Crisi pandemica. I vivaci pro e contro di una gestione politica. A cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto il resoconto sintetico di un vivace dibattito in corso su facebook, non proprio la sede più appropriata, sui risvolti politici della gestione della crisi pandemica. Gli argomenti addotti sono indubbiamente interessanti ma soffrono spesso di un non detto e di fondamenti comuni impliciti ma non definiti con il necessario rigore tale da stabilire punti fermi più solidi. L’affermazione di potere implicita nelle scelte politiche di soluzione di problemi reali; il controllo crescente come aspirazione di ogni centro decisore politico, ma anche base necessaria di ogni progresso umano; la corrispondenza univoca o meno tra intensità del controllo e affermazione di processi totalitari; la definizione più o meno strumentale e manipolata delle priorità e del terreno di scontro e le modalità di reazione più opportune a questa definizione; la chiarezza nella distinzione tra l’analisi politica e la concreta capacità e possibilità di azione politica. Sono alcune delle questioni implicite che informano il dibattito. Per ultimo una considerazione: è un caso che la fossilizzazione del dibattito sul Green Pass avvenga soprattutto in Italia, poi in Francia e meno in paesi più centrali come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna? Ha qualche significato il paradosso che l’ambizione esplicita al controllo trovi più spazio in Cina, il paese che teoricamente dovrebbe contrastare meglio i propositi di “Grande Reset” e di dominio della cupola capitalistico-finanziaria? Sono i discrimini che separano le interpretazioni delle dinamiche politico-sociali e la valutazione delle capacità e delle possibilità operative e di pianificazione dei centri decisori. Mi pare che si stia perdendo il senso della priorità, della misura e dei tempi di una azione politica di contestazione. Il dato certo sono la progressiva prevalenza di dinamiche, di atteggiamenti e posizioni manichee che non fanno presagire nulla di buono. Sembrano impulsi piuttosto che calcolo politico; parte di scaramucce strumentali, piuttosto che dichiarazioni di guerra. Sono il seme del peggio che può scaturire dalla banalità. Giuseppe Germinario
Alessandro Visalli
Non so se nel frastuono che tutto copre delle polemiche su Green Pass e vaccini ci sia un’astuzia del potere, o se, semplicemente è l’effetto di una banale dinamica autorafforzante del mercato delle ‘notizie’ (il tema ‘vende’), unito alla lotta partitica feroce in corso sottotraccia, entro l’artificiale perimetro governativo (per cui si provoca la Lega, per danneggiarne il leader rispetto ai competitori esterni -Meloni- ed interni -Giorgetti-, e, d’altra parte se ne subiscono i veti, da cui la politica vorrei-ma-non-posso del GP), ma l’effetto oggettivo è quello di una nuvola nerastra e polverosa di polemiche vacue e urlate che nascondono completamente le tantissime cose serie, importanti, persino epocali che stanno accadendo (entro e soprattutto fuori del paese).
La dinamica dei prezzi e della sconnessione delle supply chain mondiali mostra l’avvio di un passaggio tra il modo di produzione neoliberista mondializzato e qualcosa di diverso (quanto, come e quando, nonché dove lo potremo misurare in qualche anno); la ritirata anglosassone prelude ad una avanzata del ‘mondo multipolare’ (che ha molto a che fare con il punto precedente); il lavoro potrebbe cambiare, tornando ad una qualche forma di potere e, al contempo trascinando modifiche della forma territoriale; la risposta politica a queste tensioni di trasformazione potrebbe prendere la forma di un attivismo statalista di nuovo conio. Nessuna di queste cose è già formata, sono tutti piani di conflitto intrecciati e possono andare in direzioni diverse.
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Ma noi discutiamo di ciò che ci viene messo davanti agli occhi. Se uno insiste a sottoporre un tema ciò che bisognerebbe chiedersi non è se è giusto o sbagliato, ma quale altro nasconde. Ovvero, di cosa non si deve parlare.

Thomas Fazi

Attenzione: il fatto che ci sia un’operazione di distrazione in atto non vuol dire che l’oggetto della distrazione non sia reale (anche perché altrimenti non funzionerebbe). Quindi va bene denunciare l’operazione di distrazione (io parlo di strategia della tensione ma il concetto è quello) ma questo, ahimè, non esime dal confrontarsi con l’oggetto della distrazione.

Andrea Zhok

Tutto molto giusto. Succedono un sacco di altre cose importanti in Italia e nel mondo.
Solo mi sfugge come qualcuno pensi di poter eccepire a quei grandi movimenti se non riusciamo neanche a sottrarci a un TSO di massa, dichiaratamente pretestuoso e privo di qualunque fondamento sanitario.
Chissà come bloccheremo le manovre del grande capitale, se il controllo su movimenti e opinioni è illimitato, se non riusciamo neppure a proteggere i nostri figli, se la censura è sistematica, la demonizzazione del nemico pure.
Ah, ma scusa, questo è controllo, imposizione, censura e demonizzazione fatti per una giusta causa!

Pierluigi Fagan

Già. “Noi discutiamo di ciò che ci viene messo davanti agli occhi” e che i nostri e gli altrui occhi riescono a vedere. La dinamica è che c’è chi dice e chi ascolta e chi dà l’agenda. Il livello di questo dibattito è dato dalla qualità dell’ultimo livello, dal livello di chi ascolta. Tutta questa faccenda arriva a colpire direttamente le persone base, decisioni da prendere, paure da gestire, attraverso fatti semplici: farsi o non farsi una puntura, accettare o meno il GP etc. Su questa sensibilità attivata infuria la pressione informativa ufficiale perché ad oggi, in Italia, siamo a circa 67% vaccinati a doppia dose, una percentuale ritenuta insufficiente per arrivare a quella che erroneamente è detta “immunità di gregge” e che statisticamente è solo il fatto che dal 75% in su si è ragionevolmente sicuri di poter gestire l’eventuale pressione ospedaliera che è “il” problema che poi porta a codici colorati e lockdown che poi portano a distorcere i normali comportamenti economici che impediscono l’agognata “ripresa” per cui Draghi si è fatto dare i miliardi condizionati dall’UE. Un “prestito” che non può fallire. Sul fatto che i soldi dati all’Italia siano davvero utili a rimetterci -più o meno- in piedi si giocano molte partire in UE, ricordando che andiamo verso una UE post Merkel. Da cui anche le ambizioni personali tanto di Draghi che di Macron, non a caso i due politici dei due paesi che usano il GP in modo più feroce. La pressione crea disagio perché timori e paure non vengono superate con gli ordini. La mancanza di intelligenza sociale in senso prettamente “politico” di Draghi che culturalmente è un tecnico, più simile all’ingegnere che al coltivatore sociale, non prevede altro che “ordini” non c’è tempo e modo di agire una maniera più sofisticata. Nella forbice tra chi dà questa agenda ed un pubblico ancora per una significativa minoranza restio a conformarsi, c’è chi vede l’opportunità politica e culturale di inserirsi per approfondire la contraddizione. A me pare un calcolo sbagliato ma è solo la mia personale opinione. Del resto, la pressione è tale e la scarsa conoscenza di base è tale, che questo è l’unico livello di attenzione che è attivato, quindi l’unico gioco che si può giocare per chi vuole fare politica nel qui ed ora. Tuttavia, rivolgendomi solo ad uno sparuto gruppetto di non coordinate intelligenze politiche critiche, mi domando se ci si pone la domanda “conviene alimentare questo incendio?”. Intendo il fatto che nonostante il tema attiri con la gravità di un buco nero, forse i più avveduti dovrebbero domandarsi quanto farsi attrarre e quanto resistere e prender altra rotta. Quanto cioè la nostra incapacità non di dire il simmetrico contrario di ciò che viene detto dal potere, che è relativamente facile, ma il fatto che si accetti la loro agenda, sia la migliore garanzia del fatto che le questioni più decisive non verranno trattate ed alla fine, per cause di forza maggiore, mugugnando e maldicendo, questa cosa andrà come deve andare e tutte le altre che rimangono ignorate e non notate, ancor di più.

Andrea Zhok

Pierluigi Fagan Capisco, ma sono in disaccordo. Innanzitutto, la possibilità di sottrarsi al “buco nero” è nulla per una ragione di fondo: in politica è l’agenda del presente immediato a dettare l’oggetto di attenzione, non gli orizzonti più o meno remoti. Io posso vedere che le battaglie strategiche si faranno sull’uso del PNRR, ma oggi si tratta di far andare a scuola, in biblioteca o a lavorare gente che sta semplicemente decidendo del proprio corpo in maniera immediata, e cui questa libertà primaria viene sottratta. Se non hai potere su questo, se una serie di palle raffazzonate pompate dai media consentono di far passare questa libertà primaria in cavalleria, beh, è finita. E’ del tutto inutile discettare del futuro remoto, perché comunque non ne saremo noi i protagonisti.
Io mi rendo conto che se uno prende per buone le fiabe mediatiche sembra che l’oggetto della questione sia una fisima, una bazzecola su cui ci si impunta per oscure ragioni. Solo che NON è così quando si fa una anche breve indagine sui presupposti mancanti per questa operazione. Si tratta di un’imposizione sulla base di un ragionamento utilitaristico dimostrabilmente falso, dove la decisione di cosa è utile pubblico è demandato ad alcune emanazioni del governo, e propagandato dal 95% dei media.
Se un’emergenza costruita ad arte (non il virus, ma il modo di (non) affrontarlo) diviene il passe-partout che mette a tacere ogni dissenso a furor di popolo, immagina quanto sarà facile fare la stessa operazione sugli “impieghi verdi” del PNRR, o su quelli delle “pari opportunità”, o sull’inderogabile “necessità di crescita”, ecc. Su ogni argomento c’è bell’e pronta un’inderogabile emergenza che non può attendere e rispetto a cui chi obietta è solo un rompipalle.

Alessandro Visalli

Andrea Tutto sta su pretese di verità. Se, ovvero, sia vero che sono “palle raffazzonate” e “dimostratamente falso” o meno. Ho letto i paper che mostri, non tutti, ho anche da lavorare nella vita e non sono un virologo e non mi pare lo confermino (ma, scusa dimentico – anche io so usare il registro ironico/polemico – quelle sono frasette messe per farsi pubblicare). Certo, poi, se rubrico quel che non mi quadra come “frasette” e prendo di un testo solo quel che mi si adatta al frame che mi sono fatto, allora viene facile. Che dici leggiamo così anche la letteratura che conosci? Ha, ma è un piano mondiale per vendere vaccini (invece di farmaci che costano molto di più)? Oppure per il Grand Reset? Cosa altro? Che possa essere più semplice, agende eterogenee che si scontrano, opportunismo, confusione, tendenza ad applicare le soluzioni già pronte e facili rispetto a quelle difficili e/o ignote, vincoli di sistema (europei), classica logica DAD (Decidi, Annuncia, Difendi), no. Più bello vedere che c’è un cattivo (quello che si dice buono, ovviamente) e ci sono delle vittime inermi.

Pierluigi Fagan

Andrea Zhok Sì questo l’avevo capito come tua posizione, mi era chiaro. Non so, sono differenti valutazioni Andrea. Ho detto anche io che per chi vuole far politica nel qui ed ora, se questo è il tema del giorno, questo è il gioco. Però c’è anche da rimarcare che negli ultimi anni, ci sono stati altri incendi che sembravano promettenti, penso al “sovranismo” o al “populismo”, ridotti ormai a braci spente e sono pure fenomeni relativamente recenti, consumati in breve tempo. Sono almeno quaranta anni che in Occidente si mette a tacere o s’ignora o si isola ogni dissenso, non credo che si possa invertire la tendenza su questa nuove linea di fronte che cumula tra l’altro posizioni assai diverse che vanno da più che condivisibili resistenze “giuridiche” a vari tic psicotici anarco-libertari a paranoie personali. Sono due piani diversi, c’è la posizione sul discorso e la costruzione del discorso. Non credo che sommando posizioni sul discorso si riuscirà a costruire un discorso diverso. Molti che oggi sono anti-green pass domani saranno più che a favore di altre posizioni più che conformiste su altri argomenti. Comunque, non è faccenda da bianco o nero, se c’è chi vuole ingaggiarsi sul tema, bene lo faccia. Quello che più mi preoccupa è che non pare esserci più qualcun altro che porti avanti gli altri.

Andrea Zhok

Alessandro Visalli Guarda, se hai letto il dialoghetto che ho postato l’altro giorno, con le note, c’è tutto quello di cui c’è bisogno per farsi un’idea. Non è necessario essere persuasi di ogni dettaglio. Basta essere persuasi di alcuni punti elementari, cioè del fatto che è una balla incontrovertibile:
1) che i vaccinati non contagiano;
2) che se non vacciniamo tutti avremo di nuovo gli ospedali in overbooking;
3) che così facendo eradicheremo il virus attraverso l’immunità di gregge.
Questo è sufficiente per sapere al di là di ogni possibile dubbio che l’operazione è una – mi voglio esprimere con garbo – puttanata criminale.

Alessandro Visalli

1- non sono d’accordo (i vaccinati possono contagiare, talvolta e meno, c’è tutta la differenza pertinente per una logica epidemiologica). 2) si. Ma il numero non è ancora sufficiente, basta contare i posti letto in terapia intensiva e confrontarli con il potenziale di 5-6 milioni di vulnerabili. Su questo, però, si può arrivare forse anche con meno enfasi (forse, non ho visto i modelli e non ne conosco l’affidabilità). 3) Si, assolutamente. Il Virus è chiaramente non eradicabile (il che è una tragedia, per cui va nascosta. Questa critica è giusta, ma, purtroppo non stupisce, basta aver letto anche solo distrattamente la letteratura americana sulla teoria delle decisioni pubbliche). Dunque NI, è un caso di decisione difficile con agende plurime. Criticabile, anche aspramente, ma per le ragioni corrette.

Andrea Zhok

Pierluigi Fagan Quella sul GP non è una battaglia su fronti filosofici. Ci partecipano comunisti e anarchici, liberali e neofascisti e leghisti, (piddini no). Non è che alla fine si fonderà un partito. E’ una battaglia specifica (le uniche, incidentalmente, che accreditano davvero). Ma la concretezza di poter decidere del proprio corpo (o di quello dei propri figli) è una cosa talmente primordiale, talmente potente e ovvia che non è possibile fingere che sia una bazzecola. (Ed è questo punto che mi sconcerta in chi invece pensa che imporre una cosa del genere da parte di uno Stato neoliberale sia una quisquilia.)

Pierluigi Fagan

Andrea Zhok Andrea, non sono appassionato come te sul tema, ma davvero ti risultano esser questi i punti del discorso? Chi davvero sostiene che i vaccinati non contagino? Contagiano forse un po’ meno. Chi ha mai davvero detto che dobbiamo vaccinarci tutti? Nei fatti, ad esempio la Danimarca, ha appena tolto ogni restrizione al raggiunto limite del 75% dei vaccinati. Sembrerebbe puntino ad un rischio calcolato e gestibile non a eradicare il virus. Sanno tutti e da due anni che a queste dimensioni di circolazione il virus non si eradica, il virus si gestisce. Poi sul fatto che come hai giustamente scritto si possa gestire anche meglio con procedure sanitarie che non si risolvono unicamente col vaccino, sono ovviamente più che d’accordo. Ma questi sono punti dentro il problema, è il contesto del discorso pubblico e sul subirne la struttura che politicamente stavamo ragionando.

Maurizio Denaro

se mi permettete, devo dire che spiace molto vedere una sorta di incomunicabilità tra persone che reputo non solo intelligenti non solo acculturate ma anche schierate su posizioni di critica radicale al sistema. Purtroppo anche questo è effetto della pandemia e della gestione, politica, della pandemia. Purtroppo non c’è stata alcuna vera analisi critica di tutta la faccenda, ed oggi il grande problema è che la propaganda del potere ha portato a creare due posizioni, che alla fine sono figlie dello stesso processo logico-manipolativo. Andrea ha molte ragioni, ma, se mi permettete voce da esperto, molte imprecisioni, che oggi fanno la differenza. Peccato che non si possa in una sede più consona discutere apertamente e identificare i dettagli, che son quelli che poi creano le grandi confusioni. In ogni caso, volenti o nolenti la pandemia è lo strumento biopolitico che il capitale sta usando per le sue ristrutturazioni e per creare le nuove di sfruttamento

Alessandro Visalli

Maurizio Denaro certo che lo è. Il capitale (che non è un soggetto, ma una logica di sistema che si impone ai soggetti) si adatta a d ogni condizione seguendo il proprio principio di autoaccrescimento. Quindi in un certo senso lo usa per la ristrutturazione, solo che non “usa”, e non “crea”, si potrebbe scrivere <la situazione crea nuove forme di sfruttamento>.

Andrea Zhok

Se non intendi vaccinare tutti perché premi per vaccinare quelle fasce che palesemente non rappresentano un problema sanitario significativo e che al contempo non presentano sperimentazione di sorta (giovani sotto i 16, donne incinte)?
Chi ha mai detto che il 75% per cento è una cifra adatta a limitare i contagi e i decessi? E’ una percentuale del tutto gratuita, perché non stiamo da tempo ragionando più in termini di ‘immunità di gregge’. Il punto è vaccinare chi, non quanto.
E soprattutto, e cerco di contenere la mia rabbia nel dirlo, CHI ti ha dato il permesso (non a te, è retorico) di impormi la somministrazione di un prodotto farmaceutico che NON può essere stato adeguatamente testato, su cui è stato messo su un impianto di controllo ridicolo, e che ha già mostrato effetti collaterali gravi? Ci si rende conto del livello di abuso di un atto del genere?

Pierluigi Fagan

Andrea Zhok Eddaje! E’ un abuso giuridico su questo non ci piove. Bene notarlo, sottolinearlo, scriverci sopra, ok. Non credo sia politicamente la battaglia del secolo ma è bene farci qualche resistenza, concordo. Ho fatto un ragionamento, ipotetico: debbono arrivare a … ? 73%? 75%? 80% quanto più tanto meglio dal loro punto di vista. Sparano in tutte le direzioni per far salire quella percentuale che poco meno di un mese fa era al 63%, sale quindi molto più lentamente dell’auspicato. Vanno di fretta, debbono raggiungere percentuali più alte entro ottobre quando le relazioni umane e sociali tornano allo standard. Se falliscono la piena ripresa economica sono fottuti. Quindi vanno per le spicce. Tutto l’arco parlamentare lo sa ed infatti fanno pippa, incluso l’opposizione da twitter che tanto cambia niente nei fatti. Ma ripeto, se iniziamo una discussione sul peso che l’argomento ha o dovrebbe avere nel dibattito pubblico, specie quello critico e finiamo a discutere di nuovo dell’argomento in sé per sé, allora facciamo altro che confermare che l’argomento è tutto ciò di cui c’è da discutere. Il che mi trova in disaccordo, tutto qua.

Luca Bertolotti

Maurizio Denaro sottolineo e ribadisco ” molte imprecisioni” . Come si possa costruire un discorso sensato senza aver capito il risultato dell’enorme cherry picking effettuato e utilizzando la fede in farmacisti, odontoiatri e fisioterapisti guidati da avvocati che in 16 mesi non hanno prodotto un cavolo di report sui risultati delle loro terapie precoci, non è dato sapere

Pino Timpani

Pierluigi Fagan è esattamente così, va anche aggiunto che in questa vicenda della pandemia chi ne esce meglio è il sistema cinese che ne può trarre una notevole accelerazione. Inoltre hanno un ulteriore vantaggio nel fatto che hanno ancora, diversamente che l’Occidente, un predominanza della politica sulla finanza. E’ anche vero che c’è il partito unico, ma se dovessimo comparare a fondo i due sistemi, quello cinese risulterebbe più democratico del nostro, perché quanto meno esiste un processo decisionale che coinvolge molta più popolazione, mentre a noi viene propinata una politica spettacolo, ricca di marketing e sondaggi e soprattutto completamente succube degli interessi della finanza. Mi sembra emblematica la situazione attuale del personaggio Salvini che è ora nelle mani di Draghi o anche l’atro personaggio, Meloni che fatica sempre di più a nascondere le finzioni. Ha detto bene molti giorni fa Alessandro Visalli: questa “battaglia” sul green pass si svolge sullo stesso campo liberale e quindi non può fare altro che alimentare e far stravincere quella ideologia. Inoltre, questo è uno dei più fumosi movimenti mai visti, destinato ad evaporare in mille direzioni, come hai fatto notare.

Roberto Buffagni

La cosa più importante secondo me è la “nuvola nerastra e polverosa “, una malattia psichica che in confronto il Covid19 è un cioccolatino. Ansia, nervosità, paranoia, brutalità, ipocrisia, menzogne a raffica, sguaiataggine, incitazione a disumanizzare, e tutto ciò dovunque. Normalità psichica che diviene una eccezione.

A proposito di difesa comune europea_ a cura di Giuseppe Germinario

Proseguiamo il dibattito avviato con i due articoli su NATO e Unione Europea https://italiaeilmondo.com/2021/08/17/la-nato-riprende-il-vantaggio-nel-suo-braccio-di-ferro-con-lue-di-hajnalkavincze/ e https://italiaeilmondo.com/2021/08/12/stati-uniti-nato-e-unione-europea-lillusione-di-un-addio-il-miraggio-dellautonomia_di-giuseppe-germinario/prendendo spunto dall’ennesima riproposizione, ricorrente nei settanta anni trascorsi, della costituzione di un esercito europeo. E’ opportuno ricordare che la proposta partì in primo luogo e non a caso dagli Stati Uniti, negli anni ’50, con il tentativo di costituzione della CED (Comunità Europea di Difesa) in fase di costituzione della NATO, antecedente alla costituzione del Patto di Varsavia. Trovò l’opposizione diffusa di numerosi ambienti militari europei, in particolare della Francia; fu ridimensionato una volta compreso dagli ambienti francesi e britannici che il pallino era passato ormai definitivamente in mano americana, non ostante le velleità franco-britanniche naufragate definitivamente con il fallimento dell’intervento congiunto sa Suez nel ’56 e che il potenziamento industriale della Germania Federale era di supporto al successo delle mire egemoniche statunitensi e al contenimento delle ambizioni anglo-transalpine. Anche in questa occasione, come pure nel congresso di Le Havre, la rumorosa ma poco significativa opzione federalista europea, intrisa di lirismo e liturgie, si rivelò uno strumento, sino ad un certo punto inconsapevole, della costruzione egemonica americana. La CED, in realtà, non si limitava ad un progetto di mera alleanza militare. Prevedeva oltre  ad un livello spinto di integrazione delle strutture militari, un analogo livello spinto di integrazione del complesso industriale legato agli interessi della difesa atlantica. Il piano Marshall era essenzialmente propedeutico a questo progetto. L’esito del confronto portò alla fine all’accordo parziale sulla NATO e sulla CECA; come noto, non si fermò nel prosieguo a quello stadio.

L’equivoco, del tutto connaturato alla prosecuzione degli attuali legami, prosegue ancora oggi confondendo in un unico calderone i propositi di autonomia con quelli di rafforzamento del legame atlantico.

Sulla falsariga di un dibattito, per altro in Italia del tutto superficiale e parolaio, sia pure con le dovute eccezioni, proponiamo alcuni interessanti articoli di militari francesi apparsi sul sito www.theatrum-belli.com. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Far convergere le esigenze dei militari in un sistema di forze.
Per il GCA (2S) Jean-Tristan VERNA, l’acquisizione di attrezzature comuni può urtare con la necessaria conservazione di una parte essenziale della sovranità in difesa. Oltre i produttori, sta ai militari riunirsi per far convergere le proprie esigenze in un sistema di forze.

Esercito europeo: la via della sovranità attraverso i
materiali?

“Difesa europea”, “difesa dell’Europa” o ancora più “esercito europeo”: qualunque sia l’ampiezza e la profondità, dibattiti, opinioni e commenti portano sempre prima o poi alla questione dell’equipaggiamento delle forze e dell’organizzazione della difesa.

Quante volte abbiamo sentito critiche ai massimi livelli, l’aberrazione
rappresentata dalla quantità dei diversi tipi di veicoli corazzati, aeroplani di combattimento, di fregate che equipaggiano gli eserciti del continente. E le ingiunzioni per creare “Airbus” per veicoli navali e blindati, ecc. seguono di conseguenza.
È da dimenticare che questa situazione è il risultato di diversi secoli di guerre intra-europee, conclusasi solo da due generazioni di decisori politici! Le basi industriali della difesa nazionale sono l’impronta lasciata dalla necessità che la maggior parte degli stati europei ha avuto per garantire la propria autonomia industriale, per preservare la lpropria integrità territoriale, realizzare le proprie ambizioni, addirittura garantire la propria neutralità, su tutto la sovranità.
Questo articolo si propone di dare un contributo alla definizione dei contorni della sovranità sull’equipaggiamento delle forze armate. Questa definizione può anche consentire un vero inventario delle sovranità; leggi nazionali che tracciano il percorso che un giorno potrebbe permetterci di mostrare questa sovranità a livello sovranazionale.
In questo campo, il primo fondamento della sovranità è la libertà di progettazione dell’attrezzatura 50. Nasce dalla libertà di sviluppo partendo da esigenze militari e di capacità.
Nei nostri giorni felici di “Pax Europea”, prima ancora della dispersione industriale, è spesso la mancata condivisione di questa esigenza che porta alla grande diversità di materiali da un paese all’altro. Quello che qualcuno considera una semplice questione di abitudine o conservatorismo
riflette piuttosto il carattere fortemente culturale che attribuisce agli eserciti nazionale a causa del loro ruolo nella strategia nazionale, la storia della loro guerre, la natura del loro reclutamento, a volte molto antico e ancorato alla cultura nazionale.
Ci ritroviamo così con linee di forza la cui inflessione non è facile: popoli del mare e antiche tribù dell’entroterra, nazioni centrate sull’Europa e conquistatori di imperi dimenticati, non tutti si ritrovano spontaneamente sulla stessa concezione dei loro bisogni militari, nonostante sette decenni
di standardizzazione della NATO. Uno metterà i suoi elicotteri da trasporto nelle forze aeree, l’altro nelle forze di terra, con notevoli differenze nell’implementazione, si prenderà di mira l’aereo da caccia versatile mentre altri costituiranno sempre flotte diversificate; una giurerà per il cingolato quando la ruota avrà il favore del vicino. Non bisogna dimenticare gli interminabili dibattiti tra fanti intorno al numero dei combattenti del cellula di combattimento di base, che alla fine determina l’architettura del veicolo che li porta a bordo!
Questa necessità di padroneggiare la progettazione iniziale dei materiali è accompagnata dal problema di poterli far evolvere secondo gli insegnamenti operativi, adottati per l’integrazione di nuove tecnologie, ecc.
Rapidamente, un pezzo di attrezzatura può prendere una configurazione molto lontana da
quello originale. Un buon esempio è la progressiva divergenza di configurazione di TRANSALL francesi e tedeschi, il cui impiego a lungo termine era molto diverso.
Infine, un materiale non può essere progettato senza il suo sistema di supporto, vale a dire come sarà realizzato il suo mantenimento in condizioni operative. La visione del supporto ha un forte impatto sulla progettazione iniziale dell’attrezzatura: il motore di un veicolo blindato deve essere sostituibile rapidamente sul campo, oppure si sceglierà un supporto di tipo industriale su base logistica, con soluzioni tecniche più vicine a quelle utilizzate per le apparecchiature ad uso civile? Se i sensori integrati verranno utilizzati o meno per tutti i tipi di materiali? Anche in questo caso, le culture militari europee sono spesso incompatibili. Alcuni eserciti favoriscono ancora il supporto più vicino alla zona di combattimento, mentre altri ritengono che questo approccio non corrisponde più alle realtà operative e tecniche.
Mantenere il controllo sulla scelta delle funzionalità operative delle apparecchiature e soluzioni tecniche che consentano di raggiungerle, avendo la libertà di evolvere, decidere come sostenerlo durante il periodo d’uso, questa è la prima base di sovranità in materia di equipaggiamento militare.
Un secondo fondamento di sovranità, sul quale non è utile indugiare a lungo come è ovvio, è la libertà di utilizzo dei materiali.
Un insieme politico sovrano, nazionale o sovranazionale, deve poter dispiegare e utilizzare liberamente i propri mezzi militari ovunque se ne presenti la necessità fatto sentire, e senza altre restrizioni che quelle imposte dalla legge internazionale. Siamo ben consapevoli dei limiti posti alla distribuzione e all’uso operativo di materiali acquistati dagli Stati Uniti in adozione della procedura FMS51. Anche la Francia li ha sperimentati con il lancia missili JAVELIN; sta acquistando, e presto armerà, i droni REAPER nonostante questi ostacoli alla sua libertà di azione.
Dovremmo fare della libertà di esportare un altro fondamento di sovranità?

C’è un dibattito sulla realtà dell’imperativo economico dell’esportazione che consentirebbe di contenere i costi di acquisizione delle attrezzature e di compensare il basso volume di serie “nazionali”. L’armonizzazione dei bisogni a livello sovranazionale sarebbe forse un argomento imperativoper superarlo.
Ma esportare non è solo una leva economica. È uno strumento di politica estera, di influenza sulla scena geopolitica, un consolidamento dei legami con gli alleati. Essere in grado di esportare o distribuire l’equipaggiamento militare secondo gli interessi strategici è quindi legato alla nozione di sovranità, ed è rilevante porre sistematicamente la questione della sua “esportabilità” quando un materiale entra nel design, quindi in produzione.
Libertà di progettazione, supporto ed evoluzione, libertà di utilizzo operativo, libertà di esportare, queste sono le basi che possono essere considerate nel definire la sovranità applicata all’equipaggiamento di un esercito, nazionale o sovranazionale che sia.
Ovviamente, ogni tipo di materiale apre sfide e difficoltà specifiche che sarebbe tedioso sviluppare: per non parlare dei mezzi di deterrenza nucleare, i materiali convenzionali innumerevoli che non presentano gli stessi problemi dei sistemi di comando e dei sistemi informativi integrati, o anche complessi sistemi di sistemi, molto in voga nel ristretto club delle nazioni tecno-connesse.
Ma ci sono abilità successive comuni a tutti i tipi di materiali: competenze umane, politiche e risorse per la ricerca e tecnologia, ormai strettamente legata alla R&T nel mondo civile, il controllo
dei diritti di proprietà intellettuale, autonomia di regolamentazione e fissazione di standard tecnici e ambientali, la decisione sulla politica di investimento e sulle procedure amministrative per allocazione dei budget e gestione del progetto di armamento, ecc.; tutte aree in cui lo sforzo complessivo è stato messo in atto in qualche decennio per costruire i mezzi di deterrenza francese
autonoma è un buon esempio storico. Cambiamento culturale di strategia che fu imposta agli eserciti francesi in quel momento oltre la celebrazione.
L’accettazione di questi fondamenti porta, in linea di principio, a tenerne conto e considerazione nella definizione della politica per l’acquisizione e la fabbricazione di materiale, se questa politica è completa o si applica a una famiglia di attrezzature, o anche ad attrezzature personalizzate.

La Francia ha provato questo esercizio con la teoria dei tre cerchi, ripresa nei suoi libri bianchi del 2008 e del 2013.
Ad un primo cerchio chiamato “della sovranità”, definendo le capacità critiche da padroneggiare a livello nazionale, si aggiunge un circolo di “interdipendenza”europeo” che presuppone una convergenza di specifiche tecniche e operative e una equilibrata condivisione industriale. Finalmente arriva il cerchio di “Ricorso al mercato mondiale”, per i mezzi la cui fornitura può essere garantita senza rotture o restrizioni.
Conosciamo le difficoltà sollevate da questa categorizzazione delle acquisizioni.
L’ambizione di sovranità portata dal “primo cerchio” passa attraverso la capacità di liberare le risorse umane ed economiche necessarie alla sua messa in opera. Se consideriamo che queste capacità di sovranità includono piattaforme complesse nucleari e le correlate spazio,
sistemi di intelligence, il dominio “cyber” e alcune altre molto sofisticate come i missili, le capacità tecnologiche per coordinare e i bilanci da mobilitare saturano abbastanza rapidamente le capacità nazionali.
Al di là delle disposizioni procedurali che esso presuppone (ad esempio, specifiche procedure di acquisizione), interdipendenza (europea) definita attraverso il secondo cerchio, è tanto più critico
rendersi conto che si tratta di attaccare due posizioni in cui è difficile irrompere: le culture degli
interessi militari e industriali, con la loro componente sociale. È da notare la forza che queste realtà impongono sul desiderio di armonizzazione e cooperazione, passata e presente.
Per quanto riguarda l’uso del mercato globale, attenzione a considerarlo come garanzia assoluta. Lo sfortunato episodio delle munizioni di piccolo calibro conosciuto dalla Francia qualche anno fa non va dimenticato. Cosa succede quando una crisi generalizzata fa precipitare tutti i poveri clienti
verso un numero limitato di produttori? La rapida saturazione di trasporto strategico durante l’ascesa o la fine delle grandi operazioni è un esempio di questi potenziali colli di bottiglia.
Tradurre il desiderio di costruire punti di forza in materiali comuni sovranazionali efficaci dal punto di vista operativo e alla portata delle capacità richiede quindi il superamento di queste difficoltà in termini di acquisizione: verso quale ambizione strategica e sovrana dobbiamo guidare la definizione delle capacità critiche? Che corpus condiviso di dottrine militari funge da riferimento per la definizione tecnica di hardware, gestione della configurazione e sistema di supporto?
Come organizzare la produzione industriale e le attività di supporto in servizio? Su quali basi politiche possiamo costruire flussi con il resto del mondo, sia per la fornitura che per l’esportazione?
Avvertimento !

La mancanza di una politica estera e di una catena di Comando europeo che si impone ai paesi membri, l’appetito per alcuni di questi verso le principali apparecchiature di origine americana, le difficoltà ricorrenti nell’organizzare un’industria delle armi a livello continentale in gran parte private e in parte di proprietà di fondi americani, sono tutti temi da trattare a livello politico in via preliminare ad ogni lancio di grandi idee relative al campo militare ben detto !
Per quanto riguarda i militari, cosa possono fare?
In primo luogo, richiamare l’imperativo del realismo: a livello nazionale, garantire che non lasciamo andare la preda delle capacità sovrane esistenti per l’ombra della costituzione delle capacità comuni dai contorni e dai metodi di attuazione mal definiti o mal concepiti. Allora, nella misura in cui il
processo politico sarebbe impegnato a condurre verso questo “esercito europeo”che periodicamente torna all’ordine del giorno, rivendicare un posto importante da far valere alle precauzioni da prendere sul campo della tecnica e dell’attrezzatura; un argomento che è facilmente assente dalle preoccupazioni dei diplomatici.
Seconda azione possibile, concentrarsi sulla proposta di soluzioni tecniche transitorie e affidabili, partendo dall’esistente. Questa azione può essere basata su una pratica antica; quella della convivenza di eserciti nazionali all’interno della NATO, anche quando la loro integrazione non è completa, come è stato il caso degli eserciti francesi per quarant’anni. Ed esistono già esempi in Europa, come il trasporto aereo europeo Comando (EATC) creato nel 2010.
Infine, senza negare le forti radici culturali di ogni esercito nazionale e senza sottovalutare l’impatto degli specifici interessi strategici di certe nazioni, i militari avranno interesse a sviluppare la condivisione dei loro approcci tecnici, tattici e logistici.
Ogni nazione imprime un marchio specifico sul proprio esercito, a seconda che si sia scelto di costruire un modello di esercito completo e autonomo, o ci si accontenti di alcune “nicchie di eccellenza”; a seconda che si chieda loro di preservare o non una capacità di “nazione quadro”.

La cultura di un esercito è ispirata con la stessa forza dalle scadenze di impegno fissate dalle
decisioni politiche, dal suo approccio nei rapporti con le popolazioni presenti in lontani teatri operativi, dalla sua capacità di comprendere le operazioni a lungo termine, il livello di integrazione di fattori umani nello sviluppo e nell’uso dei suoi materiali.
Avere una visione realistica e condivisa di questi aspetti culturali è l’unico modo per arrivare a specifiche tecnico-operative convergenti.
Occorre quindi un forum ufficiale di discussione e riflessione su questi temi, che possa apparire tecnico e militare-centrico. Infatti, se i militari hanno il loro posto nei dibattiti europei a livello politico-militare e strategico, sarà altrettanto importante fornire loro un quadro formale per
riflettere e discutere sulla preparazione di sistemi di forze condivisi tra nazioni.

50 Il termine “materiali” è comodo da usare ma è riduttivo. Tieni presente che copre anche
molti materiali numerabili, di varia complessità, sistemi d’arma la cui efficacia non può essere
solo attraverso le loro connessioni con il loro ambiente, i sistemi informativi, ecc.

https://theatrum-belli.com/wp-content/uploads/2019/06/G2S-Dossier-24-Europe-et-D%C3%A9fense-Juin-2019.pdf

SAPERE E’ POTERE, di Pierluigi Fagan

SAPERE E’ POTERE. «Il sapere è potere, ma è potere piccolo, perché il sapere che conta è raro, non si mostra se non pochissimo, e in pochissime cose. La natura del sapere [autentico] è infatti tale che non può essere afferrato se non da chi vi sia predisposto.». Così Thomas Hobbes nel De Homine del 1658, quell’Hobbes che era stato in gioventù segretario di quel Francis Bacon che a sua volta aveva scritto “poiché la scienza (conoscenza) è di per sé una potenza”. Il tutto pare risalga ancora più indietro alla Bibbia o magari a qualcosa di ancorpiù precedente che la Bibbia stessa ha rilanciato. Di per sé, infatti, il concetto è abbastanza banale ma il segreto dei vari poteri è renderlo mimetico al punto che nessuno vi presti attenzione davvero, a lui ed alle sue conseguenze.
Ricorre oggi l’anniversario dell’11/09, il ventesimo. Qualche giorno fa Biden ha firmato l’ordine esecutivo che finalmente, dopo venti anni, invita l’intelligence americana a render pubblico il famoso stralcio delle 28 pagine contenute nell’originale rapporto redatto dalla Commissione bicamerale del Congresso sui famosi attentati. Adesso ci sono sei mesi di tempo per rendere pubbliche le 28 paginette. In questi anni, ripetutamente, sia NYT che WaPo che altri sempre rimanendo nell’alveo del mainstream di più alto ed accreditato livello (e con la consueta eccezione della stampa italiana), imbeccati da singoli deputati e senatori, hanno spifferato il cosa contengono quelle famose 28 paginette. Si tratterebbe di tracce evidenti ed inquietanti del coinvolgimento di funzionari delle rappresentanze diplomatiche saudite in USA nella preparazione e gestione degli attentati. Tutto ciò è ben noto a chi ha seguito in questi anni quella vicenda. Tralascio quindi i particolari, i nomi dei coinvolti, il loro evidentemente legame con le rappresentanze diplomatiche saudite al tempo nelle mani del “principe nero” di casa Saud. Quel Bandar bin Sultan che, poco noto ai più, è forse uno dei personaggi più inquietanti degli ultimi venti anni, incluso il parto pilotato dell’ISIS e molto altro.
Donald Trump, ai tempi della sua campagna elettorale del 2016, aveva usato parole di fuoco contro i sauditi, dando per promessa la pubblicazione delle 28 pagine non appena eletto. Saprete poi com’è andata. La minaccia evidentemente serviva a contrattare qualcosa sottobanco nei rapporti di forza tra USA ed AS, tant’è che alla fine si sono messi d’accordo e si sono immortalati, fraterni amici, nella famosa foto della Santa Alleanza che imponeva le proprie mani sul globo. Anche perché alla minaccia avvenuta cinque anni fa di portare effettivamente il decreto di de-secretazione al Congresso, il Ministro degli Esteri saudita aveva gentilmente fatto sapere che un secondo dopo l’AS avrebbe riversato sui mercati tutti gli asset americani in suo possesso, qualcosa come 750 mld di US$ che avrebbero fatto crollare altro che due grattaceli. Ma dopo venti anni, stante che ormai molti attori di quella vicenda o sono morti o sono spariti e stante che quelle 28 pagine diranno solo cose a loro volta di superficie perché nessuno ha mai condotto una vera e propria approfondita indagine sui fatti specifici, la liberalità americana ha deciso di far uscire lo spiffero, portandolo a notizia. Magari per gettare un po’ di velato sospetto su tutta l’operazione che portò gli USA e gli alleati (tra cui noi) in Afghanistan, giusto ora che gli americani hanno deciso di chiudere quel penoso capitolo.
Se, come parrebbe ed a molti noto, i sauditi a livello governativo e di servizi di intelligence, erano in qualche modo coinvolti in quella operazione in terra americana, dovremmo pensare che gli israeliani -sempre molto ben informati su ciò che accade in M.O.- non ne sapessero niente? Dovremmo pensare che le ben 17 (diciasette!) differenti agenzie della mitica United States Intelligence Community non ne sapessero niente? Dovremmo supporre che nessuno mai ha mandato -per tempo- un rapporto informativo su questi argomenti alla presidenza? O che chi lo ha ricevuto lo ha trattato con consapevole e voluta negligenza per lasciar fare ciò che andava fatto? Cosa dovremmo pensare allora degli ultimi venti anni di storia recente incluso il comportamento di esperti e giornalisti che dovrebbero intermediare la comprensione della realtà? Quale realtà abbiamo percepito e commentato?
A chi scrive, l’intera vicenda sollecita una riflessione forse scontata, ma mai dar qualcosa per scontato di questi tempi. A chi segue faccende geopolitiche, attuali o anche reperite negli annali storici come il tranello operato con una manipolazione intenzionale (Dispaccio di Ems 1870) e pilotando una fuga di notizie riservate poggiandosi sul The Times, entrambi orditi da Bismarck per spingere i francesi ad invadere la Germania di modo che i riottosi principi tedeschi invocassero a gran voce l’intervento prussiano, risolvendo così l’annoso problema dell’unificazione tedesca, tali questioni appaiono “normali”. Che le faccende dello scontro di interessi tra nazioni e dei realistici rapporti tra élite ed “opinioni pubbliche” siano hobbesiani ovvero sporchi, brutti, falsi ed immorali etc. è noto e convenuto. Non lo sono invece per le opinioni pubbliche convinte di vivere nel migliore dei mondi possibili, fatto di buoni, cattivi, enti ed entità morali, concetti ideali.
Il sapere è potere nella misura in cui il potere sa della sporca complessità della realtà e con quel registro vi agisce di conseguenza, mentre le opinioni pubbliche, della sporca realtà, hanno un’immagine ideale, fiabesca, teatrale, cioè una “rappresentazione”. Non sono cioè “predisposte” a sapere, come notava Hobbes. Quindi se la democrazia è il potere della cittadinanza, una cittadinanza che non sa o peggio non sa di non sapere e pensa pure di sapere, non può avere alcun potere. La cittadinanza è il pubblico davanti al quale si inscenano le rappresentazioni del potere, rigorosamente emendate dei lati più crudi e realistici. La cittadinanza non è in contatto con la realtà, è esposta ad una sua versione manipolata, edulcorata ed estetizzante.
Sapere è necessario per decidere le cose politiche della nostra forma di vita associata, quindi l’ignoranza vasta ed a molti livelli, la conoscenza distorta ad arte, scientemente coltivate, son ciò che impediscono si possa riconoscere lo statuto di “democrazia” alle nostre forme politiche. Noi non viviamo in “democrazie”, è giusto saperlo, almeno questo …
[Nella famosa foto, Bandar bin Sultan, per 22 anni ambasciatore saudita in USA in amichevoli chiacchiere nel salotto di casa del ranch texano del presidente americano G.W.Bush. La foto è del 2002. BbS poi torna in AS nel 2005 per occupare il posto prima di Segretario Generale del Consiglio di Sicurezza Nazionale e poi di Direttore Generale dell’Intelligence saudita]
NB_Tratto da facebook

IL VOLTO DI DIO NEI PRESSI DI KANDAHAR*, di Daniele Lanza

IL VOLTO DI DIO NEI PRESSI DI KANDAHAR*
(*note storiche aggiuntive sull’areale AFGANO antico anteriore all’islamizzazione)
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(PREMESSA) Nei nostri fondamenti di storia dell’Afganistan altro non ho tratteggiato che la gestazione, la nascita dello stato nazionale che vediamo oggi sulle mappe, traversando tutte le sue forme intermedie di sviluppo. In realtà per semplicità di esposizione sono partito dalla tarda età moderna, coprendo cioè solo gli ultimi 300 anni di evoluzione geopolitica per intendersi e non quanto vi era prima : per semplicità ed anche per correttezza dal momento che intendevo illustrare molto velocemente la nascita di questo stato nazionale – con i confini come li vediamo grossomodo -nel marasma che lo circonda………… se si decidesse di andare a ritroso verso ere più remote (corrispondenti al nostro medioevo o era antica) l’operazione avrebbe progressivamente perso senso, andando ad affrontare un qualcosa che nulla ha a che fare con l’Afganistan in evoluzione nell’età moderno/contemporanea, bensì un aggregato territoriale che porta altro nome e che non ha praticamente confini né un’identità che possa definirsi nazionale.
L’esposizione dei 4 capitoli che tanti di voi hanno sfogliato, prende in considerazione un’entità etno-territoriale (Pashtun) già da lungo tempo islamizzata, tanto per cominciare : un potentato/o stato nazione che emerge entro l’ecumene musulmano.
Se tuttavia vogliamo spingerci un po più in là e scavare in una memoria ancor più lontana e perduta per vedere le cose da una prospettiva storica ancora (troppo) più ampia che ci permetta di cogliere l’avvicendarsi delle civilizzazione sulla crosta terrestre, allora possiamo dare una spiegazione del perché in areale afgano troviamo residui di qualcosa di estraneo all’Islam e che porta le sembianze del BUDDA.
La cosa può descriversi in questo modo : l’ingresso tumultuoso dell’Islam corrisponde al 7° secolo dopo Cristo, esattamente in concomitanza con la caduta e l’islamizzazione della Persia sasanide ad opera dei califfati arabi (…). L’areale pashtun – analogamente alla Persia – sarà convertito alla fede di Maometto nel giro di 3-4 secoli, risvegliandosi musulmano per i primi secolo dopo l’anno 1000. “Conversione” sta tuttavia ad indicare che l’elemento umano che abitava la zona era già portatore di un suo sistema religioso che lentamente verrà rimpiazzato : di cosa si trattava ? Abbiamo a che fare con qualcosa che arriva dal sub-continente indiano…..e che si estende alla gole afgane molto prima di Cristo. Affrontiamo la parola del BUDDA.
Quando l’onda d’urto arabo/islamica investe i territori che oggi corrispondono all’Afganistan, essi non mostrano -malgrado la natura remota del luogo – un qualche rozzo credo barbarico, ma sono già da tempo immemore un’areale di diffusione del buddismo che filtra da sud, dagli imperi indiani limitrofi. Tutto inizia al tempo di ALESSANDRO IL MACEDONE : la titanica conquista di quest’ultimo e il sorgere dei regni ellenistici lungo tutta la linea dell’avanzata che fu è la chiave di volta della storia del vicino oriente……un evento non del tutto descrivibile come portata che mette in congiunzione le sponde orientali del Mediterraneo con l’area tra l’INDO e il GANGE (…). Se la vita di Alessandro è un battito di ciglia, sappiamo bene tuttavia che l’era ellenistica con le sue dinastie (nate dai generali che lo seguivano) fiorirà per centinaia di anni a venire, dando alla luce miracoli di sincretismo culturale impensabili nel mondo di allora. Ora, per arrivare al punto, ricordiamo che i più orientali tra questi regni ellenistici – un tempo le satrapie persiane più orientali, ora governate da satrapi macedoni – si trovavano geograficamente a ridosso dell’INDIA……oscuro e misterioso colosso geografico/demografico (già all’epoca) che lo stesso Alessandro non aveva potuto attaccare fino in fondo, complice la diserzione dei suoi stessi uomini (…). L’INDIA di allora era, politicamente parlando, rappresentata da imperi che portavano il nome delle dinastie del momento o perlomeno che sono ricordati così sui manuali di oggi.
Si da il caso – volere della sorte – che proprio negli anni immediatamente successivi la morte di Alessandro il grande, un ALTRO EVENTO (non noto alla storiografia occidentale) avviene in Asia : un capovolgimento politico nell’impero indiano che porta al potere la dinastia MAURYA (ricordare tale nome) che riesce nell’impresa di unificare quasi totalmente il continente indiano. L’impero MAURYA di fatto è la maggiore manifestazione di potenza geopolitica indiana nell’era antica, arrivando a estendere il proprio controllo su quasi 60 milioni di individui nel III° secolo avanti Cristo (in pratica mentre Alessandro il macedone creava un universo culturale e cosmopolita nell’Asia occidentale, parallelamente prendevano forma le fondamenta culturali di una grande potenza nell’Asia centrale hindu. Non tutti lo realizzano). L’unità dell’intero sub-continente indiano è raggiunta ad un alto prezzo in termini di vite umane a distruzioni nonché rischio di future rivolte : tali considerazioni (pratiche quanto spirituali) portano il nuovo sovrano – ASHOKA – ad un’ulteriore rivoluzione….non militare, ma religiosa.
ASHOKA, probabilmente consapevole dell’insufficienza della coercizione nel tenere insieme un ampio dominio, arrivò alla svolta morale che lo porta a superare la sua fede tradizionale (il bramensimo hindù, religione dei padri) per abbracciare un più universale e benevolo buddismo (realtà presente da tempo, ma vista come alternativa ed eversiva dalla tradizione induista, benchè culturalmente ne provenga). Re Ashoka spezza con la tradizione immemore per promuovere la pratica buddista nel suo regno, convinto che la forza benevola del convincimento possa portare maggiori frutti che le armi. L’operazione – di ampio respiro e coraggio – raccoglie un certo successo, determinando una certa diffusione del buddismo entro i confini dell’impero…….nonchè delle sue frange più periferiche : queste ultime corrispondono ai regni ellenistici di cui abbiamo parlato (quello della BACTRIANA è quello che maggiormente coincide – relativamente – con la sagoma dell’Afganistan moderno). I monarchi di origine macedone col tempo diventano tributari del sovrano indiano, ma in modo non conflittuale tramite un’accorta politica matrimoniale e non opponendosi alla diffusione del buddismo nelle proprie provincie : si potrebbe dire che una genuina sinergia si instauri tra l’impero indiano Maurya e la fascia ellenistica di confine ad esso.
Dopo meno di 150 la dinastia Maurya viene a sua volta travolta dal corso degli eventi……..ma tuttavia lasciando dietro di sé la preziosa eredità di buon vicinato con la tradizione ellenistica della Bactriana ed altri potentati rimasti in buoni rapporti per tutto quel tempo, i quali tendevano a vedere proprio nel BUDDISMO la chiave di una coesistenza pacifica (o più pragmaticamente di equilibrio geopolitico e comunicazione culturale) con gli indiani. Se dunque i discendenti di ASHOKA cadono nell’oblio…..i semi da lui gettati quando inaugurò l’era buddista sopravvivono : se da un lato le dinastie indiane successive tenteranno di rovesciare l’opera culturale di Ashoka, ritornando integralmente all’ordine religioso hindu e perseguitando i buddisti, dall’altro i potentati ellenistici si ribellano al vetero-ordine induista di ritorno, PROTEGGENDO quel buddismo che oramai avevano acquisito.
In particolare proprio il regno della Bactriana (sotto re Menandro) alla fine della dinastia Maurya e prima di essere invaso da altre dinastie indiane, entra vittoriosamente in conflitto con esse fondando quella potenza che sui manuali di storia indiana viene oggi definito come “REGNO GRECO-INDIANO” che di fatto copre la fascia nord-occidentale indiana + il Pakistan attuale + una parte considerevole dell’Afganistan moderno. Le conseguenze culturali cono significative : il buddismo in altre parole, sotto l’ombrello benevolo e protettivo del regno ellenistico-indiano si PRESERVA dalla reazione tradizionalista hindu, permettendo una sopravvivenza del buddismo di quasi un millennio nell’area in questione.
Per descrivere il processo in corso in altro modo mettiamola così : l’areale che poi verrà chiamato AFGANISTAN in era moderna (risultato di una scissione dall’impero persiano) si trovava ad essere – in era antica – un’espansione culturale INDIANA. Del tutto particolare per i tempi, a causa di 2 fattori : 1 – l’indianità che si afferma nella zona (quella in sembianza buddista cioè) è sicuramente alternativa rispetto al “core” culturale indiano (conservatore e bramanico). 2 – tale influsso culturale dall’India è accolto e mediato dal prisma ELLENISTICO che controlla il territorio……..e che da vita tra l’altro ad una nuova espressione del buddismo stesso il cui impatto è INCALCOLABILE.
Pochi sanno che l’arte figurativa indiana dell’era antichissima (antecedente ad Alessandro) era in buona parte NON-ICONICA : la simbologia c’era, ma quasi mai compariva un viso umano. L’arte buddista NON era (pare) antropomorfizzata. A partire dal contatto con la cultura greco/ellenistica il BUDDA inizia ad assumere sembianze decisamente umane, in statue di pietra che nella sagoma ricordano quelle dell’arte Mediterranea. Benchè vi siano pensieri discordi sul punto, una parte consistente del meinstream scientifico ritiene che i lineamenti fondamentali dei Budda indiani che iniziano a comparire nei secoli immediatamente precedenti a Cristo e da lì in avanti saranno la regola nel mondo indiano…….siano quelli delle divinità del Pantheon greco (a partire da Apollo in persona), cui vengono adattati costumi, pose e acconciature locali in un processo di adattamento estetico (…). Il discorso è lungo e potrei essere impreciso : se un esperto di arte e storia indian è nei paraggi, lo prego di venirmi in soccorso.
Ecco la ragione di innumerevoli siti archeologici buddisti nell’areale Afgano : quest’ultimo era la Bactriana ellenistica che accolse il Budda e gli diede il proprio volto di pietra (dall’Acropoli al Gange….visione suggestiva, ma va provata del tutto ancora).
Solo un’onda sismica come l’ISLAM avrà il potere di invertire il processo culturale instauratosi nel millennio precedente, portando nella dimensione musulmana l’antica e sepolta Bactriana (ora Afganistan)

NIENTE SCUSE: INCAPACI TOTALI, di Antonio de Martini

NIENTE SCUSE: INCAPACI TOTALI
Arriva l’8 settembre col suo solito ributtante strascico di lamenti e giustificazioni a posteriori. Precedo e chiudo.
A pagina 51 della biografia del Maresciallo Gustav Mannerheim scritta da Steven J Zaloga, ( Bloomsbury plc) leggo il testo di una dichiarazione del capo di SM tedesco Maresciallo Alfred Jodl – poi impiccato a Norimberga- così presentata dall’autore: “ both Mannerheim and Jodl were candid about Finland desire to extricate itself from the conflict, and Jodl remarked :
“ No nation has a higher duty than that which is dictated by the concern for the existence of the Homeland. All other considerations must take second place and no one has the right to demand that a nation shall go to its death for another”. ( ottobre 1943) .
Certo, c’era appena stato il trauma italiano, ma resta il fatto che Casa Savoia, lo Stato Maggiore italiano, Mussolini, Ciano e compagnia non seppero cercare altro che la salvezza personale, tranne qualche depresso grave che non seppe cercare nemmeno quella.
Non si parli di tragedie o manifesta inferiorità o guerra non sentita.
Si trattò di servilismo mellifluo da tutte le parti, mentre persino il capo di SM tedesco avrebbe capito e trattato decorosamente come avvenne con la Finlandia.
Abbiamo meritato tutto. Come riaccadrà nuovamente.

FONDAMENTI DI STORIA AFGANA (EPILOGO*), di Daniele Lanza

Dǝ Afġānistān wākmanān – د افغانستان واکمنان (ovvero REGNO DELL’AFGANISTAN…..)
Ghazi Amanullah Khan : questo è il suo primo re.
Emerge da quella fucina di idee che è il congresso post prima guerra mondiale (preceduto da fermenti nella decina di anni che la precedono) e a seguito di una brevissimo conflitto sul campo, il regno afgano contemporaneo.
Non si tratta più dell’emirato o altre forme di stato pre-moderne, ma si prefigge l’obiettivo di essere un moderno stato-nazionale, di forma monarchica, il cui cammino va nella direzione dei più efficienti regni europei, almeno idealmente. Da questa premessa generano 7 anni di intensa riforma (nel corso della quale ci si dota di una vera bandiera) che danno alla luce perlomeno le fondamenta del nuovo stato che si vorrebbe : i suoi monarchi saranno TRE in tutto e i loro regni spaziano per buona parte del 900. La strada della modernizzazione in un contesto autoctono e remoto come quello afgano è lunga è difficile…….sin dal principio vi sono tentativi di ribellione : il nuovo regno di stampo occidentale voluto dalla dinastia (ancora la Barkazai) NON rappresenta in realtà fasce del paese profondo che tentano già al momento dell’abdicazione del primo sovrano la strada della rivolta vera e propria. Anche quando quest’ultima sarà domata rimarrà sempre una ribellione strisciante, un pervasivo malcontento del paese profondo la cui vocazione sarebbe ripristinare il vecchio – e più tradizionale – EMIRATO……più consono alla mentalità conservatrice afgana. Che dire, per certi versi una situazione analoga a quella che si sviluppa nella vicina PERSIA filobritannica : stati nazionali in via di sviluppo economico, per natura riformisti e tendenzialmente rivolti verso l’occidente pur senza averne la tradizione democratica e le istituzioni. Entrambe – per un verso o per un altro – pur superando la fase del secondo conflitto mondiale e dell’inserimento nell’ordine mondiale che ne segue, non riusciranno a superare lo scoglio dei vorticosi anni 70, densi di contestazione e rivoluzioni……..
Per quanto riguarda il regno afgano, questo dura una quarantina d’anni dalla sua istituzione ufficiale : le riforme si susseguono con difficoltà (un vero sistema di monarchia parlamentare solo a partire dal 1964) e in generale il paese profondo non riesce a metabolizzare la modernità che gli si vorrebbe dare, tra l’altro dimostrandosi non all’altezza di gestire gravi crisi interne.
E’ il 1973 quando si verifica il primo colpo di stato militare : evento molto veloce e quasi senza spargere sangue….più che la violenza del golpista (per dire) pare che l’assenza di supporto per la corrotta monarchia abbia giocato il ruolo maggiore. Il regno si è dissolto da solo per la propria inadeguatezza. Il leader del golpe – tra l’altro membro della famiglia reale – non si autonomia regnante, ma al contrario proclama la repubblica dell’Afganistan come nuova fase (più trasparente ed efficiente) della modernizzazione nazionale. In pratica il processo continua, ma su basi moralmente più solide o così si vorrebbe……perché in realtà non lo sarà.
In sintesi : la rivoluzione repubblicana del 1973 pone fine ad un’inefficiente monarchia, proponendosi di procedere in modo assai più spedito verso la modernizzazione. Quest’ultima tuttavia è proprio quanto la parte conservatrice della nazione afgana NON VUOLE : se la vecchia monarchia era filoccidentale, il regime repubblicano nato dal golpe lo è ancora di più ! E’ avvenuta una rivoluzione sì….ma non quella che il popolo conservatore voleva (e si apre la strada della rivolta). Nel contesto descritto chi coglie la palla al balzo è a questo punto è il PDPA ovvero il partito di matrice marxista leninista del paese, allineato all’Unione Sovietica.
Quest’ultimo di propria iniziativa – approfittando del momento propizio e della ancora scarsa solidità del governo repubblicano – danno inizio ad un rapido confronto militare che li porta a prendere il potere nel 1978 (si chiamerà la rivoluzione del SAUR…o rivoluzione d’aprile). Insomma, gli anni 70 in Afganistan vedono DUE rivoluzioni : quella repubblicana del 1973 e poi quella socialista del 1978. Ricorda quanto accadde nella Russia zarista del 1917 : nel medesimo anno si verificarono due rivoluzioni (la prima “generale” e la seconda specificamente socialista e bolscevica. La seconda è conseguenza inevitabile della prima) solo che nel caso russo l’intervallo tra i due eventi è di 10 mesi, mentre in quello afgano sarà di 5 anni….si potrebbe vedere forse il 1973-78 come un’unica vorticosa fase rivoluzionaria paragonabile al 1917 ?(..mah).
Quanto è certo è che il PDPA dopo aver sfruttato il malcontento ed aver preso il controllo, si trovano da subito nella linea di fuoco : per un anno e mezzo governano seguendo un programma riformista di stampo socialista che è ancor più radicale di quello precedente, mettendosi contro il nerbo della popolazione rurale. Forse coscienti di questo fatto, il governo in carica firma lo stesso anno un trattato di “soccorso” con l’Unione Sovietica che dia un fondamento legale a quest’ultima per intervenire in caso di pericolo per il governo amico.  Il momento previsto dal trattato si presenterà assai presto, manco a dirlo………ora lo spazio a disposizione impedisce di trattare con dovizia di dettaglio le circostanze che portano all’intervento sovietico, ma si tenga a mente questo : le massime sfere sovietiche sono inizialmente RILUTTANTI a intervenire in forze, considerato il costo dell’operazione e la ricaduta negativa d’immagine che ne comporterà (a partire da Gromyko e Andropov rispettivamente ministro degli esteri e capo dei servizi segreti) : ciò che risulterà DETERMINANTE nell’innescare l’intervento di Mosca non sarà la fratellanza ideologica coi marxisti leninisti del PDPA, ma più concrete considerazioni geopolitiche quali il sospetto che il governo in carica (pur teoricamente affine) si distanzi dal Cremlino per creare rapporti più stretti con rivali come USA e CINA. Nel momento in cui tale timore (corroborato dai rapporti del KGB, dove si evidenzia come il PDPA la cui dirigenza è stata sostituita con un leader assai meno allineato a Mosca colpisca svariati suoi esponenti filosovietici) si fa più reale allora tutta la gerarchia sostiene compatta l’intervento immediato : d’altro canto al momento in cui Brezhnev da l’assenso il territorio afgano è GIA’ largamente fuori controllo governativo ed in mano ai guerriglieri mujeidin.
Nel dicembre del 1979 oltre 100’000 soldati di prima linea (cui si aggiungono altri della logistica per un totale di oltre mezzo milione di militari) varcano il confine sovietico-afgano, mentre un corpo scelto abbatte letteralmente tutte la massime cariche politiche in una notte nel palazzo governativo, reinstallando alla guida del PDPA una dirigenza filocremlino. Osservando la storia nel suo lungo corso, qualcuno potrebbe osservare che la Russia – nella sua incarnazione socialista – ha finalmente ottenuto nel 1980 quanto non aveva raggiunto in sembianze imperialiste esattamente 100 anni prima, ostacolata dall’impero britannico. E’ un successo tuttavia pirrico come si vedrà.
E’ l’esordio di una decina di anni di presenza sovietica sul territorio a difesa e sostegno di quella che ora è la repubblica POPOLARE afgana : l’armata rossa si ritira nei primi mesi del 1989 (hanno ben altro cui pensare al Cremlino) lasciando che la storia faccia il suo corso. Questo corso successivo non starò a rinvangarlo che immagino anche gran parte del pubblico lo rammenti………..fine del governo in carica nel 1992 e quindi immediatamente inizio di una guerra civile che vede il movimento musulmano afgano (temprato da anni ed anni di guerra contro l’invasore) all’attacco e in netto vantaggio : in pratica nei primi anni 90 si ritorna indietro a quella situazione di emergenza che vi era a fine anni 70……con la differenza che ora non c’è più l’URSS a puntellare la situazione (potremmo dire che l’intervento di Mosca ritardò di circa 15 anni l’avvento al potere dei TALEBANI (che sarebbero prevalsi attorno al 1980 anziché nel 1996 come nel corso reale delle cose). Il resto è ancor più chiaro……l’EMIRATO ISLAMICO dell’Afganistan (sì, in mano ai talebani torna ad esser quello) diventa un hub del terrorismo internazionale sino al drammatico settembre del 2001 : consideriamo gli anni 90 come una lunga transizione – dopo il presidio sovietico degli anni 80 – che ci conduce dritti alle torri gemelle.
Occupazione USA (loro turno), 20 anni di presenza a costi stellari e epilogo nei giorni che corrono (…).
Dunque vediamo di concludere questo lungo ciclo di capitoli affermando qualcosa, anziché riportando nozioni (esponiamoci, sì)
Ricapitoliamo nell’estrema essenza, ma con LOGICA, il rapporto storico di questo popolo col mondo circostante con cui interagisce (l’occidente) da 200 anni. Nel corso del secolo XIX lo si voleva privo di una politica estera autonoma perché poteva essere pericoloso (ci pensò la Gran Bretagna) ; nel corso del XX si andò oltre non limitandosi a sdentare la tigre, ma con l’ambizione di trasformarla in un’altra specie…….si abolisce l’EMIRATO e si punta a stati secolarizzati di modello occidentale rimediando una lunga serie di insuccessi : prima la monarchia filoccidentale (FALLISCE), poi la repubblica progressista (FALLISCE), quindi la repubblica popolare socialista (FALLISCE). In extremis quest’ultima ricorre all’aiuto esterno supplicando Brezhnev (….e anche questo FALLISCE). La libertà dalle catene della guerra fredda conferisce loro la libertà di tornare all’Emirato che desideravano, quello stato pre-secolare tradito cui auspicavano da generazioni. Passata la parentesi ventennale statunitense sono TORNATI a quell’emirato (che è una categoria filosofico spirituale, una dimensione, prima che politica come tutti avranno inteso a questo punto), senza colpo ferire. Chiunque abbia tentato di esportare la propria forma di democrazia (socialista, liberista) violando la loro dimensione ideale è stato severamente respinto al mittente (la busta nemmeno aperta, per intenderci).
In tantissimi – come ho sottolineato sin dall’incipit di questo mini ciclo – si mettono a commentare la crisi di questi giorni. Beh, alla luce della serie di fatti riportati sopra, forse di considerazioni ne bastano di meno : si potrebbe iniziare con anche solo una…………ed è che la democrazia NON si esporta. Parliamo di una contraddizione in termini, un paradosso che non sta in piedi quanto costringere un sentimento (che si suppone essere spontaneo).

 

Tutto ciò che si oppone al contollo totale dei talebani sull’Afghanistan, di Scott Neuman

Il dado è tratto….o quasi. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Tutto ciò che si oppone al contollo totale dei talebani sull’Afghanistan.

 

Uno striscione nella valle del Panjshir ritrae Ahmad Massoud e suo padre con uno slogan “Sogna un paese libero, libero grazie al tuo esercito, Ahmad è al tuo fianco, che Dio ti protegga”.

Reza/Getty Images

In Afghanistan, la storia ha modo di ripetersi: oggi, proprio come quando i talebani presero il potere per l’ultima volta nel 1996, l’aspra provincia del Panjshir è l’ultima ridotta che si frappone alla loro completa dominazione del paese – e ancora una volta, il nome del leader che si oppone a loro è Massoud.

“Oggi scrivo dalla valle del Panjshir, pronto a seguire le orme di mio padre con i combattenti mujaheddin che sono pronti ad affrontare ancora una volta i talebani”, ha scritto Ahmad Massoud in un articolo pubblicato sul Washington Post poco dopo che i talebani hanno preso Kabul. “Abbiamo scorte di munizioni e armi che abbiamo pazientemente raccolto fin dai tempi di mio padre, perché sapevamo che questo giorno sarebbe arrivato”.

Il padre di Massoud era una leggenda conosciuta come il “Leone del Panjshir”

Suo padre, Ahmad Shah Massoud, era una figura straordinaria – vista da molti come un genio militare e maestro della guerriglia che ha contribuito a combattere l’Unione Sovietica fino all’arresto negli anni ’80 e alla fine ha montato una difesa efficace contro i ripetuti sforzi di i talebani per ottenere il controllo della valle.

Il leader della guerriglia afghana, Ahmad Shah Massoud (al centro) è circondato da comandanti ribelli durante una riunione nella valle del Panjshir nel nord-est dell’Afghanistan, nel 1984.

Jean-Luc Bremont/AP

Tale era la sua abilità come comandante ribelle che Massoud era conosciuto dai suoi sostenitori e nemici allo stesso modo come il “Leone del Panjshir”.

Ma due giorni prima degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, Massoud – che era sfuggito a molte minacce ravvicinate sul campo di battaglia – fu assassinato da attentatori suicidi di al-Qaeda che si spacciavano per giornalisti televisivi. La sua morte ha avuto eco in tutto il mondo.

La prossima generazione di resistenza si è coalizzata

Avanti veloce al 2021: il figlio 32enne di Massoud sta riprendendo da dove il suo leggendario padre aveva interrotto. Ma a differenza del Leone del Panjshir, il giovane Massoud non ha esperienza di combattimento. Ha studiato nel Regno Unito, dopo essersi formato come cadetto straniero presso il Royal Military College di Sandhurst, aver studiato al King’s College e successivamente aver conseguito un master in politica internazionale presso la City University di Londra, secondo The Spectator. Le sue tesi di laurea e post-laurea erano sui talebani.

Mentre i talebani si rafforzavano negli anni precedenti al ​​loro assalto finale del mese scorso a Kabul, la capitale afghana, Massoud ha iniziato a organizzare l’opposizione contro un possibile ritorno della milizia islamista intransigente. In primavera, Massoud ha fatto il giro e ha incontrato il presidente francese Emmanuel Macron a Parigi, dove suo padre, che ha studiato in un liceo francese in Afghanistan, rimane una figura venerata.

L’educato nel Regno Unito Ahmad Massoud (mostrato qui nel 2019) è il figlio del leggendario comandante Ahmad Shah Massoud e, come suo padre, sta accumulando forze di resistenza nella provincia del Panjshir.

Reza/Getty Images

Massoud è stato recentemente raggiunto nella valle del Panjshir da Amrullah Saleh , un ex vicepresidente afgano che si è dichiarato presidente legittimo del paese dopo che Ashraf Ghani è fuggito quando i talebani hanno preso il controllo di Kabul. Saleh ha invitato i suoi sostenitori a radunarsi nel Panjshir per continuare la lotta contro i talebani.

È difficile valutare la forza delle sedicenti Forze di Resistenza Nazionali guidate da Massoud. Secondo quanto riferito, il gruppo è una coalizione di milizie e resti dell’esercito afghano.

Il Panjshir etnicamente misto è vulnerabile

La provincia del Panjshir, situata a circa 80 miglia a nord-est di Kabul, oltre l’ex campo d’aviazione di Bagram gestito dagli Stati Uniti e attraverso le aspre montagne dell’Hindu Kush, è una fortezza naturale contro gli invasori. I residenti del Panjshir includono un mix di tagiki etnici – come lo stesso Massoud – insieme ad Hazara, una minoranza musulmana sciita e altri.

Questa diversità è in contrasto con i talebani, che sono dominati dalla maggioranza pashtun dell’Afghanistan. Non è “una forza monoliticamente pashtun”, scrive Anatol Lieven, professore alla Georgetown University in Qatar, osservando che i militanti hanno “raccolto un buon sostegno tra le altre etnie facendo appello al conservatorismo religioso”. Ma, scrive, “la leadership talebana è ancora in modo schiacciante pashtun, e vista come tale dalla maggior parte degli altri popoli”.

Gli hazara afgani, in particolare, hanno motivo di temere i talebani e un forte incentivo a resistere. Durante gli anni precedenti al potere, i talebani hanno preso di mira gli hazara in una campagna di repressione e persecuzione, incluse uccisioni di massa. Non c’è alcuna indicazione che abbiano moderato da allora: un recente rapporto di Amnesty International delinea le recenti atrocità dei talebani contro il gruppo di minoranza.

“Queste uccisioni mirate sono la prova che le minoranze etniche e religiose rimangono particolarmente a rischio sotto il dominio dei talebani in Afghanistan”, ha affermato Agnès Callamard, segretario generale del gruppo.

Potrebbe essere troppo tardi per un accordo negoziato

Nonostante l’editoriale dal suono bellicoso di Massoud sul Washington Post , ha suggerito che il Panjshir potrebbe uscire dal controllo dei talebani. La scorsa settimana, secondo quanto riferito , delegazioni dei talebani e della resistenza del Panjshir si sono incontrate nella provincia settentrionale di Parwan, ma l’incontro di tre ore sembra aver prodotto poco più di un accordo per continuare a parlare.

“Vogliamo che i talebani si rendano conto che l’unico modo per andare avanti è attraverso i negoziati”, ha detto Massoud a Reuters di recente. “Non vogliamo che scoppi una guerra”.

In un’intervista via e-mail con la rivista Foreign Policy , Massoud ha spiegato: “Se i talebani sono disposti a raggiungere un accordo di condivisione del potere in cui il potere è equamente distribuito e decentralizzato, allora possiamo muoverci verso un accordo che sia accettabile per tutti”, ha scritto. “Qualsiasi cosa meno di questo sarà inaccettabile per noi e continueremo la nostra lotta e resistenza fino a quando non raggiungeremo giustizia, uguaglianza e libertà”.

Da parte dei talebani, uno dei suoi leader più anziani, Amir Khan Motaqi, ha invitato la resistenza del Panjshir a deporre le armi e a negoziare la pace. “L’Emirato islamico dell’Afghanistan è la casa di tutti gli afgani”, ha detto in un discorso.

Ma potrebbe essere già troppo tardi. Con Kabul sicura e gli americani finalmente spariti, i talebani hanno rivolto la loro attenzione militare alla provincia canaglia.

I talebani affermano che “centinaia” dei loro combattenti si stanno dirigendo verso il Panjshir “dopo che i funzionari locali … si sono rifiutati di consegnarlo”, secondo l’account Twitter arabo del gruppo, riporta Al-Jazeera .

E il primo sangue è già stato versato, apparentemente attenuando le possibilità di un accordo negoziato. Mentre gli ultimi voli statunitensi partivano da Kabul lunedì notte, almeno sette soldati talebani sono stati uccisi negli scontri nel Panjshir, secondo il gruppo di resistenza di Massoud, secondo l’Associated Press.

Nel frattempo, i talebani sono in grado di circondare i combattenti della resistenza di Massoud e impedire loro l’accesso ai rifornimenti. Non è chiaro per quanto tempo possano resistere.

Massoud sta cercando aiuto a Washington stanca della guerra, così come dal Regno Unito e dalla Francia.

“[Abbiamo] bisogno di più armi, più munizioni e più rifornimenti”, ha scritto.

https://www.npr.org/2021/09/02/1032891596/afghanistan-taliban-panjshir-ahmad-massoud

Stati Uniti! Dalla farsa alle comiche verso il dramma_ Con Gianfranco Campa

La tentazione di ridurre la storia a grandi trame o all’inconsapevolezza dei protagonisti è sempre ricorrente. La vicenda disatrosa della ritirata statunitense e della NATO dall’Afghanistan ci dice qualcosa di più. La volontà di piegare a qualche scadenza simbolica il corso degli eventi per trarne un qualche beneficio immediato in termini di immagine può ritorcersi pesantemente ed accelerare inesorabilmente la crisi e la resa dei conti.. E’ quanto è successo a Joe Biden; è l’epilogo di un lungo processo che a portato all’emersione di un ceto politico mediocre circondato da un gruppo dirigente accondiscendente a prescindere. Così la rovina politica di un uomo, la sua evidente decadenza fisica rischiano di portarsi dietro una intera classe dirigente e con esso il loro paese. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vlzriz-stati-uniti-biden-dalla-farsa-al-dramma-con-gianfranco-campa.html

 

 

TALEBANI E RIVOLUZIONE PASSIVA, di Teodoro Klitsche de la Grange

TALEBANI E RIVOLUZIONE PASSIVA

Mentre Kabul cadeva dinanzi all’offensiva dei talebani, molti ricordavano come la “dottrina” dell’espansione del modello democratico occidentale con la forza fosse stata condivisa – a quanto si leggeva – da almeno tre Presidenti U.S.A.: Clinton, Bush jr. e Obama e i loro consiglieri sia di destra che di sinistra.

Taluni ritenevano – non infondatamente, che fosse una derivazione degli interessi di potenza – politica ed economica – degli U.S.A. soprattutto, se non dell’intero mondo occidentale.

Nessuno – che mi risulti – ha ricordato, come da oltre due secoli, in varie formulazioni e declinazioni quella concezione è stata ripetuta. Esportava gli immortali principi dell’89, facendo la guerra alle monarchie europee (ed alle classi dirigenti) già la Convenzione francese nel 1792, sintetizzandola in una  frase efficace: “guerra ai castelli, pace alle capanne”, con il decreto del 15/12/1792.

Il che a prescindere dalle buone intenzioni (e dalla buona fede) era nient’altro che un programma di guerra civile europea. Che infatti infiammò il continente per quasi un quarto di secolo: le armate rivoluzionarie e poi napoleoniche trovavano molti alleati nei paesi conquistati, ma anche un “nuovo” nemico: i combattenti partigiani controrivoluzionari. I quali, ebbero un ruolo non secondario nella caduta di Napoleone. Fabrizio Ruffo, Empecinado, Andreas Hofer furono l’altro volto di una ostilità “irregolare” quanto profonda che, nel pensiero di Clausewitz, l’avvicinava alla guerra assoluta. Il richiamo agli immortali principi dell’89, servì a suscitare nemici almeno quanto a trovare alleati-seguaci, e fu comunque fertile nel provocare e aggravare l’ostilità. Non tanto perché presentarsi a casa d’altri con le baionette inastate e i cannoni rombanti non è propriamente il modo migliore e più rassicurante per farlo; ma soprattutto perché quegli immortali principi erano poco o punto condivisi dalle popolazioni invase.

Già lo aveva capito Vincenzo Cuoco il quale spiegava la breve esistenza della Repubblica partenopea (quattro mesi) col concetto di “rivoluzione passiva” destinato ad una notevole fortuna nel pensiero  politico italiano (a cominciare da Gramsci). Scriveva il pensatore napoletano che le idee importate dalla rivoluzione francese erano lontane ed astratte dagli usi e dai bisogni delle popolazioni meridionali, onde queste le consideravano estranee; per di più condivise da minoranze afrancesade: “le vedute de’ patrioti e quelle del popolo non erano le stesse: essi avevano diverse idee, diversi costumi e finanche due lingue diverse”. In questa situazione mancava il principale fattore aggregante dell’unità politica: l’idem sentire de re publica.

Nell’epoca delle rivoluzioni Sieyés e Thomas Paine confidarono nella condivisione di idee, valori, interessi, bisogni e costumi tra francesi e americani per sostenere la rivoluzione e le Costituzioni dei nuovi ordinamenti nonché delimitare i “confini” con chi non li condivideva (sia all’esterno che all’interno della sintesi politica). Renan ne avrebbe formulato, nel di esso concetto di nazione, una denotazione esauriente.

Il problema si presenta ancor più difficile quando nella storia moderna tale pratica si è collegata allo “scontro di civiltà”. Se a popoli facenti parte della stessa civiltà era ostico esportare certi principi, soprattutto con le armi, non era da meno, data la maggiore distanza, tra popoli di civiltà diverse; Toynbee ricorda i principali casi e personaggi che l’hanno tentato e, spesso, realizzato. In senso positivo (cioè riuscito), Pietro il Grande e gli statisti giapponesi della rivoluzione Meiji.

Tuttavia i tentativi riusciti avevano di solito due caratteri: di essere d’iniziativa interna, e spesso del potere legittimo (lo Zar o il Tenno), e non d’importazione armata. Anche se generarono rivolte e repressioni (gli Strelizzi e i Samurai) al limite della guerra civile, non c’erano “terzi interessati” a fomentare, indirizzare, sostenere i contendenti, e trasformare così il conflitto in guerra partigiana (contro il nemico esterno e interno). L’altro, che si proponevano di introdurre novità sì profonde nelle società tradizionali, ma non totali. Il fatto che fosse il potere legittimo ad introdurle era una garanzia a favore della non totalità delle innovazioni: cambia l’ordine, ma non l’ “ordinatore”. Oltretutto i cambiamenti erano comunque parziali, e volti ad acquisire ed utilizzare la tecnica e la scienza (e modelli istituzionali) occidentale, in funzione degli interessi e del sistema di valori delle nazioni in via di modernizzazione.

Questi elementi non ricorrono nella guerra afgana né nella fase anti-sovietica né in quella anti-americana, perché sia il comunismo che il capitalismo globalizzatore comportano la sostituzione del “sistema di valori” delle società tradizionali, con quello d’importazione; e così dei titolari del potere legittimo. A farne le spese è in particolare la religione, onde la guerra che ne consegue presenta un accentuato carattere di conflitto di religione, che Croce già notava nelle insorgenze anti-francesi del 1799.

I talebani, data la loro formazione di studenti di teologia, si può dire che in questo hanno un vantaggio culturale sui loro avversari, i quali pensano che la superiorità tecnico-scientifica occidentale possa sostituire (o depotenziare, anche se di molto) la fede.

Errore antico e ripetuto. Suscita stupore che, allorquando circa vent’anni fa furono decise le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq, si fosse anche teorizzato il contrario, di poter esportare con la forza la democrazia e lo Stato di diritto in società  così distanti da quella del cristianesimo occidentale di cui fa parte la potenza “liberatrice”; il tutto in qualche decennio e con i gendarmi alla porta.

Ma fare ciò significa pensare di ripetere in pochi lustri quanto da noi è stato concepito e realizzato in più di tredici secoli: dalla lotta per le investiture alla tolleranza, dalla Magna Charta alla dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, dall’editto di Rotari al Code civil.

Oltretutto è sopravvalutato il ruolo che  un “sistema di valori”, per quanto appetibile, può avere rispetto ai fondamenti di un potere efficace ossia l’autorità o la legittimità, che non si vede come possa avere un occupante straniero, anche se liberatore.

Neanche in una società occidentale democratica il potere di un occupante– o del di esso Quisling – è legittimo perché carente di qualsiasi riferimento al popolo sia ideale che procedurale (e concreto). E non si comprende perché l’Afghanistan dovrebbe fare eccezione.

Concludendo, la caduta di Kabul induce due considerazioni.

La prima è che se gli afgani (o buona parte di essi) è riuscita a vincere due guerre partigiane con le maggiori superpotenze del pianeta, difendendo la propria in-dipendenza, non è detto che la marcia, fino a qualche anno fa (asseritamente) trionfante della globalizzazione non possa trovare altre battute d’arresto, si spera in modi meno cruenti.

La seconda  che l’impresa iniziata dopo l’11 settembre era difficile. Oggi si risponde che è comodo e facile giudicare col…senno di poi.

Ma in realtà, qua si trattava di senno di prima. Cioè di valutare gli eventi del passato, le riflessioni che avevano generato da un lato (le difficoltà delle rivoluzioni passive) nel conformare (anche) le istituzioni politiche, le controindicazioni all’uso della forza, dall’altro i fatti più recenti (come la vittoria sull’occupazione sovietica). Tutti ben noti e determinanti per capire che il tentativo di esportare la democrazia e diritti umani con eserciti stranieri, quisling, collaborazionisti non sarebbe andato a buon fine. Neanche – anzi forse ancor più – se non fosse stato un ipocrita involucro per occultare la volontà ed interessi di potenza (politica ed economica). Perché, come scriveva Machiavelli, a credere questo si va appresso non alla realtà dei fatti ma all’ “immaginazione” che se ne ha – o se ne vuole avere, col risultato di trovare la ruina propria, cioè la sconfitta sul campo. Puntualmente avvenuta.

Teodoro Klitsche de la Grange

GLI USA: CAOS E DISTRUZIONE DI PAESI SENZA COSTRUZIONE DI FUTURO, a cura di Luigi Longo

GLI USA: CAOS E DISTRUZIONE DI PAESI SENZA COSTRUZIONE DI FUTURO

a cura di Luigi Longo

 

Invito alla lettura di due articoli, il primo di John Pilger (noto e conosciuto giornalista di fama mondiale) apparso sul sito www.lantidiplomatico.it del 25/8/2021 con il titolo Il “grande gioco” di distruggere i Paesi; il secondo di Alberto Negri (giornalista esperto di politica internazionale e in particolare del mondo arabo) pubblicato sul sito www.ilmanifesto.it del 28/8/2021 con il titolo Il cortocircuito jihadista degli Stati uniti.

La loro lettura ha stimolato le seguenti riflessioni riguardanti il caos in Afghanistan.

La prima. Per dirla con Sun Tzu, “[…] Generalmente, il caos è il disordine esistente tra l’ultimo ordine di cui si è a conoscenza e l’ordine futuro ancora da realizzarsi. E’ una fase pericolosa e incerta, nella quale ogni elemento di solidità sembra sgretolarsi […] Sebbene il caos sia in genere una fase difficile e faticosa, è anche dinamica, una fase di grande creatività e sviluppo […]”. Per gli USA, è bene dirlo, non è una fase di grande creatività e sviluppo, di fatto stanno costruendo un ordine basato sulla distruzione, sia perchè non hanno la capacità interna ed esterna di rilanciare una nuova idea di sviluppo e di relazioni sociali, né di costruire un nuovo modello di relazioni internazionali, né, tantomeno, di pensare un nuovo futuro (per la conferma di ciò si legga l’intervento di Henry Kissinger apparso sul The Economist Newspaper Limited, London del 25-8-2021 e ripreso dal Corriere della sera del 27/8/2021), sia perchè hanno scelto, per la loro peculiare storia di potenza, la strada dell’egemonia sfruttatrice; per dirla con David Calleo << [il] sistema internazionale crolla non solo perché nuove potenze non controbilanciate e aggressive cercano di dominare i loro vicini, ma anche perché le potenze in declino, invece di adattarsi e cercare una conciliazione, tentano di cementare la loro vacillante predominanza trasformandola in una egemonia sfruttatrice >>.

La seconda. Il falso ritiro degli USA dall’Afghanistan, a mio avviso, va visto sia dal punto di vista della strategia sia dal punto di vista della tattica. La strategia iniziò, come ricorda John Pilger, con la creazione di un esercito formato da un gruppo di fanatici tribali e religiosi conosciuti come i Mujahedin con l’obiettivo di diffondere il fondamentalismo islamico in Asia centrale, per destabilizzare e distruggere l’Unione Sovietica (è da riscrivere criticamente la storia, alla luce dell’implosione dell’URSS del 1990-1991, della fase bipolare tra i due grandi poli contrapposti, del capitalismo e del comunismo); oggi, nella la fase multicentrica sempre più accelerata, l’obiettivo è duplice: boicottare il coordinamento, sempre più intenso, tra la Cina e la Russia e bloccare il grande progetto di respiro mondiale rappresentato dalle Vie della seta (sia quella terreste, sia quella marittima, con i loro corridoi economici). Lo strumento di queste mire diventa la Nato che, come ci ricorda il Generale di corpo d’Armata Vincenzo Santo (ex capo di Stato Maggiore di tutte le forze Nato in Afghanistan dal settembre 2014 al mesi di febbraio 2015), “gli americani usano la Nato come vogliono e quando vogliono” (è disarmante Sergio Romano quando sminuisce, nel suo intervento pubblicato su www.ilriformista.it del 27/8/2021, il ruolo della Nato e auspica per l’Unione Europea la Comunità Europea di Difesa).

La tattica, che iniziò con la creazione dei terroristi (un pullulare di gruppi terroristici manovrati e utilizzati alla bisogna in tutte le aree di crisi mondiale), è quella di usare, ancora oggi, questi gruppi (una grande invenzione come quella di esportare i diritti umani e la democrazia (sic) nel mondo) per creare caos [nel grande spazio asiatico, dove l’Afghanistan è un territorio strategico] distruggendo popoli, città, territori, risorse, in modo che dal disordine creato venga fuori il loro ordine. Come ricorda Alberto Negri “Quello che stiamo vedendo è l’anticipazione del caos che verrà in Afghanistan e anche in altre aree critiche del mondo”.

Riporto quanto scrissi nel 2015 (Che ci fa l’Islamic state (IS) in Libia?): L’uso strumentale dei movimenti islamisti funzionali alla strategia atlantica non terminò con il ritiro dell’Armata Rossa dall’Afghanistan. Il patrocinio fornito dall’Amministrazione Clinton al separatismo bosniaco ed a quello kosovaro, l’appoggio statunitense e britannico al terrorismo wahhabita nel Caucaso, il sostegno ufficiale di Brzezinski ai movimenti fondamentalisti armati in Asia centrale, gli interventi a favore delle bande sovversive in Libia ed in Siria sono gli episodi successivi di una guerra contro l’Eurasia in cui gli USA e i loro alleati si avvalgono della collaborazione islamista.

Per la terza riflessione ripropongo dal succitato scritto del 2015, quanto segue: si sa che gli USA non amano un ordine mondiale multipolare, ma amano un mondo a loro immagine e somiglianza, democraticamente e civilmente costruito, e che, a tal fine scatenano guerre e usano tutti i mezzi per difendere e ri-creare su basi storicamente date un nuovo ordine mondiale. La guerra è un prolungamento della politica con altri mezzi, << La guerra non è dunque solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi. >>, può cambiare modalità, strumenti, strategie, eserciti, tecniche, eccetera, ma resta l’ultima istanza nel definire la potenza mondiale egemone, la storia questo insegna.

Gli USA sono una potenza pericolosa da bloccare: stanno perdendo la capacità egemonica perché non hanno un nuovo modello di respiro mondiale da proporre e puntano solo alla distruzione per bloccare le potenze in ascesa.

 

 

 

IL “GRANDE GIOCO” DI DISTRUGGERE I PAESI

di John Pilger *

 

Mentre uno tsunami di lacrime di coccodrillo travolge i politici occidentali, la storia viene soppressa. La libertà che l’Afghanistan ha conquistato oltre una generazione fa è stata distrutta dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e i loro “alleati”.

Nel 1978, il movimento di liberazione nazionale guidato dal Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan (PDPA) rovesciava la dittatura di Mohammad Daud, il cugino del re Zahir Shar. Fu una rivoluzione immensamente popolare che colse di sorpresa gli inglesi e gli americani.

I giornalisti stranieri a Kabul, riferiva il New York Times, rimasero sorpresi nello scoprire che “quasi tutti gli afghani che hanno intervistato hanno dichiarato [di essere] felici del colpo di stato“. Il Wall Street Journal riportava che “150.000 persone… hanno marciato per onorare la nuova bandiera… i partecipanti sono apparsi sinceramente entusiasti“.

Il Washington Post scriveva che “la lealtà afgana al governo non può essere messa in discussione“. Laico, modernista e, in misura considerevole, socialista, il governo presentò un programma di riforme visionarie che includeva la parità di diritti per le donne e le minoranze.

I prigionieri politici furono liberati e gli archivi della polizia pubblicamente bruciati.

Sotto la monarchia, l’aspettativa di vita era di 35 anni; un bambino su tre moriva durante l’infanzia. Circa il 90% della popolazione era analfabeta. Il nuovo governo introdusse l’assistenza medica gratuita. Fu lanciata una campagna di alfabetizzazione di massa.

Per le donne, i guadagni non avevano precedenti; alla fine degli anni ’80, metà degli studenti universitari erano donne, e le donne costituivano il 40% dei medici dell’Afghanistan, il 70% dei suoi insegnanti e il 30% dei suoi dipendenti pubblici.

I cambiamenti furono così radicali che rimangono vividi nei ricordi di coloro che ne beneficiarono.

Saira Noorani, una donna chirurgo fuggita dall’Afghanistan nel 2001, ha ricordato:

Ogni ragazza potrebbe andare al liceo e all’università. Potevamo andare dove volevamo e indossare quello che ci piaceva… Andavamo nei bar e al cinema per vedere gli ultimi film indiani il venerdì… tutto ha cominciato ad andare storto quando i mujahedin hanno iniziato a vincere… queste erano le persone che l’occidente ha supportato.”

Per gli Stati Uniti, il problema con il governo PDPA era che fosse sostenuto dall’Unione Sovietica.

Eppure non è mai stato il “fantoccio” deriso in Occidente, né il colpo di stato contro la monarchia è stato “sostenuto dai sovietici”, come sostenevano all’epoca la stampa americana e britannica.

Il segretario di Stato del presidente Jimmy Carter, Cyrus Vance, scrisse in seguito nelle sue memorie: “Non avevamo prove di alcuna complicità sovietica nel colpo di stato.”

Nella stessa amministrazione c’era Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale di Carter, un emigrato polacco e fanatico anticomunista ed estremista morale la cui duratura influenza sui presidenti americani è scaduta solo con la sua morte nel 2017.

Il 3 luglio 1979, all’insaputa del popolo americano e del Congresso, Carter autorizzò un programma di “azione segreta” da 500 milioni di dollari per rovesciare il primo governo laico e progressista dell’Afghanistan.

Questo è stato chiamato in codice dalla CIA Operation Cyclone.

I 500 milioni di dollari furono usati per corrompere e armare un gruppo di fanatici tribali e religiosi conosciuti come i Mujahedin. Nella sua storia semi-ufficiale, il giornalista del Washington Post Bob Woodward ha scritto che la CIA ha speso 70 milioni di dollari solo in tangenti. Descrive un incontro tra un agente della CIA noto come “Gary” e un signore della guerra chiamato Amniat-Melli: “Gary mise un mucchio di soldi sul tavolo: 500.000 dollari in file di banconote da 100 dollari. Credeva che sarebbe stato più impressionante dei soliti $ 200.000, il modo migliore per dire che siamo qui, siamo seri, ecco i soldi, sappiamo che ne avete bisogno … Gary avrebbe presto chiesto al quartier generale della CIA e avrebbe ricevuto $ 10 milioni in contanti.”

Reclutato da tutto il mondo musulmano, l’esercito segreto americano fu addestrato in campi in Pakistan gestiti dall’intelligence pakistana, dalla CIA e dall’MI6 britannico.

Altri sono stati reclutati in un college islamico a Brooklyn, New York, vicino a quelle Torri Gemelle che verranno poi abbattute. Una delle reclute era un ingegnere saudita di nome Osama Bin Laden.

L’obiettivo era diffondere il fondamentalismo islamico in Asia centrale e destabilizzare e infine distruggere l’Unione Sovietica.

Nell’agosto 1979, l’ambasciata degli Stati Uniti a Kabul riferì che “i maggiori interessi degli Stati Uniti sarebbero stati esauditi dalla scomparsa del governo del PDPA, nonostante qualunque battuta d’arresto che avrebbe comportato per le future riforme sociali ed economiche in Afghanistan“.

Rileggete le parole sopra che ho messo in corsivo. Non capita spesso che un tale intento cinico sia espresso in modo così chiaro. Gli Stati Uniti dicevano che un governo afghano genuinamente progressista ed i diritti delle donne afghane potevano andare all’inferno.

Sei mesi dopo, i sovietici fecero la loro mossa fatale in Afghanistan in risposta alla minaccia jihadista creata dagli americani alle loro porte.

Armati con missili Stinger forniti dalla CIA e celebrati come “combattenti per la libertà” da Margaret Thatcher, i mujahedin alla fine cacciarono l’Armata Rossa dall’Afghanistan.

Definendosi ora l'”Alleanza del Nord”, i Mujahedin erano dominati da signori della guerra che controllavano il commercio di eroina e terrorizzavano le donne rurali.

I talebani erano una fazione ultra-puritana, i cui mullah vestivano di nero e punivano banditismo, stupri e omicidi ma bandivano le donne dalla vita pubblica.

Negli anni ’80, ho preso contatto con l’Associazione Rivoluzionaria delle Donne dell’Afghanistan, conosciuta come RAWA, che aveva cercato di allertare il mondo sulla sofferenza delle donne afgane. Durante il periodo dei talebani, nascondevano le telecamere sotto il burqa per filmare le prove delle atrocità, e facevano lo stesso per esporre la brutalità dei mujahedin sostenuti dall’occidente. ‘Marina’ di RAWA mi ha detto:”Abbiamo portato la videocassetta a tutti i principali gruppi di media, ma non volevano sapere…

Nel 1996, il governo illuminato del PDPA cadde. Il presidente, Mohammad Najibullah, era andato alle Nazioni Unite per chiedere aiuto. Al suo ritorno, fu impiccato a un lampione.

“Confesso che [i paesi] sono pezzi su una scacchiera”, disse Lord Curzon nel 1898, “su cui si sta svolgendo una grande partita per il dominio del mondo”.

Il viceré dell’India si riferiva in particolare all’Afghanistan. Un secolo dopo, il primo ministro Tony Blair ha usato parole leggermente diverse.

Questo è un momento da cogliere“, dichiarò dopo l’11 settembre. ”Il caleidoscopio è stato scosso. I pezzi sono in movimento. Presto si sistemeranno di nuovo. Prima che lo facciano, riordiniamo questo mondo intorno a noi”.

Sull’Afghanistan aggiunse: “Non ce ne andremo [ma assicureremo] una via d’uscita dalla povertà che è la sua miserabile esistenza“.

Blair ha fatto eco al suo mentore, il presidente George W. Bush, che ha parlato alle vittime delle sue bombe dallo Studio Ovale: “Il popolo oppresso dell’Afghanistan conoscerà la generosità dell’America. Mentre colpiamo obiettivi militari, lasceremo anche cibo, medicine e rifornimenti agli affamati e ai sofferenti…

Quasi ogni parola era falsa. Le loro dichiarazioni di preoccupazione erano crudeli illusioni per una ferocia imperiale che “noi” in Occidente raramente riconosciamo come tale.

Nel 2001, l’Afghanistan è stato colpito e dipendeva dai convogli di emergenza dal Pakistan.

Come ha riferito il giornalista Jonathan Steele, l’invasione ha causato indirettamente la morte di circa 20.000 persone poiché le forniture alle vittime della siccità sono state interrotte e le persone sono fuggite dalle loro case.

Circa 18 mesi dopo, ho trovato bombe a grappolo americane inesplose tra le macerie di Kabul, spesso scambiate per pacchi di soccorso gialli lanciati dall’aria. Hanno fatto esplodere le membra dei bambini affamati e in cerca di cibo.

Nel villaggio di Bibi Maru, ho visto una donna di nome Orifa inginocchiarsi presso le tombe di suo marito, Gul Ahmed, un tessitore di tappeti, e di altri sette membri della sua famiglia, inclusi sei bambini e due bambini che sono stati uccisi nella porta accanto.

Un aereo americano F-16 era uscito da un cielo azzurro e aveva sganciato una bomba Mk82 da 500 libbre sulla casa di fango, pietra e paglia di Orifa. Orifa era assente in quel momento. Quando tornò, raccolse le parti del corpo.

Mesi dopo, un gruppo di americani arrivò da Kabul e le diede una busta con quindici biglietti: un totale di 15 dollari. “Due dollari per ciascuno dei miei familiari uccisi“, ha raccontato.

L’invasione dell’Afghanistan è stata una frode.

Sulla scia dell’11 settembre, i talebani hanno cercato di prendere le distanze da Osama Bin Laden. Erano, per molti aspetti, un cliente americano con il quale l’amministrazione di Bill Clinton aveva fatto una serie di accordi segreti per consentire la costruzione di un gasdotto da 3 miliardi di dollari da parte di un consorzio di compagnie petrolifere statunitensi.

In massima segretezza, i leader talebani erano stati invitati negli Stati Uniti e intrattenuti dall’amministratore delegato della compagnia Unocal nella sua villa in Texas e dalla CIA nel suo quartier generale in Virginia.

Uno degli affaristi fu Dick Cheney, in seguito vicepresidente di George W. Bush.

Nel 2010, ero a Washington e ho organizzato un colloquio con la mente dell’era moderna di sofferenza dell’Afghanistan, Zbigniew Brzezinski. Gli ho citato la sua autobiografia in cui ammetteva che il suo grande piano per attirare i sovietici in Afghanistan aveva creato “alcuni musulmani agitati“.

Hai qualche rimpianto?” Ho chiesto.

Rimpianti! Rimpianti! Quali rimpianti?

Quando guardiamo le attuali scene di panico all’aeroporto di Kabul e ascoltiamo giornalisti e generali in lontani studi televisivi che lamentano il ritiro della “nostra protezione“, non è il momento di prestare attenzione alla verità del passato in modo che tutta questa sofferenza non accada mai? ancora?

 

*Uno dei più grandi giornalisti viventi. Il film di John Pilger del 2003, “Breaking the Silence”, è disponibile per la visione su

http://johnpilger.com/videos/breaking-the-silence-truth-and-lies-in-the-war-on-terror

 

 

 

 

 

 

 

 

IL CORTOCIRCUITO JIHADISTA DEGLI STATI UNITI

di Alberto Negri

 

Scenari. Non governando il caos da loro stessi creato, gli americani hanno provato a usarlo in Iraq, Libia e Siria. Siamo all’anticipazione di un nuovo disordine. E non solo afghano
Ci sono jihadisti utili e altri no. I jihadisti è meglio manovrarli che combatterli, hanno pensato gli americani dopo i fallimenti in Afghanistan, Iraq, Libia e Siria. Con i talebani ci si può anche mettere d’accordo: quindi nel 2018 hanno chiesto ai pakistani, sponsor dei talebani, di scarcerare il Mullah Baradar e sono cominciate le danze di Doha. Uno spettacolo che piaceva a tutti perché nessuno durante questo tempo ha detto una parola contraria.
Certo bisognava vendere ai carnefici di prima gli afghani che avevano creduto nell’Occidente ma il pelo sullo stomaco alla Casa Bianca non manca, sia con Trump che con Biden. Del resto Trump nell’ottobre 2019 aveva venduto i curdi, valorosi alleati degli Usa contro l’Isis, alla Turchia di Erdogan: che male c’è a farlo un’altra volta? In fondo sia la Nato che gli europei digeriscono tutto.
È UNA VECCHIA STORIA. È stato usando gli estremisti islamici che gli Usa avevano iniziato la loro avventura da queste parti: foraggiando negli anni Ottanta, insieme a Pakistan e Arabia Saudita, i mujaheddin afghani contro l’Urss. Molti erano jihadisti ma allora in Occidente li chiamavamo «combattenti per la libertà». Era stato un successo: l’Urss perse la guerra e nell’89 si ritirò lasciando un governo che comunque durò altri tre anni.
Poi gli americani ci hanno provato anche in Siria, con la complicità della Turchia di Erdogan, per abbattere Bashar Assad: ma lì sono stati fermati nel 2015 dalla risorgente Russia di Putin.
Era servito, al momento, anche eliminare nel 2011 il regime di Gheddafi. Guerriglieri libici e jihadisti reduci da Iraq e Afghanistan venivano trasportati dalla Libia alla Turchia per passare in territorio siriano insieme a tunisini, ceceni, marocchini e via discorrendo. Il segretario di stato Hillary Clinton, che allora aveva in squadra Toni Blinken, attuale capo della diplomazia Usa, avevano pensato di fare un’alleanza di comodo anti-Assad con i jihadisti libici mandando l’ambasciatore Chris Stevens a Bengasi: venne fatto fuori dai salafiti di Ansar Al Sharia, era l’11 settembre 2012. E la Clinton ci rimise la Casa Bianca.
NON GOVERNANDO il caos che loro stessi avevano creato, gli americani provarono a usarlo contro i rivali. In Iraq gli Usa si erano ritirati con Obama nel 2011, lasciando il Paese al suo destino dopo averlo invaso nel 2003 con la bugia delle armi di distruzione di massa: il Paese precipitò nelle mani di Al Qaeda e poi dell’Isis.
Questi jihadisti erano utili per impantanare l’Iran, sponsor del governo locale: nel 2014 pasdaran e milizie sciite dovettero intervenire per fermare il Califfato alle porte di Baghdad. Bloccare la Mezzaluna sciita e metterla sottopressione era il vero obiettivo geopolitico di Washington. A missione compiuta gli americani mollarono i curdi al massacro dei turchi, fecero fuori Al Baghdadi e il 3 gennaio 2020 uccisero a Baghdad con un drone il generale iraniano Qassem Soleimani.
ORA GLI USA SE NE VANNO, per la seconda volta, anche dall’Iraq lasciando il posto alla Nato con un contingente al comando dell’Italia. E dopo la disfatta di Kabul dobbiamo incrociare le dita, visto che di solito lasciano dietro terra bruciata.
GLI ACCORDI DI DOHA dovevano riconsegnare l’Afghanistan ai talebani, complici di Al Qaeda nell’11 settembre 2001, ma anche eredi dei prediletti mujaheddin anti-sovietici. Insomma una bella operazione per sfilarsi e riportare «ordine» dopo avere preso atto del fallimento di esportare la democrazia liberale.
Nel momento in cui si sono messi a negoziare in Qatar, a Washington erano consapevoli che avrebbero smontato alla «bolla» filo-occidentale in un Afghanistan già controllato al 50% dai talebani. Bastava una ventata e tutto sarebbe crollato in mano loro. Il 2 luglio gli Usa chiudono di notte la base di Bagram, senza avvertire l’esercito afghano, tagliando luce e acqua: Kabul era già perduta allora. Il messaggio è stato devastante sul morale dei soldati afghani che si sono anche trovati senza copertura aerea perché avevano ritirato tecnici e contractors. Sono quindi stati calcolati male i tempi e gli Usa e la Nato sono finiti nel caos dell’aereoporto e in un’evacuazione più caotica di quella di Saigon 1975, dove per altro non c’erano attentatori suicidi da affrontare.
L’ISIS-KHORASSAN non spunta dal nulla. Fondato nel 2015 ha portato una settantina di attentati e l’8 maggio ha fatto una strage di 55 studenti a Kabul. Per combatterlo si erano mobilitati americani, esercito afghano, talebani e persino Al Qaeda. Con l‘attentato di Kabul l’Isis-K ha colto 4 obiettivi: 1) colpire gli Usa 2) minare la credibilità dell’”ordine” talebano 3) colpire la rivale Al Qaeda 4) lanciare un messaggio alla Jihad globale dall’Asia al Nordafrica, dal Medio Oriente al Sahel. Il ritiro americano può provocare un effetto domino sulla sicurezza internazionale.
Quello che stiamo vedendo è l’anticipazione del caos che verrà in Afghanistan e anche in altre aree critiche del mondo. Adesso accorciare i tempi e fuggire lascerebbe bloccati in territorio ostile, secondo la maggior parte delle stime, centinaia di cittadini statunitensi e migliaia di collaboratori afgani. Tutti candidati a diventare ostaggi. Ma restare più a lungo sarebbe un invito a ulteriori attacchi terroristici all’aeroporto da parte dell’Isis-K e, dopo il 31 agosto, da parte anche degli stessi talebani. Il cortocircuito jihadista, innescato 40 anni fa dagli Usa, fulmina e incenerisce i suoi maldestri manovratori.

 

 

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