GUERRA SENZA MILITARI, di Teodoro Klitsche de la Grange

GUERRA SENZA MILITARI

In un’intervista a “La verità” il segretario del Partito comunista Marco Rizzo, tra molte cose condivisibili, ha introdotto un tema il quale, quasi totalmente dimenticato, è riproposto dalla crisi pandemica. Ha detto Rizzo che “è evidente che oggi conta più un ospedale di un F-35 o di una corazzata. Una nazione che salvaguarda la sanità è strategicamente più avanzata”.

In effetti è nel pensiero costituzionale e filosofico che una costituzione – e più in generale l’organizzazione politica di uno Stato – è buona quando consente di affrontare e superare le emergenze (le guerre, in primo luogo) e che sono le crisi possibili a dover forgiare l’assetto dei poteri pubblici (v. Ludendorff).

Per fare un esempio, restando all’irenico (tardo) secolo XX, De Gaulle sosteneva la necessità dell’art. 16 della Costituzione della V Repubblica (i poteri eccezionali del Presidente) con i caratteri della guerra moderna (anche atomica).

Va da se che, come sostiene l’on.le Rizzo, in una crisi sanitaria, indipendentemente dalle cause (se naturali, o frutto di imperizia umana, o anche – ma è assai improbabile – per attacco batteriologico) carri armati e cannoni sono del tutto inutili a difendersi. Ma vaccini ed ospedali, di converso, sono le casematte della difesa sanitaria.

In un libro di oltre vent’anni fa, due (allora) colonnelli cinesi descrivevano le nuove forme di guerra: commerciale, finanziaria, economica, informatica (e così via) tutte connotate da avere lo stesso scopo della guerra “classica” – e cioè quello di costringere il nemico a fare la nostra volontà (Clausewitz e Gentile), ovvero accrescere la nostra potenza, e dal non far uso della violenza, ma d’altri mezzi, denominandole così “operazioni di guerra non militari”. Per combattere le quali i mezzi militari servono a poco. Anche perché possono causare una pericolosa escalation.

Ai fini dell’influenza delle possibili crisi sulla conformazione delle istituzioni pubbliche la causa (naturale od umana) della stessa è poco o punto influente. Decisivo è che queste siano attrezzate a difendere la comunità che in esse si organizza per proteggersi.

Ed è proprio questa una ragione decisiva per mantenere, almeno in parte, lo Stato sociale del XX secolo. In questo l’Italia si è dimostrata (largamente) impreparata e quindi vulnerabile; l’Europa poco meglio. In fondo dai dati disponibili sulla pandemia, lo Stato più efficiente è stato Israele, preparatissimo a far guerra e a difendere la popolazione. Al contrario di gran parte dei governanti europei, per quelli d’Israele (compresi i governati) l’emergenza non è un oggetto riposto negli archivi della storia, ma una possibilità reale. Ossia proprio quello che popoli abituati a considerare il progresso come un dato acquisito ed immodificabile, e i quattro cavalieri dell’apocalisse dei pensionati del medesimo, non riescono più a concepire né affrontare. Tra i pochi effetti non negativi della crisi, un tuffo nella realtà non è da disprezzare.

Teodoro Klitsche de la Grange

Il maglio giudiziario, di Giuseppe Germinario

Il caso Amara e il caso Palamara, nella loro rapida successione, hanno portato alla luce del sole l’evidenza di quanto sino ad ora intuito: anche la magistratura è campo di azione politico, oggetto di scontro politico per il suo esercizio; è costituita da soggetti politici partecipi non solo nel loro ambito operativo ma anche attivi nell’agone politico generale sia con strutture istituzionali ed associative formalmente riconosciute che per il tramite di gruppi informali. Sul criterio della separazione dei poteri sembra ormai prevalere quello della divisione e della compartecipazione soprattutto in questa fase di crisi e ristrutturazione degli assetti.

Prima però di dilungarsi su questo tema così delicato e su di un aspetto particolare ma cruciale di esso occorrono però alcune precisazioni necessarie a contestualizzare il merito di quanto scritto:

  • l’azione della magistratura nell’esercizio delle sue funzioni è per sua natura destabilizzante e distruttiva in quanto agisce su singoli attori o al massimo su gruppi o settori della società, segno tra l’altro che non sempre l’azione del magistrato è individuale, ma spesso e volentieri orientata e coordinata; costringe quindi gli attori politici con funzioni “costruttive” a riposizionarsi negli spazi, nei comportamenti e nei rapporti di forza diversamente disposti

  • la magistratura è organizzata secondo il criterio dell’ordinamento, in assenza quindi di una rigida struttura gerarchica. Ragion per cui il singolo magistrato, tuttalpiù le singole procure e strutture giudicanti godono almeno formalmente di “completa autonomia e indipendenza”

  • in ambito penale l’attività giudiziaria è regolata dall’obbligatorietà dell’azione; criterio che vieterebbe la selezione gerarchica, nei tempi e nei mezzi utilizzati, dei vari procedimenti

  • l’attività del magistrato, specie nella fase inquirente, è resa possibile ed è inevitabilmente condizionata dagli input forniti da soggetti politici “costruttivi” quali sono gli organi di informazione, organi di polizia, servizi di intelligence, uomini di apparato e singoli cittadini motivati in senso lato politicamente. Di solito nelle fasi di normalità o di gestione controllata delle dinamiche tale influenza si esercita con isolate eccezioni sotto traccia e discretamente; in quelle di crisi acuta o marcescenti emergono nella loro invasività e virulenza. Un esempio tra i tanti, gli evidenti e ormai conclamati legami e condizionamenti di settori dei servizi di intelligence nazionali e americani operati su alcuni magistrati propedeutici allo scoppio di Tangentopoli, alla defenestrazione di un intero ceto politico governativo e di potere, alle dismissioni e privatizzazioni gestite scelleratamente da quello surrogato in posizione servile e raffazzonata.

Gli indirizzi espressi nel secondo e terzo punto hanno lo scopo dichiarato di garantire al meglio l’imparzialità del magistrato e la parità di trattamento del cittadino; in effetti in particolari ambiti e tempi ci si è avvicinati a questo obbiettivo che più che di imparzialità si potrebbe definire di maggiore considerazione delle parti più deboli individualmente della società.

Al pari di qualsiasi sistema di relazioni e di apparati anche quello della magistratura ha conosciuto fasi ascendenti di funzionamento e fasi discendenti di decadenza e progressiva degenerazione. Le sue modalità di funzionamento ed organizzazione non possono certo impedire l’esercizio dell’impegno e del conflitto politici, proprio per la funzione di indirizzo e di collante che consustanzialmente il “politico”deve esercitare nei vari ambiti di azione umana; ne condizionano certamente però le modalità di esercizio, specie nella magistratura inquirente, sia all’interno, sia all’esterno di essa, sia ancora nelle intricate interrelazioni.

La gerarchizzazione approssimativa dell’ordinamento, la mancanza di un esplicito prevalente rapporto di indirizzo esterno dell’attività giudiziaria, in particolare di quella inquirente, ha determinato al suo interno la formazione e frammentazione di centri di potere e decisionali ostentatamente autonomi e sempre più in conflitto tra di essi, con per di più un armamentario di strumenti disponibili peculiari della categoria, ma così dirompenti nei loro effetti; ha consentito a questi nuclei di tessere, di inserirsi o di essere assorbiti più autonomamente in reti di relazioni e centri decisionali; ha creato infine le condizioni per assumere un ruolo e una capacità di influenza abnormi ormai consolidato e difficilmente scalfibile.

L’esercizio fluido del potere esige il funzionamento corretto e coordinato dei vari centri di potere, in particolare di quelli istituzionali, nella diversità delle loro funzioni; l’incisività dei vari centri strategici in conflitto e cooperazione tra di essi dipende soprattutto dalla capillarità della loro presenza in quelli istituzionali. Quando per un qualche motivo l’equilibrio dinamico viene sconvolto, mettendo per lo più in crisi il funzionamento di uno o più di questi centri di potere, in qualche modo si sopperisce alla crisi sovraccaricando altri settori con tutte le distorsioni che ne conseguono specie in caso di protrazione indefinita delle condizioni di emergenza. È quello che sta avvenendo negli Stati Uniti con l’avvento e la defenestrazione di Trump; è quello che sta avvenendo in Italia sino ad incancrenirsi da ormai circa trenta anni con la crisi focalizzata nel ceto politico governativo e progressivamente nel ceto di controllo e gestione degli apparati.

La crisi al e del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura) è il portato di queste dinamiche. Sequenze dettate dagli imprevisti e dalle incognite di uno scontro politico così acceso e cadenzate da soggetti non necessariamente consapevoli viste le modalità altamente sofisticate di condizionamento e influenza delle azioni.

Ma passiamo al punto centrale di questo articolo.

Se esiste un ambito di azione dell’attività dei magistrati dove sono più evidenti queste implicazioni, questo è l’agone internazionale. Non è un caso quindi che la crisi sia deflagrata sui procedimenti giudiziari a carico di dirigenti dell’ENI impegnati nelle attività all’estero, nella fattispecie in Nigeria, risoltisi con l’assoluzione.

Certamente il punto centrale della crisi non riguarda il carattere informale dei comportamenti nel CSM al riguardo. A qualunque livello dell’attività politica, compreso gli organi della magistratura, i rapporti informali sono altrettanto se non più importanti di quelli formali nel preparare e portare avanti le decisioni, nel determinare le posizioni di potere. Né lo sono le rivalità personali legate al consolidamento o alla minaccia alle posizioni di potere stesse nelle procure e nel CSM.

Le stesse rivalità in seno alla dirigenza dell’ENI, in particolare tra gli amministratori delegati Scaroni e Descalzi, le quali avrebbero alimentato e fornito pretesti al proseguimento dell’inchiesta, sono il portato di dinamiche molto più grandi e complesse che vedono esposta una azienda a caccia sempre più in proprio di coperture internazionali data la crescente evanescenza del peso geopolitico dello Stato che dovrebbe tutelarla, coprirla ed indirizzarla.

L’attività legale, i procedimenti giudiziari, la stessa giurisdizione internazionali hanno delle implicazioni e godono di una aleatorietà tali da innescare pesanti dinamiche geopolitiche e politiche che prescindono dall’esito stesso delle sentenze. Quello geopolitico è un ambito privilegiato per cercare di individuare al meglio il ruolo della giustizia e dei magistrati; ambito che va esaminato sulla base di alcune premesse.

Parlare intanto di diritto internazionale è improprio in quanto il fondamento di queste, ad eccezione parziale dell’ambito dei diritti umani, sono i trattati e non un corpo di leggi; l’adesione a questi e agli organismi internazionali preposti alla gestione, l’applicazione e il rispetto delle norme sono continuamente oggetto di trattative, deroghe e violazioni in realtà difficilmente sanzionabili universalmente; laddove si è riusciti a istituire delle corti, come nell’ambito dei diritti umani, queste corti non hanno potestà su tutti i paesi e paradossalmente viene utilizzato il loro dispositivo da paesi, come gli Stati Uniti, che non vi aderiscono, almeno sino a quando utili al loro esercizio di potenza. L’ultimo esempio clamoroso in tal senso è stato il processo a Milosevic, conclusosi tra l’altro con qualche dubbio sulle cause di morte dell’imputato. Si tratta in realtà di una coperta corta utilizzata dagli stati egemoni al momento in auge a sanzione dei rapporti di forza e degli interventi intromissori. Una aleatorietà che lascia ampi margini di azione agli Stati e alla pletora di associazioni e ONG che fungono da complemento. Ai dispositivi giudiziari internazionali manca comunque il supporto fondamentale di una forza di polizia alle dirette dipendenze, impossibile da realizzare per l’assenza di un governo e di una organizzazione statuale mondiale, al momento scritta solo nel libro dei sogni.

Più interessante è la valutazione dell’azione dei corpi giudiziari nazionali nell’agone internazionale.

L’ambito penale e dirittoumanitarista è quello che si presta maggiormente alla manipolazione indiretta tesa a logorare e condizionare la collocazione geopolitica di un paese. Il caso Regeni è emblematico da questo punto di vista per la direzione unilaterale delle indagini, sia per la permeabilità alle manipolazioni esterne e alle campagne propagandistiche, nella fattispecie di matrice anglosassone. Azioni che tendono a pregiudicare e delimitare ulteriormente il nostro ruolo nel Mediterraneo.

Molto più diretto ed articolato è l’uso del diritto in ambito geoeconomico sino a diventare un vero e proprio sofisticato strumento di guerra economica e confronto geopolitico. Soprattutto in ambito economico l’adozione di un modello giurisprudenziale, nella fattispecie quello anglosassone, rappresenta la sanzione della superiorità egemonica di un paese e il tentativo di protrazione di questa per inerzia anche in una fase di incrinatura e di relativa decadenza della sua capacità di dominio. L’adozione di tali modelli apre la strada al radicamento di studi professionale avvezzi a quelle procedure, alla individuazione di sedi di definizione di controversie solo apparentemente neutrali, alla formazione di gruppi lobbistici sempre più influenti, alla circolazione di conoscenze, dati riservati e quant’altro le quali regolarmente affluiscono nelle case madri degli studi legali e da esse verso i centri di potere politici e politico-economici. La proliferazione di studi legali americani nel modo, specie nell’area occidentale, non è certo casuale e politicamente neutra; è sufficiente analizzare il corollario sviluppatosi attorno alle controversie di giganti come Airbus e Bayer per avere una idea delle dimensioni del fenomeno. La corruzione, la violazione delle regole della concorrenza, il mancato rispetto dei vincoli finanziari e debitori, la violazione dei brevetti sono le costanti di tali azioni.

Il principio della extraterritorialità è invece il fattore decisivo in grado di far compiere il salto di qualità alla efficacia delle azioni giudiziarie dei paesi. In senso masochistico ai paesi scarsamente in grado di applicarlo, in senso proattivo agli altri. L’Italia primeggia, manco a dirlo, tra i primi, gli Stati Uniti in assoluto, con la Cina come neofita ed aspirante, tra i secondi.

La base di questo principio viene posta dal lontano caso Lockeed che investì negli anni ‘70 numerosi paesi, tra i quali gli Stati Uniti, l’Italia, il Giappone, l’Olanda. Sull’onda di indignazione sollevata dallo scandalo, gli Stati Uniti in prima battuta, seguiti pedissequamente con grande solerzia da gran parte degli stati europei e dal Giappone, vararono leggi che penalizzavano le proprie imprese implicate in azioni di corruttela. Con il passare del tempo, ma in pochissimi anni, i centri decisionali americani si accorsero della discriminazione e del danno arrecato alle proprie aziende con un intervento in esclusiva. Estesero così progressivamente il campo sanzionatorio a tutte le imprese intrattenitrici di rapporti con paesi implicati in casi di corruzione, ma anche con quelli vittime di provvedimenti anche unilaterali di sanzioni per violazione dei diritti umani, per fomentazione del terrorismo (Iran), per minaccia alla “coesistenza pacifica” o per insolvenza debitoria (Argentina), comprese quelle straniere che in qualche maniera utilizzassero servizi e componenti produttivi americani. A cotanto zelo non hanno saputo resistere molti paesi, prima fra tutti l’Italia. Ma quello che per gli Stati Uniti è diventato via via uno strumento offensivo temibile e sempre più perfezionato nel conflitto geoeconomico e geopolitico, per l’Italia si è rivelato uno zelo autolesionistico di rara efficacia e perseveranza. Agli Stati Uniti è bastato ostacolare l’accesso ai propri servizi finanziari, al proprio bagaglio tecnologico e al proprio mercato interno per “correggere” i comportamenti riottosi e allineare le politiche governative e aziendali ai propri disegni; l’Italia non ha questa capacità geopolitica e nemmeno quella di determinare o contribuire a fissare gli standard di mercato e commerciali. La conseguenza è che gli Stati Uniti hanno concentrato in casa altrui le attenzioni e affibbiato l’80% dei provvedimenti sanzionatori ad aziende straniere riuscendo in qualche maniera a condizionare a proprio favore i comportamenti generali all’interno della propria sfera di influenza e a condizionare pesantemente quella dei competitori ed degli avversari dichiarati; l’Italia ha concentrato tutte le sue attenzioni verso le proprie aziende e a rivolgere gli strali più pesanti verso le proprie aziende pubbliche. La pletora di indagini e provvedimenti giudiziari ai danni di ENI, Leonardo e Finmeccanica per le loro attività estere, spesso conclusi con un nulla di fatto dopo anni di indagini e processi, hanno sconvolto le strategie aziendali in settori strategici, hanno minato profondamente la credibilità e l’affidabilità internazionale di queste e del paese stesso, hanno arrecato danni economici e politici enormi specie nell’area operativa mediterranea e subsahariana, hanno spinto queste aziende ad intensificare per proprio conto i legami politico-economici con paesi stranieri geopoliticamente più attivi indebolendo quelli con la casa madre. Tanto per non farci mancare niente, non è nemmeno l’unico campo dove si è entrati giudiziariamente con la grazia di un elefante in un negozio di cristalli sino a scombussolare assetti e reti operative: basterebbe seguire le peregrinazioni giudiziarie di tanti vertici dei servizi di informazione in quest’ultimo trentennio. In questo quadro, azzardare l’ipotesi di una particolare permeabilità degli ambienti giudiziari a questi disegni e a queste dinamiche ed esercizi di influenza e manipolazione non è poi così peregrina, a prescindere dalla consapevolezza e dalla correttezza di comportamento dei singoli magistrati. Servirebbe anche ad inquadrare con maggior respiro conflitti istituzionali gravissimi e feroci presentati dagli organi di informazione per lo più come deplorevoli beghe di bottega dal sapore corporativo. Queste naturalmente esistono, ma assumono l’aspetto del contenzioso tra i polli di Renzo, se non peggio.

Stati Uniti! Aggrappati al potere, lontani dalla realtà_con Gianfranco Campa

La NATO ha avviato esercitazioni a ridosso della Russia coinvolgendo soprattutto i paesi dell’Europa Orientale e interessando anche l’area del Mar Nero.

Alle esercitazioni partecipano militari dell’Ucraina e della Georgia, sostenute dagli Stati Uniti ma non appartenenti alla NATO. Una vera e propria provocazione nei confronti della Russia. Un ulteriore fattore di instabilità in uno scenario che vede il proliferare incontrollato di conflitti aperti in Medio Oriente, di inediti attriti al limite dell’incidente militare tra alleati, nella fattispecie tra Turchia, Francia e Italia; un peggioramento brusco delle relazioni diplomatiche tra alleati storici (Stati Uniti e Messico). Una situazione caotica cui corrisponde una situazione interna agli Stati Uniti nella quale l’amministrazione Biden non sembra avere il controllo della situazione e nemmeno una percezione accettabile della realtà. Una condizione ben lontana dal siparietto offerto dai nostri organi di informazione. L’opposizione pare invece radicarsi sempre più nella società e in settori della pubblica amministrazione e dello Stato. Lo stesso Trump pare essere una pedina importante del movimento alternativo, continua a subire le attenzioni faziose degli avversari, ma non è più il soggetto indispensabile alla sopravvivenza del movimento_Buon ascolto, ne vale proprio la pena_ Giuseppe Germinario

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QUALCHE SPUNTO DI SCHMITT PER IL XXI SECOLO, di Teodoro Klitsche de la Grange

QUALCHE SPUNTO DI SCHMITT PER IL XXI SECOLO

1.0 Per interpretare la situazione politica presente è tuttora di attualità il pensiero di Carl Schmitt; a prescindere dai tanti spunti che possono trarsene, al presente sono particolarmente interessanti alcune tesi sostenute dal pensatore di Plettemberg tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’60, assai prima dell’“epoca” contemporanea, successiva al collasso del comunismo, all’ “aumento” della globalizzazione (e alla morte del giurista).

2.0 In primo luogo è opportuno – per spiegare l’incremento straordinario qualche anno dopo il collasso del comunismo dei partiti popul-sovran-identitari – ricordare quanto scrisse nel discorso Das zestalter der neutralisierung und ent politisierungen1 (del 1929).

Sostiene Schmitt in tale scritto che la vita spirituale europea si è sviluppata negli ultimi quattro secoli (cioè nella modernità) cambiando centri di riferimento (dal teologico al metafisico, da questo al morale-umanitario e infine all’economico) “Una volta che un settore diviene il centro di riferimento, i problemi degli altri settori vengono risolti dal suo punto di vista e valgono ormai solo come problemi di secondo rango la cui soluzione appare da sé non appena siano stati risolti i problemi del settore centrale. Così, per un’epoca teologica tutto procede da sé, una volta ordinate le questioni teologiche; su tutto il resto allora gli uomini «saranno d’accordo». Lo stesso per le altre epoche”2.

Tale centro si riferimento è decisivo e prevalente “Lo Stato acquista la sua realtà e la sua forza dal centro di riferimento delle diverse epoche poiché i temi polemici e decisivi dei raggruppamenti amico-nemico si determinano proprio in base al settore concreto decisivo”3. Dopo il collasso del comunismo l’ultima scriminante del “politico” (ossia quella tra borghesia e proletariato) è venuta meno. Fukuyama scriveva che, dopo la vittoria delle liberaldemocrazie, era arrivata la fine della storia. Previsione sbagliata perché presuppone l’esaurirsi di ogni ragione di conflitto; cosa impossibile perché l’elemento del conflitto e della lotta (Machiavelli e Duverger tra i tanti) è un presupposto del politico ad esso connaturale (Freund). Pensare che l’uomo, zoon politikon, possa esistere senza una dimensione politica, presuppone cambiarne la natura, ossia quello che il giovane Marx pensava di poter fare ed è – invece – risultato impossibile.

Piuttosto alla scriminante borghese/proletario se n’è sostituita un’altra diversa. Il passaggio tra una scriminante amico/nemico e la successiva, scriveva Schmitt, ha un effetto politico decisivo: “La successione sopra descritta – dal teologico, attraverso il metafisico e il morale, fino all’economico – significa nello stesso tempo una serie di progressive neutralizzazioni degli ambiti dai quali successivamente è stato spostato il centro”. In tale processo “Quello che fino allora era il centro di riferimento viene dunque neutralizzato nel senso che cessa di essere il centro”, ma nel contempo e progressivamente “si sviluppa immediatamente con nuova intensità la contrapposizione degli uomini e degli interessi, e precisamente in modo tanto più violento quanto più si prende possesso del nuovo ambito di azione. L’umanità europea migra in continuazione da un campo di lotta ad un terreno neutrale, e continuamente il terreno neutrale appena conquistato si trasforma di nuovo, immediatamente, in un campo di battaglia e diventa necessario cercare nuove sfere neutrali” (i corsivi sono miei).

Che appare proprio quanto successo negli ultimi trent’anni. Dopo una (breve) fase in cui si pensava la globalizzazione “post-comunista” come ad una era stabile e “pacifica”, stante l’egemonia planetaria degli USA, s’intravedevano i primi scricchiolii da distribuire equamente in due categorie: le guerre umanitarie e, ancor più, l’emergenza di antagonisti – nemici – dell’ordine globalizzato. Ambedue convergenti nel confortare la tesi che la storia – e i conflitti – fossero tutt’altro che finiti. Quanto alle guerre “umanitarie” per lo più denominate in inglese e qualificate come operazioni di polizia internazionale, a parte le definizioni rimanevano guerre comunque; e neppure granché apprezzabili secondo le intenzioni esternate, giacché già quattro secoli fa Francisco Suarez metteva in guardia da guerre del genere. In ordine al nemico dell’“ordine nuovo”, in un primo tempo il fondamentalismo islamico, il tutto provava che un ordine, per quanto auspicabile, non può prescindere dal fatto che qualche gruppo di uomini non lo apprezzi, e in misura così intensa da arrivare (sempre) a combatterlo politicamente, e nei casi estremi, con le armi.

3.0 Era così evidente che l’“ordine nuovo” stava generando dialetticamente nuove ostilità, nuovi nemici e nuovi conflitti.

Rimaneva, e in parte rimane, poco chiaro su quale centro di riferimento spirituale si fondi la contrapposizione, interna all’occidente euroatlantico, tra populisti e globalisti. Quello che invece è chiaro – e può servire ad individuare il centro di riferimento è che sovran-popul-identitari da un lato e globalisti dall’altro fanno riferimento a coppie di valori/idee contrapposti che elenchiamo (senza pretesa di essere esaurienti):

NAZIONE/UMANITÁ

ESISTENTE/NORMATIVO

COMUNITÁ/SOCIETÁ

INTERESSE NAZIONALE/INTERESSE GLOBALE

Dei quali la prima colonna si riferisce al sovran-populismo, la seconda alla globalizzazione.

È appena il caso di citare qualche esempio. Per esistente/normativo mi permetto di rinviare a quanto da me scritto sulla Costituzione ungherese4. Quanto alla contrapposizione comunità/società è meno evidente ma comincia ad emergere dalle dichiarazioni costituzionali dei paesi “sovranisti” (v. le Costituzioni polacca e ungherese).

Che il termine a quo e ad quem di questi sia la Nazione e non l’umanità è del tutto evidente e non ha necessità di spiegazioni.

Quando all’interesse nazionale, come obiettivo di governo è anch’esso evidente, a parte le recenti vicende della Diciotti e del Ministro degli interni Salvini, che l’hanno riportato al centro del dibattito politico. E si potrebbe parlare di un “rieccolo” perché è sempre stato la bussola dello Stato moderno (e delle sintesi politiche antiche).

A trovare una frase che sintetizzi in poche parole la posizione dei sovranisti non si può che risalire all’affermazione di Sieyès “La Nazione è tutto quello che può essere per il solo fatto di esistere”5. Affermazione che scandalizza sicuramente un globalista.

4.0 La seconda concezione da prendere in esame per la valutazione della situazione politica contemporanea è quella che emerge, tra gli scritti di Schmitt, da “Terra e mare”. Fondamento di tale scritto è che l’esistenza umana è determinata dallo spazio in cui vive, dalla percezione che ne ha e dalle opportunità che offre. Pertanto questo determina o co-determina i rapporti politici, economici e sociali. In particolare il diritto. Scriveva Maurice Hauriou che il diritto conosciuto, elaborato, applicato dai giuristi è quello di società sedentarie, basate sul rapporto con la terra (e così, anche con il territorio come elemento dell’istituzione politica, in particolare – ma non solo – dello Stato moderno). Mentre il giurista francese contrapponeva le società sedentarie a quelle nomadi e spiegava gran parte degli istituti delle prime col rapporto con la terra e con un’esistenza orientata alla produzione regolare, Schmitt approfondiva la diversità tra esistenza marittima ed esistenza terreste, e in particolare che “la storia universale è una storia della lotta della potenza del mare contro la potenza della terra…”.

La novità nella storia moderna, sosteneva Schmitt, è che la Gran Bretagna, nel XVI secolo, si decise per un’esistenza marittima, assai più di come avevano fatto in altre epoche potenze marittime come Atene o Venezia ed in parte, anche Cartagine. Da ciò derivò l’espansione commerciale (ed industriale) inglese6.

Questo fatto era considerato da Schmitt determinante sia per il diritto internazionale che per l’assetto politico europeo westphaliano. L’equilibrio che ne derivava, conseguiva da quello di terra e mare (potenze continentali e potenza marittima) e tra stati europei. Nessuna delle quali era in grado di egemonizzare le altre, perché non avrebbe avuto la forza di imporsi ad una loro coalizione, un po’ come Machiavelli notava per gli Stati italiani (e dell’equilibrio tra gli stessi) della sua epoca. In questo senso la sovranità degli Stati, costruita intorno alla parità giuridica degli stessi – prescindendo dalla parità di fatto, aveva un certo senso, proprio perché la parità di fatto tra gli stessi – o almeno tra i maggiori – non era tanto lontana; e, d’altra parte la disparità poteva essere compensata con un’accorta politica di alleanze (e all’inverso di neutralità).

Il tutto entrava in crisi con il XX secolo; sosteneva Schmitt che “nel diritto internazionale le idee generiche ed universalistiche sono le armi tipiche dell’interventismo”7; e che “Una concezione giuridica coordinata ad un impero sparso su tutta la terra (ossia quello britannico) tende naturalmente ad argomenti universalistici”8

Nello scritto “Grande spazio contro universalismo”9, il giurista di Plettemberg ribadisce, con riferimento alla dottrina Monroe, la contraddittorietà dell’interpretazione universalistica all’enunciazione originaria della suddetta dottrina. Scrive Schmitt “È essenziale che la dottrina Monroe resti autentica e non falsificata, fintantoché è fissa l’idea di un grande spazio concretamente determinato, nel quale le potenze estranee allo spazio non possono immischiarsi.

Il contrario di un siffatto principio fondamentale, pensato a partire dallo spazio concreto, è un principio mondiale universalistico, che abbraccia tutta la terra e l’umanità. Questo conduce naturalmente a intromissioni di tutti in tutto. Mentre l’idea dello spazio contiene un punto di vista della delimitazione e della divisione e per questo enuncia un principio giuridico ordinatore, la pretesa universalistica di intromissione mondiale distrugge ogni delimitazione e distinzione razionale10 (il corsivo è mio).

Ciò ha fatto sì che si è convertito “un principio di non ingerenza concepito spazialmente in un sistema generale di intromissione delocalizzata” e così è diventato uno strumento ideologico della democrazia e “delle concezioni con essa collegate, in particolare del “libero” commercio mondiale e del “libero” mercato mondiale, al posto dell’originario e vero principio Monroe”11. Combinando all’uopo status quo e pacta sunt servanda, “cioè un semplice positivismo contrattuale”, con i principi ideologici del liberalcapitalismo.

Il risultato complessivo è che la dottrina Monroe, come interpretata negli anni tra le due guerre mondiali da la misura “della contrapposizione fra un chiaro ordinamento spaziale che poggia sul principio fondamentale del non intervento di potenze estranee allo spazio a fronte di un’ideologia universalistica, che trasforma tutta la terra nel campo di battaglia dei suoi interventi e intralcia il passo ad ogni crescita naturale dei popoli viventi12 (il corsivo è mio).

La situazione oggi è diversa: l’evoluzione dell’ordinamento internazionale con l’ONU (e la Carta dell’ONU), il divieto dell’uso della forza (v. art. 2, 4 della Carta dell’ONU), i poteri del Consiglio di sicurezza, la dottrina della “responsabilità di protezione”, le operazioni di peacekeeping e soprattutto la “difesa dei diritti umani” (e non solo) hanno complicato la situazione.

A cosa può servire la lezione di Carl Schmitt e, in particolare, la dottrina dei “grandi spazi”?

Sembra di poter rispondere che due concezioni (esplicite ed implicite alla stessa) e comunque intersecantesi possono essere utilmente applicate.

La prima delle quali è il realismo politico in relazione al concetto di sovranità. Come scrive il giurista tedesco, il problema della sovranità, probabilmente il principale, è conciliare l’aspetto politico con quello giuridico.

Se infatti il connotato distintivo della sovranità è l’assolutezza giuridica (non essere condizionato dal diritto ma esserne “al di sopra”)13, occorre coniugarla con i limiti di fatto. Come scrive Schmitt “Nella realtà politica non esiste un potere supremo, cioè più grande di tutti, irresistibile e funzionante con la sicurezza della legge di naturaLa conciliazione del potere supremo di fatto e di diritto costituisce il problema di fondo del concetto di sovranità. Da qui sorgono tutte le difficoltà”14 (il corsivo è mio). Altro infatti è la sovranità degli U.S.A. o della Cina, altro quella di S. Marino o del Liechtenstein. Trasposto nella situazione contemporanea, questo significa che mentre si censurano – giustamente – le violazioni dei “diritti umani” o il genocidio (ad esempio dei curdi in Iraq) e si parte per la “guerra giusta” ai ruandesi o a Saddam, ci si guarda bene dal fare la guerra a Putin per il Dombass o la Crimea e così alla Cina per Hong-Kong. Da notare che, mentre Hong-Kong è sotto sovranità cinese – e almeno può valere il carattere classico territoriale di questa – non è così per i citati territori nell’Europa orientale, entrambi – prima di annessioni ed occupazioni – facenti parte dell’Ucraina; la quale ha così subito una violazione della (propria) sovranità – al contrario della Cina. A questo punto, dati i “due pesi, due misure” c’è da chiedersi se non valga, come criterio di comportamento e decisione concreta, quello del “grande spazio”: mentre alla Russia è stato (di fatto) riconosciuto l’intervento in una repubblica prima facente parte dell’URSS, cioè del proprio “grande spazio”, lo stesso non è stato esercitato per proteggere popolazioni, diritti umani, e nel caso dell’Ucraina, l’integrità territoriale.

Per cui il realismo intrinseco alla concezione schmittiana (registra) e regola molto più che l’idealismo di quello15.

La seconda concezione che appare alla base del concetto di “grande spazio” è quella che collega il concetto di potenza (e di potere) di Max Weber e il “diritto” inteso qui come ordine. Scrive Weber definendola, che “la potenza designa qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte ad un’opposizione, la propria volontà”16. Nell’uso corrente fino a qualche decennio orsono erano chiamati potenze gli Stati, almeno quelli capaci di esercitare il comando all’interno e così tutelare la propria indipendenza, anche senza (o con minima) egemonia politica esterna. In termini fattuali è la capacità di far valere la propria volontà che determina l’essere potenza.

La quale applicando la formula di Spinoza tantum juris quantum potentiae determina i limiti fattuali delle potenze e quindi della capacità giuridica di esercitarli. Come scriveva il filosofo olandese “Se dunque la potenza per cui le cose naturali esistono e operano è la medesima potenza di Dio, è facile capire che cosa sia il diritto naturale. “… Per diritto naturale io intendo dunque le stesse leggi o regole della natura, secondo le quali ogni cosa accade, vale a dire, la stessa potenza della natura; perciò il diritto naturale dell’intera natura, e conseguentemente di ciascun individuo, si estende tanto quanto la sua potenza17 (i corsivi sono miei). E nell’ambito del “grande spazio” è relativamente facile per la potenza egemone esercitarla. Del pari, per lo più, ha l’interesse a farlo, per le connessioni e i rapporti che la congiungono ai propri vicini o satelliti. Rispettare i quali è la condizione perché si consegua facilmente uno stato di pace. Assai più che cercare di imporre un’unità del mondo, senza che tale unità si possa conseguire in pace con l’unico modo storicamente possibile: mantenendo il pluriverso, conforme all’assetto d’interessi, potenze e rayas.

Cioè limitandolo e determinandolo con criteri oggettivi e facilmente percepibili ed applicabili. Perché come scriveva Schmitt, l’unità del mondo non è l’unità dell’ecumene, ma “della organizzazione unitaria del potere umano, il cui scopo sarebbe pianificare, dirigere e dominare la terra e l’intera umanità. È il grande problema se l’umanità è già matura per sopportare un solo centro del potere politico”.

Che vi sia una religione, una teologia di sostegno a un tale ipotetico centro, la quale abbia capacità di resistenza ad obiezioni e critiche elementari, Schmitt non lo crede. Non l’ideologia del progresso, dato che progresso tecnico e morale “non camminano insieme” (né tra i governanti, né tra i governati). Né può confortare il razionalismo, non foss’altro – aggiungo – perché vale sempre il giudizio di De Maistre che l’uomo “per il fatto di essere contemporaneamente morale e corrotto, giusto nell’intelligenza e perverso nella volontà, deve necessariamente essere governato” (onde la ragione non basta); oltretutto il progresso tecnico ha l’inconveniente di accrescere il potere del governo. Come scriveva Goethe “è pericoloso per l’uomo ciò che, senza farlo migliore, lo rende più potente”18. E non la si vede neppure oggi che in quel (tentativo/progetto) di unità del mondo stiamo ancora, anche se ormai pare volgere al tramonto. Dietro l’unità di un mondo dominato dalla potenza vittoriosa nella contrapposizione borghese/proletaria, occorre riconoscere che il pensatore di Plettemberg aveva visto bene il futuro politico: una nuova contrapposizione amico-nemico, una costante dicotomia terra/mare, una pace attraverso l’equilibrio di (e tra) grandi spazi. Cioè tutto il contrario di quanto diffuso dalla propaganda mainstream.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 Trad. it. ne le Categorie del politico Bologna 1972 p. 167 ss.

2 Op. cit. p. 172

3 E prosegue “Finché al centro si trovò il dato teologico-religioso, la massima cujus regio ejus religio ebbe un significato politico. Quando il dato teologico-religioso cessò di essere il centro di riferimento, anche questa massima perdette il suo interesse pratico. Nel frattempo esso si è mutato, passando attraverso la fase della nazione e del principio di nazionalità (cujus regio ejus natio) , nella dimensione economica e ora dice: nel medesimo Stato non possono esistere due sistemi economici contraddittori; l’ordinamento economico capitalistico e quello comunistico si escludono a vicenda” op. cit. p. 172.

4 v. Attacco alla Costituzione ungherese in Nova Historica n. 67, anno 17, pp. 153-168, in particolare p. 164-165.

5 e continuando le citazioni dell’abate, tra le molte “Le nazioni della terra vanno considerate come individui privi di ogni legame sociale, ovvero, come si suol dire, nello stato di natura. L’esercizio della loro volontà è libero ed indipendente da ogni forma civile…Comunque una nazione voglia, è sufficiente che essa voglia; tutte le forme sono buone, e la sua volontà è sempre legge suprema…una nazione non può né alienare né interdire a se stessa la facoltà di volere; e qualunque sia la sua volontà, non può perdere il diritto di mutarla qualora il suo interesse lo esiga”

6 Anche Hegel sottolinea determinati diversi tipi di attività, e legando al mare lo sviluppo dell’industria e del commercio v. Lineamenti di filosofia del diritto, §247.

7 V. Il concetto di impero nel diritto internazionale, p. 27.

8 E prosegue “Una tale concezione non concerne uno spazio determinato ed unito né il suo ordinamento interno, ma in prima linea la sicurezza delle comunicazioni fra le sparse frazioni dell’impero”.

9 Trad it. Di A. Caracciolo in Posizioni e concetti, Giuffré, Milano 2007, pp. 491-503.

10 E prosegue “In effetto l’originaria dottrina Monroe americana non ha niente a che fare con i principi fondamentali ed i metodi del moderno imperialismo liberalcapitalistico. Come vera e propria dottrina dello spazio si trova anzi in pronunciata contrapposizione ad una trasformazione della terra in un astratto mercato mondiale del capitale senza tener in alcun conto lo spazio… Che una siffatta falsificazione della dottrina Monroe in un principio imperialistico del commercio mondiale fosse possibile, resterà per tutti i tempi un esempio impressionante dell’influenza inebriante di vuote parole d’ordine” Con l’interpretazione che ne dava W. Wilson “non intendeva all’incirca un trafserimento conforme del pensiero spaziale, non interventistico, contenuto nella vera dottrina Monroe, agli altri spazi, ma al contrario un’estensione spaziale ed illimitata dei principi liberaldemocratici alla terra intera ed a tutta l’umanità. In questo modo egli cercava una giustificazione per la sua inaudita ingerenza nello spazio extraeuropeo”, op. ult. Cit. pp. 493-494 (il corsivo è mio).

11 E continua che i due Roosevelt e Wilson avevano fatto “di un pensiero spaziale specificamente americano un’ideologia mondiale al di sopra degli Stati e dei popoli, essi hanno tentato di utilizzare la dottrina Monroe come uno strumento del dominio del capitale anglosassone sul mercato mondiale”

12 Op. ult. cit., p. 503.

13 Con la nota problematica su quanto l’assolutezza si applichi all’interno e quanto lo possa essere all’esterno, ossia nei riguardi dei soggetti di diritto internazionale (Stati e “ordinamento in fieri” già distinte da Bodin.

14 v. Der Begriff des Politischen, trad it. Di P. Schiera ora ne Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 44.

15 Idealismo, che in concreto, è spesso la fusione di interessi e paternostri.

16 Economia e società, trad. it. di T. Bagiotti, MIlano 1980, p. 51. Poco dopo scrive “ Per Stato si deve intendere un’impresa istituzionale di carattere politico nella quale – e nella misura in cui – l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima, in vista dell’attuazione degli ordinamenti” (p. 52).

17 Trattato politico, trad. it. di A. Droetto , Torino 1958, p. 161.

18 I passi ultimi citati sono tratti dal volume L’unità del mondo ed altri saggi, curato da A. Campi, A. Pellicani Editore, Roma 1994, pp. 303 ss. Schmitt scrive, proseguendo “L’unità mondiale di una umanità organizzata solo tecnicamente fu anche per Dostoievski un tremendo incubo. Questo incubo si aggrava via via che la tecnica cresce. E che rimedio è ancora possibile oggi, date le enormi possibilità tecniche e la crescente intensità del potere politico?” .

DDL Zan, ANALISI TECNICO GIURIDICA DEL TESTO di Andrea Venanzoni, giurista, a cura di Elio Paoloni

DDL Zan, ANALISI TECNICO GIURIDICA DEL TESTO
di Andrea Venanzoni, giurista
La polarizzazione del dibattito sul ddl Zan sembra aver eradicato qualunque ipotesi di analisi seria, e tecnica, sul testo: è scomparsa – sommersa da accuse di omofobia, da un lato, e di distruzione della famiglia, dall’altro, di razzismo e odio elevato a sistema versus limitazione della libertà di espressione – la possibilità di riflettere sine ira et studio sugli eventuali problemi che quel testo di legge potrebbe ingenerare laddove approvato.
Si sono costituiti due fronti, contrapposti, irriducibili alla discussione tra loro.
E se un dibattito viene ridotto ai minimi, e farseschi, termini di un kitsch mediatico di starlette che si pittano il palmo delle mani, in una consistenza mantrica da stakanovismo post-sovietico virato alle cause di cui nulla si sa e di cui nulla si è letto, e dall’altro lato la difesa della libertà di espressione, quella vera, quella autentica, profonda, sostanziale, viene sub-appaltata all’oltranzismo cattolico, cessa di essere dibattito, e diventa solo teatrino, scaramuccia rusticana al coltello per accontentare le rispettive claque.
Il ddl Zan, diciamolo subito, è un testo di legge pericoloso. Sì, pericoloso: ha una impostazione generale regressiva e panpenalistica, culturalmente orientata a rispondere a un problema, reale o potenziale che davvero sia, mediante la criminalizzazione generalizzata.
Arriviamo da decenni di retorica sulla necessità di fuggire dalla pena, di de-criminalizzare la società, di superare la sfera punitiva, e poi quello stesso mondo “culturale” che si atteggia a progressista sforna provvedimenti meramente segnaletici, simbolici, sloganistici, più tesi, si direbbe, ad una captatio benevolentiae nei confronti di un certo mondo elettorale piuttosto che mirante al contrasto reale di un fenomeno grave ma dai contorni, in chiave di definizione giuridica, liminali e confusi.
È noto come l’attuale disegno di legge origini dall’intreccio e dall’incrocio di cinque precedenti testi, ciascuno dei quali con differenti sensibilità concettuali sottese e con una serie di presupposti non del tutto omogenei gli uni con gli altri, finendo per integrare una mera, incoerente, sommatoria tra i vari, piuttosto che una razionale sintesi. Un testo unico complessivo, ma frammentario e oleografico del contrasto alla violenza di genere.
E d’altronde, già leggendo la serie di definizioni contenute in apertura del ddl appaiono concetti che esulano del tutto dall’orizzonte del diritto innervandosi invece nelle prospettive della psicologia, della antropologia, della sessuologia, concetti accademici su cui ferve dibattito e scarseggia univocità definitoria.
Primo grave problema, visto che il ddl Zan prevede sanzioni di natura penale e il diritto penale è governato da una serie di principii garantistici tra cui figura la determinatezza della fattispecie e della norma incriminatrice: in questa prospettiva la evanescenza delle definizioni, dei beni giuridici sottesi e protetti è maglia larga che finisce per irradiare la sfera di punizione al di là della mera attitudine criminale materiale, l’atto di violenza, per involgere, al contrario, anche espressioni concettuali ed opinioni vertenti su aspetti non univoci.
Cosa è mai, infatti, l’identità di genere se non un concetto su cui ferve un acceso dibattito in sede accademica? Davvero si può trasformare in presupposto concettuale di una sanzione penale un elemento su cui manca sostanziale concordia e univocità tra gli esperti e gli studiosi e su cui la Corte costituzionale, pur richiamata da Zan, non ha preso posizione strutturata?
Si tratta di una potenziale deriva molto grave perché si rimetterebbe poi la specificazione concreta all’aula del tribunale, trasformando il giudice in una sorta di demiurgo capace di infliggerci una pena, grave, sulla base di idee personali prive di una rispondenza organicamente e coerentemente giuridica.
D’altronde, leggendo in maniera spassionata e priva di pregiudizi la lettera d) dell’articolo 1 si sperimenta un fremito di paura nell’apprendere che una persona potrebbe essere chiamata a rispondere di un reato in riferimento a “percezione” e “manifestazione di sé” della “vittima”: discriminare non in senso fattuale e sulla base di presupposti acclarabili, anche in termini di evidenze probatorie, bensì sulla base di elementi da foro interiore, psichici, soggettivi, inconoscibili dal lato del presunto “aggressore”.
Che cosa potrà mai significare in termini di punizione penale e di integrazione della fattispecie di reato discriminare sulla base della percezione che l’altro ha di sé stesso in riferimento al genere?
Se un uomo, in maniera apparentemente convincente, dichiara di identificarsi con una donna, senza alcuna apparenza biologica o transizione e io nego questo aspetto, magari perché gestisco una palestra solo femminile e non posso farlo accedere, potrei finire sotto la scure della inquisizione penale perché, magari, la persona per altri motivi suoi depressivi finisce per uccidersi? Sarei io l’istigatore di quel suicidio?
Oppure, senza dover arrivare a questa tragedia, se dovesse lamentare semplici disturbi dettati dalla mia “negazione” del suo percepirsi una donna, essendo ai miei occhi un maschio biologico e non potendo sapere io in maniera reale se lui davvero si percepisce come una donna, ne potrei comunque dover rispondere?
O ancora, per quanto paradossale possa apparire, sostenere il fondamento naturale della famiglia, come in fondo stabilisce anche l’articolo 29 della Costituzione, potrebbe arrivare ad integrare, nella confusione redazionale della norma incriminatrice, presupposto per farmi finire a doverne rispondere davanti gli inquirenti?
La Relazione che accompagna il ddl e che dovrebbe, condizionale davvero d’obbligo, spiegare la matrice e le scelte anche semantiche e concettuali adottate nella formulazione lessicale del testo non solo non aiuta a dipanare le nebbie ermeneutiche ma addirittura le aumenta e le complica: alla lettura infatti sembra di trovarsi al cospetto di uno di quei saggi post-strutturalisti da università californiana dentro cui si pasturano critical legal theories e costrutti che non sarebbero dispiaciuti a Deleuze e Derrida, e mi viene da chiedere come potrebbe tradursi in prassi giuridica e sanzionatoria, rispettosa dell’ordito costituzionale e della libertà, un concetto come “dimensione multipla o intersezionale della discriminazione”.
In fondo, l’articolo 4 del ddl, sotto l’apparente e suadente tutela del pluralismo delle opinioni spara ad alzo zero contro le opinioni sgradite, mediante una clausola introdotta dal “purché” a mente della quale viene punita l’espressione di frasi, concetti, scritti che potrebbero istigare o portare empiricamente ad atti discriminatori.
Siamo nel campo indefinito, ombroso, evanescente delle fattispecie istigatorie, concettuali: e come si sa, è un terreno molto sdrucciolevole visto che la tenuta processuale e penale del discrimine che separa libera manifestazione del pensiero, costituzionalmente tutelata, da effettiva istigazione o discriminazione è più che labile.
L’odio stesso è una emozione, un sentimento, la sua giuridificazione un abominio. Noi possiamo punire la estrinsecazione materiale dell’odio quando esso si manifesta nella violenza concreta, empirica, misurabile e valutabile per tale, non se rimane una espressione concettuale e filosofica controversa. Diceva Karl Kraus che l’odio deve rendere produttivi, altrimenti è meglio amare: forse oggi rischierebbe pure lui l’incriminazione.
In questo senso, sembra riecheggiare un triste passato in cui romanzi, poesie, canzoni venivano portati in giudizio in quanto ritenuti ispiratori di fatti delittuosi.
Gli anni grigi e preoccupanti di Tipper Gore, della PMRC, degli adesivi ‘explicit lyrics’ appuntati sulle copertine degli album musicali, il processo contro gli AC/DC ritenuti, con la loro canzone Night Prowler, istigatori dei terribili delitti del serial killer The Night Stalker, al secolo Richard Ramirez. Un pernicioso puritanesimo di Stato pronto a far soccombere sotto il suo maglio qualunque, per quanto spigolosa, complessità.
Gran parte di quelli che oggi garruli, giulivi e festanti si dipingono ‘ddl Zan’ sulla mano, possono avere in cantina e nel repertorio qualche canzone o qualche scritto che potrebbe fungere da detonatore istigatorio di atti di violenza o di discriminazione. La fattispecie penale non è retroattiva, certo, ma loro quelle canzoni continueranno a proporle nei concerti, e comunque, è accaduto negli Stati Uniti, anche il mero album, il mero romanzo, pur riferiti al passato, potrebbero essere ritenuti istigatori e propulsivi dell’atto delittuoso nel contingente.
Immaginiamo una violenta aggressione e che l’arrestato dichiari in maniera reiterata di essere stato ispirato da una certa canzone, è possibile che l’artista si vedrebbe entrare nel cuore del processo per approfondimenti sul nesso di effettiva sussistenza della condotta istigatoria.
Intere discografie hip hop, hardcore e metal finirebbero al macero, può ben immaginarsi. Ma anche romanzi e saggi. Molti scritti proprio da omosessuali.
Certe scene di “Querelle de Brest”, di Fassbinder, o di “Tenderness of the Wolves”, di Lommel, potrebbero essere ritenute ispiratrici di delitti o di feroci discriminazioni, per non parlare poi di certi passaggi delle opere di un Jean Genet o di William Burroughs, questo ultimo addirittura ‘reo’ di aver scritto un romanzo “Queer” che rappresenta, con gli occhialini del politicamente corretto psicotico dell’oggi, una sorta di summa discriminatoria per il linguaggio scelto, essendo invece chiaramente e ovviamente l’esatto contrario di quanto verrebbe considerato oggi.
Fassbinder, Genet, Lommel e Burroughs per loro fortuna sono morti prima di assistere a questo surreale scempio, ma immaginiamo un autore vivente che potrebbe essere chiamato a rispondere penalmente di qualche sua pagina particolarmente controversa e indigesta per le vestali del politicamente corretto, a seguito della commissione di un fatto violento ‘omofobo’ ispirato a parole proprio da quelle pagine.
La patina dolciastra e semplificatrice del mondo immaginato da questo disegno di legge finirebbe per problematizzare e far finire sotto il metaforico tappeto gente come Cèline, Bukowski, Bunker, il Friedkin di “Cruising”, eradicando la bellezza cruenta dell’arte, la quale per essere davvero arte deve far male e far pensare, non essere accomodante.
Che vi piaccia ammetterlo o no, c’è arte eruttata dal ventre squarciato della storia proprio grazie all’odio, alla ferocia, al voler mancare di qualunque prospettiva compromissoria.
Al contrario, il grigio spirito di normalizzazione porterebbe molti ad auto-censurarsi per non incorrere in problemi di ordine legale, perché non si sa mai, ‘quel verso’ potrebbe aver ispirato l’aggressione omofoba commessa da un tale che non abbiamo mai visto né incontrato.
Vero è che il ddl Zan riproduce tutti gli schemi fallaci e altamente problematici che hanno ispirato altre norme sloganistiche, come ad esempio il pessimo ddl Gambaro in tema di contrasto alle fake news: alla fin della fiera, con quel disegno di legge si sarebbe istituita una autentica verità di Stato, come non si mancò di rilevare assai criticamente in dottrina, punendo qualunque forma espressiva dissonante rispetto ad una narrazione istituzionale approvata, come avviene nelle dittature, dal potere pubblico.
Insegnava Marc Bloch, il celebre storico francese fucilato dai nazisti e che alla propaganda di guerra e alle false notizie ha dedicato un bellissimo libro, “La Guerra e le false notizie”, come la vera resistenza al falso, anche crudele, sia la conoscenza, il dibattito vero e informato. Perché se concediamo allo Stato la comoda giustificazione del proteggerci, sarà poi assai plausibile ritenere che lo Stato stesso inizierà a imporre una sorta di racket delle idee, tollerandone alcune per mera convenienza (magari elettorale o di consolidamento del proprio status) e mettendone al bando altre.
In questo senso, ‘magistrale’, in negativo, la connessione che il ddl Zan opera con la legge Mancino, la legge recante la normativa contro l’istigazione all’odio razziale e già sottoposta anche questa a forte vaglio critico all’epoca per motivazioni similari a quelle espresse sino ad ora: lo schema concettuale è assai simile, si assommano e si fondono tra loro tutti gli elementi inaccettabili, e indifendibili, quali omofobia, neonazismo, odio razziale, per lasciar intendere che quelle norme non colpirebbero la libertà ma soltanto chi la libertà minaccia.
Criticate la legge Mancino e vi troverete additati quali nostalgici del Terzo Reich, nella stessa misura, è questo il giochino, analizzate in maniera critica e puntuale il ddl Zan e verrete descritti come feroci omofobi.
D’altronde, non sentiamo già ripetere “non vengono punite le opinioni ma solo l’omofobia”, o peggio ancora “solo gli omofobi devono averne timore”, uno stanco mantra privo però di sostanza e verità per tutte le motivazioni che abbiamo visto sopra?
Ma possibile, dico io, che a nessuno sia venuto in mente che il problema non è di politica criminale, bensì di politica culturale? Atteggiamenti retrivi e ignoranza non possono avere come sbocco fisiologico la galera. Bruciamo ogni scuola, ogni accademia, allora, perché ogni problema potrà essere affrontato (risolto non credo) dalle manette, da un processo e da qualche anno passato a rieducarsi dietro le sbarre.
Avete davvero innalzato metaforiche barricate per espungere dal nostro ordinamento l’osceno reato di plagio, in forza del quale venne condannato il filosofo Aldo Braibanti sulla base di asserzioni lombrosiane che colpivano appunto il pensiero, i comportamenti, le scelte e non i fatti, per poi riprodurne integralmente lo schema, solo rovesciato nel segno?
La mancanza di rispetto e di tolleranza, le idee ritenute a torto o a ragione ‘oscene’, non si combattono con la polizia e con la magistratura, ma col dibattito, civilizzando la stessa politica che da un lato predica continenza espressiva, rispetto, tolleranza e poi dall’altro si accapiglia in guerriglia verbale da lotta nel fango: date il buon esempio, invece di sbatterci in un inferno di repressione.
E datelo anche voi sostenitori del ddl Zan il buon esempio, incapaci di accettare che qualcuno la possa pensare in maniera diversa da voi, senza per questo dover essere dipinto come un disgustoso intollerante, e coperto di insulti, minacce, ingiurie in ogni profilo di social network.
Chi oggi usa violenza, la vera, reale, crudele violenza, lo sapete benissimo anche voi, è già punito dal nostro ordinamento. Quella che voi chiedete è una battaglia di cultura, educazione e di rispetto che però non si può portare avanti con il bastone della legge e il gelo di un carcere.
Dato che vi piace tanto parlare di ‘modelli tossici’, ecco, prendiamo la tossicodipendenza: il carcere ha migliorato davvero la situazione?
Non mi sembra. Proibizionismo, repressione, anzi, hanno notevolmente aggravato la situazione, ed è paradossale che le medesime forze politiche che a parole si sono proposte di superare la criminalizzazione della anomia sociale e di riportarla nell’alveo di una società inclusiva, adesso vogliano replicare quel modello repressivo, profondamente, intimamente sbagliato, contro chi viene frettolosamente rubricato come “omofobo”.
E questo, chiaramente, vale anche, a contrario, per chi oggi difende la libertà di parola assoluta e poi magari invoca la galera per il tossicodipendente o per chi detiene ridicole quantità di cannabis. Dimostrate coerenza, se vi riesce. Tutti.
Si dirà: esagerazioni. Se uno esprime una mera opinione, non andrà incontro a nulla e il ddl Zan mira a punire solo la vera, reale violenza. No, è una posizione sbagliata, superficiale o peggio puramente strumentale. Perché una volta approvato, divenuto legge, modificato il codice penale, una denuncia darà avvio ad un procedimento penale avente ad oggetto la vostra opinione, la vostra frase, il vostro saggio o romanzo, e il nesso diretto che potrebbe aver innescato un effettivo atto violento omofobo magari commesso da un altro soggetto, questo sì davvero violento.
E chiunque abbia una minima familiarità con le indagini penali sa benissimo che esse stesse sono una pena, una condanna prima ancora del rinvio a giudizio.
Sottoposti a gogna mediatica, a stress emotivo, a spese economiche, potrete anche finire archiviati ma intanto sarete passati per mesi nel tritacarne: e poi, un giudice per le indagini preliminari potrebbe ritenere che la genericità di quei concetti espressi nella legge meriti approfondimento dibattimentale, laddove magari possa darsi un confronto tra tecnici, esperti, accademici per capire se l’identità di genere, una volta definita in chiave processuale, sia stata violata davvero dalla vostra opinione, e in che modo.
È il trionfo della stabilizzazione dell’emergenza: si legifera sulla spinta incalzante della emotività, senza davvero ragionare in termini penalistici e gius-filosofici, senza valutare concretamente l’impatto che una data norma finirà per produrre nel cuore della nostra società.
Ogni singola legge approvata in questo Paese nel nome di una emergenza vera o presunta ha ingenerato esiziali fenomeni libertidici, asimmetrie e distorsioni di vario ordine e grado che ci hanno portato, passo dopo passo, a rinunciare a frammenti sempre più consistenti della nostra libertà. Una deriva inaccettabile e che nessuno dovrebbe passivamente subire, perché come ha scritto Baudelaire “è degno della libertà soltanto chi sa conquistarla”.
di Andrea Venanzoni, in Politica, Quotidiano, del 4 Mag 2021

RIPENSAMENTI

LA VERA RIVOLUZIONARIA È LEI, MIA MADRE: “HO AVUTO UN SOLO UOMO, TUO PADRE” ❤
OLIVIERO TOSCANI:
«Ieri mia madre mi ha detto: “Ho avuto un solo uomo, tuo padre”. All’improvviso si sono sgretolati anni e anni di liberazione sessuale, di convincimenti libertari, di mentalità radicale. Tutto quel che avevo creduto una conquista civile si è ridimensionato di fronte a quella semplice affermazione: “Ho avuto un solo uomo, tuo padre”. Sono stato messo di fronte alla debolezza di ciò che credevo essere la modernità, con la forza di chi afferma un principio antico, senza la consapevolezza di essere, lei sì, la vera rivoluzionaria. Mi sono domandato: sono più avanti io che ho vissuto e teorizzato il rifiuto del matrimonio, l’amore libero e i rapporti aperti o lei che per una vita intera è rimasta fedele ad un solo uomo? Senza essere Gesù Cristo mi sono sentito il figlio di Dio e mia madre mi è apparsa come la Madonna: in modo naturale, come se fosse la più ovvia delle cose, lei ha impostato tutta la sua vita su concetti che oggi ci appaiono sorpassati, ridicoli: la felicità, l’onestà, il rispetto, l’amore. Mentre penso che non c’è mai stata in lei ombra di rivendicazioni nei confronti del potere maschile mi rendo conto che non esiste nessuno più autonomo di lei. Nessun senso di inferiorità l’ha mai sfiorata, perché le fondamenta della sua indipendenza erano state scavate nei terreni profondi della dirittura morale, della lealtà, della giustizia, dell’onore e non sulla superficie di ciò che si è abituati a considerare politicamente corretto. Il rispetto e la timidezza con cui guardava mio padre e l’educazione che mi ha dato a rispettarlo non avevano niente a che vedere con le rivendicazioni dei piatti da lavare.
Mia madre non si è mai sentita inferiore perché ci serviva in tavola un piatto cucinato per il piacere di accontentarci e di farci piacere; o perché lavava e stirava per farci uscire “sempre in ordine”. Sono consapevole che sto esaltando il silenzio e quella che le femministe hanno drasticamente definito sottomissione. Ma non posso fare a meno di interrogarmi sui veri e falsi traguardi dell’emancipazione, su ciò che appartiene ai convincimenti profondi e su ciò che non è altro che sterile battibecco. Nella ricerca dei valori che dovrebbero educarci a un’etica meno degradata di quella improntata al principio del così fan tutti, mia madre è un esempio di anticonformismo e di liberazione: lei è davvero affrancata dagli stereotipi e dai bisogni indotti della società massificata. Per conquistare obiettivi importanti e sicuramente oggi irrinunciabili siamo stati costretti ad abdicare alla nostra integrità. Noi abbiamo perso la “verginità”, non lei.»
(Non sono obiettivo, Feltrinelli 2001)

 

Il vento di Bibbiano_ne parliamo con Francesco Cattani e Paolo Roat

Per anni la gestione degli affidamenti dei minori ha potuto procedere sotto traccia, come un fiume carsico. Troppi anni che hanno permesso il consolidarsi di una fitta rete ispirata da linee di condotta intrise di atmosfere orwelliane. Una rete che si è nutrita di tragedie, forzature, connivenze a volte consapevoli a volte no, comunque giustificate da una vera e propria interpretazione patologizzante di un numero abnorme di comportamenti oggetto di terapie traumatiche e destabilizzanti, piuttosto che di protocolli educativi calibrati con la necessaria cautela. Una rete ben allignata in settori delicati dello Stato e della società. Il caso di Bibbiano si è librato come un vento in grado di sollevare la troppa polvere che ha coperto sinora pratiche che, coperte dall’aura di una nobile missione, definire scandalose è riduttivo per la loro dimensione e per la tragica “normalità” nel tempo durante il quale continuano a perpetuarsi sino ad alimentare una vera e propria “filiera psichiatrica” 

Buon ascolto_Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vgrt3x-il-vento-di-bibbiano-italiaeilmondo.com-ne-discute-con-francesco-cattani-e-.html

Covid 19_Lettera al Presidente, del dr Giuseppe Imbalzano

Il male non è soltanto di chi lo fa, è anche di chi, potendo impedire che lo si faccia, non lo impedisce.
Tucidide
Ill.mo Sig. Presidente.
Mi rivolgo a Lei perché molto di quanto debba essere fatto per mitigare la diffusione di questa epidemia non viene messo in atto.
Sono stato direttore sanitario di più aziende sanitarie in Lombardia, tra cui Lodi e Bergamo. Ho predisposto più piani di emergenza e il piano pandemico della influenza H1N1, attuandolo poi nello sviluppo degli interventi di mitigazione e gestione dei servizi sanitari specifici.
Sarò molto semplice nelle considerazioni. Posso fornire la documentazione relativa per dare atto di quanto scrivo in questa breve presentazione. Se mi verrà fornito un indirizzo mail invierò il libro “Il Covid 19-I costi del non fare o del non fare bene” e alcuni articoli in cui ho cercato di identificare tutti gli errori e gli elementi critici che hanno determinato questo disastro epocale che, purtroppo, non è ancora concluso. E che non si concluderà con la vaccinazione se non della intera popolazione.
La mancata capacità di gestione e di governo di questa infezione, che è comunque gestibile (come dimostrato da più nazioni dove l’epidemia è ben controllata), è correlata ad errori gravi che sono stati perpetuati nel corso di questi 15 mesi di disastro sanitario, economico e sociale.
La carenza di esperti di governo delle attività sanitarie territoriali e ospedaliere, della organizzazione e gestione delle criticità relative alle esigenze assistenziali, crea certamente un difetto nella riorganizzazione degli interventi e nella risposta coerente a tutte le esigenze che si manifestano e alle risposte che devono essere garantite per ridurre la diffusione epidemica.
È stato dimostrato che oltre il 50% dei nuovi casi (in Cina era superiore all’80%) avviene in famiglia, non durante gli incontri familiari sporadici, ma per la presenza di un singolo malato che poi diffonde la malattia agli altri componenti della famiglia. L’errore, gravissimo, è stato quello di utilizzare lo stesso modello, l’isolamento fiduciario domiciliare (l’assistenza del malato in isolamento fiduciario è la norma per i malati infettivi delle infezioni endemiche per le quali gran parte della popolazione è protetta, vaccinata o ha avuto le infezioni, come esempio le infezioni infantili), per una infezione che interessa una popolazione vergine con la relativa immediata diffusione (l’indagine Istat pubblicata in agosto indica le principali linee di trasmissione infettiva e individua nel 60% la trasmissione intrafamiliare).
Non voglio parlare di aperture o chiusure dell’Italia, ma di cosa debba essere riorganizzato nella gestione della epidemia, che è stata, ed è, la maggiore causa di questa condizione di tragedia che si sta protraendo ormai da oltre 15 mesi.
La riapertura delle attività in Italia pone gravi rischi, ed è la situazione economica a governare tale scelta, con molte distorsioni rispetto a quanto sia necessario fare.
Ma molte azioni sono mancate e mancano.
Le enumero e sono a disposizione per illustrare e approfondire
• La comunicazione è stata ed è del tutto inadeguata, il “dirigismo” non educa e crea reazioni incontrollate e prive di razionalità
• I Cittadini ancora non hanno compreso cosa sia questa infezione e come si diffonda e come evitare di diffonderla e di ammalarsi
• Mancano i piani operativi corretti locali e regionali per la gestione di questa epidemia
• Non riusciamo a prevenire i contagi
• Non siamo arrivati a tracciare e a interrompere la catena di trasmissione del virus
• Non riusciamo a testare i sintomatici e rintracciare i loro contatti in modo completo
• Non riusciamo ad assistere in modo adeguato i malati non ricoverati in ospedale, separandoli dai sani, e garantendo un rientro in famiglia solo quando il paziente è completamente guarito e non infettivo
• Non riusciamo ad individuare ambienti in cui assistere i possibili contatti da mantenere in quarantena e ad avere sufficienti luoghi di ricovero extraospedaliero per non creare cluster familiari, che, come abbiamo visto, hanno determinato quasi il 60% dei nuovi casi
• L’attivazione di USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziale), mediche ed infermieristiche ambulatoriali e domiciliari, in sostituzione della medicina generale classica per pazienti affetti da patologie infettive trasmissibili, non è stata completa e ben distribuita su tutto il territorio regionale e nazionale.
• Non abbiamo la garanzia che il 100% dei pazienti sia assistito adeguatamente in ambienti protetti per evitare ulteriori infezioni senza la creazione di cluster familiari o locali
• Sono stati distinti gli ospedali e le strutture sanitarie indirizzate unicamente ad attività di ricovero per malati infettivi senza creare, in alcun modo, ospedali misti?
• Il personale sanitario è garantito nella propria attività quotidiana, evitando ambienti sociali in cui è possibile la diffusione infettiva?
• Le informazioni e l’educazione dei Cittadini è adeguata e possiamo essere certi che i messaggi di protezione individuale e di prevenzione della infezione siano stati compresi e applicati? Ancora oggi le persone non sanno portare la mascherina in modo adeguato
• Il materiale di protezione è disponibile e garantito e ha un costo accettabile?
• È stato distribuito a tutti i cittadini non in condizione di acquistarlo (vediamo molti Cittadini con le stesse mascherine che usano ormai da mesi)?
• Le regole che sono state indicate sono sufficienti e sono state esposte in modo adeguato a chi dovrebbe seguirle?
• Viene garantito il controllo delle regole?
• Qual è il modello di gestione della comunità in attesa che sia dispensato a tutta la popolazione il vaccino e siano disponibili terapie adeguate, considerato che è indispensabile, durante e dopo la vaccinazione, mantenere un comportamento rigoroso per evitare nuovi cluster infettivi?
• La popolazione a rischio, anziani, malati cronici, immunodepressi, soggetti fragili, etc. è sufficientemente protetta e garantita?
• È garantita particolare attenzione alle esigenze sociali e cliniche dei pazienti fragili, non Covid, a domicilio per permettere di svolgere una assistenza che non conduca alla necessità di ricoveri ospedalieri?
• Considerato che dobbiamo attenderci nuove recrudescenze del virus, come dobbiamo operare per garantire l’intera popolazione e quella più suscettibile a subire i danni più gravi determinati dal virus?
• È stato attivato un servizio di sorveglianza e follow up dei malati che sono stati affetti da Covid?
Il nuovo modello di gestione “a colori”, in vigore da novembre, ha ridotto e controllato effettivamente il numero di casi o ha indotto comportamenti opportunistici che hanno consentito alle Regioni di ridimensionare la casistica effettiva delle infezioni e ottenere un riconoscimento “sbiadito” della colorazione delle proprie Regioni?
Valutazioni internazionali indicano come in Italia i casi effettivamente individuati sono circa il 50% di quelli effettivamente presenti (IHME Italy covid-19 results briefing April 15, 2021).
Dalla mia analisi personale alcune Regioni hanno percentuali di ricoverati pari al 2% mentre altre superano il 15% dei malati, condizione del tutto irrealistica e non coerente con questa infezione. Alcune Regioni hanno un comportamento di estremo rigore mentre altre tendono ad “alleviare” quantitativamente le proprie situazioni epidemiche. La tensione alla riapertura dei bar supera la responsabilità ad evitare nuove infezioni e nuovi decessi e sono del tutto inaccettabili. Solo l’eliminazione del virus potrà consentire un ritorno alla normale vita per tutti noi
L’indice individuato (250 casi per 100 mila abitanti a settimana, corrispondono a circa 7 milioni di casi all’anno, con un denominatore che resta sempre di 60 milioni mentre tra popolazione vaccinata e che ha avuto il covid (in totale oltre il 20% della popolazione) dovrebbe portare ad un denominatore di 45- 48 milioni di Cittadini. Questo limite porta ad una proiezione di mortalità di oltre 140 mila persone, come limite per la sospensione delle attività. Non è certo coerente con una garanzia di sicurezza e rappresenta un elemento di elevata criticità per i Cittadini. In Germania il limite è di cento (100) casi per centomila abitanti, solo per fare un confronto
Le vaccinazioni sono diventate un elemento non sempre gestito adeguatamente. Il mancato coinvolgimento, costi quel che costi, dei medici di famiglia, coadiuvati da volontari per l’organizzazione, oltre a rendere disponibili oltre 50 mila operatori, la selezione dei vaccinandi e la risposta positiva della popolazione sarebbe stata ben più elevata, non creando molte delle criticità che sono in atto e non dimenticando soggetti “fragili” come neoplastici, diabetici etc. anche di giovane età. E invenzioni organizzative non sempre condivisibili.
Questi sono molti degli errori e delle criticità che sono in atto e che vanno modificati per poter ridurre da subito i casi di infezione e garantire un ritorno alla normalità che tutti ci attendiamo. E poi un consolidamento della riduzione dei casi sino all’eradicamento di questa infezione.
Ci sono anche altri problemi, che sarebbe bene approfondire e modificare per ovviare a quanto sta accadendo e alla confusione attuale, senza prospettive di risultato, che abbiamo in atto in questo periodo.
Se potrò trasmettere qualche altro documento saranno chiare anche le modalità operative per gestire diversamente quanto sta accadendo (e perché non si risolve) la situazione epidemica in atto.
Sono a Sua disposizione per ogni eventuale chiarimento e approfondimento. Sottolineo che i nostri organismi scientifici mancano di figure operative e che conoscano il sistema e la gestione territoriale, con le conseguenze che la lettura che viene messa in atto non sempre corrisponde alla realtà presente.
Con il massimo ossequio
Giuseppe Imbalzano

Storielle che fanno la Storia, di Pierluigi Fagan

Un po’ troppo semplice, ma efficace_Giuseppe Germinario
RACCONTANDO STORIE … duemilacinquecento anni fa, un manipolo di sacerdoti in esilio, butta giù un testo scritto che raccoglie una serie di leggende a cui altre vengono aggiunte pescando nel milieu narrativo babilonese. Raccontano che esiste un popolo, un popolo di pastori seminomadi che finalmente avevano fatto un piccolo regno stanziale, poi fallito, e che quel popolo è il prescelto da un tizio che in una settimana ha creato il mondo, anzi sei giorni più uno di riposo. Questi pastori mediamente ignoranti ci credono e nella misura in cui tutti loro credono alla stessa storia, ecco che davvero si forma un popolo. Un popolo che, unico caso nella storia umana, non ha una terra e pure persiste nella sua auto-convinzione di identità, forse superiorità, razziale, per duemilacinquecento anni. Solo perché tutti credono alla stessa, per quanto incredibile, storia.
Raccontando storie, altri sacerdoti che pescano in un canone dall’incerta formazione, convincono i poveri di mezzo Mediterraneo, che “popolo” va inteso in senso largo, non razziale o etnico. Basta credere tutti di essere popolo di Dio e siamo tutti popolo di Dio! La cosa frutta una certa mal precisata forma di vita eterna, promessona, voliamo alto, altro che. La cosa funziona, ci credono in molti, tanto che ad un certo punto le élite romane del tempo, debbono a loro volta far finta di credere alla storia perché avranno anche armi e soldi quindi potere, ma se ciò che è nella testa del popolo è diverso da quello che dicono loro, non potranno a lungo rimanere la loro élite, armi e soldi poco fanno col potere della credenza condivisa.
Più tardi, un mercante forse affetto da crisi epilettiche, nota di appartenere ad un gruppo etnico che non si pensa come popolo, proprio com’erano gli ebrei dell’origine. Va spesso a Damasco, nota che ci sono i cristiani su fino all’Anatolia, ci sono i Persiani ai tempi sasanidi. Gli uni e gli altri spadroneggiano su quelli del suo gruppo che però non si pensa ancora come gruppo, e non si pensa come gruppo perché non ha una storia condivisa nelle molte menti. Così gliela dà ed inventa gli arabi e poi i sottomessi a Dio (muslim). Oggi sono 1.600.000.000 quelli che credono a quella storia e crescono incessantemente. Funziona alla grande.
A parte i primi, gli altri due passeranno molto tempo a litigare al loro interno su chi è più conforme alle definizioni fondative e chi meno, ma passeranno anche più tempo a convincere altri che è bello appartenere al loro stesso modo di pensare, più siamo meglio è per tutti! Sebbene predichino la fratellanza universale, uccidono, massacrano, violentano, muovono possenti eserciti, incoronano re e califfi, supportano vari tipi di poteri gerarchici locali, mille ed un modo per sottomettere i Molti ai Pochi di cui loro curano la narrazione. Nella misura in cui molti credono a quelle storie, nella misura in cui condividono quello che hanno in testa, agiscono come un sol uomo, ordinati, corali, coordinati, asserviti anzi auto-asserviti.
I primi, invece, se la passarono così, così. Non tanto con gli islamici la cui storia è molto copia-incolla con quella vetero-testamentaria e con cui il mercante ha convissuto molti anni a Medina prima di fargli guerra rompendo la fratellanza (cuginanza, forse) originaria, quanto con i cristiani che pensano di seguire una versione di Dio detta Cristo mentre gli altri due inorridiscono a questo cripto-politeismo fatto di ipostasi, santi, trinità e pasticci narrativi figli di commistioni neo-platonizzanti di ambienta caucasico-siriano-caldeo forse pure con spruzzi di ermetismo egizio. Da quella parti la storia è un racconto incredibilmente complicato e pure bellissimo. Ostracizzati in mezza Europa si rifugiano dagli arabi, alcuni però resistono fino a quando tornano in auge perché gli inglesi del Seicento vengono colti dall’illuminazione e cominciano a raccontarsi tra loro la storia che sono proprio loro, gli inglesi, il nuovo popolo eletto. Poiché gli altri erano anche banchieri e la cosa interessa molto il popolo dei mercanti inglesi, li invitano a migrare da loro. Successivamente, anche gli inglesi oltreoceano, cominciano ad un certo punto a sentirsi “popolo eletto” e ricevano con piacere questo antico popolo che nel frattempo, oltre che nella gestione dei denari, s’è sempre più specializzato nel raccontare storie. Un popolo figlio di un racconto che dice del tizio che in pieno delirio creativo creava tutto ed il suo contrario solo nominandolo per cui “In principio era il Verbo”, va da sé che si convince dell’importanza della parola, della frase, del racconto, della storia narrata più che di quella vissuta davvero. Diventano allora professori, giornalisti, scrittori, molti sceneggiatori, psicoanalisti, prendono una specie di monopolio del narrativo.
Raccontando storie una intera civiltà s’è convinta di esser il vertice del progresso umano, anche se ancora settanta anni fa s’è ammazzata in mille ed un modo al suo interno facendo un centinaio di milioni di morti ammazzati. Gente che, come per altro è successo per secoli e secoli, s’è convinta del principio anti-biologista per cui è bene morire per qualcosa, esser un eroe, salvare la Patria, difendere la credenza condivisa, uccidere chiunque sia Altro solo perché Altro. Con i sacerdoti che benedivano le armi, i morti, giustificavano i massacri anche solo col silenzio poiché in contesti in cui vigono le storie, anche i silenzi raccontano e dicono.
Dentro questa “civiltà”, alcuni si sono innamorati della storia che la società tutta funziona meglio perché il lattaio ed il macellaio sono egoisti e perseguendo il loro avido egoismo ci portano carne e latte tutte le mattine sotto casa evitandoci la mucca in cucina che a parte casa Bersani, è un po’ un ingombro.
Altri si son dati un gran da fare a convincere tutti gli altri che vivono in società dalla convenzione politica di tipo “democratico” e via Pericle, Partenone, Platone (pensa te che confusione, uno dei massimi e più sofisticati teorici antidemocratici), non ci possiamo certo lamentare perché è auto-evidente che viviamo nel migliore dei mondi possibili ed anzi, dovremo darci da fare a liberare il mondo intero, uccidendo, torturando e violentando per portare a tutti la democrazia. Mica siamo egoisti no? Noi siamo “universali”. Chiamano democrazia una evidente oligarchia ma chi se ne frega, mica è venuto fuori un manipolo di filosofi politici a dirgli “oh ragazzi, ferma un attimo, qui parola va da una parte e cosa dall’altra, fate casino così”. No, i filosofi politici erano appresso ad altre storie, come tutte le élite si interessano poco di come evitare che nelle società si formino élite. A parte uno svizzero, ma si sa gli svizzeri sono una cosa a parte. C’è conflitto di interessi anche nei filosofi, peccato dovevano esser i guardiani della riflessione ma si vede che non hanno ben chiaro il concetto. Capita.
Uno di loro ha l’intuizione di dire che tutte queste storie sono storie, sono false, riflettono solo interessi di potere, il che è per lo più vero anche se la faccenda non è del tutto così semplice. A sua volta racconta una storia, ma il pregiudizio verso le storie in generale (il tizio era di origine ebraica tra l’altro e non c’è nulla di peggio di ebrei che odiamo l’ebreitudine) gli fa azzeccare alcune cose ed altre molto meno. I suoi seguaci continueranno a svalutare ogni tipo di storia perché il mondo non va avanti per ciò che la gente ha in testa, no. Infatti tutti i potenti del mondo e della storia stessa sono un branco di imbecilli poiché per secoli e secoli, la loro prima preoccupazione è stata controllare le storie. Dalla biblioteca di Alessandria, allo sterminio dei dotti confuciani con rogo di ogni copia dei Lun Yu, le storie che non si potevano controllare andavano fisicamente distrutte. I linguaggi esoterici, il possesso esclusivo della scrittura, il possesso degli archivi, il diritto a pensare, a narrare, a salire sul pulpito o alla radio o alla televisione, oggi Internet, forgiare interpretazioni, far scomparire fatti solo perché non li si nominano e quindi non esistono, dare i nomi, stabilire i concetti, dettare le agende, forgiare i modi pensare, le logiche, le conoscenze. Chissà perché?
Non importa se dal Chiapas o dalle comunità andine, alle donne del Kerala che con un indice di istruzione del 99% sono l’unico posto in cui gli indiani hanno messo sotto controllo l’eccessiva esuberanza riproduttiva, dalle teorizzazioni sull’istruzione popolare di base di Condorcet all’”Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza” di Gramsci, ogni volta emancipazione fa rima con istruzione. No, non importa, le storie non sono cose serie, la pressa con l’olio che gronda e l’altoforno sono cose serie.
Le società sono fatte di individui, gli individui agiscono mediando intenzioni e reazioni con ciò che hanno in testa. Lì c’è il giusto e lo sbagliato, il vero ed il falso, il ciò che si può pensare e dire e ciò che non va pensato e detto. Ed è in base al funzionamento di questo labirinto di sensi unici e vietati che si giunge all’azione. Controlli il labirinto, ci metti dentro il Minotauro, è fatta, controlli il mondo.
Abbiamo bisogno di nuove storie. Segnalo questo libricino solo per chiudere il post di oggi, ha le sue ingenuità e superficialità, non lo segnalo perché folgorante. Però ha il merito di porsi questo problema, il problema delle storie che ci raccontano ed a cui crediamo anche quando sono pazzescamente false, più di quanto possiate immaginare. Ed anche il problema di quali storie invece ci converrebbe darci per sfuggire al dominio coatto di quelli che infilandosi tra le tue sinapsi, dominano il tuo stesso essere nel mondo insegnandoti pure a dire che è giusto così perché così è sempre stato e sempre così sarà.
Giorno di liberazione, mi sembra tema appropriato. Auguri.

Il declino delle nascite e la trasformazione di tutte le cose, di George Friedman

NB_La traduzione sarà migliorata appena possibile_La redazione

Il declino delle nascite e la trasformazione di tutte le cose

Pensieri dentro e intorno alla geopolitica.

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Il tasso di natalità negli Stati Uniti è diminuito del 4% nel 2020 rispetto al 2019, risultando nel numero più basso di bambini nati dal 1979. Il tasso di fertilità è ora pari a 1,64 nascite per donna, calcolato in anni di gravidanza, che è il più basso dagli anni ’30 quando è iniziata la registrazione. Per mantenere il livello di popolazione, le donne americane hanno bisogno di una media di 2,1 nascite. In una certa misura, il calo è dovuto al COVID-19, ovviamente, ma la maggior parte dei bambini nati nel 2020 sono stati concepiti prima di marzo, quando la furia della pandemia ha colpito gli Stati Uniti.

Il declino è la continuazione di un massiccio cambiamento nei modelli di riproduzione. Non è unico per gli Stati Uniti. I tassi di natalità hanno iniziato a diminuire in Europa e in Cina (grazie alla politica del figlio unico), ma ora è un fenomeno globale. La popolazione mondiale non ha ancora iniziato a diminuire, ma i dati mostrano che la popolazione del mondo industriale avanzato inizierà a contrarsi nei prossimi anni e la popolazione si stabilizzerà nei paesi più poveri prima di diminuire.

Ne ho parlato nel mio libro “I prossimi 100 anni”, pubblicato nel 2009, dove l’ho etichettato come il processo sociale più significativo che il mondo deve affrontare. Ho sostenuto che il tasso di natalità stava diminuendo perché prima della rivoluzione industriale, i bambini erano preziosi nell’aiutare a produrre ricchezza e nel garantire che i genitori sarebbero stati assistiti nella loro vecchiaia. I bambini di sei anni potevano diserbare orti e piante e, molti anni dopo, nutrire i loro genitori anziani, che avevano un’aspettativa di vita molto inferiore alla nostra ora. I bambini sono diventati diabolicamente costosi. Una famiglia della classe media in città con un gran numero di bambini deve affrontare sfide economiche, soprattutto se i bambini intendono andare all’università. Spesso, l’impulso a riprodursi è temperato dalla realtà economica.

Quell’impulso è stato cablato nello spirito umano dal potere del desiderio sessuale. Eppure, una serie di innovazioni tecniche – vale a dire la contraccezione – hanno separato l’impulso sessuale dalla riproduzione. Queste innovazioni, in particolare la pillola anticoncezionale, hanno avuto un impatto radicale sulla vita delle donne. Mia nonna aveva 10 figli. Questo non era un numero insolito ai suoi tempi. La produzione può essere spiegata dall’economia e dalla mancanza di controllo delle nascite, ma non dimenticare mai che il denaro e la lussuria, insieme a miglioramenti medici che hanno abbassato i tassi di mortalità infantile, hanno guidato l’esplosione demografica.

Il costo dei bambini imponeva un fattore autolimitante alla riproduzione senza costringerci a sospendere la nostra psiche. Ciò ha influito sulla vita delle donne più di quella degli uomini poiché le gravidanze indesiderate erano qualcosa per cui le donne sopportavano il peso maggiore del fardello. Ulteriori innovazioni tecniche come i biberon riutilizzabili e il latte artificiale hanno fatto sì che il padre potesse partecipare almeno in parte alla cura del bambino. Il tasso di natalità è diminuito. Ma, cosa importante, la distinzione tra uomini e donne si è ridotta. Le donne da sole possono avere figli, ma ora ha il controllo su se e quando ciò accadrà e l’alimentazione del bambino può essere trasferita ad altri.

L’imprudenza economica di avere figli era controllata dalla tecnologia invece che da regole inefficaci del celibato. L’esperienza di avere figli si è spostata in misura piccola ma significativa. Poiché essere una donna diventava meno estenuante, il modello di vita femminile iniziò a seguire quello di un maschio. E questo a sua volta ha creato il femminismo, uno dei cambiamenti sociali più radicali nella storia umana. Ci è voluto un tempo relativamente lungo prima che la realtà si intromettesse nella cultura, ma ora il vecchio ruolo delle donne è visto come una forma di discriminazione imposta dagli uomini, invece che come una necessità imposta dalla natura.

Questo è un vasto esperimento sulla questione del determinismo biologico. Le donne non hanno bisogno di essere trasformate in madri dal desiderio sessuale. Non devono impegnarsi nell’intenso nutrimento di un neonato. Il legame biologico è rotto. Ma questo cambia quello che Goethe chiamava l’eterno femminile e l’eterno maschile? La trasformazione del ruolo di una donna può cambiare la psiche di una donna o, del resto, assumersi l’obbligo di nutrire il bambino cambia non solo l’esperienza di un uomo, ma anche la sua psiche? Con il crollo del tasso di natalità e la convergenza delle norme di genere, forse è in atto il più grande esperimento nella storia umana. L’unica cosa che un uomo non può mai fare è rimanere incinta e sperimentare cosa significa partorire. Essendo stato lo spettatore impotente in tali eventi, sembra trasformare la vita, ma poi l’esperienza non è più un sottoprodotto del desiderio. Per molti è separato e quindi elettivo.

Non altrettanto affascinante, ma comunque interessante, è il modo in cui una popolazione in contrazione influisce sull’umanità nel suo insieme. La dinamica della vita politica ovviamente cambierà. Con l’aumento dell’aspettativa di vita grazie alle stesse innovazioni mediche che hanno ridefinito le relazioni tra uomini e donne, nei prossimi due decenni ci saranno più persone di età superiore ai 60 anni che sotto. Se la democrazia dura così a lungo, definiranno l’agenda nazionale, molto probabilmente nel proprio interesse, creando tasse che paralizzeranno i cittadini più giovani e andranno a vantaggio dei più anziani. Inoltre, i vecchi saranno sempre meno produttivi a causa delle molte malattie della vecchiaia e il costo per mantenerli in vita sbalordirà la società.

Dati demografici degli Stati Uniti, 1979 e 2020
(clicca per ingrandire)

A questo punto, c’è un affetto per gli anziani, in particolare dai loro figli, ma poiché gli anziani sottraggono tempo e denaro, c’è sempre più un senso di frustrazione. Con l’inclinazione dei tassi di natalità, molti anziani rimarranno senza figli. Sarà il prezzo che pagheranno per il piacere di essere stati liberi da responsabilità. I loro bisogni emotivi e finanziari saranno soddisfatti interamente dal governo, che non è così bravo nell’aiuto finanziario e ridicolo nell’aiuto emotivo. In quasi tutte le società tradizionali, gli anziani sono venerati. Ciò che sembra più probabile in futuro è che gli anziani saranno risentiti.

Naturalmente, proprio come il cambiamento tecnologico ha trasformato la vita delle donne, potrebbe ridefinire la vita degli anziani. Sentiamo voci di progressi straordinari nella medicina e nell’intelligenza artificiale. Uno potrebbe curare le miserie della vecchiaia, l’altro potrebbe mantenere la produzione senza la necessità di una società di massa. E si potrebbe aggiungere che la paura del riscaldamento globale potrebbe diminuire con una popolazione più piccola.

La gamma di possibilità di trasformazione contenute nel declino della natalità è sbalorditiva. Così è l’occasione per il caos economico, culturale e sociale. Abbiamo iniziato a sentire i primi frangenti su questa spiaggia, ma chiaramente si intensificheranno. A mio avviso, la questione della diminuzione della popolazione è al centro di ogni immaginazione del futuro.

https://geopoliticalfutures.com/the-decline-of-births-and-the-transformation-of-all-things/

MASCHERA E VOLTO DEL POLITICAMENTE CORRETTO, di FF

FF da una parte e alcuni altri intellettuali di matrice marxiana, tra i quali Andrea Zhok e Alessandro Visalli, dall’altra sono sicuramente la punta di diamante di una critica al neoliberalismo, intesa come pervasiva ideologia dominante sussunta dal capitalismo; in grado quindi, grazie a questo connubio, di ridurre progressivamente la società ad un conglomerato di individui in condizione di isolamento nichilista, tenuti paradossalmente insieme da una forma inedita di totalitarismo e autoritarismo. Tutti giustamente antepongono al concetto di individuo quello fondativo di comunità, giacché ciascuno può quanto meno essere definito individuo solo in quanto appartenente ad una comunità e ad un sistema di relazioni sociali. Arrivati a questa sacrosanta constatazione la critica sembra però da tempo arenarsi correndo addirittura continuamente il rischio di ricadere in concezioni superate nella loro rappresentazione sistemica e dogmatica, smentite dagli sviluppi storici dei due secoli passati. Il contesto è prematuro e le difficoltà enormi da superare prima di riuscire in un vero salto teorico ed individuare nuove chiavi interpretative utili alla costruzione di orientamenti politici alternativi efficaci. La riesumazione di vecchi termini per tentare di perimetrare nuovi concetti non aiuta di certo a compiere questo salto così necessario. Il termine socialismo è appunto uno di questi escamotage di fatto fuorvianti. Con socialismo, nella accezione più coerente e riconosciuta nella fase di massima spinta dei movimenti rivoluzionari tra seconda metà del XIX e prima metà del XX, si è intesa una forma di regime transitorio necessario ad estinguere il rapporto sociale di produzione capitalistico in favore di quello comunista grazie al quale si sarebbe reso superflua una qualsiasi forma di regime politico, tanto più se basato sulla forza e sull’oppressione tra diseguali. Come si sa, la dura realtà delle cose ha spostato a data da determinarsi il compimento di una tale missione e ha reso sempre meno univoca la definizione di un tale regime oltre a costringere a celare fin quando possibile le prosaiche efferatezze rese necessarie al procrastinarsi di tali regimi, nella loro forma più radicale e coerente. Tali esperimenti, con ogni evidenza, sono falliti e si sono trasformati nella negazione delle migliori intenzioni perché in sostanza avevano l’ambizione di costruire “l’uomo nuovo” pieno delle sue virtù e privo delle sue abiezioni piuttosto che proporre un nuovo regime politico, comunque necessario, in grado di valorizzare diversamente le une e le altre, tutte presenti nella natura umana e nella storia dei rapporti politico-sociali. In questo alveo ha trovato un suo spazio ed una sua legittimazione la velleità della programmazione e del calcolo centralistici integrali delle attività economiche sulla falsariga dei grandi passi in avanti offerti dal capitalismo con la sua spinta al calcolo e all’ottimizzazione dei fattori economici; velleità confutata alla fine anche da marxisti stessi di provata fede, ma non dogmatici del calibro di Althusser e Bettelheim. Hanno nascosto nuove gerarchie e diseguaglianze dietro una rappresentazione egualitaria più rozza e altrettanto ingannevole, nel medio periodo, di quella proposta dall’eguaglianza tra possessori dei mezzi di produzione e possessori della mera forza lavoro proposta dagli apologeti del capitalismo. Il termine socialismo, in una accezione ormai sempre più vaga e sempre più vicina al significato di comunitarismo sta servendo in realtà a contrapporre sempre più la presunta superiorità morale e funzionale del regime cinese rispetto a quello americano; il controllo politico del rapporto sociale capitalistico e dei capitalisti in particolare operante in Cina rispetto al dominio (potere) politico detenuto direttamente dai capitalisti, in particolare di quelli finanziari, negli Stati Uniti. In Cina prevarrebbe il senso comunitario e politico delle scelte, negli Stati Uniti, con il neoliberismo imperante, prevarrebbe totalitariamente e irrimediabilmente la visione economicistica e individualistica delle relazioni tale da disgregare senza via d’uscita la società e da garantire il potere politico pressoché esclusivo, piuttosto che il dominio, di capitalisti sempre più arroccati. In Cina prevarrebbe con successo la partecipazione, la mediazione politica positiva e la sintesi politica rispetto agli stessi interessi economici; negli Stati Uniti sarebbero gli interessi economici capitalistici a prevalere e a dettare legge sino a ridurre tutta la vicenda umana al suo aspetto economico. In realtà è vero che in Cina, su base territoriale e provinciale, vigono forme di partecipazione, mediazione e composizione politica frutto di antiche tradizioni, ma anche del persistente municipalismo comunitario nato con la rivoluzione comunista e della sua convivenza con la diffusione della iniziativa privata individuale disconosciute nel mondo occidentale anche nelle sue reali modalità di formazione delle gerarchie e di sviluppo dei conflitti. Anche negli Stati Uniti, a dire il vero, esiste a livello territoriale una diffusa base civica e comunitaria viva e vivace anche se dalle forme diverse e spesso parassitarie e decadenti nelle sue aree metropolitane. L’emergere di una figura come Trump non fa che confermare questa permanente vitalità.
La visione neoliberale e neoliberista trova certamente ragione d’essere negli Stati Uniti ma soprattutto, anche se non esclusivamente, come rappresentazione ideologica da dare in pasto al popolo americano e ai paesi subalterni. Rimarrà uno strumento ed una rappresentazione necessari e decisivi solo fino a quando le élites e i centri decisionali riterranno di poter imporre e riproporre la loro visione e il loro dominio unipolare. E’ il permanere di questa ambizione, in condizioni impraticabili, che li potrebbe spingere a procrastinare questa rappresentazione e a correre verso il disastro. Nel loro bagaglio teorico e politico esistono però altri armamentari alternativi, paragonabili a quelli russi e cinesi o anche possibili adattamenti della matrice liberale, già per altro intravedibili in alcune emergenti forme di realismo politico.
Saranno in ultima istanza le scelte politiche e il loro grado di realismo a determinare la prevalenza delle diverse forme di rappresentazione.
Cambiano invece le dinamiche verticali di esercizio del potere centrale all’interno dei due paesi. Sulla base della tradizione confuciana, la selezione delle élites e soprattutto degli attori nei centri decisionali in Cina avviene attualmente su una base più meritocratica rispetto a quella americana; è anche vero, però, che quella stessa tradizione ha conosciuto nel tempo, nei secoli, alti e bassi nella sua efficacia ed efficienza grazie alle dinamiche interne e alle eterne contrapposizioni con i potentati locali, spesso e volentieri veri e propri signori della guerra. Dinamiche che in forme diverse si ripropongono anche ora in quel paese. Come pure ad una maggiore efficacia e stabilità corrisponde una progressiva rigidità rispetto all’esercizio americano; rigidità che potrebbe rendere più difficoltosi e dolorosi eventuali adattamenti.
Ciò che sembra offrire maggiori opportunità e potenzialità alle élites cinesi rispetto a quelle americane è stata soprattutto l’abilità delle prime a sfruttare gli spazi offerti dalla globalizzazione a propulsione americana e dalle velleità di un impossibile controllo unipolare di quest’ultima, specie a partire dalla presidenza Clinton. Una dinamica ascendente rispetto a quella americana quantomeno stazionaria; in grado quindi di fornire strumenti di coesione maggiori, almeno teoricamente.
Un dinamismo cinese che deve ancora trovare conferme definitive di successo rispetto alla progressiva chiusura degli spazi e alla capacità di reazione della potenza a stelle e strisce.
Elites che a loro volta ospitano entrambe, a pieno titolo nel proprio seno, anche se con pesi diversi ma non opposti nella funzione capitalisti e finanzieri.
Se socialista quindi si può definire, quello cinese, è solo per la permanenza del ruolo del partito negli equilibri politici, certamente non per le finalità ultime, specie millenaristiche, di quel regime. A conferma della similarità tra le due formazioni emergono le tentazioni di controllo totalitario e integrale della popolazione, già operante in alcune città cinesi, legato all’uso ostentato delle nuove tecnologie informatiche rispetto alle modalità più surrettizie e meno esplicite, ma simili nella sostanza, in atto sul suolo americano.
Quanto alla politica estera non si tratta di superiore levatura morale nei comportamenti, quanto di capacità di potenza, di ambizioni territoriali legati alla capacità, di sapienza diversa. Sono questi i parametri che dovrebbero orientare le scelte politiche e geopolitiche degli altri paesi, compresi l’Italia.
In aggiunta a questi rilievi rimane un altro grande vuoto e comprensibile omissione nell’individuazione della natura dei regimi di potenze attive nelle dinamiche geopolitiche: la sostanza, la natura e le modalità operative della formazione sociale russa e delle sue élites; riemerse a pieno titolo nell’agone geopolitico, capaci di collocare esplicitamente l’azione politica come metro delle scelte nei vari campi e di offrire una visione di comunità esente da rimembranze socialiste.
In conclusione l’azione politica può essere motivata dalla volontà di garantire le condizioni politiche di giustizia, benessere, uguaglianza ed emancipazione degli strati popolari di una società, sempre specificando l’accezione da offrire a quei termini. Del resto la quasi totalità delle rivoluzioni hanno sbandierato tali finalità per riproporre nuove gerarchie e nuove modalità di esercizio del potere. Fondamentale è garantire la dinamicità, il ricambio e l’allargamento delle modalità di formazione delle classi dirigenti; soprattutto rimane essenziale rifuggire dalle tentazioni di cambiamento della natura umana foriere di drammatiche e tragiche eterogenesi dei fini a scapito di quelle stesse componenti sociali che si vorrebbe difendere ed emancipare.
Buona lettura_Giuseppe Germinario
MASCHERA E VOLTO DEL POLITICAMENTE CORRETTO, di FF
A differenza di quanto comunemente si ritiene, nella attuale società occidentale non prevale affatto una forma di estremo relativismo culturale, dato che in realtà si tratta di un relativismo solo apparente.
Infatti, se davvero prevalesse una qualche forma di relativismo culturale (dato che un estremo relativismo culturale è praticamente impossibile), la nostra società sarebbe caratterizzata dalla tolleranza e dal rispetto nei confronti di coloro che non condividono gli schemi concettuali dell’ideologia liberale politicamente corretta. Viceversa il politicamente corretto non ammette che vi siano opinioni o idee diverse da quelle neoliberali, tanto è vero che si cerca di vietare, anche con la forza (della legge), tutto quello che si contrappone al “pensiero (unico) neoliberale”.
Da un lato, quindi, il liberalismo politicamente corretto, ossia soprattutto il neoliberalismo di sinistra, si contraddistingue per una negazione radicale dell’idea stessa di “natura umana”, in quanto si tratterebbe solo di “metafisica” – quasi che la metafisica fosse una forma di superstizione e non contraddistinguesse gran parte della cultura europea (e sotto questo aspetto difficilmente si può negare che anche una acritica e “semplicistica” interpretazione del pensiero di Nietzsche e Heidegger abbia favorito questa assurda concezione della metafisica) -; dall’altro, però, i valori dell’ideologia neoliberale vengono considerati assoluti e indiscutibili, come se l’ideologia neoliberale fosse una teoria scientifica che solo un “troglodita” potrebbe mettere in discussione.
Il risultato è che dei gruppi di pressione particolarmente aggressivi e appoggiati dal grande capitale, che ovviamente ha tutto l’interesse ad eliminare tutto ciò che può ancora ostacolare la mercificazione di ogni ambito vitale, sono ormai in grado di diffondere la loro immagine (fasulla) del mondo, senza (almeno per ora) incontrare nessuna seria “resistenza”, giacché il politicamente corretto, come ogni forma di totalitarismo, può contare sul conformismo culturale nonché sul timore di essere emarginati ed “esclusi” se ci si azzarda ad “andare controcorrente”.
Pertanto, non sorprende nemmeno che più si è conformisti più si venga considerati “trasgressivi”. Guitti di vario genere (non solo cantanti e attori ma pure giornalisti e intellettuali) vengono così considerati “personaggi trasgressivi” solo perché diffondono i più triti luoghi comuni del politicamente corretto, godendo peraltro del pieno sostegno dei media degli oligarchi neoliberali.
Si è quindi perfino giunti a vedere dappertutto il fascismo – ossia ciò che l’ideologia neoliberale considera fascismo – tranne quello presente nella propria testa, al punto che il politicamente corretto si configura come una paradossale forma di permissivismo autoritario e di anticonformismo conformista. Si assiste perciò anche a grottesche forme di “disarcionamento”, giacché ormai rischia di venire accusato di essere fascista, sessista, razzista od omofobo e via dicendo pure chi è considerato un difensore del politicamente corretto. Insomma, quel che conta è solo spingersi sempre più avanti, per paura di essere “sorpassati” e finire tra le file dei “reprobi”.
In questo senso, quelli che per semplicità si possono definire i “destri” (neofascisti, razzisti, “nazipopulisti” od omofobi che siano) sono i migliori, anche se inconsapevoli, alleati dei neoliberali di sinistra (ovverosia sono degli “idioti” – nel senso etimologico del termine – socialmente e politicamente utili), giacché forniscono loro la giustificazione per imporre la propria (aberrante) ideologia politicamente corretta.
Il politicamente corretto costruisce così dei muri ben peggiori di quelli che vorrebbe abbattere e al tempo stesso giustifica le peggiori forme di diseguaglianza economica e sociale, con la scusa di difendere i cosiddetti “diritti individuali” che sovente altro non sono che espressione della ideologia della classe dominante.
In sostanza, il neoliberalismo di sinistra, anche se in apparenza rifiuta la “logica” secondo cui il Politico si struttura e si articola in base all’alternativa “o amico o nemico”, di fatto cerca di imporre proprio questa “logica” in ogni ambito sociale (in primis nel sistema educativo) strumentalizzando la miseria culturale e il disordine mentale della destra cosiddetta “populista”.
Di questo ne dovrebbero essere consapevoli coloro che, pur non ignorando le “dure repliche” della storia del Novecento, ritengono che l’unica società razionale possibile (certo non intendendo per razionale solo la mera razionalità strumentale) sia una società socialista. Vale a dire che è sul “terreno” del Politico (geopolitica e antropologia politica incluse) che ci si può ancora opporre, secondo una prospettiva socialista e comunitaria, all’ideologia neoliberale politicamente corretta.
Tuttavia, ciò è possibile solo se si abbattono “vecchi” steccati ideologici e se ci si libera definitivamente di una concezione economicistica nonché di quell’ottuso scientismo che anziché ostacolare favorisce proprio le peggiori forme di irrazionalismo e di anti-intellettualismo, come la stessa vicenda del Covid ha ampiamente dimostrato.
Dovrebbe essere chiaro cioè che un conto è riconoscere che il processo di civilizzazione non sarebbe possibile se non ci fossero dei progressi, sia sotto il profilo sociale che sotto quello culturale, e un altro è invece l’ideologia progressista che spaccia per progresso la dissoluzione di ogni legame comunitario e di ogni “espressione culturale” che non siano “funzionali” all’attuale società di mercato ovvero si considera come un progresso l’annientamento di tutto quel che può ostacolare gli interessi del grande capitale sedicente “cosmopolita”.
Nondimeno, si deve ammettere che la fine di quello che si potrebbe definire il “paradigma marxista” ha creato un “vuoto” culturale e politico che è ancora ben lungi dall’essere colmato, sempre che non si vogliano prendere in seria considerazione le assurde e puerili forme di complottismo di varia specie che si sono diffuse in questi ultimi decenni. Di fatto, tranne alcune pur rilevanti eccezioni, anche coloro che criticano duramente l’attuale società di mercato sembrano ancora essere “prigionieri” di schemi concettuali non solo obsoleti ma “incapacitanti”, ostinandosi a difendere quel che è già scomparso o che comunque è destinato a scomparire.
In definitiva, non si tratta di negare che la questione del lavoro e quindi dei diritti sociali ed economici sia una questione della massima importanza, ma di comprendere che la nostra società non la si può cambiare “partendo” dal lavoro (dalla fabbrica, ecc.), perché è solo combattendo sul “terreno” politico-culturale che è possibile cambiare pure le condizioni del lavoro. In altri termini è l’“ideologia della merce” (quindi della mercificazione della natura e delle stesse persone), della quale il politicamente corretto è l’espressione più coerente e “matura”, che si deve combattere se si vuole contrastare con successo la concezione secondo cui anche il lavoro sarebbe una merce.
Chiedersi come possa essere una società socialista o se si preferisce postcapitalistica (il termine conta relativamente poco) può essere utile per avere le idee più chiare, ma è evidente che è assai improbabile che nei prossimi decenni si possa realizzare qualcosa di simile. Quel che invece è possibile e necessario in questa fase storica (questo è il senso del mio post ‘Maschera e volto del politicamente corretto’) è contrastare l’ideologia della merce e questo dovrebbe essere il minimo comune denominatore in grado di unire diverse energie intellettuali e morali ancora presenti nella nostra società.
La struttura della stessa società postcapitalistica del resto non potrebbe che configurarsi in forme diverse, giacché sarebbe il frutto di questa battaglia che non può che essere diversa nei diversi Paesi in quanto non può non dipendere dalle condizioni storiche e culturali di ciascun Paese (che senso avrebbe altrimenti parlare di socialismo comunitario?).
Tuttavia, nella attuale fase storica del nostro Paese e in generale dell’Occidente sono ancora da creare le condizioni per combattere questa battaglia.
E’ quindi questo il problema che si dovrebbe cercare di risolvere e non è certo un problema facile da risolvere. In pratica siamo solo all’inizio di una fase storica che non concerne solo l’Occidente e che si configura come un periodo di transizione che non si sa quanto possa durare, benché tutto lasci pensare che sarà assai lungo e difficile, e il cui esito non è affatto scontato
Brevissima nota a proposito della frase di F.F. , di Roberto Buffagni
“coloro che, pur non ignorando le “dure repliche” della storia del Novecento, ritengono che l’unica società razionale possibile (certo non intendendo per razionale solo la mera razionalità strumentale) sia una società socialista.” R
ilevo che l’espressione “società socialista” va riempita di nuovo contenuto, e che questo contenuto non è già noto e autoevidente, proprio a causa delle “dure repliche della storia” e, aggiungo io, delle aporie teoretiche del marxismo.
Questo F.F. lo sa bene, e infatti tenta, nella sua ricerca, di riempire di nuovo contenuto la parola “socialismo”.
Non tutti lo sanno, né tutti conoscono la ricerca di F.F..
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