Algeria: per comprendere come il sistema ha preso il sopravvento sulla strada, di Bernard Lugan

Dopo la Libia volgiamo nuovamente l’attenzione su un altro paese chiave del Mediterraneo e strategico per l’Italia. Fornitore di petrolio e gas, ma anche simbolo delle aspirazioni di emancipazione dei paesi africani_Giuseppe Germinario

Dopo più di un anno di “hirak” (movimento), rimanendo padrone del calendario che si era prefissato, e nonostante la perseveranza delle dimostrazioni che ora si sforzerà di far apparire come linea ad oltranza, il “Sistema” algerino che si diceva fosse condannato, alla fine ha trionfato sulla strada.

Una vittoria che è stata raggiunta senza le scene di anarchia che hanno sfigurato la Francia per due anni e senza quei massacri di folle che si verificano regolarmente nel mondo arabo-musulmano. Un caso da manuale … in attesa del futuro che dirà se questa vittoria è stata solo temporanea.

Per capire come il “Sistema” algerino ha trionfato sulla strada che lo ha sfidato, è importante scartare la feccia dei media e la fuga ideologica per arrivare al fondo della realtà algerina (vedi su questo argomento il mio libro Algeria, Storia al posto).

 

Spiegazioni e sviluppo:

 

Il trionfo del “Sistema” algerino consiste in sei punti:

 

1) La Costituzione è stata mantenuta, pertanto non vi sono state elezioni costituenti, la principale richiesta politica dei manifestanti

2) L’unità dell’esercito e dei grandi corpi statali, a partire dalla magistratura, è stata preservata

3) Gli appelli allo sciopero generale sono falliti, anche nel mondo dell’istruzione

4) Mentre la strada sosteneva che le elezioni presidenziali non potevano essere tenute, esse si sono svolte nella calma e ha permesso di eleggere un presidente, per la verità con uno scarso suffragio, ma legittimo.

5) L’esercito non è più ufficialmente sotto i riflettori

6) L’Algeria esce dal suo lungo silenzio diplomatico e riappare nei dossier scottanti della Libia e del Sahel.

 

Per quanto riguarda la strada, e come hanno dimostrato le grandi folle che hanno assistito al funerale del generale Gaïd Salah, bisogna riconoscere che essa non appartiene solo agli “Hirakiani” e che quindi ci sono due popoli Algeria. Uno contesta il “Sistema” quando l’altro lo supporta … Forse perché si mantiene grazie ad esso … Il che rappresenterà un vero problema per il Presidente Tebboune. La crisi economica algerina è davvero tale che, se prenderà misure per risolverlo, dovrà incidere nell’economia dell’assistenza e dei clienti, e quindi alienare il popolo “legittimista” …

 

Bouteflika cerca di fuggire dalla tutela dell’esercito

 

Fino all’elezione di Abdelaziz Bouteflika nel 1999, i successivi presidenti algerini basavano la loro forza sul potere dei clan militari; il ruolo presidenziale era limitato all’arbitrato consensuale delle loro prerogative. Il paese fu in realtà governato da circa 150 generali che costituivano il livello superiore della nomenklatura nazionale. L’esercito controllava tutto e costituiva l’élite di un paese le cui strutture tradizionali, a differenza di Lyautéen in Marocco, erano state schiacciate dalla “francesizzazione” giacobina.

Mentre gli algerini soffrivano socialmente, i soldati e le loro famiglie beneficiavano dei rifornimenti nei negozi a loro riservati laddove potevano ottenere a prezzi preferenziali beni che non si trovavano altrove nel paese. Vivevano in residenze sicure e trascorrevano le vacanze in club di proprietà dei militari. Oggi non è cambiato nulla.

 

Come tutti i presidenti, Abdelaziz Bouteflika è stato messo al potere dall’esercito. Tuttavia, a differenza dei suoi predecessori, voleva liberarsi dalla sua opprimente tutela, seguendo due modalità:

 

1) L’economia algerina essendo controllata dalla casta militare attraverso una clientela di soci obbligati o civili, ha creato una contro-potenza economica, quella degli “oligarchi”, che hanno costruito le loro fortune indecenti al di fuori delle reti militari grazie alla concessione di “prestiti” bancari molto generosi.

 

2) Al fine di rompere l’unità dell’esercito, il presidente Bouteflika ha soffiato sulle braci dei classici conflitti interni. Per perseguire questa politica, ha fatto affidamento sul generale Ahmed Gaïd Salah, del quale promosse la carriera, facendolo prima capo di stato maggiore e poi vice ministro della difesa.

 

Inizialmente, dal 2013, questo uomo svolge perfettamente la sua missione opponendosi frontalmente alle due componenti principali dell’esercito, vale a dire il Dipartimento di Intelligence e Sicurezza (DRS) e lo stato -maggiore (EM) dell’Esercito popolare nazionale (ANP). Il clan Bouteflika ha poi sostenuto l’EM nel suo compito di eliminare il generale Mohamed Lamine Médiene noto come “Toufik”, direttore del DRS dal 1990.

Tuttavia, giocando su due tavoli contemporaneamente, e per non legarsi mani e piedi all’EM, quindi al generale Gaïd Salah, il clan presidenziale ha sostituito il generale Mediene con il generale Tartag, oppositore del generale Salah. Quest’ultimo non ha lasciato trasparire nulla e, pur mostrando pubblicamente la sua totale lealtà al presidente Bouteflika, ha iniziato a lavorare pazientemente per eliminare i suoi rivali nell’esercito. Questa epurazione è stata tanto più facile da realizzare poiché allo stesso tempo, tutti gli osservatori avevano puntato gli occhi solo sulla strada che stava manifestando contro un quinto mandato del presidente Bouteflika.

Infine, il 2 aprile 2019, tutti gli strumenti militari ormai raccolti nelle sue mani, il generale Ahmed Gaïd Salah ha interrotto il mandato di Abdelaziz Bouteflika …

 

Generale Gaïd Salah, maestro del calendario

 

Procedendo in fasi successive e lasciando che la strada continuasse a manifestare, il generale completò quindi la sua acquisizione dell’Algeria attraverso il suo apparato statale. La magistratura algerina, che fino ad allora aveva preso i suoi ordini dalla presidenza, ora li raccoglieva dallo staff dell’esercito, che la usava per soddisfare la strada lanciando una caccia ai “corrotti”. Tuttavia, dietro questa cortina fumogena, furono eliminati solo gli oligarchi non militari; la purga non influì sui clan degli affari che erano subordinati ad essa.

 

Il generale si appellava allo stesso tempo alla legalità costituzionale, senza mai discostarsi dalla sua linea che era l’imperativo delle elezioni presidenziali.

Nonostante le potenti proteste popolari, è riuscito a organizzare il voto senza essere condizionato dalle condizioni della strada. Nonostante un’astensione elevata, nel dicembre 2019 un presidente è stato eletto nella persona di Abdelmadjid Tebboune, un membro di spicco del “Sistema”, più volte wali (prefetto) e cinque volte Ministro del Presidente Bouteflika … Il “Sistema” quindi rimase al potere.

Il 23 dicembre 2019, pochi giorni dopo le elezioni presidenziali, il generale Gaïd Salah è morto, privando così l’anti “Sistema” del loro nuovo obiettivo preferito, “liberando” il nuovo presidente dalla sua onerosa supervisione.

 

Lo stallo economico

 

Il “Sistema” è riuscito a risolvere la questione della successione del presidente Bouteflika nella tutela migliore dei suoi interessi; ora non rimane che evitare l’affondamento economico dell’Algeria. Una questione che si enuncia semplicemente così: gli idrocarburi forniscono, buon anno, anno cattivo, tra il 95 e il 98% delle esportazioni e circa il 75% delle entrate di bilancio dell’Algeria; tuttavia, a causa dell’esaurimento delle falde acquifere, la produzione di petrolio algerina è in costante calo. Per quanto riguarda quello del gas, rischia di diventare problematico.

 

Nel 2012 Abdelmajid Attar, ex ministro ed ex CEO di Sonatrach, la compagnia petrolifera nazionale, aveva causato un terremoto dichiarando che:

 

“Il grado avanzato di esaurimento delle nostre riserve comporta che dobbiamo costruire una riserva strategica per le generazioni future, non riuscendo a lasciare loro un’economia diversificata in grado di progredire da sola.”

 

Due anni dopo, nel giugno 2014, Abdelmalek Sellal, il primo ministro algerino dell’epoca, a sua volta ha lanciato l’allarme dichiarando davanti all’APN (National People’s Congress) che:

 

“Entro il 2030, l’Algeria non sarà più in grado di esportare idrocarburi, tranne che in piccole quantità (…). Entro il 2030, le nostre riserve copriranno solo le nostre esigenze interne. ”

 

I leader algerini per un certo periodo nutrivano speranze che il gas compensasse opportunamente il crollo della produzione di petrolio. Questa illusione è stata dissipata il 13 dicembre 2018 da Mustapha Guitouni, ministro algerino dell’energia, quando ha dichiarato davanti ai deputati dell’AFN:

 

“Se non troveremo rapidamente altre soluzioni per coprire la domanda nazionale di gas in costante aumento, tra due o tre anni non saremo più in grado di esportare”.

 

La situazione è quindi drammatica perché la produzione di gas algerino è di 130 miliardi di m3 all’anno. Tuttavia, di questo volume, 50 miliardi di m3 sono attualmente destinati al consumo locale, che aumenta del 7% all’anno e che aumenterà ulteriormente proporzionalmente con una popolazione di almeno 50 milioni di abitanti nel 2030. Pertanto, allo stato attuale della produzione, 80 miliardi di m3 di cui 30 miliardi di m3 vengono reintegrati nei pozzi di petrolio per mantenere semplicemente la loro attività.

Le esportazioni possono quindi contare solo su 50 miliardi di m3 fino ad oggi, un volume che diminuirà meccanicamente di anno in anno a causa dell’aumento della domanda interna legata alla crescita demografica … Risultato, poiché l’Algeria dovrà ridurre le sue esportazioni, sia di petrolio che di gas, vedrà quindi i suoi ricavi diminuire in proporzione.

 

In queste condizioni, come sarà il paese in grado di soddisfare le esigenze di base della sua popolazione? Nel gennaio 2019, l’Algeria aveva 43 milioni di abitanti con un tasso di crescita annuale del 2,15% e un surplus di quasi 900.000 abitanti ogni anno.

Il paese non produce abbastanza per vestirli, prendersene cura ed equipaggiarli, quindi deve comprare tutto all’estero. L’agricoltura e i suoi derivati ​​soddisfano solo tra il 40 e il 50% del fabbisogno alimentare del paese, un quarto delle entrate provenienti dagli idrocarburi viene utilizzato per importare prodotti alimentari di base … L’importazione di prodotti alimentari e di consumo rappresenta attualmente circa il 40% della fattura per tutti gli acquisti effettuati all’estero (National Center for IT e statistiche-dogane-CNIS).

 

La questione economica porterà inevitabilmente l’Algeria in una zona di turbolenza perché lo stato potrebbe non essere più in grado di acquistare la pace sociale. Tuttavia, infuso di sussidi, la base legittimista della popolazione non ha aderito all ‘”hirak” per paura di vedere il trionfo di una rivoluzione “borghese” che l’avrebbe privata del 20% del bilancio statale annuale dedicato a sostenere abitazioni, famiglie, pensioni, salute, veterani, poveri e tutti i gruppi vulnerabili …

Plus d’informations sur le blog de Bernard Lugan

 

Libia: la soluzione è non democratica, di Bernard Lugan

Qui sotto alcune brevi e puntuali considerazioni di Bernard Lugan sulla situazione in Libia. Di fatto una traccia operativa offerta alla classe dirigente ed ai centri decisionali italiani. Una linea tracciata per altro sulla falsariga messa in atto dai servizi italiani al momento del loro sostegno decisivo all’insediamento di Muhammar Gheddafi, padre di Seif al-Islam. Questo ceto politico, però, sembra aver rimosso ogni memoria storica assieme alla propria sia pur minima autonomia politica_Giuseppe Germinario

Libia: la soluzione è non democratica
Uno dopo l’altro, i vertici internazionali sulla Libia falliscono nell’intenzione di porre riparo alle conseguenze dell’ingiustificabile guerra al colonnello Gheddafi. Falliscono perché, come diceva Albert Einstein: “Non possiamo risolvere un problema con lo stesso modo di pensare di chi l’ha generato “. La guerra contro il colonnello Gheddafi era ufficialmente innescata in nome della democrazia e tutte le soluzioni proposte sono democratiche o democratiche …
Inoltre, come fingere di mettere fine al conflitto quando:
1) Le tribù, di fatto le uniche vere forze politiche del paese vengono scartate, mentre la soluzione comporta in particolare la ricostituzione delle alleanze tribali [1] forgiate dal colonnello Gheddafi?
2) Riconosciuto dal 14 settembre2015 dal Consiglio tribale supremo in qualità di rappresentante legale, Seif al-Islam, il figlio del colonnello Gheddafi, che rappresenta una delle soluzioni, viene sistematicamente escluso dagli europei. Ora è uno dei pochissimi capi libici in grado di far convivere centro e periferia, come suo padre, articolando i poteri e distribuendo le rendite legate agli idrocarburi alle realtà locali, con un minimo di presenza di potere centrale. La costa urbanizzata di Tripoli è un caso speciale. Qui, il potere appartiene alle milizie delle quali solo una piccola minoranza rivendicano l’Islam jihadista.
Siamo nel mondo dei traffici che consentono ai miliziani di sostenere le loro famiglie. Adesso loro avrebbero tutto da perdere da una vittoria del generale Haftar che li metterebbe al passo. Ecco perché supportano lo pseudo-governo di Tripoli, a sua volta supportato dalla Turchia.
La situazione in Tripolitania è così molto chiaro: se il generale Haftar non riesce ad imporsi militarmente, Tripoli e le città costiere rimarranno quindi in potere delle milizie. Per sperare di vincere il generale Haftar dovrebbe quindi offrire una via di uscita ad alcuni leader della milizia tale da renderli futuri attori politici nelle regioni che controllano e nelle quali hanno acquisito legittimità reale. L’unica soluzione che potrebbe staccarli dalla Turchia. Lo scopo di quest’ultima è di mantenere a Tripoli un potere che deve a lei la propria sopravvivenza e permetterle di giustificare l’estensione delle sue acque territoriali a spese di Grecia e Cipro.
Bernard Lugan

LA REPUBBLICA DIMEZZATA, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA REPUBBLICA DIMEZZATA

Ha suscitato un modesto interesse che la Corte di giustizia UE abbia condannato la Repubblica italiana perché (cito testualmente)  “Non assicurando che le sue pubbliche amministrazioni rispettino effettivamente i termini di pagamento stabiliti all’articolo 4, paragrafi 3 e 4, della direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 2011, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza di tali disposizioni”.

Che l’interesse sia stato modesto lo si deve probabilmente da un lato al fatto che tutti sanno – anche se nei mass-media se ne legge poco – che i ritardi nei pagamenti dei creditori del settore pubblico sono enormi, molto peggiori di quanto risulti dagli atti citati dal Giudice europeo nella sentenza, dall’altro che le decisioni giudiziarie sui ritardi sono tante che non “fanno più notizia”.

Ciò stante, dall’arresto suddetto della Corte risulta che l’argomentazione dell’Italia per difendere la prassi (costante e reiterata) del ritardato adempimento (spesso di anni e talvolta di lustri) consisteva in ciò che (cito testualmente) “le direttive europee…non impongono, invece, agli stati membri di garantire l’effettiva osservanza, in qualsiasi circostanza, dei suddetti termini da parte delle loro pubbliche amministrazioni. La direttiva 2011/7 mirerebbe ad uniformare non i tempi entro i quali le pubbliche  amministrazioni devono effettivamente procedere al pagamento… ma unicamente tempi entro i quali essi devono adempiere alle loro obbligazioni senza incorrere nelle penalità automatiche di mora”. Cioè non conta se il creditore è stato pagato, perché ad avviso della nostra Repubblica “non implicherebbe uno stato membro sia tenuto ad assicurare in concreto il rispetto di detti termini”… perché le “direttive non assoggettano…. lo Stato membro… ad obblighi di risultato, ma, tutt’al più ad obblighi di mezzi”. Traducendo tali espressioni tecniche in linguaggio più corrente, lo Stato membro europeo avrebbe l’obbligo di tradurre in norme nazionali le direttive U.E., ma se poi queste vengono aggirate o di fatto disapplicate dalle pubbliche amministrazioni o dai giudici, col lasciare i creditori “a becco asciutto” il tutto non darebbe adito ad alcun dovere né responsabilità dello Stato. Cioè i creditori dovrebbero essere appagati che il (loro) diritto al (sollecito) pagamento sia stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, che magari  sia stato anche statuito in altra sede, tuttavia, senza poter pretendere che lo Stato si attivi perché il pagamento sia effettuato. A parte la sottile quanto involontaria comicità di tale impianto argomentativo, dato che per i creditori veder riconoscere il proprio diritto al pagamento è qualcosa, ma essere pagati è tutto (mentre per la Repubblica italiana è il contrario), va esaminato non solo perché la prassi è reiterata, ma perché rientra nel dibattito sul sovranismo (o meglio sulla sovranità) tanto demonizzata.

Lo stato moderno è responsabile in linea generale dell’applicazione del diritto sul proprio territorio. Scriveva (tra i tanti) un maestro del diritto internazionale come Triepel che, in caso di violazione di un diritto garantito da norme internazionali “per quanto lo Stato col mantenersi inattivo verso chi lede un altro Stato non diventi complice di costui, è tuttavia esatto dire che è responsabile se non procede contro di lui”. E ciò avviene perché “la responsabilità ha nel nostro caso un carattere schiettamente territoriale, essa è conseguenza necessaria della sovranità territoriale… tale responsabilità è giustificata dal fatto che determinati interessi furono lesi entro la cerchia cui si estende la esclusiva sovranità di uno Stato”.

Onde lo Stato è responsabile anche per gli atti dei suoi organi; degli enti pubblici e comunque “per la condotta delle persone che ha investito di una pubblica funzione” sia che abbiano commesso atti illeciti che leciti (secondo il diritto internazionale). Le norme che consentono di sanzionare i funzionari che li abbiano commessi secondo il giurista tedesco “costituiscono diritto internazionalmente indispensabile”.

Diversamente da quello che pensano gli adepti del “politicamente corretto” è proprio la sovranità territoriale a garantire non solo l’esistenza politica delle comunità umane, ma anche l’effettiva applicazione del diritto; e così a prendersi carico dei relativi obblighi e responsabilità, sia che derivino da fonti del diritto interne che internazionali. Scriveva Hegel che “lo Stato è la realtà della libertà concreta”. È questo un aspetto peculiare dello Stato moderno che consiste anche di un’organizzazione di applicazione del diritto, la cui funzione è di rendere reali e concreti i diritti enunciati nella legislazione o comunque vigenti. Diversamente dalle monarchie feudali in cui la realizzazione delle pretese era spesso rimessa agli interessati medesimi (così, in genere, come nelle forme arcaiche di ordinamenti politico-sociali).

Situazione pericolosa. Lo Stato moderno, anche per questo, conquistò oltre al monopolio della violenza legittima, quello dell’applicazione del diritto (ne cives ne arma ruant). che non è il monopolio del diritto, giacché questo è generato in parte considerevole, spesso la più importante, non da organi statali: ma è quello della sua concreta esecuzione e realizzazione.

Se la Repubblica si difende in giudizio sostenendo che non è suo compito assicurare che il diritto sia realizzato, vuol dire che sta regredendo verso forme pre-moderne di ordinamento: o meglio che è in de-composizione. Come, in effetti, è ogni Stato che non pretende di essere sovrano.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

Wellingtoniana e… Salviniana, di Piero Visani

Wellingtoniana e… Salviniana

       Dal momento che mi pare di capire – da certi comportamenti – che non solo si intende insistere in strategie comunicative totalmente errate, ma si vuole pure accentuarle, ricorrerò all’aneddotica, soluzione immaginifica adatta a penetrare (forse…) nelle menti più semplici e meno provvedute…
       Notte fra sabato 17 e domenica 18 giugno 1815. Piana di Waterloo. La giornata è stata afosa e il calare delle tenebre non ha portato refrigerio. Qualche tuono annuncia che presto potrebbe scoppiare un temporale anche di forte intensità, ma per il momento ancora si fa attendere.
       Nel quartier generale britannico, nei pressi di Mont Saint-Jean, gli aiutanti di campo (molti dei quali giovani e giovanissimi rampolli della nobiltà inglese) e gli ufficiali subalterni si affollano intorno al loro comandante, il duca di Wellington, certamente per trarre conforto e sicurezza dalla sua calma glaciale. Per alcuni, che per ragioni anagrafiche non avevano potuto prendere parte alla Guerra Peninsulare in Spagna e Portogallo (1808-1814) contro i francesi, quella che si annunciava per l’indomani era la prima grande battaglia della loro vita (e per non pochi di essi sarebbe stata anche l’ultima…)
       Il desiderio di avere indicazioni su cosa sarebbe potuto accadere il giorno dopo era troppo forte, per cui i più audaci azzardarono a chiederlo al loro comandante: “Vostra Grazia, che cosa accadrà domani?”.
       Con il suo consueto, nobiliare distacco, il “Duca di ferro” [così era soprannominato] li guardò con l’aria serena di un comandante che di battaglie ne aveva vinte molte, contro i francesi, e rispose: “Verranno su alla solita vecchia maniera [si riferiva al fatto che i francesi erano soliti attaccare in colonne di battaglione, invece che in linea] e noi li batteremo alla solita vecchia maniera” [vale a dire con i reparti schierati in linea, che potevano sviluppare un volume di fuoco nettamente superiore a quello dei francesi, come era accaduto a partire dalla battaglia di Maida, in Calabria, nel 1806, ed era continuato per tutta la Guerra Peninsulare, senza che i comandanti francesi – salvo pochissime eccezioni – si accorgessero della natura del problema].
       Questo accadde puntualmente anche il giorno dopo, a Waterloo.
       L’aneddoto serve solo a ricordare che l’iterazione di tattiche e strategie già dimostratesi perdenti in varie occasioni, specie quanto si va all’attacco di gente molto abile nella difesa, serve solo a perdere una volta di più e forse sarebbe meglio cambiarle. Forse…

Oltre la destra e la sinistra: la necessità di una nuova direzione, di Andrea Zhok

Oltre la destra e la sinistra: la necessità di una nuova direzione
tratto da facebook

1) Lo scenario contemporaneo
Due grandi tendenze caratterizzano la politica dell’ultimo quarto di secolo nel mondo occidentale. La prima, e più importante, è rappresentata dal trionfo del modello liberale con i connessi processi di globalizzazione; e in maniera concomitante, dalla crescita di reazioni di rigetto di tali processi (dai ‘no-global’ degli anni ’90, al ‘populismo’ e ‘sovranismo’ odierni).
La seconda tendenza, derivativa, è una crisi profonda delle categorie politiche di ‘destra’ e ‘sinistra’; tale crisi si è manifestata sia come ‘crisi d’identità’ che in cortocircuiti e ribaltamenti concettuali, dove posizioni tradizionalmente ascrivibili alla ‘sinistra’ sono state assimilate dalla ‘destra’ e viceversa.
Questi due processi vanno intesi insieme e sono parte di una medesima configurazione. La prima tendenza è quella strutturalmente portante e definisce il carattere della nostra epoca, come epoca del trionfo della ‘ragione liberale’ (e della sconfitta del suo principale competitore storico, dopo la caduta del muro di Berlino). In mancanza di avversari la ragione liberale ha accelerato le tendenze di sviluppo interne, e segnatamente i processi di movimentazione globale di merci, forza-lavoro e capitale. Quest’accelerazione ha riportato alla luce i limiti del progetto politico liberale e capitalistico, che dopo la crisi finanziaria del 2008 appaiono manifesti a chiunque non sia ideologicamente accecato.
Il rimescolamento odierno delle categorie di ‘destra’ e ‘sinistra’ è un effetto diretto dell’apogeo, e della concomitante crisi, della ragione liberale. Una chiara manifestazione ne è stato lo scivolamento negli anni ’80 e ‘90 della ‘sinistra’ occidentale (comunisti e socialisti) su posizioni liberali, facendo proprie le istanze di ciò che fino a poc’anzi era il ‘nemico’. Ciò è avvenuto facendosi carico dell’intero blocco ideologico liberale, dalla tradizione dei diritti umani, al libertarismo individualista, dalla contestazione dello Stato, alla venerazione delle libertà di mercato. Solo alcune minoranze della ‘sinistra’ tradizionale hanno continuato, con non pochi imbarazzi e ambiguità teoriche, a tener fermi alcuni punti di contestazione al blocco liberal-capitalistico. Simultaneamente, il vuoto nella rappresentanza di istanze anticapitalistiche e antiliberali prodotto dalla defezione della ‘sinistra’ ha fatto spazio ad una sua parziale appropriazione da parte della ‘destra’.
Questo duplice processo di riposizionamento sta trasformando il paesaggio politico tradizionale, ma il tutto si sta svolgendo in una cornice di opacità e scarsa consapevolezza, che nasconde il carattere strutturalmente obsoleto delle categorie di ‘destra’ e ‘sinistra’. Finora chi ha osato denunciare tale obsolescenza è stato tacciato di ‘qualunquismo’ o di ‘tradimento’, in un pervicace rifiuto di riconoscere uno stravolgimento già avvenuto. In molti rimangono abbarbicati a simulacri delle vecchie categorie, oramai scarnificate o ‘geneticamente modificate’, senza voler riconoscere che la realtà si è lasciata alle spalle quelle forme, come un serpente la sua pelle. A sinistra, dove l’esplicitazione dell’apparato teorico è stata storicamente più definita, l’irrigidimento delle posizioni appare particolarmente persistente, con l’aggrapparsi ansioso ad una coperta di Linus fatta di parole d’ordine e riflessi condizionati. La minore elaborazione teorica della destra si è rivelata, in questa fase, un paradossale vantaggio, consentendo aggiustamenti di tiro più pragmatici (o semplicemente più opportunisti).
Il processo cui stiamo assistendo è dotato di una logica storica ferrea, che però deve trovare riconoscimento teorico, e rappresentanza politica, per superare l’attuale situazione di incertezza e paralisi. Ciò cui assistiamo oggi è la faticosa ricomposizione di quel mondo umano che il modello liberal-capitalistico ha progressivamente marginalizzato. Tale ricomposizione deve avvenire recuperando in un’immagine unitaria le contestazioni della ragione liberale presenti tanto nella tradizione ‘di destra’ che in quella ‘di sinistra’.
2) Le radici storiche
Il modello liberal-capitalistico ha poco più di due secoli nell’Europa continentale e solo qualche decennio di più in Inghilterra, dove mosse i primi passi. In Europa il suo imporsi passò attraverso lo spartiacque, determinante quanto ambiguo, della Rivoluzione francese, che fu anche il contesto in cui vennero alla luce le categorie di ‘destra’ e ‘sinistra’.
Come noto, questa distinzione nacque nell’Assemblea Nazionale Costituente del 1789, a partire dalla posizione fisica dei gruppi rispetto al presidente: alla sua destra stavano monarchici, conservatori e tradizionalisti, mentre filorivoluzionari e illuministi stavano alla sinistra. Successivamente, nell’Assemblea Legislativa del 1791, la destra venne assegnata ai fautori della monarchia costituzionale – che accettavano l’abolizione del feudalesimo –, e la sinistra ai repubblicani seguaci delle idee dell’Illuminismo (Giacobini, Cordiglieri, Girondini, ecc.).
L’evoluzione interna del processo rivoluzionario portò alla luce ben presto una discrasia interna alla parte vincente, cioè alla ‘sinistra’. Schematicamente, l’opposizione alle gerarchie di sangue dell’Ancien Régime iniziò a mostrare una divaricazione tra chi intendeva sostituirle con una gerarchia di censo e chi intendeva sostituirle con una società egalitaria. Le istanze egalitarie, che persero terreno dopo il 1794, riemersero in varie forme di neogiacobinismo dopo la Restaurazione, ricevendo una nuova investitura con l’opera di Karl Marx, in cui l’egalitarismo usciva dall’astrattezza giacobina e prendeva la veste chiarificatrice di una richiesta di giustizia sociale, nella cornice di una critica ai meccanismi di produzione e riproduzione del capitale.
Il modello liberal-capitalistico si impose in Europa, nella scia della Rivoluzione francese, come presa del potere da parte della borghesia (che rappresentava allora una minoranza della popolazione, inferiore al 10%). Ad essa nel corso dell’800 si opposero dunque un fronte conservatore e tradizionalista (destra), e un fronte egalitario (frazione dell’originaria ‘sinistra’). La loro diversa genesi tenne l’antiliberalismo della destra e quello della sinistra (socialista e comunista) a distanza nel corso dell’intero XIX secolo e per parte del XX. Per tutta la prima metà del XIX secolo – la ragione liberale ebbe motivazioni storiche potenti per imporsi, presentandosi come una necessità storica dotata di un carattere ‘progressivo’ che né l’egalitarismo di ‘sinistra’, né il tradizionalismo di ‘destra’ potevano vantare.
Nella seconda metà del XIX secolo l’elaborazione marxiana fornì alla ‘sinistra’ antiliberale un potente strumento di analisi che, identificando il ruolo fondamentale del capitale, consentiva di approntare politiche popolari strutturate. È su questa base che il movimento socialista poté espandere la sua base di consenso nel corso dell’800, fino a divenire una concreta minaccia per il modello liberal-capitalistico.
Diversa fu la storia dell’antiliberalismo di destra, nel cui ambito non vi fu una figura di impatto comparabile a quello di Marx, e la cui impronta ab origine antirivoluzionaria (e antipopolare) lo relegò a lungo in una posizione di opposizione tendenzialmente aristocratica ed elitista. La mancanza di una teorizzazione dominante lasciò tuttavia spazio ad una varietà di posizioni, che oscillavano dal tradizionalismo, al conservatorismo religioso, al nazionalismo, al populismo, al darwinismo sociale spenceriano, all’individualismo nietzscheano. Questa minore definitezza teorica ha spesso consentito alla destra di adattarsi alle circostanze in maniera pragmatica (od opportunistica), come visibile nella parabola fascista, dove tutte le istanze citate, per quanto in contraddizione tra loro, riuscirono a trovare spazio.
D’altro canto, tanto nella tradizione di destra che in quella di sinistra hanno trovato posto forme di assimilazione del paradigma liberal-capitalistico.
A destra ciò è avvenuto precocemente, rigiocando la concezione gerarchica della società, originariamente di matrice aristocratica, in chiave di gerarchizzazione economica: il darwinismo spenceriano e versioni divulgative del superomismo nietzscheano hanno fornito spesso il pretesto per assimilare istanze capitalistiche. Un’ampia parte della tradizione di destra, a partire da fine ‘800 ha rivestito il capitalista vittorioso (‘padroni del vapore’ o ‘maghi della finanza’ che fossero) dei panni dell’eroe guerriero: Shylock che recita Sigfrido.
A sinistra l’assimilazione di istanze liberali avvenne più tardi, una volta venuta meno la fiducia nella lezione marxiana, ma a quel punto essa avvenne con grande radicalità, rendendo nell’ultima parte del XX secolo pressoché indistinguibili posizioni liberali e posizioni ‘di sinistra’.
Ma tanto nell’ambito della destra quanto in quello della sinistra ha continuato a sussistere una dimensione, minoritaria ma viva, di consapevole contestazione del modello liberal-capitalistico.
3) Parzialità strutturali e il dovere di superarle
Tanto la tradizione antiliberale di destra, che quella di sinistra sono naufragate più volte contro limiti e parzialità delle rispettive letture della realtà. Ma percepire dei limiti non è di per sé ancora sufficiente a definire un orizzonte di superamento.
D’altro canto chi aderisce al modello liberal-capitalistico non vede alcuna necessità di ‘superare destra e sinistra’, perché ne considera le versioni antiliberali meri tratti folcloristici finiti nella “pattumiera della storia”, e ne contempla come concrete solo le varianti liberali, che sono espressioni essenzialmente intercambiabili del modello dominante (il ‘bipolarismo’ politico degli ultimi decenni ne è chiara testimonianza).
La percezione, spesso acuta, della necessità di superare le parzialità della ‘destra’ e della ‘sinistra’ tradizionali non è di per sé sufficiente a produrre una sintesi feconda. Confuse evocazioni di ‘incontri a metà strada’, e formule ad effetto tipo “valori di destra, idee di sinistra” lasciano il tempo che trovano, finché non se ne determinano gli specifici punti ciechi.
Alla tradizione della destra antiliberale è mancata l’analisi marxiana e post-marxiana. Essa ha perciò sofferto di tre fondamentali tendenze: 1) a sottovalutare la capacità delle condizioni economiche di determinare i rapporti di potere, interni ed esterni; 2) a sottostimare l’impatto dell’educazione e della cultura sulle disposizioni umane; 3) a misconoscere la diversificazione degli interessi di classe e la loro essenziale divergenza in una cornice capitalistica. Nonostante alcuni autori di matrice marxista, come Gramsci, siano stati in parte recepiti da minoranze della riflessione di destra (es.: Alain De Benoist), questa dimensione analitica resta subottimale nella ‘destra sociale’, e ciò ne limita la capacità di avere una visione pienamente realistica della società e di incidere sui processi capitalistici.
Alla tradizione di sinistra, sulla scorta del suo originario innesto nell’universalismo illuminista, è mancata un’adeguata comprensione del significato antropologico di tre fattori: 1) il radicamento territoriale; 2) l’appartenenza alla natio (famiglia, comunità, stato-nazione); e 3) l’adesione ad un éthos (costumi, tradizioni, cultura materiale). Nonostante in Marx, sulla scorta di Hegel, ci sia un apparato teorico capace di fare spazio a questi fattori, tale dimensione è rimasta ambigua nelle pagine marxiane, e successivamente verrà marginalizzata con l’assimilazione del socialismo scientifico in chiave positivistica. Tanto il socialismo nel XIX secolo, che il comunismo nella prima parte del XX secolo, manterranno comunque aperta la porta a questa dimensione etica di radicamento e appartenenza, che fa capolino in intellettuali come Gramsci e Pasolini. Tuttavia dopo il ’68 la componente libertaria e individualistica avrà la meglio, espellendo l’idea stessa di ‘comunità’, così cruciale alla tradizione ideale del ‘comunismo’ – che precede di molto Marx – dal novero delle idee ‘di sinistra’.
Lo scarso credito che oggi caratterizza l’antiliberalismo di ‘sinistra’ e quello di ‘destra’, separatamente presi, è dovuto alle loro strutturali parzialità, emblematicamente rappresentate dall’insuccesso dei comunismi e dei fascismi storici. Sul piano simbolico (sospendendo il piano della realtà storica, molto più articolato e complesso) i comunismi-socialismi realizzati sono percepiti come appiattimento individuale e ateismo di stato, mentre i fascismi come prevaricazione violenta, irrazionalismo e intolleranza. In entrambi i casi questa approssimazione simbolica segnala un fondo reale.
L’ispirazione comunista-socialista ha sofferto di un fondamentale punto cieco, nell’assumere una visione astratta dell’umano, di matrice illuminista. In questa visione il razionalismo si tradusse frequentemente in riduzionismo scientifico e laicismo forzoso, dove l’uomo sottratto alla dimensione storico-tradizionale e a quella spirituale veniva uniformato e semplificato. Ciò prese la forma a fine ‘800 di una ‘naturalizzazione’ dell’uomo secondo un modello positivista e riduzionista, modello profondamente inadeguato a fornire una spinta motivazionale e un’adesione affettiva duratura alle aggregazioni sociali. Tale astrattezza si palesa già nella difficoltà teorica per le riflessioni marxiane di attribuire contenuti positivi al comunismo a venire: la definizione del comunismo come “movimento reale che abbatte lo stato di cose presenti” ne rivela in trasparenza il carattere essenzialmente negativo. Questa labilità della matrice socialista/comunista nell’istituire un’adesione partecipativa profonda può essere scorta in filigrana – al netto di un’ovvia semplificazione storica – in molti momenti decisivi della sua storia. L’impotenza dei partiti socialisti di opporsi all’empito nazionalista che fece da volano alla Prima Guerra Mondiale ne mostrò drammaticamente un aspetto. La scarsa ‘fidelizzazione’ delle popolazioni sotto il ‘socialismo reale’, una volta venute meno le esigenze di guerra, ne fu un’altra espressione. L’involuzione delle ‘sinistre’, fino all’odierno ‘sconfittismo’, una volta venuta meno la fiducia nel modello critico marxista, dopo il ’68, ne è una terza espressione. Finché c’è un nemico, la componente critico-negativa dell’apparato socialista-comunista può rappresentare da sola un collante sufficiente, ma in mancanza di questo ruolo oppositivo l’adesione promossa da un paradigma positivista e riduzionista risulta fragile. Per quanto questo problema non sia strettamente imputabile alla concettualizzazione marxiana, che rimane nell’essenza umanista e storicista, esso è stato spesso caratterizzante degli sviluppi storici socialisti/comunisti.
L’ispirazione di destra ha invece sofferto di un differente punto cieco, anch’esso discendente dalla mossa originante che la mise al mondo: l’originaria ostilità al razionalismo illuminista si sviluppò spesso in generico irrazionalismo e anti-intellettualismo. Quest’aspetto ha preservato la destra dal riduzionismo e dall’astrattezza positivista, ma l’ha spesso consegnata al mero pregiudizio. Questa permeabilità al pregiudizio, al convincimento prerazionale e prescientifico, è alla radice dei suoi due principali difetti storici. Da un lato, l’aspettativa che le diversità di fondo, i contrasti, siano razionalmente inestricabili ha promosso una propensione alla ‘sbrigatività semplificatoria’ che non di rado è sfociata in violenza o prevaricazione, vissute come necessità di tagliare nodi gordiani razionalmente indissolubili. Dall’altro lato, lo spazio lasciato al giudizio pre-analitico, al pre-giudizio, ha aperto le porte a scivolamenti nella xenofobia e nel razzismo. Per quanto il rigetto da destra delle astrazioni illuministe e dello scientismo sia perfettamente compatibile con un’idea forte di razionalità (ad esempio quella hegeliana), questa tendenza irrazionalistica ha spesso preso il sopravvento nelle prospettive di destra.
Queste due parzialità spiegano anche i modi specifici in cui la teoria liberale ha potuto assimilare di volta in volta talune istanze sia di destra che di sinistra. La ragione liberale è infatti caratterizzata dalla giustapposizione di due errori complementari. Da un lato promuove una visione dell’umano ridotto ad un’individualità impermeabile e irriducibile, sottratta a valutazioni razionali, una scatola nera come agglomerato di desiderata insindacabili, di pulsioni che si esprimono in meri atti di preferenza. Dall’altro lato essa promuove una visione della natura (mondo) come luogo governato da leggi rigorose e inviolabili (fisiche o economiche), leggi che pongono la natura come mero materiale a disposizione, anonimo strumento dominabile attraverso cause e computazioni. La prima posizione, che possiamo chiamare di “individualismo a-razionale”, ha dato ospitalità ad alcune istanze di destra, mentre la seconda, che possiamo chiamare di “naturalismo riduzionistico e costruttivista”, è risultata compatibile con alcune istanze di sinistra.
È importante sottolineare come l’antiliberalismo ‘di destra’ e quello ‘di sinistra’ siano accomunati proprio nell’opposizione a questi due pilastri della concettualità liberale. Entrambi infatti assumono una base ‘umanistica’, per cui esiste una ‘essenza dell’umano’, irriducibile all’individuale, che consente di definire ciò che è giusto o ingiusto, ciò che è di valore o disvalore. Ed entrambi assumono l’idea di una natura dotata di valore e sviluppo (una storia), e che non è semplicemente ‘a disposizione’ come strumento per finalità arbitrarie.
4) Necessità e difficoltà di una nuova direzione
Il tacito presupposto di tutto quanto precede è l’identificazione del ‘nemico’ in questa fase storica. Per chi scrive (per ragioni che troveranno esplicitazione in un lavoro di prossima uscita), il problema strutturale dell’epoca che abbiamo la ventura di vivere è rappresentato dalla necessità inderogabile di superare il modello liberal-capitalistico, modello che ha esaurito la sua spinta storica propulsiva e che ora comincia a divorare sé stesso, avvelenando simultaneamente tutto ciò che lo circonda, uomini e natura, valore e senso, storie e speranze.
Il modello di società liberal-capitalistico, pur presentando linee di rottura molteplici, possiede, come tutti i sistemi storici consolidati, grande inerzia e resilienza. Non basta segnalarne i gravi problemi per decretarne il superamento, ma è necessario disporre di un’offerta politica con un’alternativa che permetta di percepire per contrasto l’intollerabilità del sistema vigente.
Ciò significa che vanno riconosciuti i modi fondamentali dell’influsso dell’economia sulla società (alienazione, sfruttamento), che vanno denunciati i meccanismi di ricatto economico su individui e gruppi, che va compreso come la mercificazione operi in profondità nel disgregare soggetti e forme di vita. Al tempo stesso bisogna comprendere come ciascun soggetto sia pienamente ciò che è in quanto nato e cresciuto in uno specifico contesto: famigliare, territoriale, linguistico, culturale, materiale; e che tale appartenenza ne definisce in parte significativa l’orizzonte valoriale e il senso. Bisogna comprendere che tanto l’identità individuale quanto l’identità collettiva rappresentano fattori determinanti nella definizione di ciò che di volta in volta è ‘di valore’, e che perciò svuotare tali identità nel nome di un’umanità astratta composta di individui idiosincratici e, di principio, mutuamente estranei è non solo un errore teorico, ma una fondamentale minaccia al senso che gli uomini conferiscono alle proprie esistenze.
Questo significa che una politica che voglia rappresentare un’alternativa al modello dominante deve far posto a idee e valori che si sono trovate storicamente su versanti differenti: giustizia sociale, solidarietà, redistribuzione, comunità, appartenenza, identità, lealtà, onorabilità, riconoscimento, senso dello Stato e amore per la propria terra. Si tratta di una costellazione di nozioni non soltanto internamente compatibili, ma fondamentalmente coessenziali, e strutturalmente alternative a tutte le tendenze di fondo del modello liberal-capitalistico.
Molti problemi contingenti si oppongono a questa esigenza, pure inderogabile. Ne voglio menzionare qui solo uno, apparentemente minore, e tuttavia insidioso, che probabilmente continuerà ad ostacolare a lungo la creazione di una sintesi capace di superare le parzialità storiche di ‘destra’ e ‘sinistra’. Non si tratta di una difficoltà teorica, ma squisitamente psicologica. Ciascuna tradizione ha avuto, ed ha, le sue letture preferenziali della storia, in cui ha collocato sia i propri ‘eroi indiscussi’ che le sue ‘figure controverse, ma difendibili’. La ricostruzione storica in forme convenienti, proiettandovi le proprie ragioni e i torti altrui, è sempre stata una forma influente per creare un senso di gruppo e una sfera di mutuo riconoscimento. Due secoli di evoluzione politica su binari paralleli ha creato dei ‘pantheon’, negativi e positivi, costruiti per essere mutuamente incompatibili.
Ora, fino a quando le prospettive antiliberali di destra e di sinistra si incontrano sul terreno dell’analisi del presente e sulla progettazione di prospettive future, non vi sono ragioni sostanziali perché esse non possano conciliarsi, creando anzi una sintesi assai più potente delle sue parti. Ma nel momento in cui esse confrontano le proprie narrazioni storiche e i relativi ‘pantheon’, lo scontro è sempre latente. (Questa insidia è peraltro ben presente anche all’interno della stessa storia della ‘sinistra’, dove il ‘pantheon’ socialista e quello comunista sono ben lontani dal coincidere.) Ci sono figure e personaggi storici costruiti in modo da suscitare la semplice immediata repulsione in un gruppo mentre magari sono stimati, o almeno giustificati, nell’altro. Ci sono letture degli eventi articolate e consolidate che confliggono senza scampo. Per quanto la freddezza dell’analisi storica possa in linea di principio restituire ragioni e torti, riconfigurare luci ed ombre di qualunque figura del passato, è dubbio che tale differenza di retroterra possa essere liquidata con facilità. La nascita di una prospettiva politica che superi destra e sinistra in una chiave critica del modello liberale è una necessità storica, ma l’esatta forma in cui ciò potrà avere luogo appare ancora piena di incognite.

Antonino Galloni L’altra moneta Womanesimo e Natura, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Antonino Galloni L’altra moneta Womanesimo e Natura (dall’avere all’essere), Ed. Arianna 2019, pp. 159 € 15,00

È inconsueto leggere nel “proemio” del libro che “Al liceo e all’Università mi hanno insegnato che la guerra è la continuazione della politica, con altri mezzi; adesso insegno che l’economia può essere la continuazione della guerra, con vari mezzi”. Il che significa: a) che la politica – e il politico – è determinante; b) che l’economia riproduce – e spesso serve – le stesse distinzioni e finalità del politico. Cioè crea (e supporta) inimicizia ed amicizia, situazioni di comando ed obbedienza. Cosa ovviamente nota al pensiero moderno da Marx a Weber, Schmitt o Wittvogel, ma dimenticata da quello contemporaneo per cui l’economia (lo sviluppo economico) dovrebbe avere come effetto di eliminare il dominio, pacificare, e così subordinare il politico.

L’esprit de commerce limita l’esprit de comquete: che la considerazione di Constant non fosse una regolarità, ma solo una possibilità, più probabile dopo la rivoluzione francese che qualche secolo prima, lo provano, dopo la morte del pensatore di Losanna, le guerre imperialistiche che hanno connotato – in parte – il XIX e XX secolo. Nello stesso periodo, il raggruppamento amico/nemico è stato, almeno fino al collasso del comunismo, determinato (per lo più) da una scriminante economica: la proprietà o meno dei mezzi di produzione.

In tale prospettiva è chiaro che servirsi sempre di moneta a debito – com’è quella che l’istituto d’emissione presta allo Stato – può non essere opportuno, specie in situazioni di crisi. Ricorda Galloni “durante la Prima Guerra Mondiale il Ministro del Tesoro del Regno Unito, trovandosi in difficoltà, scelse di emettere sterline non a debito (non fornite dalla Banca d’Inghilterra), così risolvendo un enorme problema per il suo Paese (e non si può negare che ciò abbia contribuito alla conclusione positiva delle belligeranze per il suo Paese … eppure funzionò” e potrebbe ancora funzionare.

Onde l’economista propone di emettere moneta a sola circolazione nazionale, non convertibile, come mezzo per uscire dalla crisi. Mesi fa, polemizzando con Draghi il quale aveva sostenuto – mal applicando l’albero di Porfirio (la c.d. “divisione esauriente”) e riferendosi ai mini-Bot proposti dalla Lega che questi o sono illegali o generano ulteriore debito – che non era vero né l’uno né l’altro. Infatti perché fossero illegali occorrerebbe che fossero vietati da una legge o un Trattato: ma il Trattato di Lisbona non li vieta. Che aumentino lo stock di debito non è neanche vero, nella proposta leghista, perché da un lato sono liberamente accettati dal creditore, il quale lo fa perché opta di essere pagato subito con quelli e non anni dopo con l’euro. D’altra parte se il creditore li gira in pagamento a qualche (proprio) creditore, anche in tal caso il terzo può liberamente accettarli o meno. Il tutto fu (ampiamente) sperimentato in Germania negli anni ’30 con un mezzo simile: le cambiali MEFO (garantite dallo Stato). Scriveva Schacht, il quale tale sistema aveva ideato e realizzato, che data la garanzia del Reich e il buon saggio d’interesse, gran parte delle cambiali finirono per essere girate a terzi o detenute in attesa della scadenza, piuttosto che presentate per lo sconto alla Reichsbank.

L’effetto (anche) delle cambiali Mefo fu di finanziare gli enormi investimenti pubblici del Terzo Reich (compreso il riarmo). Anche in tal caso “funzionò”. Ma contro tali strumenti alternativi si ricorre ad ogni genere di esorcismo anche a quello della logica.

Dimenticando quello che l’Europa (tanto amata) ci ricorda sempre, da ultimo con la sentenza della Corte UE del 28 gennaio: che i debiti vanno pagati. e alla scadenza. L’inverso di quanto praticato dalla finanza (piddina soprattutto) della seconda repubblica.

Peraltro nascondendo che di tali – o simili – mezzi alternativi d’estinzione delle obbligazioni si era fatto uso con risultati positivi. Dato però che l’assetto di potere economico oggi prevalente è diverso, occorre non intaccarlo. E con buona pace dell’ “ottimo” economico, torniamo così al rapporto di dominio.

Teodoro Klitsche de la Grange

Vittorie perdute, di Roberto Buffagni

Vittorie perdute[1]

 

Cari Amici vicini & lontani,

proviamo a fare il punto della situazione dopo le elezioni regionali del 26 gennaio. Vi propongo una ipotesi di lavoro, questa.

Per uscire dall’angolo morto in cui si è ridotta provocando, in agosto, la crisi del governo gialloverde, la Nuova Lega nazionale di Matteo Salvini ha trasformato le elezioni regionali in Emilia Romagna in un referendum sul proprio progetto, sul governo giallorosa, e sulla persona, o meglio sul personaggio del “Capitano”.

Obiettivo politico, il medesimo perseguito e fallito con l’apertura agostana della crisi: delegittimando il governo in carica e disgregandone la coesione, costringere il Presidente della Repubblica a indire le elezioni politiche,  per trasformare i vasti consensi a proprio favore in voti politicamente efficaci e conquistare maggioranza relativa parlamentare e governo della nazione.

Nonostante un successo elettorale ragguardevolissimo in territorio tradizionalmente sfavorevole al centrodestra, per la seconda volta la Nuova Lega ha fallito l’obiettivo politico che s’era proposto, e ha probabilmente raggiunto il punto culminante della vittoria: il momento in cui l’attaccante, procedendo nell’avanzata, “si trova ad aver perso la propria superiorità iniziale, stabilendosi un equilibrio tra le sue capacità offensive e quelle difensive del difensore. Oltre il punto culminante della vittoria, i rapporti di forza divengono favorevoli al difensore[2] e quest’ultimo acquista una capacità offensiva sufficiente ad annientare l’attaccante.[3]

E’ un’ipotesi di lavoro che mi pare valga la pena di esser presa in considerazione, se si pensa che:

  1. Con il successo difensivo in Emilia Romagna, il PD e il “partito delle istituzioni” hanno guadagnato tempo preziosissimo (almeno un anno) per riconfigurare le proprie forze, migliorarne la coesione, logorare l’avversario Salvini, dividere la coalizione di centrodestra; e soprattutto, si sono garantiti la possibilità di decidere le nomine delle partecipate ed eleggere il regista della politica italiana, il Presidente della Repubblica: vale a dire, la possibilità di determinare l’orientamento di fondo della politica italiana nei prossimi anni, persino nel caso di una vittoria del centrodestra alle prossime elezioni politiche.
  2. Per la seconda volta consecutiva nel giro di pochi mesi Salvini ha perseguito lo stesso obiettivo con gli stessi metodi, l’ accumulazione del consenso per mezzo di una instancabile attività di propaganda, e per la seconda volta consecutiva ha fallito; mentre il suo avversario principale (PD + “partito delle istituzioni”) ha dato prova di un’apprezzabile capacità di imparare dai propri errori, adattare e rinnovare le proprie tattiche, cercare nuove alleanze, profittare degli errori dell’avversario.

Salvini, insomma, ha per due volte ceduto l’iniziativa all’avversario: la prima volta, in agosto, facendogliene un vero e proprio insperato regalo quando esso era debole, diviso, disorientato, scosso da una seria crisi intestina; la seconda volta, in gennaio, provocandolo a battaglia campale anche simbolicamente decisiva sul terreno a lui più favorevole, e perdendola dopo aver condotto molto male le operazioni.

Perché Salvini ha condotto molto male le operazioni nella battaglia per l’Emilia Romagna? Qui elenco solo alcuni tra i più vistosi errori tattici del “Capitano”.

  1. Delegittimare la candidata Lucia Borgonzoni accompagnandola ovunque come il papà accompagna una bambina timida e ansiosa il primo giorno di scuola elementare (errore direttamente conseguente alla scelta di trasformare le elezioni emiliano-romagnole in un referendum Salvini Sì/Salvini No, nel quale i candidati leghisti, Borgonzoni in testa, erano solo comparse)
  2. Annunciare a gran voce che il Capitano veniva da via Bellerio, Milano, “a liberare” l’Emilia Romagna dall’oppressione della sinistra e/o, a seconda delle versioni, “dei comunisti”, programma senz’altro gradito ai molti elettori ex-comunisti che già avevano votato Lega, o che ci stavano facendo un pensierino; e che si parva licet, ha incontrato lo stesso successo dell’esportazione della libertà e della democrazia in Iraq o in Afghanistan da parte degli USA.
  3. Espiantare dalla propaganda ogni parvenza di argomentazione razionale e progettazione politica, locale e nazionale, sostituendovi mozioni dei sentimenti, buoni e cattivi, e bagni di folla corredati di digressioni foto-gastronomiche (errore direttamente conseguente alla rinuncia ad affrontare seriamente il tema dei rapporti con la UE, cioè la fondazione razionale della protesta che ha valso a Salvini la moltiplicazione dei consensi)
  4. Millantare un atteggiamento di aggressività popolaresco-squadrista: capolavoro, la citofonata minacciosa in favore di telecamere al presunto spacciatore tunisino del quartiere Pilastro, a Bologna; quando (per fortuna) la Lega non ha né la voglia, né la capacità di fare sul serio dello squadrismo o del vigilantismo.
  5. Far candidamente annunciare alla candidata Borgonzoni la privatizzazione del 50% della sanità pubblica emiliano-romagnola, una delle migliori se non la migliore d’Italia; un annuncio senz’altro gradito dai ceti sociali a basso reddito, gli “esclusi dalla globalizzazione” che sono i principali sostenitori della protesta leghista.
  6. Costellare la campagna regionale con esternazioni a margine quali “Gerusalemme capitale d’Israele”; “Soleimani terrorista, giusto ucciderlo”; “chi odia Israele è un criminale che va prima curato poi messo in galera”; perle di saggezza da grande statista, consapevole di quali siano gli interessi vitali d’Italia nel Mediterraneo, che gli hanno certamente conquistato le più vive simpatie degli elettori emiliano-romagnoli cresciuti nelle culture politiche del PCI, del PSI e della DC.
  7. Insomma, aver provocato a battaglia decisiva l’avversario sul terreno a lui più favorevole senza darsi la pena di studiare né l’avversario, né il terreno. Per riassumere, non aver capito che in Emilia-Romagna c’è un solido sistema di potere sorretto da una metapolitica ben strutturata, e che se non si capisce e non si sa contrastare efficacemente la metapolitica, il sistema di potere non si abbatte neanche vincendo le elezioni: al massimo, vi si può ritagliare un posticino anche per sé.

A quanto fanno prevedere le dichiarazioni a caldo di Salvini – “Dovrete aspettare vent’anni perché mi stanchi”, “Rifarei tutto daccapo citofonata compresa”, “Le elezioni politiche? sono nelle mani del buon Dio” – la Nuova Lega e il suo Capitano continueranno a battere la stessa via, un’elezione locale dopo l’altra, e probabilmente con il medesimo successo, nella speranza che “il buon Dio”, che sarebbe poi il Presidente Mattarella, indica le elezioni politiche, e l’elettorato italiano continui a premiare il Capitano.

Non è detto che ciò accada, perché il tempo, che è “il santo protettore della difesa[4] logora la speranza; e nella sua infaticabile, efficacissima azione di propaganda, che ha fatto passare la Lega dal 3% al 30% e oltre dei consensi, il Capitano da tre anni vende speranza al popolo italiano. Speranza di protezione, speranza di una via d’uscita praticabile dalla crisi sociale, morale, politica in cui versiamo; speranza di riconoscimento per chi si sente escluso e scoraggiato. Il Capitano vende speranza, ma per ora – un “per ora” che comincia a farsi lungo – non riesce a consegnare la merce sperata; e “più la vittoria si fa attendere e più le armi si arrugginiscono[5].

Andrebbe qui affrontato anche il tema più importante e più serio, vale a dire: che cos’è “la merce sperata”, in concreto? Ottenuta la vittoria elettorale politica, che cosa dovrebbe e potrebbe fare, in concreto, un governo guidato dal Capitano? Quali sarebbero, gli obiettivi raggiunti i quali si potrebbe dichiarare “vittoria”? E con quali mezzi, provvedimenti, alleati raggiungerla?

Per ora, mi limito a osservare che alla Nuova Lega e il suo Capitano Matteo Salvini va riconosciuto il merito insigne d’ aver suscitato un vasto movimento popolare di protesta; constatando però che purtroppo, non sembra sapere come e dove guidarlo.

That’s all, folks.

 

 

 

[1] Riprendo il titolo, Verlorene Siege, di un bel libro uscito nel 1955 del Feldmaresciallo von Manstein, il miglior generale della Wehrmacht nella IIGM.

[2] Perché difendersi è molto più facile che attaccare, tant’è vero che nei manuali di tattica abitualmente si dice che l’attaccante, per avere buone probabilità di successo, deve garantirsi un rapporto di forze di almeno 3:1 sul difensore (nel punto dell’attacco, ovviamente).

[3] Gen. Carlo Jean, Manuale di studi strategici, Roma, Franco Angeli ed., 2004, p. 153. In questo passo e nei successivi Jean illustra il concetto clausewitziano di “punto culminante della vittoria”, al quale il grande teorico prussiano dedica il cap. XXII del libro VII nella sua opera maggiore, Della guerra. Il concetto di “punto culminante della vittoria” è il precipitato teorico dell’esperienza vissuta da Clausewitz nelle guerre napoleoniche, che combatté nell’esercito russo e studiò brillantemente nel suo Der Feldzug von 1812 in Rußland (La campagna del 1812 in Russia, non tradotto in italiano). Il “punto culminante della vittoria”, per Napoleone, fu la battaglia di Borodino, come la chiamarono i russi e, grazie alla celeberrima descrizione di Tolstoj in Guerra e pace, la chiamiamo anche noi; o la battaglia della Moskova, come la chiamarono i francesi. Borodino/Moskova, “la più terribile delle mie battaglie” nelle parole di Napoleone, fu uno spaventoso macello (250.000 soldati in campo, 35.000 perdite francesi, 44.000 perdite russe). Alla fine della giornata i francesi avevano conquistato le posizioni nemiche, e il gen. Kutuzov, comandante in capo delle armate russe, aveva ordinato la ritirata: ma le truppe russe, nonostante le terribili perdite subite, rimanevano in campo e non mostravano segni di collasso. L’obiettivo strategico di Napoleone (fiaccare la volontà di combattere del nemico, far sì che i suoi dirigenti politici si riconoscessero sconfitti, aprire una trattativa in posizione di forza) non era stato raggiunto. Da quel momento in poi, nell’interpretazione degli eventi bellici di Clausewitz (e di Tolstoj) inizia la sconfitta della Grande Armée napoleonica.

[4] Clausewitz.

[5] Sun Tzu.

Chi vince, chi perde, chi aspetta. di Giuseppe Germinario

Il responso delle elezioni regionali in Emilia/Romagna e in Calabria più che una sentenza rappresenta una sospensione di giudizio, tranne che per uno dei protagonisti

CHI HA VINTO

Ha vinto il PD, ma solo perché ha guadagnato tempo; non è comunque poco. Ha mantenuto sostanzialmente le posizioni delle elezioni europee non ostante le due mini scissioni di Calenda e Renzi; la presa sul sistema di potere ed amministrativo della regione emiliano-romagnola, il vero zoccolo duro del partito, presenta ormai delle crepe ormai durature e definitive. Per resistere ha dovuto addirittura fingere di negare se stesso. Le sue speranze di ripresa o quantomeno di galleggiamento sono riposte nel recupero del voto grillino avvenuto, al momento, solo in piccola parte non ostante i proclami della stampa; il fìo da pagare in termini di statura politica e autorevolezza di governo sarà pesante con i suoi legami con i corpi intermedi e i ceti produttivi, la vera ossatura del fu PCI, sempre più allentati. Riproporrà con un po’ più di coraggio una politica redistributiva ad uso elettorale, ma perderà sempre più la pur scarsa capacità di indirizzare i settori sempre più risicati legati agli interessi nazionali e con essa la velleità, anch’essa già scarsa di suo, di contrattazione in sede europea. Il suo modello è Corbyn, nel momento tardivo della amara sconfitta.

Ha perso Matteo Salvini, soprattutto nell’immediato perché ha puntato alla luna, al naufragio di Giuseppi, usando per sgabello le elezioni regionali; i precedenti infausti delle cadute di precedenti illustri leader politici, perché aggrappati a boe di salvataggio improprie non sono stati di monito; ha perso, soprattutto nel lungo termine, perché si è dimostrato solo un tribuno che crede a quello che fa e che dice; gli manca l’autorevolezza e l’intelligenza dello statista e del leader autorevole. Ha rivelato una propensione spiccata, specie in politica internazionale, ad un servilismo gratuito e compiacente, meno discreta ma del tutto speculare alla classe dirigente piddina e del tutto inutile, se non controproducente, ad ottenere la considerazione benevolente del potente della fazione avversa.

Galleggia la Lega. Ha il privilegio e la fortuna di essere, non ostante il recente congresso semiclandestino, ubiqua ed ambigua. E’ Lega Nazionale di nome, ma conserva saldamente gran parte dell’anima della Lega Nord. Non cresce, ma consolida i risultati eccezionali di questi ultimi due anni. Qualche scricchiolìo si intravede, specie nei nuovi terreni elettorali di caccia. Riesce a mantenere il consenso solido, anche nella composizione sociale del voto, nel Nord-Italia, consolida i varchi aperti nel Centro-Italia, annaspa nel Centro-Sud. Ha raccolto il massimo del voto di protesta e delle vittime della globalizzazione e dei ceti intermedi in crisi; di più non potrà se non arriva a formare una nuova classe dirigente e nuovi leader politici. Impresa improba ed improbabile. Dovrebbe avere chiara la propria idea di interesse nazionale, a cominciare dalla collocazione nella Unione Europea e nello schieramento atlantico e definire una tattica di apertura di contraddizioni e di rottura di questo cappio di relazioni. Piuttosto che verbosità roboanti che celano accettazioni e subordinazioni supine o obtorto collo, tattiche più discrete ma determinate. Su queste basi riuscire a convogliare gli interessi “forti” suscettibili di essere catturati, senza i quali difficilmente si potrà passare da un atteggiamento protestatario alla costruzione di un blocco di potere e sociale alternativi e patriottici. Il rischio permanente rimane un ritorno sotto mutate spoglie alle origini.

Vincono le sardine. Non sono una pura emanazione del PD. Sono qualcosa di molto più complesso e sofisticato, ispirate e mosse da centri ben più accorti. Sono nate con l’obbiettivo di delegittimare e ridicolizzare il loro avversario, Salvini; di proporre una visione tecnocratica ed aristocratica, sinonimo nella fattispecie di spocchiosa, di formazione e conferma di una classe dirigente; di riportare nell’alveo progressista quell’area movimentista e parolaia che ricondurrà all’ovile parte di quel bacino elettorale, ma che segnerà definitivamente le sorti e le caratteristiche del Partito Democratico. Una negazione e un negativismo caratteristico delle “open society” di matrice sorosiana, a prescindere dalla loro espressione diretta. Se e quando scompariranno non sarà una loro sconfitta; semplicemente il compimento di un servizio. Un ulteriore veleno instillato per garantire qualche tempo di sopravvivenza ad una classe dirigente marcia e decadente in un paese già in tragico ritardo rispetto alla complessità e drammaticità degli eventi. Un gioco al quale Salvini si è prestato involontariamente. Le Sardine hanno indotto Salvini ad esagerare; non gli ci è voluto molto.

Cresce, ma rimane nella nicchia, sia pure appena più larga, Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. L’ambizione di essere un partito nazionale è grande, la vocazione di riportare il tutto nell’ambito del centrodestra prevale, i retaggi del passato e il peso dei resti berlusconiani al suo interno fanno il resto; sono la zavorra che impediscono di spiccare il volo.

Naufraga senza scampo il M5S. Alle europee ha conosciuto un esodo parziale verso Salvini ed un congelamento nell’astensione di una buona metà dell’elettorato. Con le lezioni regionali è iniziato un parziale travaso del voto restante nell’area progressista e una attesa generale del grosso dei votanti residui. Un gruppo dirigente allo sbando e un ceto di eletti destinati in gran parte all’anonimato. Una miscela esplosiva produttrice del peggior opportunismo e trasformismo. Prima si consumeranno, meglio sarà.

Intanto si attendono le prossime elezioni regionali.

Che ne sarà nel frattempo?

Lo scenario libico secondo il generale Marco Bertolini

Lo scenario libico e le condizioni che potrebbero rendere praticabile l’ipotesi di una forza militare di interposizione secondo l’autorevole punto di vista del generale Marco Bertolini, in una intervista tratta dal sito https://formiche.net/2020/01/libia-missione-pacificazione-bertolini/?fbclid=IwAR3AzgqDQQe6g9PS2BBufcJm2of0Hk9O3MAafHrqtkfIML5xkWmOru7Ojrc

Generale, dalla Conferenza di Berlino è arrivato il via libera per un comitato congiunto di supervisione sulla tregua. Basterà per evitare l’inasprimento del confronto sul campo?

È sicuramente un punto di partenza. Per ora ci dobbiamo accontentare. Haftar si sente militarmente forte per adesso, e il fatto che abbia accettato un comitato congiunto con il suo competitor per vigilare sulla tregua è di per sé positivo. Bisogna però vedere cosa accadrà nei prossimi giorni.

Non crede alla tregua?

Sul processo generale permangono molti dubbi. La situazione è fluida. Haftar è a un passo da Tripoli, nella periferia sud della città. Non vorrei che la tentazione di risolvere la questione prima che i turchi rafforzino il sostegno a Serraj giochi brutti scherzi.

C’è poi l’ipotesi di mandare degli osservatori dell’Onu. Cosa significa?

Onestamente credo che in una situazione come quella attuale gli osservatori non otterrebbero grandi risultati. Ci sono osservatori delle Nazioni Unite nel Sahara occidentale, a Cipro tra turchi e greci, nel Kashmir tra Pakistan e India. Sono situazioni in cui non è in corso una guerra combattuta, ma in cui c’è uno stato di non belligeranza abbastanza stabile. Per la Libia, sempre che le parti lo accettino, sarebbe più funzionale un modello tipo Libano, fatte chiaramente le dovute differenze.

È stato il ministro Di Maio a proporre un “modello Libano”. Ma quali sono le differenze?

Prima di tutto in Libano c’è una linea di confronto definita, la cosiddetta blue line al confine con Israele, marcata dai “blue barrel”, materialmente chiusa da una recinzione che corre in zone disabitate o scarsamente abitate. Vigilare su di essa è relativamente semplice. Se per “modello Libano” intendiamo la replicazione di Unifil, da un punto di vista operativo siamo fuori strada. In Libia la situazione è ben diversa: la linea di confronto è molto frastagliata, si inserisce negli abitati e persino in grandi città come Tripoli e Sirte, attualmente occupata dalle milizie di Haftar. Servirebbero dunque forze di diverso tipo e di diversa entità rispetto a quelle impiegate in Libano.

Intende più equipaggiate?

Senza dubbio. Si tratterebbe di un contingente internazionale con parecchi partecipanti. Ammesso e non concesso che i contendenti accettino il nostro Paese (credo e spero di sì), dovremmo avere il comando e controllo, presumibilmente a Tripoli, che però è già zona di confronto.

E poi?

Poi servirebbe una componente per controllare materialmente una linea di confronto che spesso è difficile da individuare. In Libano si fa con i pattugliamenti. In Libia servirebbe invece anche una presenza fissa, e dunque delle unità di fanteria in un numero cospicuo.

Si è fatto un’idea?

La missione Onu in Libano conta circa undicimila militari, di cui 1.100 italiani. In una prima approssimazione, procedendo per pennellate, direi che non si potrebbe risolvere la questione libica senza quantomeno raddoppiare questi numeri.

È la famosa “forza di interposizione”?

Esatto. Attualmente esiste solo in Libano con la missione Unifil. Il concetto andrebbe adattato alla Libia. Oltre alle unità di fanteria per presidiare il territorio lungo la frastagliatissima linea di contatto, ci sarebbe bisogno di una componente di riserva, la cosiddetta Quick reaction force, una forza di pronto intervento in grado di intervenire laddove sorgano problemi di carattere tattico. Dovrebbe inoltre avere una sua pesantezza.

Che intende?

Le forze che si confrontano in Libia hanno a disposizione unità pesanti e corazzate. Con il solo intervento di uomini appiedati non sarebbe possibile garantire la tregua. Sarebbe difatti necessaria anche la componente eliportata, basata su un aeroporto che potrebbe essere quello di Tripoli o di Misurata, o addirittura entrambi. Servirebbe a proiettare rapidamente le forze, uomini e fuoco, ad esempio i nostri elicotteri AW129 che si sono dimostrati risolutivi in Afghanistan in moltissime occasioni. Va infatti considerato che c’è anche un terzo incomodo sul campo.

Quale?

L’Isis. Troppo spesso ci concentriamo solo su Haftar e Serraj, ma le forze jihadiste restano radicate in molte zone del Paese, con una presenza ancora forte nell’entroterra. È questo un motivo per cui non ci si potrà limitare a un pattugliamento o a una presenza leggera. Servirà una capacità di risposta importante anche nell’eventualità di azioni dell’Isis che approfittino della situazione. A tutto questo va aggiunta la componente logistica, a partire dal supporto sanitario.

Si potrebbe sfruttare l’ospedale da campo che l’Italia ha stabilito a Misurata?

Certo. Tra l’altro si trova all’interno dell’aeroporto, cioè una zona facilmente accessibile da cui potrebbero partire gli elicotteri per l’evacuazione sanitaria di eventuali feriti. Si consideri inoltre che l’Italia è in una condizione particolare. Qualora partecipi a tale ipotetico impegno, potrebbe sfruttare il proprio territorio metropolitano, ad esempio con l’aeroporto di Lampedusa, a circa 300 chilometri dalle coste libiche, in cui potrebbe essere schierata la componente elicotteristica. Quest’ultima potrebbe poi utilizzare le piattaforme navali di cui disponiamo, non solo le portaerei, ma anche le Lpd, navi anfibie come la San Marco o la San Giorgio, per i rifornimenti. Alla base di tutto resta però una valutazione strategica.

Ci spieghi meglio.

Per l’Italia sarebbe importante avere una presenza a Tripoli in caso di missione. Abbiamo investito per anni con la presenza militare e con il contatto costante con le autorità locali. Abbiamo conoscenza della situazione, e la città è favorevole nei nostri confronti. Qualora partisse un impegno internazionale, dovremmo essere in grado di farci assegnare come settore non una parte desertica, ma la linea di costa che da Tripoli arriva fino alla frontiera tunisina. A metà strada c’è lo snodo di Mellitah da cui parte il Greenstream, un gasdotto da cui in passato arrivava il 25% del nostro rifornimento energetico, ora ridotto all’8%. È importante inoltre essere presenti dove sono gli impianti dell’Eni, compreso nel Fezzan. Tra l’altro, la linea di costa tra Tripoli e la Tunisia è quella utilizzata dai trafficanti di esseri umani. La presenza nella zona garantirebbe deterrenza e repressione di tale attività.

Per l’embargo delle armi, pare ormai probabile prima di tutto il rilancio della missione europea Sophia. Potrebbe funzionare?

Nella sua terza e quarta fase, la missione Sophia doveva proiettare la sua presenza nelle acque territoriali libiche e sulla costa del Paese nordafricano, proprio al fine di intervenire contro i trafficanti. Si è però fermata alla sua seconda fase, cioè al controllo in alto mare. Se messa a sistema con una presenza di forze sul terreno, ora potrebbe riuscire ad avanzare come non è riuscita a fare in passato.

In ogni caso, un intervento militare richiede il consenso delle forze libiche e il mandato dell’Onu. Giusto?

Non c’è ombra di dubbio. Serve l’egida delle Nazioni Unite. Non sono mai state eseguite operazioni di questo tipo senza il mandato dell’Onu. Solo in Libano nel 1981 si è utilizzata la formula dalla coalizione di volenterosi dopo l’operazione Pace in Galilea, ma era una situazione profondamente diversa. All’epoca, l’Onu non aveva maturato l’esperienza che ora ha acquisito grazie a Unifil in Libano.

E una missione con il cappello dell’Ue?

All’Unione europea farebbe molto comodo poter condurre un’operazione del genere. Permetterebbe di presentarsi come entità capace di condurre operazioni di pacificazione, ma non credo che possa farlo senza il mandato dell’Onu. Inoltre, per ragioni di prossimità, l’Ue ha troppi interessi in campo per ritagliarsi il ruolo di attore terzo. Diverso il caso in cui decidesse di imporre la pace e di intervenire senza il consenso delle parti in campo, ma è un’ipotesi remota e non si tratterebbe di interposizione ma di vera e propria guerra. Una politica poco credibile, tra l’altro ammesso che esista una politica estera e militare dell’Unione europea.

Perché all’inizio della nostra conversazione ha detto che “spera” che l’Italia partecipi a un’eventuale missione in Libia?

L’Italia è purtroppo stata cacciata dalla Libia. L’interventismo turco l’ha resa marginale, ed è un peccato alla luce dei rapporti importanti che il nostro Paese ha con i libici. Il nostro interesse andrebbe tutelato. Per questo, se si presentasse l’opportunità di un accordo tra Haftar e Serraj, non vedrei male un intervento italiano. In questo caso, l’Italia dovrebbe avere la forza di fare in modo che gli interessi nazionali siano condivisi dalla comunità internazionale, che sia l’Onu o l’Unione europea. Che non partano flussi incontrollati di migranti o che venga assicurato il rifornimento energetico non è un problema solo italiano.

I margini per farsi valere sembrano però pochi.

È vero. Bisogna vedere se gli interlocutori libici accetteranno una maggiore presenza italiana. Serraj ha già preferito i turchi a noi, mentre con Haftar abbiamo sempre avuto un rapporto altalenante avendo deciso di seguire la linea Onu. Eppure, abbiamo ora il dovere di non appoggiarci semplicemente alla comunità internazionale. L’Italia ha già pagato tanto per una guerra fatta contro i suoi interessi e sta continuando a pagare con una migrazione mal ripartita. Deve chiarire il suo diritto sacrosanto a far valere i suoi interessi prioritari.

 

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