Come mi è capitato di sottolineare altrove, la nozione di “liberale” è strutturalmente ambigua per ragioni storiche. Purtroppo tale ambiguità continua a creare confusione e a smussare le armi dell’analisi, dove di volta in volta, di fronte agli stessi eventi, si finisce per invocare l’aggettivo “liberale” a volte come causa di oppressione, a volte come fattore di emancipazione (così ha fatto recentemente, ad esempio, il prof. Orsini). Di fronte all’irreggimentazione, al controllo sociale, alla crescita di impulsi persecutori che ha tratteggiato questi ultimi due anni c’è ancora chi lo caratterizza utilizzando l’aggettivo “illiberale”, come se tutto ciò fosse estraneo e contrario all’essenza del liberalismo.
È perciò opportuno tentare un breve chiarimento concettuale e terminologico. Non provo qui a fornire un’analisi dello sviluppo storico e delle sue ragioni – svolta in altra sede – ma mi limito ad esplicitare l’ambiguità del termine liberalismo e a ribadire perché l’uso emancipativo del termine è latore di confusione.
I. Il liberalismo perfezionista
Esiste davvero una forma emancipativa del liberalismo?
Sì, esiste, si tratta di un’idea che concepisce il liberalismo come staccato dalla sua componente economica e che lo pone come una visione teorica che promuove il libero sviluppo umano. Questa concezione può essere chiamata “liberalismo perfezionista”, laddove il termine “perfezionista” è utilizzato nella filosofia morale contemporanea per definire una teoria che pone il senso dell’azione umana nell’esercizio e nel libero sviluppo delle proprie facoltà. Questa visione può essere rappresentata da pensatori come Benedetto Croce, in una cornice idealista, da Joseph Raz, Michael Polanyi e in parte John Rawls, in una cornice immanentista. Non è accidentale che la distinzione tra “liberalismo” e “liberismo” venne introdotta proprio da Croce per isolare il proprio liberalismo dalle istanze economiche (liberiste).
Qui l’idea portante è che l’uomo conferisce senso alla propria esistenza esplorandone le potenzialità e sviluppando le proprie capacità. Tale visione è minoritaria ed eccentrica rispetto allo sviluppo storico del liberalismo, ma è esistita ed esiste. Quanto sia essa lontana dalla prospettiva storica principale del liberalismo lo si può capire osservando come questo “liberalismo perfezionista” sia perfettamente compatibile con l’impianto teorico del critico per antonomasia del liberalismo, cioè di Karl Marx, la cui concezione del libero sviluppo umano (si vedano i Manoscritti economico-filosofici del 1844) è ampiamente sovrapponibile a questa visione. Non pochi soggetti, soprattutto intellettuali, si reputano liberali in quanto nutrono, in forma talvolta chiara, spesso confusa, un’immagine del genere.
II. Il liberalismo reale
Sul piano storico, tuttavia, questa versione del liberalismo disaccoppiata dal liberismo economico è ampiamente minoritaria, e influente quasi solo a livello di elaborazione intellettuale. Il liberalismo si è sviluppato incardinandosi nella teoria economica marginalista alla fine del XIX secolo, in questa forma ha acquisito centralità politica e ha imposto in modo egemonico la propria visione a partire dagli anni ’70 del XX secolo. Chiamiamo questo liberalismo egemone “liberalismo reale”, nel senso in cui si parlava una volta di “socialismo reale”.
Per capire l’essenza del liberalismo reale bisogna comprendere come si configura la sua visione ideale, quella visione che ogni agente liberale coltiva dentro di sé come ispirazione, come motore della propria azione.
Si dice spesso che il liberalismo sarebbe “neutrale” sul piano etico, nel senso di non volersi impegnare nel prendere posizione sui temi eticamente più controversi e scottanti. L’idea della neutralità liberale storicamente nasce in contrapposizione alla sostanzialità delle posizioni religiose: che si parli di aborto, eutanasia, famiglia, educazione, ecc. ogni religione ha una posizione definita – non necessariamente immobile nel tempo, ma di volta in volta ben definita – mentre il liberalismo, sin dalle origini, si vanta di rigettare questa dimensione di valutazione sostanziale, che andrebbe risolta lasciando a ciascun individuo la scelta ultima.
Questa idea di “neutralità” etico-politica è tuttavia perfettamente illusoria. L’etica e la politica si muovono in un’atmosfera densa in cui non esiste neutralità, in cui scelte sovraindividuali si fanno sempre necessariamente, e in cui quando condotte specifiche vengono favorite, altre vengono sfavorite e ostacolate. La “neutralità” liberale è in effetti un camuffamento, magari in buona fede, ma un camuffamento. In effetti anche il liberalismo ha un’immagine ideale del mondo, proprio come ce l’ha il comunismo o il cristianesimo, solo che è un’immagine che si interpreta come poco esigente e perciò universale.
III. Libertà negativa e presunta “neutralità” etica
La concezione che caratterizza il liberalismo è innanzitutto una concezione che promuove una forma di libertà negativa: laica, asociale e apolitica. Il liberalismo tipicamente nega che queste specifiche proprietà siano alcunché di sostanziale perché sostiene che anche per questi tratti, come per ogni altro tratto, la scelta viene lasciata al singolo individuo (se essere laico o credente, sociale o asociale, politicamente attivo o passivo, ecc.). Solo che le cose non stanno così. Questo perché ciascuna di quelle dimensioni travalica il singolo e non è alla portata di alcuna scelta individuale, unilaterale.
Non posso decidere individualmente di condurre un’esistenza politica, se l’ambiente circostante non lo consente; non posso associarmi, se non ci sono le altrui condizioni per formare un’associazione; posso condurre una vita da mistico stilita, ma nessuna vita religiosa in assenza di una comunità religiosa operante; non posso vivere un’esistenza comunitaria, se le forme di vita comunitarie sono disgregate, ecc.
Il cuore della libertà negativa nel liberalismo reale è che, non essendovi un divieto a indirizzare la vita in queste forme, ciascuno è in grado di decidere autonomamente se percorrerle o meno. Ma questo è semplicemente falso. Ogni scelta politica, legislativa, economica che venga fatta potrà essere funzionale a costruire forme di vita religiosa, politica, comunitaria, ecc. oppure può essere disfunzionale a questi fini. Quando uno di questi indirizzi non viene supportato, proprio per la loro natura sovraindividuale, esso deperisce e si estingue.
IV. La visione propositiva del modello liberale
Quest’apparente “neutralità” è solo metà della storia del “sogno liberale”. La seconda fondamentale parte è determinata sul terreno economico, dove gli indirizzi più chiaramente positivi, “sostanziali” del liberalismo si vedono all’opera. L’impianto economico liberale infatti coltiva la competizione su base individuale, venera il rischio, l’innovazione e la mobilità. Ciascuno di questi elementi opera costantemente come fattore che accresce l’insicurezza individuale e alimenta lo sradicamento sociale. In una cornice di concorrenza auspicabilmente perfetta ogni singolo individuo occupa una posizione sociale differenziale, dove ogni successo altrui è potenzialmente una minaccia al successo proprio. Quanto più ci si approssima alla base della piramide sociale, tanto minore diviene il proprio potere contrattuale nella società, e tanto maggiori diventano per ciascuno le possibilità di essere proprio escluso dal sistema, di venire espulso ed emarginato.
Sul piano tecnologico, finanziario e ambientale lo stimolo costante al rischio, all’accelerazione e all’innovazione crea condizioni strutturalmente instabili. Esse vengono compensate – da chi è economicamente nelle condizioni di farlo – con la creazione di cuscinetti difensivi (riserve monetarie, assicurazioni private, ecc.). Questo significa che all’insicurezza generata dal sistema si cerca di rimediare con la “sicurezza economica”, cioè con lo sforzo di accumulare denaro: quanto maggiore l’insicurezza tanto maggiore la spinta alla competizione più spregiudicata, che aumenta a sua volta l’insicurezza, le possibilità di fallimento e la frustrazione.
La spinta alla mobilità, nella ricerca di opportunità d’impiego, spezza la possibilità di una perdurante cooperazione territoriale, e con ciò corrode ogni senso di partecipazione comunitaria: il soggetto liberale non è più “parte di una comunità”, ma è “utente di un servizio urbano”. (Incidentalmente, è per sopperire a questo vuoto che la società liberale contemporanea si riempie ossessivamente la bocca di “comunità” / “community”: secondo un tipico canone liberale, meno una cosa esiste, più ossessivamente la si evoca per fingerne l’esistenza.)
In questa cornice in cui tutto converge verso l’isolamento individuale e la competizione interpersonale, l’Altro appare primariamente nella forma di un’insidia, una fonte di potenziale pericolo – o almeno di ingombro. In un mondo liberale, se qualcuno ti si avvicina la prima domanda che tende a sorgere è: “Cosa vuole questo da me?” Dunque non solo le condizioni economiche ed ambientali tendono a far crescere il senso di insicurezza, ma anche i singoli individui sono innanzitutto percepiti come potenziali minacce.
Questo sfondo genera una tendenza profonda, che rappresenta l’ispirazione e il motore del sogno liberale. Siccome sia l’ambiente che l’altro soggetto (se non altrimenti esplicitato), si profilano prima facie come potenziali minacce, la disposizione che anima la società liberale si orienta in due direzioni: la neutralizzazione difensiva dei rapporti con il prossimo e l’acquisizione di potere mediato sull’ambiente.
V. Figure del sogno liberale
Siccome ciascun soggetto individuale è vissuto innanzitutto come una potenziale minaccia, la concezione liberale lavora sistematicamente a creare o mantenere le distanze tra individuo e individuo, a isolarli preliminarmente e a consentirne l’associazione solo in forme contrattuali sorvegliate. La società liberale tende a divenire sempre più isterica intorno al pericolo che altri esseri umani, o altri gruppi umani, o altre forme di vita umane, rappresentano per “noi liberali”.
Rispetto ad ogni individuo cresce costantemente una sorta di permalosità strutturale, di ipersensibilità per cui l’altro potrebbe essere in procinto di ferirci, di offenderci in maniera insopportabile. Individui sradicati e psicologicamente provati dal distanziamento forzoso cui il mondo liberale conduce, temono il contatto diretto con il prossimo e a maggior ragione temono ogni forma di dipendenza dal prossimo. Figure emblematiche di questa dinamica sono, ad esempio, i giovani “hikikomori” che si rifiutano di uscire di casa e che si relazionano con gli altri solo in forma virtuale; o, in altro modo, sono figure emblematiche i pasdaran del “politicamente corretto”, alla continua ricerca di un possibile lato da cui potrebbero ritenersi offesi; o ancora, lo sono gli studenti dei college americani che firmano consensi scritti per avere rapporti sessuali, a garanzia che vi sia piena volontarietà dell’atto. Stendiamo poi un pietoso velo sulla recente isteria da contagio, che ha portato a galla strati profondi di questo autentico terrore nei confronti del prossimo.
Siccome il nostro prossimo è, proprio per la sua prossimità, il più pericoloso, il liberalismo reale dimostra la propria umanità come filantropismo verso i più remoti, verso coloro i quali hanno solo l’esistenza virtuale dei reportage giornalistici e delle raccolte di petizioni. Verso i lontani, gli sconosciuti, con cui mai entreremo in contatto e di cui nulla sappiamo, il liberalismo reale riversa la propria umanità residua, che, incapace di vicinanza, si trova a proprio agio invece nella sfera in cui può dipingere l’umanità a piacimento, con i tratti addomesticati del proprio immaginario. Se verso i più remoti il liberale può esercitare generosità, nei confronti del prossimo i rapporti sono governati dalla sfiducia e dal timore, e dunque le forme relazionali preferite sono l’isolamento o il rapporto mercenario, in cui il potere del denaro media la relazione tra esseri umani.
Dipendere da qualcun altro è, nel mondo liberale, la ricetta sicura per lo scacco, visto che per come il sistema funziona è razionale attendersi che tale dipendenza prenda la forma di uno sfruttamento. Questo varrà tanto sul piano lavorativo che su quello affettivo: se dipendo sono sottomesso; sono libero solo se sono io a sottomettere. Questo modello di indipendenza è quella che promuove ad esempio l’idea, sempre più diffusa nel Nord Europa, per cui avere un figlio dovrebbe essere disaccoppiato dall’avere un compagno o una compagna. Siccome un rapporto affettivo è percepito come un rischio e un vincolo, una subordinazione ad esigenze limitanti che intaccano la propria indipendenza, allora attingere ad una banca del seme o noleggiare un utero altrui, sono soluzioni decisamente preferibili.
La visione di principio della società nel liberalismo reale è quella di un sistema di percorsi di vita paralleli che non si intersecano se non con la mediazione di un controllo terzo (contratto, supervisione, giudice). I contatti ammessi e preventivati sono l’acquisizione di un servizio, l’erogazione retribuita di un servizio, o, dove entrambi falliscono, lo scontro. Un sistema che produce strutturalmente insicurezza ad ogni livello lavora per risparmiare ai propri adepti l’incertezza dei rapporti umani, l’insicurezza dei giudizi personali, il rischio dei contatti, la vulnerabilità dell’affettività.
Il sogno liberale consta di un mondo in cui non devi niente a nessuno, non hai bisogno di contare su nessuno, non dipendi da nessuno, ma in cui puoi portare avanti i tuoi progetti acquistando i servigi altrui. Questo tratto spiega il carattere insieme patetico e pericoloso dei grandi “sognatori” partoriti dal liberalismo, gente che conta di realizzare i propri infantili sogni di potenza comprandoli.
Il sistema del liberalismo reale perciò partorisce due forme umane: “servi” e “padroni”, che nello specifico si profilano come “frustrati senza remissione” e “imperatori per censo”.
Il primo gruppo, di gran lunga maggioritario, è rappresentato da tutti quelli che ambivano ad essere piccoli autocrati di un proprio regno a pagamento, ma che non ce l’hanno fatta. Questi cercano comunque di esercitare tutto il potere che viene loro concesso sul prossimo, sfogando almeno in parte la propria frustrazione, che tuttavia cova sempre sotto la cenere e nutre una rabbia costante, pronta ad esplodere. È gente che avrebbe voluto essere Bill Gates o Ellon Musk, e che rimarrà certa fino alla fine che, se avesse raggiunto quella posizione economicamente apicale, allora sì che il mondo avrebbe manifestato tutto il proprio senso. Essendo invece rimasti lontani dalla vetta non gli resta che rivalersi come possono sugli altri: piccoli delatori, burocrati inflessibili, bulli da parcheggio, ecc. Recentemente abbiamo avuto il piacere di ammirare simpatici esempi di questa tipologia umana in quelli che si sbracciavano orgogliosi per poter esibire il proprio Green Pass (come piccolo segno di esclusività), o in tutti quelli che vomitano odio bellicista fomentando guerre per procura.
Le guerre per procura sono in effetti un caso di scuola della visione liberale, perché combinano due elementi strutturali del liberalismo reale: il filantropismo per cause distanti in luoghi remoti e la frustrazione rabbiosa pronta ad esplodere, che può essere rilasciata verso l’apposito “malvagio” o lo “stato canaglia” di turno. Le guerre per procura in luoghi remoti, cui ci si può collegare televisivamente ore pasti, per poi tornare alla serietà della vita nel resto della giornata, sono una soluzione pulsionale perfetta per il cittadino liberale, che può al tempo stesso sentirsi un benefattore dell’umanità e sfogare il proprio desiderio rabbioso di distruzione (evitando così di sparare al vicino o di farsi sparare da esso).
Accanto all’esercito degli sconfitti dalla vita, che covano sotto un volto disciplinato una rabbia disperata, c’è poi la rarefatta truppa dei vincitori, di coloro i quali vedono la società dall’alto della propria capacità di comprare ogni cosa e persona che gli possa servire. Questi sono finalmente nella posizione che il sistema gli ha promesso come premio sommo: la capacità di “realizzare i propri sogni” in grande stile. Sciaguratamente chi ha fatto tutto ciò che il sistema gli richiedeva per raggiungere quei vertici, di norma non ha avuto né il tempo nè la cura per approfondire nulla, e i suoi sogni vivono dell’immaginario plastificato, astratto, convenzionale che il sistema secerne come sottoprodotto culturale. Nel migliore dei casi queste anime piatte “si realizzano” in qualche modo infantile, comprandosi qualcosa di molto molto grande e molto molto costoso (una nave, un razzo spaziale, un’isola). Il caso peggiore però è quello in cui questi stessi ritengano di essere nella posizione di “migliorare l’umanità” – un’umanità di cui hanno solo una conoscenza da rivista patinata postprandiale – e che cercheranno di “migliorare” realizzando qualche fantasia letteraria: l’emancipazione di quelle che nel proprio tinello gli appaiono come “minoranze oppresse”; il miglioramento della volgare umanità con qualche tecnologia transumanista, ecc. Questi imperatori per censo che si vogliono despoti illuminati sono obiettivamente personaggi pericolosi per l’unione di potere e astrattezza.
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Ciò che bisogna tenere fermo di questo quadro, in conclusione, è soprattutto un punto, un singolo punto essenziale.
L’idea che la forma di vita liberale sia una forma di vita pacifica, rispettosa degli altri e umanitariamente ispirata è una delle più straordinarie fandonie e delle maggiori illusioni autointerpretative che una cultura abbia mai partorito.
Il liberalismo reale nella sua evoluzione storica ha fatto serenamente commercio di schiavi finché gli è convenuto (si vedano gli ottimi studi di Losurdo); ha fatto ogni resistenza possibile all’avvento di governi democratici che non fossero vincolati al censo; ha guidato gli eserciti imperialisti nello sfruttamento senza remore del resto del mondo nel XIX secolo (e anche dopo); ha fomentato lo sciovinismo e la guerra con i suoi giornali alle soglie del 1914; dopo la parentesi delle guerre mondiali ha ripreso la propria battaglia ideologica (nella versione “difesa del mondo libero”) facendo una raffica di guerre per procura mentre si vantava del proprio pacifismo; e infine dagli anni ’70, nella forma neoliberale, ha ripreso l’opera di progressivo spegnimento delle democrazie e di sistematico sfruttamento di chiunque abbia basso potere contrattuale.
Questo quadro può sorprendere il cittadino ingenuo, che magari è caduto vittima della pubblicità-progresso che il marketing ideologico liberale coltiva con grande cura. Essendo una cultura che nasce da una generalizzazione dello scambio commerciale, il liberalismo ha avuto sempre straordinaria cura del marketing, proiettando ovunque immagini idealizzate e ampiamente finzionali di sé. Ma al netto di questi raffinati tentativi di dissimulazione, il nocciolo duro del mondo liberale è rappresentato da una linea di sviluppo individualmente rivolta ad ideali di conquista, strumentalizzazione e asservimento, perché questa è la forma in cui “i sogni si realizzano”. Ciascun soggetto è spinto ad immaginarsi come un soggetto sovrano, indipendente, che non ha bisogno di nessuno, che può disporre strumentalmente degli altri e che è a sua volta disposto ad essere utilizzato, se questo lo conduce avanti nella realizzazione del suo sogno solitario. Ciascuno è dunque un re, un sovrano, un piccolo imperatore in potenza, e di diritto, che ha solo bisogno di un po’ di fortuna per esserlo anche di fatto. E se il destino non gli concede tale fortuna, sente di avere pieno titolo per sfogare la propria rabbia. Un sistema predatorio che genera con eguale intensità, sfruttamento, violenza, indifferenza e la più spettacolare ipocrisia.