Donald Trump e la rivolta dei cani al sole (commento di Massimo Morigi all’articolo di Gianfranco Campa “T-Rex il Mastino di Trump”)

Donald Trump e la rivolta dei cani al sole (commento di Massimo Morigi all’articolo di Gianfranco Campa “T-Rex il Mastino di Trump”)

Scrive Francis Fukuyama nel più famoso passaggio della Fine della Storia e l’Ultimo Uomo: «The end of history would mean the end of wars and bloody revolutions. Agreeing on ends, men would have no large causes for which to fight. They would satisfy their needs through economic activity, but they would no longer have to risk their lives in battle. They would, in other words, become animals again, as they were before the bloody battle that began history. A dog is content to sleep in the sun all day provided he is fed, because he is not dissatisfied with what he is. He does not worry that other dogs are doing better than him, or that his career as a dog has stagnated, or that dogs are being oppressed in a distant part of the world. If man reaches a society in which he has succeeded in abolishing injustice, his life will come to resemble that of the dog. Human life, then, involves a curious paradox: it seems to require injustice, for the struggle against injustice is what calls forth what is highest in man.» (Fukuyama 1992: 311). Nell’articolo di Gianfranco Campa “T-Rex il Mastino di Trump” l’analista, soffermandosi su un importante aspetto della nuova amministrazione Trump, la nomina a Segretario di Stato di Rex Tillerson, va oltre la rappresentazione dei dati biografici e del probabile modus operandi del neonominato segretario di stato ma fornisce anche importanti spunti sia su quella che possiamo definire la stimmung della nuova amministrazione Trump sia sul vero motivo per cui questa nuova amministrazione entra nel pieno dei poteri dovendo affrontare all’interno un vero e proprio clima di guerra civile (e al livello internazione una palese e feroce ostilità il cui unico obiettivo è di allearsi con i facitori della guerra civile interna americana al fine di rovesciare la nuova amministrazione). Quali sono le caratteristiche di Rex Tillerson? Rex Tillerson non è un politico nel senso peggiorativo della parola, Rex Tillerson non è cioè un politico uso a vellicare il popolo in nome di principi universalistici ma nonostante ciò (cioè nonostante la pesante e negativa semantica che si trascina il termine in questione) è un politico perché sa da grande responsabile e dirigente della massima multinazionale petrolifera statunitense che un accordo e/o una decisione non è mai frutto né di un puro calcolo tecnico né del rigido attenersi ad astratti parametri tecnici (in politica i principi universalistici dei diritti dell’uomo o simili, in economia le mitologiche leggi dell’economia, come vorrebbe il liberalismo) ma del sapiente bilanciamento di tutti questi fattori (illusioni politiche universalistiche comprese) al fine di comporre una linea politica e/o di azione/conflitto strategico coerente, razionale e, in ultima istanza, intimamente pacifici perché presuppone non un interlocutore demonizzato ma una controparte in possesso dei medesimi orientamenti e strumenti di analisi realistici. Ora essendo queste caratteristiche/modus operandi di Tillerson profondamente rappresentativi dell’amministrazione Trump, si spiega così da un lato il feroce clima di guerra civile scatenato all’interno degli Stati uniti da quegli agenti strategici, prima dell’amministrazione Trump totalmente prevalenti, che sotto il ridicolo vestito dei diritti universalistici liberal-liberisti avevano dichiarato guerra a tutti coloro che al di fuori degli Stati uniti si opponevano alla truffa democraticistica e al totalitarismo della globalizzazione mercatistica sia il fatto che in questa guerra civile le truppe d’assalto siano costituite dal tipo umano-politico che Fukuyama (non si capisce bene se con disprezzo e fatalismo o vedendoli come un fenomeno in sé positivo) definisce cane al sole, dove con cane “content to sleep in the sun” Fukuyama delinea l’idealtipo dell’uomo democratico, un incrocio fra indolenza fisica, pigrizia intellettuale e finte alte idealità che gli dovrebbero essere garantite dai politici democratici (a tutto disposti nelle loro concessioni demagogiche) e a livello di costruzione sistemica dello stato, dagli universalistici diritti politici formalmente garantiti dalle carte costituzionali liberal-liberiste. Ora Trump (e tutta la sua amministrazione) sono il più esplicito proclama che le cose non stanno per niente così, sono la dimostrazione che è iniziata una “vera rivoluzione” dove al posto dei fantasmagorici diritti universalistici e della loro ultima miserrima traduzione politically correct del diritto alle varie diversità più o meno di genere si cerca di costruire e di mettere in azione l’unico vero diritto che veramente conta (e che, in ultima istanza, è il motore del lagrassiano conflitto strategico), e cioè il diritto ad avere la possibilità di essere protagonisti ed efficaci all’interno del conflitto strategico stesso (detto in altri termini: quello che veramente conta è il diritto/dovere, se non si vuole essere scippati del proprio futuro, a non essere presi per i fondelli dai turiferari dei diritti umani e politici universalistici). E da qui la rivolta di piazza dei poveri pasdaran mossi dai grandi agenti strategici del vecchio sistema di potere, la rivolta, cioè dei cani al sole, povere anime eterodirette e che nel loro irrazionale terrore verso la nuova amministrazione Trump non sono che il sintomo di un più razionale terrore da parte del vecchio sistema di potere che non risparmierà alcun mezzo lecito od illecito per fermare questa rivoluzione (aizzare i cani al sole è solo uno stadio di una guerra che potrà essere combattuta anche con ben altri mezzi…). E, molto più modestamente per quanto riguarda le vicende di un paese periferico come l’Italia, anche da acuti osservatori come Gianfranco Campa, il compito di tenerci accuratamente e scientificamente informati su questa importantissima – e lo ripetiamo, autenticamente rivoluzionaria – vicenda americana nella speranza chi i nostrani “cani al sole” scoprano che i conti non tornano (il riferimento al movimento stellare è puramente non casuale) e che in un giorno fausto per noi e per loro riescano veramente a vedere (e quindi a realizzare) la loro vera natura di Zoon Politikon (animale notoriamente che non si scalda pigramente al sole ma trova conforto in una comunità politica che gli garantisca dialetticamente, cioè realmente e conflittualmente, tutti quei diritti e possibilità che le retoriche universalistiche proclamano truffaldinamente solo sotto forma di mito).

I BUOI OLTRE LA STALLA, di Giuseppe Germinario

Nell’attuale compagine governativa pare finalmente emergere il paladino di un protezionismo mirato, il fautore della “messa in sicurezza del paese”: Carlo Calenda. Il ministro aveva evidenziato al pubblico le proprie doti di chiarezza e determinazione (https://www.youtube.com/watch?v=MW0ERHOqqr4 ) già nel suo primo intervento da ministro del Governo Renzi all’assemblea di Confindustria. L’intervista al Corriere della Sera del 1° gennaio (  http://www.corriere.it/economia/17_gennaio_01/calenda-una-rete-protezione-difendere-interessi-nazionali-2ecfb74e-d05c-11e6-a287-5b1c5604d8ca.shtml  ) sembra infine tracciare chiaramente il nuovo orientamento  delle forze dette progressiste, della possibile grande coalizione che si va profilando con le prossime elezioni o quantomeno del perpetuarsi dell’attuale gioco politico nelle mutate condizioni del contesto interno e internazionale. Più che i punti salienti dell’intervista, facilmente desumibili dal testo, mi paiono significative piuttosto quelle espressioni che delimitano l’orizzonte culturale e politico, quindi la sostanziale inadeguatezza della attuale classe dirigente, della quale Calenda mi pare uno dei migliori esponenti, ad affrontare le sfide in atto. L’Italia anello debole dell’Europa “rischia di esserlo se si interrompe il percorso che ha iniziato a portarci fuori dalla crisi, e mettere in sicurezza il Paese, dopo la sconfitta sulle riforme istituzionali, richiede un cambiamento di strategia“; “entriamo in una stagione dove il nazionalismo economico si rafforzerà in tutto il mondo. Non dobbiamo abbracciarlo, ma neanche essere impreparati ad affrontarlo”; “questo non vuol dire limitare gli spazi di mercato, ma essere in grado di reagire quando viene distorto o manipolato, anche con regole scritte ad hoc, per indebolire il nostro tessuto economico”; “dovremmo da subito lavorare al progetto di una nuova Europa con i Paesi fondatori, ma oggi la priorità è vincere i populismi”; i settori prioritari sono “L’industria, dando supporto solo a chi investe in innovazione e internazionalizzazione con strumenti automatici che eliminino l’intermediazione politica e burocratica, come abbiamo fatto con il piano Industria 4.0. Analogo lavoro va fatto nei settori del turismo, della cultura, dove moltissimo è già stato realizzato, e delle scienze della vita”; “Nessuna forza politica, da sola, potrà portare il fardello delle scelte che si renderanno necessarie. La stessa legge elettorale va disegnata tenendo presente questo scenario, che “chiamerà” probabilmente una grande coalizione.”; “Questo esecutivo assolverà al suo compito se sarà il ponte tra la stagione importantissima di rottura del governo Renzi e quella di messa in sicurezza del Paese che dovrà portare avanti il prossimo esecutivo, mi auguro sempre con Renzi alla guida”.

Alla luce di queste dichiarazioni l’intenzione di “fare sistema” e l’obbiettivo di “ricostruire una rete fatta di grandi aziende, pubbliche e private, e di istituzioni finanziarie capaci di muoversi all’occorrenza in modo coordinato, tra di loro e insieme al governo” appaiono rispettivamente meno realistica e poco coerente.

Appaiono più che altro un ripiego legato al soprassalto di nazionalismo economico e all’ondata di populismo; esauritosi il primo e sconfitto il secondo non resterebbe che riprendere coerentemente le politiche comunitarie di creazione di un mercato unico nel rispetto delle regole stesse di mercato.

Da dirigente e manager, più spesso da politico e da ministro, abbiamo ascoltato Calenda difendere il liberismo dal suo peggior nemico: il dogmatismo liberista. Critica giustamente, anche se tardivamente, l’assunzione pedissequa di un modello economico astratto, associato negli ultimi venti anni alla retorica magnifica e progressiva della globalizzazione, ma ritiene l’intervento politico di regolamentazione e l’intervento pubblico diretto nelle scelte gestionali e di investimento un evento straordinario, un espediente o uno strumento temporaneo teso a ripristinare il mercato. Di fatto quel dogma che cerca di cacciare dalla porta rientra surrettiziamente dalla finestra. Un dogma che impedisce di vedere il mercato come una combinazione infinita e variabile di dirigismo e di libertà di iniziativa, di protezioni e di spontaneità, di regolamentazione della circolazione e delle caratteristiche dei prodotti e delle merci, di tutela della proprietà e del patrimonio la cui particolare peculiarità dipende da determinati rapporti di forza politici/economici che delimitano la formazione di una o più aree di influenza. Paradossalmente la “libertà” e la “spontaneità” di scelta e circolazione individuale si liberano con la vittoria egemonica di centri strategici, di un paese e di una formazione sociale in grado di stabilire un perimetro di influenza, le regole di funzionamento e le necessarie trasgressioni, il grado e gli ambiti di liberismo e dirigismo.

In base a questa dinamica fondamentale i paladini del dogma liberista e della globalizzazione, sia gli oltranzisti che i pragmatici, solitamente diventano i sostenitori della politica di potenza nei paesi egemoni e della sudditanza nella periferia della sfera di influenza.

Può sembrare una diatriba puramente accademica; spesso assume le vesti di una discussione riguardante la mera correttezza o i meri errori, l’irrazionalità di scelte ed indirizzi. In realtà è un paradigma la cui ostinata adozione comporta delle profonde implicazioni, tutte negative, in termini di adeguata analisi politica e di perseguimento di strategie e di obbiettivi altrettanto adeguati all’attuale lunga congiuntura che stiamo attraversando; una adeguatezza che si deve misurare rispetto al livello di autorevolezza, di forza, di benessere e coesione che una classe dirigente degna di questo nome intende realisticamente raggiungere per sé e per il proprio paese.

Il nazionalismo economico appare quindi un incidente e un accidente della storia da rimuovere al più presto per riprendere il cammino verso la costruzione di una comunità globale quando in realtà pervade le vicende politiche e il conflitto economico sin dalla prima formazione degli stati nazionali sia nella forma a prevalenza liberista propugnata dalle formazioni dominanti, sia a quella a prevalenza protezionistica delle formazioni in ascesa o in posizione difensiva nell’agone internazionale. Nella fattispecie dell’Unione Europea il nazionalismo economico appare solo oggi agli occhi dei liberisti dogmatici, ma solo perché è finalmente caduta la maschera della retorica europeista basata sulla distruzione degli stati nazionali che celava sotto mentite spoglie il dominio politico dello stato nazionale americano frutto di una schiacciante vittoria militare e il conflitto e la regolazione continua di esso tra gli stati nazionali componenti l’Unione. Una retorica nefasta che ha illuso e neutralizzato le ambizioni delle formazioni più fragili; che ha bloccato sul nascere, con la retorica della costruzione del mercato comune dei consumatori propedeutica alla unione politica, l’opzione di De Gaulle, negli anni ’60, di una concomitante costruzione europea fondata sugli stati nazionali, sulla creazione concordata di grandi aziende, frutto di accordi, compartecipazioni, integrazioni paragonabili a quelle americane, sulla fondazione di una politica estera autonoma. Una retorica che interpreta come contingente ciò che in realtà sarà strutturale e pervicace ancora per lungo tempo.

Se il nazionalismo economico va contenuto e neutralizzato, l’avversario da battere in questo frangente è il populismo o sedicente tale. Anche in questo caso si assiste ad una sorta di dissociazione dell’azione politica strategica dall’attuale contingenza quasi che la lotta al populismo debba comportare una sospensione del programma di integrazione europea.

Il “reddito d’inclusione” come gli altri singoli e parziali provvedimenti redistributivi assumono la caratteristica di un rozzo strattagemma dal sapore assistenziale teso a fronteggiare la deriva politica.

Gli investimenti, per altro radi, sono proposti come semplice volano per rilanciare la domanda. L’aspetto strategico di questi ultimi e la loro possibilità di realizzazione ottimale sono sicuramente inficiati dal tramonto del progetto di riorganizzazione istituzionale ed amministrativo legato all’esito referendario. È la stessa loro natura, però, legata quasi esclusivamente all’ammodernamento delle infrastrutture che potrà certamente migliorare l’efficienza del sistema ma che non determinerà di per sé una direzione di sviluppo che interrompa l’attuale processo di declassamento.

Si arriva quindi al cuore degli argomenti e degli indirizzi posti da Calenda.

Ricostruire una rete” solo per contrastare “distorsioni e manipolazioni del mercato” significa di per sé precludersi una gamma di interventi “assertivi” più volte utilizzati in passato nei momenti di costruzione e di crisi dell’economia del paese.

TRE QUESITI AL NOSTRO MINISTRO

Il proclama, però, glissa clamorosamente su tre importanti questioni alla mancata o erronea risposta delle quali corrisponde esattamente la velleità del progetto.

  1. Quali strumenti si intende utilizzare per trattenere in Italia il risparmio e le riserve che con l’attuale struttura finanziaria continuano a migrare massicciamente all’estero e a rientrare parzialmente, in mano però a gestori estranei al controllo nazionale? Il collocamento azionario di Poste Italiane, la sua sempre più marcata scissione dalla Cassa Depositi e Prestiti (CDP), l’ingresso di fondi esteri nella stessa CDP, il fallimento della costituzione di una banca per il Mezzogiorno, il fantasma di una banca di credito alle piccole e medie imprese, l’utilizzo della CDP per indebolire la forza ed il controllo delle grandi aziende strategiche residue piuttosto che il loro rafforzamento, l’attività di raccolta delle banche ormai largamente legata al collocamento di titoli di terzi e al ruolo di collettori sono scelte in netto contrasto con il proclama.
  2. Come si intende esercitare il necessario controllo e condizionamento sulle scelte di quelle aziende strategiche e leader nei vari settori che dovrebbero partecipare alla rete? L’indifferenza se non la compiaciuta e reiterata connivenza che Calenda, così come Renzi, Monti e la quasi totalità della classe dirigente degli ultimi trenta anni hanno ostentato nella inesorabile cessione all’estero della proprietà e controllo non solo delle aziende strategiche del settore finanziario, energetico, delle infrastrutture e dell’alta tecnologia ma ultimamente anche delle aziende leader di numerosi distretti industriali e della rete commerciale e logistica mi sembra faccia a pugni con il sussulto di sovranismo verbale ed estemporaneo del nostro ministro. In alcuni casi queste cessioni hanno determinato uno sviluppo dell’attività produttiva, nella grande maggioranza di casi un rapido ridimensionamento ed impoverimento; comunque un incremento di spese di risorse pregiate, comprese le attività di ricerca, utilizzate come incentivi e destinate ad essere valorizzate altrove e una subordinazione a strategie decise altrove. Le vicende della FIAT, della TELECOM, dell’industria degli elettrodomestici tra le tante parlano da sole.
  3. Come si intende costruire quella necessaria rete di agenzie funzionali ai grandi progetti di intervento infrastrutturale e di investimento diretto un tempo presenti, pur tra innumerevoli carenze, e smantellata sciaguratamente a partire dalla metà degli anni ’80 in concomitanza con il processo di regionalizzazione delle competenze?

Nell’intervista non troviamo né le giuste domande e questo va a scapito dei professionisti dell’informazione, né tantomeno le risposte adeguate e convincenti.

IL CAVALLO DI BATTAGLIA. L’INDUSTRIA 4.0

Il limite dell’orizzonte interpretativo di Calenda si svela proprio nel progetto fondativo della sua azione: il programma di sviluppo dell’industria 4.0.

L’enfasi e le aspettative sono del tutto giustificate.

L’implementazione dell’industria 4.0 è iniziata ormai da parecchi anni prima negli USA poi in alcuni paesi dell’Europa Centrale.

È un processo che si realizzerà ancora attraverso lunghi anni; che segnerà in maniera diversa i vari settori produttivi; che cambierà i modelli di organizzazione aziendale; che porterà ad una maggiore integrazione delle attività sia nella verticale che nell’orizzontale delle relazioni gestionali; che sconvolgerà una delle basi sulle quali si forma la stratificazione sociale, in particolare la formazione degli strati intermedi professionali e di quelli con competenze elementari.

È un modello operativo concepito per le grandi imprese e le grandi unità amministrative e gestionali.

Manca sino ad ora una definizione rigorosa di industria 4.0; riguarda comunque un processo di digitalizzazione ed informatizzazione che preveda la costruzione di reti informatiche e telematiche, l’acquisizione ed elaborazione dati e la conseguente trasmissione digitale di comandi operativi e adattivi nelle varie fasi comprese quelle produttive (internet delle cose) secondo processi modulari predeterminati ed introiettati nei software applicativi.

Il controllo e l’elaborazione nei primi due ambiti sono appannaggio pressoché esclusivo dell’impresa americana e senza una integrazione e concentrazione dell’industria e della ricerca europea, tutt’altro che promossa dalle istituzioni comunitarie e dai suoi governi nazionali costitutivi, difficilmente potrà essere scalfita seriamente. Rimangono gli ultimi due ambiti; in questi il nostro paese soffre di ulteriori handicap legati alla dimensione ridotta delle aziende, alla perdita di controllo dei distretti industriali, alla merceologia dei prodotti legati soprattutto alla componentistica specie meccanica piuttosto che al prodotto finito, a settori tradizionali di produzione piuttosto che innovativi.

Un contesto quindi che rende se non impossibile più problematica e costosa l’implementazione dei processi, che tende a concentrarla nei settori dedicati all’esportazione.

Una condizione che richiederebbe un intervento politico ancora più assertivo (un termine ormai ricorrente nel linguaggio di Calenda) rispetto ad altri paesi nella ricerca, nella creazione di piattaforme industriali adeguate, nel coordinamento del processo di integrazione, nella trasmissione delle competenze informali  nelle piccole aziende, nel sostegno delle necessarie figure professionali che in altri contesti sono le stesse grandi aziende a creare e tutelare.

Su quest’ultimo aspetto, ad esempio, il Governo Renzi pur avendo ancora una volta centrato il problema, lo ha ridotto ad una mera tutela assistenziale e normativa di alcune categorie professionali autonome esterne agli attuali ordini.

Affermare al contrario il carattere indifferenziato del processo di informatizzazione, l’irrilevanza quindi di settori strategici; supportare genericamente l’industria attraverso “sistemi automatici” e neutri di incentivazione nei processi di innovazione ed internazionalizzazione; celare dietro l’importanza dei settori complementari nel garantire la coesione della formazione sociale la necessità dello sviluppo dei settori strategici comporta di conseguenza assecondare la tendenza “spontanea” al declassamento dell’economia italiana, alla concentrazione degli investimenti, nel migliore dei casi, nel mero ammodernamento tecnologico degli impianti produttivi digitalizzati secondo standard stabiliti dalle aziende leader e da quelle in grado di progettare e collocare i prodotti finiti, alla drammatica concentrazione degli investimenti in un numero limitato di aziende. Tale scelta, altrettanto unilaterale di quella delle elargizioni ad personam può contribuire nel migliore dei casi all’ammodernamento dell’apparato produttivo residuo, almeno di quelle aziende che dispongono dei capitali necessari ad anticipare l’investimento. I quattro competence center al contrario sono pressoché irrilevanti nel qualificare almeno alcuni dei settori di punta, come del resto ben evidenziato dall’economista Mariana Mazzucato.

IL RITORNO ALL’OVILE

Il Ministro sembra quindi assecondare la tendenza storica dell’industria italiana a coprire i settori e le tecnologie mature e complementari e a scoraggiare sul nascere quei sussulti di leadership che in alcuni frangenti sono emersi ma che sono stati prontamente soffocati con la complicità dei settori più retrivi dell’imprenditoria. Il declino dell’Olivetti, dell’industria nucleare, della chimica fine sono lì a testimoniare la ricorrenza di questi sussulti ma anche la mancanza di autorità e maturità politica necessarie a stabilizzarli. Calenda sembra voler in realtà stroncare sul nascere la loro possibilità di emersione. La sua ritrosia ad abbandonare gli stereotipi del dogmatismo liberista lo porta ad esaltare le ambizioni di un progetto velleitario che comporterà la dilapidazione e la dispersione delle poche risorse nei vari meandri dei settori economici e nelle mani di centri strategici concorrenti ed avversari; diventa patetica se confrontata con la capacità organizzativa americana, avviata già dagli anni ’90 ad integrare strettamente il ruolo pubblico e privato nel settore dell’innovazione attraverso numerose agenzie, con la guasconeria francese che da oltre sei anni ha creato addirittura il Ministero della Guerra Economica, con il carattere tetragono dell’organizzazione industriale tedesca già in corsa da oltre dieci anni su questi processi.

Ho accennato all’inizio di inadeguatezza di questa classe dirigente, ma il termine è sin troppo giustificativo ed assolutorio. Si tratta, piuttosto, di una incapacità che trova alimento, forza e giustificazione in quei centri e settori che non trovano di meglio che trarre potere e profitto da quei settori ed interstizi sempre più ristretti concessi dai centri e dalle formazioni dominanti. Il predominio americano ed il bipolarismo imperante sino agli anni ’80 ha consentito una certa benevolenza del predominante ed una rarefazione dei competitori. Il multipolarismo incipiente può aprire teoricamente nuove opportunità e nuove libertà; rischia al contrario di attirare un maggior numero di predatori sulle prede magari ancora pasciute ma disarmate rispetto al livello di conflitto raggiunto.

Calenda anche su questo sembra avere le idee chiare. Nell’intervento citato all’inizio prende atto della fine della visione idealistica del processo di globalizzazione. Invita quindi gli imprenditori ad essere selettivi ed oculati nel cogliere le opportunità; suggerisce loro di voltare gli occhi verso gli Stati Uniti, glissa elegantemente sugli ingenti danni subiti per la sciagurata subordinazione nel sostegno alle sanzioni contro la Russia, all’intervento in Libia, alla destabilizzazione della Siria e all’ostracismo all’Iran, tutti principali partner economici del nostro paese ovviamente nel rispetto di quelle regole diplomatiche e di mercato che hanno consentito alla inglese BP di sostituire l’ENI nella partecipazione allo sfruttamento dei giacimenti petroliferi, alle aziende meccaniche tedesche la Breda-Ansaldo italiana nella ristrutturazione delle ferrovie regionali, all’americana FCA la FIAT nella produzione di automobili.

Viva Farinetti, abbasso Mattei. Viva il mercato, abbasso il paese. Tanta nobiltà d’animo comporta sacrifici ma va certamente ricompensata. Ci stanno pensando i nuovi benefattori d’oltre alpe, offrendo presidenze, consulenze e titoli onorifici. Montezemolo, il mentore di Calenda e Tronchetti-Provera ne sono fulgido esempio tra tanti.

Desta meraviglia quindi l’improvvida esaltazione della conversione del Ministro da parte di uno studioso accorto come Giulio Sapelli (  http://www.ilfoglio.it/politica/2017/01/04/news/calenda-economia-premier-subito-113597/ ). Spero che si ravveda prima che Calenda rischi davvero di diventare Premier

 

T-REX IL MASTINO DI TRUMP, di Gianfranco Campa

T-REX IL MASTINO DI TRUMP

Il sole sorge sull’amministrazione Trump, un sole per il momento pallido ma con cumuli di pesanti nuvole all’orizzonte. Forze eternamente potenti cercano di influenzare, sia dall’interno che dall’esterno, la composizione e le decisioni della nuova amministrazione, mentre tutto intorno i centri di potere usano le intelligence deviate per mandare messaggi minacciosi a Trump cercando di far deragliare la presa della Bastiglia. Da fuori si percepiscono solo minimamente i giochi che si stanno svolgendo nel panorama della politica americana. Sin dalle primarie la guerra è divampata e la vittoria inaspettata di Trump ha solo intensificato questo scontro a tutto campo in cui un gruppo tradizionale molto potente, l’establishment al comando, sta facendo terra bruciata intorno a Trump usando metodi più o meno convenzionali. E` in quest’ottica che va visto l’inasprimento e il deterioramento dei rapporti con la Russia di Putin. La Russia come strumento per screditare Trump, sbandierando le presunte collusioni tra i due e portando la tensione di questa nuova guerra fredda a un livello che non si vedeva dai tempi dei missili sovietici a Cuba. Tenendo conto di questa situazione, le nomine di Trump nel suo gabinetto di governo assumono una importanza determinante. Queste nomine sono ora completate, manca solo qualche portaborse di poco conto.

Tra tutte la più importante è senza dubbio quella del Segretario di Stato.
Il Segretario di Stato, anche se sulla carta risulta una figura minore rispetto al vice presidente, in realtà è l’incarico secondo solo allo stesso Presidente. I tentacoli e il potere geopolitico degli Stati Uniti elevano lo status del Segretario all’equivalente di un vero e proprio primo ministro. A dimostrazione di questo il mondo si ricorderà più dell’impatto avuto da Hillary Clinton nei quattro anni di Segretario di Stato che di Joe Biden come vice-presidente per otto. Se qualcuno non è convinto basta chiedere a Gheddafi; se fosse ancora vivo potrebbe spiegarne la differenza…

La scelta di Trump è caduta su Rex Tillerson; non un politico, ma un uomo di business, ex-amministratore delegato della ExxonMobil (ha lasciato la sua posizione dopo la nomina). Il primo Segretario di Stato che non proviene dalla politica, ma dal mondo degli affari dai tempi di George Schultz. Da molti Schultz è considerato uno dei migliori Segretari di Stato degli ultimi decenni. Per chi se lo ricorda ancora, Schultz servì sotto l’amministrazione Reagan dal 1982 al 1989. Schultz fu il vero artefice di quella distensione tra USA e URSS che portò alla caduta del muro di Berlino. So che non tutti reputano la dissoluzione dell’Unione Sovietica come una cosa positiva, ma questa è un altra storia…
Torniamo a Tillerson . Quando fu nominato da Trump come possibile Segretario di Stato, il New York Times e il Washington Post suonarono immediatamente il campanello di allarme, mettendo in discussione i rapporti “amichevoli” tra Tillerson e Putin. Da allora si sono susseguite manovre e contromanovre per delegittimare sia Tillerson che Trump usando lo spauracchio della Russia. Dopo la sua nomina anche gli attacchi alla Russia di Putin si sono moltiplicati, con il fine di manipolare la decisione di nominare Tillerson e spingere Trump a ritirarla. Il terrore per l’establishement, fautore di questa nuova guerra fredda, riguarda la possibilità che il neo Segretario riesca a ricreare lo stesso rapporto di successo con la Russia avuto durante il suo regno alla ExxonMobil. Naturalmente ci sono differenze fondamentali fra allacciare una alleanza strettamente commerciale e una che abbia implicazioni geopolitiche.
Chi è realmente Tillerson? Per chi lo conosce bene, Tillerson è descritto come una persona molto pacata, senza picchi emotivi, di temperamento mite, ma allo stesso tempo una persona che incute timore e rispetto. Tillerson proietta una presenza forte ma spogliata di qualsiasi spirito di cattiveria e ostilità.
Tillerson, un uomo che si è fatto da solo. La sua carriera è legata quasi esclusivamente alla ExxonMobil dove cominciò a lavorare come giovane laureato nel lontano 1975, per seguire tutta la trafila e diventarne Amministratore Delegato nel 2006.
La ExxonMobil è la prima compagnia petrolifera al mondo, con uffici e rapporti commerciali con più di sessanta nazioni. Questo apparato implica una struttura simile a quella del governo americano; la ExxonMobil ha infatti il proprio servizio di intelligence e di sicurezza, oltre ad avere rappresentanti dell’azienda sparsi per i paesi del mondo a fare da “ambasciatori” a beneficio della azienda stessa. Le capacità “diplomatiche” di Tillerson, anche se non vengono da un estrazione puramente politica, non si discutono; non sarà quindi sull’esperienza di Tillerson che vengono e verranno condotti gli attacchi, bensì come detto prima, sui suoi rapporti con la Russia.
Negli anni ’90, dopo la fine dell’Unione Sovietica, Tillerson è stato uno degli artefici della privatizzazione dei pozzi petroliferi Russi. Tra il 1998 e il 2004 Tillerson ha manovrato per garantire alla propria azienda una posizione privilegiata con i Russi al punto tale che quando si è verificata la parziale restatalizzazione dell’industria petrolifera russa, Tillerson è riuscito a mantenere inalterata la posizione acquisita dalla ExxonMobil nel contesto dell’industria petrolifera Russa. Un rapporto quindi che e` andato avanti fino al 2014 quando le sanzioni imposte da Obama hanno posto il freno alle attività russe di ExxonMobil.
L’alter ego principale di Tillerson in Russia è Igor Sechin. I due sono amici intimi, strettamente legati da anni di rapporti commerciali. Sechin, amministratore delegato della Rosneft, un uomo difficile da gestire al punto tale di essere soprannominato Darth Vader, ha sempre espresso ammirazione per Tillerson con cui condividono ottimi rapporti, inclusa la passione per le moto. Le sanzioni alla Russia hanno colpito non solo l’aspetto finanziario della ExxonMobil ma anche i rapporti umani creati nell’arco degli anni. In questo contesto è chiaro che l’arruolamento di Tillerson da parte di Trump, rappresenta, nonostante le critiche, un tentativo di sbloccare i rapporti con la Russia e ricreare una nuova distensione. Il fatto che le critiche e le accuse a Trump non sono state sufficienti a farlo desistere dal nominare Tillerson ci offre la speranza che il sistema fin ad ora adottato nei giochi politici internazionali nei confronti della Russia sia in crisi e che Trump possa scardinarlo una volta per tutte. Naturalmente è una battaglia immane e i pericoli molteplici. Potenti forze sono opposte al piano di Trump e le possibilità di un deragliamento sono concrete. Molto dipenderà dalla capacità di aggirare queste forze. Una distensione delle relazioni tra USA e Russia è auspicabile per la sicurezza mondiale.
C`è un altro aspetto importante nella nomina di Tillerson che va tenuto in considerazione: Tillerson ha il carattere e la personalità giuste per raggiungere un altro obbiettivo importante; il repulisti del Dipartimento di Stato, da troppo tempo estremamente politicizzato, sotto il controllo di forze a volte estranee agli interessi del governo stesso e spesso piattaforma privilegiata di agenti e operazioni deviate, mirate a minare il terreno ogni volta che si intravede un timido tentativo di far ordine nella strategia geopolitica del caos tanto cara agli ultimi quattro presidenti americani. Basta vedere come elementi all’interno del Dipartimento di Stato hanno deragliato il tentativo di raggiungere un accordo tra John Kerry e Sergey Lavrov sulla Siria e prima di allora sulla Libia. Naturalmente la statura caratteriale tra Kerry e Tillerson è abissale; Kerry manca della personalità sufficiente a gestire e imporsi nelle stanze del Dipartimento.
La mancanza di curriculum politico tradizionale avvantaggia Tillerson; il compito però resta arduo e pericoloso. Il Dipartimento di Stato è diventato una complessa macchina burocratica, vittima di un sistema disfunzionale che vede il Dipartimento stesso usato come veicolo di vari interessi sia governativi che privati. Soprattutto, il dipartimento è diventato, non ufficialmente, base operativa occulta dei servizi di Intelligence americani dispiegati per il globo. Per comprendere la dimensione della gravità del problema basta fare riferimento allo scandalo delle email segretate di Clinton.
Cosi T-Rex diventa il mastino di Trump, quello incaricato di sostenere una guerra su due fronti; da un lato la ricomposizione degli obbiettivi geopolitici degli Stati Uniti, dall’altro la presa d’assalto al covo delle vipere le quali da come si sono viste agitarsi, sono piene di veleno e pronte a colpire ogni volta che si presenterà l’occasione. Potrebbe non bastare un T-Rex ad addomesticarle.

LA TAUMATURGIA DELL’INVESTIMENTO SOCIALE; una chiosa di Massimo Morigi

L’articolo di Giuseppe Germinario “La Taumaturgia dell’Investimento Sociale” potrebbe essere riassunto con una semplice domanda controfattuale: “se i giovani italiani fossero meno schizzinosi e se la pressione degli immigrati per i posti di lavoro meno qualificati fosse meno forte e quindi se attraverso l’occupazione da parte degli indigeni dello stivale di queste nicchie residuali si fosse riusciti a raggiungere più o meno soddisfacenti livelli di occupazione, si potrebbe dire che la situazione economico-sociale del nostro paese avrebbe raggiunto una condizione, diciamo, tranquillizzante?” La risposta è ovviamente no e questo no ha due aspetti. Il primo è che un paese che basa la sua economia su attività residuali è destinato inevitabilmente ad un brutale, e sottolineo brutale, declino dovuto a rapporti di forza sempre più sfavorevoli nello scenario internazionale. Il secondo deriva dall’elementare dato di fatto che un paese con falangi di lavoratori sempre più debilitati (non solo economicamente ma anche dal punto di vista del conflitto strategico, quindi dal punto di vista del conflitto economico-politico contro i grandi decisori strategici) è destinato ad una sorta di implosione sociale, la quale a sua volta viene esponenzialmente moltiplicata (e che in una sorta di micidiale feedback esponenzialmente moltiplica) il già lesionato ruolo del paese nell’arena internazionale. In realtà, il vero problema è – come ci indica Germinario e come assolutamente non riesce a comprendere Ricolfi – non tanto se si abbia più o meno diritto a, come direbbe Paperino, un posto di lavoro adeguato alle proprie capacità, il problema è quello della dislocazione e ricollocazione del potere decisionale-strategico a seguito di precise e dissennate scelte formativo-scolastiche che apparentemente erano il massimo della democrazia ma che, in realtà hanno oscenamente favorito la verticalizzazione del potere . Ricolfi, è vero, è nel giusto quando coglie la dissennatezza di queste scelte ma ahimè egli è completamente sordo verso l’aspetto polemologico di tutta la questione e quindi egli risolve il tutto dando dei “choosy” (orribile modo di esprimersi che indica il disgustoso livello di colonizzazione che ha raggiunto la nostra “intellighenzia”) a chi rifiuta posti di lavoro meno qualificati, risolvendo, quindi, la questione in un sciocco e sterile moralismo. Tuttavia non sono nemmeno nel giusto, e qui tocchiamo veramente il nocciolo della questione che non è tanto politica ma di fondazione delle “categorie del politico”, coloro che rifiutando lavori depotenzianti la propria capacità di incidere nel conflitto strategico politico-economico lo fanno in nome di una vecchia e castrante (castrante per i poveri cristi che con questa mentalità leggono le cose del mondo) mitologia dei diritti. Un rifiuto della propria condizione che ha come presupposto la puerile credenza nella possibilità di un paese dei balocchi il cui diritto a fruirne viene negato dai “cattivi” alla Ricolfi o da un indicibile uomo nero, il vero crumiro del terzo millenio, disposto a tutto pur di sopravvivere, soprattutto disposto ad infischiarsene delle regole e delle convenzioni dello stato sociale con tutta la sua panoplia di diritti dei lavoratori inscritti nel regno dei cieli (mentre in realtà questi diritti non erano altro che la formulazione poetico-politico-simbolica di precisi rapporti di forza). In realtà, il problema non è che i giovani (e in extenso, tutti gli italiani e, volendo allargare l’orizzonte, tutte le classi operaie ed impiegatizie delle cosiddette democrazie industriali) siano choosy: il problema è che lo sono troppo poco e si sono abituati a trangugiare come verità rivelate quelle che sono solo favole di fate e racconti mitologici, una mitologia i cui capisaldi sono che la cosiddetta democrazia sia una sorta di festa di gala garantita all’infinito da un sempre progressivo incedere della storia e che, in ultima analisi, si abbia un diritto supremo: il diritto ad avere dei diritti. Per sbugiardare quindi tutte le “ricolferie” (e di conseguenza per dare un reale impulso energetico e a una nazione bistrattata a livello internazionale e alla sua popolazione che non sa più veramente a che santo votarsi, o, ancor peggio, ha dimenticato sia il nome di quei santi che potrebbero veramente aiutarla e ha anche dimenticato le fondamentali preghiere) si ritorni quindi ai fondamentali: un certo Machiavelli, un certo Mazzini, un certo Marx, un certo Gramsci. Non quindi facili formulette, non certo, quindi, progetti irenicamente liberal-liberisti non contraddittori ma al cui interno nascondono paurose voragini ma alla consapevolezza che il conflitto è il vero nerbo della società (e ovviamente il ritorno alla consapevolezza che se conflitto deve essere, a questo conflitto bisogna prepararsi: e qui torniamo all’unico aspetto che condividiamo del ragionamento di Ricolfi sui diplomifici e laurefici nazionali). À suivre …

Massimo Morigi – 5 gennaio 2017

LA TAUMATURGIA DELL’INVESTIMENTO SOCIALE, di Giuseppe Germinario

Riprendo un interessante articolo di Luca Ricolfi apparso su il sole 24 ore del 25 settembre scorso dal titolo “Quando a crescere è il lavoro degli immigrati”, le cui conclusioni hanno provocato a suo tempo in me, devo confessarlo, una certa ripulsa ( http://www.pdmeda.it/pd/2016/09/26/quando-a-crescere-e-il-lavoro-degli-immigrati/ ).
Il testo parte dalla considerazione che il divario tra la pesante situazione occupazionale e la percezione di essa ancora più catastrofica derivi dal dato che la perdita in otto anni di quasi due milioni di posti di lavoro di italiani, i cosiddetti facitori di opinione pubblica è in parte mascherata dall’incremento di ottocentomila occupati tra gli immigrati, estranei alla costruzione mediatica. Il sociologo adduce tre ragioni di queste tendenze divaricanti. La prima è fisiologica, legata alla quota crescente di immigrati stanziati in Italia. Le altre due meritano la citazione integrale:”La seconda ragione è che, durante la crisi, la domanda di lavoro è crollata nelle posizioni ad alta qualificazione (tipicamente ricercate dagli italiani) ed è aumentata sensibilmente in quelle a bassa e bassissima qualificazione (tipicamente accettate dagli stranieri). La terza ragione è più generale, e probabilmente più difficile da riconoscere. Anche se molti si lamentano della situazione e della mancanza di prospettive, la realtà è che la maggior parte degli italiani hanno raggiunto un livello di benessere sufficiente a renderli alquanto “choosy” (copyright Elsa Fornero) nella ricerca di un lavoro. In tanti non cercano semplicemente un lavoro, bensì un lavoro adeguato all’opinione che essi si sono fatti di sé stessi, opinione che scuola e università si incaricano di certificare. L’esatto contrario degli stranieri, che sono disposti ad accettare un lavoro anche al di sotto, molto al di sotto, delle qualificazioni acquisite e certificate.” Da qui il giudizio: “Si può deplorare quanto si vuole questa situazione, e immaginare che quelli degli italiani siano diritti negati, e la condizione degli stranieri sia di puro e bieco sfruttamento (come in effetti talora è: vedi le tante Rosarno, vedi la piaga del lavoro nero). E tuttavia c’è anche un altro modo di raccontare le cose. Gli stranieri immigrati in Italia sono esattamente come noi, solo che vivono in un altro tempo, un tempo che noi abbiamo vissuto negli anni ’50 e ’60, quando il nostro livello di istruzione era più basso e non c’erano genitori e nonni disposti a mantenerci finché trovavamo un lavoro coerente con le nostre aspirazioni. Quanto a noi italiani, è certamente vero che i posti sono pochi, troppo pochi (ce ne mancano circa 6 milioni per diventare un paese appena normale, con un tasso di occupazione in media Ocse), ma purtroppo è anche vero che paghiamo lo scotto di aver liceizzato tutto –scuola e università – senza valutarne le conseguenze. In un paese che, colpevolmente, ha scarso bisogno di laureati e continua ad avere bisogno di innumerevoli competenze tecniche e professionali intermedie, aver svuotato di ogni vero saper fare la maggior parte dei diplomi di scuola secondaria superiore non è stata una grande trovata”; quindi la conclusione:” Forse, l’avanzata occupazionale degli immigrati, con la loro umiltà e determinazione, è anche un silenzioso segnale rivolto a noi, un invito a riflettere sullo scarto fra quel che siamo e quello cui crediamo di avere diritto”.
Si direbbe una salutare immersione nella realtà; dopata però a mio parere da dosi eccessive di senso comune dalle scarse prospettive.
• La crisi ha determinato quindi un crollo nelle posizioni ad alta qualificazione. In realtà il crollo riguarda alcuni paesi, tra questi l’Italia, mentre altri vivono un declino, una riorganizzazione o addirittura una espansione. La crisi, la situazione di rottura, quindi, agisce e produce condizioni e tendenze diverse. Non è la crisi di per sé, ma la condizione di un paese in questa situazione di rottura e transizione e la capacità e l’ambizione della sua classe dirigente a determinare il realismo delle aspettative individuali.

Avviciniamoci dunque al cuore del problema posto da Ricolfi, la schizzinosità (choosy) degli italiani nella ricerca del lavoro. Pur con tutte le tare e le precauzioni da adottare su di un argomento così esposto alla demagogia e al pressapochismo, è indubbio che le dinamiche di sviluppo ed emancipazione del paese degli ultimi trenta/quaranta anni abbiano ingenerato altrettante notevoli aspettative ed aspirazioni individuali, specie in alcune zone e categorie sociali del paese.
Altrettanto vero che tali aspettative siano state alimentate da una concezione della scuola e della università che riduceva spesso e volentieri l’istruzione e la specializzazione ad un sinonimo orientato più verso la prima che la seconda, fermo restando l’indubbio progresso sociale rappresentato da un elevato livello di istruzione.
Le stesse specializzazioni si sono orientate prevalentemente tra l’altro verso ambiti diversi da quelli tecnico-scientifici.
Una combinazione micidiale di orientamenti individuali che hanno distorto pesantemente il mercato del lavoro, spesso sostituito alla professione e alla competenza professionale l’aspirazione all’impiego e concesso prestigio e status a determinati ambiti rivelatisi alla fine pletorici e parassitari.
Da qui l’invito dell’autore a “riflettere sullo scarto fra quel che siamo e quello cui crediamo di avere diritto”.
Si tratta però di un invito che nel migliore dei casi si risolve in un moralismo sterile e inconcludente, giacché una tendenza e un orientamento diffuso se non generalizzato non può essere il mero frutto della sommatoria di scelte individuali. Nel peggiore e purtroppo sempre più corrispondente al clima politico e culturale del paese, non fa che assecondare quel tentativo di salvaguardia della posizione dei ceti intermedi più fortunati nella difesa e preservazione delle proprie prerogative di ceto e di casta le quali stanno bloccando completamente le possibilità di mobilità sociale verso l’alto e soffocando le possibilità di trasformazione e riorganizzazione positiva del paese.
Quegli orientamenti e quelle scelte individuali sono la conseguenza diretta di caratteristiche strutturali del paese e dei suoi ordinamenti che le classi dirigenti succedutesi hanno alimentato e promosso piuttosto che scoraggiato.
A titolo di esempio, l’inflazione di avvocati e commercialisti e il corrispondente alimento di aspettative trova corrispondenza esatta nelle caratteristiche del sistema fiscale e tributario e in quelle del sistema giudiziario e giuridico; una saturazione aggravata dallo scarso peso della grande industria e dal conseguente scarse possibilità di accesso in altri settori di queste professionalità.
L’ambizione all’impiego è solo in parte il riflesso della necessaria natura burocratica delle amministrazioni pubbliche; è soprattutto la conseguenza della particolare e concreta organizzazione burocratica dello Stato Italiano, del suo particolare ordinamento gerarchico, dell’effettivo livello di responsabilità esercitato nelle funzioni, delle procedure di selezione e nomina dei quadri dirigenziali, della sovrapposizione di competenze.
Non siamo giunti però ancora al cuore del problema.
L’errore secondo Ricolfi è “aver liceizzato tutto –scuola e università” “In un paese che, colpevolmente, ha scarso bisogno di laureati e continua ad avere bisogno di innumerevoli competenze tecniche e professionali intermedie”.
Intanto lo stesso autore sembra smentirsi in un altro articolo (http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-10-16/il-problema-e-difficolta-non-latino-112506.shtml?uuid=ADC45JdB&fromSearch) perché il problema maggiore della scuola italiana sembra essere, secondo me a ragione, la svalutazione della difficoltà nello studio.
Uno studio della Fondazione Edison del 2012, con il direttore Marco Fortis non ancora pervaso dall’ottimismo oltranzistico legato alla sua partecipazione al Governo Renzi, quantificava la necessità insoddisfatta di personale qualificato nel Nord-Italia in poco più di centomila unità. Una cifra attualmente, secondo me sovrastimata, visto che in questi ultimi due anni la crisi sta decimando ormai anche aziende sane dal punto di vista organizzativo e tecnologico. Una cifra comunque certamente importante, della quale tener conto negli indirizzi scolastici, ma sicuramente poco significativa rispetto ai “sei milioni di posti mancanti” necessari a raggiungere un tasso di occupazione paragonabile a quello dei paesi del Nord-Europa.
Del resto, l’esodo che sta colpendo da alcuni anni il paese non riguarda più soltanto i laureati, specie quelli in materie tecnico-scientifiche, ma anche i diplomati, buona parte dei quali trovano collocazione nei settori produttivi-manufatturieri dei paesi ospitanti.
Alla luce di queste ultime due considerazioni l’affermazione finale dell’autore assume un tono particolarmente inquietante se non funereo.
Rappresenta soprattutto il de profundis ad un altro caposaldo delle politiche di sviluppo e di progresso tipiche del sodalizio progressista di questi ultimi decenni: l’investimento sociale.

LA TAUMATURGIA DELL’INVESTIMENTO SOCIALE

Negli ultimi anni l’espressione “INVESTIMENTO SOCIALE” ha assunto il valore taumaturgico di uno slogan. Piuttosto che la spesa sociale ex-post mirante a tappare le falle con criteri assistenziali, piuttosto che la tesi liberista di alleggerimento o soppressione del welfare, ritenuto un mero costo, mirante a ripristinare le condizioni di equilibrio tra domanda e offerta di lavoro, “le politiche sociali andrebbero viste come un investimento che la società mette in campo per garantirsi un miglior ritorno economico e sociale nel futuro” (dal libro di Ranci, Ascoli, Sgrata “Investire nel sociale”); nella fattispecie “la strategia dell’investimento sociale lega, invece, la problematica della disoccupazione innanzitutto alla carenza di adeguate qualificazioni e competenze necessarie per trovare lavoro oggi e in futuro… orientata a privilegiare politiche sociali volte alla crescita del cosiddetto capitale umano” (idem). Politiche, si concede tra i più avveduti, “accompagnate da interventi strutturali”, lungi però questi ultimi da essere definiti nel corso di questi decenni.
Il Governo di Renzi, sostenuto dal suo mentore Gutgeld, è stato il più convinto sostenitore di questo indirizzo. Nell’ambito ad esempio della formazione scolastica, l’autonomia degli istituti scolastici, il ruolo dei finanziatori privati, i progetti di alternanza scuola-lavoro, la riforma dell’apprendistato rientrano coerentemente in questi indirizzi; indirizzi che, a prescindere dal merito e tenuto conto dei necessari tempi di attuazione, immediatamente hanno dovuto scontrarsi con la realtà della struttura produttiva e di servizi del paese.
Così, pochi mesi dopo il varo della legge sono stati aboliti gli obblighi formativi esterni all’azienda degli apprendisti; i casi di alternanza scuola-lavoro sono ancora limitati; l’attenzione del mondo imprenditoriale verso la scuola, in particolare gli istituti tecnici e professionali è “ancora” abbastanza residuale; permane l’enorme problema del ruolo delle scuole tecniche e professionali nelle vaste zone del paese economicamente depresse.
Sono politiche, come pure quelle del job act, mutuate da altri paesi; nel migliore dei casi ignorano il contesto produttivo ed imprenditoriale, nel peggiore ne assecondano le tendenze praticamente ormai irreversibili ad un declassamento “spontaneo” delle strutture produttive nel contesto internazionale.
Si tratta di un contesto profondamente mutato rispetto agli scenari di appena trenta anni fa.
• La grande azienda è praticamente scomparsa e soprattutto è pressoché scomparso il loro controllo strategico. Ne consegue la crescente estraneità degli interessi del paese dalle scelte strategiche delle imprese, dalle pianificazioni di marketing e dalle politiche di innovazioni di prodotto con buona pace della beota euforia per le acquisizioni estere espressa dai vari Renzi e Fassino
• Le stesse aziende capofila delle filiere produttive composte da medie e piccole aziende sono sfuggite anch’esse in gran parte al controllo dell’imprenditoria locale
• La stessa gestione delle reti e della logistica integrata, quest’ultima in via di formazione con anni di ritardo, deve subire profondi condizionamenti esterni e risolvere in diversi casi enormi problemi legati alla frammentazione dell’apparato produttivo
• L’innovazione tecnologica e la miglioria di prodotto, già deficitaria, è in buona parte legata all’iniziativa occasionale interna alle piccole aziende difficilmente trasmissibile nei software indispensabili alla digitalizzazione dei processi
Sono una parte importante dei fattori che subordinano la ricerca e soprattutto il riconoscimento professionale ad altri fattori del tutto estranei.
Arretratezza tecnologica e dei criteri di gestione, struttura proprietaria delle aziende, fuga delle posizioni strategiche, politiche sindacali, specie nelle grandi aziende di servizio, le quali assecondano gli interessi delle grosse concentrazioni di dipendenti piuttosto che la collocazione professionale; tutti aspetti che contribuiscono ad accentuare i processi di precarizzazione già presenti nel mondo del lavoro a livello globale con l’aggravante del disconoscimento massivo delle competenze professionali. Il plus proviene dalla confermata beotitudine di gran parte della nostra classe dirigente, tra questi il nostro “bomba” (Renzi) prontissimo a esaltare il bassissimo livello retributivo dei nostri ingegneri e tecnici e ad avallare ad esempio con le ipotesi di appiattimento delle prestazioni previdenziali a prescindere dalle erogazioni contributive e di reddito di cittadinanza tale disconoscimento.
Si tratta di una classe dirigente che non fa che assecondare le peggiori tendenze prevalenti nel paese e nel mondo imprenditoriale tese a trasformare nel migliore dei casi il nostro apparato produttivo in un opificio e in un cultore di nicchie esposti alla peggiore concorrenza, subordinati alle strategie altrui con scarsissime possibilità, grazie alla cessione degli asset strategici, di partecipare con un qualche ruolo decisionale ai processi di concentrazione ed integrazione. Non si tratta, quindi, di scelte economiche neutre, ma di politiche economiche legate al tipo di collocazione e di autonomia decisionale che una classe dirigente intende subire o scegliere.
Una politica di investimento sociale può essere il giusto corollario di una politica generale minimamente ambiziosa e autonoma; slegata da obbiettivi di recupero delle prerogative di un paese o addirittura complementare e propedeutica a questa politica di subordinazione non fa che alimentare sprechi di risorse, formazione di ceti magari pure colti quanto parassitari, corporativi e istupiditi, formazione di quadri e risorse disponibili per altri paesi e di strutture amministrative autoreferenziali. Una politica storicamente attenta alla redistribuzione ma altrettanto apparentemente indifferente alla modalità e alle finalità di produzione delle risorse. In questo si può racchiudere probabilmente la parabola efficientista di Matteo Renzi.
Le politiche degli ultimi due governi, per ultimo il programma di implementazione di industria 4.0, non fanno altro che sancire irreversibilmente tale tendenza e rendere particolarmente duro e problematico un programma di recupero. Stride il silenzio che circonda un programma così importante. Ne parlerò, appena possibile, in un articolo dedicato.
Per concludere, la chiosa finale dell’articolo di Ricolfi più che una presa d’atto realistica per ripartire, mi pare sia la sanzione complice di una cattiva condizione del paese. Il contributo dell’immigrazione mi pare che si risolva anch’esso in questo. Tanto più che la segnalazione di questi sviluppi occupazionali positivi, nascondono un altro esodo del tutto ignorato; quello di una manodopera immigrata, qualificatasi professionalmente nel corso di questi ultimi lustri nel nostro paese e fuggita all’estero attirata da migliori condizioni.

GEOPOLITICA-SPIETATA ( LUCIDA), ANALISI DI MARCO BERTOLINI

tratto dal sito http://www.congedatifolgore.com/it/geopolitica-spietata-lucida-analisi-di-marco-bertolini/#.WGazcU58Hep.facebook
Mi pare l’ulteriore conferma che nei centri vitali dell’amministazione del paese ci siano personaggi e forze sensibili a un recupero delle prerogative nazionali. Manca una espressione politica che possa dare loro espressione e forza

Pubblicato il 30/12/2016
GEOPOLITICA-SPIETATA ( LUCIDA) ANALISI DI MARCO BERTOLINI
Sicurezza Internazionale:
Intervento del Generale Marco Bertolini

edito da http://www.atlantismagazine.it/

Sicurezza Internazionale: Intervento del Generale Marco Bertolini – ATLANTIS

Italia e “Comunità Internazionale”

analisi di una crisi

Attorno a noi, nell’area euromediterranea della quale rappresentiamo il centro, il punto nel quale dalla società romana prima e cristiana poi è nata l’idea stessa di occidente, si stanno verificando crisi di portata epocale che consegneranno ai nostri figli un mondo diverso e molto più difficile e pericoloso di quello nel quale abbiamo vissuto noi, figli della guerra e spettatori della guerra fredda.

E’ una realtà che ormai si sta imponendo alla consapevolezza generale, anche se spesso prevale la tentazione di limitarsi a una microanalisi delle singole situazioni di crisi, nell’illusione di venirne a capo. Così facendo, però, si perde la visione d’insieme di quello che continua a riproporsi come il solito scontro tra gli interessi statunitensi e russi, di antica memoria, che non ci lascia che il ruolo rassegnato delle comparse, e spesso delle vittime, delle frizioni tra i due giganti.

Questa situazione è particolarmente pericolosa per un paese come l’Italia, esposto geograficamente come nessun altro e che nonostante questo pare avere optato entusiasticamente per il rifiuto di individuare “originali” interessi nazionali da difendere. Al contrario, preferisce di norma appiattirsi su quelli di una Comunità Internazionale (CI) volubile, volatile e difficilissima da definire.

Gioca un ruolo chiave in questo approccio passivo una impostazione costituzionale che sembra fatta apposta per tagliarci fuori dalla realtà.

L’esempio dell’inutile articolo 11 della Costituzione è emblematico: al di là dell’inconsistenza di un “ripudio” (della guerra) che non può che essere solo retorico, tale presa di posizione impedisce all’Italia di fare i conti (almeno a parole) con una costante della storia e toglie dignità agli strumenti militari dei quali continua comunque ad essere dotata (le Forze Armate). Conseguentemente, al nostro paese non resta che mettersi disciplinatamente al seguito di coloro che tali remore non nutrono e che continuano ad essere ben determinati a perseguire i propri interessi – ovviamente travestiti da interessi “comuni” – con tutti i mezzi, inclusi quelli bellici. E non parlo di qualche dispotico regime africano o centro asiatico, ma di paesi come la superpotenza statunitense, nonché di Russia, Gran Bretagna e Francia, per rimanere all’ambito europeo. Quanto alla Germania, non si pronuncia in merito per ovvie ragioni, ma continua da tempo a mantenere in salute e in esercizio uno strumento militare decisamente importante che sta ulteriormente potenziando.

Comunità Internazionale sopra tutti e prima di tutto, quindi. Ma di cosa stiamo parlando? L’idea di Comunità che nei desideri di molti illusi dovrebbe assicurare dignità a una nostra supposta vocazione alla passività in campo internazionale è quella che si dovrebbe concretare in una profonda comunanza di valori e di interessi, primo fra tutti quello della pace. Pace innanzitutto, anzi. Ma è effettivamente così? No, e lo confermano proprio le crisi che ci circondano.

Iniziamo da quella più vicina a noi e per la quale stiamo pagando un prezzo notevolissimo, la Libia. La CI fu quella che, smentendo platealmente tutte le precedenti iniziative italiane in quel paese, nella sua connotazione anglo-francese, pseudo-NATO e para-EU, nel 2011 decise unilateralmente di intervenire, prescindendo assolutamente dai nostri interessi e addirittura dal nostro parere di principale vicino a quell’area. C’è da chiedersi se si sarebbe comportata nella stessa maniera, vale a dire mettendoci di fronte al fatto compiuto, se nello Stivale ci fosse stato un altro Stato, non necessariamente uno di quelli rammentati in precedenza. Ma tant’è: in ogni caso, ci ha poi concesso la grazia di saltare sul suo carro di esportatori di democrazia e progresso fino a renderci compartecipi o complici della creazione della situazione che ci sta deliziando da oltre un lustro. In sostanza, la CI ci ha scalzato da una posizione molto favorevole nel mercato degli idrocarburi libici, ha messo a rischio molte nostre imprese che dopo decenni di buio erano riuscite a reimpiantarsi in Libia e ci espone ora ad un flusso migratorio epocale, dal quale gli ottimi rapporti con Gheddafi ci ponevano al riparo.

Oggi, nella sua rappresentazione europea (EU) ci sta supportando nella ciclopica opera di salvamento delle centinaia di migliaia di migranti economici che prendono mare clandestinamente dalla costa della Tripolitania verso le nostre coste, facendo comunque molta attenzione a farli sbarcare solo da noi e a mantenerli confinati al sud delle Alpi. Gran bella prova di solidarietà!

Quanto alla situazione politica in Libia, nella sua rappresentazione ONUsiana la CI, dopo aver supportato a lungo il parlamento di Tobruk e il suo Generale Haftar (uomo degli USA, si diceva), si è esibita nel classico salto della quaglia, passando all’appoggio di Serraj, neo Primo Ministro a Tripoli, a sua volta supportato dalle milizie simil-islamiste di Misurata. Ed è soprattutto a questo punto che la Comunità ha smesso di essere tale: si è divisa infatti in due, con una parte capeggiata da ONU e USA al fianco di Serraj puntando ad una Libia unita e presumibilmente sotto tutela ONU/USA/NATO (la EU si adeguerà), mentre un’altra parte continua ad appoggiare Tobruk. Quest’ultima non nasconde l’aspettativa di una divisione del paese che apra alla Francia la possibilità di sfruttare i giacimenti della mezzaluna petrolifera, consenta alla Russia di evitare un altro paese sotto tutela americana, magari riservandole un ulteriore sbocco mediterraneo alternativo o complementare a Tartus, e non faccia tramontare le mire territoriali egiziane nell’est del paese, almeno a livello di ingerenza. L’Italia, ovviamente e giustamente, si inquadra nel primo gruppo e c’è da chiedersi quanto questa sua collocazione strategica sia collegata alla strana ostinazione con la quale ha iniziato a cavalcare il caso Regeni dopo un lungo periodo di corte spietata all’Egitto, negandogli ora ogni possibilità di scampo onorevole, stretto come l’ha in un angolo fatto di accuse che se sono difficili da provare lo sono altrettanto da confutare.

Sul fronte europeo, la CI subisce fortemente il peso degli interessi globali degli USA che spingono NATO e conseguentemente la sua rappresentazione virtuale locale, l’EU, a una forte contrapposizione con il loro competitor russo. Da qui, il rafforzamento del fianco nord, con la scusa di tacitare le preoccupazioni delle Repubbliche baltiche e della Polonia ma soprattutto per consentire agli US di spostare molto più a destra la propria presenza in quello che vent’anni fa era il territorio del Patto di Varsavia. Poco più a sud, invece, incombe la spaventosa crisi ucraina, per la quale non si vedono ancora vie d’uscita. In questo paese, infatti, balena da un lato una ghiotta opportunità per gli statunitensi di escludere per sempre la Russia dal Mar Nero, privandola delle basi in Crimea, mentre da parte Russa al contrario continua a materializzarsi il rischio di essere tagliata fuori definitivamente dall’Europa e da ogni forma di presenza nel Mediterraneo. Quindi, uno sviluppo da non farsi sfuggire da parte americana e una opposta minaccia da evitare in campo russo che ha portato alla situazione di stallo armato attuale.

Ed ecco, a questo punto, ricomparire la stessa CI, nelle sue manifestazioni NATO ed EU, più che mai determinata a tagliare le unghie all’orso russo utilizzando uno dei più classici strumenti di pressione di sempre, le sanzioni. Peccato che con esse, che non intaccano assolutamente l’economia degli USA che le hanno fortissimamente volute, oltre alle unghie dell’orso cadano pure i denti del resto dell’Europa – e soprattutto dell’Italia – legate alla Russia da stretti vincoli economici e commerciali ora messi a rischio, nonché da una continuità territoriale che al contrario non c’è con “l’isola americana” (un oceano a ovest, uno a est e una munitissima recinzione a sud).

A ben vedere, tale situazione è strettamente collegata a quanto accade anche nel Medio Oriente, con particolare riferimento alla Siria, dove la Russia è intervenuta per mettere una pezza ai guai fatti da un’ipocrita idiosincrasia occidentale per le “dittature”, ma soprattutto per mettere al riparo le sue residue possibilità di essere presente nel Mediterraneo dopo i rischi corsi in Ucraina. La base navale di Tartus, infatti, è il punto di approdo tradizionale delle navi della Flotta russa del Mar Nero, basata a Sebastopoli in Crimea, e la sua perdita rappresenterebbe un vulnus micidiale.

Insomma, la Russia non può ritirarsi dalla Siria per buona parte delle ragioni per le quali non può lasciare la Crimea (e l’Ucraina). In tale contesto si inquadra anche l’attivismo russo volto a ricavarsi altri spazi nel bacino, dopo la richiesta statunitense al Montenegro di entrare nella NATO (il Montenegro nella NATO!), riducendole al lumicino la possibilità di trovare altri approdi in paesi non ostili nel Mare Nostrum. La recente apertura egiziana per l’uso a tal fine della base di Sidi el Barrani potrebbe rappresentare un importante punto di svolta a suo favore.

Non c’è quindi dubbio che il punto più dolente di questa epocale tensione politico-militare è rappresentato dal Medio Oriente (o meglio, Vicino Oriente, per noi), con particolare riferimento a Siria e Irak. Per la prima volta dalla crisi di Cuba, infatti, soprattutto in Siria si corre un rischio concreto di scontro diretto tra statunitensi e russi che potrebbe portare ad una conflagrazione generale. La Russia, per i motivi sopraindicati, è infatti intervenuta militarmente, bloccando l’avanzata dell’ISIS e di Jabath Al Nusra (Jabath Fatah al Sham, dopo una recente operazione di cosmesi terminologica per occultarne le antiche radici qaediste) ma soprattutto congelando il tentativo statunitense (e saudita e turco ed emiratino e qatarino e israeliano e francese e ….) di sostituire Assad con un regime favorevole. E ora, di fronte alla prospettiva di una vittoria siriana (e russa e iraniana ed Hezbollah) con la liberazione di Aleppo dai terroristi come in precedenza avvenuto a Palmira (evento importantissimo da un punto di vista non solo simbolico ma stranamente ignorato da tutti i media), compare sgradevole la prospettiva di un Mediterraneo con una forte presenza della Russia, determinata a giocare ancora alla potenza globale. La campagna mediatica (STRATCOM – Strategic Communication) tesa a presentare come crimini di guerra i tentativi russi e siriani di sgomberare Aleppo est dai terroristi e l’improvviso attivismo contro Mosul, dopo anni di souplesse militare, non possono togliere il dubbio che il tutto sia soprattutto finalizzato ad impedire che di qua a qualche mese ci sia un solo vincitore sul campo, la Russia coi suoi alleati, con le conseguenze del caso per “l’Occidente”, costretto da tempo a considerare alcuni di essi “terroristi”.

Tornando agli interessi nazionali, anche in questo caso non sussiste alcuna significativa coincidenza tra quelli italiani e quelli della Coalizione a guida US. Il regime di Assad è notoriamente molto vicino alle numerose comunità cristiane del paese, cosa che non dovrebbe essere indifferente per quella patria del cristianesimo che è ormai a torto considerata l’Italia, e alle Forze Armate siriane, con il significativo contributo di Hezbollah, si deve la liberazione e la messa in sicurezza di numerose e antichissime comunità cristiane locali. Inoltre, non c’è dubbio che la caduta di Assad ad opera dei terroristi non comporterebbe la fine della guerra ma il probabile inizio di una nuova fase, con curdi, turchi, sunniti e sciti tutti in guerra tra di loro, appassionatamente; senza contare le ovvie ingerenze statunitensi, israeliane, francesi e britanniche da mettere in conto. Le conseguenze di una situazione del genere nel vicinissimo Libano, che è appena riuscito a eleggere un Presidente della Repubblica dopo oltre due anni di crisi, sarebbero devastanti e dalla costa orientale del Mediterraneo potrebbe iniziare un traffico migratorio verso le nostre coste capace di far impallidire quello epocale in atto dalla Libia.

Insomma, è proprio un bel pasticcio.

Per concludere, una riflessione sul gran parlare che si fa in Italia di “Esercito Europeo”, trasposizione militare dell’innamoramento per l’idea stessa di Comunità Internazionale che non si capisce da cosa derivi, visti i precedenti. Si tratta di un tentativo per coinvolgere i paesi europei nei problemi di sicurezza continentale, con soluzioni valide per tutti. In realtà si limita ad una discussione sterile, priva di possibilità di realizzazione per la differente percezione che i singoli paesi hanno di se stessi, nel contesto internazionale. Come mettere d’accordo, ad esempio l’attivismo militare francese nel sud Sahara e in Medio Oriente, o quello britannico nell’ambito della Comunità “five eyes” in tutto il mondo, con l’atteggiamento ripiegato sui propri problemi interni del nostro paese?

Si tratta, a mio modesto avviso, di un tentativo ingenuo e maldestro di conferire dignità al nostro “costituzionale” disinteresse per le questioni militari e inerenti alla difesa; una specie di disperata offerta ad altri della nostra “sovranità militare”, visto il fastidio col quale per mille motivi (tutti assurdi) non ce ne vogliamo far carico da decenni. Si tratta, infine, di un modo per rinforzare una vocazione allo “stare in gruppo” che al contrario non ci possiamo più permettere, vista la pervicacia con la quale “gli altri” pensano prima di tutto ai fatti loro. Ci accontenteranno, magari, con un Comando multinazionale in Italia, come già fatto in passato a Firenze, nel quale fare svernare a rotazione qualche Generale o Colonnello a fine carriera. Ma sulle questioni sostanziali, che incidono sul futuro delle prossime generazioni, le loro generazioni, certamente tutti terranno le carte ben coperte, come sempre.

Invece, è necessaria una riflessione sulla peculiarità dei nostri interessi, selezionando attentamente i paesi in grado di condividerli, se necessario riconsiderando i dettagli di alleanze come la NATO e l’EU se si dimostreranno eccessivamente a trazione atlantica e nord europea. Ciò si renderà necessario e di vitale importanza qualora tali alleanze continuino a non dimostrarsi sensibili alle nostre particolari esigenze, come avvenuto anche nel passato recente, con particolare riferimento a Libia, Siria e Ucraina in primis, senza dimenticare i Balcani, trasformati in un coacervo di staterelli ostili tra di loro e alla mercè dei movimenti jihadisti che durante la guerra alla Serbia si sono radicati nell’area. Oggetto di particolare riflessione dovrebbero essere anche i rapporti con la Russia, come noi interessata, anche semplicemente per mere questioni geografiche, ad avere stabilità nel Mediterraneo e nel Medio Oriente e a prevenire processi migratori dall’Africa come quelli che stiamo subendo. Non si tratta di tradire l’alleanza atlantica, ma di convincerla che gli interessi del nostro continente non possono essere definiti e decisi solo da 6000 km di distanza, oltreatlantico.

Ma la vedo dura!

GLOBALIZZAZIONE E STATI NAZIONALI_ LA NAZIONE E LO STATO: UNA GRANDE ILLUSIONE DEI POPOLI, DI LUIGI LONGO

LA NAZIONE E LO STATO: UNA GRANDE ILLUSIONE DEI POPOLI, DI LUIGI LONGO
LA ROTTURA TEORICA DEL CONFLITTO STRATEGICO. TEMPO E SPAZIO DELLA RICERCA.
Quello presente è il secondo dei quattro saggi e della introduzione presentati in un convegno a tema di metà aprile 2016 dal sito www.conflittiestrategie.it del quale hanno fatto parte sia Luigi Longo, relatore del presente saggio che il titolare di questo sito, Giuseppe Germinario. Il saggio è già apparso sul sito promotore del convegno e potrete trovarlo comodamente unitamente agli atti restanti, quando ripubblicati, nella sezione DOSSIER-GLOBALIZZAZIONE E STATI NAZIONALI in basso a destra della pagina di questo sito. Buona lettura.

Il grande principio che le moderne istituzioni debbono
favorire è quello di tenere a bada le classi povere dando
però la possibilità di farsi strada alle intelligenze superiori
che vi si trovano, ma insieme quello di assicurare la tranquil-
lità delle classi agiate.
Honorè de Balzac*

I vari momenti dell’accumulazione originaria si distribuiscono ora, più o meno in successione cronologica, specialmente fra
Spagna, Portogallo, Olanda, Francia e Inghilterra. Alla fine del
Secolo XVII quei vari momenti vengono combinati sistematicamente in Inghilterra in sistema coloniale, sistema del debito pubblico, sistema tributario e protezionistico moderni. I metodi poggiano in parte nella violenza più brutale, come per es. il sistema coloniale. Ma tutti si servono del potere dello Stato, violenza concentrata e organizzata dalla società, per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico e per accorciare i passaggi. La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. E’ essa stessa una potenza economica.
Karl Marx*

La nazione esiste.[…] Dal momento infatti che il << nazionalismo >> è stato storicamente un prodotto della costituzione delle borghesie in stato (lo stato nazionale, appunto), si è diffusa a lungo l’opinione per cui il proletariato non ha nazione, ma soltanto internazionalismo e rivoluzione.[…] Ebbe invece ragione a suo tempo Stalin, in un saggio pubblicato nel 1914 e approvato da Lenin, quando definì la nazione << una comunità umana stabile, storicamente costituita, nata sulla base di una comunanza di lingua, territorio,, vita economica e formazione psichica che si traduce in comunità culturale >>.
Costanzo Preve*

Premessa

La rottura teorica del conflitto strategico di Gianfranco La Grassa apre strade interessanti per nuovi scenari paradigmatici capaci di leggere sempre più in profondità la coda[1] (1) della realtà e di approntare, con dovute mediazioni relazionali, analisi di fase interessanti foriere di possibili pratiche politiche strategiche.
La rottura teorica, a mio avviso, si orienta in tre direzioni: 1) la eliminazione della relazione verticale tra struttura ( la base produttiva) e sovrastruttura ( relazioni sociali, politiche, ideologiche, culturali, eccetera) prevalentemente a base economica (produttiva e finanziaria) sia pure intesa come rapporto sociale [ciò non inficia completamente la validità dell’affermazione di Karl Marx << Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza >> (2) ]; 2) l’importanza degli agenti strategici dominanti sia delle diverse sfere sociali sia dell’insieme dei rapporti sociali della nazione nelle fasi di storia mondiale (monocentrica, multipolare, policentrica); 3) la concezione dello stato, inteso come luogo e strumento, interno non esterno alle relazioni sociali, ai rapporti sociali dove gli agenti dominanti egemoni realizzano le loro strategie di potere e di dominio sia a livello nazionale sia a livello mondiale.
All’interno di questo quadro interpretativo del conflitto strategico avanzerò alcune riflessioni sullo Stato; le suddette tre direzioni verranno, inoltre, trattate sinteticamente attraverso un caso di studio (che necessita di approfondimenti) su una impresa che era strategica per il nostro Paese: l’Ilva di Taranto.
A proposito di storia locale o casi di studio strategicamente individuati e studiati[2]), riporto dalla prefazione di Benedetto Croce al libro di Giuseppe Carlo Speziale (3) quanto segue: << Ecco un bel libro di storia, intelligente e vivo. E la vita e la chiarezza d’intelligenza gli vengono dal pensiero dell’autore, che tutte le vicende di Taranto, anche quelle edilizie, narra e lumeggia in relazione con l’ufficio militare e assegnato alla città dalla situazione geografica e dallo svolgimento della politica nel Mediterraneo. Si prova di frequente una sorta di diffidenza verso i libri che si chiamano di storia locale o municipale, giudicandoli di scarso o nullo interesse a causa dell’angusto campo in cui si aggirano. Senonchè non meno scarsi o privi di interesse riescono tanti volumi di storia nazionale o universale, quantunque si spazino in amplissime distese; e ciò mostra che il difetto non è già, né potrebbe essere, nella materia storica, sì invece soltanto nel modo incoerente e superficiale onde, in quei casi, è stata considerata […] appunto perché […] non è stata riportata e ricongiunta ai complessi storici a cui appartiene >> [ pp. 7-8].
Il problema diventa la priorità strategica di storia locale o casi di studio che si dà all’interno di una riflessione teorica che di volta in volta si affronta. Il mio caso di studio iniziale sull’Ilva di Taranto si inquadra nella logica del paradigma del conflitto strategico di Gianfranco La Grassa che permette di analizzare, sia nella teoria, sia nella pratica sia nella pratica politica, una situazione concreta della realtà per possibili azioni di pratiche politiche[3].

1. Cosa non sarà

Avverto subito che non sarà una ri-costruzione storica sulla nascita dello stato dalle origini fino ad oggi sia in occidente sia in oriente, cioè, una narrazione che inizia dallo Stato di Dio di Agostino il cui fondatore e sovrano è Cristo (4) allo Stato del conflitto strategico i cui fondatori e sovrani provvisori e dinamici sono gli agenti strategici dominanti (5). Né sarà una analisi sui diversi stati dei diversi capitalismi [per esempio, lo stato cinese[4] è differente da quello statunitense; nel primo ha inciso molto il peso che ha avuto la fase matriarcale e Mao Tsetung ne era molto consapevole più di Karl Marx, di Friedrich Engels e di Vladimir Il’ič Ul’janov (Lenin) (6); nel secondo ha inciso molto la peculiare forma di costituzione della nazione fondata sull’influenza della civiltà spagnola, francese, olandese e inglese (7) ]. Né sarà una analisi delle diverse concezioni dello stato nelle diverse teorie e dottrine che caratterizzano la “conoscenza” della società data [lo stato giuridico, le teorie contrattualistiche, le teorie costituzionaliste, eccetera per non parlare della concezione dello stato liberale, keynesiano e marxista]. Tutto ciò è tenuto sullo sfondo del ragionamento con la consapevolezza che occorre un lavoro immane di ri-pensamento e ri-costruzione critica che può essere svolto solo da un gruppo multidisciplinare.

2. Allora perché lo stato.

Le questioni da affrontare sono molte:
1. dalla conoscenza dei luoghi di potere e dominio allo svelamento dell’interesse generale e di un astratto luogo di potere della classe dominante;
2. dai luoghi del blocco politico e sociale dominante in costante disequilibrio agli strumenti del dominio nelle fasi unipolare, multipolare e policentrica;
 dalla costituzione del blocco politico e sociale degli agenti strategici pre e sub-dominanti come sintesi degli agenti strategici dominanti nelle diverse sfere sociali con relativo ruolo delle sfere egemoni ( fasci di luce che illuminano) alle relazioni interstatali tra le aree mondiali con i loro diversi ordinamenti statali;
1. dalle relazioni geo-politiche, geo-economiche, geo-territoriali al ruolo delle potenze mondiali con le aree di influenza (regioni, poli).
Mi interessa, però, discutere della problematica della sovranità perché in questa fase di multipolarismo da mobilità oscillante è strategicamente prioritaria.

3. Chi è lo Stato

Leggo lo Stato ( va da sé che faccio riferimento a quello italiano come modello), con le sue strutture di funzionamento ( parlamento, governo, pubblica amministrazione, organi ausiliari, magistratura) e le sue articolazioni territoriali istituzionali ( enti locali, enti intermedi, eccetera- le casematte gramsciane[5]-), come luogo e strumento di potere e di dominio per la realizzazione degli obiettivi degli agenti strategici dominanti nel conflitto strategico per l’egemonia nella società storicamente data.

4. Potere e dominio

Il potere vero quello che produce dominio è sempre ben nascosto[6]. Tant’è che lo respiriamo e non ce ne accorgiamo. Gli strumenti statali, con le loro articolazioni territoriali, diventano sempre più macchine complesse per gestire e organizzare il dominio dell’intera società. Il dominio per realizzarsi ha bisogno di emergere attraverso processi istituzionali e produrre ordine simbolico della società data: è un processo di lunga durata [vedasi i vari modelli egemonici mondiali espressi dalle potenze predominanti nelle diverse fasi della storia mondiale (8)]. A questo proposito diventa fondamentale capire quali sono gli agenti strategici dominanti. Mi permetto una digressione: non faccio distinzione tra agenti strategici dominanti nella sfera privata e quelli nella sfera pubblica, tra quelli che delinquono legalmente[7] e quelli che delinquono illegalmente[8] (9), perché l’intreccio è tale che non ha senso la distinzione. Esempi calzanti sono: il ruolo della Confindustria nella filiera del potere-dominio privato-pubblico; le funzioni degli enti locali nel programmare e gestire il potere-dominio; il ruolo della criminalità organizzata come soggetto politico (10): in quest’ultimo esempio per sottolineare la qualità del denaro come espressione e mezzo di rapporto di potere mi piace ricordare quanto detto dall’imperatore Vespasiano al figlio Tito che lo svergognava perché aveva messo una tassa persino sugli orinatoi, mise sotto il naso il primo denaro ricavato, chiedendogli se l’odore gli dava fastidio; e dopo che questi gli ebbe risposto di no, soggiunse Eppure viene dall’orina! (10*). Dicevo degli agenti strategici dominanti che producono dominio[9], attraverso il potere nelle diverse sfere sociali soprattutto quelle dominanti a seconda delle fasi storiche (monocentrica, multipolare e policentrica), sull’intera società. I gruppi di interessi particolari nazionali o mondiali producono potere non dominio. Il dominio delle potenze mondiali non viene certamente prodotto dai gruppi di potere.

5. Società, nazione, popolo, stato

La società storicamente data è la nazione con le sue specificità e peculiarità storiche, culturali, sociali, territoriali, economiche e politiche. Anche se mi rendo conto che vi è l’esigenza di ri-cercare un nuovo concetto in grado di racchiudere meglio l’idea di nazione ( per es. Paese) tenendo presente la interconnessione dei concetti ( la teoria) e del vissuto ( la pratica) nel tempo e nello spazio (11).
Intendo per nazione un popolo, una comunità ( un insieme di persone sessuate, di gruppi sociali sessuati) che vivono su un determinato territorio storicamente delimitato[10]. In essa si creano le istituzioni, le regole e gli strumenti di produzione e controllo delle stesse che chiamiamo Stato con le sue articolazioni territoriali. Non mi interessa adesso discutere chi produce e fa le regole[11] e l’influenza dei modelli sociali egemoni dei pre-dominanti mondiali (per esempio l’americanizzazione della vita italiana ed europea[12]). Mi interessa capire come si produce autonomia nazionale avendo sullo sfondo (non tanto, per adesso) le relazioni mondiali in fase di multipolarità per il configurarsi di stato-potenze in grado di mettere in discussione l’egemonia mondiale degli USA che sta perdendo la funzione di centro di coordinamento mondiale. Non solo, ma, mi interessa capire come si rapporta l’autonomia nazionale all’Europa, che è diventata, diciamo dalla seconda guerra mondiale, una espressione geografica degli USA (estendo all’intera Europa la definizione che il cancelliere di stato austriaco Klemens von Metternich diede dell’Italia). Altro che ruolo determinante tra occidente ed oriente e svolta politica verso quegli stati-potenze che lottano per una visione multipolare delle relazioni mondiali, come la Russia e la Cina! Inoltre, non discuterei, per ora, degli agenti strategici dominanti e sub-dominanti che danno le carte dei rapporti sociali; mi interessa, piuttosto, porre la seguente domanda: gli strumenti istituzionali, i luoghi istituzionali che sono fatti di violenza e consenso, che attraversano tutte le sfere della società e sono interni non esterni ai rapporti sociali, come vengono agiti, modificati, modellati per il controllo e la gestione del potere e del dominio[13] ?. Gli agenti strategici dominanti, storicamente dati, si sono costruiti questi strumenti di potere e di dominio per la loro egemonia interna (agenti pre-dominanti e sub-dominanti) ed esterna (le grandi Potenze) e sono stati così acuti da costruirsi anche istituzioni di coordinamento dei poteri per imporre e gestire la propria egemonia (i greci e i romani in questo sono stati maestri). Coordinamento non significa separazione dei poteri che è una illusione storica come ha dimostrato Louis Althusser rileggendo Montesquieu attraverso Charles Eisenmann (teorico del diritto) << …in realtà Montesquieu non aveva parlato affatto di separazione, bensì di combinazione, di fusione e di collegamento dei poteri…>> (12).

6. Potere di parte e dominio dell’insieme

Uso il termine potere per intendere una forma di rapporti di forza finalizzato all’accrescere delle proprie capacità di incidere nella società ed è limitata ai gruppi sociali che dispongono dei mezzi di produzione e di flussi finanziari (sfera economica produttiva-finanziaria), di strumenti politici ( sfera politica), di sistemi culturali e ideologici ( sfera culturale), eccetera.[ per esempio gli agenti strategici dominanti o sub-dominanti nelle singole sfere sociali[14], le èlites di potere (13) ].
Utilizzo il termine dominio per delineare una egemonia sociale (nell’accezione gramsciana, cioè consenso e coercizione) da parte degli agenti strategici dominanti o sub-dominanti costituitosi in blocco sociale come supremazia sugli agenti strategici delle diverse sfere sociali.
La filiera del potere è diversa nelle singole sfere sociali e il dominio dell’insieme sociale di una nazione è diverso, è altro dal potere delle sfere sociali.
Gli agenti dominanti egemoni (blocco sociale), una sorta di coordinamento dell’equilibrio dinamico[15] tra i diversi agenti strategici delle differenti sfere sociali, realizzano, nelle diverse articolazioni e nei diversi luoghi istituzionali dello Stato, velano le loro strategie con l’illusione dell’interesse del popolo o dell’interesse generale[16] costruendo ordine simbolico sociale.

7. Volontà di potenza

Ipotizzo che il motore del conflitto strategico sia dato dalla “volontà di potenza”, dalla relazione di potere e di dominio che trova la sua essenza primaria nella relazione tra i sessi. In particolare, dalla forma violenta della oppressione maschile su quella femminile (egregie sono le sintesi storiche di questa fase di passaggio sia nella letteratura maschile sia in quella femminile; un esempio per tutti: l’urbanista e sociologo statunitense Lewis Mumford (14) e l’archeologa inglese Margaret Ehrenberg (15).
La volontà di potenza[17] esprime la necessità del potere e del dominio (lunga è la filiera di costruzione di tale concetto da Tucidide a Macchiavelli, da Platone a Hobbes, da Shakespeare a Balzac, eccetera). Tutte le relazioni sociali storicamente date (dalle micro – la famiglia-, alle macro – lo Stato) esprimono questa volontà di potenza. Nei momenti di transizione, di passaggio da un’epoca ad un’altra, da un ordine ad un altro, è stata sempre usata violenza inaudita per la conquista del dominio. Perché? E perché, nonostante queste forme di violenza, c’è un qualcosa che salvaguarda il genere umano sessuato (non sto facendo una riflessione naturalistica, di conservazione, eccetera)?

8. Volontà di armonia

La mia ipotesi è che il pensiero deve ri-partire dalla prima forma di Stato, originatosi con la violenza, nel passaggio dalla fase matriarcale a quella patriarcale[18]; organizzazione statale che né Karl Marx né Friedrich Engels colgono quando collocano l’origine dello Stato nella necessità di proteggere la proprietà privata. E’ questo atto di violenza che ha avuto bisogno di una forma organizzata statale per esercitarsi, che ha permesso il passaggio da un fase egemonizzata dalla “volontà di armonia” (intesa come tensione e condivisione di relazioni e rapporti sociali) ad una dove domina la “volontà di potenza”. E’ nella “volontà di armonia” che va cercata la non “volontà di potenza”.
Storicamente l’uso della forza non sempre è stato il motore della storia. Vi è stato un periodo storico (sostanzialmente il neolitico) dove la prevalenza del pensiero femminile non solo è stato determinante per lo sviluppo dell’umanità ma ha segnato nel profondo l’umanità stessa senza la necessità prevalente della forza. Su questi temi sia Karl Marx sia Friedrich Engels (soprattutto) erano molto sensibili. Poi, il perché Karl Marx (soprattutto) approfondì lo studio delle relazioni sociali della produzione e non anche quello delle relazioni sociali della riproduzione (insieme sono i fattori determinanti del processo di trasformazione umana storicamente intesa) è tutta un’altra questione che interessa, a mio avviso, anche la nascente teoria del conflitto della razionalità strategica (16). Perché Karl Marx ha privilegiato l’aspetto della produzione (sia pure come rapporto sociale)? Perché grandi studiosi, acuti e intelligenti come Karl Marx ed Friedrich Engels non colgono l’aspetto della riproduzione sociale complessiva dove per forza si sarebbero imbattuti nell’altro soggetto della storia, la donna? Sfugge loro anche l’aspetto che la donna è creatrice di quell’individuo sessuato che diventa la merce per eccellenza, fondamentale per lo sviluppo della società a modo di produzione capitalistico, cioè la forza-lavoro? Perché, parafrasando il titolo di uno degli ultimi libri di Gianfranco La Grassa, non bastano centocinquant’anni per uscire da Karl Marx con Karl Marx? Svilupperò in un altro momento questa fondante questione, per il momento mi basta segnalarla.

9. Sovranità

Con la fine della seconda guerra mondiale l’Italia, insieme all’Europa intesa come sommatoria di Stati (17), perde la propria sovranità a favore della potenza egemone dell’Occidente, cioè gli USA usciti vincitori dalla guerra e sostituitisi all’egemonia mondiale inglese (18).
La sovranità perduta, una sorta di servitù volontaria a favore delle strategie dominanti degli USA che aspiravano a diventare potenza egemonica a livello mondiale (aspirazione avvenuta con l’implosione dell’ex URSS e per nostra fortuna durata più o meno un decennio), si materializza attraverso quel processo di lungo periodo che va sotto il nome di americanizzazione e che già Antonio Gramsci aveva visto nel suo “Americanismo e Fordismo”[19] (19).
Questa penetrazione del modello e della visione della società degli agenti strategici dominanti statunitensi viene esportata in tutto il mondo con strumenti di egemonia (politica, culturale, ideologica) con la creazione di agenzie di governance mondiale (Onu, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, eccetera) e con la coercizione per mezzo di strumenti militari (Nato, Servizi Segreti, eccetera).
Una sovranità perduta che va inquadrata nelle diverse fasi della storia mondiale (monocentrica, multipolare, policentrica) e assume aspetti diversi a seconda delle strategie di fase della potenza egemone prima nel mondo Occidentale, poi a livello mondiale con un ruolo di coordinamento, infine nell’attuale fase multipolare avviata, dove nuove nazioni- potenze mettono in discussione questa sua egemonia. Una sovranità perduta limitata nella fase monocentrica accompagnata da una fase di sviluppo e di espansione del modello di società americana che coinvolge le nazioni europee apportando crescita e sviluppo (penso, per esempio, al Piano Marshall).
Una sovranità perduta ampiamente nella attuale fase multipolare dove la strategia del caos[20] degli USA è indirizzata a bloccare il consolidarsi di nuove potenze (Russia e Cina)[21], a ritardare il proprio declino e a rilanciare nuove sfide per riaffermare l’egemonia su basi nuove.
Parafrasando Carl Schmitt (20) si può sostenere che con l’inizio della fase multipolare è giunto al culmine anche l’ammirazione e l’emulazione del modello statunitense.
Voglio dire che abbiamo strategie diverse di dominio nelle diverse fasi storiche mondiali : monocentrica, dove prevale un dominio basato sul consenso e sulla “democrazia” ( rispetto formale della Costituzione); multipolare, dove prevale un dominio basato su una forte riduzione della democrazia e si preparano nuove forme di istituzioni per l’accentramento del potere-dominio ( modifica della Costituzione); policentrica, dove prevale la forza del dominio con annullamento della democrazia attraverso varie fasi di eccezione (annullamento della Costituzione).
Le fasi multipolare e policentrica comportano una prevalenza delle sfere politica, istituzionale e militare nella direzione di un accentramento istituzionale del potere.

10. Caso di studio: Ilva di Taranto[22]

Voglio parlare brevemente della servitù volontaria italiana nell’attuale fase multipolare attraverso un caso di studio emblematico che racchiude in sé tutti gli aspetti a) subordinazione alle strategie USA, b) americanizzazione del territorio alle esigenze strategiche USA nel Mediterraneo e nel vicino Medio Oriente, c) funzione dei sub-dominanti italiani che attraverso i luoghi e le articolazioni istituzionali territoriali creano una filiera di comando in funzione dei pre-dominanti USA.
Il caso di studio è quello dell’Ilva di Taranto.

11. Un Paese subordinato alle strategie USA

La città di Taranto è diventata una città importante per la strategia USA-NATO[23]. Una città NATO. Gli agenti dominanti USA hanno bisogno della piena disponibilità del porto di Taranto, con i suoi Mar Piccolo e Mar Grande, per le loro infrastrutture militari strategiche (sommergibili nucleari, armi, sistemi di sorveglianza)[24]. E’ da un decennio (il tempo non è da leggere in maniera lineare e deterministico) che stanno lavorando a questa trasformazione che si innerva con quelle trasformazioni messe in atto in altre basi militari USA-NATO (soprattutto nelle città Nato-Usa in Italia: Napoli, Sigonella, Niscemi, Vicenza, altre) e alla trasformazione del ruolo della NATO.
Nel porto di Taranto è localizzata, dalla prima metà degli anni sessanta del secolo scorso, l’Ilva che è evidentemente incompatibile con la strategia della trasformazione delle basi NATO.
Noto una certa analogia, da prendere con cautela e calarla storicamente, con la storia industriale della più grande acciaieria di Napoli, l’Ilva di Bagnoli. Anche qui gli obiettivi erano le esigenze strategiche e territoriali della base NATO della città di Napoli (quartier generale della NATO, sede di vari comandi di unità di servizi USA, grande centro per le telecomunicazioni del Mediterraneo dell’US Navy che coordina tutta l’attività di comunicazione, comando e controllo del Mediterraneo, eccetera). In quegli anni si svolgevano fatti di importanza mondiale per il nuovo equilibrio che si andava configurando con la caduta del muro di Berlino e con la successiva implosione dell’ex URSS. Si aprivano nuovi scenari per gli USA come possibilità di un unico centro di coordinamento mondiale e un nuovo ruolo della NATO. La chiusura dell’Ilva di Napoli per le esigenze territoriali della base del quartiere generale della NATO non poteva essere detta. Tutto fu velato dietro un fumoso progetto per il risanamento e il rilancio dello sviluppo della città di Napoli che passava attraverso il conflitto tra i settori economici (industriale, edilizio, turistico) : il progetto Fiat-Partecipazioni Statali degli anni ’80, l’idea della NeoNapoli di Paolo Cirino Pomicino, la fase di Tangentopoli, le lotte di blocchi di potere per i finanziamenti della bonifica di Bagnoli, non realizzata ( dal 2003 sono stati presentati ben 6 progetti di bonifica[25]), gli indirizzi per la pianificazione urbanistica ( impianti di eccellenza per il turismo legato al sistema congressuale alberghiero, grande parco pubblico, rete di attività produttive connesse con la ricerca scientifica, eccetera).
L’Ilva di Bagnoli, una impresa in piena salute, fu chiusa e venduta ai cinesi.
Un sindaco, Antonio Bassolino, e un urbanista, Vezio De Lucia (i nomi sono l’espressione di gruppi di potere in riferimento agli agenti sub-dominanti), gestirono la fase di velamento culturale e ideologico della grande trasformazione della città di Napoli.
Anche qui occorse un decennio per preparare la trasformazione.

12. L’americanizzazione del territorio[26]

Qui torna utile una digressione che aiuta ad inquadrare meglio i processi che portano alla trasformazione da polo siderurgico a polo strategico della NATO. Non nascondo che faccio fatica ad immaginare una Europa che si autodetermina avendo sul suo territorio una miriade di basi militari NATO e NATO-USA (la Germania ne ha 70, l’Italia ne ha 111; sono dati da aggiornare ed escludono quelle che non si sanno)[27]. E’ fuori dubbio che gli USA sono egemoni nella NATO non fosse altro perchè è la potenza mondiale che spende in armamenti più della metà degli interi Stati mondiali (900 miliardi di dollari annui). Gli USA hanno chiesto e ottenuto un aumento della << […] spesa militare dei Paesi europei che fanno parte della Nato [e] aumenterà quest’anno per la prima volta dopo quasi un decennio. Non sono stati diffusi dati ufficiali ma è certo – come ha affermato il segretario generale dell’Alleanza Atlantica Jens Stoltenberg – che le tensioni, non solo economiche, con la Russia di Vladimir Putin e la crisi dei migranti stanno facendo aumentare i problemi di sicurezza in tutto il continente. «Le previsioni per il 2016, sulla base dei dati preliminari che ci hanno fornito le Nazioni alleate, mostrano che ci sarà per la prima volta, dopo molti, molti anni, un incremento delle spese tra i Paesi europei», ha detto Stoltenberg in un’intervista al Financial Times. Una svolta ancora più significativa in vista del vertice che si terrà a luglio in Polonia per decidere i movimenti delle truppe Nato ai confini con la Russia […] Nel 2015 gli alleati europei nella Nato hanno speso per la difesa 253 miliardi di dollari contro i 618 miliardi spesi dagli Stati Uniti. Per rispettare l’accordo che prevede una spesa minima pari al 2% del Pil, i Paesi europei dovrebbero aumentare di 100 miliardi il loro budget militare annuale. Il loro contributo attuale si ferma infatti all’1,43% del prodotto interno lordo >> (21).
Così come è fuori dubbio che le strategie americane di politica estera, che ricalcano il vecchio retaggio da guerra fredda che impone supremazia militare ed economica e strategie regionali tese a proteggere incondizionatamente i Paesi alleati, porteranno, mano mano che avanzerà la fase multipolare, ad una militarizzazione delle città[28] e dei territori europei che esprime capacità militare, capacità di sicurezza e di controllo, capacità economica in funzione prevalentemente anti Russia. Non è un caso che la NATO non fu abolita una volta imploso il vecchio nemico “comunista”, ma fu rifondata probabilmente per meglio prepararsi ad un cambio di politica estera fondata sugli USA come unica potenza mondiale egemone: la nazione “eccezionale” universale. Oggi, per fortuna mondiale, non è così. La fase multipolare si va delineando e le strategie di politica estera americane fanno fatica a confrontarsi con le nascenti potenze mondiali (soprattutto Russia e Cina).
Ho già trattato la infrastrutturazione del territorio europeo in funzione della Nato[29] e le città NATO ( negli scritti summenzionati). Voglio qui aggiungere una riflessione che riguarda la nuova polizia continentale con ampi poteri, l’Eurogendfor, istituita con il Trattato di Velsen (Olanda) e approvata all’unanimità dalla Camera e dal Senato all’assemblea di Montecitorio del 14 maggio 2010 (legge n.84 il “Trattato di Velsen”). Per indicare i caratteri principali del Trattato di Velsen riporterò i seguenti passi dell’articolo di Matteo Luca Andriola:<< […] la Forza di gendarmeria europea (European Gendarmerie Force), conosciuta come Eurogendfor o Egf, che viene ora a proporsi come il primo corpo poliziesco-militare dell’Unione Europea, a cui partecipano cinque nazioni, cioè l’Italia, la Francia, l’Olanda, la Spagna e il Portogallo ai quali, in seguito, si è pure aggiunta la Romania, un’istituzione, quindi, con valenza sovranazionale.[…] Fra il 2006 e il 2007 il processo di genesi dell’Eurogendfor fa passi da gigante: il 23 gennaio 2006 viene inaugurato il quartier generale a Vicenza, la stessa città dove ha sede il Camp Ederle delle truppe Usa, divenendo operativa a tutti gli effetti, mentre il 18 ottobre 2007 viene firmato il trattato di Velsen, sempre in Olanda […]All’art. 3 si legge che «la forza di polizia multinazionale a statuto militare composta dal Quartier Generale permanente multinazionale, modulare e proiettabile con sede a Vicenza (Italia). Il ruolo e la struttura del QG permanente, nonché il suo coinvolgimento nelle operazioni saranno approvati dal CIMIN – ovvero – l’Alto Comitato Interministeriale. Costituisce l’organo decisionale che governa EUROGENDFOR». Questa nuova “super-polizia” è, recita l’art. 1 del Trattato, «una Forza di Gendarmeria Europea operativa, pre-organizzata, forte e spiegabile in tempi rapidi al fine di eseguire tutti i compiti di polizia nell’ambito delle operazioni di gestione delle crisi», al servizio, non tanto dei cittadini dell’Ue o degli Stati firmatari del Trattato (le “Parti”), ma, sostiene l’art. 5, sarà «messa a disposizione dell’Unione Europea (UE), delle Nazioni Unite (ONU), dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e di altre organizzazioni internazionali o coalizioni specifiche». Quindi un’Arma che può essere a disposizione degli Stati Uniti, dato che la Nato è, a tutt’oggi, il braccio armato di Washington in Occidente […] Colpisce, inoltre, il fatto che l’European gendarmerie force goda di una completa immunità internazionale. L’art. 4, recita che l’«EGF potrà essere utilizzato al fine di: condurre missioni di sicurezza e ordine pubblico; monitorare, svolgere consulenza, guidare e supervisionare le forze di polizia locali nello svolgimento delle loro ordinarie mansioni, ivi comprese l’attività di indagine penale; assolvere a compiti di sorveglianza pubblica, gestione del traffico, controllo delle frontiere e attività generale d’intelligence; svolgere attività investigativa in campo penale, individuare i reati, rintracciare i colpevoli e tradurli davanti alle autorità giudiziarie competenti; proteggere le persone e i beni e mantenere l’ordine in caso di disordini pubblici; formare gli operatori di polizia secondo gli standard internazionali: formare gli istruttori, in particolare attraverso programmi di cooperazione»[…] A quali casi si fa riferimento nel trattato di Velsen? A quelli inquadrati «nel quadro della dichiarazione di Petersberg». Cioè? A Petersberg, nei pressi di Bonn, si riunì il 9 giugno 1992 il Consiglio ministeriale della Ue che approvò una Dichiarazione che individuava una serie di compiti precedentemente attribuiti all’Ueo da assegnare all’Unione europea, cioè le cosiddette «missioni di Petersberg», cioè le “missioni umanitarie” o di evacuazione, missioni intese cioè al mantenimento dell’ordine pubblico, nonché operazioni costituite da forze di combattimento per la gestione di crisi, ivi comprese operazioni di ripristino della pace. Ergo, oltre all’intervento in caso di catastrofe naturale, l’Eurogendfor può intervenire per sedare delle manifestazioni in assetto da «forze di combattimento» >> (22).
Questa nuova istituzione europea di polizia continentale, che fa capo alla NATO, di controllo e sicurezza territoriale, con sede in una città NATO simbolo come Vicenza, trova comprensione in tre direzioni da approfondire: 1. Il ruolo della NATO che non è un ruolo direttamente militare (viene sempre più velato) ma economico, di sviluppo di territori, di sicurezza, di controllo, di penetrazione e di ampliamento di territori in funzione di contrasto delle potenze mondiali emergenti, soprattutto la Russia; 2. La perdita della peculiarità territoriale (di città e di territori) europea trova nel modello sociale e territoriale egemonico americano, direttamente e indirettamente tramite l’egemonia nelle istituzioni internazionali, una delle cause fondamentali del suo declino e della sua specificità storica:<< L’Europa si formò con l’emigrazione, l’America con la conquista. Per usare il linguaggio dei geologi, diremo che quella procede da alluvione e questa da azione vulcanica. E’ questo un primo tratto che differenzia la vita europea dall’americana. Eccone un altro: la civiltà dell’America fu un’opera di governo, un’impresa di Stato, un grande atto amministrativo; quella dell’Europa un’opera anonima, popolare, senza azione legislativa […] Ogni civiltà ha un’opera genuina che è la città. La città è la sintesi di una civiltà, il gesto o il ritmo che traduce la sua anima. Atene è la Grecia, come Roma è l’Impero, Firenze è il Rinascimento, Siviglia è l’anima spagnuola (New York è la modernità:” tutto ciò che è di solido, si dissolve nell’aria”, mia aggiunta) >> (23); 3.La politica di coesione e la cooperazione territoriale europea è funzionale alla strategia americana per aprire varchi ad Est risucchiando sempre più territori dalla sfera di influenza Russa ( ultimo caso: l’Ucraina).
Un esempio: si dice che << Una pluralità di questioni è associata alla coesione territoriale: il coordinamento delle politiche in regioni estese come quella del Mar Baltico, il miglioramento delle condizioni lungo le frontiere esterne orientali, la promozione di città sostenibili e competitive a livello mondiale, la lotta all’emarginazione sociale in alcune parti di regioni più ampie e nei quartieri urbani sfavoriti, il miglioramento dell’accesso all’istruzione, all’assistenza sanitaria e all’energia in regioni remote e le difficoltà di alcune regioni che presentano determinate caratteristiche geografiche.[…] Il modello di insediamento europeo è unico. In Europa sono sparse circa 5 000 città piccole e quasi 1 000 città grandi, che fungono da centri di attività economica, sociale e culturale. In questa rete urbana relativamente densa le città molto grandi sono però poche. Nell’UE solo il 7% delle persone abita in città con oltre 5 milioni di abitanti, rispetto al 25% negli USA, e solo 5 città europee sono annoverate fra le 100 più grandi città del mondo. Questo modello di insediamento contribuisce alla qualità della vita nell’UE, sia per gli abitanti delle città, che sono vicini alle zone rurali, sia per i residenti delle zone rurali, che beneficiano della prossimità dei servizi. È inoltre un modello più efficiente dal punto di vista dell’utilizzo delle risorse in quanto evita le diseconomie dei grandi agglomerati e l’elevato uso di energia e di terre che caratterizzano l’espansione urbana; tali diseconomie assumeranno dimensioni ancora più preoccupanti con il progredire dei cambiamenti climatici e l’adozione di misure per adeguarvisi o per contrastarli >> (24), questo modello così delineato cosa ha a che fare con il TTIP che è la distruzione delle aree rurali e la creazione di squilibri territoriali europei? Cosa ha a che fare con la realtà urbana e territoriale sempre più modellata su quella americana? (25).

13. Funzione dei sub-dominanti italiani

Il ruolo della magistratura. L’inizio della fine (che avrà i suoi tempi) dell’Ilva di Taranto è datato dall’azione della magistratura che il 26 luglio 2012 dispone il sequestro preventivo, senza facoltà d’uso, degli impianti dell’area a caldo dell’Ilva. L’azione è intrapresa per tutelare, con mezzo secolo di ritardo, i sacri principi costituzionali di tutela della salute dei lavoratori, della popolazione e del territorio. E’ logico pensare, considerato che la magistratura agisce sull’intero territorio nazionale, che tutti i poli siderurgici e petrolchimici abbiano lo stesso interessamento, se così non fosse rimarrebbe sempre la domanda in sospeso: perché l’Ilva di Taranto?
Se dovessimo tutelare i suddetti sacri principi costituzionali dovremmo chiudere qualsiasi impresa di produzione di merce, ma a questo punto non saremmo più nella società capitalistica. E non credo che la magistratura pensasse ad un’altra società. Infatti la sua azione sembra quella di difendere i sacri principi costituzionali elevandoli su un edificio sociale costruito con fondamenta di ingiustizie, di sperequazioni, di privilegi, di inganni, di ruberie, di pazzie e di guerre.
Giorgio Nebbia, che è un noto merceologo, ha scritto di recente che <<… la produzione dell’acciaio, come di qualsiasi altra merce, è accompagnata, inevitabilmente [corsivo mio], da scorie, rifiuti e nocività: la natura non dà niente gratis [lui essendo un merceologo si ferma alla natura e non pensa ai rapporti sociali che determinano la forma, lo sviluppo della produzione e l’uso della natura, mia critica] >> (26). Ha sostenuto un grande medico e scienziato, Giulio Maccacaro, che << …c’è un solo MAC [Massima Concentrazione Accettabile di una sostanza, mia precisazione] accettabile ed è quello zero…>> (27). Nella società a modo di produzione capitalistico non esiste un processo produttivo a MAC zero.
La magistratura sa che non ci sono le risorse finanziare per risanare e bonificare il territorio, ammesso e non concesso che ciò sia possibile!, e per questo dà la caccia al tesoro finanziario della famiglia Riva la quale metterà in campo, visto il potere che le deriva dal condurre un’impresa di livello mondiale ( il gruppo Riva nel 2011 è il primo nel settore in Italia, quarto in Europa e ventitreesimo nel mondo), tutte le sue relazioni economiche, politiche, finanziarie, istituzionali ( la grande impresa non è solo ciclo economico), per contrastare il sequestro delle sue risorse finanziarie.
La storia economica reale dei poli siderurgici e petrolchimici dimostra che c’è la privatizzazione dei benefici e la socializzazione delle perdite (umane, ambientali e territoriali).
Le risorse finanziarie che la magistratura intende confiscare alla famiglia Riva, tramite la capogruppo Riva Fire, sono pari a 8 miliardi e 100 milioni di euro. La somma stabilita equivale, secondo la magistratura, ad << …un indebito vantaggio economico all’Ilva ai danni della popolazione e dell’ambiente >> e sarebbero destinate agli interventi di risanamento e bonifica territoriale. Dalle risorse finanziarie da confiscare sono esclusi i costi per la bonifica di acqua e suolo ai parchi minerali, oltre al profitto necessario per continuare la produzione. E’ evidente che con queste condizioni l’impresa Ilva non è in grado di pianificare il piano industriale 2013-2018. Ed è evidente che il peso per contrattare a livello europeo, in una fase competitiva sempre più agguerrita [francesi, tedeschi e turchi stanno già beneficiando della crisi dell’ILVA], gli aiuti del piano siderurgico predisposto dalla Commissione Europea sarà pari a zero, per non parlare del ruolo, nella sostanza assente, dello Stato italiano. Ricordo che l’Ilva è stata decapitata del gruppo dirigente strategico e tecnico.
A Napoli fu la sfera economica, intrecciata alla sfera ideologica, la teste di ariete per la base NATO, a Taranto è la sfera della magistratura, innervata alla sfera ideologica, ad essere la testa di ariete della NATO.

Il ruolo del governo. L’Ilva, è utile ricordarlo, è una impresa di livello mondiale, con il più grande impianto siderurgico d’Europa, che produce acciaio, una merce base dell’economia italiana e mondiale. E’ un’impresa strategica per l’economia italiana. Ha una occupazione diretta di circa 12 mila lavoratori, a cui deve aggiungersi un indotto strettamente collegato sul piano verticale che porta l’occupazione diretta a oltre 15 mila unità. A questo dato devono sommarsi 9.200 unità legate all’indotto, per un totale complessivo di occupazione pari a oltre 24 mila occupati.
L’intervento del governo si concentra in tre direzioni: a) l’esproprio di una grande impresa (con la beffa del richiamo agli articoli 32, 41 e 43 della Costituzione, mai vista nella storia dell’industria italiana); b) la bonifica dell’ambiente, la tutela della salute e la salvaguardia del territorio; c) l’applicazione dell’ AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) al processo produttivo dell’Ilva, anticipata e integrata con le migliori tecnologie disponibili da impiegare nel settore della siderurgia a livello europeo per assicurare la protezione dell’ambiente e la protezione della salute così come da decisione della Commissione Europea 2012/135/UE ( la Commissione Europea dà tempo fino 2016 per uniformarsi)[30].
La domanda viene spontanea: perché anticipare di tre anni il recepimento della suddetta decisione della Commissione UE creando uno squilibrio nel mercato della concorrenza tra le imprese del settore siderurgico (scusate il linguaggio neoclassico)? E il recepimento della suddetta decisione della Commissione Europea nell’AIA non significa non rendere competitiva l’Ilva e avviarla alla chiusura? E’ questo il modo di difendere un’industria strategica da parte del governo italiano?
Andiamo avanti nel ragionamento.
Tutto questo, ovviamente, avverrà di pari passo con la elaborazione del piano industriale per il rilancio dell’Ilva e del piano ambientale per la tutela del territorio (città, mare e territorio rurale) e della salute dei lavoratori e della popolazione.
Così ragiona il ministro dello sviluppo economico Flavio Zanonato: << Il costo di un’eventuale chiusura dell’impianto avrebbe conseguenze negative gravi sul piano economico e, comunque, determinerebbe il consolidamento di una situazione che, secondo i magistrati di Taranto, è da considerarsi di disastro ambientale. L’impatto economico negativo è stato valutato attorno ad oltre 8 miliardi di euro annui, imputabili per circa 6 miliardi alla crescita delle importazioni, per 1,2 miliardi al sostegno al reddito ed ai minori introiti per l’amministrazione pubblica e per circa 500 milioni in termini di minore capacità di spesa per il territorio direttamente interessato. In una fase di calo globale del mercato, è evidente che l’eventuale uscita dello stabilimento di Taranto sarebbe guardata con estrema soddisfazione dai maggiori competitor europei e mondiali, che vedrebbero aumentare le proprie prospettive di mercato a tutto danno del sistema produttivo italiano. Anche un’eventuale vendita ad operatori internazionali esporrebbe il nostro Paese al rischio di un forte impoverimento della capacità tecnologica e di innovazione. L’importanza strategica di questo complesso industriale non può, però, far venir meno gli obblighi di tutela ambientale da cui dipende la qualità della vita dei cittadini di Taranto. La crescita economica e la salvaguardia della salute non sono, in particolare in questo caso, due diritti contrapposti e la prima non si può certo perseguire facendo soccombere la seconda [corsivo mio]. Il Governo, quindi, tende ad adottare tutte le azioni utili a tutelare l’ambiente e la vivibilità della città di Taranto nella consapevolezza che un’interruzione della produzione peggiorerebbe ulteriormente la situazione rendendo impossibile la bonifica dei siti inquinati. La sopravvivenza dello stabilimento è, oggi, dunque, legata alla capacità dell’azienda di mettere in atto gli investimenti necessari a rendere compatibile l’impianto con le norme ambientali e di sicurezza sulla salute dei cittadini [ corsivo mio]>> (28).
La priorità del governo nella questione Ilva è tutta incentrata sulla questione ambientale, sulla tutela della salute e sul risanamento della città. Basta avere la pazienza di leggere i dibattiti parlamentari, gli atti delle Commissioni Parlamentari (VIII e X), i decreti legge, i disegni di legge di conversione dei decreti, per rendersene conto direttamente. Anche il Vice presidente della Commissione Europea, Antonio Tajani, privilegia l’aspetto ambientale della questione Ilva anche perché nel piano siderurgico dell’Unione Europea, che illustra uno scenario di grande crisi, non c’è spazio per una grande impresa come l’Ilva, tra l’altro impossibilitata ad agire perchè in fase di esproprio temporaneo, e le condizioni di rilancio del settore siderurgico previste nel suddetto piano necessitano di una forte presenza dello Stato che abbia un minimo di strategia di politica economica sovrana e che sappia difendere le sue industrie strategiche e, in una logica di sviluppo economico, sappia ridurre i costi eccessivi dell’energia che <<… pesa fino al 40% sui costi di produzione di un impianto siderurgico, per cui il settore risente fortemente del trend dei costi energetici che, in Europa, sono tra i più alti al mondo >> e rilanciare i due settori di maggior consumo di acciaio (le costruzioni e la produzione di auto) così come fanno la Germania e la Francia (29).
L’Unione Europea sta indagando sull’Ilva di Taranto e vuole sapere dal Governo italiano, dalla regione Puglia e dall’Arpa/Puglia, come si sta combattendo l’inquinamento, come si gestiscono le discariche, i rifiuti e le acque reflue. Chiede inoltre di sapere se sono stati violati il diritto alla vita e il rispetto della vita privata e familiare (articolo 2 e 7 della Carta dei diritti fondamentali della UE)[31].
Il governo italiano sta chiudendo tutte le imprese strategiche appartenenti ai settori innovativi (inutile fare l’elenco); è in forte crisi anche il tanto lodato e non strategico made in Italy; la Banca d’Italia è preoccupata per la tenuta dell’intero sistema industriale (si vedano gli ultimi bollettini economici della Banca d’Italia). Stiamo in una crisi profonda di portata epocale per la quale l’80% della popolazione non vive bene.
A chi pensate che la UE taglierà la produzione, per ridurre la propria sovraccapacità, che ammonta a 80 milioni e rappresenta oltre 1/3 della produzione complessiva?
Il governo italiano, mentre chiude le sue imprese strategiche, per assecondare gli agenti strategici americani, con grandi perdite nelle relazioni geopolitiche e geoeconomiche, diventando sempre più un territorio dove << i gabinetti stranieri [sono] a decidere la sorte della nazione >> , decide per decreto (articolo 1 del decreto legge del 3 dicembre 2012 n.207) di trasformare l’Ilva in impresa strategica ed espropriarla per affidarla alla gestione pubblica per il risanamento aziendale e territoriale per poi restituirla ai proprietari. Come se i luoghi pubblici, i luoghi dell’interesse generale, i luoghi delle istituzioni ramificate territorialmente, i luoghi dello Stato, fossero luoghi dove si espleta la politica dell’interesse generale del Paese e non invece, luoghi dove i gruppi strategicamente egemonici (pre-dominati e sub-dominanti) realizzano i loro indirizzi strategici di dominio.
Non solo, ma la difesa ambientale e la salute delle popolazioni, per cui è stata espropriata l’Ilva, è ideologica ( nell’accezione negativa del termine) e strumentale da parte del governo italiano, tant’è che all’articolo 41, comma 1, del decreto legge n.69/2013[ il cosiddetto decreto del fare (sic)], si legge <<…nei casi in cui le acque di falda contaminate determinano una situazione di rischio sanitario, oltre all’eliminazione della fonte di contaminazione ove possibile ed economicamente sostenibile…>>. E’ ovvio che l’economicamente sostenibile si riferisce alle imprese. E, allora, i tanto decantati articoli 41 e 43 della Costituzione italiana si applicano soltanto all’Ilva? Se interpreto bene il citato articolo, mi ritorna di nuovo la domanda: perché L’Ilva? E i giuslavoristi, i costituzionalisti, i difensori estremi della Costituzione non hanno niente da dire sulla incostituzionalità del citato comma?
Se fosse vivente il grande storico Carlo Maria Cipolla certamente avrebbe aggiornato il suo magnifico saggio (Allegro ma non troppo) sulle leggi fondamentali della stupidità umana.
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Il ruolo dei Commissari. Per realizzare questo grande disegno di rilancio dell’Ilva e di risanamento ambientale e territoriale vengono nominati un Commissario Straordinario, nella persona di Enrico Bondi, già amministratore delegato dell’Ilva nominato dalla famiglia Riva, e un sub Commissario all’ambiente nella persona di Edo Ronchi ( un confusionario della generazione “sessantottopersa” nel distorto benessere capitalistico, che ha scambiato una rivoluzione di costume e di consumo per una rivoluzione sociale nell’accezione marxiana e leniniana, esperto di sviluppo sostenibile, stimato dagli ambientalisti e dai radicali di sinistra, in quota nel PD). Entrambi traghetteranno, in un continuo gioco delle parti, se le cose dette hanno un minimo di sensatezza, l’Ilva alla chiusura. Sono gli esecutori, insieme ai loro gruppi di potere, degli ordini degli agenti strategici sub dominanti italiani alla mercè dei desiderata dei predominanti USA via NATO. A ciò è servito l’applicazione del citato artico 1 del D.L. n.207/2012, altro che interesse pubblico o interesse generale o bene del Paese.
Enrico Bondi, con il suo gruppo di potere di riferimento, medierà con la proprietà una chiusura dignitosa dal punto di vista economico-finanziario.
Edo Ronchi, con il suo gruppo di potere di riferimento, lavorerà ad un grande piano di risanamento dell’ambiente, della città e del territorio rendendo << … gli stabilimenti Ilva un punto di riferimento in Europa, anticipando di tre anni le migliori tecnologie disponibili (Best Available Technologies, BAT) che saranno applicate in ambito europeo a partire dal 2016. Nella consapevolezza di una situazione di assoluta emergenza, il Governo intende tuttavia giungere alla realizzazione dello stabilimento più avanzato in Europa in termini di compatibilità ambientale…>>.
Oggi la strategia è cambiata, ma la soluzione finale resta sempre la chiusura dell’Ilva: 1. Si passa dalla fase di risanamento ambientale, di applicazione di tecnologie pulite e rilancio dell’impresa con il Commissario Enrico Bondi alla fase di mercato di Pietro Gnudi che dovrebbe vendere l’Ilva di Taranto in una situazione di grave crisi di produzione, di crisi di liquidità, di crisi ambientale, con la spada di damocle della magistratura; 2. Si svende in maniera poco chiara ai privati. Sono favoriti per tutta una serie di ragioni e di combinazioni, tra interessi di impresa, politiche energetiche e strategie mondiali dei grandi gruppi dell’acciaio ( settore che attraversa una fase di crisi), il colosso Arcelor Mittal e il gruppo Marcegaglia ( l’impostazione dei bandi, le offerte presentate, il peso dei soggetti strategici in campo confermano la mia ipotesi per la joint-venture Arcelor Mittal-Mercegaglia). Questa alleanza garantisce di fatto gli affari nel breve-medio periodo ( commessa tubi TAP e quote di produzione di acciaio ) e la chiusura dell’Ilva nel medio-lungo periodo (30).
Le due fasi ipotizzate hanno come obiettivo la chiusura dell’Ilva di Taranto che interessa sia gli equilibri dinamici dei sub-sub dominanti nazionali (flusso finanziario per risanamento ambientale, riqualificazione della città, nuova progettualità portuale, eccetera); sia dei sub-dominanti europei (eliminazione di una quota di 10 milioni/annuo di acciaio dell’Ilva pari al 25% del taglio che la UE si è dato per affrontare la crisi e la concorrenza mondiale); sia dei pre-dominanti USA ( realizzazione del polo USA-Nato per le sue strategie nel Mediterraneo e nel Medio Oriente di contrasto alle potenze mondiali emergenti soprattutto la Russia.

I luoghi istituzionali. La UE, il governo italiano, la regione Puglia e il comune di Taranto sono i luoghi istituzionali dove saranno gestite le risorse finanziarie ( derogando al Patto di stabilità) per il rilancio di uno sviluppo dell’area tarantina nei settori della bonifica ambientale, del risanamento del territorio, della rigenerazione urbana della città, della smart city, del riuso del porto ( l’Autorità Portuale vede con favore la chiusura dell’Ilva per puntare a un riuso del porto e al superamento dell’attuale crisi sul modello di quello di Rotterdam: fare di Taranto, la Rotterdam del Mediterraneo), eccetera, in stretta collaborazione con le strategie di intervento che integrano la dimensione militare e quella civile della NATO.
I sindacati, i partiti convergeranno, per gestire la fase di passaggio dal polo siderurgico al polo NATO, le loro azioni per difendere il lavoro e la dignità della popolazione con i meccanismi di difesa sociale, ridotti all’osso, del fu stato sociale.
I lavoratori e le lavoratrici si chiederanno, come Vincenzo Buonocore dell’Ilva di Bagnoli, perché l’Ilva è stata chiusa?
La popolazione di Taranto continuerà a credere che nella società capitalistica è possibile un modo di produzione rispettoso della salute, dell’ambiente e del territorio e dorme tranquilla perché sa che ha come Presidente della Repubblica un garante intransigente della Costituzione italiana.
La sfera ideologica è già al lavoro.
Non è la marxiana storia che si ripete diventando farsa, ma è la lagrassiana storia che torna in maniera diversa.

Le citazioni che ho scelto come epigrafe sono tratte da:

 Honorè de Balzac, Lettres sur Paris;
 Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975, Libro primo, pp.922-923;
 Costanzo Preve, Il tempo della ricerca. Saggio sul moderno, il post-moderno e la fine della storia, Vangelista, Milano, 1993, pag.25.

NOTE

1. Gianfranco La Grassa, Sempre in coda al flusso reale, inconoscibile, www.conflittiestrategie.it, 22/12/2015; Giorgio Gaber-Romano Luporini, La realtà è un uccello, www.giorgiogaber.org, 1994.
2. Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma, 1974, pag.5.
3. Giuseppe Carlo Speziale, Storia militare di Taranto negli ultimi cinque secoli, Laterza, Bari, 1930, pp.7-8.
4. Ernst Cassirer, Il mito dello Stato, Longanesi, Milano, 1971; Carla Maria Fabiani, a cura di, L’origine dello Stato. Un percorso da Platone a Marx, www.ilgiardinodeipensieri.eu .
5. Gianfranco La Grassa, Gli strateghi del capitale. Una teoria del conflitto oltre Marx e Lenin, Manifestolibri, Roma, 2005; Gianfranco La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, Roma, 2008.
6. Julia Kristeva, Donne cinesi, Feltrinelli, Milano, 1974.
7. Raimondo Luraghi, Gli Stati Uniti, Utet, Torino, 1974, volume sedicesimo.
8. Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e l’origine del nostro tempo, il Saggiatore, Milano, 1996; Giovanni Arrighi, Caos e governo del mondo. Come cambiano le egemonie e gli equilibri planetari, Bruno Mondadori, Milano, 2003.
9. Vincenzo Ruggiero, Perché i potenti delinquono, Feltrinelli, Milano, 2015.
10. Umberto Santino, La mafia finanziaria. Accumulazione illegale del capitale e complesso finanziario industriale, www.centroimpastato.com ; Isaia Sales, Napoli e Marsiglia. Storie criminali urbane a confronto, Limes, n.4/2016, pp.47-59; Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975, libro primo, settima sezione, capitoli XXIII e XXIV, pp. 753-950.
10*. Svetonio, Vite dei Cesari, Rizzoli, Milano, 1982, volume secondo, pag.751.
11. Su questi temi si rimanda alla lettura critica di Ludovica Pellizzetti, Globalizzazione e spaesamento, www.micromega.net ( Filosofia-Il rasoio di Accam, 2016).
12. Louis Althusser, Montesquieu, la politica e la storia, Savelli, Roma, 1974, pag.94; si veda anche Carl Schmitt, Parlamentarismo e democrazia, Marco editore, LUNGRO di Cosenza, 1998, pp.21-49.
13. 13. Giorgio Sola, La teoria delle èlites, il Mulino, Bologna, 2000.
14. Lewis Mumford, La città nella storia, Bompiani, Milano, 1967, tre volumi.
15. Margaret Ehrenberg, La donna nella preistoria, Mondadori editore, Milano, 1992.
16. Per una buona sintesi introduttiva che parte dalla differenza dei sessi e, quindi, dalla soggettività femminile ( che include quello di classe e non viceversa), si rinvia a Cristina Carpinelli, Il processo “bloccato” di emancipazione femminile nella pratica sovietica, www.ecn.org, maggio 2005; Sheila Rowbothan, Donne, resistenza e rivoluzione. Una analisi storica per una discussione attuale, Einaudi, Torino, 1976; Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale, Rivolta Femminile, Milano, 1974.
17. Perry Anderson ed altri, a cura di, Storia d’Europa, Einaudi, Torino, 1993, volume primo; Ludwig Dehio, Equilibrio o egemonia. Considerazioni sopra un problema fondamentale della storia politica moderna, il Mulino, Bologna, 1988.
18. Giovanni Arrighi, Caos.., op.cit.
19. Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, Volume III, quaderno 22, Einaudi, Torino, 1975, pp.2139-2181.
20. Carl Scmitt, Terra e mare, Adelphi, Milano, 2006.
21. Luca Veronese, Nato, torna a crescere (dopo 10 anni) la spesa militare dei Paesi europei in il Sole 24 Ore del 31/5/2016.
22. Matteo Luca Andriola, Il trattato di Valsen e l’Eurogendfor, www.comunismoecomunita.org, 13 marzo 2014.
23. Giovanni B. Teràn, La nascita dell’America spagnuola in Leonardo Benevolo e Sergio Romano, a cura di, La città europea fuori d’Europa, Libri Scheiwiller, Credito Italiano, Verona, 1998, pag.79; Fernand Braudel, Le strutture del quotidiano. Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), Einaudi, Torino, 1982, volume primo.
24. Commissione della Comunità Europee, Libro Verde sulla coesione territoriale. Fare della diversità territoriale un punto di forza, www.europa.eu, 6/10/2008, pp-3-5.
25. David Harvey, Città ribelli, il Saggiatore, Milano, 2013; Mike Davis, Il pianeta degli slums, Feltrinelli, Milano, 2006; Alessandro Petti, Arcipelaghi e enclave. Architettura dell’ordinamento spaziale contemporaneo, Bruno Mondadori, Milano, 2007.
26. Giorgio Nebbia, L’acciaieria non è un salotto, www.ecologiapolitica.org, luglio 2013.
27. Giulio Maccacaro, Per una medicina da rinnovare, scritti 1966-1976, Feltrinelli, Milano, pag. 314.
28. Intervento del Ministro dello sviluppo economico alla Camera dei Deputati del 4 giugno 2013, seduta n.28, www.camera.it
29. Antonio Tajani, Piano d’Azione Acciaio, conferenza stampa, Strasburgo, giugno 2013, www.europa.eu
30. Per una verifica quantitativa (da valutare con un approccio critico), completa della grave crisi dell’Ilva di Taranto, rimando all’articolo di impronta economicistica di Paolo Bricco (storico e giornalista del “Sole-24 Ore”), Ilva, Taranto un caso paradigmatico in “il Mulino” n.1/2016 e al modello econometrico dello Svimez, commissionato dal “Sole-24 Ore”, per valutare l’impatto della vicenda Ilva sul sistema industriale del Paese: per una sintesi in Paolo Bricco, La crisi dell’Ilva è costata 10 miliardi in “Il Sole-24 Ore” del 23/05/2016.
[1] La coda di Gianfranco La Grassa o la realtà è più avanti di Giorgio Gaber o di mia nonna, Ripalta Montano, che diceva che non voleva morire perché non aveva ancora capito tante cose della vita ( significativo perché detto da una donna che aveva attraversato due guerre mondiali. Detto senza parafrasi il senso della realtà delle donne è più avanti).
[2] I casi di studi sono da individuare all’interno delle sfere sociali ( economica, politica, militare, istituzionale, eccetera) che nelle determinate fasi storiche mondiali ( monocentrica, multipolare e policentrica) assumono un ruolo determinante in relazioni alle altre sfere sociali. Cioè sono i fasci di luce che illuminano la sfera sociale complessiva.
[3] Riporto una considerazione dello storico Carlo Maria Cipolla: il punto di vista fu sempre universale, l’occhio spaziò sempre oltre i confini della parrocchia per capire meglio il fenomeno locale nel più ampio tessuto europeo e per arricchire il fenomeno generale con l’apporto dell’esperienza locale.
D’altronde l’impostazione seguita da Karl Marx nel Capitale non coniugava la delineazione teorica della logica di sviluppo del capitale con le indagini empiriche sul modo di produzione capitalistico.
[4] […] In quanto la Cina mi sembra essere la sola grande civiltà che si è sviluppata al di fuori del pensiero europeo. Al di fuori della nostra lingua, la grande lingua indoeuropea, e allo stesso tempo al di fuori della nostra storia, almeno fino a un’epoca relativamente recente, fino al XVII secolo e addirittura, di fatto, fino al XIX secolo. Il vantaggio teorico di passare per la Cina è rappresentato dal fatto che essa offre un altrove distante dai nostri punti di vista di riferimento. Se si cerca un’esteriorità della lingua, non la si potrà infatti trovare in India, visto che il sanscrito appartiene alla famiglia delle lingue indoeuropee. Allo stesso modo, se si cerca un’esteriorità nella storia, non la si potrà rintracciare nel mondo arabo o ebraico, legati da mille fili alla storia dell’Occidente. Per chi intenda uscire dal pensiero europeo, volgendosi tuttavia verso un mondo ugualmente elaborato, civilizzato, testualizzato, come il nostro in Europa, non c’è che la Cina. [ Francois Jullien, Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente, Laterza, Roma-Bari, 2006, pp.3-4]
[5] [ …] nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta/ struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezza e di casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale[…] in Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Volume II, Einaudi, Torino, 1975, quaderno n.7, pag.866.
[6] Kevin Spacey (l’Underwood di House of Cards, gli intrighi del potere) ha affermato in una recente intervista che il suo personaggio si ispira al Riccardo III di Shakespeare ed è molto vicino alla realtà; anzi molte volte la realtà ci supera ancora. House of Cards è una serie televisiva statunitense sugli atroci meccanismi di potere nelle relazioni umane sessuate svolte principalmente nelle istituzioni USA ( Partito democratico, Camera, Congresso, eccetera). L’intervista è apparsa su “il Giornale” del 12/4/2016.
[7] E’ illuminante la scena del film ( La banda degli Onesti, 1956) nel dialogo tra Antonio (Totò) e Giuseppe (Peppino De Filippo) nel quale viene spiegato il ruolo del capitalista, del profittatore, dello speculatore, dei vari ragionieri Casoria (corrotti e prepotenti) che rasentano il codice penale ma non incappano dentro.
[8] Bertolt Brecht, L’opera da tre soldi in Teatro, Volume I, Einaudi, Torino, 1978, pp.412-513. Si veda il ruolo avuto dai derivati “tossici” nello scoppio della crisi finanziaria del 2008 e il ruolo delle società Offshore e delle strutture fiduciarie nel gioco tra legalità e illegalità in Amaru Barahona, Legalità ed illegalità economica nel capitalismo neoliberista in www.controinformazione.info del 19 aprile 2016.
[9] Il fine è il dominio non il profitto: Karl Marx la chiama “smania di dominio del capitale”.
[10] Lo spazio naturale assume valore antropologico, diventa un territorio. L’insieme degli interventi trasformativi che assicurano il passaggio dallo spazio al territorio si chiama territorializzazione. La mia definizione è: lo spazio naturale è uno spazio bianco, vuoto dove le trasformazioni territoriali sono peculiari al modo di produzione e riproduzione dei rapporti sociali dati. La società a modo di produzione capitalistico ( conscio di un significato insufficiente di questo concetto) vede e tratta il territorio come uno spazio vuoto, bianco su cui è possibile intervenire in modo illimitato e irrispettoso. Il territorio, invece, diventa quella territorialità che rispetta lo spazio dato secondo e seguendo le leggi della natura. Per rispettare le leggi della natura e le relazioni sociali, i rapporti sociali devono diventare altro.
La territorialità è l’innervamento di una cultura di una nazione e di una cultura della natura ( animata ed inanimata).
[11] Penso al processo storico di costruzione della Costituzione italiana e allo scarto con la realtà materiale dei rapporti sociali ( la farsa dei diritti e doveri tra rapporti sociali asimmetrici). Forse fu in questa fase che si preparò il lungo cammino che portò il PCI ad abbandonare il blocco dell’URSS e a portarlo nel campo occidentale ad egemonia USA. Il ruolo svolto da Giorgio Napolitano e da Enrico Berlinguer era agevolato da questo cammino storico. L’implosione dell’URSS ha permesso la visibilità di tale passaggio.
[12] Il potere-dominio definisce cos’è la democrazia che non è assolutamente la partecipazione e la decisione della maggioranza della popolazione alle scelte delle relazioni sociali e dei rapporti sociali che determinano l’insieme della vita sociale, si veda: Noam Chomsky, Capire il potere, Marco Tropea editore, 2008; Costanzo Preve, Il popolo al potere. Il problema della democrazia nei suoi aspetti storici e filosofici, Arianna editrice, Casalecchio (BO), 2006; Luciano Canfora, Intervista sul potere, Laterza editore, Bari-Roma, 2013; Anonimo ateniese, la democrazia come violenza, Sellerio editore, Palermo, 1982. Preciso che lo stesso Noam Chomsky definisce gli USA, nazione democratica per eccellenza, una nazione con una popolazione spoliticizzata, fortemente religiosa e profondamente ignorante.
[13] Lo Stato, con le sue articolazioni e i suoi luoghi, non è separato, non è uno strumento tecnico-meccanico, ma è parte del conflitto. L’ideologia lo rende separato, non la realtà. Gli agenti strategici dominanti gestiscono il dominio tramite lo Stato che è sempre difficile da svelare e destrutturare. Senza lo strumento Stato non si realizza il potere e il dominio. Il potere ha bisogno dello Stato per essere dominante ed egemonico. Sviluppa e costruisce funzioni e ruoli nei rapporti sociali. Funzioni e ruoli importanti per le strategie conflittuali tra gli agenti strategici dominanti e tra questi e i gruppi sociali, che formano la popolazione, dominati. Quindi lo Stato non è esterno ai rapporti sociali e ai conflitti tra dominanti e tra dominanti e dominati, ma è interno, è luogo per eccellenza per affermare il dominio degli agenti strategici egemonici. La trasformazione profonda dei suoi apparati, alcuni possono essere eliminati, altri creati, tutti possono essere cambiati o rivoluzionati, non significa la soppressione delle “regole del gioco”. Ho iniziato a ragionare su questa ipotesi dello Stato a partire dalla lettura del saggio di Gianfranco La Grassa, Impresa e Stato. Poli complementari della struttura capitalistica in Edoardo De Marchi, Gianfranco La Grassa, Maria Turchetto, Oltre il fordismo. Continuità e trasformazioni nel capitalismo contemporaneo, Edizioni Unicopli, Milano, 1999, pp.38-98.
[14] Le sfere sociali sono astrazioni che ci costruiamo per interpretare la realtà che sta sempre avanti. Le sfere sociali possono essere diverse a seconda delle ipotesi di ragionamento per costruire il campo di stabilità. Per esempio Gianfranco La Grassa ne utilizza tre (politica, economica, culturale) David Harvey ne utilizza sette, eccetera. Nelle sfere sociali è ipotizzabile parlare di potere non di dominio.
[15] Per analogia sulla dinamicità dell’equilibrio degli agenti strategici dominanti, riporto la descrizione del fisico Francesco Sylos Labini sull’equilibrio dei sistemi fisici << […] Da più di cinquant’anni, infatti, si conoscono e si studiano sistemi fisici complessi per i quali, anche se uno stato di equilibrio stabile esiste in teoria, esso può essere totalmente irrilevante in pratica, perché il tempo per raggiungerlo è troppo lungo. Altrimenti vi sono sistemi che sono intrinsecamente fragili rispetto all’azione di piccole perturbazioni, evolvendo in modo intermittente con un susseguirsi di epoche stabili intervallate da cambiamenti rapidi e imprevedibili. In altre parole, per molti sistemi fisici l’equilibrio stabile non è una condizione raggiunta in maniera naturale: diversi sistemi raggiungono invece una situazione di metastabilità e non un vero e proprio equilibrio, come quello di un gas in una stanza isolata o di una pallina in fondo a una valle, cioè una situazione di temporanea stazionarietà ma di potenziale instabilità, tanto che è sufficiente una piccola perturbazione per causare grandi effetti. Come succede quando, per esempio, si accumula l’energia potenziale per effetto del moto relativo di due faglie tettoniche. Questa energia, quando supera una certa soglia critica, sarà a un certo punto rilasciata sotto forma di onde sismiche e cioè ci sarà un terremoto: la dinamica dei terremoti è dunque rappresentata da periodi di apparente quiete in cui il sistema si carica e terremoti improvvisi (ciclici e non periodici) in cui l’energia accumulata è rilasciata […] >> in L’economia neoclassica? Una pseudoscienza. Conversazione con Francesco Sylos Labini a cura di Francesco Suman e Olmo Viola in www.micromega.it, 20/6/2016. Si veda anche l’interessante libro di Francesco Sylos Labini, Rischio e previsione. Cosa può dirci la scienza sulla crisi, Editori Laterza, Roma-Bari, 2016.

[16] Un esempio tratto da Honorè de Balzac ( La cugina Bette, scritto nel 1846, edito da Newton & Compton Editori, Roma,1994) per illustrare la fase di gestione del potere attraverso le istituzioni: << Il barone Hulot, braccio destro di Napoleone, invia lo zio Johann Fischer in Algeria per << Fornire i viveri della guerra, grani e foraggi; ho il vostro contratto firmato. Troverete nel paese il necessario al settanta per cento in meno del prezzo al quale vi si terrà conto…quanto alla riscossione delle imposte, la vostra probità non ne soffrirà; tutto dipende dalle autorità, e sono io che ho insediato laggiù le autorità: sono sicuro di loro…Le scorrerie, l’achour, i califfati. Vi è in Algeria ( paese poco conosciuto, anche se siamo da otto anni) una grandissima quantità di grano e di foraggi. Ora, quando queste derrate appartengono agli arabi, noi, con mille pretesti, cerchiamo di prenderle; poi quando sono nostre gli arabi tentano di riprendercele. Si combatte per il grano; ma non si sa di preciso le quantità che si sono rubate a vicenda. Non si ha il tempo, in aperta campagna di contare le staie di grano come alla Halle [ mercato coperto parigino, mia precisazione], e il fieno come in rue de l’Enfer [ mercato all’aperto, mia precisazione]. Tanto i capi arabi quando i nostri spahis [ brigate coloniali francesi montate a cavallo in Algeria, mia precisazione], preferiscono il denaro e vendono quelle derrate a un prezzo bassissimo. L’amministrazione della guerra ha dei bisogni fissi: passa i contratti a dei prezzi esorbitanti, calcolati sulla difficoltà di procurarsi i viveri e sui pericoli corsi dai trasporti. E’ un pasticcio temperato dalla bottiglia di inchiostro di una qualunque amministrazione nascente. Non potremo vederci chiaro che fra una decina d’anni, noi amministratori, ma i privati hanno buoni occhi. Dunque vi mando per farvi fortuna; vi metto, come Napoleone metteva un maresciallo povero alla testa d’un regno dove si poteva segretamente proteggere il contrabbando.>> [ pp 232-233].
[17] La volontà di potenza e volontà di dominio, con i relativi rapporti di dipendenza, sono il fine delle relazioni sociali della società data. Ciò significa che il profitto della società a modo di produzione capitalistico è un mezzo e non il fine che resta la volontà di dominio che è intrecciata alla analisi delle fonti del potere che non necessariamente hanno a che fare con la sfera economica.
[18] La civiltà occidentale e gli stati moderni nascono, ci tocca ricordarlo con Freud e Hobbes, da un patto tra uomini violenti, che si emancipano dall’autorità paterna e se ne spartiscono l’eredità escludendo le donne dalla vita pubblica e sottomettendole in quella privata. Nel corso della modernità, la libertà non è stata regalata alle donne dalla civiltà occidentale: sono le donne ad averla conquistata con le loro lotte anche contro la civiltà occidentale ( Ida Dominijanni, Speculum, l’altro uomo. 8 punti sullo spettro di Colonia in www.internazionale.it, 3 febbraio 2016.
[19] Costanzo Preve sosteneva che <<. […] Americanismo non significa assolutamente sostenere sempre servilmente tutto ciò che di volta in volta decidono di fare i governi americani. Il vero americanismo, anzi, consiste nel consigliare all’imperatore cosa dovrebbe fare per essere più amato dai sudditi, più multilaterale, meno unilaterale, ed in genere più portatore di un soft power. Il vero americanista consiglia di chiudere Guantanamo, di scoraggiare il Ku Klux Klan, di eleggere al comando il numero maggiore possibile di neri, donne, gay, eccetera. Il vero americanista vuole potersi riconoscere nella potenza imperiale che occupa il suo paese con basi militari e depositi di bombe atomiche a distanza di decenni dalla fine della seconda guerra mondiale (1945) e dalla dissoluzione di ogni patto militare “comunista” (1991). Il vero americanista vuole essere suddito di un impero buono, e pertanto gli spiace che l’impero a volte sia cattivo ed esageri. Massacrando l’Iraq l’impero non ha commesso un crimine, ma un errore. L’americanista utilizza due registri linguistici ed assiologici diversi, il codice del crimine ed il codice dell’errore. Tutti possiamo commettere errori, che diamine! Hitler, Mussolini, i giapponesi, i comunisti, Milosevic, Mugabe, la giunta militare del Myanmar, i talebani, eccetera, hanno commesso e commettono crimini. Churchill che massacra i curdi e gli indiani, Truman che getta la bomba atomica ad Hiroshima, Bush che invade l’Iraq nel 2003, commettono solo spiacevoli errori. L’americanista accusa di anti-americanismo tutti coloro che affermano che gli USA si comportano come un impero, e non dovrebbero farlo, e comportarsi invece come un normale stato-nazione, affidando il mondo ad un equilibrio fra le potenze, senza velleità messianiche imperiali. Qui l’americanista raggiunge il massimo della cialtroneria, perché accusa di anti-americanismo paradossalmente la stessa cultura americana, che afferma a chiare lettere di essere un impero, di voler essere un impero e di voler continuare ad essere un impero, e non è affatto disposta a rinunciare a questo eccezionalismo messianico […] >> in Costanzo Preve, Contro “il politicamente corretto”, www.petiteplaisance.it, 2010.
[20] Generalmente, il caos è il disordine esistente tra l’ultimo ordine di cui si è a conoscenza e l’ordine futuro ancora da realizzarsi. E’ una fase pericolosa e incerta, nella quale ogni elemento di solidità sembra sgretolarsi (Sun Tzu, L’arte della guerra, Mondadori, Milano, 2003).
[21] Claudio Mutti così analizza << Brzezinski ritiene che gli Stati Uniti debbano balcanizzare lo spazio compreso tra Nordafrica e Asia Centrale, se vogliono impedire il consolidamento della grande alleanza tra Russia, Cina e Iran, alleanza che presidierebbe il continente eurasiatico e ridimensionerebbe in maniera decisiva la potenza statunitense. Brzezinski formula la seguente ipotesi: “Se lo Spazio Centrale [“the middle space“, lo Spazio di Mezzo del continente eurasiatico] respinge l’Occidente, diventa un’unica imperiosa entità [an assertive single entity] ed acquisisce il controllo sul Sud o stabilisce un’alleanza col grande protagonista orientale [“the major Eastern actor“, ossia con la Cina], allora il primato dell’America in Eurasia crollerà in maniera drammatica. Avverrebbe la stessa cosa – aggiunge Brzezinski – se i due protagonisti orientali dovessero in qualche modo unirsi”. In altre parole: se la Federazione Russa riuscisse a respingere ed a far indietreggiare l’avanzata dell’Alleanza Atlantica e cercasse di riorganizzare lo spazio ex sovietico secondo una qualche forma di confederazione o di blocco sopranazionale, guadagnando influenza nel Vicino Oriente o stabilendo un’alleanza con la Repubblica Popolare Cinese, allora l’influenza di Washington in Eurasia verrebbe definitivamente eliminata. Ora, è chiaro che lo “Spazio Centrale”, la Russia, sta recuperando il peso geopolitico che aveva perduto col crollo dell’Unione Sovietica. Non solo, ma lo “Spazio Centrale” (la Russia) e il “Paese di Mezzo” (Zhongguo, la Cina) hanno coordinato da tempo le loro forze. Ciò è avvenuto già prima che si formasse l’Unione Eurasiatica. Alla fine degli anni Novanta la Federazione Russa e una parte dello spazio postsovietico cominciarono a stabilire con la Cina un’intesa che ha prodotto l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai e il coordinamento strategico di Pechino con Mosca al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Il grande accordo russo-cinese del gas naturale non è se non un risultato di questa alleanza fra lo “Spazio Centrale” e il “Paese di Mezzo”>>. Claudi Mutti, Eurasia o euro babele in www.eurasia-rivista.org del 5/4/2006.
[22] Qui viene esposta una sintesi aggiornata dei miei due scritti apparsi su www.conflittiestrategie.it : 1. L’Ilva di Taranto. Dalla Trappola del capitale/lavoro e capitale/ambiente al conflitto strategico (2012), 2. Taranto: da polo siderurgico a polo strategico della Nato (2013).
[23] Nelle fasi della storia mondiale (monocentrica, multipolare e policentrica) si costruiscono le nuove geografie della centralità e della marginalità in cui si collocano luoghi destinati ad emergere e altri a rimanere sullo sfondo del tumultuoso processo di “rivoluzione urbana” mondiale.
[24] Altra infrastruttura in progetto è la piastra logistica per le strategie USA-NATO di Grottaglie ( 23 km da Taranto) con l’utilizzo di Droni con una compressione di tempo e spazio impressionante: si parla di 100 minuti da Los Angeles a Roma attraverso un corridoio nella stratosfera [Programma Ente Nazionale per l’Aviazione Civile (Enac)-USA]. Gli USA-NATO hanno bisogno di piastre logistiche per favorire gli spostamenti veloci nel Mediterraneo e nel Medio Oriente in funzione anti Russia e Cina. Ufficialmente i droni servono per il trasporto di merci.
[25] Ad oggi è da svelare l’intreccio e il conflitto tra i seguenti attori: Comune, Commissario, Governo, Cassa Depositi e Prestiti (Fintecna ex Italsider) e Caltagirone per la bonifica di Bagnoli. La bonifica è il cavallo di Troia per far passare le diverse strategie di intervento che si confrontano nell’intreccio tra pubblico e privato.
[26] Per approfondimenti rinvio al mio scritto, L’americanizzazione del territorio (2014) apparso suwww.conflittiestrategie.it
[27] Sul senso del potere politico e militare dell’occupazione del territorio europeo da parte degli USA attraverso le proprie basi militari e quelle della Nato, si veda l’intervista ad Alexander Dugin, L’occupazione è occupazione, 29/01/2014, www.millennium.org.
[28] Sull’attenzione e sulle problematiche che si aprono nel considerare l’intervento dell’esercito nelle meghe città mondiali si rimanda all’articolo sul dibattito militare negli USA in Federico Petroni, L’esercito degli Stati Uniti alla sfida delle giungle urbane in Limes n.4/2016, pp.245-252.
[29] Il mio scritto,Tav, Corridoio V, Nato e USA. Dalla critica dell’economia politica al conflitto strategico,www.conflittiestrategie.it ,2012.
[30] E’ irritante l’atteggiamento delle Istituzioni europee ( Commissione UE, Consiglio d’Europa) che, formalmente emanano le direttive contro le emissioni industriali, ma di fatto garantiscono alle grandi aziende dell’acciaio la piena libertà di produzione. Aggirano con vari tecnicismi quelle stesse direttive emanate in difesa della salute delle popolazioni, dell’ambiente, delle città e del territorio. E’ evidente che le grandi aziende per utilizzare le loro strategie di aggiramento delle varie direttive europee hanno il loro peso politico, le loro alleanze strategiche, le loro protezioni statali. E, allora, si ripresenta la solita domanda: perché solo all’Ilva di Taranto le istituzioni europee impongono le loro direttive? Sul non rispetto delle direttive europee sulle emissioni industriali si veda Stefano Valentino, L’Europa dal 2012 ha autorizzato le acciaierie a “risparmiare” sui dispositivi contro le polveri sottili, www.lastampa.it, 1 luglio 2016.
[31] Ancora oggi la UE continua a pressare in questa direzione con lo strumento dell’associazionismo ambientalista e pacifista locale.

Le probabilità (scarse) di affermazione di un Fronte Nazionale in Italia (3), di Stefano D’Andrea e Paolo Di Remigio del FSI

Il sovranismo è possibile e desiderabile, tratto da http://appelloalpopolo.it/?p=26256
DI STEFANO D’ANDREA · PUBBLICATO 2 DICEMBRE 2016 · AGGIORNATO 3 DICEMBRE 2016

di STEFANO D’ANDREA e PAOLO DI REMIGIO

In un lungo commento sul blog ‘L’orizzonte degli eventi’, ripreso e fatto suo da Barbara Tampieri, Roberto Buffagni si propone di mostrare l’impossibilità fattuale e l’indesiderabilità etica di un partito sovranista in Italia. Le sue tesi aprono una discussione tra potenziali alleati, quindi hanno almeno il merito di dare occasione a un chiarimento sui fini e i modi della loro azione politica. Per questo gli siamo grati di averle espresse.

A noi sembra che il punto di vista di Buffagni sia un po’ troppo limitato allo scenario politico, che vi siano troppo trascurate la storia e l’economia. Questi limiti si fanno evidenti nell’ultimo capoverso. Scrive infatti Buffagni: ‘… finché la sinistra è maggioritaria nell’opinione italiana, la maggioranza degli italiani continuerà a credere che la UE sia riformabile … non un nemico’; il che è vero, anzi è una tautologia: se il partito che crede nella riformabilità della UE (oggi va da Renzi a Fassina) ha la maggioranza dei consensi degli Italiani, la maggioranza degli Italiani crede che la UE sia riformabile. Se però la sinistra subisce una dura sconfitta, prosegue Buffagni, – e crediamo che si riferisca a una auspicabilissima sconfitta elettorale – allora dovrà dare ascolto e farsi guidare da chi ‘dall’interno della … sinistra ha saputo operarne una profonda revisione e le ha indicato come nemico la UE … ’.

Questa espressioni suscitano perplessità per più ragioni: la sinistra non è affatto maggioritaria nell’opinione italiana: già ora i sondaggi danno i grillini in vantaggio ed è almeno probabile che in futuro gli effetti di una politica economica demenziale contribuiscano a eroderne ancora i consensi; inoltre: dopo aver subito una dura e inequivocabile sconfitta, la sinistra non darà ascolto ai revisionisti perché, semplicemente, sarà finita, come è già successo, per esempio, a Rifondazione Comunista. E se finisce, diventa del tutto irrilevante che dia ascolto o meno ai suoi revisionisti anti UE (ammesso che esistano). La sinistra è morta da tempo e non si può uccidere un cadavere, lo si deve seppellire, per ovvi motivi igienici, perché emana il turpe odore del neoliberalismo.

Cosa intendiamo col dire ‘la sinistra è morta’? Che cos’è la sinistra? La sinistra è l’alone politico e culturale creatosi intorno all’URSS, la fede, più o meno viva, che la rivoluzione creerà una società superiore all’attuale. Se questo è vero, la divisione profonda che ha colpito il popolo italiano non nasce dal 1943, come ritiene Buffagni, ma dal 1917, quando il trauma della Grande Guerra e la presenza di una nuova società battezzata da una rivoluzione creano da una parte l’aspettativa dall’altra il terrore di una prospettiva rivoluzionaria: questa aspettativa è la sinistra, questo terrore è l’alleanza volta a contrastarla – alleanza che in Italia è leggibile nei partiti del primo governo Mussolini.

Cosa implica la rivoluzione di tanto grave da far sì che la sua prospettiva rappresenta un discrimine? Nessuno l’ha meglio espresso del più grande rivoluzionario, Lenin, quando durante la prima guerra mondiale ha esortato a trasformare la guerra tra Stati in guerra civile. La rivoluzione implica la guerra civile, la volontà rivoluzionaria implica una volontà di violenza estrema, che è incompatibile con il riconoscimento della maestà delle istituzioni e delle leggi statali.

Con questo non si vuole dire che l’idea rivoluzionaria sia delittuosa e rifiutarla moralisticamente: la morale riguarda le intenzioni del soggetto, la rivoluzione e la guerra civile sono eventi di massa, che esorbitano dalla sfera della volontà soggettiva, rispetto ai quali il soggetto deve rapportarsi innanzitutto politicamente. In ogni caso, ogni partito che si pretende rivoluzionario, che abbia un programma progressista o reazionario, è un partito che si prepara alla guerra civile: tale è il fascismo, tale è voluto apparire a cittadini e militanti il PCI finché ha potuto intravedere nell’URSS la realtà dell’avvenire: un partito del cambiamento radicale, non il partito riformista che effettivamente era (Pizzorno ha mostrato che in realtà, durante gli anni 1950-1960, nel pieno della guerra fredda, il 90% delle leggi fu approvato dal Parlamento all’unanimità o quasi: storia delle ideologie e delle declamazioni e storia dei fatti e degli atti non coincidono). La fine dell’URSS è dunque la fine dell’ultimo partito che ha nel suo strumentario ideologico (e più al livello di credo che di realtà) la guerra civile.

L’estinzione della sinistra con velleità rivoluzionarie ha un effetto profondo sul panorama politico italiano: scompare con essa la guerra fredda civile che, almeno a livello delle declamazioni ideologiche, ha caratterizzato l’Italia dalla prima guerra mondiale agli anni ’70. In questo senso la preoccupazione di Buffagni sull’irrimediabilità della divisione degli Italiani ci sembra più un’applicazione di uno schema naturalistico che il risultato di un’indagine storica.

Così anche l’altra sua preoccupazione, quella dell’essenza totalitaria di un partito sovranista, di un partito nazione, sembra poco ispirata alla realtà. La necessità dell’esistenza del sovranismo risulta non da un’esaltazione nazionalistica, ma dal fatto che in Italia e nel sud dell’Europa gli Stati non sono più sovrani – a differenza di quanto avviene in Germania, per la quale le disposizioni UE subiscono il vaglio di costituzionalità, sono cioè subordinate alla sovranità dello Stato tedesco. Il recupero della sovranità italiana diventa un programma di una parte politica nel momento in cui essa è smantellata da un‘altra parte politica diretta da poteri transnazionali anziché dalla volontà popolare. Qui non si ripropone dunque la situazione del ventennio fascista, quando una parte politica si identifica con la nazione e ne esclude altre parti che si sentono nazione non meno della prima. La nostra situazione è semmai quella opposta: ricondurre alla coscienza dello Stato una parte del popolo, intendiamo la sinistra europeista, che non si crede più sua parte perché disprezza i confini, perché ignora che i diritti non esistono naturalmente ma solo in quanto è definito un ambito di assunzione di doveri. Nel porsi il problema di restaurare la sovranità il Fronte sovranista italiano non può pensare neanche lontanamente ad escludere alcuno dallo Stato, vuole anzi recuperare chi se ne crede fuori; dunque si concepisce non come unico partito dello Stato nuovamente sovrano, ma come partito tra gli altri, erede di una specifica tradizione, quella della democrazia socialista, accanto ad altre tradizioni, come quella della solidarietà cattolica, quella della meritocrazia liberale, come espressione non soltanto dell’interesse universale, quello della fiducia e della legalità, ma anche di specifici interessi, quelli dei piccoli, accanto a quelli dei grandi.

Alla sinistra estinta è sopravvissuto un ceto politico educato alla retorica della guerra civile, frustrato da decenni di tentativi di appropriarsi della gestione del potere pubblico. Incapace di intendere lo Stato come quadro di fiducia reciproca entro il quale si articolano le differenze interne al popolo, avvelenato dalla concezione dello Stato come strumento con cui una fazione impone la sua dittatura, educato dallo storicismo materialista al disprezzo dell’eticità presente e all’ebbrezza del ‘nuovo’, questo ceto politico è stato cooptato dai poteri transnazionali (banche d’investimento, multinazionali, organismI internazionali che ne rappresentano gli interessi). Questa inedita strumentalizzazione è stata resa possibile dal comune orientamento anti-statalista: la rivoluzione globalista ha fatto degli internazionalisti un proprio strumento. A questo punto la sinistra diventa quel nemico, rispetto al quale è opportuno allacciare qualunque alleanza che abbia a cuore la civiltà.

La rivoluzione globalista non era diretta contro la sinistra nell’accezione ristretta che diamo a questo termine in questo contesto: non è il neoliberalismo ad aver vinto la guerra fredda, esso ha invece approfittato prima della crisi (fin dai primi anni ottanta) e poi della sconfitta dell’URSS per mettere fine all’interventismo statale che le élite occidentali avevano promosso dopo la crisi del 1929 e poi nei primi trent’anni del dopoguerra per rafforzare il fronte interno contro la minaccia comunista. L’antistatalismo ha unito globalisti e internazionalisti. Lo statalismo è dunque lo specifico del nostro sovranismo.

Buffagni non spiega perché la UE sia il nemico, ma sicuramente concorderà con la risposta che la UE è lo strumento con cui i poteri transnazionali e quindi il grande capitale, industriale, finanziario (nonché il capitale “marchio”) si sono imposti in Europa. Questa precisazione conduce però al di là delle sue posizioni, in quanto ci costringe a determinare per quali motivi i poteri mondialisti sono nostri nemici. In fondo hanno fatto propri ideali a cui noi stessi non potremo mai rinunciare: la condanna del razzismo, del sessismo, lo spirito di apertura culturale. Ebbene, il globalismo è nostro nemico perché da un lato, al livello ideologico, ossia delle declamazioni, fa della crescita economica l’obiettivo rispetto al quale ogni valore spirituale è annullato, dall’altro, non paradossalmente ma scientemente, si dimostra non solo del tutto inetto a favorirla, anzi opera sistematicamente in modo da bloccarla. Questo apparente paradosso di una ideologia che sacrifica l’umanità per raggiungere un obiettivo che proprio quel sacrificio impedisce di raggiungere è il riflesso della superstizione del mercato: la stolida credenza nelle capacità di regolazione economica del mercato ha annullato ogni esigenza di regolazione in vista di un bene superiore, di cui solo lo Stato può farsi veicolo; quindi ha emarginato lo Stato dall’economia, e insieme ha prodotto una delle recessioni più profonde della storia moderna. Precarietà, povertà, disoccupazione, insicurezza, miseria intellettuale, abbandono hanno colpito il mondo da quando l’imposizione del libero mercato in nome del primato dell’economia ha bloccato l’economia e ha promosso il trasferimento della ricchezza sociale a sparute minoranze.

Caratterizzare il nemico su questa base economica consente di determinare in termini positivi il programma politico del sovranismo. E questa positività consente di uscire dall’atteggiamento esclusivista di chi identifica partito e nazione: all’interno di chi vuole lottare contro il potere transnazionale che qui in Italia si esprime innanzitutto nella Ue, il Fronte sovranista italiano si segnala per specifici obiettivi per cui si differenzia dai potenziali alleati e non può confondersi con essi.

Secondo noi non basta uscire dalla Ue, non basta dissolvere l’euro; occorre sin d’ora porsi il problema del dopo. La rottura con la UE e della UE deve per noi inaugurare una stagione di intervento statale nell‘economia in vista della piena occupazione, in modo che l’uso statale senza timidezze degli strumenti di politica economica permetta l’uscita dalla crisi, l’esaurimento dell’esercito industriale di riserva e il riequilibrio del rapporto tra capitale e lavoro. Per noi l’ideale della sovranità statale, dopo essersi realizzato rispetto all’estero, dispiega il suo significato all‘interno: essa deve ripristinare la politica economica in modo da ricreare un equilibrio tra le classi, premessa indispensabile della libertà e della democrazia.

Questo programma positivo è qualcosa di più dei tre punti di azione politica proposti da Buffagni: più dell’influsso culturale, più del lavorare per dividere la sinistra (un lavoro in verità superfluo dato che la sinistra è già estinta ed esiste come ectoplasma soltanto nella stampa corrotta), e non può essere perseguito se si aderisce ai partiti anti UE già esistenti. Lega e Fratelli d’Italia possono essere “alleati” nella lotta contro la UE, ma solo alleati temporanei: essi condividono infatti con il capitalismo transnazionale i presupposti liberali, la superstizione del libero mercato; la Lega inoltre conserva la sua avversione allo Stato nazionale e non ha mai rinnegato l’obiettivo di dividere l’Italia settentrionale da quella meridionale. Delle quattro libertà del capitale: il libero movimento delle merci, dei servizi, dei capitali, delle persone, questi due partiti combattono con una certa chiarezza soltanto l’ultima, lasciando sperare molto poco sulle prime tre.

Ci sembra dunque di poter escludere che Lega nord e Fratelli d’Italia, addirittura gli stessi partiti europei anti UE come il Front National, se e quando conseguiranno il potere politico e saranno sorretti da robuste maggioranze parlamentari, agiranno col fine di distruggere l’Unione europea in quanto espressione del progetto neoliberale. Sarebbe necessario che già ora si ponessero come obiettivo una nuova Comunità economica europea, con meno vincoli rispetto a quella precedente, con meno membri, regolata da trattati stabili e priva di organi con poteri normativi e giurisdizionali sugli Stati. I partiti anti UE generati dalla destra tradizionale sono invece troppo avversi al protezionismo per concepire una semplice zona di parziale libero scambio; soprattutto a livello di classi dirigenti, sono troppo legati ai cliché reaganiani per condurre una vera lotta d’indipendenza e per respingere tutti i vincoli europei che impongono il liberalismo economico; si limiteranno dunque a promuovere, assieme ad altre forze, una semplice revisione dell’Unione europea: una timida riduzione o attenuazione dei vincoli, anziché una nuova stagione statalista.

Soltanto la prospettiva sovranista restaurerà lo Stato democratico dirigista e pluriclasse, volto alla piena occupazione, con un generoso stato sociale, con scuole, università, conservatori e istituzioni culturali rispettosi della ricchezza della tradizione culturale italiana.

UNA ANALISI DETTAGLIATA del voto statunitense, una chiosa di Massimo Morigi

Al netto del lucido ragionamento di Gianfranco Campa – il quale, sia detto per inciso, denota una conoscenza diretta dell’odierno scenario politico statunitense, una conoscenza di prima mano e non ridicolmente libresca come quella di molti italici e professorali tromboni che vanno per la maggiore e che inquinano le fonti di una sempre più sprovveduta pubblica opinione e tanto sono graditi al ceto dei “semicolti di sinistra, ma per essere equanimi anche di destra – l’ “Analisi dettagliata del voto statunitense” non è solo un ottimo rapporto di servizio su come sono andate effettivamente le cose in questa elezione e sul perché Trump è stato eletto ma in questa analisi traslùce anche una lezione di teoria (e prassi) politica. Scrive Campa in relazione della vittoria di Trump ottenuta tramite la prevalenza dei voti dei collegi elettorali ma non attraverso la maggioranza dei voti degli elettori (i quali con un buon margine hanno favorita la sua rivale Clinton): “In Italia è difficile da concepire l’idea del collegio elettorale poiché il sistema politico americano, voluto dai suoi padri fondatori, si basa più sul concetto di repubblica federale rispetto ad una democrazia pura. Il collegio elettorale è stato concepito per due motivi: il primo scopo era quello di creare un cuscinetto tra la popolazione e la selezione di un presidente. I padri fondatori avevano paura di una elezione diretta del presidente. Temevano un tiranno che avrebbe potuto arrivare al potere. Il maggior proponente del sistema a collegio elettorale, Alexander Hamilton e il resto dei Padri Fondatori vedevano nel collegio elettorale un baluardo contro l’avvento di un personaggio in grado di manipolare la massa dei cittadini a proprio vantaggio.” Con queste poche righe sono così demolite tutta l’attuale retorica politica italiana che, indifferentemente da destra come da sinistra, indica come uno dei peggiori mali in assoluto il fatto che l’Italia non sia un paese democratico perché la mediazione fra corpo elettorale e ceto politico impedisce l’espressione delle migliori energie del paese e la retorica che ha come sottotitolo la seguente scritta: “bisogna imitare le istituzioni politiche degli Stati uniti, che è il vero paese dove il potere viene espresso direttamente dal popolo”. Nella realtà, non ci potrebbe essere più grande mistificazione; nella realtà, anche non volendo tener conto dell’elementare fatto che nella democrazia americana, in misura immensamente maggiore di tutte quelle che si sono affacciate nell’epoca moderna, sono i grandi apparati e le grandi corporation ad essere i veri decisivi elettori e che il popolo non conta un emerito …, si ignora l’elementare fatto che i padri costituenti di quel paese non vollero costruire una democrazia, che ritenevano potesse cadere in mano della dittatura di una maggioranza o di una minoranza, ma vollero costruire una repubblica che in virtù della presenza nel suo corpo politico di diversi e configgenti interessi – e in virtù del fatto che questi diversi e configgenti interessi erano sparsi su un grande territorio, gli Stati uniti appunto – molto difficilmente sarebbe scivolata in una dittatura, che per la maggior parte di questi padri costituenti era la naturale evoluzione della democrazia. La più significativa espressione di questa modalità di pensiero è la teoria dell’ “extended republic” di James Madison, il quale nel Federalista n. 10 scriveva a proposito dei pericoli della dittatura di una parte politica, non importa se questa parte sia, rispetto alla popolazione, una minoranza od una maggioranza. “A republic, by which I mean a government in which the scheme of representation takes place, opens a different prospect, and promises the cure for which we are seeking. Let us examine the points in which it varies from pure democracy, and we shall comprehend both the nature of the cure and the efficacy which it must derive from the Union. The two great points of difference between a democracy and a republic are: first, the delegation of the government, in the latter, to a small number of citizens elected by the rest; secondly, the greater number of citizens, and greater sphere of country, over which the latter may be extended.” Quindi per Madison repubblica è da contrapporsi a democrazia (potenzialmente illiberale), e deve essere una repubblica basata sulla delega della rappresentanza piuttosto che una democrazia (nella descrizione che ne fa Madison noi diremmo una democrazia diretta, ma, alla luce dell’insoddisfazione non molto meditata delle odierne masse per una democrazia avvertita distante, siamo sicuri che Madison non cogliesse nel segno nella sua critica alla democrazia?) : “A republic, by which I mean a government in which the scheme of representation takes place, opens a different prospect, and promises the cure for which we are seeking. Let us examine the points in which it varies from pure democracy, and we shall comprehend both the nature of the cure and the efficacy which it must derive from the Union. The two great points of difference between a democracy and a republic are: first, the delegation of the government, in the latter, to a small number of citizens elected by the rest; secondly, the greater number of citizens, and greater sphere of country, over which the latter may be extended.”, e deve essere per Madison una repubblica che per estensione di territorio abbia come costituzione materiale il bilanciamento effettivo delle varie forze politiche, economiche e sociali: “The other point of difference is, the greater number of citizens and extent of territory which may be brought within the compass of republican than of democratic government; and it is this circumstance principally which renders factious combinations less to be dreaded in the former than in the latter. The smaller the society, the fewer probably will be the distinct parties and interests composing it; the fewer the distinct parties and interests, the more frequently will a majority be found of the same party; and the smaller the number of individuals composing a majority, and the smaller the compass within which they are placed, the more easily will they concert and execute their plans of oppression. Extend the sphere, and you take in a greater variety of parties and interests; you make it less probable that a majority of the whole will have a common motive to invade the rights of other citizens; or if such a common motive exists, it will be more difficult for all who feel it to discover their own strength, and to act in unison with each other. Besides other impediments, it may be remarked that, where there is a consciousness of unjust or dishonorable purposes, communication is always checked by distrust in proportion to the number whose concurrence is necessary.” L’attuale “extended republic” statunitense ha fatto sì che venisse eletto un uomo che non ha ricevuto la maggioranza dei voti popolari ma, quale che sia il giudizio sul personaggio, ha fatto sì che una maggioranza che per ignoranza si suole definire di sinistra ma che in realtà viene turlupinata con una ideologia (e pratica operativa) composta da un feroce mercatismo e dall’esaltazione di farlocchi diritti non attinenti ai rapporti di forza e/o di collaborazione fra le varie classi ma al pubblico riconoscimento delle proprie intime pulsioni (che proprio perché intime, dovrebbero accuratamente rimanere fuori dalla sfera pubblica) sia rimasta a bocca asciutta facendo invece prevalere rozzi contadini, piccoli proprietari, operai, casalinghe, persone certamente con poca cultura libresca ma con grande cultura per quanto riguarda il senso di responsabilità e la comprensione che una “vita buona” non può certo venire dal proclamare il proprio orientamento sessuale (il quale è una cosa che va praticata e non certo declamata) e facendosi invadere da esotiche masse di disperati ma cercando di costruire col lavoro la propria esistenza. Saprà Trump tenere fede, seppur in minima misura, alle promesse fatte e riorientare nel senso dei padri fondatori, la vecchia “extended republic” che col magnate sta cercando di ottenere una sua reviviscenza? Difficile dirlo, Campa in proposito non è ottimista ma al di là di previsioni sempre molto difficili da formulare, bisogna riconoscere che Trump, nolens volens, ha innestato un processo con grandi potenzialità rivoluzionarie. Ma tornando alla lezione che l’America ha saputo dare in questa occasione al Vecchio continente e all’Italia in particolare, non si può pretendere che ciò venga oggi compreso dai ceti semicolti di sinistra e di destra e tantomeno dalle masse instupidite da settant’anni di pseudodemocrazia (e, ancor peggio, di pseudocomprensione del significato della stessa). Forse la lezione dovrebbe però essere compresa da coloro (molto pochi per la verità, temo) che un tempo furono ammiratori di un tale che sosteneva in politica valeva la massima dell’ “analisi concreta della situazione concreta”. Leniniana “analisi concreta della situazione concreta” che ha permesso a Trump di ottenere la presidenza degli Stati Uniti d’America e rifiuto della quale che fa sì che i ceti semicolti di destra e sinistra possano fare i cani da guardia delle masse sempre anonime e conculcate (brutto sogno quelle della moltitudine negriana!). Anche da Trump e dell’ “extended republic” statunitense (per carità, non dalla democrazia americana, mai esistita, nemmeno nei sogni dei maggiori fra i fondatori di quella nazione) bisogna quindi ripartire per impostare ex novo un discorso ed una pratica rivoluzionaria che basata sul lagrassiano conflitto strategico getti nella pattumiera della storia gli ultimi settant’anni di primitivismo teorico e pratico della politica italiana e dei cosiddetti paesi democratici occidentali.
Massimo Morigi – 15 dicembre 2016

UNA ANALISI DETTAGLIATA del voto statunitense, di Gianfranco Campa

UNA ANALISI DETTAGLIATA del voto statunitense, di Gianfranco Campa
Le elezioni presidenziali americane sono finite da più di un mese e solo ora, escluso qualche centinaia di migliaia di voti rimasti da contare, voti di americani residenti all’estero, i numeri definitivi delle elezioni danno un quadro preciso della situazione politica a stelle e strisce.
In attesa di scoprire tutte i nomi del gabinetto del governo Trump e le circa quattro mila nomine necessarie per riempire le posizioni vitali di competenza della nuova amministrazione, la cosa che possiamo fare è analizzare i dati definitivi del voto per comprendere meglio come l’evolversi della politica Americana e soprattutto cosa aspettarsi nel futuro.
Trump ha vinto la presidenza grazie al maggior numero di voti del collegio elettorale; 306 elettori contro i 232 di Clinton. Il voto popolare invece è appannaggio di Hillary Clinton; con qualche migliaio di voti ancora da contare, la Clinton è avanti di quasi 3 milioni di voti: intorno ai 65,800,000 voti contro i 62,900,000 di Trump. La composizione del collegio elettorale è ciò che ha spostato la bilancia in favore di Trump.
Una curiosita` statistica. Nessun altro candidato presidenziale aveva mai perso il voto popolare con un margine così largo, per poi vincere ugualmente le elezioni grazie ad una schiacciante vittoria nel collegio elettorale. Nel 2000, Bush aveva vinto la maggioranza del collegio elettorale battendo Al Gore, ma aveva perso il voto popolare di qualche migliaio di voti, una miseria.
Con quasi 63 milioni, Trump ha ottenuto il record per un candidato Repubblicano, superando il consenso ottenuto da Bush nel 2004 con poco più di 62 milioni di voti i quali permisero a Bush di battere John Kerry. L’elettorato Repubblicano ha quindi fatto la propria parte andando in massa a votare e raccogliendo anche il voto dei cosiddetti “democratici reganiani” i quali hanno sopperito alla mancanza di sostegno per Trump da parte dell’establishment repubblicano. Clinton d’altro canto non è riuscita a ricreare la coalizione Obamiana del 2008, quando Barak riuscì a portare alle urne una massa di elettori appartenenti sia al blocco democratico tradizionale, sia alle minoranze etniche, sia alla massa dei giovani, particolarmente quelli appartenenti al mondo studentesco. Obama nel 2008 ottenne quasi 69,500,000 di voti, il record assoluto per un candidato presidenziale americano. Obama si confermò Presidente nel 2012 aggiudicandosi quasi 66 milioni di voti contro i quasi 61 milioni di Romney. A conti fatti si deduce che ai democratici mancano 4-5 milioni di elettori rispetto al 2008, mentre Trump ha rivitalizzato il partito repubblicano rendendolo più competitivo rispetto al passato e posponendone l’annunciato declino ancora di qualche anno. Più che il voto sommerso, Trump è stato bravo a raccogliere in massa l’elettorato repubblicano, mentre per la Clinton ha ceduto il muro blu del “Rust Belt.”
In Italia è difficile da concepire l’idea del collegio elettorale poiché il sistema politico americano, voluto dai suoi padri fondatori, si basa più sul concetto di repubblica federale rispetto ad una democrazia pura. Il collegio elettorale è stato concepito per due motivi:
• il primo scopo era quello di creare un cuscinetto tra la popolazione e la selezione di un presidente. I padri fondatori avevano paura di una elezione diretta del presidente. Temevano un tiranno che avrebbe potuto arrivare al potere. Il maggior proponente del sitema a collegio elletorale, Alexander Hamilton e il resto dei Padri Fondatori vedevano nel collegio elettorale un baluardo contro l’avvento di un personaggio in grado di manipolare la massa dei cittadini a proprio vantaggio.
• Il secondo motivo era di dare più equilibrio ai singoli Stati dell’Unione assegnando potere anche agli Stati più piccoli. Per esempio in un sistema maggioritario, stati e centri urbani più popolosi decidono le sorti dell’intera nazione, lasciando larga parte del paese alla mercé decisionale di chi vota in posti come la California, New York, Washington e Chicago. Essendo gli Stati Uniti un paese enorme, ci sono rimarcate differenze culturali ed esistenziali fra le varie zone del paese; i cittadini di San Francisco ad esempio hanno esigenze e ideologie diverse rispetto a chi vive nell’Idhao oppure nella Louisiana. Per quanto riguarda il collegio elettorale, la vittoria di Trump non è stata ancora ufficializzata, poiché il collegio si riunirà solo il 19 di dicembre. In teoria Trump non è ancora il presidente eletto.
Tornando ai numeri. Trump ha vinto in 30 Stati più il secondo distretto congressionale dello Stato del Maine. Clinton ha vinto 20 Stati piu il Distretto di Columbia. Clinton ha vinto in California con più del doppio dei voti, 8,600,000, contro i 4,400, 000 di Trump; da qui la ragione della larga differenza nel voto popolare a favore di Clinton. Trump ha vinto in più contee rispetto alla Clinton, 2,623 contro le 489, dipingendo la mappa poltica americana di un profondo Rosso repubblicano e marginalizzando il potere democratico agli stati costieri e ai grossi centri urbani. Nel mezzo la maggior parte del paese è conservatore, dando così ancor più risonanza alle differenze tra i vari centri del paese. Il contadino texano è lontano anni luce dal professionista High Tech della Silicon Valley. Il metalmeccanico dell’Ohio vede il mondo completamente agli antipodi rispetto al cittadino elitista di Manhattan. Il minatore del West Virginia concepisce la vita in maniera porfondamente diversa rispetto all’intelletuale Bostoniano. Il piccolo imprenditore della Florida vive la vita in maniera più articolata rispetto al fumatore di marijuana del Colorado.
La sconfitta di Clinton è stata sì una sorpresa, ma i sondaggi non erano poi così sbagliati, vista la differenza nel voto popolare tra la Clinton e Trump. Alla fine la Clinton ha vinto il voto popolare con una percentuale di 3-4 punti il che è in linea con i sondaggi preelettorali.
La Clinton ha perso per un motivo tattico più che per uno sbaglio di interpretazione del voto popolare. I democratici sapevano che la larga popolazione minoritaria degli Stati Uniti, in particolare quella latina, avrebbe fatto la differenza in Stati come il Nevada, il Colorado e il Nuovo Messico. L’avanzata dell’immigrazione latina, sempre favorevole ai Democratici, ha trasformato, nell’ultimo decennio, stati tradizionalmente più conservatori come per esempio il Nevada, in Stati solidamente Blu. L’onda blu si è arrestata temporaneamente, grazie agli Stati cosidetti del Rust Belt, cioe` Indiana, Michigan, Pensylvania, Ohio, Wisconsin. Questi sono stati tradizionalmenti democratici, che hanno votato fedelmente il partito democratico per quasi 30 anni. Clinton qui ha commesso il suo errore tattico; considerare come sicuri questi Stati, tanto da visitare, durante tutta la campagna presidenziale, tra gli stati del Rust Belt, una sola volta il Wisconsin.
I democratici hanno fallito nel capire che in questi Stati la perdita di quei posti manifatturieri impacchettati e spediti oltre i confini nazionali, in Messico, Cina, Vietman, Canada ect. ha alienato una popolazione che aveva un disperato bisogno di un cambio epocale. In questi stati la tradizionale classe media bianca, forma ancora la maggioranza della popolazione e non ha subito, per il momento, un impatto decisivo nei flussi immigratori, come per esempio in California. L’ultima volta che questi Stati hanno votato Repubblicano è stato con la candidatura di Reagan; ecco perché gli elettori che hanno eletto Trump, nel Rust Belt, portano la nomina di democratici reganiani.
Quando Trump, nell’ultimo mese della campagna, visitava freneticamente la Rust Belt, i mass media lo tacciavano di essere alla disperazione; in realtà Trump aveva capito che in questi Stati, per la prima volta in decenni, il voto era di nuovo in gioco a favore dei Repubblicani.
Il cambio demografico dell’America avvantaggia i liberali progressisti, la larga maggioranza dei non-bianchi vota democratico. I bianchi ora sono il 62% della popolazione, in 10 anni saranno appena il 48-50%. Il futuro è in mano esclusivamente ai democratici con la conferma di queste dinamiche. Credo fortemente che queste elezioni siano state il colpo di coda di un partito Repubblicano che, se non si rifonda completamente, non governerà più per i prossimi cento anni. Trump ora dovrà, per arginare l’onda blu, posizionarsi verso il centro e ammorbidire alcune delle sue vedute (soprattutto in termini di leggi immigratorie) per potersi assicurare fra quattro anni la rielezione; anche perché difficilmente i democratici rifaranno lo stesso errore due volte, scordarsi cioè di fare appello all’elettorato del Rust Belt.
Nel frattempo, per i prossimi quattro anni i Repubblicani avranno la maggioranza sia alla Camera che al Senato. L’en plein elettorale repubblicano non deve però confondervi. I repubblicani hanno sì il controllo virtualmente dell’intero apparato politico a Washington, ma rispetto alle elezioni intermedie del 2014 hanno perso qualche rappresentante al Senato. I repubblicani passano da 54 a 52 rappresentanti perdendo due senatori; una maggioranza sì, ma striminzita visto che non è a prova di “filibuster”. Va un po’ meglio alla Camera, dove i repubblicani hanno 238 seggi contro i 194 dei democratici. Un margine a prova di qualsiasi ostruzionismo democratico. Anche qui bisogna dire però che i Repubblicani hanno perso, rispetto al voto del 2014, sei seggi andati a favore dei Democratrici.
I numeri quindi ci dicono che i Repubblicani hanno vinto su tutta la linea, anche se il credito va dato non alla capacità dei repubblicani di stimolare i propri votanti, bensì al carisma di Donald Trump che è riuscito con la sua personalità e idea politica a creare un movimento d’urto, uno sbarramento all’avanzata blu democratica che dopo le elezioni di Obama nel 2008 sembrava inarrestabile, portando a votare ai seggi gente che non era stata certamente ispirata ad andare alle urne a votare candidati presidenziali come McCain o Romney.
Le elezioni intermedie per la Camera e Senato del 2018, ci diranno quale giudizio gli americani si saranno fatti della presidenza di Trump. Se i Repubblicani manterrano il controllo del Senato e della Camera, allora il 2020 farà loro meno paura e Trump avrà una seria possibilità di essere rieletto.

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