Trump, ora più che mai!_di Roger Stone

Qui sotto pubblichiamo l’appello lanciato da Roger Stone a sostegno della ricandidatura di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti. Roger Stone è stato, assieme al Generale Flynn, una figura chiave della prima elezione di Trump. Non tutti lo hanno compreso nel movimento MAGA; forse nemmeno appieno lo stesso Trump, almeno sino a quando lo ha graziato dalla persecuzione giudiziaria allo scadere del suo mandato presidenziale. Lo hanno capito benissimo al contrario i suoi avversari portandolo con ferocia e spietatezza alla rovina economica e ad una condizione di salute precaria. Non ostante, assieme a qualche altro fondatore, abbia scelto di mettersi saggiamente in disparte al momento dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca, è rimasto comunque nel mirino spietato dei suoi avversari. Ricordiamo tutti la vergognosa spettacolarità della vera e propria operazione militare che lo ha condotto agli arresti in piena notte nella sua abitazione. Roger Stone è stato un alto funzionario dello stato federale con incarichi chiave sin dalla lontana amministrazione Nixon. Conosce benissimo i meccanismi di funzionamento delle dinamiche politiche americane ed ha intuito, tra i primi, la via del disastro verso la quale stavano conducendo il paese le varie amministrazioni, a partire da quella di Bush Senior e i centri decisori presenti negli apparati nevralgici. A settanta anni Stone getta sul terreno il peso della sua autorevolezza per sostenere ancora una volta Trump e diradare almeno in parte la cortina fumogena stesa sulle candidature alternative, o presunte tali che stanno emergendo. Non conoscendo bene, nei particolari, le dinamiche interne al movimento, nutriamo qualche dubbio, però, sulla giustezza di questa ricandidatura di un personaggio dai limiti, pari alla sua tenacia, evidenti e sulla maturità di eventuali candidature realmente alternative. Tanto più che, alla sua seconda riproposizione, non sembra disporre del sostegno e del supporto di un gruppo ben organizzato, strutturato ed esperto. La dinamica dello scontro politico negli Stati Uniti vive una fase di stallo, ma solo apparente. Di fatto la polarizzazione geografica del conflitto interno si è ulteriormente accentuata con l’ulteriore fattore dirompente di un movimento che continua ad estendersi nei ceti popolari produttivi delle varie etnie. L’alterazione dei risultati elettorali con brogli ormai su scala industriale sta facendo il resto, insinuando il dubbio sulla effettiva efficacia di un impegno politico fondato e dettato esclusivamente sulle scadenze elettorali in un movimento che ha compreso l’importanza di un radicamento nei centri amministrativi e di potere e di una connessione con quelle élites dissenzienti con l’attuale politica avventurista. Il movimento MAGA vive all’interno profonde contraddizioni tra chi punta ad una azione tendente semplicemente a dividere il fronte geopolitico avversario che si sta compattando, più per la costrizione esterna americana che per affinità dei componenti, attorno al polo russo-sino-indiano e chi, mosso probabilmente da una impostazione economicista e un po’ ingenua, tende a ridurre le dinamiche geopolitiche ad una serie di relazioni bilaterali mutevoli. Una interpretazione, quest’ultima, probabilmente accettabile e praticabile solo in una fase temporanea di transizione verso una ricomposizione multipolare degli schieramenti e non a caso sostenuta, paradossalmente, anche dalla attuale leadership cinese. Un aspetto che avrebbe dovuto far riflettere meglio la dirigenza cinese, riguardo al suo comportamento nei confronti di Trump. Un movimento il cui successo, però, potrebbe condurre ad una dinamica meno tragica le relazioni geopolitiche e spostare più all’interno degli Stati Uniti un conflitto che, altrimenti, coinvolgerà il mondo intero. Una classe dirigente e un ceto politico serio e legato agli interessi fondamentali dei paesi europei più importanti dovrebbe sostenere ed agevolare convintamente la strada di questo movimento proprio per gli spazi che un suo successo definitivo aprirebbe ad una condizione più autonoma ed indipendente dell’Europa. Il carattere miserabile, stupido, insipiente e compradore di questi, già visibile in quei quattro anni, sta emergendo, purtroppo, sempre più alla luce del sole condannando, con poche eccezioni, un intero continente al disastro inconsapevole ed autolesionistico a vantaggio di una élite sempre più arroccata. Buona lettura, Giuseppe Germinario

 

ROGER STONE: TRUMP, ORA PIÙ CHE MAI

Trump non è accettato o sostenuto dai membri titolari di tessera dell’establishment repubblicano di Washington. Questa è una virtù, non una pecca.

 

Nel suo discorso di annuncio alle sua corsa alle presidenziali 2024, un discorso ordinato e perfettamente disciplinato, Donald Trump si è riformulato come un outsider politico pronto a tornare alle guerre politiche di vecchia stagione e a sfidare gli interessi politici e mediatici radicali che hanno sistematicamente ribaltato e neutralizzato il progressi fatti durante la sua prima presidenza.

Quelli del movimento MAGA riescono a percepire, attraverso la narrativa accuratamente orchestrata, implacabile e completamente falsa, la tesi che cerca di incolpare l’ex presidente per la sottoperformance del partito repubblicano nelle elezioni di medio termine. Com’è conveniente che la vittoria relativamente facile del candidato appoggiato da Trump J.D. Vance in Ohio, così come la dura, ma riuscita rielezione del senatore Ron Johnson (forse il più grande difensore di Trump al Senato degli Stati Uniti) in Wisconsin sono così facilmente trascurate dai media.

Quelli della cabala corporativa/governativa/mediatica ora elevano lo spettro di una candidatura del governatore della Florida Ron DeSantis. La scelta di De Santis come principale nemico di Trump è un riconoscimento del fatto che il collegio elettorale dell’America Prima (MAGA) è ancora dominante alla base del Partito Repubblicano. DeSantis, nonostante il suo pedigree, ha governato in Florida seguendo il manuale del MAGA.

L’establishment, che ora cerca di distruggere Trump, ha già riconosciuto la non fattibilità di presentare come alternativa a Trump l’ex vicepresidente Mike Pence o l’ex direttore della CIA e segretario di Stato Mike Pompeo, tutte e due potenziali candidature assolutamente impopolari tra la base di MAGA. L’ascesa di una potenziale candidatura di De Santis, toglie prezioso ossigeno che una delle loro candidature richiederebbe.

L’unico altro potenziale candidato, dietro cui la cabala repubblicana/mediatica poteva schierarsi, il senatore della Florida Marco Rubio, è stato sostanzialmente neutralizzato da Trump quando l’ex presidente ha tenuto un comizio caloroso a favore di Rubio, in Florida, nel momento in cui  la rielezione del Senatore Rubio era in bilico. La sfida contro la candidata Democratica si presentava problematica poiché la deputata della sinistra radicale; Val Demings era ben finanziata e organizzata. L’intervento di Trump ha tolto dalla pentola bollente Rubio forzando poi Rubio ad essere in debito con Trump e quindi ora fedele all’ex presidente.

Prima del comizio di Trump a Miami, i sondaggi mostravano che Rubio era in vantaggio su Demings di soli tre punti, ma dopo il comizio di Trump, il senatore Rubio ha ottenuto una vittoria finale di 16 punti rispetto alla Demings.

Con Pence e Pompeo che mancano del necessario appeal nella base repubblicana e con Rubio dipendente ora da Trump,altro non rimane che DeSantis.

Ieri sera ho partecipato allo storico annuncio del presidente Trump a Mar-a-Lago della sua candidatura per le presidenziali del 2024. C’era elettricità nell’aria che non vedevo né sentivo dall’inizio del 2016. I media hanno rapidamente sottolineato che mentre io e Mike Liddell, descritti come “i sostenitori di Trump”, eravamo tra il pubblico, nessun membro del nuovo Congresso era presente . Ancora una volta, i media giudicano male l’umore degli elettori;  il fatto che Trump non sia appoggiato o sostenuto da membri tesserati dell’establishment repubblicano di Washington è un pregio, non un difetto.

L’assalto organizzato dall impero mediatico NewsCorp di Rupert Murdoch, tra cui Fox News, il Wall Street Journal e il New York Post, mette in mostra una chiara impressione errata del ruolo svolto da Fox e dalle altre testate giornalistiche di Murdoch nell’ascesa iniziale di Trump.

Fox News ha cercato sistematicamente di promuovere più sfidanti a Trump nelle primarie del 2016. Tuttavia, ha visto svanire quegli sforzi quando hanno scoperto che trasmettere dall’inizio alla fine i comizi di Trump faceva guadagnare gli indici più alti di ascolto mai registrati prima nella storia di Fox News, consentendo così a Murdoch di addebitare molto di più per la pubblicità sulla sue reti. Fox News ha  beneficiato della nomina e dell’elezione di Donald Trump più che Trump abbia beneficiato delle dirette fatte dalle emittenti di Murdoch.

Qualcuno crede che qualsiasi candidato diverso da Donald Trump potrebbe affrontare coloro che traggono grandi profitti dall’immigrazione illegale e frontiere aperte?

Qualcuno crede che qualsiasi candidato diverso da Donald Trump smaschererà e correggerà la corruzione nelle nostre agenzie di intelligence e negli uffici delle forze dell’ordine, come la CIA e l’FBI?

Qualcuno crede che qualsiasi candidato diverso da Donald Trump organizzerà una campagna nazionale per porre un limite temporale per  i membri eletti del Congresso?

Qualcuno crede che qualsiasi candidato diverso da Donald Trump imporrebbe il divieto agli ex membri del Congresso, o del ramo esecutivo, di esercitare pressioni dopo aver lasciato le alte cariche del governo?

Qualcuno crede che qualsiasi candidato diverso da Donald Trump sfiderà il duopolio bipartitico che sta cercando di cancellare la nostra eredità, cancellare la nostra Costituzione e distruggere le stesse libertà che garantiscono lo stile di vita americano?

Ecco perché sono con Trump, ora più che mai.

 

Roger Stone

Cambio di epoca, di André Laranè

Da Olaf Scholz a Joe Biden, il ritorno del protezionismo

23 novembre 2022: la “terza globalizzazione” volge al termine. Questo fenomeno era stato a lungo evidente. Ma ciò che lo era di meno è il caos in cui si pone con gli Stati dell’Unione Europea che competono tra loro attraverso i sussidi e gli Stati Uniti che stabiliscono senza remore misure fortemente protezionistiche a vantaggio dei loro industriali nazionali…

Attraverso il caos economico che ha provocato (penuria, embarghi, crisi energetiche, ecc.), la guerra in Ucraina ha rilanciato la guerra commerciale e questa ha colpito in primo luogo gli Stati che si erano maggiormente impegnati nel libero scambio, vale a dire gli Stati europei.

Siamo molto probabilmente giunti alla fine di un ciclo storico iniziato dopo la seconda guerra mondiale con i negoziati internazionali a favore della liberalizzazione degli scambi ( Kennedy Round ) e culminato a fine secolo con la creazione del WTO ( World Trade Organization ) nel 1994. Non è niente di nuovo sotto il sole. È la riedizione di una politica di libero scambio iniziata con il  trattato franco-britannico del 1860 e durata fino alla vigilia della Grande Guerra. In questo periodo, ricorda Suzanne Berger, docente al MIT di Cambridge (Massachusetts),“l’internazionalizzazione dell’economia lì ha raggiunto, nei settori del commercio e della mobilità dei capitali, un livello che riprenderà solo a metà degli anni ’80”  ( nota ).

Contestata dagli antiglobalisti  fin dall’inizio del XXI secolo, la  “terza globalizzazione”  è oggi allo stremo (621). Niente di straordinario in questo. I suoi principali iniziatori, vale a dire gli Stati Uniti e l’Europa occidentale, hanno esaurito il suo fascino. Ciò che è inatteso, invece, è la ricomposizione dei circuiti di scambio attorno al pianeta e la ridistribuzione delle carte. Quasi vent’anni fa, abbiamo evocato l’ avvicinarsi della fine di questa globalizzazione prevedendo la costituzione di blocchi più o meno interdipendenti: Americhe, Europa-Russia-Mediterraneo, Asia meridionale e paesi dell’Oceano Indiano, Estremo Oriente.

Ce ne stiamo allontanando infatti per ragioni che hanno a che fare con l’ideologia e le bizzarrie geopolitiche piuttosto che con la razionalità economica. La Russia, ricacciata nelle tenebre , ruppe brutalmente con l’Europa alla quale era destinata ad associarsi. Nella stessa Europa, la moneta unica ha aggravato le divergenze e le tensioni tra il nord (ex “zona del marco” ) e il sud ( “Club Med” ). Dall’Algeria all’Iran, il mondo mediterraneo e mediorientale non offre più serie prospettive di sviluppo. La Cina, dopo gli sgargianti successi, prende atto del fallimento delle sue Nuove Vie della Seta. Comincia a soffrire, come i suoi vicini, dell’invecchiamento della sua popolazione e del mancato rinnovamento delle generazioni. Solo l’Asia meridionale ei paesi dell’Oceano Indiano (India, Insulindia, ecc.) proseguono la loro allegra strada.

L’Occidente sull’orlo di un esaurimento nervoso

In Occidente, il libero scambio si è manifestato per l’ultima volta con l’attuazione del trattato commerciale tra Europa e Canada (CETA). Il trattato è entrato in vigore il 21 settembre 2017, “provvisoriamente” , senza votazione da parte dei parlamenti nazionali. Da allora, la ribellione degli elettori alle urne e nelle strade così come la rivelazione della nostra fragilità industriale in occasione della pandemia (carenza di mascherine, respiratori, ecc.) hanno raffreddato l’ardore liberista.

Infine, la guerra in Ucraina ha fatto cadere le maschere. Quando si è trattato di riarmo, Polonia e Germania si sono subito rivolte agli Stati Uniti per ordinare caccia F-35 senza preoccuparsi di considerare l’offerta francese con il suo Rafale . Qualche mese dopo, per dare il cambio, tutti fingono di voler riattivare il progetto di un aereo europeo.

Nel settembre 2022, il nuovo cancelliere tedesco Olaf Scholz ha annunciato lo sblocco di 200 miliardi di euro per proteggere le persone e soprattutto le aziende dall’aumento dei prezzi dell’energia. Questa misura a sostegno della sua industria, presa senza consultazioni con gli altri governi europei, è uno schiaffo in faccia ai partner commerciali della Germania e in particolare alla Francia, che non hanno tante riserve monetarie e temono che le loro aziende vengano schiacciate dai loro rivali tedeschi.

Dall’altra parte dell’Atlantico, gli Stati Uniti, forti della loro onnipotenza militare, se ne servono apertamente per rompere quel che resta dell’autonomia europea.

Il sabotaggio dei gasdotti balticiha infranto le speranze degli industriali tedeschi di trovare rapidamente energia a basso costo. Due mesi dopo, nonostante i mezzi di indagine a disposizione degli americani, non sappiamo ancora chi si celi dietro questo sabotaggio: i perfidi russi, come suggeriscono i media occidentali, o gli inglesi che, con i loro luoghi di conoscenza, avrebbero agito su ordine da Washington, come suggerisce il Cremlino? Eppure questo sabotaggio è un nuovo duro colpo per gli europei che sono costretti ad acquistare a caro prezzo lo shale gas liquefatto americano, mentre cittadini e industriali d’oltreoceano possono continuare ad acquistare questo stesso shale gas a un prezzo tre volte inferiore: 10 dollari invece del 30 per mille BTU (unità termiche barili).

Infine, a seguito della sua promessa agli elettori che lo hanno riconfermato alla Casa Bianca, Joe Biden ha firmato l’ Inflation Reduction Act (RIA). Con il pretesto di combattere sia l’inflazione che il riscaldamento globale, ha sbloccato 300 miliardi di dollari a beneficio dei suoi concittadini con in particolare un credito d’imposta fino a 7500 dollari, riservato all’acquisto di un veicolo elettrico uscito da una fabbrica nordamericana con una batteria prodotta localmente. Si prevede inoltre che la fabbrica sia aperta ai sindacati statunitensi, il che esclude le fabbriche di produttori asiatici installate in America! Questa clausola rivolta gli europei e in particolare il commissario europeo al mercato interno Thierry Breton, che vede“Ingenti sovvenzioni che possono portare a distorsioni della concorrenza” .

Si apriranno trattative tra gli alleati per cercare di appianare queste divergenze senza però vedere gli assetti degli europei, divisi e più che mai dipendenti da Washington in materia militare e strategica. Questa situazione ricorda i rapporti tra Atene ei suoi “alleati”  della lega di Delo , dopo che questi ultimi avevano affidato ad Atene la loro sicurezza contro l ‘”orso” persiano .

https://www.herodote.net/D_Olaf_Scholz_a_Joe_Biden_le_retour_du_protectionnisme-article-2838.php

“La guerra necessaria. Logiche della dipendenza, di Alessandro Visalli

La guerra sollecita sentimenti di morte e gratifica le virtù meno virtuose, esalta il coraggio meramente fisico, sollecita il nazionalismo. La nostra civiltà, come è accaduto in altre crisi, sta retrocedendo rapidamente (uso questa parola che evito sempre perché qui è appropriata in senso tecnico) a stati spirituali ed emotivi che si credevano erroneamente passati, quando erano solo sopiti perché non necessari. Anche se lascia senza parole, tutto ciò non accade per caso: appena la posizione dei nostri sistemi economici nella catena del valore, o, per dirlo meglio, nella catena dello sfruttamento e dell’estrazione di valore mondiale è stata sfidata, e ciò si è fatto urgente[1], allora abbiamo immediatamente dismesso l’abito del mercante per prendere dagli antichi armadi quello del guerriero e tutta la sua epica. Non appena i nostri privilegi, la possibilità di avere i nostri agi e i nostri giocattoli con poche ore di lavoro (mentre i fattori con i quali sono prodotti derivano da tantissime ore di altri umani meno umani) è stata messa a rischio allora è uscito lo spirito vero dell’Europa. Il pirata Drake, fatto baronetto e poi divenuto parte della schiatta dominante; i tanti avventurieri senza scrupoli ma con tanto coraggio che hanno piegato il mondo; la corazza di Cortez, … Tutto è tornato, anche la nausea.

Fino a ieri, sicuri che il ‘dolce commercio[2] avrebbe portato con sé attraverso la spinta interna del consumo l’allineamento del mondo agli standard dell’occidente e garantito quindi il relativo dominio di fatto, erano i paesi guida anglosassoni (e gli Usa in primis) a spingere sull’interconnessione. L’idea era di considerare la “modernizzazione”[3] compiuta storicamente, ed in innumerevoli conflitti, dalle società europee nel torno di anni tra il XV ed il XIX secolo come una “tappa”[4], storicamente necessaria, dei “progressi”[5] della “Ragione”[6] che porta con sé il necessario -biunivocamente connesso- sviluppo delle forze produttive. Nessuno sviluppo autentico è quindi considerato possibile, né civile e morale, né produttivo ed autosostenuto, senza che si aderisca a questo movimento ineluttabile e progressivo, irreversibile, scritto nella “Storia”[7], e del quale l’Occidente rappresenta il modello e l’alfiere. Questa costellazione di idee, nelle quali è incorporata la mente di ogni “buon” cittadino occidentale, democratico e progressista, sicuro della propria superiorità e del destino manifesto che aspetta il mondo intero quando lo riconosca, è sfidata oggi dalla direzione che stanno prendendo i fatti.

Bombardamento di Belgrado, 1999

 

Ci sono molte chiavi possibili per comprendere questo fenomeno. Una risale allo scontro di potenza (ovvero tra “grandi potenze”[8]) che ha un sapore novecentesco inconfondibile. Per chiamare un testimone non sospettabile di amicizia con il nemico, Chas Freeman[9] ha recentemente dichiarato[10] che la guerra tra Ucraina e Russia assomiglia alle guerre per procura tra i blocchi della guerra fredda, come quella del Vietnam o dell’Afghanistan, dove una parte era impegnata e si logorava e l’altra operava in modo indiretto. La parte che agiva tramite il procuratore, fino al suo ultimo uomo, non aveva alcun interesse a porvi fine. In questo caso Washington ha costantemente soffiato sulla brace fino a che è divampato il fuoco. Come scrive nel suo articolo, ha “trascorso gli ultimi otto anni ad addestrare ed equipaggiare le forze ucraine per combattere la Russia e i separatisti a Donetsk e Lugansk. Ha sostenuto con forza la resistenza ucraina all’aggressione russa, suggerendo al contempo che potrebbe opporsi a un accordo ucraino con Mosca, che considera troppo favorevole alla Russia”. Insomma, “queste politiche non mirano a produrre una pace. Mirano a sostenere la guerra finché ci sono ucraini disposti a morire in combattimento con i russi”. Dunque, in sintesi, “nella guerra in Ucraina, abbiamo appena assistito alla fine del periodo successivo alla Guerra Fredda, alla fine del secondo dopoguerra e all’era di Bretton Woods, alla fine della pace in Europa e alla fine del dominio globale euro-americano. Le sanzioni ora divideranno il mondo in ecosistemi in competizione per finanza, tecnologia e commercio. Difficilmente possiamo immaginare le implicazioni di una tale trasformazione.”

Guardando invece la cosa dal punto di vista russo per il politologo russo Dmitrij Trenin[11] la guerra per procura con gli Stati Uniti è da inserire in un complessivo processo di cambiamento dell’ordine mondiale che vede il baricentro di attività economica spostarsi dall’Euro-Atlantico all’Indo-Pacifico. In questa crisi si sta abbandonando l’eredità di Pietro il Grande, ovvero il desiderio Russo di essere parte integrante della civiltà paneuropea che è andato avanti sino al “primo” Putin (il quale chiese di entrare nella Ue e nella Nato). Il fallimento di questi tentativi deriva però dal semplice fatto che “gli edifici europei sono stati costruiti ed occupati sotto la protezione degli Stati Uniti, e non della Russia”. Questa, come dice, “non è colpa di nessuna delle parti. È impossibile per il collettivo occidentale incorporare una scala così ampia nella sua comunità senza minare le sue fondamenta strutturali; ampliare le fondamenta significherebbe rinunciare alla sua posizione egemonica” (questa è la frase chiave, sulla quale torneremo nel seguito).

E’ sempre più evidente che i paesi ‘non bianchi’ (secondo la razzistica tassonomia implicita, e talvolta non solo, occidentale[12]) emergono alla consapevolezza che la pluralità di civiltà esistenti ha pieno diritto di considerarsi alla pari con quella occidentale. Le civiltà cinese, indiana e islamica si stanno quindi alzando e rifiutano la visione gerarchica lungo il maggiore o minore ‘avanzamento’, o ‘modernità’[13]. Di fronte a questa contrapposizione, anche culturale, la guerra ibrida[14] in corso nasconde e manifesta ad un tempo grumi concreti di interesse, di classe e di gruppo. Specificamente l’interesse dell’Occidente (anzi, di uno degli occidenti) a conservare la sua capacità di aspirare dal mondo il surplus, tramite il commercio ineguale e tramite l’interconnessione finanziaria, e sostenere in tal modo un tenore di vita che eccede quello del resto dell’umanità. Interessi che sono per questo accuratamente nascosti sotto più strati sovrapposti di ideologia e di sentimenti apparentemente umani.

 

Perché, però, Trenin dice che è impossibile per il collettivo occidentale incorporare una scala così ampia nella sua comunità senza minare le sue fondamenta strutturali in quanto ampliare le fondamenta significherebbe rinunciare alla sua posizione egemonica? Uno schema analitico[15] proposto a partire dagli anni cinquanta del novecento (con antesignani negli anni venti e trenta) e poi sommerso negli anni novanta dalla fine della guerra fredda può fornire qualche indizio. Esso individuava nella “metropoli” una tendenza alla concentrazione e sottoinvestimento tenuta a tratti sotto controllo da specifiche ‘controtendenze’ le quali coinvolgono le “periferie”. Le principali nel secondo dopoguerra furono la guerra fredda (con l’espansione del sistema militare-industriale e i corposi investimenti pubblici connessi), l’esportazione di capitale per sfruttare lavoro e materie prime a basso prezzo, e la cetomedizzazione[16], che contribuì a spegnere le tensioni politiche create dalle numerose ‘periferie’ interne. La nozione di ‘periferia’ e di ‘centro’ (o “metropoli”) era una delle chiavi più importanti ed anche una delle più delicate della teoria e viene ripresa spesso nel dibattito contemporaneo.

Uno dei punti chiave era che il dirottamento del surplus su spese improduttive (il cui massimo esempio è in quelle militari), lungi dall’essere uno spreco ed una distorsione, diventa una necessità sistemica che serve nel breve termine ad impedire la stagnazione per impossibilità di ‘realizzo’ del capitale. Dunque, sempre nel breve termine, esso rende possibile la prosecuzione dell’accumulazione. Le merci e i servizi prodotti, infatti, nelle condizioni monopolistiche hanno una strutturale difficoltà a trovare collocazione in un mercato interno reso debole dall’eccesso di estrazione di surplus e di concentrazione dei profitti e dei capitali. Ne deriva la tendenza alla successione di fasi di espansione e destabilizzazione, e di conseguente l’insorgere ciclico di fasi di disordine sistemico (anche politico), che caratterizzano la fisiologia del sistema capitalistico esteso.

La tesi, avanzata già alla fine degli anni Quaranta, era che le ‘ragioni di scambio’[17] tra paesi sviluppati e non tendono, nel lungo periodo, a sfavorire i paesi esportatori di prodotti primari in favore di quelli che esportano prodotti manifatturati. È la debolezza relativa del mondo del lavoro nelle periferie a determinare questo effetto, per il quale i prodotti industriali contengono, a parità di prezzo, molto meno lavoro e meno fattori (energia, materia) di quelli con i quali sono scambiati. Di qui la prescrizione classica di procedere ad un’industrializzazione forzata. La prescrizione economica principale di tutte le diramazioni della teoria è la cosiddetta “disconnessione[18]. Ovvero, partendo dal riconoscimento dell’esistenza di una ‘metropoli’ sfruttatrice e di una ‘periferia’ sfruttata, della necessità di sviluppo industriale autonomo e della ‘sostituzione delle importazioni[19]. Una prescrizione per molti versi semplicistica che è fallita ovunque non erano presenti le condizioni di forza (ma non ovunque).

 

La mondializzazione e l’Ordine Mondiale a guida occidentale (dell’Occidente collettivo) emerse proprio dopo la decolonizzazione e gli sforzi falliti di “sostituire le importazioni”; molti paesi ex coloniali a quel punto avevano infrastrutture ed erano disponibili ad avviare cicli di industrializzazione molto più solidi. I capitali (anche quelli riciclati dal saccheggio dell’est) vennero quindi proiettati nelle ex periferie con maggiore impeto ed esplose in pochi anni l’esercito di riserva mondiale. La base produttiva si sparpagliò in tutte le aree di minore resistenza. Nel modello che si affermò la domanda era, peraltro, ormai garantita dalla fluidità ed estensione dei mercati e dal meccanismo delle “bolle”. Nacque così il sistema della “sostituzione delle esportazioni”, fragile e basato sulla liquidità, che da allora deve correre sempre più forte per restare sostanzialmente fermo. In questo contesto in via di formazione, dalla metà degli anni Ottanta, a Birmingham la “banda dei quattro” (Immanuel Wallerstein, Giovanni Arrighi, André Gunder Frank e Samir Amin) elaborò la “teoria dei sistemi mondo”. Il focus analitico si spostò dagli stati-nazione al sistema globale. Negli anni Novanta la teoria si consolidò. Venne proposta da Giovanni Arrighi una teoria dei cicli egemonici[20] non economicista, che individua come fattore principale il “vantaggio posizionale” e lo scontro tra due tecnologie del potere reciprocamente estranee: una ‘capitalista’ ed una ‘territorialista’. Lo schema analitico postulava l’esistenza di grandi cicli di accumulazione, composti idealtipicamente da una fase di espansione produttiva seguita da una fase terminale finanziaria, che si intrecciano a cicli di egemonia in cui un “centro” si impone a tante “periferie”, creando ogni volta un sistema funzionalmente interconnesso. Quando i cicli vanno ad esaurimento la soluzione delle contraddizioni avviene tramite la riorganizzazione dello spazio politico-economico mondiale da parte di un nuovo Stato capitalistico egemonico che ha un diverso e più efficace modello. Nel complesso si passa quindi da un modello fondato sulla trasformazione DTD’ ad una TDT’, passando da un’instabilità all’altra nella ricerca di “terre vergini”, nel senso di sfruttabili.

 

Secondo le ‘teorie della dipendenza’, che pure hanno andamento plurimo e notevoli divergenze interne, insomma, il capitalismo è un movimento che genera sempre una dialettica spaziale internamente connessa con la lotta di classe. Crea e vive di squilibri. Ne deriva una tendenza interna a trovare sempre nuovi sbocchi alle eccedenze di capitale che generano i “centri” (monopolistici)[21]. Ma questo determina una cronica instabilità e genera instancabilmente dipendenze. La geopolitica del capitalismo crea quindi costantemente e necessariamente economie subalterne, e quelle che Harvey chiama “coerenze strutturate incomplete” (appunto perché dipendenti). Contemporaneamente genera e sostiene alleanze di classe nelle quali quelle superiori sono di necessità estese a livello internazionale. Quindi crea costantemente colonialismo (esterno ed interno) ed imperialismo. Il punto è che questo movimento a spirale, oltre ad essere costantemente a rischio di crollo, non è autoequilibrante ma favorisce la concentrazione delle risorse nelle aree forti ed effetti di riflusso su quelle di provenienza. Per questa ragione la geopolitica del capitalismo è sempre alla ricerca di meccanismi nuovi di assorbimento (impiego) del surplus e dello sfruttamento di una classe e di un territorio sugli altri. Questa ricerca, parossistica, di ‘soluzioni’ spaziali attiva il circolo vizioso della competizione sulla scala globale ed espone il mondo al costante rischio di precipitare nella violenza (anzi, è in se stesso violenza potenziale, trattenuta e minacciata).

E’ importante sottolineare che la tendenza intrinseca del capitalismo a generare scontri tra aree e dipendenze “coloniali” non è una questione di disposizione morale, ma una necessità. Non è un complotto ma un funzionamento. L’accumulazione del capitale è, infatti, in buona misura una questione geografica. Il problema è che, nel quadro di questa teoria, l’interconnessione delle dinamiche di espansione e contrazione produce oggi l’esaurimento della soluzione (alle crisi degli anni Sessanta e settanta) della finanziarizzazione e poi mondializzazione e quindi l’accelerazione di una transizione in corso da molto tempo. Transizione che è cresciuta all’ombra della fase ‘unipolare’ (quando l’egemone statunitense si è progressivamente mutato in dominatore) fino ad emergere negli ultimi anni con la doppia sfida della Cina e della Russia (e degli altri). Assistiamo perciò all’emergere di nuove potenziali costellazioni di potenza, e di una nuova egemonia possibile, che determina aree di crisi ad elevato rischio di perdita di controllo. Perdita di controllo che oggi abbiamo sotto i nostri occhi, quando la ‘violenza trattenuta e minacciata’ tende ad uscire dalle caserme.

Più concretamente, l’esaurimento, da vedere come perdita di equilibrio, del ciclo del debito sembra imminente. Le istituzioni finanziarie pubbliche, sulle quali da tempo è caduto il peso di salvare il sistema dal quale dipendono per intero le élite e buona parte dei sistemi sociali e territoriali del mondo, fanno crescente fatica a garantire la liquidità. Sempre nuove invenzioni sono messe sul tappeto e sempre meno tempo è in tal modo “comprato”[22]. Tutto ciò è stato enormemente accelerato dalla crisi pandemica[23]. Dall’altra parte sono in corso potenti riarticolazioni del modo di produzione stesso[24]. Si tratta di un livello sotterraneo, ma decisivo, di tensione che spinge per mutamenti radicali a causa della difficoltà alla riproduzione del capitale, dei crescenti rischi di controllo, della dinamica interna della tecnoscienza. Tutte queste forze convergono nel mutamento accelerato della piattaforma tecnologica[25] e quindi delle strutture della vita quotidiana di molti. Queste tendenze di crisi, che possono essere lette con le lenti della “teoria della dipendenza”, si legano agli effetti depositati dalla lunga fase neoliberale. Precisamente alla ridislocazione in occidente del lavoro di massa verso settori a basso valore aggiunto, e quindi deboli ed a più elevato tasso di sfruttamento ed alla concentrazione crescente dei guadagni di ricchezza su sezioni sempre minori della popolazione, avvantaggiate dalla propria posizione nei flussi di valore e nei luoghi ‘densi’ che li organizzano.

 

La guerra tra la Russia e l’Ucraina aggiunge un’ulteriore dimensione a questa consapevolezza e sta spingendo tutte le parti del mondo a richiedere improvvisamente “indipendenza”, piuttosto che efficienza e rapidità.

Ciò che accade ha portata storica. Alcuni mesi fa il vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Federazione Russa, il filoccidentale ma fedelissimo di Putin ex Presidente ed ex Primo ministro fino al 2020 Dmitrij Anatol’evič Medvedev, ha dichiarato sulla stampa russa che le sanzioni (congelamento delle riserve, misure sui capitali privati all’estero, esclusione dallo Swift) violano la sacralità della proprietà privata e lo stato di diritto, apparentemente cari all’occidente, e dunque manifestano una ‘guerra senza regole’ che ‘distruggerà tutto l’ordine economico mondiale’. Lo distruggerà (anzi, lo ha già distrutto) perché queste misure colpiscono principalmente la credibilità stessa di chi le promuove, stracciando leggi e regolamenti, con ciò mostrando la natura del potere. Determinano l’arrivo di un nuovo “Ordine finanziario mondiale” nel quale chi non è credibile non avrà più voce in capitolo. Chi farebbe patti con un baro? La risposta russa a questa mossa è stata di tentare di capovolgere il principio di base denaro-per-merci. L’idea è di connettere merci di base, petrolio, gas naturale, materie prime minerarie e oro, al rublo. La guerra valutaria lanciata contro la Russia, fondata sull’inibizione della liquidità in modo che sia inibita sia la funzione di riserva di valore, sia quella di mezzo di scambio della moneta internazionale detenuta dal sistema economico russo, viene tradotta da questa mossa (alla quale lavora la Banca centrale Russa e la diplomazia economica altamente attiva verso i paesi ‘non allineati’, che crescono ogni giorno) in guerra di merci e monete. Ovvero in un confronto a tutto campo tra ‘merci’ cruciali e monete sovrane ad esse ancorate. Se l’Occidente ha la sua valuta finanziaria, il ‘non-occidente’ (che si genera per negazione direttamente dalla logica della ‘crociata’ politico culturale altamente autolesionista avviata dai neocon americani negli anni Novanta ed ora fatta propria dai democrat al potere[26]) ha le merci di base e anche la capacità di trasformazione. Da tempo, infatti, le basi industriali di tutte le filiere mondiali non sono più in Occidente e questo fa tutta la differenza. Allora, chi ha paura di chi? Chi punisce chi? Chi ha ucciso il cervo? Si chiede Zhang Weiwei (docente di economia al Fudan e presidente del China Research Institute) su Guancha[27].

Chiaramente, la rivoluzione contro l’Ordine valutario americano[28], lanciata in questo modo, deve vedere necessariamente la partecipazione della Cina stessa, che è ormai la più grande economia mondiale (a parità di potere di acquisto, ovvero in termini di beni reali), il più grande commerciante di beni e il più grande mercato di consumo e investimento. E’ del tutto chiaro che avendo perso tutti questi primati gli Stati Uniti sono in una posizione di fragilità.

Questa considerazione mostra con precisione la posta della guerra e anche la ragione della disperata determinazione americana (e dei suoi clienti e subalterni).

Si tratta, niente di meno che di tradire il principio cardine dell’Ordine finanziario esistente per il quale la liquidità va sempre protetta. Ovvero il principio per il quale va sempre garantito, costi quel che costi, che sia sempre possibile la convertibilità incondizionata tra moneta e credito (per cui qualsiasi credito sia sempre rilevabile a richiesta in moneta). Questo è quel che rendeva il dollaro la moneta centrale e i suoi titoli la riserva di valore più affidabile per privati e stati. Se il credito è essenzialmente una relazione rischiosa, allora ciò che è stato fatto è di distruggerlo. Ma non si può distruggere una relazione senza esserne colpiti.

Ed il colpo cade in una situazione di enorme fragilità. Infatti la potenza americana, in prima fase fondata sulla maggiore produttività e sull’enorme dotazione di infrastrutture, industrie, capacità in un mercato continentale interconnesso, dalla crisi degli anni sessanta-settanta (nella quale quella supremazia si erode) e dalla rottura del 1971 non vive più del suo commercio e della sua produzione, ma dei suoi debiti. Paradossalmente vive di rendita sui propri debiti, grazie alla tesaurizzazione come moneta del debito della sua Banca Centrale, che è accettata in tutto il mondo come moneta di riserva. Il sistema del dollaro svolge questa funzione in modo rischioso ed incerto, a causa dell’assenza di una sottostante economia effettivamente dominante, sostenuta da un attivo commerciale che renda logico detenere riserve (per acquistare beni). La funzione di riserva, questo si vede benissimo in questa crisi, ha il suo limite fuori di sé (si regge sull’indispensabile capacità di minaccia, e quindi di ordine, svolta dalle forze armate americane). Del resto, a ben vedere, c’è in pratica un solo ‘bene’ nel quale la superiorità Occidentale è ancora netta: le armi. Di qui l’assoluta necessità di spezzare la resistenza russa, prima che la Cina diventi troppo forte anche su questo terreno.

 

Dall’altra parte l’idea che emerge dalla reazione del sistema russo alla crisi, alla quale si era lungamente preparato[29], è di riposizionarsi nella catena del valore da paese ‘periferico’, che essenzialmente vende materie prime con sfavorevoli ragioni di scambio, affidandosi per il resto alle importazioni di prodotti finiti o semilavorati, a paese ‘semicentrale’ in un ecosistema dominato da centri di potenza ed industriali meno ostili (la Cina, l’India, il Brasile, il Sudafrica, i Brics, ai quali aggiungere almeno il Venezuela, alcuni paesi africani, alcuni paesi del golfo, probabilmente il Pakistan e forse l’Arabia Saudita) e, soprattutto, più complementari.

Detto in altre parole, c’è una sorta di ironia: l’occidente si aspetta che l’ambiente economico russo sia costretto dalla crisi dei capitali ad accettare una situazione di maggiore dipendenza e quindi maggior sfruttamento (banalmente di dover accettare di vendere i propri prodotti e materie prime ad un prezzo inferiore, o serbando minore quota del profitto[30]), ricollocandosi in posizione ancor più periferica. Ma la Russia sembra voler accettare la sfida e punta a ricollocarsi in un diverso ecosistema nel quale la propria industria e i propri prodotti energetici siano più necessari. Il progetto di Putin, e dei gruppi decisionali che lo circondano, è quindi di invertire la sconfitta degli anni Ottanta, ma non nel modo che pensiamo: non si tratta affatto, almeno a medio termine, di recuperare le aree di influenza territoriale perdute che, nel frattempo, si sono interconnesse con l’ecosistema economico occidentale in modo troppo intenso (tanto meno di farlo per via militare). Si tratta di qualcosa di molto più significativo: di risolvere l’incorporazione subalterna del sistema-mondo che allora fu determinata. Esiste solo un modo a tal fine, ed è quello che viene indicato come “ristrutturazione strutturale dell’economia”. Si tratta di riportare le proprie élite industriali e finanziarie, con le buone o le cattive (ed una guerra è a tal fine perfetta) sotto il dominio della propria logica ‘territorialista’; rialzare a tal fine barriere di sistema (e questo lo stanno facendo gli Usa); trovare un’altra area di proiezione per i propri capitali, nella quale la concorrenza sia più contenuta e l’ambiente normativo più controllabile. Passare da un modello trainato dalle esportazioni (quello della “Grande Moderazione” degli ultimi trenta anni) ad uno in cui è la domanda interna a stabilizzare il paese. Si tratta ovviamente di un enorme compito per il quale saranno necessari anni e potrebbe fallire, si dovrà: ristrutturare il mercato del lavoro; modificare i settori trainanti; attuare quella che in Cina è stata chiamata una “doppia circolazione”. Ciò dovrà comportare una netta ridistribuzione tra industrie e professioni, oltre che tra aree economiche geografiche. Molti impiegati di alto livello nelle multinazionali estere perderanno il lavoro e dovranno ricollocarsi, mentre presumibilmente ci sarà più lavoro ai livelli meno sofisticati. Malgrado ciò, perché sia possibile ristrutturare l’economia, il monte complessivo dei salari dovrà aumentare, per far crescere la domanda interna. Il modello neoliberale funziona all’esatto opposto. Tiene compressa la domanda interna, per proteggere i profitti industriali, e ricerca la necessaria capacità di spesa per garantire il realizzo delle merci in capitale all’estero in una lotta spietata a somma zero. In questo consiste la sua “libertà”. La scommessa russa è di poter ritransitare nel modello opposto, ovviamente insieme alla Cina ed a numerosi partner. Un modello che stabilizza il proprio ciclo di valorizzazione e riproduzione del capitale facendo essenzialmente leva sul mercato interno, salari alti e stabili, una classe media in ascesa. Ovviamente ne fanno parte un certo controllo dei flussi di capitali e l’indisponibilità a farsi controllare dall’esterno.

L’idea è che dentro questo sistema, che fraziona il complessivo sistema-mondo occidentale, ritagliandovi un grande enclave, la Russia possa trovare una posizione di minore debolezza. In altre parole che possa essere più necessaria, sia come fornitore di materie prime e di tecnologie avanzate (in alcuni specifici settori, aerospaziale, chimica, nucleare, militare), sia come fornitore di protezione (sfidando, ovviamente, il monopolio Usa su questo cruciale ‘servizio’). Due generi di interlocutori sono da individuare per questo progetto: in primo luogo, i grandi paesi altamente differenziati e fortemente finanziarizzati, ma che nell’ecosistema “Occidentale” sono costantemente schiacciati al ruolo di junior partner o di ospite inaffidabile[31]. In secondo luogo, i paesi intermedi, con una specializzazione più pronunciata e minori risorse umane, materiali e finanziarie. Questi si sentono spesso umiliati e vittimizzati dall’arroganza occidentale e possono essere tentati di ridurre la dipendenza.

Chiaramente, e simmetricamente, i paesi che nell’attuale sistema-mondo sono ‘centrali’ o ‘semi-centrali’ (o ‘semi-periferici’ in un centro rilevante come quello europeo), da questa riframmentazione in sistemi-mondo interconnessi, ma anche parzialmente separati, hanno da perdere. Da una parte si riducono gli sbocchi alle eccedenze di capitale, ovvero le aree nelle quali proiettare i capitali garantendone per via politica o di influenza militare la redditività. Quindi diventa più difficile il gioco di rompere gli ‘spazi regionali’, costringendoli a rilasciare i propri valori e destabilizzandoli (gioco nel quale gli Usa sono maestri, ma noi siamo i vecchi maestri ed attuali volenterosi allievi). Infine, si ridefinisce l’intera gerarchia delle dipendenze e dell’estrazione del surplus; in quanto quel sistema esteso che chiamiamo per comodità ‘capitalismo’ (ovvero quell’insieme di rapporti sociali, giuridici e di soggettività che si definiscono per la centralità del principio organizzativo e di ordine del ‘capitale’) è sempre composto di parti interconnesse, ognuna delle quali trova la propria struttura e organizzazione dalla propria posizione nell’insieme. Posizione che è sempre gerarchica. La ragione è che tutti i fenomeni economici e sociali, ed in ultima analisi anche politici e militari, trovano possibilità di essere compresi solo nell’unità complessiva delle parti in interazione.

 

Il processo di fratturazione dell’ambiente finanziario e commerciale mondiale, e la revoca della centralità in esso del dollaro (processo che richiederà qualche anno), riprodurrà quindi quella priorità all’indipendenza che rese possibile il percorso di crescita di tanti paesi nel trentennio ’50-’80 e ne motivò la tensione ideale. Anche alla luce di questi fenomeni si può verificare come tutte le teorie trovino sempre la loro urgenza e plausibilità dal contesto del tempo. Sono, cioè, illuminate dal tempo nel quale si manifestano, più che il contrario. Prevedo che, insieme al confronto tra sistemi, intorno a questo tempo difficile tornerà perciò in campo la “teoria della dipendenza” e quella “dell’imperialismo”.

 

 

 

[1] – Fenomeno che, lo dovremo guardare con attenzione, si è incrudito quando la crisi del Covid ha spezzato le supply chain mondiali e la ripartenza ha evidenziato l’incremento senza controllo delle materie prime, con conseguenze sistemiche e cumulative a carico della competitività e dell’inflazione.

[2] – Il termine è messo in giro nel XVIII secolo e rappresenta la condensazione di un’idea contemporaneamente semplicissima e straordinariamente sottile: quella che il fatto di far passare le relazioni umane attraverso il vincolo morbido dello scambio per puro interesse (il “dolce commercio”) le trasformerà e civilizzerà. L’uomo stesso diventerà meno ferino, meno orientato a perseguire motivazioni irrazionali (come “l’onore”), e la società diventerà meno separata in enclave, in clan in lotta reciproca; sarà meno attraversata da inimicizie radicali (ad esempio religiose). Ma questa non è l’idea di una condizione ‘naturale’ dell’uomo che si tratta solo di far emergere, contiene il progetto di una antropologia minimalista. Il progetto di un “uomo nuovo” che viene prodotto dall’estensione del commercio e dalla struttura legale e governativa che lo impone. Cfr., ad esempio, Jean-Claude Michéa, “L’impero del male”, Libri Scheiwiller, 2008 (ed. or. 2007).

[3] – Altro termine chiave della costellazione liberale: si tratta del superamento del mondo tradizionale, con tutte le sue strutture relazionali ed antropologiche, i sistemi di potere, i vincoli costitutivi, i valori (ad esempio l’onore, la responsabilità concreta, la reciprocità nel sistema del dono, l’ordine presunto naturale, …).

[4] – L’idea di un procedere per “tappe” della “storia” è un’altra tipica idea illuminista, fattasi strada tra il XVII ed il XVIII secolo, viene articolata sia nell’ambiente napoletano (Gianbattista Vico, 1668-1744) sia in quello scozzese (Adam Ferguson, 1723-1816), ovviamente ciò porta a ritenere che l’uomo proceda, generazione dopo generazione, ad apprendere sempre meglio il proprio modo di essere nel mondo e quindi progredisca.

[5] – “Progresso” è probabilmente il termine più inevitabile della costellazione liberale-moderna. Il concetto è legato ad una duplice radice: da una parte è un’interpretazione-ricostruzione dell’esperienza storica della tecnica e della scienza nella fioritura cinque-seicentesca e nell’estensione sette-ottocentesca, dall’altra è ancora un progetto di rottura delle relazioni tradizionali e di liberazione delle forze del lavoro e dell’industria dai vincoli storici. Si tratta di un progetto negativo, che conosce ciò che non vuole, ma non ciò verso cui tende. Un programma intrinsecamente “illimitato”, e quindi anche, e necessariamente, in-umano e carico di hybris. Per questa lettura del liberalesimo come “progetto negativo”, si può leggere Andrea Zhok, “Critica della ragione liberale”, Meltemi, 2020.

[6] – “Ragione”, rigorosamente al singolare, è quindi il coronamento di questo giro di concetti e del progetto ad essi connesso. Si tratta dell’idea che si deve imporre una unica via, perché aderente all’autentica natura umana (o, per meglio dire, alla natura umana che deve diventare unica).

[7] – La “Storia” è quindi orientata, ha carattere unitario, conoscibile nel suo senso, normativamente connotata.

[8] – Il riferimento obbligato è al lavoro di Mearshmeier.

[9] – Vicesegretario alla Difesa per gli affari di sicurezza internazionale dal 1993 al 1994 ed ex ambasciatore degli Stati Uniti in Arabia Saudita durante le operazioni Desert Shield e Desert Storm. Freeman è noto in ambito diplomatico per essere stato vice segretario di Stato per gli affari africani durante la storica mediazione statunitense per l’indipendenza della Namibia dal Sud Africa e del ritiro delle truppe cubane dall’Angola. Ha inoltre lavorato come Vice Capo Missione e Incaricato d’Affari nelle ambasciate americane sia a Bangkok (1984-1986) che a Pechino (1981-1984). Dal 1979 al 1981 è stato Direttore per gli Affari Cinesi presso il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ed è stato il principale interprete americano durante la storica visita del presidente Richard Nixon in Cina nel 1972.

[10] – Si veda https://it-insideover-com.cdn.ampproject.org/c/s/it.insideover.com/guerra/ucraina-ex-ambasciatore-freeman-usa-non-vogliono-pace-ucraina.html/amp/

[11] – Dmitrij Trenin, “Riflettendo sul percorso internazionale della Russia: chi siamo, dove siamo, per cosa e perché”, Guancha, 15 aprile 2022

[12] – Si può vedere il post “Circa David Brooks, ‘La globalizzazione è finita’. Ovvero, ancora del ‘fardello dell’uomo bianco’”, Tempofertile, 9 aprile 2022.

[13] – E’ quello che, in una diversa prospettiva, mostra Christopher Coker in “Lo scontro degli stati-civiltà”, Fazi Editore, 2020 (ed- or. 2019).

[14] – Si veda Qiao Liang, Wang Xiangsui, “Guerra senza limiti”, LEG, 2001 (ed. or. 1999).

[15] – Si veda per un inquadramento concettuale, Alessandro Visalli, “Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare”, Meltemi 2020, oppure Giacomo Gabellini, “Krisis. Genesi, formazione e sgretolamento dell’ordine economico statunitense”, Mimesis, 2021.

[16] – Una spiegazione interna della tendenza alla crescita della classe media che caratterizzò gli anni del ‘trentennio socialdemocratico’ e con essa l’insorgenza della ‘società del benessere’ (poi revocata nel quarantennio neoliberale).

[17] – Si definiscono “ragioni di scambio” il rapporto tra l’indice dei prezzi all’esportazione di un paese e quello dei prezzi all’importazione. Dal punto di vista dell’intero paese, rappresenta l’ammontare di esportazioni richiesto per ottenere una unità di importazione. Dunque il prezzo tra due beni (o di un bene e di un altro rispetto ad una unità di misura comune, ad esempio il denaro internazionalmente accettato come il dollaro) è relativo ai rapporti di forza che si determinano sul “mercato”, e che dipendono da molteplici fattori non tutti economici.

[18] – Dai flussi di capitale governati dal ‘centro’ e dalle altre forme di dipendenza commerciale e/o politica.

[19] – Si veda R. Prebisch, Crecimiento, desequilibrio y disparidades: interpretación del proceso de desarrollo económico, 1950, in italiano. La crisi dello sviluppo argentino. Prebisch è, con Hans Singer, il creatore della tesi della “sostituzione delle importazioni”, per la ragione che il deterioramento continuo delle ragioni di scambio delle economie primarie, normalmente periferiche, è conseguenza del fatto che la domanda di prodotti manufatti cresce molto più rapidamente di quella delle materie prime.

[20] – Qui la coppia interpretativa è quella dominio/egemonia per la quale si è soliti rinviare ad Antonio Gramsci. Il concetto di ‘egemonia’, per essere compreso, va connesso con la sua assenza, ossia con il puro e semplice “dominio”. Dove il potere è nudo, privo della necessaria componente del consenso. Ma il vero potere non si limita alla costrizione; si estende alle menti e ai cuori, si fa seguire in qualche modo volontariamente, coinvolgendo insieme: la rappresentazione di sé che si costruisce, l’immagine del mondo e la meccanica dei valori e obiettivi, con la loro gerarchia. Si radica inoltre nella “base” degli interessi e dei bisogni, cui in qualche modo (secondo il filtro delle rappresentazioni) l’egemone risponde, facendosene almeno in parte carico. Il vero potere è dunque egemonia.

[21] – Data la loro difficoltà a trovare occasioni di investimento al livello adeguato per effetto dei rendimenti decrescenti.

[22] – Vedi Wolfgang Streeck, Tempo guadagnato, la crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, 2013

[23] – Interviene in questa situazione, da tempo compromessa, lo shock determinato dall’attesa pandemia figlia dei molti squilibri del mondo e della sua vorticosa e irresponsabile integrazione orizzontale senza protezione. Quella in corso è solo l’ultima delle recenti zoonosi che si sono diffuse nel mondo, uccidendo negli ultimi quarant’anni oltre trenta milioni di persone. C’è una relazione piuttosto riconoscibile tra l’estensione degli insediamenti umani, a ridosso di tutte le rimanenti aree di naturalità, e lo sfruttamento intensivo della vita stessa (ad esempio, degli allevamenti) e la frequenza e rapidità con la quale batteri, virus e funghi, protisti, prioni e vermi, riescono a fare un salto di specie ed a replicarsi tra uomo e uomo. Ed inoltre, una volta che il patogeno si è insediato nell’ospite umano la velocità con la quale questo entra in contatto con altri ospiti e questi si muovono nel mondo. La pandemia amplifica e accelera le molte linee di crisi antecedenti e tendenze già in movimento. Lo fa in quanto figlia dell’interconnessione del mondo e dell’estensione in esso del modo di produzione capitalista, per sua natura incapace di limitarsi nello sfruttamento di qualsiasi cosa sia utilizzabile come merce.

[24] – Una recente ricostruzione, se pur di parte liberale, si può leggere in Richard Baldwin, “Rivoluzione globotica. Globalizzazione, robotica e futuro del lavoro”, Il Mulino 2019.

[25] – Intendo per “piattaforma tecnologica” un set di funzionamenti essenziali, punti di convenienza e vantaggio per diversi gruppi e ceti sociali determinati da network di tecnologie convergenti e reciprocamente rafforzanti, quindi dall’insieme di skill favorite da queste e di know how privilegiati, ma anche da norme sociali e giuridiche che si affermano nella sfera pubblica e privata, e infine da pacchetti di incentivi pubblici e privati (entrambi, norme e incentivi, coinvolti nell’affermazione del network di tecnologie). Una “piattaforma tecnologica” è, inoltre, sempre connessa con un assetto geopolitico che la rende vincente (e in ultima analisi possibile).

[26] – Si veda, “Circa David Brooks, ‘La globalizzazione è finita’. Ovvero, ancora del ‘fardello dell’uomo bianco’”, Tempofertile, 9 aprile 2022. E anche “Politica estera basata sui valori o sull’autodeterminazione. Note sulla svolta di Biden”, Tempofertile, 5 aprile 2022.

[27] – Zhang Weiwei, “Russia vs Stati Uniti: la guerra del denaro e della valuta”, Guancha, 25 aprile 2022

[28] – Si nomina in questo modo la capacità della moneta americana, fino al 1971 nel suo ancoraggio nominale all’oro e in base al Trattato di Bretton Woods e dopo senza di esso, di essere quella riserva di valore ed unità di conto che rende stabile il sistema finanziario mondiale.

[29] – Nella crisi Ucraina del 2014 la Russia ebbe chiarissimo che ad uno scontro con l’occidente si sarebbe ad un certo punto giunti, e che la stessa Ucraina lo voleva. La preparazione al momento è stata condotta allargando le riserve, riducendo l’esposizione in dollari, rinforzando le relazioni internazionali con i paesi non occidentali. Per un chiarimento si può vedere questo video del 2014.

[30] – Ad esempio, cedendo alle multinazionali britanniche o Usa le concessioni delle proprie risorse minerarie a fronte di royalties limitate.

[31] – Questi, che vanno dalla Cina all’India con l’aggiunta del Brasile (ma guarderei anche al Messico), sono in qualche modo ed a vario modo riluttanti a fare lo stesso passo. Lo faranno solo se costretti, quindi fino a che il network al quale tutti stanno lavorando non sarà consolidato cercheranno di stare su tutti i tavoli. In ogni caso sono troppo grandi per chiudere completamente le porte. In prospettiva cercheranno di ascendere al ruolo di egemone di un nuovo sistema-mondo guidato in modo federato.

https://tempofertile.blogspot.com/2022/11/la-guerra-necessaria-logiche-della.html?fbclid=IwAR1DXEnxj9Yd2H3wZ57lwUK7Tv2otY6A3JK0dyoOhmrb6LwO6i_km_l9GBg

È guerra, Josep, ma non come la conosciamo_di Aurelien

Cercando di capire cos’è l’Ucraina.

Ho in gran parte evitato di scrivere qualcosa di troppo attuale sul conflitto in Ucraina e dintorni, perché non mi piace la polemica, e comunque non ho abbastanza conoscenze tecniche per scrivere di questioni militari quotidiane. Nondimeno, non posso fare a meno di essere colpito dal senso di disorientamento e confusione intellettuale che mostra molta della scrittura occidentale sulle operazioni militari. A sua volta, questo deriva, suggerisco, da una fondamentale riluttanza occidentale a fare il duro lavoro di apprendere la strategia e gli usi politici della forza militare, e ad alzare gli occhi dagli eccitanti scoppi e boom, avanzate e ritirate sul campo di battaglia, e guardare il quadro generale.

Quindi qui, proverò a fare un passo se non tre indietro; parlerò del più grande dei grandi quadri e cercherò di mostrare come vari fattori politici ed economici debbano essere presi in considerazione per capire cosa pensano i russi e cosa stanno cercando di fare. Qualunque sia la tua opinione sul conflitto, è molto difficile dire qualcosa di utile al riguardo (sto guardando te, Josep Borrell, per esempio) a meno che tu non faccia uno sforzo per capire l’importanza di questi fattori.

Fortunatamente, altri si sono comportati così prima di scrivere di strategia, e nessuno più fruttuosamente del grande soldato prussiano e teorico militare, Carl von Clausewitz. Ora uno dei motivi per cui Clausewitz è importante è che fa parte di un gruppo molto ristretto di teorici e storici, tra cui Machiavelli e Tucidide, che erano praticamente coinvolti nelle cose di cui scrivevano. Come loro, si fa riferimento a lui molto più di quanto lo si legga, e si fraintende anche quando lo si legge. Ma Clausewitz è stato il primo teorico importante ad abbandonare gli scritti dettagliati sulla tattica e a porre (e in effetti a rispondere) alla domanda: a cosa serve effettivamente la guerra?  Perché gli stati ricorrono alla forza militare? La sua risposta è stata semplice: la guerra è “un atto di forza per costringere il nostro nemico ad accettare la nostra volontà”. Vogliamo che il nostro nemico faccia qualcosa, o smetta di farlo, e quindi, dice Clausewitz, dobbiamo mettere il nostro nemico in una “situazione che è ancora più spiacevole del sacrificio che gli chiedi di fare”. Inoltre, aggiunge, questa situazione non può essere transitoria, tale che il nemico può semplicemente aspettare che le cose migliorino, ma in cui il nemico è effettivamente indifeso o è probabile che lo diventi.

Ma Clausewitz insiste sulla necessità di situare la guerra nel contesto della politica statale in generale (non “politica” come spesso qui si traduce erroneamente politik ). Le guerre iniziano, dice, a causa di qualche “situazione politica, e l’occasione è sempre dovuta a qualche oggetto politico”. Così, “la guerra non è semplicemente un atto di politica, ma un vero strumento politico, una continuazione del rapporto politico, portato avanti con altri mezzi… L’oggetto politico è l’obiettivo, la guerra è il mezzo per raggiungerlo, e il mezzo non può mai essere considerato isolatamente dal loro scopo ” (corsivo mio). Sebbene On War sia un testo proibitivo, queste citazioni (nella traduzione standard di Howard e Paret) sono tutti presi dal Libro I, e puoi scaricare una vecchia traduzione di pubblico dominio di quel Libro e leggerla in un’ora. (Forse l’ufficio del signor Borrell dovrebbe considerare di farlo.)

Dopo averlo fatto, le cose diventano immediatamente molto più chiare, e una serie di domande non poste dai media e dai politici occidentali diventano ovvie. Quali sono, ad esempio, i più grandi obiettivi politici russi? Quanto sono significativi gli attuali combattimenti in Ucraina, e in effetti quanto sono significative le singole battaglie? Quali attività parallele stanno accadendo, politicamente ed economicamente, tutte nella stessa direzione? E quale visione hanno i russi della situazione che vogliono realizzare, quello che Clausewitz chiama lo “stato finale”?

Ma perché queste domande non vengono poste in modo sistematico dall’Occidente? Dopotutto, se si vuole frustrare i piani russi, potrebbe avere senso provare a dedurre quali sono quei piani e come i russi si aspettano di realizzare il loro stato finale.

La risposta, credo, viene da una combinazione di due fattori. In primo luogo, gran parte dell’impulso politico sull’Ucraina viene dai paesi anglosassoni, la cui storia di guerra, e il cui pensiero sulla guerra, è essenzialmente di corpi di spedizione e circoscritto. A parte brevissimi periodi nel 1916-18 e nel 1944-45, gli inglesi e gli americani non dovettero mai considerare l’uso di grandi forze terrestri e aeree e sviluppare una dottrina per il loro impiego. Storicamente le spedizioni militari erano piccole, con obiettivi limitati, lontane dalla madrepatria. La guerra delle Falkland del 1982, nonostante sia stata una notevole conquista militare, si inserisce perfettamente in questa tradizione, di tattiche di piccole unità, leadership individuale e improvvisazione sul campo di battaglia.

Il tipo di operazioni militari che gli europei hanno effettivamente condotto dal 1945, e soprattutto dal 1989, tende a seguire questo modello. Sebbene generazioni di ufficiali della NATO abbiano pianificato ed esercitato scontri apocalittici con il Patto di Varsavia, quei paesi che hanno effettivamente effettuato operazioni nella vita reale sono stati coinvolti in missioni di controinsurrezione o di mantenimento della pace di livello molto inferiore. E quando gli europei, ancora un po’ storditi dalla caduta del muro di Berlino, iniziarono a pensare a quali compiti avrebbero potuto svolgere i loro militari in futuro, la loro ipotesi migliore fu più o meno la stessa: missioni di pace, evacuazioni con assistenza militare, gestione delle crisi e relativo dispiegamento e così via. E così il servizio nazionale e i grandi eserciti furono abbandonati, la guerra su larga scala ad alta intensità smise di essere studiata se non come storia e le carriere venivano costruite guidando piccoli gruppi di soldati in missioni lontane.

Il secondo fattore è semplicemente che in generale le guerre dell’Occidente sono state guerre a responsabilità limitata, dove ci sono state poche vittime in patria. È vero, le guerre in Algeria, Angola e, probabilmente, Vietnam, hanno prodotto convulsioni politiche e fatto cadere i governi, ma la morte e la distruzione vere e proprie sono avvenute quasi tutte altrove.

Per i russi, la geografia imponeva un diverso insieme di criteri. Da sempre un paese enorme con una popolazione relativamente numerosa e lunghi confini, la nazione ha subito ripetutamente invasioni militari straniere nella sua storia. È abituato a combattere sul proprio territorio e nella sola seconda guerra mondiale ha subito quasi trenta milioni di morti, in gran parte civili. Pertanto, la difesa nazionale è letteralmente una questione di vita o di morte; pensare e pianificare la guerra avviene a un livello strategico enormemente più alto e più complesso. Vale anche la pena sottolineare che il formidabile edificio della scienza militare marxista-leninista non ha perso la sua influenza, e il marxismo era soprattutto una dottrina basata sul predominio delle forze materiali tangibili.

Questa esperienza russa produce inevitabilmente un modo di guardare al conflitto radicalmente diverso da quello occidentale, fermo restando che lo stesso Occidente ha dovuto dolorosamente imparare simili lezioni durante due Guerre Mondiali, per poi dimenticarsele ogni volta puntualmente. La guerra è vista in senso totale: come lotta politica, economica e militare combinata. Numeri puri, disciplina politica, enormi riserve di uomini e attrezzature, capacità di mobilitazione totale e pianificazione strategica a lungo raggio e ambiziosa sono caratteristiche inevitabili di un tale approccio, quindi se vogliamo vedere cosa cercano i russi, sarebbe bene includere questi fattori. Lo stato finale non è, per definizione, militare, e quindi i militari possono contribuire a tale stato finale in un’ampia varietà di modi. La vittoria sul campo di battaglia potrebbe non essere la priorità assoluta, se altri fattori stanno operando a tuo favore, e l’impiego di grandi forze su una vasta area imporrà esso stesso un modo di pensare di livello superiore. Ad esempio, dare battaglia, anche se pensi di vincere, potrebbe essere una cattiva idea se consuma unità ed equipaggiamento che saranno assolutamente necessari altrove. Meglio ritirarsi. Al contrario, invitare un nemico ad attaccare le tue posizioni, anche se tatticamente svantaggioso, può essere una buona idea se infliggi pesanti perdite che il tuo nemico non può sostituire.

Le forze armate sovietiche e russe hanno una lunga tradizione nello studio delle terribili guerre passate dal loro paese; ci sono una serie di conclusioni ovvie traibili da qualsiasi analisi del genere. Uno è l’importanza dei numeri, del personale, delle attrezzature e delle munizioni. In una lunga guerra, che i russi, a differenza dell’occidente, si sono sempre aspettati di combattere, queste cose contano moltissimo. Nella Guerra Fredda, l’Armata Rossa pianificò di vincere con una tattica nota come echeloning. In sostanza, invii prima le tue forze migliori, che vengono per lo più distrutte, ma distruggi anche le migliori forze nemiche. Quindi invii il tuo secondo scaglione e rastrelli le forze rimanenti del nemico, anche se perdi la maggior parte delle tue. Il tuo terzo scaglione non ha effettivamente opposizione e vinci. (Questo non avrebbe sorpreso Clausewitz, il quale sosteneva che era importante essere “forti ovunque, soprattutto nel punto decisivo.”) Allo stesso modo con le scorte di munizioni. Se hai due milioni di colpi di munizioni e il tuo nemico ne ha mezzo milione, il tuo nemico si esaurirà prima di te, dopodiché avrai il dominio. L’Occidente ha optato, dalla fine degli anni ’40, per avere meno armi e meno manodopera, sperando che la qualità prevalga sulla quantità. Durante la Guerra Fredda, prevedeva anche di utilizzare presto armi nucleari tattiche, poiché non poteva accettare l’onere economico di mantenere massicce forze convenzionali come fece l’Unione Sovietica. Per fortuna, non lo sapremo mai se tutto ciò avrebbe funzionato durante la Guerra Fredda, ma chiaramente è esattamente l’opposto della politica che i russi hanno perseguito di recente.

Se questo suona come una guerra su scala industriale, è esattamente quello che è. E’ letteralmente così, in quanto l’importanza della produzione bellica fu un’altra lezione tratta dal 1941-45, quando l’Unione Sovietica superò i tedeschi in attrezzature militari anche dopo aver spostato le sue fabbriche ad est degli Urali. Inoltre, l’equipaggiamento sovietico e successivamente russo era progettato per essere utilizzato dai coscritti, e quindi era mantenuto relativamente semplice, in modo da poter essere impiegato in numero molto elevato. Stiamo vedendo i risultati ora in Ucraina, dove i carri armati T-62, tenuti in riserva per molti anni, vengono inviati nel Donbass per essere gestiti dalle milizie locali e dai richiamati riservisti con standard di addestramento inferiori. L’Occidente ha optato per piattaforme che individualmente potrebbero funzionare meglio in combattimento (finora nessuno lo sa) ma sono molto più complesse e difficili da gestire e mantenere.

L’Occidente ha una difficoltà intrinseca con questo tipo di approccio. In particolare, la sua tradizione di storia e teoria militare si concentra molto più sulle battaglie che sulle campagne, molto più sui leader che sulle forze, molto più sulle storie dei singoli sistemi d’arma che sulla produzione bellica. Anche gli storici che scrivono sul fronte orientale nella seconda guerra mondiale tendono ancora a scrivere di singole battaglie (in particolare Kursk), mentre i migliori resoconti (di Chris Bellamyad esempio) solgono concentrarsi correttamente sul livello della campagna. In effetti, è stato argomentato in modo persuasivo che le singole battaglie in quel terribile conflitto influenzarono in gran parte solo il calendario preciso e che i fattori sottostanti determinarono il risultato fin dall’inizio. In particolare, la catastrofica sottovalutazione tedesca delle dimensioni e del potere di combattimento dell’Armata Rossa e l’incapacità della Wehrmacht di terminare la campagna entro l’inizio dell’autunno, sono state ritenute limitazioni molto più importanti della vittoria o della sconfitta in ogni singola battaglia. È come può essere, ma è chiaro che anche quel tipo di approccio è del tutto estraneo alla cornice intellettuale di quei commentatori occidentali che seguono ogni video, ogni voce, ogni svolta della sanguinosa partita che si sta giocando in Ucraina. Difficile trovare una metafora appropriata: forse critici musicali che discutono sul costume della primadonna in un’opera, senza menzionare se la produzione sia stata finalmente salutata da fiori e standing ovation, o dal cast bersagliato di uova marce.

Infine, i russi stanno operando, per ribadire l’osservazione che, secondo una tradizione Clausewitziana, vede la forza militare utile solo quando è chiaramente legata a uno scopo politico. (E uno scopo non è solo un’aspirazione.) L’invasione sovietica dell’Afghanistan, ad esempio, includeva una chiara strategia politica per creare sostegno al nuovo regime tra la classe media professionale, riformare lo stato e il sistema politico e creare forze di sicurezza efficaci . Alla fine non funzionò, almeno non dopo la caduta dell’Unione Sovietica, ma almeno fu una strategia. Al contrario, il tipo di piani per la ricostruzione afghana che ricordo di aver visto circolare in Occidente negli anni 2000, erano solo una serie di aspirazioni vagamente collegate, in cui si presumeva che le frecce sulle diapositive di Powerpoint rappresentassero in realtà una sorta di relazione causale . Più o meno lo stesso era vero al tempo della guerra in Iraq (sebbene il Dipartimento di Stato americano avesse fatto del suo meglio). A Washington, il futuro dell’Iraq era visto in termini di una serie di fantasie concordanti e sequenziali, senza alcuna idea di come si sarebbero realizzate. Principalmente, questo è dovuto al fatto che il liberalismo presuppone sempre che certi elementi politici esistano universalmente e che una volta che i Cattivi saranno rimossi dal potere, le nazioni si svilupperanno automaticamente e ineluttabilmente verso un modello democratico liberale. Questo è ancora il punto di vista prevalente odierno. Se hai a che fare con qualcosa di simile ad idee scambiate come ricostruzione post-conflitto o costruzione della pace, in particolare come commercializzazioni da organizzazioni come le Nazioni Unite e l’UE, ti verrà presentata una serie di passaggi sequenziali verso un’ipotetica utopia, ma con niente che li tenga insieme. Così, ad esempio, viene mostrato che un cessate il fuoco porta alla smobilitazione, quindi al riavvio del processo politico, quindi alle elezioni, quindi alla stabilità. Ma se chiedi con precisione come un cessate il fuoco porterà a riavviare il processo politico (o addirittura perché dovrebbe farlo) verrai accolto con un imbarazzato silenzio. E naturalmente nella vita reale generalmente non è così; è strano che sia il liberalismo, piuttosto che il marxismo, a credere nell’inevitabilità storica.

Quindi, se questa è la tradizione da cui provengono i russi, e se è per questo che l’Occidente ha difficoltà a capire cosa sta avvenendo in Ucraina, allora cosa ci dice sul tipo di piano più ampio e a lungo termine che i russi potrebbero avere, e come lo perseguiranno? Tuttavia, prima di iniziare è necessario aggiungere due chiose.

In primo luogo dovremmo evitare la tentazione di assumere ovunque “masterplan”. È facile cadere nelle teorie del complotto sugli Illuminati, il gruppo Bilderberg, la “cabala anglo-sionista” o qualche complotto per distruggere l’economia europea ideato da Washington. Ma questa è roba da bestseller aeroportuali, non da vita reale. In secondo luogo, e in parte di conseguenza, non stiamo parlando di un piano complesso e dettagliato nel corso delle generazioni, ma piuttosto di una serie di obiettivi relativamente semplici a diversi livelli, coerenti con le affermazioni russe fino ad ora, e con uno sguardo imparziale ragionevole su ciò che possono essere ovviamente i loro obiettivi di sicurezza. Da bravi studenti di Clausewitz, ci aspetteremmo che i russi considerino la guerra a tutti i suoi livelli, quindi affidiamoci di nuovo a lui come nostra guida.

Si consideri anzitutto quanto disse Clausewitz circa la necessità che la vittoria sia completa, e definitiva, per evitare che il nemico possa ricominciare la guerra. E qui ricordiamo che, nel 1945, l’Armata Rossa non si fermò al confine russo, ma arrivò fino a Berlino, dove occupò metà del paese e installò un regime fantoccio. Questo tipo di conclusione di una guerra in realtà non è insolito: nel 1814, le truppe russe occuparono effettivamente Parigi dopo la sconfitta finale di Napoleone. È solo negli ultimi decenni che accordi di pace pienamente inclusivi che affrontano le cause alla base dei conflitti, con la partecipazione di gruppi vulnerabili e complessi regimi di costruzione della pace dopo negoziati dettagliati e trattati di pace onnicomprensivi, sono diventati la norma. Quest’ultimo certamente non accadrà questa volta, motivo per cui dobbiamo stare molto attenti a come utilizziamo la parola “negoziazione”, ma non è nemmeno probabile che i russi vogliano occupare fisicamente l’Ucraina più del necessario. Quindi cosa significherebbe vittoria completa, in questo senso?

Dopo Clausewitz, la prima variabile sarebbe quella del tempo. Per i russi, l’Ucraina deve essere lasciata in una situazione in cui non sia in grado di costituire una minaccia in tempi ragionevoli. È difficile essere precisi, ma venticinque anni suonano bene. Ora, anche se i russi non facessero altro, l’ipotesi migliore è che ci vorranno dieci anni buoni per ricostituire le forze ucraine a qualcosa di simile al livello di efficacia del febbraio 2022. Ma si noti che ciò implica la disponibilità di massicci fondi (di cui l’Ucraina non dispone) o massicci, organizzati e sostenuti aiuti dall’estero, inclusi sostanziali dirottamenti di nuovi armamenti dalle già esaurite forze armate statunitensi ed europee, o sostanziali investimenti in nuova produzione di strutture soprattutto per l’Ucraina. Nessuno dei due sembra molto probabile. Inoltre, una nuova generazione di ufficiali dovrebbe essere reclutata e addestrata, l’infrastruttura militare riparata o ricostruita, e dovrebbe essere sviluppato un processo globale di conversione dall’equipaggiamento militare ex-sovietico a quello occidentale, insieme alla dottrina operativa associata. E naturalmente l’infrastruttura di base del paese dovrebbe essere riparata affinché l’esercito possa funzionare. Le possibilità di raggiungere questo obiettivo, figuriamoci nel breve periodo di un decennio, non sono grandi.

Quindi il problema potrebbe risolversi da solo. Tuttavia, probabilmente non è nell’interesse della Russia che l’Ucraina sia completamente disarmata, perché ciò porterebbe a una potenziale instabilità, che potrebbe estendersi alla Russia stessa. Qualunque governo succederà all’attuale regime di Kiev dovrà essere in grado di controllare il proprio territorio. Quindi i russi potrebbero imporre un trattato di pace all’Ucraina che, ad esempio, includa la creazione di una gendarmeria professionale, autorizzata a guidare veicoli corazzati leggeri ed elicotteri, ma non di più. I tentativi di sviluppare o acquisire sistemi più potenti sarebbero impossibili da nascondere e facili da schiacciare. Questa è una soluzione molto più elegante e molto più economica rispetto ai tentativi di costruire massicce fortificazioni o occupare territori non di lingua russa.

Tuttavia, è ovvio da tempo che l’Ucraina è solo la parte visibile dell’iceberg strategico, per entrambe le parti. L’Occidente vuole, grosso modo, un ritorno agli anni ’90 e la fine di un concorrente ideologico e strategico. Gli obiettivi russi ovviamente includono la frustrazione, ma quasi certamente vanno molto oltre. A differenza di molte persone, non ho idea di cosa ci sia nei capi collettivi del governo russo, ma è possibile fare alcune ampie deduzioni dalle bozze di trattati che i russi hanno fatto circolare nel dicembre dello scorso anno. Questi sono testi di trattati, e per di più bozze, quindi è improbabile che costituiscano qualcosa di più di una lista di obiettivi che in realtà dovrebbero probabilmente essere aggiustati verso il basso. Ma possiamo fare alcune deduzioni ragionevoli.

Il principale obiettivo russo in Europa è quello di essere la superpotenza militare locale, in un’Europa che è militarmente debole, in parte dipendente economicamente dalla Russia, e non rappresenta una minaccia militare. Per quanto riguarda la stessa Europa occidentale, ora non siamo lontani da questo: si poteva dire che solo l’Ucraina rappresentava una minaccia militare, e non è più così. L’idea sarebbe allora quella di convertire l’anello di Paesi attorno ai confini di Russia, Ucraina e Bielorussia (in pratica, Baltici, Romania e Polonia) in effettivi stati neutrali, senza truppe straniere di stanza lì. Ciò non significherebbe necessariamente che questi paesi lascino la NATO, perché le truppe statunitensi, ad esempio, sono comunque di stanza in paesi non NATO. Piuttosto, ci sarebbe un tacito accordo (come con la Finlandia durante la Guerra Fredda) che questi stati si sarebbero comportati bene nei confronti della Russia. Una componente di questa soluzione sarebbe il ritiro del numero relativamente piccolo di truppe statunitensi ancora in Europa. È probabile che ciò faccia parte dell’obiettivo parallelo di distruggere efficacemente la NATO come alleanza, dimostrando che, in pratica, non ha alcuna utilità militare e, per estensione, che quella che viene generalmente chiamata la “garanzia di sicurezza” americana è priva di valore. Si noti che questo non significa che la NATO non possa sopravvivere in qualche forma dormiente e rudimentale; è improbabile che i russi si oppongano a questo.

In tutto questo, bisogna tenere presente un altro concetto di Clausewitz: il Centro di Gravità. Clausewitz ha scritto molto su questo in diverse parti di On War, ma il modo più semplice per concepirlo consiste nel definire l’obiettivo più importante della guerra, da cui dipende tutto il resto. È “la sostanza ultima della forza nemica” sulla quale dovrebbe essere concentrato il massimo sforzo possibile. Clausewitz osserva che queste possono essere, ma non devono necessariamente essere, le forze militari del nemico. Alla fine del libro, monta una forte difesa della decisione di Napoleone di entrare a Mosca nel 1812, piuttosto che inseguire l’esercito russo sconfitto. Nessuna vittoria militare concepibile, sostiene, avrebbe potuto buttare fuori dalla guerra un paese delle dimensioni della Russia, mentre prendere e detenere la capitale nemica avrebbe potuto farlo. Alla fine, accetta che il piano sia fallito, ma in realtà valeva la pena tentare la sola cattura di Mosca. Se lo zar e l’aristocrazia fossero stati scossi dalla perdita della città come sperava Napoleone, la guerra sarebbe finita.

Clausewitz osserva inoltre che il centro di gravità potrebbe essere lo sferrare un colpo contro un alleato più potente. Quindi, nel caso delle operazioni nella stessa Ucraina, ciò significa la volontà dell’Occidente di continuare a sostenere militarmente, politicamente ed economicamente il regime di Kiev, perché se questo si ferma, finirà anche un’effettiva resistenza ucraina e questo aprirà la strada ad altri obbiettivi strategici. In una guerra in cui sia la Russia che l’Occidente stanno attenti a non colpirsi direttamente, questa volontà dovrà essere attaccata indirettamente, convincendo di fatto l’Occidente ad arrendersi, perché il successo è impossibile. Ci sono precedenti per questo, anche se possono sembrare sorprendenti. Le forze NVA/VietCong che combattevano contro gli Stati Uniti e le forze del Vietnam del Sud erano ben consapevoli di non poter ottenere una vittoria militare convenzionale. Quello che potevano fare era portare gli americani al punto in cui si rendevano conto che la lotta era senza speranza, semplicemente continuando la guerra e infliggendo danni politici ed economici agli stessi Stati Uniti. Questo lo fecero debitamente. La situazione era abbastanza simile con i francesi in Algeria e i portoghesi in Angola; entrambi erano militarmente dominanti, ma ogni guerra si concludeva con l’esaurimento politico ed economico e un cambio di governo. L’Afghanistan è un esempio più recente di un simile approccio. Quindi qui, l’obiettivo russo è probabilmente l’esaurimento politico ed economico dell’Occidente al punto in cui un ulteriore sostegno all’Ucraina sembra inutile, o addirittura impossibile. E anche se potrebbe non essere stato parte dei piani originali, è difficile credere che i russi si sarebbero pentiti che l’Occidente continuasse, almeno per un po’, a indebolirsi militarmente ed economicamente per una causa senza speranza.

Quindi, a quel livello, i russi stanno presumibilmente cercando di far rinunciare all’Occidente ad ogni speranza di una soluzione a loro favorevole. Ciò significa che non hanno alcun incentivo a scendere a compromessi o ad accettare colloqui di pace. In effetti, cercano solo di dettare i termini della pace, forse lungo le linee delineate sopra. Se l’Occidente non si arrende, le operazioni in Ucraina continueranno finché sarà necessario. A un livello strategico più alto, i russi probabilmente intendono anche che la guerra duri abbastanza a lungo da rendere trasparente la debolezza della NATO e l’impotenza degli Stati Uniti, in modo tale da poter raggiungere più facilmente il tipo di obiettivi più ampi che ho appena delineato , oltre a indebolire le economie occidentali.

Ora, non ho idea se questo sia effettivamente ciò che i russi intendono fare: posso solo dire che mi sembra del tutto possibile. Questa è, dopotutto, una società che prende Clausewitz più seriamente di Harry Potter e Tolstoy come una guida alla guerra migliore di Twitter. E non ho idea se avrà successo. Ma ancora più importante, se l’analisi di cui sopra è corretta anche lontanamente, allora il fatto che l’Occidente è intellettualmente e politicamente mal equipaggiato per capire cosa stanno facendo i russi, figuriamoci circa la capacità di reagire efficacemente.

https://aurelien2022.substack.com/p/its-war-josep-but-not-as-we-know

Nucleare: in origine era Superphénix, poi è arrivato il declino con Jospin, di MICHEL GAY

L’origine della decisione politica di spegnere definitivamente il reattore nucleare autofertilizzante Superphenix da parte del governo di Lionel Jospin il 2 febbraio 1998 è simile al famoso ”  effetto farfalla  “: il battito d’ali di una farfalla in Brasile può portare alla formazione di un ciclone in Texas o in Indonesia. Il risultato di questa decisione annunciata (che figurava nel suo programma di essere eletto con i voti dei “Verdi”) è stato un disastro tecnico (abbandono di un settore del futuro), umano (perdita di competenze) e finanziario (perdita di miliardi di Euro).

Per illustrare l’incapacità dell’uomo di prevedere il comportamento dei sistemi complessi, il matematico Lorentz ha preso l’esempio dei fenomeni meteorologici, affermando che “è bastato il battito d’ali di una farfalla in Brasile per raggiungere dieci giorni dopo la formazione di un ciclone da qualche parte in Indonesia ” (Georges Charpak e Rolland Omnès in ” Siate dotti, diventate profeti “).

Il battito d’ali di una farfalla 

Così, un piccolo incidente (il battito d’ali di una farfalla) nella centrale Superphenix il 3 luglio 1990 fu all’origine di un’incredibile catena di crisi “amministrative” interamente create da un ristretto numero di attori antinucleari. Questi ultimi seppero sfruttare abilmente il ricorso legale e l’emozione popolare per portare finalmente alla chiusura di questo impianto nel 1998.

Nel giugno 1990, questo reattore funzionava normalmente al 90% della sua potenza nominale quando le misurazioni di monitoraggio hanno mostrato una lenta ossidazione del sodio nel reattore. Tuttavia, questo difetto rilevato rimane ben al di sotto dei limiti ammissibili specificati dai criteri di sicurezza.

Tuttavia, è stato deciso di spegnere temporaneamente il reattore il 3 luglio 1998 per determinarne l’origine. Risulta essere una piccola membrana di neoprene (pochi centimetri di diametro) nel compressore di un circuito ausiliario che, lacerata, fa entrare un po’ d’aria.

Sarà “il battito d’ali della farfalla”.

Una membrana in neoprene…

Questa membrana sarà il pretesto sequestrato che porterà da una cosa all’altra fino alla chiusura del reattore Superphénix otto anni dopo a causa di un misto di malevolenza degli oppositori e vigliaccheria politica.

Le turbolenze giudiziarie e la volontà politica del governo Jospin di mantenere le redini del potere con il sostegno dei “Verdi” ( Dominique Voynet ) porteranno all’uccisione (assassinio?) di questa formidabile conquista congiunta di Francia, Italia ed Europa. ‘Germania.

Ingiustamente screditato dai media, questo straordinario reattore, allora unico al mondo, è stato finalmente sacrificato sull’altare dell’effimera “  maggioranza plurale  ” che è salita al potere nel giugno 1997 con Lionel Jospin come primo ministro. Era 100 volte più efficiente ed economico nel combustibile di uranio rispetto ai precedenti reattori “convenzionali”.

L’anno precedente (1996), la centrale Superphenix, il cui sviluppo è stato completato, ha avuto un ottimo tasso di disponibilità (96% tempo di funzionamento nell’anno).

L’investimento è stato pienamente realizzato e il combustibile già prodotto era ancora in grado di produrre 30 miliardi di kWh (30 TWh). Non restava che raccogliere i frutti di tutti gli sforzi umani e finanziari compiuti negli ultimi 10 anni sfruttando questa fonte di ricchezza.

Superphénix avrebbe potuto partecipare “contemporaneamente” e a basso costo alla ricerca sulla trasmutazione dei rifiuti radioattivi ad alta attività e lunga vita prevista dalla legge del dicembre 1991.

Una grave colpa

Quasi 25 anni dopo, viene alla luce la triplice colpa di Lionel Jospin ( che lo nega ):

1) Un difetto scientifico e tecnologico che ha comportato la perdita di un considerevole capitale umano di conoscenza ed esperienza. E non è l’abbandono del progetto dimostrativo del reattore autofertilizzante di quarta generazione ASTRID nel gennaio 2020 da parte del presidente Macron che migliorerà le competenze francesi in questo settore.

2) Cattiva condotta economica e cattiva gestione finanziaria (diversi miliardi di euro) di cui non sono responsabili né l’impianto, né i suoi progettisti, né il suo gestore. Questa decisione politica ha portato allo smantellamento delle strutture di ricerca e alla dissoluzione del tessuto industriale specifico dedicato a questa tecnologia dei cosiddetti reattori autofertilizzanti a “neutroni veloci” ( FNR ).

3) Una colpa in termini di occupazione e produzione massiccia, controllabile e sostenibile di energia elettrica per sostenere l’industria.

Il reattore FNR Phénix (che ha preceduto Superphénix) è stato commissionato nel 1973 e ha operato per 36 anni fino a febbraio 2010 per acquisire esperienza destinata ad integrare la conoscenza del settore dei reattori a neutroni veloci al sodio (FNR).

Ma a chi sarà utile questa conoscenza se nessun reattore di questo tipo sarà costruito prima del pensionamento e della morte di tutti questi ingegneri e tecnici?

Come siamo arrivati ​​a questo?

Le ragioni della decisione di Lionel Jospin di chiudere definitivamente Superphénix, annunciata il 2 febbraio 1998, possono essere trovate in una sorprendente risposta al deputato Michel Terrot il 9 marzo 1998.

Vi si riconosce che: “Superphénix rappresenta una tecnologia molto ricca, sviluppata da personale particolarmente motivato ed efficiente che ha dimostrato che la Francia ha saputo sviluppare attrezzature tecnologiche innovative di altissimo livello (…) Sarà necessario sfruttare il esperienza accumulata e continuare la ricerca nel campo dei reattori a neutroni veloci per un futuro a lungo termine”.

Di chi stiamo ridendo?

Questa risposta surreale non aiuta a comprendere il percorso intellettuale degli autori di questo vibrante omaggio a Superphénix che li porta a questa terrificante conclusione: poiché questa “tecnologia molto ricca” è notevole, deve essere abbandonata e l’esperienza di questi “particolarmente motivati ed efficiente personale”.

E, allo stesso tempo, nonostante questa chiusura, “sfruttare l’esperienza accumulata”, e soprattutto “proseguire la ricerca nel campo dei reattori a neutroni veloci per un futuro a lungo termine”.

Che ipocrisia!

Questo presunto omaggio sotto forma di orazione funebre suona falso. È tanto più insopportabile in quanto emana dagli stessi “assassini” , di cui la rivista “Le Point” stila un elenco non esaustivo il 26 ottobre 2022.

Nessuna visione a lungo termine

Quale incoerenza rispetto al futuro della Francia e quale perdita per la ricerca e la tecnologia!

L’abbandono di Superphénix è stato più che un errore tecnico, umano e finanziario, è stata una grave colpa nei confronti della Francia, di cui oggi nessuno sembra responsabile di fronte ai francesi, che sono comunque favorevoli al 75% al ​​nucleare!

La Francia continuerà a pagare il prezzo di questo tradimento nazionale ancora per molto tempo, mentre i nostri concorrenti avanzano nella direzione degli RNR di quarta generazione (Stati Uniti, Russia, Cina, India).

Nel 2005 l’India ha intrapreso la costruzione di un reattore a neutroni veloci dello stesso tipo di Superphénix… con l’aiuto di tecnici francesi, mentre già 5 “RNR” sono operativi o stanno per essere avviati nel mondo (Russia, Cina, India).

In Francia, con la mancata data del dimostratore Astrid e la futura quarta generazione di reattori nucleari… i nostri figli vedranno forse oltre il 2050 lo sviluppo di un nuovo Phénix o di un Superphénix risorgere dalle loro ceneri… Ma saranno costruiti dagli americani, i russi, gli indiani o… i cinesi, di cui i francesi, con un po’ di fortuna, saranno i subappaltatori, mentre erano avanti di 20 anni… 25 anni fa.

Decisamente, la Francia è gravemente carente di politici degni di questo nome con una visione chiara ea lungo termine dell’interesse generale perché, purtroppo, i successori di Jospin, spinti anche dalla loro sete di potere, non hanno fatto di meglio.

https://www.revueconflits.com/nucleaire-a-lorigine-etait-superphenix-puis-vint-le-declin-avec-jospin/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=money_money_money_le_dollar_oeuvre_d_art&utm_term=2022-11-23

Ucraina, il conflitto 21a puntata_azioni coordinate Con Stefano Orsi e Max Bonelli

La mano del generale Surovikin comincia a farsi notare anche sul campo di battaglia oltre che sul più esteso teatro di guerra. Dopo il grande ripiegamento, pressoché indolore, da Kherson, compresa la protezione della popolazione filorussa, questa volta l’impronta è impressa sulla capacità di sostenere, in maniera dinamica, il confronto con l’esercito ucraino su di un fronte ormai ben definito e disegnato. Ormai l’esito del confronto sarà determinato dall’esaurimento di una delle forze in campo piuttosto che dall’avvio di una azione diplomatica, sempre sul punto di emergere, ma senza riuscire ad imporsi. In Ucraina hanno preso piede ormai un vero e proprio regime di guerra ed una economia altrettanto di guerra che ormai procedono per inerzia, per quanto spaventosa. Dal canto loro, gli Stati Uniti, l’attuale leadership, si sono troppo compromessi finanziariamente e politicamente per poter fare un passo indietro. In venti anni hanno creato in Ucraina una vera e propria zona franca nella quale il riciclaggio di denaro, il commercio illegale, le spericolate sperimentazioni di laboratorio fanno da supporto ed incentivo prosaico al disegno di neutralizzazione ed annichilimento della Russia. Una zona franca diventata terreno di pascolo di buona parte del ceto politico responsabile di queste scelte. Nell’altro versante quello che è iniziato come una ipotesi di collaborazione sempre più stretta tra la Russia, la Cina, l’Iran e, un po’ più a latere, l’India si sta tramutando in prime forme di integrazione del complesso militare industriale, nella fattispecie tra Russia ed Iran. Da un mondo unipolare e tendenzialmente bipolare si sta passando ad una fase multipolare sempre più definita. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/v1wyfq2-ucraina-il-conflitto-21a-puntata-azioni-coordinate-con-stefano-orsi-e-max-b.html

In “Competizione sistemica” con gli USA, di German-Foreign-Policy

Lo stiamo ripetendo da tempo. Ora c’è la conferma ufficiale. Non è però solo guerra commerciale. Le modalità di azione della guerra economica non si limitano ai dazi, alla politica monetaria, alla guerra dei tassi, alla regolamentazione dei flussi commerciali. Le sanzioni e le stesse scelte geopolitiche agiscono sulle scelte economiche. Queste ultime sono sempre più parte integrante delle dinamiche geopolitiche. Più la base egemonica si restringe, più i sottomessi sentiranno sulla propria pelle il peso del dominio.

Giuseppe Germinario

Si espande la guerra commerciale tra l’UE e gli Stati Uniti sui programmi di investimento statunitensi che attirano le industrie del futuro lontano dall’Europa. I manager avvertono di un “esodo industriale” negli Stati Uniti.

23
NOV
2022

BERLINO/WASHINGTON restringendo l’UE ai negoziati con gli USA. Secondo gli economisti, alla fine sono in gioco “un gran numero di industrie del futuro”. L’ex CEO di Siemens Joe Kaeser avverte persino di un “esodo industriale e di capitali dall’Europa” verso gli Stati Uniti.

“Compra americano”

I programmi di investimento statunitensi, del valore di centinaia di miliardi, che l’amministrazione statunitense ha lanciato nell’ultimo anno, sono ancora al centro del conflitto. Attualmente il dibattito si concentra sull’Inflation Reduction Act, che prevede quasi 400 miliardi di dollari USA per la decarbonizzazione, in particolare per l’energia verde e le auto elettriche.[1] Questi fondi sono estremamente attraenti per l’industria. L’acquisto di auto elettriche viene sovvenzionato con 7.500 dollari USA ciascuna. Tuttavia, solo le auto prodotte negli Stati Uniti sono sovvenzionate. Questo vale anche per i componenti, come le batterie. Anche le loro materie prime devono essere inizialmente estratte e lavorate al 40 e – a lungo termine – all’80 per cento negli Stati Uniti, o in alternativa in un Paese legato agli USA da un accordo di libero scambio. Ciò esclude la Cina, ma anche Germania e UE – non solo per singoli prodotti ma anche per intere catene di fornitura. Per poter beneficiare di questi programmi di investimento unici, alcune aziende hanno già iniziato ad espandersi all’interno oa creare nuovi siti negli Stati Uniti: si profila un trasferimento sistematico di segmenti significativi delle strutture produttive in Nord America.

„Un aspirapolvere per investimenti”

Ciò non riguarda solo l’industria automobilistica, compresi i suoi subappaltatori e la produzione di batterie. Si profilano già i primi ritardi nella costruzione pianificata di entrambe, una fabbrica di batterie Northvolt a Heide e l’espansione dello stabilimento Tesla a Grünheide vicino a Berlino, perché entrambe le società stanno dando la priorità alle loro attività negli Stati Uniti. I produttori di turbine eoliche possono anche sperare in sovvenzioni dall’Inflation Reduction Act se producono negli Stati Uniti. Secondo i rapporti, gli esperti della Commissione europea prevedono che le principali aziende di questo settore trasferiranno i loro siti produttivi negli Stati Uniti.[2] Christian Bruch, CEO di Siemens Energy, ha affermato che le risorse del settore per la transizione energetica saranno distribuite nei prossimi dodici mesi e “se l’Europa non reagisce, si investirà di più negli Stati Uniti che qui. ”[3] Uno sviluppo identico sta diventando evidente nell’industria dell’idrogeno, a causa degli alti sussidi e dell’energia molto più economica negli Stati Uniti. Jorgo Chatzimarkakis, segretario generale di Hydrogen Europe, prevede che gli Stati Uniti attireranno “investimenti… come un aspirapolvere”. potenziale è particolarmente problematico. Gli Stati Uniti potrebbero invece ora diventare i pionieri globali. l’UE vuole trasformarsi in industrie di punta della transizione energetica con un potenziale di espansione globale è particolarmente problematico. Gli Stati Uniti potrebbero invece ora diventare i pionieri globali. l’UE vuole trasformarsi in industrie di punta della transizione energetica con un potenziale di espansione globale è particolarmente problematico. Gli Stati Uniti potrebbero invece ora diventare i pionieri globali.

Cooperazione costosa

I programmi di investimento statunitensi potrebbero avere conseguenze ancora più gravi nell’Asia orientale, dove avranno un impatto su due stretti alleati degli Stati Uniti: il Giappone e la Corea del Sud. Considerando che almeno alcune delle case automobilistiche tedesche possono già beneficiare di questi sussidi, perché stanno producendo negli Stati Uniti – ad esempio la BMW 330e o presto la Mercedes EQS – questo varrà solo per la Nissan Leaf, tra le case automobilistiche asiatiche. Il governo giapponese ha presentato una protesta attraverso i canali diplomatici, senza alcun risultato. Tuttavia, i principali produttori giapponesi come Toyota e Honda hanno da tempo in programma di creare impianti di auto elettriche e batterie negli Stati Uniti. La Corea del Sud è più gravemente colpita. Hyundai, ad esempio, ha alcuni modelli di auto elettriche di successo, con i quali l’azienda è in competizione con la statunitense Tesla. Tuttavia, questi non vengono prodotti negli Stati Uniti e, pertanto, sono totalmente esclusi dai programmi di sovvenzione.[5] Ciò si è rivelato motivo di imbarazzo per il presidente della Corea del Sud Yoon Suk-Yeol. Da quando è entrato in carica lo scorso maggio, ha sostenuto le misure di Washington di ogni tipo, ad esempio favorendo la produzione di chip statunitense, correndo così il rischio di tensioni con la Cina. Ora si rende conto che la cooperazione con gli Stati Uniti è economicamente costosa per il suo paese.[6] C’è una rabbia enorme a Seoul. Ora si rende conto che la cooperazione con gli Stati Uniti è economicamente costosa per il suo paese.[6] C’è una rabbia enorme a Seoul. Ora si rende conto che la cooperazione con gli Stati Uniti è economicamente costosa per il suo paese.[6] C’è una rabbia enorme a Seoul.

“Compra europeo”

Un approccio deciso e consolidato, adottato da tutti gli Stati interessati, finora non ha avuto successo a causa della disunione all’interno dell’UE. La Francia preme per un’azione risoluta. A ottobre, il presidente Emmanuel Macron, in reazione alle normative statunitensi “Buy American”, aveva lanciato un appello per legiferare un “Buy European Act”, per proteggere il mercato dell’UE dalla concorrenza statunitense, o almeno fino a quando Washington lo sostiene il suo corso.[7] Il commissario francese per il mercato interno dell’UE, Thierry Breton, si è espresso a favore della “gestione del problema nell’ambito dell’OMC”, possibilmente anche presentando una denuncia all’OMC.[8] Tuttavia, il governo tedesco sta minimizzando. Ad esempio, il ministro dell’Economia tedesco, Robert Habeck, avrebbe affermato che “sono state avviate discussioni con gli americani”, in modo da “non entrare in una sorta di guerra commerciale. ”[9] Il ministro delle finanze tedesco, Christian Lindner, ha avvertito che una guerra commerciale crea solo perdenti, “nessuno ne trarrà vantaggio”.[10] Il commissario europeo per il commercio Valdis Dombrovskis sta seguendo la linea di Berlino. “Vogliamo un accordo negoziato”, ha dichiarato Dombrovskis. “Sono favorevole a procedere per gradi. Ora stiamo discutendo”. Solo allora, quando “i risultati non soddisfano le nostre aspettative”, “prepariamo il passo successivo”. Naturalmente, forse allora sarebbe troppo tardi.[11] ” sarà “prepariamo il passo successivo”. Naturalmente, forse allora sarebbe troppo tardi.[11] ” sarà “prepariamo il passo successivo”. Naturalmente, forse allora sarebbe troppo tardi.[11]

Colloqui senza alcun risultato

Dal 4 novembre, infatti, si riunisce regolarmente una task force transatlantica, per trovare il modo di evitare danni all’Ue, fino ad ora – per quanto si sa – senza risultati tangibili. Un emendamento all’Inflation Reduction Act è considerato fuori discussione, anche perché il Congresso Usa dovrebbe essere favorevole, cosa ancora meno ipotizzabile ora, visti i risultati degli ultimi mid-term, in cui i repubblicani hanno ottenuto la maggioranza al Camera dei Rappresentanti. Teoricamente, sarebbero possibili modifiche ai regolamenti di attuazione, ma non c’è nulla che indichi che Washington sarebbe d’accordo su qualsiasi cosa al di là di semplici aggiustamenti estetici. Il 5 dicembre, il Consiglio per il commercio e la tecnologia (TTC) UE-USA dovrebbe riunirsi per affrontare la questione, ma le aspettative sono basse.

“Esodo industriale negli USA”

Nel frattempo, diversi economisti e manager hanno commentato le dimensioni della disputa commerciale. Ad esempio, Gabriel Felbermayr, direttore dell’Istituto austriaco di ricerca economica (WIFO) di Vienna, ritiene che questo conflitto offuschi la controversia sui sussidi Airbus-Boeing,[12] che aveva coinvolto solo “un singolo settore”, mentre nell’attuale conflitto , sono in gioco “molte industrie del futuro”.[13] Si dice che l’ex capo della Siemens Joe Kaeser abbia affermato che “in una certa misura” l’UE non è solo in “concorrenza sistemica” con la Cina, ma anche con gli Stati Uniti. Se si guarda ai programmi di investimento degli Stati Uniti e al dissenso all’interno dell’UE, si profila chiaramente “un esodo industriale e di capitali dall’Europa verso gli USA”.[14]

 

[1] Vedi anche Lotte di potere dietro il fronte (II) .

[2] Silke Wettach: Der falsche Freund. WirtschaftsWoche 18.11.2022.

[3], [4] Warum ein Handelskrieg zwischen USA und EU droht. spiegel.de 18.11.2022.

[5] Martin Kölling: „Verräter, Bastarde“ – Wie die USA enge Verbündete gegen sich aufbringen. www.handelsblatt.com 14.10.2022.

[6] Ellen Kim: la legge sulla riduzione dell’inflazione viene messa a fuoco all’UNGA. csis.org 22.09.2022.

[7] Clea Caulcutt: Emmanuel Macron chiede un “Buy European Act” per proteggere le case automobilistiche regionali. politico.eu 26.10.2022.

[8] Moritz Koch: „Die USA eröffnen faktisch ein Subventions-Rennen“ – Il commissario dell’UE ha detto a Washington. www.handelsblatt.com 03.11.2022.

[9] Dana Heide, Silke Kersting, Moritz Koch, Annett Meiritz, Klaus Stratmann: USA stemmen „größte Investitionen aller Zeiten“ fürs Klima – und lösen in Europa Ängste aus. www.handelsblatt.com 03.11.2022.

[10] Lindner befürchtet Blockbildung durch US-Gesetz. n-tv.de 17.11.2022.

[11] Markus Becker, Michael Sauga: Rechnen Sie mit einem Handelskrieg, Herr Dombrovskis? spiegel.de 18.11.2022.

[12] Cfr. anche Die nächste Strafzollrunde .

[13], [14] Warum ein Handelskrieg zwischen USA und EU droht. spiegel.de 18.11.2022.

https://www.german-foreign-policy.com/en/news/detail/9092

Le emergenti dinamiche strategico-militari della nuova guerra fredda nell’Asia-Pacifico, di ANDREW KORYBKO

La leadership cinese sente di essere caduta in una trappola dopo che è diventato ovvio che gli Stati Uniti li stanno provocando ad agire militarmente sull’emergente dilemma della sicurezza su Taiwan prima che siano pronti. La verità “politicamente scomoda” è che la Cina è strategicamente più vulnerabile in questo momento di quanto non lo sia stata da decenni, ecco perché ha deciso di guadagnare urgentemente tempo per ricalibrare i suoi piani pluriennali esplorando seriamente i parametri di una nuova distensione con gli Stati Uniti.

Il miliardo d’oro contro il sud del mondo

La nuova guerra fredda tra il miliardo d’oro dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti e il sud del mondo guidato congiuntamente da BRICS SCO sulla direzione della transizione sistemica globale si sta attivamente svolgendo nell’Asia-Pacifico. Questa regione è la più popolosa del mondo e anche l’epicentro dei processi di globalizzazione, rendendola così il campo di battaglia più importante in questa competizione globale tra questi due blocchi di fatto. Di conseguenza, le sue emergenti dinamiche strategico-militari dovrebbero interessare tutti.

L’autopsia del deragliamento dei piani della superpotenza cinese

Gli Stati Uniti hanno dato la priorità al contenimento della Russia attraverso la guerra per procura guidata dalla NATO che hanno provocato in Ucraina poiché consideravano quella grande potenza eurasiatica relativamente più debole della Cina, ritenendo che la presunta inevitabile capitolazione strategica di Mosca faciliterà i piani di Washington contro Pechino. Lo stallo che si sta instaurando lungo la linea di controllo (LOC) si tradurrà con il tempo nella vittoria strategica della Russia , tuttavia, ecco perché gli Stati Uniti hanno portato avanti i loro piani anti-cinesi all’inizio di agosto.

Il provocatorio viaggio di Pelosi a Taiwan ha coinciso con la firma da parte di Biden del CHIPS Act , il primo dei quali ha segnato la ripresa del “Pivot to Asia” guidato dai militari degli Stati Uniti che è stato temporaneamente sospeso a causa dell’operazione speciale della Russia, mentre il secondo ha rappresentato una grande escalation in la “corsa tecnologica”. Da allora, AUKUS ha iniziato a fondersi con gli alleati del trattato regionale degli Stati Uniti come il Giappone insieme alla NATO incentrata sull’UE, mentre la nuova tabella di marcia del quadro economico indo-pacifico ha rafforzato la posizione economica degli Stati Uniti.

Queste nuove pressioni economico-militari regionali hanno contribuito alle inaspettate sfide sistemiche scatenate dal conflitto ucraino, rischiando di far deragliare la traiettoria speculativa della superpotenza cinese . In risposta, la nuova leadership cinese che si è insediata dopo il 20° Congresso nazionale del mese scorso ha iniziato a esplorare i parametri di una nuova distensione con gli Stati Uniti nel tentativo di alleviare temporaneamente alcune delle suddette pressioni, guadagnando tempo per ricalibrare i loro piani pluriennali.

Il percorso verso una nuova distensione americano-cinese

Questo era esattamente ciò che l’esperto cinese di fama mondiale Henry Kissinger prevedeva sarebbe accaduto , anche se non è chiaro se alla fine verrà raggiunto un tale equilibrio pragmatico di interessi tra queste due superpotenze al fine di sostenere il sistema bi-multipolare in dissolvenza in cui hanno condiviso interessi. Quella fase intermedia della transizione sistemica globale si sta rapidamente evolvendo verso la tripolarità prima della sua forma finale di multipolarità complessa (“multiplexity”) dovuta al magistrale atto di equilibrio dell’India .

Questa grande potenza in ascesa si è dimostrata in grado di allinearsi pragmaticamente tra il Golden Billion e il Global South di cui fa parte per diventare il kingmaker nella Nuova Guerra Fredda, il cui ruolo è oggi riconosciuto anche dai media e dagli Stati Uniti rappresentanti dello stato nonostante le precedenti smentite . L’ interazione risultante tra Stati Uniti, Cina, Russia e India – i quattro attori più significativi a livello globale nella transizione sistemica – crea in modo intrigante le basi per far avanzare la Nuova Distensione.

A tal fine, il ministro della Difesa cinese ha appena tenuto colloqui con il suo omologo americano in Cambogia nonostante avesse precedentemente sospeso l’impegno militare a militare all’indomani del provocatorio viaggio di Pelosi in agosto. Il segretario di Stato americano Blinken prevede inoltre di visitare Pechino all’inizio del prossimo anno per sfruttare i progressi politici raggiunti nello scioglimento delle tensioni tra queste due superpotenze dopo il primo incontro di persona dei loro leader durante il G20 della scorsa settimana in Indonesia.

Ricalibrazioni strategico-militari regionali

Sul tema di quel leader dell’ASEAN posizionato geostrategicamente, il suo ministro della Difesa ha appena riaffermato la sua neutralità di principio nella Nuova Guerra Fredda, riducendo così le possibilità (almeno per ora) che faciliterebbe passivamente l’anti- Piani di contenimento cinesi. Ciò contribuirà a placare ulteriormente le tensioni tra le superpotenze americana e cinese mentre continuano a esplorare i parametri di una nuova distensione.

Tuttavia, nessuno dovrebbe aspettarsi che gli Stati Uniti concedano unilateralmente ciò che considerano soggettivamente nel proprio interesse nazionale. La pressione militare continuerà ancora ad essere esercitata sulla Repubblica popolare, come evidenziato dal viaggio del vicepresidente Harris nelle Filippine, che è stato ampiamente interpretato come una riaffermazione dell’impegno di difesa reciproca dell’America nei confronti del suo alleato del trattato nel mezzo della sua accesa disputa territoriale con la Cina sul Mar Cinese Meridionale. .

Parlando di alleati del trattato, ci si aspetta che tutti diventino il nucleo di un’alleanza militare regionale simile alla NATO guidata dagli Stati Uniti incentrata su AUKUS, anche se tale non è mai stata dichiarata ufficialmente né tutti i membri finiscono con uguali impegni di difesa reciproca a uno altro. Lo scopo di questa piattaforma sarà tenere sotto controllo l’ascesa della superpotenza cinese, indipendentemente dal fatto che si compiano progressi verso il raggiungimento di una nuova distensione. In pratica, questo vedrà Australia, Giappone, Filippine, Corea del Sud e Thailandia giocare un ruolo da protagonisti.

Il nuovo normale”

La graduale espansione della NATO originale verso l’Asia-Pacifico integrerà le capacità militari e il potenziale complessivo della sua controparte emergente, servendo così a massimizzare il contenimento della Cina da parte dell’America. Sebbene non sia chiaro quale ruolo giocherà Taiwan in questo quadro guidato dagli Stati Uniti, è possibile che Washington possa tenerlo relativamente a debita distanza se si raggiungesse una nuova distensione per evitare di provocare Pechino, anche se nessuno dovrebbe aspettarsi che la loro cooperazione globale finisca .

Le grandi sfide strategiche che la Cina sta affrontando nella sua regione d’origine (comprese quelle sistemiche scatenate dal conflitto ucraino che sono state precedentemente spiegate nel relativo collegamento ipertestuale) dovrebbero quindi peggiorare e diventare istituzionalizzate fino al punto di trasformarsi nella “nuova normalità” . La nuova piattaforma militare AUKUS+ dell’Asia-Pacifico degli Stati Uniti diventerà la base su cui verrà ampliata la rete economica prevista, il che farà pressione sulla Cina in modo olistico come mai prima d’ora.

Fintanto che la sua autodichiarata ” linea rossa numero uno ” di Taiwan non sarà oltrepassata, è improbabile che la Repubblica popolare inizi la sua operazione speciale di tipo russo in risposta a questo innegabile dilemma di sicurezza tra essa e i suoi oppositori sistemici tra i Golden Miliardi. La ragione di questa previsione è che la grande strategia della Cina è stata completamente deragliata dalla combinazione delle sfide sistemiche scatenate dal conflitto ucraino e dalle mosse opportunistiche economico-militari degli Stati Uniti dopo agosto.

La risposta pragmatica della Cina alla trappola degli Stati Uniti

La sua leadership, sia quella precedente prima del 20° Congresso Nazionale di ottobre sia quei nuovi membri che sono entrati in carica a seguito di quell’evento, si sentono come se fossero stati condotti in una trappola dopo che è diventato ovvio che gli Stati Uniti li stanno provocando ad agire militarmente su questo dilemma di sicurezza prima che siano pronti. La verità “politicamente scomoda” è che la Cina è strategicamente più vulnerabile in questo momento di quanto non lo sia stata da decenni, motivo per cui ha deciso di guadagnare urgentemente tempo per ricalibrare i suoi piani pluriennali.

Questo spiega perché ha ripreso l’impegno militare con gli Stati Uniti a livello di ministro della Difesa, nonostante lo avesse sospeso in risposta al viaggio provocatorio di Pelosi in agosto, anche se gli Stati Uniti non hanno ancora fatto nulla in cambio. Lo stesso si può dire per i contatti del presidente Xi con il nuovo leader australiano, anche se il paese di quest’ultimo non ha fatto marcia indietro su nessuna delle sue aggressioni non provocate contro la Cina, responsabili del peggioramento delle loro relazioni nell’ultimo mezzo decennio.  

Dove sono finiti tutti i “Wolf Warriors”?

Per essere chiari, queste concessioni apparentemente unilaterali da parte della Cina sono superficiali per ora e vengono effettuate per motivi di buona volontà al fine di portare le discussioni sulla nuova distensione al livello successivo, ma confermano anche inavvertitamente quanto sia strategicamente vulnerabile in questo momento che lo sta facendo anche in primo luogo. L’ottica di queste mosse contrasta con le percezioni della politica cinese che erano state precedentemente spinte dai suoi cosiddetti ” guerrieri lupo “, che curiosamente sembrano essersi zittiti.

Le loro voci hanno raggiunto un crescendo all’inizio di agosto prima del viaggio provocatorio di Pelosi, ma poi sono state rapidamente messe a tacere dopo la risposta calma e strategicamente responsabile della Cina (o la sua mancanza). Col senno di poi, quello sviluppo del soft power suggeriva che i grandi calcoli strategici della sua leadership avevano tacitamente cominciato a cambiare per le ragioni precedentemente menzionate, da qui la necessità di “domare i lupi” (almeno per il momento) esplorando i parametri di una nuova distensione al fine di mantenere la buona volontà durante i colloqui.  

Questa intuizione suggerisce che gli osservatori possono monitorare i media cinesi per suggerimenti sui progressi compiuti dietro le quinte per raggiungere un equilibrio pragmatico di influenza tra le due superpotenze. La continua tendenza a criticare solo moderatamente gli Stati Uniti, sia in generale che in particolare per quanto riguarda le relazioni con la Cina, e persino a lodarli occasionalmente, suggerirebbe che tutto rimane sulla buona strada per il momento come dovrebbe essere il caso almeno fino al viaggio di Blinken a Pechino all’inizio del 2023.

Pensieri conclusivi

Nel frattempo, gli Stati Uniti cercheranno di rafforzare ulteriormente i propri risultati economico-militari nell’Asia-Pacifico al fine di renderli la “nuova normalità”, che terrebbe sotto controllo la Cina indipendentemente dal fatto che alla fine si raggiunga una nuova distensione pur funzionando come un modo per “salvare la faccia” se congela il suo già alto livello di cooperazione globale con Taiwan come “concessione” a Pechino. Finché la “linea rossa numero uno” della Cina non sarà oltrepassata, le dinamiche strategico-militari di questo pezzo rimarranno sulla buona strada.

L’industria europea, eterna grande vittima dell’ingenuità dei leader dell’UE, con Francois Gerolf

Non si tratta di ingenuità. Il nuovo corso statunitense, reso evidente dal conflitto ucraino, ma già tracciato sin dalla presidenza di Obama, prevede il sacrificio dell’Europa con la diretta compiacenza delle locali classi dirigenti. Giuseppe Germinario

Atlantico: Approvato dal Congresso americano l’Inflation Reduction Act (IRA) che preoccupa gli europei, perché?

François Geerolf: C’è un aspetto importante, a livello industriale, che preoccupa gli europei. È questo l’insieme dei termini relativi ai sussidi all’industria, che possono assumere diverse forme: sussidi diretti per l’installazione di fabbriche, dell’ordine di diversi milioni, ma anche aiuti alle famiglie che acquistano prodotti, come le auto elettriche, realizzati nel Nord America.

Le reazioni europee mostrano una vera insoddisfazione. Ma quanto sono da biasimare per non aver risposto?

Il problema è che queste azioni sono molto insolite nella governance globale guidata dagli Stati Uniti, specialmente con l’OMC. Le regole avrebbero dovuto regolare la corretta organizzazione del commercio mondiale con l’idea di parità di condizioni. Ciò presuppone che non vi siano sovvenzioni eccessive per l’installazione di fabbriche, che potrebbero essere considerate una distorsione della concorrenza al fine di promuovere l’occupazione sul proprio territorio. Questo aiuto di Stato rientra quindi nel campo di applicazione dell’OMC, forse non da un punto di vista legale ma almeno nello spirito. Questo prende l’Europa con il piede sbagliato: il problema che si pone per l’Europa è che è stata costruita attorno all’idea del libero scambio con la priorità di limitare le barriere al commercio tra i suoi membri, che gradualmente si estese ai partner commerciali al di fuori dell’Europa. Ma il mondo anglosassone sta cambiando. Joe Biden persegue politiche apertamente protezionistiche. Anche se gli Stati Uniti hanno sempre saputo conservare alcune riserve in alcuni settori, attualmente stiamo assistendo a un’estensione di questo movimento a tutti i settori strategici: auto elettriche, idrogeno, ecc. Tutte le tecnologie del futuro sono prese di mira. Li vogliono sul loro territorio e approfittano della perdita di competitività dell’Europa dovuta all’aumento dei prezzi dell’energia (che colpisce in particolare l’Europa, perché i prezzi dell’elettricità e del gas stanno aumentando a livello regionale) per convincere i produttori a venire a stabilirsi negli Stati Uniti. Cercano in questo di indebolire i loro concorrenti e in particolare l’industria tedesca. Ora credono che l’industria sia importante e debba essere protetta. Questo è un discorso che non teniamo più in Francia da molto tempo perché la Commissione europea, come molti esperti in Europa, sono molto poco sfumati nella loro difesa del libero scambio.

Sentiamo Emmanuel Macron chiedere un atto Buy European. È questa la soluzione?

Sono abbastanza pessimista. Certo, questo sta andando nella direzione giusta, ma chiedono un Buy European act e non credo che i nostri partner europei lo vogliano affatto. Temo che non riusciremo a raggiungere un accordo. Al momento stiamo vedendo sempre più argomenti di divergenza tra Francia e Germania, praticamente su ogni argomento. Cresce la divergenza tra i due paesi. Ma è una questione molto importante perché l’Europa rischia di scendere di diversi gradini se subisce un’ondata di deindustrializzazione legata all’azione congiunta degli Stati Uniti e dei prezzi dell’energia in Europa. Il rischio è che noi europei non potremo più pesare contro la Cina o gli Stati Uniti. La domanda che alla fine sorgerà è se ci sia significato in un’Unione che dovrebbe renderci più forti,

Fino a che punto c’è una forma di ingenuità da parte dei leader europei?

C’è davvero una forma di ingenuità. Per esempio nell’idea che l’industria “non è così importante” come pensano alcuni economisti. C’è anche un riflesso europeo nel credere che quando gli altri sono protezionisti, noi abbiamo sempre interesse ad essere liberisti. È una visione molto teorica e, a dire il vero, piuttosto ideologica dell’Unione europea, il che è deplorevole. Ci sono stati successi ma anche fallimenti del libero scambio, così come ci sono fallimenti ma anche successi del protezionismo. Ma poiché tutto il protezionismo è vissuto come nazionalismo, non siamo razionali su questo argomento.

In che misura questa situazione europea è ricorrente?

Dipende tutto dal paese, la Germania finora ha fatto relativamente bene, ma alcune nazioni europee hanno sofferto per un po’. La Francia e l’Italia stanno sperimentando la deindustrializzazione dagli anni ’90. La questione è se ciò sia legato o meno alle politiche condotte in Europa. C’era già un’ondata di deindustrializzazione dopo la crisi del 2008. La Germania aveva reagito bene, attraverso la disoccupazione parziale, mentre la Francia stava perdendo molti posti di lavoro nell’industria. Rischiamo di subire la stessa cosa. E il problema è che un’industria che se ne va è difficile da riportare indietro. Il presidente di Safran intende stabilirsi negli Stati Uniti. I produttori stanno mettendo gli stati l’uno contro l’altro per ottenere i migliori sussidi possibili. L’Europa presta molta attenzione ai propri deficit pubblici

https://atlantico.fr/article/decryptage/l-industrie-europeenne-sempiternelle-grande-victime-de-la-naivete-des-dirigeants-de-l-ue-inflation-reduction-act-etats-unis-joe-biden-dirigeants-union-europeenne-naivete-subventions-industrie-usines-vertes-francois-geerolf

Le trappole del Medio Oriente_con Antonio de Martini

Il pendolo dei focolai di crisi continua ad oscillare tra l’Europa e Taiwan con una tappa obbligata, ormai da decenni, in Medio Oriente. L’Iran e la Turchia tornano alla ribalta con l’emergere di pesanti crisi interne, ma con alcune novità determinanti: la capacità di reazione e di movimento delle classi dirigenti dominanti e del ceto politico da queste espresso; il contesto geopolitico che vede emergere nuovi grandi attori e che riesce ad offrire una sponda meno precaria a questa volontà di resistenza e di intraprendenza. Gli schemi adottati in Libia e in Siria si rivelano quindi meno efficaci, non ostante la serietà dei problemi interni ai rispettivi paesi. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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