processi alla storia?) assieme ad una ulteriore conferma del detto wendtiano – ma in negativo, cioè della capacità umana, anziché di essere artefice del suo destino come indica la citazione wendtiana, di compiere il male – anche, attraverso la sua totale e speculare antitesi, dell’indicazione su cosa si deve intendere per ‘epifania strategica’. Una epifania strategica ed un senso delle più profonde e migliori radici della Kultur occidentale (6) che è del tutto assente nella mente e negli occhi spenti di questa attuale brutale Europa politica liberal-liberista e – usiamo ancora una volta questo termine sicuri che sappiamo capirci – mondialista.

Massimo Morigi – 4 ottobre 2017

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NOTE

1 Agli URL http://italiaeilmondo.com/2017/09/29/taccuino-francese-che-cosa-ci-insegna-la-crisi-del-front-national-di-roberto-buffagni/, http://www.webcitation.org/6tvriCfRo e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F09%2F29%2Ftaccuino-francese-che-cosa-ci-insegna-la-crisi-del-front-national-di-roberto-buffagni%2F&date=2017-10-03 .

2 Nell’ottobre 1553 venne messo al rogo a Ginevra l’antitrinitrario Michele Serveto (Michel Servet, Villanueva de Sigena, 19 settembre 1511 – Ginevra, 27 ottobre 1553). L’anno successivo stigmatizzando la decisione di Calvino di mettere a morte Serveto, Sebastiano Castellione (Sébastien Castellion, o Chatellion o Châteillon, in italiano Sebastiano Castellione, Saint-Martin-du-Frêne, 1515 – Basilea, 29 dicembre 1563) con lo pseudonimo di Martin Bellius pubblica il “De haereticis an sint persequendi” dove attraverso citazioni di diversi autori fra cui Martin Lutero, Erasmo da Rotterdam, Sebastian Frank e lo stesso Castellione, Castellione mostra l’insensatezza dell’intolleranza vista l’assoluta soggettività delle opinioni umane e, soprattutto, nella consapevolezza che il vero può essere avvicinato solo con una libera ricerca. Celebre la sua frase sul rogo di Serveto “Tuer un homme ce n’est pas défendre une doctrine, c’est tuer un homme. Quand les Genevois ont fait périr Servet, ils ne défendaient pas une doctrine, ils tuaient un être humain : on ne prouve pas sa foi en brûlant un homme mais en se faisant brûler pour elle” che consegna l’ “uccidere un uomo non è difendere una dottrina, è uccidere un uomo” come una delle massime pietre miliari non solo della cultura occidentale ma anche (e ci sia concesso per un attimo il peccato dell’universalismo) di tutte le culture dell’uomo.

3 Altro tratto del cristianesimo fondamentale per il Repubblicanesimo Geopolitico per un’ulteriore sviluppo di una Kultur realmente alternativa alle attuali scemenze liberal-liberiste, e cioè il tormentato rapporto del cristianesimo di S. Paolo con la legge civile, è stato affrontato nel nostro “Repubblicanesimo Geopolitico e Katargēsis Messianica” , che è stato pubblicato originariamente per “L’Italia e il Mondo” all’URL http://italiaeilmondo.com/2017/07/29/perche-la-chiesa-cattolica-viene-attaccata-dallonu-di-massimo-morigi/ (WebCite: http://www.webcitation.org/6sMcGBjay e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F07%2F29%2Fperche-la-chiesa-cattolica-viene-attaccata-dallonu-di-massimo-morigi%2F&date=2017-07-31) e che poi è stato anche caricato autonomamente su Internet ed ora è quindi consultabile, oltre che su altre piattaforme, agli URL di Internet Archive https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica_637 e https://ia600809.us.archive.org/25/items/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica_637/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica.pdf .

4 “Anarchy is what States Make of it: The Social Construction of Power Politics” è il titolo di un articolo di Alexander Wendt comparso nel 1992 sulla rivista “International Organization” (Alexander Wendt, “Anarchy is what States Make of it: The Social Construction of Power Politics” in “International Organization”, Vol. 46, No. 2. (Spring, 1992), pp. 391-425), articolo nel quale viene esemplarmente esposto quell’approccio costruttivista che ha rivoluzionato la dottrina delle relazioni internazionali e che ha profonde affinità con l’impostazione dialettico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico. L’articolo è ora anche consultabile su Internet, oltre altre piattaforme, all’URL https://people.ucsc.edu/~rlipsch/migrated/Pol272/Wendt.Anarch.pdf , mentre per l’importanza per il Repubblicanesimo Geopolitico del costruttivismo di Alexander Wendt, oltre a vedere “Repubblicanesimo Geopolitico. Alcune delucidazioni preliminari”, pubblicato prima sul “Corriere della Collera” all’ URL https://corrieredellacollera.com/2013/11/23/alla-ricerca-dellidentita-italiana-di-massimo-morigi/ e ora anche sull’ “Italia e il Mondo” all’ URL http://italiaeilmondo.com/2017/03/16/repubblicanesimo-geopolitico-3a-parte-alcune-delucidazioni-preliminari-di-massimo-morigi/ (WebCite: http://www.webcitation.org/6t4eGt59y e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2017%2F03%2F16%2Frepubblicanesimo-geopolitico-3a-parte-alcune-delucidazioni-preliminari-di-massimo-morigi%2F&date=2017-08-29), si rinvia, more solito, per la “dialettizzazione” del costruttivismo wendtiano alle prossime “Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico”.

5 Proseguendo con gli ignobili giochi di parole, ma per certe situazioni e certi uomini non si può sprecare troppa intelligenza, dopo l’indegno discorso di re Filippo VI di Spagna in seguito alla brutale e bestiale repressione in Catalogna per un referendum definito incostituzionale (ma ammesso e non concesso che lo fosse, sarebbe bastato non riconoscerne il risultato, cercando di non farlo svolgere si denuncia la propria coda di paglia e, comunque, ne viene posto, de facto, un sigillo di legittimità se non giuridica certamente politica), ora per le vicende di Spagna al “compelle legnare” bisogna anche associare un “compelle regnare” (o, con (in)felice sintesi “per regnare compelle legnare”: comunque, non si sa bene ancora per quanto, visto che la giustificazione di un’istituzione anacronistica come la monarchia nei regimi a c.d. democrazia rappresentativa si giustifica proprio per essere una voce , in ragione della sua natura non elettiva e quindi non sottoposta ad alcuna spinta elettoralistica, volta unicamente alla concordia del popolo, al di sopra delle fazioni e contro ogni demagogia – e nel caso della Spagna – delle bestialità autoritarie di leader politici – e degli agenti strategici politico-militari nostalgici del franchismo – che devono rispondere ai peggiori istinti totalitari del loro elettorato …).

6 Il Repubblicanesimo Geopolitico è debitore a Walter Benjamin, oltre alla elaborazione delle “categorie del politico” dell’ ‘iperdecisionismo’ e dello ‘stato di eccezione permanente’ che animano le “Tesi di filosofia della storia” (cfr. sull’argomento i nostri Massimo Morigi, “La Democrazia che sognò le fate (Stato di Eccezione, Teoria dell’Alieno del Terrorista e Repubblicanesimo Geopolitico”) e Id.,Walter Benjamin, Iperdecisionismo e Repubblicanesimo Geopolitico. Lo Stato di Eccezione in cui Viviamo è la Regola”, entrambi lavori pubblicati sull’ “Italia e il Mondo” e consultabili anche su varie piattaforme Web), anche del suo particolare messianismo, non rivolto verso un imprecisato futuro ma inteso a salvare quanto nel passato era stato cacciato ai margini della storia ed oppresso. A questo proposito Benjamin creò la metafora del “balzo di tigre nel passato”. Nella Weltanschauung del Repubblicanesimo Geopolitico, questo messianico “balzo di tigre nel passato” si tramuta in un’ epifania strategica che per realizzarsi si pone l’obiettivo di una Kultur non statica ma sempre in fieri , attraverso la quale vengano recuperate e rese strategicamente operative e vincenti tutte quelle situazioni e (fallite) soluzioni che nel passato appartennero agli agenti omega-strategici: «La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è costituito dal tempo omogeneo e vuoto, ma da quello riempito dall’adesso. Così per Robespierre l’antica Roma era un passato carico di adesso, che egli estraeva a forza dal continuum della storia. La rivoluzione francese pretendeva di essere una Roma ritornata. Essa citava l’antica Roma esattamente come la moda cita un abito d’altri tempi. La moda ha buon fiuto per ciò che è attuale, dovunque esso si muova nel folto dei tempi lontani. Essa è il balzo di tigre nel passato. Solo che ha luogo in un’arena in cui comanda la classe dominante. Lo stesso salto, sotto il cielo libero della storia, è il salto dialettico, e come tale Marx ha concepito la rivoluzione.»: Walter Benjamin, tesi n. 14 di “Tesi di filosofia della storia”.

14° Podcast _ Trump non va dove lo porta il cuore, di Gianfranco Campa

La vecchia talpa continua a scavare. I centri di potere americani dominanti hanno ripreso in mano le leve del Governo; quelle del governo, non quelle di potere. Queste ultime sono sempre rimaste fondamentalmente sotto controllo. Non sembrano in grado di determinare il consenso e la coesione necessaria a dare forza, rispettabilità e motivazioni alle loro intenzioni. Segno di una strategia inadeguata a garantire nel tempo la supremazia all’esterno e una rappresentazione dell’interesse nazionale appena dignitosa e credibile al proprio interno. Da qui l’erosione interna dei partiti politici americani; di quello repubblicano ma, come vedremo nei prossimi podcast, anche di quello democratico. Gli ultimi avvenimenti in Alabama e in Tennessee sono il prodromo. Alcuni centri in competizione, vedi i cinesi, sembrano accorgersi del fiume sotterraneo. La quasi totalità di quelli europei, aggrappati ostinatamente e ciecamente ai vecchi equilibri, rischiano ancora una volta di essere spiazzati. Dovranno perfezionare ulteriormente le loro qualità di camaleonti._ Giuseppe Germinario

Massimo Morigi a proposito del “podcast-episode-13_ Lo SMARRIMENTO DEI VINCITORI, di Gianfranco Campa”

Un lungo commento di Massimo Morigi  al podcast sulle vicende presidenziali americane, ma con un occhio all’uomo “forte” del recente passato d’Italia

http://italiaeilmondo.com/2017/09/24/httpssoundcloud-comuser-159708855podcast-episode-13/

 

«Dell’ “eroe”, sia pure popolare, nel senso emersoniano Mussolini ebbe ben poco (come ben poco ebbe del vero uomo di Stato, mentre indubbiamente fu un notevole uomo politico); in tutti i momenti nodali della sua vita gli mancò la capacità di decidere, tanto che si potrebbe dire che tutte le sue decisioni più importanti o gli furono praticamente imposte dalle circostanze o le prese tatticamente, per gradi, adeguandosi alla realtà esterna, il che non sembra poi molto diverso. Per molti aspetti fu piuttosto, per usare un suo pseudonimo giovanile, l’homme qui cherche e non l’ homme qui va e trovò la sua via giorno per giorno, senza avere una idea di dove sarebbe arrivato, ma “sentendo” da vero politico, quale fosse la propria direzione. Sotto questo profilo bene ci pare lo abbia capito Maurras quando scrisse nel suo Dictionnaire: “[in C. Maurras, Dictionnaire politique et critique, III, Paris 1932, p.124, nota bibliografica dal testo citato]:Mussolini ne procède pas en doctrinaire idéologue. L’expérience le conseille, il en suit la leçon, soucieux, au jour, de restaurer le nécessaire, nullement ambitieux de précipiter les éléments politiques et sociaux à la manière d’une pâte dans un gaufrier. Néanmoins, si lâche et flottant, ou même dissolu que son dessein puisse paraître, il a une suite et un ordre, il laisse en se développant une trajectoire, et les observateurs sont bien obligés de se dire que tout cela se tient.”» : Delio Cantimori, prefazione a Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario. 1883-1920, Torino, Einuadi, 1994, p. XXIII.

Così il più profondo e tormentato storico italiano del Novecento, Delio Cantimori, nella sua prefazione, si era nel 1965, alla prima edizione del primo volume della biografia di Renzo De Felice su Benito Mussolini, Mussolini il rivoluzionario, volendo rappresentare in pochi icastici tratti la personalità di Benito Mussolini, ci restituiva la rappresentazione di un uomo né genio né demonio ma quella di un personaggio “umano, troppo umano” in cui le debolezze caratteriali venivano celate da un decisionismo di facciata che copriva un vuoto di pensiero e di progetto politico, e in questo non solo troppo umano ma anche troppo italiano, troppo simile a quegli italiani (in questo veramente uguali al di là delle magliette degli opposti schieramenti di destra e di sinistra) dove sia sul piano personale che su quello pubblico pensano che una petizione di principio ed una trombonata retorica possano fare le veci di un serio impegno personale e di una seria preparazione sui problemi pubblici. Al di là dei decenni e delle sideralmente diverse condizioni culturali e politiche, vichiani corsi e ricorsi della storia (ma, ancor più, dell’eterna natura umana, sempre una natura di tipo conflittual-strategico: l’eterno problema è come questa natura viene declinata, se seriamente o in maniera da pagliacci. Insomma la machiavelliana dannata serietà della politica che, se non presa con la dovuta consapevolezza, e questo è uno dei più importanti lasciti del Segretario fiorentino, non solo si ritorce contro chi l’ha così stoltamente concepita ma si tramuta malignamente in una vera e propria crisi di civiltà): nel fresco ritratto di Donald Trump che ci restituisce il tredicesimo podcast di Gianfranco Campa, “Lo smarrimento dei vincitori”, emerge veramente un Donald Trump con tratti terribilmente simili al cantimoriano ritratto di Mussolini. Non una terribile ed onnicalcolante mente dittatoriale (nel caso di Trump, seguendo la vulgata politicamente corretta: un democratico imbevuto di idee fascistoidi) ma piuttosto, un abile, anzi abilissimo politico, che fece del suo principale difetto, la superficialità, la sua principale se non unica arma per la conquista del potere ed una personalità politica dove il decisionismo è una decisionismo completamente di facciata perché la sua unica preoccupazione fu sempre, almeno fino a quando la sua azione di governo ebbe una certa efficacia, quello di una diuturna mediazione fra le varie componenti del fascismo non creando mai una situazione originale e sfruttando costantemente le varie circostanze che gli si presentavano di fronte senza avere mai un approccio veramente creativo (dopo, quando egli pensò di essere veramente un genio non ascoltò più nessuno e a questo punto la sua superficialità unita ad una crescente megalomania lo dannò): comunque tutto si può dire di Mussolini tranne che non fosse un abilissimo uomo politico (nel peggior senso della parola, ovviamente, e in questa sua assenza di “creatività” politica e fortissimo opportunismo e crescente megalomania, vero “padre ignobile” dell’attuale ceto politico antifascista del regime sorto in seguito alla sconfitta militare e che perdura ancora sfacciatamente nonostante che i miti resistenziali abbiano mostrato la loro funzione di “arma di rimozione di massa” dell’esperienza del fascismo) e tutto si può concedere a Mussolini tranne il fatto che fosse uno statista, essendo il significato del suo percorso pubblico e privato la dimostrazione più lampante del suo esatto contrario, il demagogo, specie umana e politica che infesta in egual modo sia le dittature che le c.d. “democrazie”. Continuava Cantimori nel suo ritratto di Mussolini: «Visto in una simile prospettiva lo studio della vita di Mussolini, pur mantenendo tutte le sue peculiarità, assume in un certo senso un valore “tipico”, che può servire a capire non solo l?uomo Mussolini, ma il significato del fascismo stesso, e può costituire anche una sorta di primo specchio del modo e della misura nei quali il socialismo di Mussolini e poi il suo fascismo furono visti e valutati dai suoi contemporanei. È in questa funzione, anzi, che la nostra narrazione della vita di Mussolini procede con una prospettiva, un inquadramento, che potremmo definire “a ventaglio” (allargandosi cioè a mano a mano che gli orizzonti di Mussolini si dilatano e la sua figura assume una portata maggiore sino ad avere un ruolo nazionale ed europeo e, quindi, ad inserirsi in un contesto che non è più locale, di partito, nazionale, ma internazionale), ma contemporaneamente senza precorrere, se così si può dire, i tempi della sua evoluzione e del suo successo. Più che ricorrere per lumi e per conferme al poi, insomma, abbiamo di volta in volta preferito attenerci al presente; nel pensiero e soprattutto nell’azione di Mussolini è possibile infatti riscontrare, per dirla con Maurras, uno sviluppo, una traiettoria che hanno una loro logica precisa; voler vedere però in certe “svolte”, in certe “scelte” della vita di Mussolini la consapevolezza che esse lo avrebbero portato a certe soluzioni, a certi obbiettivi a lungo raggio ci sembra non solo arbitrario, ma tale da distorcere i fatti e la loro comprensione: si finirebbe per fare di Mussolini l’ homme qui va e quindi per non capire più il vero significato degli avvenimenti attraverso i quali egli pervenne al successo e per ridurre tutte le altre figure ad un ruolo subalterno, a manichini messi nel sacco da un mago istrione e non piuttosto a considerarle più correttamente come altrettanti protagonisti di una vicenda che – bene o male – ha corrisposto al momento di crisi della società liberale postunitaria e al realizzarsi (tra incertezze, sbandamenti ed errori, dovuti appunto alla grandiosità e alla novità di questa trasformazione e all’imponenza della posta in gioco) di una nuova società politica di massa.»: Ivi, pp. XXV-XXVI.

Dai podcast di Gianfranco Campa per “L’Italia e il mondo” emerge “un inquadramento a ventaglio” della vicenda di Donald Trump, una ricognizione che dalla puntuale individuazione delle caratteristiche “umane, troppo umane” del personaggio Trump si allarga alla profonda conoscenza di tutti i protagonisti e comprimari culturali, politici, economici e militari che avversandolo (la stragande maggioranza) o favarendolo (sarebbe meglio dire: creandolo) stanno dando origine all’attuale micidiale scontro strategico all’interno dell’attuale establishment americano. E in questo tumultuoso quadro magistralmente e puntualmente – ma anche con profondi e cupi tratti espressionistici – rappresentato da Gianfranco Campa, Donald Trump appare sempre più, piuttosto che l’ homme qui va , l’homme qui cherche, un homme qui cherche veramente all’insegna delle parole conclusive di Charles Maurras su Benito Mussolini: “Néanmoins, si lâche et flottant, ou même dissolu que son dessein puisse paraître, il a une suite et un ordre, il laisse en se développant une trajectoire, et les observateurs sont bien obligés de se dire que tout cela se tient.” Il gramsciano “ottimismo della volontà” di Gianfranco Campa, in un’analisi talmente partecipe della situazione politica statunitense quasi da voler diventare uno degli attori dello scontro che rappresenta (ma questo atteggiamento “attivistico” non costituisce una debolezza della stessa ma, dialetticamente, indica anche una precisa moralità politica per chi, anche in Italia, si pone in posizione radicalmente alternativa rispetto all’attuale “stato delle cose” ma non si concede la scorata passività dell’osservatore mussoliniano di Charles Maurras), oltre a fare, tramite il suo realismo, letteralmente piazza pulita della “pappa del cuore” della menzogna del politicamente corretto che infesta pressoché tutti i commentatori, destra o sinistra non importa, quando parlano degli Stati uniti, costituisce anche una precisa traccia per un’autentica moralità politica che ponga le basi per quel gramsciano “moderno principe” che dovrà essere l’esatta antitesi del tipo umano e politico rappresentato da Marraus descrivendo Mussolini. Che, proprio perché simmetrica antitesi, non dovrà avere nulla da spartire e combattere come i principali nemici coloro che respingono Trump perché lo rappresentano come un fascistoide …

Massimo Morigi – 26 settembre 2017

podcast-episode-13_ Lo SMARRIMENTO DEI VINCITORI, di Gianfranco Campa

Può capitare che anche l’uomo politico più ostinato e cinico, ma con ancora qualche residuo anelito di compassione represso nel fondo dell’animo, possa essere indotto ad un moto, magari un semplice cenno, di comprensione e conforto verso il suo più acerrimo avversario. Lo sconforto che ha colto in mondovisione John Kelly, capo di gabinetto presidenziale, proprio nelle fasi più colorite ed impetuose dell’intervento di Trump all’ONU, può spezzare ogni resistenza e senz’altro indurre a questo impulso. Bisognerebbe del resto mettersi, anche se di malavoglia, nei panni dei rappresentanti del vecchio establishment americano, in particolare neocon. Per mesi hanno dovuto metter mano a tutto il proprio arsenale e portare allo scoperto anche gli arnesi più riservati, quelli da esibire più come deterrenza che da mettere all’opera; hanno pregiudicato la credibilità dei mezzi di informazione, della magistratura, dei servizi investigativi e probabilmente di importanti settori delle forze armate, ma alla fine sembrava che fossero finalmente riusciti una volta per tutte ad addomesticare il Presidente riottoso e ad isolarlo dalla congrega di cattivi consiglieri. Ecco invece riemergere senza preavviso il Trump baldanzoso delle origini. E da quale pulpito! Niente meno che dall’assemblea generale dell’ONU; un sinedrio certamente poco produttivo di strategie politiche, ma certamente spettacolare nella funzione di propagazione mediatica e nella costruzione di immagine di un personaggio politico. Durante la sua performance ha rispolverato gran parte del suo repertorio d’antan: “America First”, il Nazionalismo, l’antiglobalismo, l’antimultilateralismo, l’indispensabile funzione dello stato; ha concesso rispetto ed ammirazione agli statisti dediti alla difesa degli interessi nazionali del proprio paese. Con qualche inverosimile acrobazia logica ha sostenuto però la coerenza della propria politica estera e l’incoerenza dei cosiddetti “stati canaglia” e dei loro sostenitori più o meno occulti. Un funambolismo troppo audace anche per i più perspicaci ed aperti interlocutori. La gran cassa dei saccenti, dimentichi delle batoste elettorali, non ha tardato a pontificare sull’inaffidabilità e sull’irrazionalità del Presidente. Faremmo torto alla nostra intelligenza, oltre che a quella di Trump, ad assecondare questa tesi. Gianfranco Campa ci illumina come di consueto sulla ragione principale di questo comportamento, tutt’altro che irrazionale. Trump sa benissimo che il proprio salvacondotto, nell’operazione trasformista ancora in corso, rimane la conservazione di buona parte del consenso del nocciolo duro del proprio elettorato. Il vecchio establishment non vuol capire che strattonature ulteriori rischiano di isolare del tutto Trump e trascinare il paese in un confronto politico interno dalla virulenza paragonabile solo a quella già conosciuta a metà ‘800. Il taglio particolare del discorso, inoltre, è motivato probabilmente da un’altra ragione ancora più imbarazzante; si tratta forse di una volontà manifesta di evidenziare la contraddizione e di chiedere tra le righe comprensione e tregua a quelli che avrebbero dovuto essere i suoi interlocutori privilegiati, primo fra tutti Putin, di una politica estera meno interventista e più condivisa. L’inerzia delle attuali dinamiche geopolitiche rende però pressoché impossibili ulteriori prove d’appello. Lavrov, ciò non ostante, ha dichiarato apertamente che “l’attuale incoerenza della politica estera americana” è la conseguenza delle numerose trappole disseminate dalla vecchia amministrazione Obama ai danni del nuovo presidente. Anche su questo Gianfranco Campa è stato particolarmente lucido in un articolo precedente http://italiaeilmondo.com/2017/03/09/sotto-la-copertura-delle-tenebre-di-gianfranco-campa/  _ Giuseppe Germinario

DEUTSCHLAND ÜBER ALLES?, di Giuseppe Germinario (versione integrale)

trump-merkelI DUE PROTAGONISTI

Di Donald Trump temo che continueremo ancora per mesi se non anni a sorbirci soprattutto i resoconti dettagliati dei suoi difetti o sedicenti tali; dalla maldestra improvvisazione alla ruvidità di modi, dall’affettata eleganza alla volubilità di giudizi, alla rozza ignoranza. Con il nobile intento di salvaguardare l’umanità da questo flagello, i campioni dell’informazione democratica, in particolare il NYT (New York Times) e il WP (Washington Post), dimentichi delle restanti cose del mondo, stanno da tempo concentrando la totalità degli sforzi in questa missione piegando ad essa fatti, realtà e soprattutto deontologia professionale. Con la stessa dedizione, ma con evidente minore fatica, gli innumerevoli corifei dell’informazione europea, pervasi da certezze assolute, non fanno altro che spandere a cuor leggero veline e veleni propinati dai capostipiti. Eppure almeno una caratteristica del Presidente Americano dovrebbe accomunare il giudizio dei pochi fautori e dei tanti detrattori del suo prominente impegno: la capacità di scatenare l’aperto spirito bellicoso anche nelle personalità più prudenti e discrete; tra queste, senza dubbio il Cancelliere tedesco.

Di Angela Merkel, nella vicenda delle intercettazioni americane delle sue conversazioni telefoniche, abbiamo apprezzato la capacità di accettare dal versante amico le peggiori intrusioni e umiliazioni senza alcun pregiudizio dei rapporti, in particolare quelli con Obama e senza apparenti sussulti di orgoglio; nella vicenda del milione di profughi siriani, invece il suo spirito di accoglienza talmente ecumenico da equivocare sulle profferte amorose del branco senza autorizzazione delle interessate, salvo cercare di rifilare con discrezione gran parte degli ospiti ai paesi vicini una volta constatata la loro difficoltà di inserimento e la loro preparazione professionale evidentemente non all’altezza delle aspettative; nella vicenda delle contraffazioni dei dati di emissione degli scarichi delle auto tedesche, abbiamo apprezzato la difesa pur tardiva dello spirito puritano a scapito forse dell’immagine di efficienza del sistema industriale e dei sistemi di controllo tedeschi. Il meglio della sua valenza di amministratrice, almeno sino a pochi mesi fa, è emerso nella vicenda del collasso della Grecia quando con mirabile quadratura è riuscita a conciliare l’aura puritana del rigore contabile con il trasferimento sui bilanci pubblici degli stati europei di gran parte delle esposizioni bancarie tedesche verso quel paese, con il consolidamento dei profitti finanziari delle stesse sul debito restante, con l’acquisizione di buona parte della rete logistica greca e, ciliegina sulla torta, con la vendita a caro prezzo all’esercito ellenico di residuati bellici presenti nei depositi della Bundeswehr. Si sa che le trattative politiche riservano come corollario quasi sempre il lato oscuro della meschinità. Nella graduatoria degli inperturbabili la statista tedesca non detiene certo l’esclusiva, di sicuro è in posizione di ascesa. Tra gli innumerevoli esempi, gli allora Generale Wesley Clark e Segretaria di Stato Madeleine Albright si concessero come bottino della missione umanitaria in Jugoslavja una partecipazione azionaria delle società minerarie del Kosovo; la stessa pletora di funzionari, accademici ed economisti americani e tedeschi accorsi al capezzale della moritura URSS e della nascitura Russia di Boris Eltsin ottenne di scambiare le proprie disinteressate consulenze con una partecipazione attiva al saccheggio di quel paese; per non parlare delle cointeressenze in Ucraina. Anghela, come un re Mida dei nobili principi, è riuscita a trasformare anche la meschinità in rigore risanatorio, sempre però con un profilo dimesso e discreto; da pudico comportamento collaterale a qualità volta al bene pubblico.

UN CONFRONTO PREMATURO

Durante il G7/G20 avviene inopinatamente la sua metamorfosi e la consacrazione da Maria Maddalena del cenacolo europeo ad angelo giustiziere dell’attentatore all’ordine mondiale.

Sono bastati pochi mesi dal gelido saluto al non ancora insediato Presidente Americano, alla imbarazzata visita a Washington per finire con la contrapposizione al G7 per passare da una immagine di capo di governo in verità un po’ dimesso, tutt’al più abile ad agire nell’ombra, a quella di statista orgoglioso in grado di contrapporsi apertamente al neopresidente e, aspetto ben più rilevante, di trasformare la Germania da paese in grado di approfittare in maniera surrettizia delle opportunità della globalizzazione a nazione paladina di questa virtù o in alternativa, secondo le interpretazioni, in grado di contrapporsi, assieme alla Cina, alla prepotenza e all’unilateralismo americano.

Da allora è tutto un fiorire di letteratura e di tesi sul destino manifesto di un paese, inesorabilmente portato a scontrarsi con la nazione egemone; quello che divide i sostenitori riguarda il probabile esito finale dello scontro, ma confronto comunque dovrà essere.

La redazione di Limes, autrice di una per altro pregevole monografia sull’argomento, è la portabandiera più autorevole di questa tesi.

Sono sufficienti pochi atti politici pubblici, concentrati in poche settimane, in aggiunta magari al proposito proclamato di costruzione di un sistema diplomatico e di difesa europei autonomo dagli USA, per promuovere l’attendibilità di una svolta politica così straordinaria?

Già la dinamica e la successione dei recenti eventi da adito a parecchi dubbi.

Intanto il tampinamento postpresidenziale di Obama e l’accoglienza trionfale a lui riservata a Berlino, all’esponente quindi che, assieme a Hillary Clinton, suo successore designato, ha cercato ostinatamente di arginare la tendenza al multipolarismo e di destrutturare gli stati viziati da proprie ambizioni autonome, svelano i legami inestricabili di dipendenza e compromissione con il vecchio establishment nonché le aspettative di ripristino dello “statu quo ante” del cancelliere tedesco. Il veemente appello alla crociata in difesa dell’accordo sul clima di Parigi e del libero mercato globalizzato sventolato al G7 di Taormina, ha mostrato per altro subito la corda al G20 di appena due mesi dopo lasciando in mano alla Merkel un vessillo ridotto ad un cerino consunto con alle spalle truppe scarse e poco convinte a difenderlo. Si potrebbe interpretare come un modo spregiudicato di condurre una danza del quale si possiede il filo conduttore della musica. Più che una condottiera dotata di forza propria in realtà si è rivelata lo strumento di uno schema più grande e complesso giocato per lo più Oltreatlantico. Lo stesso pulpito si è rivelato poco attendibile vista la recente propensione della Germania a limitare le acquisizioni cinesi in Europa rivelando così una evidenza chiara ancora a pochi eletti: il confronto sul libero mercato è una battaglia per determinare regole commerciali più favorevoli ad una o l’altra delle formazioni socieconomiche e ai loro centri dominanti all’interno di logiche geopolitiche operanti all’interno ma non riducibili ad un mero o assolutamente prevalente confronto economico. Una riduttivismo invece che ancora prevale oppure tende a riaffiorare surrettiziamente in gran parte delle tesi, anche nella monografia di Limes.

UN APPROCCIO EVENEMENZIALE

L’approccio evenemenziale presente in gran parte degli studi e soprattutto nella divulgazione mediatica tende a focalizzare e spettacolarizzare un particolare duello a discapito degli altri e dello sguardo d’insieme. Il tentativo stesso di Trump di reimpostare in maniera bilaterale i rapporti e le relazioni tra gli stati può indurre ad accentuare tale interpretazione particolaristica. Un tentativo che se inteso come strategia può trascinare alla rovina gli Stati Uniti e favorire uno sviluppo caotico e gravido di incognite del multipolarismo, ma con qualche possibilità in più, per le potenze intermedie, di assumere una propria peculiare fisionomia. In realtà l’adozione del modello di relazioni bilaterali è del tutto irrealistico e fuorviante perché prescinde dal naturale gioco di alleanze che si dipana nel conflitto politico e il cui successo presuppone proprio ciò che l’attuale svolta politica sta sentenziando inappellabilmente: l’inesistenza di un centro dominante indiscusso. Esso conduce in pratica alla stessa sterilità di chiavi interpretative del concetto di globalizzazione fondato sul movimento atomistico dei singoli agenti sul mercato e sul declino inesorabile del ruolo degli stati nazionali. Se adottato altrimenti come espediente tattico, come da probabile intendimento di Trump, può servire ad una destrutturazione del sistema attuale di relazioni in vista di una ricostruzione più controllata delle sfere di influenza, ma a determinate condizioni: che gli attori in grado di condurre il gioco siano limitati, che riconoscano una reciproca legittimazione e che abbiano un’idea sufficientemente precisa della delimitazione delle sfere di influenza. In un modo o nell’altro si tratta di un processo ormai irreversibile rispetto al quale la classe dirigente dominante tedesca sembra molto più temere le incognite ed apprezzare le attuali rendite di posizione che cogliere le incerte opportunità.

Profetizzare, come prevede la redazione di Limes, uno scontro aperto tra Stati Uniti e Germania pare quantomeno prematuro se non azzardato. E infatti, ad eccezione dei contributi esterni in realtà molto più cauti, gli articoli dei redattori suffragano la tesi sulla base di stereotipi ormai consunti.

Da una parte cerca di fondare l’ineluttabilità del conflitto sulla base dell’incompatibilità tra le due culture. In realtà la storia offre innumerevoli esempi di conflitti atroci e di durature alleanze tra paesi e centri strategici dalle culture difficilmente compatibili. Gli stessi Stati Uniti hanno combattuto almeno tre guerre aperte con il paese a loro culturalmente più affine, il Regno Unito. Negli Stati Uniti, lo rivela la stessa rivista, la componente più numerosa è appunto quella di origine tedesca e la sua cultura ha impregnato pervasivamente la formazione politica e sociale americana, pur affermando in esse una scarsa capacità lobbistica. Paradossalmente, secondo i redattori, una stessa identità culturale avrebbe quindi contribuito decisivamente a determinare la costruzione di una nazione e della sua classe dirigente e nel contempo l’ineluttabile conflitto con il paese di origine di quel ceppo, costituitosi in stato nazionale. Una tesi, quindi, fuorviante, versione edulcorata del più famoso ed altisonante conflitto di civiltà teorizzato da Huntington.

Dall’altra cerca di spiegare la dinamica inesorabile di questo conflitto attraverso il confronto asimmetrico tra il peso e la forza economica crescente del paese europeo e la pervasività e la forza politica di quello americano. Una dinamica che tenta di spiegare non solo le modalità del conflitto tra i due paesi ma anche la natura del dilemma che dovranno risolvere le classi dirigenti degli altri paesi, in particolare quello dell’Italia, di fronte alla alternativa posta della alleanza strategica con uno o l’altro dei contendenti. Un confronto quindi tra il peso militare, la capacità diplomatica e la pervasività dei servizi di intelligence da una parte e la solidità finanziaria, la capacità produttiva e la potenza commerciale dall’altra.

Una chiave esplicativa più sofisticata della prima, ma altrettanto fuorviante e non priva di evidenti punti oscuri e vere e proprie omissioni.

8maggio1945germania-770x300LA RIMOZIONE DI UN EVENTO EPOCALE

Entrambi i limiti interpretativi pagano lo scotto di una rimozione o, nel migliore dei casi, di una valutazione del tutto parziale delle implicazioni di un evento politico epocale cruciale: la sconfitta militare, l’occupazione territoriale, la distruzione di un regime istituzionale, per altro odioso, la riduzione e lo smembramento territoriale della Germania.

La dimensione catastrofica di quella resa consentì ai due vincitori, l’URSS e gli USA, di decidere delle sorti di quel paese. Per quel che ci riguarda più direttamente, in quanto forza di occupazione gli Stati Uniti determinarono il carattere federale oltre che parlamentare del regime nella sua parte sud-occidentale, il suo carattere antisovietico, la limitazione drastica delle forze armate, in particolare quelle terrestri e l’infiltrazione e l’organizzazione delle principali istituzioni e sistemi.

Il carattere di occupazione di quella presenza non ancora risolto definitivamente nemmeno dagli accordi che hanno sancito negli anni ‘90 l’unificazione tedesca.

Una modalità di dominio non risolvibile con il controllo di una parte limitata delle élites dominanti del paese sconfitto e con azioni complottistiche tese a determinare direttamente le azioni dei vertici politici; piuttosto una azione altamente sofisticata e persuasiva tesa soprattutto ad orientare ed indurre, addirittura a creare delle dinamiche inerziali capace di attirare e integrare progressivamente in un sistema occidentale le varie formazioni sociali e i vari stati nazionali caduti nella rete dei liberatori. Un sistema fortemente attrattivo, capace nel rispetto delle gerarchie fondamentali, di offrire sviluppo ed una relativa libertà di azione, ma proprio per questo ancora più pervasivo. In questa trama la Germania Federale ha assunto un ruolo importante, superiore alle stesse aspettative delle élites tedesche emerse dalla sconfitta militare, in parte per merito proprio, soprattutto per scelta del vincitore. Accantonate rapidamente le tentazioni, vellicate soprattutto da Francia e Regno Unito, di ridurre il paese ad una condizione preindustriale, senza nulla cedere sulla capacità di controllo, si optò per un rapido sviluppo che stabilizzasse un paese alleato ai confini cruciali della propria zona di influenza, contribuisse economicamente e produttivamente al sostegno della macchina bellica e neutralizzasse le residue ambizioni egemoniche di Francia e Gran Bretagna. Il pegno da pagare in termini di sovranità fu estremamente pesante con un sistema di controllo e infiltrazione particolarmente intricato e insindacabile, per altro sancito, che riguardava non solo l’intelligence e le forze armate, ma anche il sistema politico, amministrativo e comprendente anche, un aspetto del tutto ignorato dai redattori di Limes come da gran parte dei giornalisti e studiosi, gli organi di informazione e le strutture economiche.

In settant’anni le cose possono cambiare; ma non è questo, sostanzialmente, il caso della Germania.

Le tentazioni e qualche timido e sporadico tentativo di affrancamento non sono certo mancati. Durante la guerra fredda il tentativo più coerente fu portato avanti negli anni ‘70 con l’ “oestpolitik”. Si trattò in realtà di una “interpretazione” troppo estensiva del processo di distensione, più che altro un riconoscimento meno precario delle rispettive zone di influenza, inaugurato dalle due superpotenze. Per ricondurre alla mansuetudine nell’ovile della pecorella inquieta, agli americani fu allora sufficiente assecondare i timori francesi di un rigurgito delle ambizioni tedesche e la loro conseguente improvvisa conversione all’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità Europea e innescare una politica di riarmo missilistico. Con la crisi e la caduta del blocco sovietico si presentò un contesto apparentemente più favorevole a vellicare ambizioni più audaci.

SUSSULTI DI EGEMONIA

Il tentativo più organico e strutturato avvenne nella seconda metà degli anni ‘80 quando, percepita la crisi imminente del blocco sovietico e forte dei legami più o meno circospetti stretti con quella parte della loro classe dirigente legata al commercio e al finanziamento del debito estero, una parte dell’establishment tedesco tentò per alcuni anni di organizzare e sostenere il sistema bancario dei paesi dell’Est-Europa per favorire la ristrutturazione economica e salvaguardare buona parte di quella classe dirigente. Fu l’atto e il momento che suscitò, nei confronti dell’élite tedesca, le stesse premure dedicate a quella italiana. Il luogo di raccolta degli accoliti fu diverso; con gli uni si scelse il Panfilo di Sua Maestà, al largo di Roma; con gli altri un più modesto albergo bavarese. Anche il numero di convitati differiva; ben più numeroso sulla prestigiosa imbarcazione, limitato a meno di dieci persone nel gasthof. Non si è trattato, probabilmente, di un mero omaggio alla italica convivialità rispetto alla proverbiale essenzialità teutonica; deve aver influito la diversa funzione che i comprimari, inglesi nell’una e francesi nell’altra, hanno assunto nell’iniziativa; soprattutto, è stata la perdurante e progressiva frammentazione politica ed istituzionale dell’Italia rispetto alla Germania a determinare le diverse caratteristiche dell’iniziativa, i diversi sviluppi e gli esiti opposti pur in una comune riconfigurazione della subordinazione politica all’alleato d’oltreatlantico.

Il tentativo più intraprendente fu posto in atto durante la guerra civile in Jugoslavia conclusasi, al momento, con la frammentazione di quel paese e con una conflittualità latente pronta a riemergere. L’iniziale spinta propulsiva alla divisione fu data soprattutto dalla Germania sino ad essere rapidamente assorbita pur con qualche attrito significativo da quella americana. L’evento bellico rappresenta comunque una svolta significativa che vede il gruppo dirigente egemone in Germania passare da una politica di cooptazione e sostegno delle vecchie classi dirigenti riformate dei paesi del blocco sovietico ad una di progressiva aperta ostilità verso la Russia e tesa a favorire la liquidazione delle stesse nei paesi dell’Europa Orientale e nei Balcani. Una scelta indubbiamente vantaggiosa nell’immediato perché ha consentito di riprendere e perseguire una politica di influenza ed integrazione economica esattamente lungo i corridoi tracciati dai colonizzatori tedeschi nel corso dei secoli sino alla metà del ‘800 senza dover contestare i legami di subordinazione con lo stato egemone americano e indebolendo vistosamente la posizione politica ed economica dei due altri grandi paesi fondatori della UE, la Francia e l’Italia. Una scelta deleteria dal punto di vista strategico nel caso la Germania dovesse aspirare ad una maggiore e decisiva autonomia politica che richiedesse un avvicinamento duraturo e stabile alla Russia di Putin proprio perché troverebbe nei più importanti paesi dell’Europa Orientale e della penisola scandinava i più fieri oppositori a tale svolta con scarse possibilità di un loro ricambio con centri politici più duttili.

I messaggeri in quell’albergo bavarese devono evidentemente essere stati particolarmente persuasivi anche se assecondati dalle circostanze propizie della morte violenta dei due nuovi paladini della ostpolitik, Herrhausen di Deutsche Bank e Rohwedder di Treuhandanstalt.

Da questi due eventi a cavallo della riunificazione si è dipanata la condizione di un paese ormai al centro di attenzioni e sospetti, ma incapace di una politica assertiva capace di aggregare forze e in grado tutt’al più di neutralizzare e fiaccare le forze di potenziali rivali nel campo “amico” europeo.

Negli ultimi venti anni i pochi atti politici autonomi di quella classe dirigente sono consistiti nella non partecipazione ufficiale alle avventure militari, in particolare Libia ed Iraq, salvo garantire efficacemente, ma in modo discreto, i propri servizi logistici e di intelligence come avvenuto in Libia. Per il resto si è rifugiata in annunci velleitari, quali la creazione di una forza militare congiunta e integrata con i francesi, miseramente fallita o nel perseguimento classico di una politica di influenza a rimorchio nel vicinato, come avvenuto in Ucraina, con grave pregiudizio delle relazioni con i russi o nel supporto opportunistico e lucrativo alla destabilizzazione specie nel Grande Medio Oriente. La Germania, infatti, lemme lemme risulta costantemente tra i primi fornitori ufficiali di armi e munizioni dei Sauditi, impegnati in Yemen, dei Giordani e della pletora di governi a supporto delle primavere.

I LIMITI STRUTTURALI

Una fondata e non frettolosa elezione della Germania a protagonista geopolitico e antagonista naturale degli Stati Uniti non può prescindere da una analisi della condizione strutturale del paese.

La particolare struttura federale già dibattuta nelle università americane a partire dagli anni ‘30 e imposta nel regime di occupazione assegna importanti competenze di politica estera ai laender in cooperazione e spesso in conflitto tra loro e con lo stato centrale, indebolendone di fatto coerenza e incisività. Un esempio significativo si può trarre dal ruolo decisivo assunto dal Governo Bavarese nella fomentazione della guerra civile in Jugoslavja e nella capacità di trascinare altre regioni di stati confinanti su questo indirizzo in opposizione alle direttive dei rispettivi stati nazionali. Una organizzazione istituzionale che riesce comunque a mantenere una propria operatività grazie al ruolo unificante delle grandi associazioni verticali entro le quali si compongono gli interessi lobbistici e gli indirizzi di buona parte dei centri decisionali.

A garantire, più che la coerenza, l’incisività di una struttura così articolata fa difetto però l’estrema permeabilità delle strutture di intelligence e degli apparati coercitivi e di controllo, il retaggio più pesante della disfatta militare e del conseguente regime di occupazione. La vicenda delle intercettazioni americane ai danni della Cancelliera ha semplicemente rivelato il livello di integrazione ed infiltrazione dei servizi tedeschi con quelli americani; la susseguente rimozione del responsabile, più che la volontà una riorganizzazione e una depurazione delle strutture, ha rivelato la stizza di un capo politico per la pubblicità imbarazzante di quei segnali di attenzione. Per il carattere di riservatezza insito, i Servizi di Sicurezza sono particolarmente vulnerabili; la permeabilità, comunque, investe un po’ tutti gli apparati coercitivi e sanzionatori dello stato germanico, compreso quello militare ancora particolarmente debole.

Una chiosa a parte merita il sistema di informazione, quasi del tutto allineato all’ortodossia atlantica. Con l’eccezione di alcune testate nazionali a tiratura limitata ed alcune testate locali il livello di controllo del sistema mediatico è impressionante. Una capacità di indirizzo delle testate e di legame diretto con singoli giornalisti. È del resto notoria la meticolosità con cui i vari centri strategici americani curano le relazioni con i media istituzionali. Le campagne giornalistiche e la manipolazione dell’opinione pubblica sono sempre stati strumenti propedeutici al conflitto politico, al condizionamento dei centri e all’eliminazione degli avversari, anche se la diffusione dei network on line ha in parte facilitato la possibilità di centri politici alternativi e ridefinito le modalità di manipolazione dell’informazione. In Germania, nella fattispecie, colpisce il fatto che la componente più orientata ad una politica autonoma con la Russia, un tempo significativa, trovi sempre meno spazio mediatico e non riesca ormai da anni a creare una opinione pubblica favorevole a sostegno delle proprie scelte.

La chiave di lettura determinante per individuare il peso reale della Germania e la sua collocazione nelle dinamiche geopolitiche riguarda però il ruolo dell’economia nello stabilire il peso strategico e la condizione conflittuale di un paese.

Chi attribuisce alla Germania un ruolo di protagonista assoluto, di competitore e di antagonista di prim’ordine tende ad attribuire più o meno esplicitamente all’economia, nel migliore dei casi ai rapporti sociali economici, il ruolo preponderante e sovradeterminante gli altri ambiti delle attività umane, compresa quella politica, solitamente assumendo il seguente canovaccio.

UNO SCHEMA INTERPRETATIVO LIMITANTE E FUORVIANTE

La capacità di potenza si esprimerebbe soprattutto attraverso il peso economico; il campo preponderante di esercizio della competizione sarebbe il mercato; l’esercizio della potenza si realizzerebbe soprattutto attraverso la capacità commerciale; la sua misura si pondererebbe attraverso i dati macroeconomici del PIL, del saldo commerciale, degli attivi finanziari, nel migliore dei casi anche della presenza preponderante nel settore dei beni di consumo di massa più evoluti e durevoli. Scelte politiche non corrispondenti alla condizione economica sono considerate illogiche, sbagliate o semplicemente degli accidenti della storia destinati a rientrare o a determinare la sconfitta dei soggetti promotori.

Uno schema fuorviante sia in termini generali che affrontando una analisi della condizione della particolare economia tedesca.

Si può partire dalla constatazione che i mercati tengono conto e tendono a conformarsi progressivamente alle sfere di influenza politiche in via di formazione proprio perché gli attori economici privilegiano le condizioni di maggiore stabilità; le stesse grandi aziende, ormai da alcuni anni, tendono a riassumere il controllo diretto della verticale delle filiere produttive seguendo le condizioni di sicurezza politica. In una fase nella quale la leva economica, sotto forma di condizioni di finanziamento ed investimento e di apertura del mercato, di controllo tecnologico, addirittura dei prezzi in numerosi settori specie strategici, viene utilizzata non solo per condizionare, ma come strumento diretto di sanzione e conflitto, la funzione della politica emerge dalla maschera della competizione puramente economica tra gli attori.

Ma il politico, nella sua accezione di essenza, di caratteristica intrinseca, trova il modo di agire in maniera ancora più “subdola” nell’ambito economico; un esempio può essere l’invenzione, l’adozione, l’applicazione su base industriale e la padronanza delle tecnologie.

In Cina, ad esempio, il tentativo imponente di assumere la creazione e la padronanza delle tecnologie, uno dei fondamenti utili a garantire l’autonomia, l’autorevolezza e l’indipendenza delle decisioni della classe dirigente di un paese, passa anche attraverso lo scontro tra i sostenitori dei grandi colossi industriali, eredi delle imprese statali del periodo “socialista”, di fatto ancora sotto controllo politico diretto, e l’ampio settore di medie e piccole aziende, presenti nel sudest del paese molto più dipendenti dalle tecnologie e dai moduli organizzativi occidentali. Nel recente passato è sufficiente rispolverare alcuni casi, l’Olivetti in Italia e il sistema di motore a reazione Arrow in Canada tra i tanti, per constatare che la capacità tecnologica ed organizzativa di una azienda possono determinare gli standard di un mercato solo all’interno di contesti conformati politicamente.

Il mercato, infatti, rappresenta un’area, un campo di azione governato da un insieme di regole di natura politica, frutto di imposizioni e mediazioni, entro il quale agiscono gli attori economici; la rottura e la modifica di queste ultime comporta inevitabilmente ed intrinsecamente atti politici.

L’immagine che ancora si offre del mercato è invece troppo spesso fuorviante e semplicistica.

Il mercato globale viene rappresentato come una rete con un centro regolatorio indefinito e indefinibile; il suo innegabile sviluppo è però artificiosamente amplificato dalla frammentazione politica degli stati che ha trasformato in commercio estero gran parte degli scambi interni degli stati nazionali antecedenti il crollo del blocco sovietico; la sua rappresentazione glissa sull’esistenza e il rafforzamento al suo interno di aree, settori e blocchi attraverso i quali, tra l’altro si veicolano le influenze politiche.

La stessa raffigurazione degli organismi internazionali preposti alla regolazione di esso nasconde il fatto che tali regole non sono affatto neutrali e soddisfacenti in egual misura i vari attori, ma anche, più prosaicamente, che ammettono innumerevoli deroghe, omissioni, clausole particolari e comportamenti discriminatori che lasciano sospettare il peso politico differente dei paesi nella conduzione.

Gli esempi più clamorosi riguardano probabilmente il diverso trattamento riservato a Russia e Cina nei tempi di adesione agli organismi nonché nelle modalità e nella qualità dei trasferimenti di tecnologia occidentale; come pure il diverso trattamento riservato alle cosiddette Tigri Asiatiche e alla Corea del Sud rispetto ad alcuni paesi del Sud-America.

UNA RAPPRESENTAZIONE PIU’ ESAUSTIVA

Questo schema consente, probabilmente, una valutazione più realistica e meno enfatica del peso economico sia intrinseco che rispetto agli altri ambiti dell’azione politica nel determinare la forza geopolitica della Germania e, soprattutto, nel determinare i passi e le condizioni necessari a garantire la sua emersione come attore politico più autonomo.

 hermannsdenkmalLa Germania, a partire dalla fine degli anni ‘80, al pari di tutti i paesi, ha avviato un processo di profonda trasformazione economica concomitante e favorito dalla sua nuova collocazione geopolitica determinata dall’unificazione seguendo però proprie peculiarità.

Ha salvaguardato ed accentuato il carattere dualistico del suo sistema finanziario trasformando, dopo l’uccisione di Herrhausen, la Deutschbank nella quinta banca di investimento al mondo dedita a servizi di consulenza e alla gestione dei nuovi e più speculativi prodotti finanziari e tutelando dalle intromissioni comunitarie il sistema di banche territoriali a tutela dei sistemi locali economici e sociali.

La difesa ostinata della sua politica restrittiva in ambito europeo non serve soltanto a indebolire i suoi concorrenti economici prossimi, l’Italia e la Francia, ma a difenderla dalle loro debolezze e, sinché possibile, dalle implicazioni più rischiose della sua esposizione nei circuiti finanziari dominati dal sistema angloamericano.

Ha governato con lungimiranza il processo di precarizzazione di larghi settori dell’economia industriale e dei servizi, analogo a quello di altri paesi, compensando parzialmente con il welfare pubblico la regressione socioeconomica di vaste aree sociali.

Ha saputo tutelare e sviluppare alcuni settori di produzione di beni di consumi di massa tradizionali ma relativamente più complessi (automobile, agroalimentare, meccanica) mantenendo il pieno controllo della catena produttiva e di valore e decentrando sapientemente la componentistica nei paesi dell’hinterland più affine non garantendo più la quasi esclusiva del settore all’Italia.

germania_economia_apL’attivo commerciale imponente che ne deriva è il frutto non solo di queste politiche, ma anche di un misconosciuto basso livello di investimenti sia pubblici, in particolare delle infrastrutture del paese, che, con sorpresa, privati rispetto ai più importanti paesi dello scacchiere mondiale. Un livello, specie in quelli pubblici che, protrattosi nel tempo analogamente alla condizione dell’Italia, rischia di pregiudicare le stesse capacità tecniche e tecnologiche di ricostruzione. Un attento esame del campione di immagine tedesco, la Volkswagen, rivela sorprendentemente i punti deboli, sopperiti sino ad ora da una indubbia capacità commerciale, del suo settore privato.

L’economia tedesca, tra l’altro, è pervasa, più degli altri paesi europei dagli investimenti statunitensi in importanti settori così come dipende maggiormente dalle esportazioni in America.

La Germania è senz’altro presente in maniera significativa in alcuni settori importanti come quello dei beni industriali, della meccatronica, della chimica, del software applicato; ma è quasi del tutto assente, al pari degli altri paesi europei, nel settore del controllo e della gestione on line dei dati, fondamentale per il controllo dei flussi e dei comandi operativi nell’industria 4.0.

E’ in difficoltà in altri ambiti strategici, tra i quali l’avionica, l’aeronautica, il gps (Galileo) oggetto di ingenti investimenti soprattutto pubblici, frutto soprattutto di ricerche nell’ambito militare francese, ma pregiudicati dai dissidi di gestione tra i paesi cooperanti o dalle limitazioni nell’uso in ambito militare, frutto a loro volta delle imposizioni e delle premure americane.

Il progetto AIRBUS, gestito da Germania, Francia e Spagna, conosce così una fase di crisi acuta ed improvvisa, alimentata anche dai dissidi di gestione, la quale sta rinfocolando le ambizioni di una direzione avulsa dal controllo azionario e le voci di una possibile acquisizione da parte dell’americana General Electric; il progetto Galileo, invece, dopo anni di faticosa gestazione, avversato dalla stessa Commissione Europea al pari di Airbus, vede intaccato il proprio primato tecnologico dalla inibizione della possibilità di applicazione nell’ambito militare.

Sono solo due degli episodi, questi ultimi, rivelatori della dipendenza politica di quel paese in tutti gli ambiti, a partire ancora una volta da quelli prioritari istituzionali e mediatici.

Ci sarebbe anche da aggiungere le considerazioni sugli effetti della politica comunitaria tesa ad impedire sistematicamente la formazione di colossi industriali paragonabili con quelli americani e ultimamente cinesi, ma solo per constatare che la stessa Unione Europea è propedeutica al mantenimento di questa subordinazione dei paesi dell’intero continente.

LE INTENZIONI E LE POSSIBILITA’ DI AFFRANCAMENTO

Ogni atto politico, compresi quelli di politica economica, della classe dirigente germanica va valutato, quindi, secondo l’intenzione e la capacità di affrancamento da tale situazione.

A tutt’oggi non risultano passi decisivi in questa direzione.

Intanto l’aspirazione ad ottenere un vero e proprio trattato di pace apertamente riconosciuto dagli Stati Uniti e da Francia e Gran Bretagna risulta ancora inevasa a distanza di settant’anni, con tutto quello che implica nei diritti e nella discrezionalità di forze militari ancora di occupazione; dal punto di vista istituzionale del ripristino del controllo effettivo su settori chiave dell’apparato statale lo sforzo appare più di immagine che effettivo; da quello invece del sistema di informazione e di formazione dell’opinione pubblica la situazione risulta ancora peggiorata visto il progressivo declino e l’incapacità persuasiva della residua classe dirigente ancora legata alla Oestpolitik.

La stessa crisi del Partito Socialdemocratico non fa che accentuare questa parabola; le lamentele e le rimostranze recenti della classe imprenditoriale tedesca riguardante l’esposizione eccessiva della Merkel contro la Presidenza di Trump sono per di più legate ai rischi di sanzioni commerciali legate al surplus commerciale.

Le tentazioni per una politica più autonoma ed indipendente certamente non mancano. Più che per forza propria potranno trovare ulteriore alimento dalle evidenti forzature che la politica estera americana, attualmente in fibrillazione, sta operando. Queste ultime, in particolare, ultimamente si stanno esercitando sugli ostacoli alla costruzione vitale del secondo gasdotto Northstream tra Russia e Germania in grado di rafforzare il ruolo di hub europeo e di controllore essenziale delle forniture nel continente e sulle pressioni per un aumento dei bilanci di spesa militare. Un loro significativo incremento potrebbe indurre al rafforzamento di un proprio complesso industriale militare propedeutico alla nascita di una struttura di difesa autonoma; una eventualità, però, in controtendenza con le attuali pulsioni autodistruttive operanti sia in Germania che nella stessa Francia.

Lo stesso progetto di cooperazione militare rafforzata portato avanti ultimamente e strombazzato dalla Germania presenta numerosi aspetti di ambiguità:

  • nasce sulle ceneri dell’ipotesi di integrazione delle forze armate tedesche e francesi fallita ad inizio secolo;

  • punta all’integrazione di paesi (Olanda, Romania, Rep. Ceka) appartenenti all’area di influenza tedesca ma particolarmente legati, in funzione antirussa, all’establishment statunitense;

  • si tratta ancora di forze limitate tese, probabilmente, più a compensare la debolezza delle forze operative tedesche e il timore di affrontare le conseguenze esterne di un più pesante riarmo diretto;

  • il debole coinvolgimento della Francia e l’assenza dell’Italia lascia intravedere una funzione di contenimento di questi paesi piuttosto che di affrancamento dalla tutela americana;

  • negli ultimi anni, il carattere antirusso della politica estera tedesca si è ulteriormente accentuato e rischia di diventare irreversibile, non ostante le relazioni economiche non corrispondano esattamente ai proclami sanzionatori; questo comporta dei riflessi diretti nelle opzioni militari.

hermannsdenkmalCONSUNTIVO

In realtà l’attuale classe dirigente tedesca, rispetto al quale non risultano emergere forze alternative credibili, tende inesorabilmente a cacciarsi in una situazione analoga a quella che la hanno trascinata nelle due ultime rovinose guerre mondiali.

Non ha la forza e le caratteristiche per diventare, da sola, l’artefice di un polo politico comparabile con quelli in via di formazione, in competizione con gli Stati Uniti; per ambire a tale condizione dovrebbe puntare razionalmente a stringere un sodalizio meno squilibrato e su basi più paritarie in via prioritaria con la Francia e l’Italia e su questo costruire un rapporto costruttivo con la Russia. Questo implica una ridefinizione dei rapporti e un’azione verso la maggior parte dei paesi dell’Europa Orientale e quelli scandinavi che agevoli un ricambio di quelle classi dirigenti così oltranziste, impegnate ad affermare la propria identità e rafforzare la loro circoscritta influenza regionale a scapito della Russia, scegliendo la via apparentemente più comoda ed immediata: una alleanza politica sempre più stretta con gli Stati Uniti attualmente praticabile soprattutto grazie alla garanzia del retroterra tedesco, ma resa certamente più fragile da una sua defezione. Non si può dire certo che gli ingombranti vicini, Italia e Francia, concedano più di tanto qualche chance a questa eventualità. Una svolta quindi tanto più improbabile per l’azione ricorrente di Francia e Italia di “utilizzo” del potente d’oltreatlantico per regolare le controversie di vicinato in un processo di integrazione atlantista che sta coinvolgendo pesantemente, ormai anche la Francia, anche se non ancora, probabilmente, in maniera irreversibile. Si tratterebbe di rimettere in discussione le modalità di costruzione di un sistema di relazioni costruito negli ultimi trenta anni, laddove la posizione di vassallo privilegiato ha consentito di costruire una formazione sociale sufficientemente solida da garantire un largo consenso e discreti margini di azione.

Più che una subordinazione riottosa sembra per tanto, quello della Germania, un sodalizio consenziente per quanto prono. Una condizione che difficilmente può essere superata senza la formazione di poli alternativi che impediscano di continuare a lucrare sui saldi commerciali e senza un significativo indebolimento della potenza egemone ancora in gran parte da compiersi. L’alternativa, in mancanza di un recupero del controllo pieno delle leve di potere, potrebbe essere una fuga velleitaria in avanti, magari vellicata dalla stessa potenza egemone, propedeutica ad una terza pesante lezione storica.

E L’ITALIA?

In tale contesto inquadrare la collocazione dell’Italia come un paese dibattuto nella scelta tra il contendente tedesco e quello americano con una propensione iniziale per quella teutonica, appare una indicazione fuorviante; del tutto fuori luogo se, come statuisce la redazione di Limes, a questo dilemma corrisponde la formazione sul suolo italico di due blocchi in tenzone tra loro; quello economico sensibile alle sirene germaniche, quello istituzionale, degli apparati di sicurezza legato a quelle americane. Una contrapposizione che non offre una sintesi credibile semplicemente perché uno dei pilastri e ambiti del contenzioso, quello economico, non è assolutamente una prerogativa assoluta e nemmeno prevalente della Germania. La struttura economica italiana, negli ultimi trenta anni ha subito una drammatica perdita di controllo dei propri assetti strategici più importanti, superiore alla stesa distruzione dell’apparato produttivo. La gran parte di quelle attività sono finite in mano americana e poi francese, più che tedesca. È sufficiente scorrere i destini dell’industria aeronautica, dei generatori, della ceramica, della siderurgia specializzata, della meccanica, oltre che dei marchi alimentari, della moda e soprattutto della rete di telecomunicazioni per rivelare una penetrazione ben più articolata e preoccupante. I commensali del banchetto sono numerosi. È sufficiente orientare i propri padiglioni verso la voce dei corifei, tra i tanti Calenda, tutti impegnati ad identificare la globalizzazione con il mercato americano, per individuare le priorità stabilite dalla maggior parte della classe dirigente. L’impegno tedesco si è concentrato, piuttosto, sulla gestione del drenaggio del risparmio, sull’acquisizione di alcuni poli logistici necessari ai flussi dell’industria tedesca, sul controllo parziale ma indiretto della componentistica e sul ridimensionamento della capacità produttiva di un importante competitore.

DIFFICILMENTE

In realtà, sino a quando l’attuale classe dirigente tedesca riuscirà a mantenere in qualche maniera il controllo della costruzione europea per conto terzi, difficilmente la propensione tutta italica a costituire fazioni autodistruttive per conto di podestà stranieri potrà essere soddisfatta e la disputa occuperà inevitabilmente temi più rarefatti, come difficilmente il sodalizio tedesco-americano potrà incrinarsi significativamente, specie in una fase di restaurazione della politica americana ormai vincente.

Difficilmente, però, l’approccio offerto dalla redazione potrà offrire un contributo ad uno sforzo consapevole e proficuo di individuazione di un interesse nazionale capace di raccogliere il consenso delle parti più dinamiche e dignitose della comunità; come pure diventa alquanto arduo individuare, in Europa, nei vari paesi, le forze suscettibili di essere coinvolte.

Quanto alla Germania, se resurrezione dovrà essere, richiederà la realizzazione di numerose condizioni; i timidi vagiti richiederanno tempo per arrivare ad espressioni più articolate e razionali. La stessa formazione sociale tedesca inizia a conoscere importanti crepe nella sua proverbiale coesione con la erosione dei punti di garanzia e stabilità, ma anche di immobilismo. Si sta cominciando dal ruolo dei sindacati; ben presto toccherà anche il sistema periferico di promozione ed assistenza sociale. Bisognerà vedere se gli eventi, ormai incalzanti, concederanno il tempo necessario a compiere le svolte.

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