Una conversazione che vede poche buone nuove e molte notizie preoccupanti. Lo scontro politico all’interno del mondo Anglosassone è senza quartiere . Trump ha barattato mano libera nella politica interna lasciando ai rep-neocon ( ancora ) campo libero ?
Cosa ne pensate ? Rispondete nei commenti .
Un imperiale Gianfranco Campa intervistato da Semovigo e Germinario .
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L’ amico Ernesto porta sempre più dei contributi molto complessi che superano la dimensione del semplice “commento disqus” e che meriterebbero una esposizione più estesa, cosa che Ernesto ha dimostrato di poter fare ( se lo vuole, ovviamente)
Nel suo commento ad un mio contributo, Ernesto ha discusso una questione molto importante :
Entro quanto tempo LORO ci “ucrainizzeranno” ?
E con argomenti validissimi che condivido conclude che non ce la faranno.
Ma purtroppo è solo lì che loro cercheranno comunque di portarci spinti dalla loro “ disperazione strategica “ , perché loro hanno già rotto tutti i ponti possibili per uscire dal pantano in cui si sono e ci hanno cacciati .
Quindi io non sono così “ottimista” e lo preciserò in modo più articolato.
Innanzitutto dico che condivido con Ernesto che gli ci vorrà certamente del tempo a ” militarizzarci” e alle sue giuste osservazioni ne aggiungo un’ altra a favore del suo punto di vista.
C’è infatti una differenza evidente tra NATO-ucraina di oggi e la NATO-€uropa di domani. La NATO-ucraiana è tenuta a galla grazie a un trasferimento annuo di denaro NOSTRO pari al 50% del PIL ucraino, ma chi , “da fuori” pagherebbe le spese per tenere a galla la NATO-€uropa ?
Ovviamente nessuno.
Allora ” siamo salvi”?
Io direi proprio per niente se la vediamo invece dal punto di vista dei NATO-gauleiter €uropei. Cioè valutando ciò che essi temono , ciò che essi sono stati chiamati a fare e che cosa realmente vogliono dal “Conflitto con la Russia”.
Vediamolo per punti
0) Essi se ne fregano dei popoli che “amministrano”! La loro unica preoccupazione è la stessa di “mister Ze”: durare ed incassare.
1) Il loro piano iniziale, quindi quello dei loro “superiori”, era semplicemente provocare la dissoluzione della Russia. Questo “piano A” lo abbiamo già discusso ed è sostanzialmente già fallito.
2) Questo fallimento ha già provocato un grave contraccolpo economico e politico in €uropa che essi ora devono gestire anche con “le maniere forti “
3) Alla lunga le “maniere forti” devono essere giustificate da uno stato di emergenza sostenuto da una incessante “narrazione “. La cosa è stata già collaudata con l “emergenza pandemica “, per questo ora vogliono una “ emergenza di guerra “. Con uno stato di guerra permanente con la Russia , loro possono facilmente tenerci sotto e farci anche un bel gruzzoletto a nostre spese.
4)Ma ovviamente loro NON vogliono una guerra “totale”; i nostri “amministratori” hanno bisogno solo di una “guerra” lunga e a bassa intensità che non degeneri in una “nuclearmente” rapida.
Questo è il loro “ pianoB” e va benissimo anche ai loro “superiori” che, ricordiamolo, sempre hanno bisogno di un conflitto globale incentrato in €uropa.
5)Ed in questo quali sono i calcoli su cui loro si appoggiano ? Semplice: puntano sulla superiorità di stazza numerica ed economica che l €uropa , pur declinante, ancora vanta sulla Russia.
In pratica essi dicono : noi collettivamente possiamo permetterci il costo di un “conflitto lungo” con la Russia dove possiamo anche perdere all’anno qualche centinaia di MLD e migliaia di soldati .
Per loro l’ importante è tenere sotto pressione la Russia più a lungo possibile. Alla Russia non deve essere concesso nulla; non concedendogli nulla loro mantengono lo stato di crisi con cui possono “legalmente” restare al potere e gestire ” il gregge “ secondo “l’ Agenda” dei loro padroni.
Ed a questo punto, l’ inevitabile declino economico-sociale dell’€uropa può anche essergli utile per fornirgli le migliaia di volontari “economici” pronti a sostituire le perdite.
Daltronde questa “Finis Europae” era già stata decisa da tempo sotto varii pretesti : pandemici, climatici, immigrazionistici e a quel progetto “l’ emergenza di guerra” viene ancora meglio.
Ora ovviamente tutto questo è un calcolo sbagliato per vari motivi. Ad esempio ancora essi sottovalutano la “resilienza” della Russia e sopravvalutano quella della NATO-€uropa; ma è sicuro che questo progetto verrà perseguito perché li farà restare più a lungo in sella e d’altronde per restare al potere non hanno un piano migliore.
Quindi , se non verranno rimossi prima ( ma da CHI? ) loro non defletterano e i rischi di una guerra nucleare in EUROPA cresceranno . Così la nostra rovina potrebbe pure essere anche rapidamente mortale, ma se anche questo non succedesse ci aspetta solo una lunga e dolorosa discesa agli inferi.
Da cui non escludo risalite che nella Storia talvolta accadono ( vedi Cina/ Russia).
Ma anche così io avrei preferito evitare il tutto. perché quando il vento tira sono gli stracci che volano .
Ma infine , per rispondere al quesito di Ernesto, tutto questo QUANDO ?
Non lo so , viviamo un “tempo a prestito” e quindi consiglio solo di viverlo finché c’ è .
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I termini “teoria” e “dottrina” nelle scienze politiche
Le scienze politiche (politologia/politologia) sono una disciplina scientifica generale che studia la politica. Il termine “politica” era spesso definito come l’arte di governare lo Stato (dal greco antico polis – città-Stato), ma nel corso della storia è stato inteso e trattato in modo diverso come materia di studio. Inizialmente, la scienza politica come materia di studio era solo una parte della storia generale del pensiero filosofico, ma in seguito è diventata gradualmente indipendente sotto forma di storia delle dottrine politiche, storia della filosofia politica o filosofia sociale, pensiero filosofico statale e/o giuridico, e persino come storia delle teorie giuridiche, dato che l’arte di gestire uno Stato e i suoi cittadini si basa in gran parte sull’applicazione, l’interpretazione, la realizzazione e il rispetto delle norme giuridiche ufficiali (nonché sull’applicazione della legislazione giuridica non scritta ma tradizionale e delle sue norme socio-morali sulla base delle quali un determinato ambiente sociale ha vissuto e risolto le sue relazioni interpersonali per secoli).
Il termine “filosofia” nel suo significato è sufficientemente elaborato e conosciuto e si riduce essenzialmente all’“amore per la saggezza”, cioè alla conoscenza o alla conoscenza generale (scienza) dell’uomo, cioè della sua esistenza in questo mondo o nell’altro, nonché del mondo che lo circonda, compresa una vasta gamma di fenomeni sociali e naturali che influenzano l’esistenza dell’uomo. Tuttavia, il significato dei termini “teoria” e “dottrina” rimane in molti casi specifici di ricerca, almeno per quanto riguarda le scienze politiche, indefinito o, nella maggior parte dei casi, definito in modo poco chiaro o non accettato a livello generale (globale).
Il termine “teoria” ha origini greche antiche e, in senso generale, rappresenta una conoscenza generalmente accettata come tale. Tuttavia, tale conoscenza appare anche nella pratica in almeno tre forme:
1. Conoscenza teorica che non è (o non deve essere) direttamente correlata all’applicazione nella pratica;
2. Conoscenza scientifica, ovvero conoscenza ottenuta attraverso sistemi ufficiali di verifica e prova scientifica, e che come tale diventa formalmente provata e “generalmente riconosciuta” come conoscenza accurata (provata) (ovvero conoscenza del funzionamento di un determinato fenomeno);
3. Significato ipotetico (cioè un’affermazione che non è stata ancora provata, cioè “generalmente riconosciuta”, ma che è ampiamente applicata nella pratica così com’è).
A differenza del termine ‘teoria’, il termine “dottrina” in scienze politiche è generalmente prevalente tra i teorici e gli scrittori occidentali, ma soprattutto francesi, che si occupano di storia delle scienze economiche. Tuttavia, lo stesso termine “dottrina” nelle scienze politiche può assumere un significato completamente diverso in contesti diversi, ad esempio in riferimento alle azioni di politica estera delineate da uno Stato (ad esempio, la “Dottrina Bush” del 2001, che proclamava la politica “America First”). In ogni caso, i teorici francesi ritengono che nella storia della filosofia (politica ed economica) si debbano distinguere due tipi di pensiero:
1. Conoscenze scientifiche e leggi accuratamente stabilite e ufficialmente adottate (nel senso stretto del termine – provate) relative a un determinato fenomeno che è oggetto di un determinato studio – “teoria”;
2. Opinioni, comprensioni, interpretazioni o punti di vista di determinate persone che non sono ufficialmente stabiliti come “teorie scientifiche”, ma sono utilizzati come una sorta di direttiva per azioni politiche specifiche – “dottrina” o ‘ipotesi’, che sono più o meno istruzioni pratiche per un’azione specifica, ma non conoscenze scientificamente riconosciute ufficialmente come verità provata o sviluppo provato di un fenomeno (“teoria”).
Tuttavia, il termine “dottrina” è di origine latina e deriva dalle parole doceo, docere, doctus (insegnare, essere insegnato, conoscere). Tuttavia, questo termine latino ha originariamente diversi significati, come ad esempio:
1. Conoscenza teorica che non ha ancora ricevuto conferma scientifica ufficiale come verificata, cioè conoscenza provata nella vita pratica (questo punto è praticamente identico al punto 3 della suddetta presentazione del significato del termine “teoria”);
2. Conoscenza che è essenzialmente considerata vera, ma che in senso pratico è legata all’azione (politica o economica), cioè conoscenza che non è puramente teorica. In questo caso, è importante notare che la conoscenza teorica è considerata un fatto provato, mentre la dottrina implica una sorta di istruzioni per l’azione pratica o, in politica, un ordine di eseguire un determinato compito pratico al fine di risolvere un problema pratico.
3. Conoscenza scientifica, che coincide praticamente con i punti 1 e 2 della suddetta presentazione del significato del termine “teoria”.
Tuttavia, nella pratica della ricerca scientifica nelle scienze politiche, giuridiche ed economiche, “teoria” significa conoscenza comprovata (scientifica), mentre il termine “dottrina” si riferisce a conoscenze ancora non comprovate da un punto di vista puramente scientifico – ipotesi che, in sostanza, non devono essere necessariamente errate, ma che nella pratica non sono ancora state formalmente dimostrate come scientificamente corrette, cioè vere. Nelle scienze politiche, il termine “teoria” è usato nel senso più ampio del termine per indicare la conoscenza in senso generale: quindi, come conoscenza che è stata scientificamente verificata, ma anche come conoscenza che è ancora sotto forma di opinione ipotetica non provata o conoscenza che è fondamentalmente diretta all’attività pratica di un certo gruppo di persone.
Dr. Vladislav B. Sotirovic
Ex professore universitario
Ricercatore presso il Centro di studi geostrategici
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The Terms “Theory” and “Doctrine” in Political Science
Political science (politology/politologia) is a general scientific discipline of politics. The term “politics” was most often defined as the art of managing the state (ancient Greek polis – city-state), but it was understood and treated differently as a subject over the course of history. Initially, political science as a subject was only part of the general history of philosophical thought, but later it gradually became independent in the form of the history of political doctrines, the history of political philosophy or social philosophy, state and/or legal philosophical thought, and even as the history of legal theories, given that the art of managing a state and its citizens is largely based on the application, interpretation, realization, and respect for official legal norms (as well as on the application of unwritten but traditional legal legislation and its socio-moral norms based on which a certain social environment has lived and resolved its interpersonal relations for centuries).
The term “philosophy” in its meaning is sufficiently elaborated and known and essentially boils down to “love of wisdom”, i.e., knowledge or general knowledge (science) about man, i.e., his existence either in this world or the next, as well as the world around him, including a wide range of social and natural phenomena that influence man’s existence. However, the meaning of the terms “theory” and “doctrine” remains in many specific research cases, at least as far as political science is concerned, undefined or, in most cases, unclearly defined or not accepted at some general (global) level.
The term “theory” is of ancient Greek origin and, in a general sense, represents knowledge that is generally accepted as such. However, such knowledge also appears in practice in at least three forms:
1. Theoretical knowledge that is not (or does not need to be) directly related to application in practice;
2. Scientific knowledge, i.e., knowledge obtained through official systems of scientific verification and proof, and which as such becomes formally proven and “generally recognized” as accurate (proven) knowledge (i.e., knowledge of the functioning of a certain phenomenon);
3. Hypothetical meaning (i.e., a statement that has not yet been proven, i.e., “generally recognized”, but is widely applied in practice as it is).
In contrast to the term “theory”, the term “doctrine” in political science is generally prevalent among Western, but especially French, theorists and writers who deal with the history of economic science. However, the same term “doctrine” in political science can mean a completely different context in terms of, for example, the outlined foreign policy actions of a state (e.g., the “Bush Doctrine” of 2001, which proclaimed the “America First” policy). In any case, French theorists believe that in the history of (political and economic) philosophy, two types of thought should be distinguished:
Accurately established and officially adopted (in the strict sense of the word – proven) scientific knowledge and laws relating to a certain phenomenon that is the object of a certain study – “theory”;
2. Views, understandings, interpretations, or opinions of certain persons that are not officially established as “scientific theories” but are used as a kind of directive for specific political actions – “doctrine” or “hypotheses”, which are more or less practical instructions for a specific action but not officially scientifically recognized knowledge of proven truth or proven development of phenomenon (“theory”).
Nevertheless, the term “doctrine” is of Latin origin and comes from the words doceo, docere, doctus (to teach, to be taught, to know). However, this Latin term originally has several meanings, such as:
1. Theoretical knowledge that has not yet received official scientific confirmation as verified, i.e., proven knowledge in practical life (this item is practically identical to point 3 from the above-mentioned presentation of the meaning of the term “theory”);
2. Knowledge that is essentially considered true, but is in a practical sense related to action (political or economic), i.e., knowledge that is not purely theoretical. In this case, it is important to note that theoretical knowledge is considered proven facts, while doctrine implies some kind of instructions for practical action or, in politics, an order to perform a certain practical task in order to solve a practical problem.
3. Scientific knowledge, which practically coincides with points 1 and 2 from the above-mentioned presentation of the meaning of the term “theory”.
However, in the practice of scientific research in political, legal, and economic sciences, “theory” means proven (scientific) knowledge, while the term “doctrine” refers to still unproven knowledge from a purely scientific point of view – assumptions, which in essence do not have to be incorrect but in practice have not yet been formally proven as scientifically correct, i.e. true. In political science, the term “theory” is used in the broadest sense of the word for knowledge in a general sense: therefore, as knowledge that has been scientifically verified, but also as knowledge that is still in the form of use as an unproven hypothetical opinion or knowledge that is basically directed at the practical activity of a certain group of people.
Dr. Vladislav B. Sotirovic
Ex-University Professor
Research Fellow at Centre for Geostrategic Studies
“Quindi tu sostieni, contrariamente alla vulgata, che per Stalin fu una sorpresa non gradita la comparsa dello st di i?”
A cui non si può rispondere in modo secco.
Se invece essa finisse con “…la comparsa di QUESTO st di i “ direi seccamente, SI.
Si, penso che sulla comparsa di QUESTO St di I Stalin sia stato “buggerato” . Niente di male , capita anche a “quelli bravi”.
E ora spiego come e perché sono arrivato alla mia opinione.
Di sicuro la cacciata degli inglesi dalla Palestina, ad opera delle formazioni ebraiche, era un anche un interesse di Stalin.
Ed è altrettanto certo che pure la divisione della Palestina gli andasse bene. In fondo gli ebrei erano una potente nazionalità del l’URSS , la struttura sociale dei primi coloni ebrei era “socialista” e i nazionalisti arabi si erano appoggiati solo sulle sconfitte potenze de L’ Asse.
Ma forse in seguito alla divisione della Palestina decisa dall’ Onu scandalosamente a favore degli ebrei potrà aver sollevato un sopracciglio, datosi che la posizione finale americana di sostegno totale a I sotto forma di fondi volontari ed armi alla vittoria israeliana fu una sorpresa per lui.
Sul resto invece si resta sul campo delle illazioni, considerando però che:
1) l’arrivo di armi alla difesa di I dal campo comunista passò solo dai due paesi comunisti ( Romania e soprattutto Cecoslovacchia) con partiti comunisti particolarmente dominati dalla “nota etnia”.
Ora in questo caso si può anche pensare che “il signor S” volesse “nascondere la mano”, ma si può anche pensare che fossero iniziative fatte a sua insaputa datosi che poco dopo entrambi i due partiti suddetti furono pesantemente “purgati”.
2) In ogni caso le armi “comuniste” a I arrivarono all’inizio, non erano tante, ed erano essenzialmente “difensive”. Quelle offensive , carri ed aerei, che permisero poi a I di passare all’attacco occupando gran parte della Palestina araba arrivarono dopo e tutte dal ” campo occidentale”, spesso semplicemente “abbandonate” agli israeliani dagli inglesi nella loro ritirata.
Ora già tutto questo fu di certo una sorpresa per ” il signor S ” , ma peggio fu per lui quando l’ arrivo del primo ambasciatore di I in URSS ( la G. Mair) provocò una ondata di entusiasmo “nazionalista” nella “nota etnia” in URSS.
Per “il Signor S” , che fesso non era , forse questo fu un segnale che “la nota etnia” andava ora guardata come possibile fucina di attività “antisovietiche”?
Se si, certamente S non poteva fare una gran cagnara in merito, ma di certo ci furono discrete “purghe” verso gli esponenti del PCUS più compromessi con questa ondata di “ orgoglio etnico” .
Soprattutto S , che invecchiando era diventato ancor più paranoico, cominciò a sospettare della classe medica sovietica i cui principali esponenti erano guardacaso della “nota etnia”.
Da qui la la sua” caccia” contro il ” conplotto dei medici ” che finì nel momento in cui “il signor S” morì di “morte improvvisa” quando fino al giorno prima ” stava molto bene”.
Conclusione :
Tutto questo è vero ? E chi lo può dire con certezza ? Dove si pensa di trovare il bandolo degli intighi di potere? In wikipedia ? O si può credere che ciò che dice “una commissione” , “ un tribunale” o “un famoso storico” sia certamente “la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità”?
Io qui ho messo in fila un po’ di fatti innegabili per imbastire una storia che io credo molto probabile e che mi fa dire: SI , credo che per “il signor S” QUESTO St di I sia stata “una sorpresa”.
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Il trattato di Santo Stefano del 1878 e gli albanesi
La politica europea dopo il 1871
Dopo la guerra franco-prussiana del 1870-1871, nei decenni successivi la politica europea fu caratterizzata da un periodo di intenso riarmo, che avrebbe portato allo scoppio della prima guerra mondiale nel 1914. Nel frattempo, sia in Europa che nelle sue colonie d’oltremare scoppiarono diverse crisi internazionali che avrebbero potuto portare l’Europa alla Grande Guerra anche prima dell’estate del 1914.
Innanzitutto, il pericolo di una nuova guerra franco-tedesca incombeva sull’Europa perché la Francia perseguiva una politica revanscista nei confronti della Germania unita, e la questione dei territori dell’Alsazia e della Lorena era cruciale in quel contesto. Con queste due province, che nel 1871 appartenevano alla Germania, la Francia aveva perso le sue due aree economiche più sviluppate. La popolazione di entrambe queste zone chiedeva di essere restituita alla Francia, anche se la loro lingua madre era il tedesco, ma manifestava una coscienza nazionale francese.
Il secondo e ancora più pericoloso punto di crisi in Europa era rappresentato dai Balcani, ovvero le province ottomane abitate da popolazioni cristiane che, in molti casi, vivevano mescolate ai musulmani locali. Mentre i cristiani lottavano per la liberazione nazionale e la separazione dall’Impero ottomano, allo stesso tempo i musulmani locali, indipendentemente dall’appartenenza etnolinguistica, lottavano per preservare l’Impero ottomano come loro Stato nazionale. Ciò era particolarmente evidente nel caso dei musulmani in Bosnia-Erzegovina e dei musulmani albanesi in Albania e nei paesi circostanti.
Il declino del potere e dell’autorità ottomani e la lotta dei popoli cristiani balcanici per la liberazione dal secolare dominio turco-musulmano sollevarono la questione del futuro destino dei possedimenti ottomani in Europa, cioè nei Balcani. Tutte le principali potenze europee lottarono per ottenere influenza nei Balcani (compreso il Regno Unito, tradizionalmente preoccupato dei propri possedimenti coloniali d’oltremare), ma con obiettivi diversi, tra cui solo la Russia sosteneva l’idea di formare Stati nazionali dei popoli cristiani nei Balcani al posto dell’Impero Ottomano, che in tal caso avrebbe perso tutti i suoi possedimenti europei.
La prima grande crisi nei Balcani scoppiò nel 1875-1878 con lo scoppio di una grande rivolta cristiana in Erzegovina, che si estese rapidamente alla Bosnia e alla Bulgaria. Dopo l’intervento militare fallito della Serbia nel 1876-1877 contro l’Impero ottomano, che sosteneva gli insorti serbi in Bosnia-Erzegovina, nel 1877 la Russia entrò in guerra a fianco degli insorti balcanici e della Serbia e nel 1878 spezzò la resistenza turca sul Danubio e nella Bulgaria settentrionale, aprendo così la strada verso Istanbul. [1]
La “Bulgaria di Santo Stefano”
Dopo la vittoria militare russa sull’Impero ottomano nella guerra russo-ottomana del 1877-1878, il 3 marzo 1878 fu firmato il trattato di Santo Stefano tra questi due Stati. Secondo il trattato, una Grande Bulgaria di Santo Stefano, sotto la diretta protezione della Russia, doveva essere istituita all’interno dei confini dell’Impero Ottomano (di fatto, come uno Stato nello Stato). Tuttavia, l’idea della “Bulgaria di Santo Stefano” influenzò direttamente tre nazioni balcaniche: serbi, greci e albanesi, poiché alcuni dei loro territori etnici e storici dovevano diventare parte di una Grande Bulgaria sotto la protezione russa.
La “Bulgaria di Santo Stefano” era stata progettata dalle autorità russe per coprire il territorio dal Danubio al Mar Egeo e dall’attuale Albania al Mar Nero, compresa tutta la Macedonia geografica-storica, l’attuale Serbia orientale e l’attuale Albania sud-orientale. Di conseguenza, la nazione albanese che viveva nell’attuale Albania sud-orientale e nella Macedonia occidentale sarebbe entrata a far parte di una Grande Bulgaria governata dalle autorità russe.[2]
È caratteristico sia del Trattato di Santo Stefano del 1878 che del Congresso di Berlino del 1878 il fatto che essi concepivano che parti dei territori balcanici popolati da albanesi fossero cedute agli altri Stati balcanici secondo il principio dei diritti etnici e storici. Tuttavia, ciò non significa che gli albanesi etnici fossero la maggioranza in questi territori, e questo era proprio il motivo per cui sia la Russia che l’Europa li consegnarono ai vicini albanesi. Il restante spazio etnico albanese (l’Albania, in cui gli albanesi etnici costituivano la netta maggioranza della popolazione) sarebbe rimasto entro i confini dell’Impero Ottomano, ma senza alcuno “status speciale”, ovvero diritti autonomi e privilegi etnico-politici.
Lo stesso governo ottomano era troppo debole per proteggere i territori popolati da albanesi, costituiti per oltre l’80% da popolazione musulmana, che mostrava un alto grado di lealtà politica e ideologica nei confronti del Sultano e della Sublime Porta di Istanbul. Ciononostante, le decisioni del Trattato di Santo Stefano del 1878 portarono all’organizzazione di un sistema di autodifesa albanese da parte della leadership politica (musulmana), che considerava uno status autonomo dell’Albania, simile a quello della Serbia, della Moldavia e della Valacchia, come l’unica garanzia per un’amministrazione giustificabile degli albanesi in futuro.
Il Trattato di Santo Stefano del 1878 e la ridefinizione dei confini dei Balcani ottomani
Il Trattato di Santo Stefano assegnò alla Bulgaria slava le seguenti terre popolate dagli albanesi: il distretto di Korçë e l’area di Debar. Secondo lo stesso trattato, al Montenegro furono concessi diversi comuni nell’attuale Albania settentrionale e le zone di Bar e Ulcinj (oggi in Montenegro). Il confine tra l’Albania ottomana e il Montenegro fu fissato sul fiume Bojana e sul lago Scodra (i confini sono rimasti invariati fino ad oggi). Tuttavia, un rappresentante ufficiale del Principato del Montenegro, Radonjić, chiese ad Adrianopoli (Edirne) che la città di Scutari fosse inclusa nel Montenegro allargato.[3]
Tuttavia, ciò che all’epoca era considerato esattamente l’Albania e gli albanesi come identità etnica non era chiaro a nessuno in Europa. Il motivo principale era il fatto che i censimenti ufficiali ottomani erano diventati una fonte piuttosto inaffidabile per risolvere tali problemi, poiché si basavano più sull’identità religiosa che sulla stretta appartenenza etnico-nazionale (cioè etnico-linguistica). In pratica, tutta la popolazione islamica ottomana, che fosse albanese, bosniaca o turca, era classificata in un’unica categoria: i musulmani (come nazione di Allah). Le differenze nazionali/etniche non erano affatto indicate nei censimenti ottomani, poiché veniva presa in considerazione solo l’appartenenza religiosa (sistema confessionale “millet”).
Tuttavia, nonostante la mancanza di statistiche ufficiali, è possibile ricostruire la dispersione dell’etnia albanese in quel periodo utilizzando altre fonti storiche. Una di queste fonti è una relazione alle autorità austro-ungariche sui confini settentrionali della lingua albanese, redatta dal console austro-ungarico F. Lippich a metà del 1877, durante la Grande Crisi Orientale e la guerra russo-ottomana del 1877-1878. Secondo questa relazione, il confine linguistico settentrionale degli albanesi si estende dalla città di Bar, sul litorale adriatico montenegrino, verso il lago di Scutari, poi attraverso due regioni montenegrine, Kolašin e Vasojevićs, quindi verso il fiume Ibar e la città di Novi Pazar nel Sanjak (Raška) fino alla zona del fiume Morava meridionale nell’attuale Serbia. Il confine linguistico albanese era fissato a est e sud-est intorno al lago di Ochrid, alle città di Bitola (Monastir) e Debar e al corso superiore del fiume Vardar.[4] Tuttavia, in molte di queste zone, la lingua albanese era parlata insieme alle lingue slave come sono oggi, il serbo, il montenegrino e il macedone. In secondo luogo, nella maggior parte di queste “zone di confine di lingua albanese”, gli albanesi linguistici non costituivano la maggioranza etnica, come nel caso, ad esempio, della regione storica del Kosovo e della Metochia, dove a quel tempo i serbi etnolinguistici erano ancora in maggioranza aritmetica rispetto alla popolazione.
Tuttavia, è certo che il trattato di Santo Stefano del 1878 provocò il nazionalismo albanese e forgiò il movimento di rinascita nazionale albanese. Il germe del movimento nazionale albanese crebbe dal 1840 fino al periodo della Grande Crisi Orientale del 1875-1878, quando i primi requisiti per l’istituzione di scuole di lingua albanese e la conservazione della lingua nazionale furono richiesti dai funzionari pubblici albanesi dell’Impero Ottomano (Naum Panajot Bredi, Engel Mashi, Josiph Kripsi, John Skiroj, Hieronim de Rada, Vincenzo Dorsa, ecc.).
Tuttavia, la rinascita nazionale albanese ricevette un nuovo impulso durante la crisi balcanica del 1862, al tempo di una nuova guerra tra Montenegro e Impero Ottomano, quando diversi membri del cosiddetto “gruppo di Scutari” (Zef Ljubani, Pashko Vasa e altri) propagarono la rivolta delle tribù dell’Albania settentrionale nella regione di Mirditë contro le pretese territoriali montenegrine sulle aree popolate dagli albanesi. Si opposero anche alle autorità ottomane, poiché potevano contare sul sostegno dell’imperatore francese Napoleone III (1852-1870). In caso di esito positivo della ribellione, nei Balcani sarebbe stato creato il principato indipendente e unito dell’Albania. Esso avrebbe compreso tutti i territori popolati da albanesi nei Balcani, anche quelli in cui gli albanesi linguistici erano una minoranza etnica.
Il principale ideologo albanese dell’epoca era Zef Jubani, nato a Scutari nel 1818, il quale sosteneva che la popolazione albanese fosse già diventata una nazione a quel tempo. [5] Il suo obiettivo politico principale era la creazione di una provincia autonoma e unita dell’Albania all’interno dell’Impero Ottomano. Altri, come Thimi Mitko e Spiro Dineja, erano favorevoli alla separazione dell’Albania dall’Impero Ottomano e alla creazione di uno Stato confederato albanese-greco simile all’Austria-Ungheria (dal 1867). Durante la Grande Crisi Orientale del 1875-1878, la rivolta albanese a Mirditë nel 1876-1877, guidata dai patrioti albanesi di Scutari, aveva come obiettivo politico finale la creazione di un’Albania autonoma all’interno dell’Impero Ottomano. I leader della rivolta visitarono la corte montenegrina per ottenere il sostegno finanziario del principe montenegrino Nikola I (1860-1910; re dal 1910 al 1918). Tale sostegno fu promesso al capo della delegazione albanese, Preng Dochi. È importante sottolineare che il principe montenegrino dichiarò in questa occasione che il Montenegro non aveva alcuna aspirazione territoriale nei confronti dei territori “albanesi”, qualunque cosa ciò significasse in quel momento. Allo stesso tempo, il diplomatico russo a Scutari, Ivan Jastrebov, sottolineò che l’Europa si trovava ad affrontare la “questione albanese”.
Durante la Grande Crisi Orientale, i capi tribù albanesi dell’Albania meridionale e dell’Epiro settentrionale, sotto la presidenza di un importante signore feudale albanese musulmano, Abdul-beg Frashëri, convocarono nel 1877 una riunione nazionale nella città di Jannina (Ioannina) quando chiesero alla Sublime Porta di Istanbul di riconoscere una nazionalità albanese separata e quindi di concedere loro il diritto di formare una provincia autonoma albanese (vilayet) all’interno dell’Impero Ottomano. Chiesero inoltre che tutti i funzionari di tale vilayet albanese fossero di origine etnica albanese (ma solo musulmani), che fossero aperte scuole di lingua albanese e, infine, che fossero creati tribunali di lingua albanese. Il memorandum con tali richieste fu inviato alla Sublime Porta, ma questa suprema istituzione governativa ottomana rifiutò di soddisfare qualsiasi di queste richieste nazionali albanesi.
La reazione albanese al Trattato di Santo Stefano del 1878
La pubblicazione degli articoli del Trattato di Santo Stefano del 1878 causò grande agitazione e insoddisfazione tra il popolo albanese. [6] Da quel momento in poi, il precedente movimento albanese che mirava solo al miglioramento delle condizioni sociali degli albanesi che vivevano nell’Impero Ottomano si trasformò in un movimento nazionale albanese (ma in sostanza era radicato nella tradizione islamica e nel dogmatismo politico) che richiedeva la creazione di una provincia politicamente autonoma dell’Albania all’interno dell’Impero Ottomano o la creazione di uno Stato nazionale albanese indipendente (basato sulla tradizione islamica). [7]
Soprattutto l’Albania nord-orientale e orientale conobbe massicci disordini e proteste contro il trattato di Santo Stefano, rivolte alle grandi potenze europee.[8] Così, nell’aprile 1878, gli albanesi della città di Debar inviarono un telegramma agli ambasciatori britannico e austro-ungarico presso l’Impero Ottomano, Layard e Zichy, rispettivamente, per protestare contro l’annessione della regione di Debar al nuovo principato bulgaro di Santo Stefano. Nel telegramma si sottolineava che gli abitanti di Debar erano albanesi, non bulgari. Inoltre, secondo il memorandum di protesta, il distretto di Debar comprendeva 220.000 musulmani e 10.000 cristiani, tutti presumibilmente di etnia albanese. [9] Infine, si chiedeva alle grandi potenze europee di non consentire alla Bulgaria (cristiana ortodossa) di annettere la regione di Debar, che avrebbe invece dovuto rimanere nell’Impero ottomano (come Stato “nazionale” di tutti i musulmani albanesi). [10]
Analogamente agli albanesi di Debar, i loro compatrioti della città di Scutari e dell’Albania nord-occidentale chiesero alle autorità austro-ungariche di impedire l’inclusione dei territori “albanesi” nel Montenegro (la cui indipendenza era stata riconosciuta dal Congresso di Berlino nel 1878). [11] Gli albanesi di diversi distretti del Kosovo-Metochia (Prizren, Đakovica, Peć) protestarono in un memorandum inviato a Vienna contro la spartizione delle “loro” terre tra Serbia e Montenegro. [12] L’8 maggio 1878, quando “…oggi abbiamo appreso dai giornali che il governo ottomano, incapace di resistere alle pressioni della Russia, è stato costretto ad accettare la nostra annessione da parte dei montenegrini…”. una protesta della popolazione albanese di Scutari, Podgorica, Spuž, Žabljak, Tivat, Ulcinj, Gruda, Kelmend, Hot e Kastrat fu indirizzata all’ambasciatore di Francia a Istanbul contro l’annessione delle terre “albanesi” da parte del Principato del Montenegro. [13]
Il popolo albanese dell’Albania settentrionale e del Kosovo-Metochia, sia musulmano che cattolico, iniziò a organizzare propri distaccamenti di autodifesa (una milizia territoriale) e comitati locali contro l’incorporazione di questi territori nella Serbia o nel Montenegro. Un altro compito di questi numerosi comitati era quello di aiutare i “rifugiati” albanesi provenienti dalle zone già conquistate dai serbi e dai montenegrini, secondo il Trattato di Santo Stefano. [14] Così, ad esempio, il 26 giugno 1878 da Priština fu inviata una protesta di 6.200 emigranti albanesi, presumibilmente “espulsi” dai distretti di Niš, Leskovac, Prokuplje e Kuršumlija, indirizzata al Congresso di Berlino del 1878 contro gli omicidi di massa e gli stupri commessi dall’esercito serbo e dalle unità militari bulgare. [15] Tuttavia, la maggior parte di questi “rifugiati” albanesi lasciò volontariamente questi territori perché, in quanto musulmani, non voleva vivere in uno Stato cristiano, né in Bulgaria né in Serbia, dopo il Trattato di Santo Stefano. Lo stesso accadde dopo il Congresso di Berlino del 1878, con un numero enorme di musulmani della Bosnia-Erzegovina che emigrarono nell’Impero Ottomano ancora prima che l’esercito austro-ungarico raggiungesse le loro case senza alcuna intenzione di espellerli.
In sostanza, tali proteste ufficiali da parte degli albanesi erano più che altro un modo per fare propaganda e non rispecchiavano la realtà sul campo, almeno non nella misura presentata. Il fatto era, come già detto, che la maggior parte dei “rifugiati” albanesi (musulmani) aveva in realtà lasciato volontariamente quelle terre assegnate dal trattato russo-ottomano di Santo Stefano alla Grande Bulgaria (o successivamente alla Serbia dal Congresso di Berlino) perché i musulmani non possono, in linea di principio, vivere sotto un governo non musulmano, cioè il governo degli “infedeli”. Semplicemente, i musulmani non potevano sopravvivere in un paese in cui non detenevano il potere politico e non controllavano l’ordine sociale e la vita.
Il Congresso di Berlino del 1878
La pace russo-turca di Santo Stefano, firmata il 3 marzo 1878, annunciò la nascita di un grande Stato bulgaro sotto il patrocinio e l’influenza della Russia, sebbene formalmente nell’ambito dell’Impero ottomano. In altre parole, questo trattato di pace avrebbe garantito la supremazia della Russia sia nei Balcani orientali che sugli stretti (Bosforo e Dardanelli). Pertanto, al fine di impedire la cruciale influenza russa nei Balcani orientali e negli stretti, le grandi potenze dell’Europa occidentale (su iniziativa formale della Germania di Bismarck) organizzarono il Congresso di Berlino, che durò un mese dal 15 giugno al 15 luglio 1878, e durante il quale cercarono di appianare le loro reciproche controversie e quindi di agire congiuntamente contro la Russia. L’obiettivo principale del Congresso di Berlino era una revisione totale del Trattato di pace di San Stefano a scapito della Russia e al fine di preservare il più possibile i possedimenti dell’Impero ottomano in Europa.
Il risultato principale del Congresso di Berlino fu che la Russia fu costretta a ridurre notevolmente le sue richieste nei Balcani. Così, l’Austria-Ungheria ottenne il diritto di occupare la Bosnia-Erzegovina, la Gran Bretagna ottenne Cipro, mentre la Germania rafforzò la sua influenza nei Balcani e successivamente in tutto l’Impero Ottomano realizzando la sua politica imperiale di penetrazione verso est (Drang nach Osten). La Serbia, la Romania e il Montenegro ottennero l’indipendenza formale e l’espansione territoriale, così come la Grecia, mentre sul territorio del popolo bulgaro si formarono due Bulgarie a scapito del progetto russo di una Grande Bulgaria da Santo Stefano. Per quanto riguarda gli albanesi, essi non ottennero di fatto nulla, nonostante avessero chiesto la tutela dei loro diritti nazionali su determinati territori. Anzi, il leader e ospite del Congresso di Berlino, Otto von Bismarck, affermò che l’Europa non aveva mai sentito parlare del popolo albanese. Il Congresso di Berlino fu l’ultimo grande incontro internazionale a cui parteciparono solo statisti europei.[16] In ogni caso, anche dopo il 1878, i Balcani rimasero al centro della crisi in Europa fino alla prima guerra mondiale.
Dr. Vladislav B. Sotirovic
Ex professore universitario
Ricercatore presso il Centro di studi geostrategici
[1] Mitchel Beazley (ed.), Ilustrovana enciklopedija Istorija, Vol. 2, 1984, 190 (titolo originale: The Joy of Knowledge Encyclopaedia, 1976).
[2]Parliamentary Papers, serie “Accounts and Papers”, Vol. LXXXIII, Turchia, № 22, Londra, 1878, 10.
[3] “Articolo № 1” del Trattato di pace di San Stefano in Documenti parlamentari, serie “Conti e documenti”, Vol. LXXXIII, Turchia, № 22, Londra, 1878, 9−10; Sumner B. H., Russia and the Balkans, 1870−1880, Oxford, 1937, 410−415.
[4]Haus-Hof-und Staatsarchiv, Politisches Archiv, XII/256, Türkei IV, Lippich F., “Denkschrift über Albanien”, Vienna, 20 giugno 1877, 8-9.
[5] Secondo M. Jevtić, gli albanesi non erano ancora una nazione nel senso moderno europeo del termine all’epoca, né lo sono ancora oggi, poiché il quadro principale dell’identità nazionale albanese era ed è principalmente l’Islam, una religione che non riconosce l’esistenza di alcuna identità etnico-linguistica tra i musulmani, considerati un’unica “nazione” (confessionale). [Јевтић М., Албанско питање и религија, Београд: Центар за проучавање религије и верску толеранцију, 2011; Јевtić M., „Исламска суштина албанског сецесионизма и културно наслеђе Срба“, Национални интерест, Vol. 17, No. 2, 2013, 238]. Sulla tradizione islamica e la dottrina politica, cfr. [Itzkowitz N., Ottoman Empire and Islamic Tradition, Chicago−Londra: The University of Chicago Press, 1980].
[6]Archives du Ministère des Affaires Etrangères, Parigi, «Ceccaldi a Waddington, 27 aprile 1878», n. 213, Turchia, Corrispondenza politica dei consoli, Scutari, 1878-1879, Vol. XXI.
[7] Sulla forte divisione confessionale-politica e persino sulle guerre religiose tra gli albanesi più tardi nel 1915, si veda [Pollo S., Puto A., Histoire d’Albania des origines á nos jours, Roanne, 1974, 183−186; Јевтић М., Проблеми политикологије религије, Београд: Центар за проучавање религије и верску толеранцију, 2012, 159−161].
[8] Il concetto accademico di grande potenza è definito come uno Stato «considerato tra i più potenti in un sistema statale gerarchico. I criteri che definiscono una grande potenza sono oggetto di controversia, ma spesso se ne identificano quattro. (1) Le grandi potenze sono al primo posto tra le potenze militari, hanno la capacità di mantenere la propria sicurezza e, potenzialmente, di influenzare altre potenze. (2) Sono Stati economicamente potenti… (3) Hanno sfere di interesse globali e non solo regionali. (4) Adottano una politica estera “progressista” e hanno un impatto reale, e non solo potenziale, sugli affari internazionali” [Heywood A., Global Politics, New York−Londra: Palgrave Macmillan, 2011, 7].
[9] Il numero di abitanti del distretto di Debar è stato drasticamente esagerato. Gli albanesi non erano gli unici abitanti del distretto.
[10]Parliamentary Papers, serie “Accounts and Papers”, “Layard to Salisbury, Therapia, 4 maggio 1878, Vol. LXXXIII, Turchia, № 41, Londra, 1878, 60-61; Archivi del Ministero degli Affari Esteri, Parigi, “Ceccaldi a Waddington, Scutari, 4 maggio 1878”, n. 214, Turchia, Corrispondenza politica dei consoli, Scutari, 1878-1879, vol. XXI.
[11] Novotny A., Österreich, die Türkei und das Balkan-problem im Jahre des Berliner Kongresses, Graz−Colonia, 1957, 246.
[12]Ibid, 37, 247−253; Parliamentary Papers, serie “Accounts and Papers”, 1878, Vol. LXXXI, Turchia, № 45, Londra, 1878, 35−36.
[13]Archives du Ministère des Affaires Etrangères, Parigi, Ambasciata francese presso la Sublime Porta, Turchia, Vol. 417, 51−54, Supplemento alla Relazione № 96 (originale in francese); Pollo S., Pulaha S., (a cura di), Pagine della rinascita nazionale albanese, 1878-1912, Tirana, 1978, 12-13.
[14]Documenti parlamentari, serie “Conti e documenti”, “Green a Salisbury, 3 maggio 1878”, Vol. LXXXIII, Turchia, n. 40, Londra, 1878, 60; Archives du Ministère des Affaires Etrangères, Parigi, “Ceccaldi a Waddington, Scutari, 4 maggio 1878”, n. 214, Turchia, Correspondance politique des consuls, Scutari, 1878-1879, Vol. XXI; Ibid, copia del telegramma firmato dal principe montenegrino Nikola I Petrović-Njegoš, Cetinje, 5 giugno 1878, come allegato n. 1 a Dèpêche, 9 giugno 1878, n. 218.
[15]Politisches Archiv des Auswartigen Amtes, Bonn, Turchia 129, Vol. 2, Gli atti del Congresso di Berlino, 2, 1878, documento n. 110 (telegramma); Pollo S, Pulaha S., (a cura di), La Lega albanese di Prizren, 1878-1881. Documents, Vol. I, Tirana, 1878, 73−74.
[16] Mitchel Beazley (ed.), Ilustrovana enciklopedija Istorija, Vol. 2, 1984, 190 (titolo originale: The Joy of Knowledge Encyclopaedia, 1976).
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Capita spesso di leggere sulla stampa e ascoltare in televisione che i risultati delle elezioni regionali stiano indebolendo la segreteria del PD. Questo perché la ormai (quasi) triennale permanenza della Schlein non ha portato alcun significativo cambiamento nel consenso dei governati: il PD mantiene le posizioni, e la coalizione di governo anche: continuando, con tale andazzo, alle elezioni politiche prossime (salvo lo scioglimento del Parlamento) nel 2027 il risultato sarà lo stesso delle ultime: maggioranza (confermata) al centrodestra. Secondo molti commentatori la prospettiva induce molti maggiorenti del PD a sostituire la (deludente) segretaria.
Non sono convinto che tale ragionamento sia corretto, e per due ragioni. La prima è che la difficoltà principale della Schlein e del PD non sono quelle che la stessa sbandiera a ogni piè sospinto, spesso smentite poco tempo dopo averle esternate.
In primis l’inadeguatezza del governo Meloni a gestire la situazione economica, l’imminente default (o simili) lo spread in agguato, ecc. ecc. Il fatto che da tre anni non sia successo nulla del profetizzato, anzi qualche giorno fa, si legge, l’Italia è tornata ad affacciarsi nella categoria “A” dei paesi debitori, per un governo dipinto come votato alla bancarotta, un risultato sorprendente. E assai migliore di quelli appoggiati dal PD, tanto osannati. E così per il resto: dalla tregua per Gaza dovuta all’amico Trump, della cui corte la Meloni farebbe parte (meglio, anche qua, un armistizio che un massacro ormai biennale); all’andamento dei flussi migratori (calati con i relativi naufragi e spese). Quasi in ogni campo risultati superiori a quanto realizzato dai precedenti governi appoggiati dal PD. Il fatto che il governo Meloni non sia come sostiene il PD, animato da buone intenzioni, non fa che confermare il vecchio detto che le vie dell’inferno (dei governati) è lastricata dalle buone intenzioni (dei governanti). Per cui a scegliere i malintenzionati spesso ci si indovina.
Ma non è questa la sola ragione delle difficoltà del P.D, e dei suoi segretari, così come dei loro omologhi di sinistra (???) negli altri Stati europei. I sistemi politici-partitici europei erano ordinati lungo l’asse destra/sinistra, a sua volta fondato sull’opposizione borghesia/proletariato. Ora largamente soppiantata da quella globalizzazione/sovranismo. Partiti come il PD, fondati sull’inimicizia calante, si trovano in crescenti difficoltà, dovendo nuotare contro corrente (della storia).
Pretendere che ne invertano il corso è chiedere il (quasi) impossibile. Tant’è che non c’è riuscito nessuno dei segretari frequentemente sostituiti negli ultimi (quasi) venti anni. Compresi i reggenti, siamo a 9, mentre il partito comunista dal 1943 al 1991 ne aveva cambiati 6 (durata media 8 anni). Si vede che il contesto era tutt’altro, a beneficio della durata delle leadership.
E di tutto ciò si pensa siano consapevoli i dirigenti del P.D. Onde far carico alla Schlein di non essere riuscita a fare quel che nessuno dei suoi predecessori aveva conseguito è profondamente errato. Nessuno di questi – a parte Renzi – in un’occasione aveva tirato il PD al di sopra del limite (superiore) del 30% dei votanti. Anche se nel 2008 la coalizione di centrosinistra riporti il 37,5% dei voti era per l’appunto una coalizione di più partiti di cui il PD era magna pars, ma non tutto. Nelle elezioni politiche del 2019 il PD conseguiva il 22,8% dei suffragi; nel 2022 il 19,07%.
I predecessori della Schlein non facevano quindi di meglio; anzi a sostegno della stessa, si può dire che i modesti risultati del PD governante non le sono ascrivibili, perché nei governi amici del PD non c’era lei, ma altri, compresi quelli pronti a silurarla.
Perciò se di sicuro la giovane segretaria non è un Bismarck o un Cavour, ma anche se ne avesse le capacità, non ha la fortuna di tali grandi statisti: di essere spinti dall’onda lunga della storia. Con cui sarebbe più produttivo fare i conti.
Non rivela ad esempio l’essenza politica che alimentò la lotta di Stalin per emergere e poi emarginare, fino a sostanzialmente liquidare, la setta mondialista che dominava il partito bolscevico di modo che egli, da “rivoluzionario” non ” di rango”, sostanzialmente era solo un “operativo”, si fece Zar dell’impero di cui i bolscevichi si erano impadroniti.
In questa sua “trasformazione” operò certamente la sua ambizione personale ma anche quelle “leggi ferree della geopolitica” che fanno sì che una “civiltà” viva trovi sempre una sua “guida”.
L’altra cosa che non viene detta è che da “zar” del nuovo Impero russo di nome URSS Stalin capì subito la verità di sempre : “la Russia ha solo due amici….”; il suo “comunismo in un solo paese” era una forma tattica di questa constatazione.
Certo i congressi del PCUS parlavano di “rivoluzione comunista” da esportare in tutto il mondo, ma per Stalin la cosa da evitare era che “tutto il mondo” ritenesse l’URSS una vera minaccia a “l’ ordine costituito”.
L’ ulteriore cosa omessa è che Stalin capì subito che la crisi del ’29 portava di nuovo la guerra e che l’ascesa del Nazismo l’avrebbe condotta nella forma di una guerra Germania-URSS.
Dal che l’industrializzazione forzata imposta all’URSS in maniera brutale era quindi una esigenza strategica.
Un processo largamente doloroso e inefficiente, a parte lo sforzo in ambito militare, proprio perché il riarmo era l’obbiettivo primario di un sistema, quello comunista, sicuramente disfunzionale , come poi tutti hanno visto.
Ma dal punto di vista dell’ efficacia geopolitica lo sforzo sicuramente poi funzionò come appunto a posteriori tutti hanno visto.
In più, io non ho letto il libro di McMeekin, ma da questa intervista ritengo che vi sia omessa anche parte dell’impianto della partita geopolitica che Stalin dovette giocare affinché l ‘URSS non subisse l’aggressione unita dell’intero mondo capitalista “andato a destra” dopo la crisi del ’29.
In ogni caso quella partita la riporto qui per come io l’ho ricostruita dalle mie letture.
Incominciamo subito dal fatto che Stalin fu sempre prodigo nell’offrire buoni affari al capitalismo americano affinché esso avesse buoni interessi nella sopravvivenza dell’URSS, nonostante la dichiarata volontà dei vari fascismi a contrastarlo dappresso ( patto anticomintern ).
E quella ben pagata collaborazione fu fondamentale per l’industrializzazione dell’URSS.
Di converso Stalin operò poi da subito all’interno delle relazioni europee per contenere l’inevitabile revanchismo tedesco sorto con il nazismo, ma senza mai trovarvi sponda. Tutti volevano a parole contenere la revanche tedesca ma tutti erano tanto “ russofobi”, anzi “anticomunisti” come dicevano allora, da odiare più la Russia comunista che la Germania nazista.
Stalin da questo ne ricavò solo due certezze: la guerra ci sarebbe stata e sarebbe stata comunque contro l’ URSS . Si trattava solo di capire il come e il quando.
La cosa che ovviamente più temeva Stalin era una “europa unita” in guerra con l’ URSS con il placet inglese; l’esito del “patto di Monaco” confermava questo incubo.
Ma qualcosa nella primavera del ‘39 cambiò: la Gran Bretagna rifiutò l’appeasement tedesco. Perché ?
Io azzardo l’ipotesi di un “Germany first” voluto dal “ Grande kapitale Anglosassone” e porto a conferma il fatto ormai accertato che Churchill , “il mastino” che prese la direzione di questa politica, precedentemente lui era stato un feroce antibolscevico, la prese dopo essere stato salvato dal fallimento dal “generoso aiuto” di un banchiere, ebreo per altro.
C’erano insomma per il “Grande Capitale anglosassone “ motivi per fare la guerra alla Germania prima che questa si decidesse a farla all’URSS .
Ma in contemporanea in quell’estate il Giappone invase la Mongolia impegnando duramente l’ Armata Rossa. Come quindi credere che l’improvviso indurimento inglese non fosse una sceneggiata ? Stalin quindi per prudenza si mantenne sulla difensiva nell’affare mongolo.
Chi invece si dimostrò poco prudente fu Hitler, il quale non resse le provocazioni polacche aizzate dagli inglesi; per risolvere alla svelta la questione , alla faccia di quanto aveva scritto e detto prima , cercò la guerra , ma cautelandosi con un patto di non aggressione con L’ URSS.
L’ abile Stalin ovviamente accettò; aveva trovato il modo di allontanare la minaccia tanto temuta. Ed infatti subito, dopo tanto traccheggio, Zukov ne approfittò impegnando a piena forza la sua “guardia siberiana” e sbaragliò i giapponesi in due settimane.
Quella disfatta lampo in Manciuria non ebbe allora eco nel mondo , coperta dal ben più forte rumore della guerra in Europa, ma fu determinante a minare la fiducia nipponica nella propria armata in Manciuria; due anni più tardi, infatti, il Giappone si vide costretto alla guerra , scelse la strada del mare piuttosto che quella della Siberia.
Comunque Stalin non si illudeva che presto o tardi l’ URSS avrebbe dovuto combattere con una Germania che avesse trovato dal campo di battaglia il tanto desiderato, da Hitler, “appeasement” con l’ impero inglese. Ma per quell’ evento ora aveva migliorato la sua posizione strategica su tutto il futuro fronte , dalla Finlandia alla Romania.
Ora il problema era tutto di Hitler che non riuscendo a chiudere la guerra con la GB si trovava in una “disperazione strategica” perché vedeva che nel tempo il rapporto delle forze sarebbe cresciuto a vantaggio dell’URSS.
E così l’ imprudente scelse la via dell’attacco all’ URSS SENZA aver fatto pace con gli inglesi, facendo quindi per motivi strategici quello che aveva sempre dichiarato di voler fare per convinzione ideologica: cioè la cosa per cui era stato sollevato dalle sale delle birrerie a quelle del Reichstag; in questo sorprendendo uno Stalin che non si aspettava una mossa tanto irrazionale.
Il problema di Stalin in quell’ estate fu infatti capire se gli inglesi non lo avessero buggerato e solo la certezza che gli USA sarebbero comunque presto entrati in guerra tramite il Giappone lo convinse a sguarnire la Siberia lanciando la “guardia siberiana” nella battaglia di Mosca.
Il resto è storia certa che però lascia non chiarite alcune domande alle quali provo a dare le mie risposte
La prima è ovvia ed è stata già dibattuta a lungo
1) Datosi lo schieramento avanzato in cui fu sorpresa l’Armata Rossa , Stalin stava preparando un attacco alla Germania per l’ autunno del ‘41 ?
Ris: Si , ma non programmaticamente per l autunno del ‘41 perché non aveva certezza della reale posizione inglese. Lui avrebbe sfruttato fino in fondo il fattore tempo a suo vantaggio per attaccare al primo sintomo di un appeasement anglo-tedesco
La seconda è meno ovvia, ma è un dato di fatto visto a Yalta dove al “bulldog” inglese fu messa la museruola.
2) Cosa spingeva Stalin a fidarsi degli USA laddove sapeva di non potersi fidare degli inglesi ?
RIS : la certezza che il vero scopo strategico dell’intervento americano in guerra era appropriarsi della posizione di dominio che l’ Europa aveva sul mondo, il che avrebbe lasciato ampi margini all’URSS in Europa in una “divisione del mondo” che ovviamente e SUCCESSIVAMENTE nessuno dei due avrebbe rispettato.
La terza quindi è inevitabile e la risposta consequenziale per quanto sorprendente
3) Da dove passavano gli oscuri contatti non ufficiali tra Stalin e e la cabala di Roosevelt ?
RIS: Passavano dal Walford Astoria per il tramite dei grandi “uomini d’ affari” che avevano da sempre interessi in URSS e contatti diretti con alti esponenti del PCUS della stessa “etnia”.
La quarta è anchessa quindi inevitabile e la risposta innominabile
4) quale era l’ interesse comune in questo di entrambi i gruppi ufficialmente “ contrapposti” tra ”capitalisti “ e “comunisti”?
RIS :ST di IS
Cioè quella cosa per cui Stalin si sentì poi buggerato davvero e a cui provò a reagire; ma era ormai troppo tardi.
Conclusione: Stalin fu uno zar che ha fallito , ma che si difese molto bene. LORO hanno duvuto poi aspettare altri quaranta anni dopo di lui per trovare uno zar “coglione”.
E se oggi la Russia è ancora sulla breccia molto si deve all’opera sua.
Per questo LORO ancora lo odiano.
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Tajani, Quindi Roosevelt ed Eisenhower Erano “Sovietici”?
In un dibattito che ha infiammato il panorama politico-economico italiano, Antonio Tajani, figura di spicco di Forza Italia, ha liquidato con decisione la proposta di tassare le banche, bollandola come un’idea degna dell’Unione Sovietica. Questa etichetta, che richiama un passato di controllo statale estremo, sembra voler difendere a tutti i costi i grandi profitti del settore finanziario, lasciandoli Invariati . Ma per i cittadini comuni – i risparmiatori che faticano a mettere da parte qualcosa per il futuro – e per chi, come noi, osserva con attenzione le dinamiche geopolitiche globali, questa posizione appare come un’occasione mancata.
Viviamo in un mondo dove l’inflazione, ovvero l’aumento continuo dei prezzi che erode il valore del denaro, è strettamente legata a extraprofitti aziendali che oscillano tra il 18% e il 25%. In questo scenario, i guadagni smisurati delle banche finiscono per colpire duramente pensioni, conti correnti personali e quella stabilità economica che dovrebbe essere il pilastro di una società moderna e giusta.
L’ironia di questa situazione salta agli occhi se guardiamo al passato. Prima dell’accordo di Bretton Woods – un sistema internazionale nato nel 1944 per regolare il commercio e la finanza globale, legando le valute al dollaro americano e il dollaro all’oro per garantire stabilità – gli Stati Uniti, simbolo del capitalismo mondiale, imponevano tasse molto elevate sui redditi dei più ricchi.
Non lo facevano per inseguire ideologie estremiste, ma per finanziare una crescita economica senza precedenti e per rafforzare le difese nazionali, creando quello che è stato chiamato il “secolo americano”. Leader come Theodore Roosevelt, Franklin D. Roosevelt e Dwight D.
Eisenhower lo avevano capito: vedevano le tasse alte non come una punizione contro chi aveva successo, ma come uno scudo per proteggere la società da squilibri pericolosi, che oggi alimentano crisi globali sempre più gravi.
No, signor Tajani, questi presidenti non erano comunisti. Erano piuttosto architetti di un capitalismo equilibrato, in cui la ricchezza andava di pari passo con la responsabilità, per tutelare i risparmi delle persone comuni e il potere nazionale complessivo.
Questo principio è cruciale oggi, in un mondo dove le banche centrali – come la Federal Reserve negli Stati Uniti o la Banca Centrale Europea – sembrano spesso collaborare con il sistema finanziario per sostenere una moneta fiat. Con “moneta fiat” intendiamo una valuta che non è garantita da beni fisici come l’oro o l’argento, ma solo dalla fiducia nel governo che la emette.
Questo sistema può portare a un debasement monetario, ovvero una perdita graduale del valore del denaro, perché i governi o le banche centrali stampano più moneta per coprire debiti o stimolare l’economia. Quando ciò accade, il potere d’acquisto delle persone si riduce, mentre i prezzi di beni rifugio come l’oro schizzano alle stelle. Non è un caso che il prezzo di un’oncia d’oro abbia superato i 4.200 dollari: è un segnale lampante che il valore delle monete tradizionali sta crollando.
Eppure, in questo contesto, assistiamo a mosse che sembrano quasi un tradimento della fiducia pubblica. Prendiamo il caso di BlackRock, una delle più grandi società di gestione patrimoniale al mondo. Recentemente, hanno gestito outflows – cioè vendite massive di asset che riducono il valore degli investimenti – per circa 300 Bitcoin, in un momento di calo dei prezzi delle criptovalute, seguito a minacce di nuove tariffe doganali annunciate da Trump.
Queste operazioni hanno sollevato sospetti che alcuni hanno “ esagerando “ tacciato come pratiche al limite dell’insider trading, ovvero guadagni basati su informazioni riservate , rumors interni tra addetti ai lavori , rigorosamente non accessibili al pubblico, amplificando accuse di profitti ottenuti sfruttando variaziazioni , volatilità , financo a crolli improvvisi del mercato.
Nel frattempo, l’embrione del fondo sovrano di Trump cerca un precedente istituzionalizzato che nonostante l’inflazione proprio a questi extraprofitti aziendali.
Tutto ciò appare come un affronto aperto, specialmente se consideriamo i recenti riposizionamenti dell’Arabia Saudita, che con accordi da trilioni di dollari sta spostando i suoi investimenti dal petrolio verso settori come la tecnologia e le criptovalute.
Le “tre sorelle” – BlackRock, Vanguard e State Street, colossi della gestione patrimoniale che controllano enormi fette di mercato – stanno pompando liquidità in modi che sembrano incoerenti, quasi come una strategia per proteggersi da un’imminente instabilità.
Noi, che osserviamo con attenzione questi movimenti, percepiamo un rischio: tutto questo potrebbe essere il preludio a un crollo sistemico, una crisi che coinvolge l’intero sistema finanziario globale. La nostra inchiesta predittiva, basata su analisi di interruzioni e anomalie nei mercati, ha visto l’indice di confidenza – una misura che indica quanto siano probabili le nostre previsioni – passare da 0.90 a 1.30 in direzione negativa.
Questo lavoro, è un analisi geoeconomica olistica, che integra prospettive economiche, politiche ampliate tecnologiche. Utilizziamo strumenti moderni come gli esploratori di blockchain – software che permettono di tracciare transazioni pubbliche sulle reti di criptovalute, come quelle di Bitcoin – e l’intelligenza artificiale per identificare pattern ricorrenti nei dati.
È un’analisi che si allinea perfettamente alla realtà accelerata in cui viviamo, dove, ad esempio, le uscite di BlackRock da 1 miliardo di dollari in Bitcoin il 14 ottobre 2025 hanno mantenuto il prezzo della criptovaluta sopra i 100.000 dollari, nonostante un crollo legato a minacce tariffarie. Questo conferma i nostri modelli predittivi, aiutandoci a colmare il divario tra ciò che vediamo e ciò che sta per accadere, prima che il tempo a disposizione finisca.
I Roosevelt, Tasse Progressive e Predizioni sul Potere Economico-Militare: Sovrapposizione con la Realtà Accelerata
Theodore Roosevelt, conosciuto come il “trust-buster” per la sua lotta contro i monopoli aziendali, affrontò i cosiddetti “robber barons” – quelli senza scrupoli che dominavano l’economia americana durante la Gilded Age, un periodo di grande ricchezza ma anche di profonde disuguaglianze . Questi colossi rischiavano di soffocare la democrazia con il loro potere economico. Roosevelt sosteneva una tassa progressiva sulle grandi fortune, cioè un sistema in cui chi guadagna di più paga una percentuale maggiore di tasse, per garantire che il successo economico fosse condiviso equamente.
Diceva che “nessuna nazione può permettersi lo spreco delle sue risorse umane”, sottolineando che ignorare le disuguaglianze indebolisce la società nel suo complesso. Questa visione si sovrappone perfettamente alla nostra realtà accelerata, fatta di speculazioni sulle criptovalute e svalutazione della moneta fiat. La nostra inchiesta utilizza dati raccolti dopo i discorsi di Trump per spingere l’indice di confidenza a 1.30 in direzione ribassista, rivelandosi un capolavoro di geoeconomia olistica. Questo lavoro valida schemi storici – pattern che si ripetono nel tempo – con dati on-chain, ovvero informazioni registrate sulla blockchain, la tecnologia dietro le criptovalute che garantisce trasparenza e immutabilità delle transazioni, per decifrare movimenti di liquidità che non tornano.
Le predizioni di Roosevelt, come l’idea che “le corporazioni giganti creano un’aristocrazia irresponsabile” o che “dietro una grande fortuna c’è spesso un grande crimine”, riecheggiano il lobbismo militare – le pressioni delle industrie belliche sui governi per ottenere contratti miliardari – che erode i risparmi delle famiglie. Queste idee si allineano alle recenti uscite di BlackRock e ai riposizionamenti strategici dell’Arabia Saudita, creando un distanziamento esponenziale, un divario che cresce rapidamente e che dobbiamo colmare con urgenza per non perdere il controllo della situazione.
Franklin D. Roosevelt, l’architetto del New Deal – un insieme di riforme economiche e sociali lanciate negli anni ’30 per risollevare gli Stati Uniti dalla Grande Depressione – portò le tasse sui redditi più alti fino al 94%. Sosteneva che “le tasse sono debiti che paghiamo per far parte di una società organizzata” e che “nessuno dovrebbe arricchirsi sfruttando la difesa nazionale”. In un’epoca di crisi e guerra, queste misure salvarono il capitalismo da se stesso.
La sua visione si sovrappone alla nostra inchiesta, dove i pattern di interruzioni e anomalie, amplificati da dati raccolti dopo i discorsi di Trump, dimostrano che la realtà accelerata in cui viviamo è prevedibile grazie a tecnologie moderne. È un capolavoro geoeconomico progettato per evitare che l’umanità si estingua in mezzo a queste turbolenze.
Le sue parole – come “l’accumulo di potere economico mette in pericolo la democrazia” o il lobbismo bellico “affama le risorse umane” – trovano eco nelle uscite di BlackRock e nei riposizionamenti sauditi, un distanziamento esponenziale che dobbiamo colmare per agire in tempo.
Eisenhower, Tasse GOP e Allarmi sul Complesso Militare: Risparmiatori Avvisati
Forse Salvati
Dwight D. Eisenhower, generale e presidente repubblicano che guidò gli Stati Uniti durante la Guerra Fredda, univa una visione olistica che intrecciava difesa nazionale ed economia. Mantenne tasse alte, fino al 91% sui redditi elevati, sostenendo che “una nazione non può permettersi lo spreco delle sue risorse umane” e che “le tasse sono legami essenziali per una difesa forte senza indebolire l’economia”. Questo approccio si sovrappone alla nostra inchiesta predittiva sulle interruzioni sistemiche, un capolavoro di geoeconomia applicata a tecnologie moderne che valida schemi storici come una forma di protezione contro l’instabilità futura.
Eisenhower è famoso per aver avvertito del pericolo del “complesso militare-industriale”, un’alleanza tra forze armate, industrie belliche e governo che potrebbe esercitare un’influenza eccessiva e non giustificata sulle decisioni nazionali.
Disse anche di “non rischiare improvvisazioni nella difesa nazionale”, un monito che risuona ancora oggi. Ministro Tajani, questi leader non erano comunisti, ma statisti di spessore (ormai estinti ) con tanta autevolezza e coraggio da opporsi al lobbismo che divora trilioni di dollari, erodendo i risparmi delle famiglie e la sovranità nazionale.
Questo avvertimento si allinea perfettamente alle uscite di BlackRock e ai riposizionamenti strategici di Riad, l’Arabia Saudita, dove la nostra inchiesta approfondisce un mix sovrapposto alla realtà accelerata.
Per i risparmiatori che seguono la geopolitica, tassare le banche non è un’eresia sovietica, ma l’eco di un capitalismo equilibrato che protegge una ricchezza condivisa. Viva i ricchi, ma con la responsabilità di contrastare gli squilibri globali – un concetto che la nostra analisi, un capolavoro olistico applicato a strumenti tecnologici nuovi, sovrappone alla realtà accelerata per non estinguerci in questo distanziamento esponenziale.
Le mosse di BlackRock, come le uscite di Bitcoin da 1 miliardo di dollari il 14 ottobre 2025, segnalano che il tempo per agire sta per scadere.
Cesare Semovigo – italiaeilmondo.com
Note:
1. Theodore Roosevelt, “Seventh Annual Message to Congress,” 3 December 1907: “A heavy progressive tax upon a very large fortune is in no way such a tax upon thrift or industry as a like tax upon a small fortune.” (Fonte: Miller Center, University of Virginia).
2. Theodore Roosevelt, speech on corporations: “The great corporations which we have grown to speak of rather loosely as trusts are the creatures of the State, and the State not only has the right to control them, but it is duty bound to control them wherever the need of such control is shown.” (Fonte: Goodreads, da “An Autobiography”).
3. Franklin D. Roosevelt, “Message to Congress on Curbing Monopolies,” 29 April 1938: “The accumulation of economic power in few hands is the danger of democracy.” (Fonte: American Presidency Project).
4. Franklin D. Roosevelt, “Address at Worcester, Mass.,” 21 October 1936: “Taxes, after all, are the dues that we pay for the privileges of membership in an organized society.” (Fonte: American Presidency Project).
5. Dwight D. Eisenhower, “Farewell Address,” 17 January 1961: “In the councils of government, we must guard against the acquisition of unwarranted influence, whether sought or unsought, by the military-industrial complex.” (Fonte: National Archives).
6. Dwight D. Eisenhower, “The President’s News Conference,” 8 April 1959: “Reduction of taxes is a very necessary objective of government—that if our form of economy is to endure, we must not forget private initiative.” (Fonte: American Presidency Project).
Non solo perché è raro che i francesi non denigrino qualcosa di italiano , ma anche perché è scritto bene seppure teso a rinforzare il punto di vista dell’autore.
Soprattutto è interessante che nel tracollo della civiltà occidentale si riscopra Machiavelli.
Quindi val la pena evidenziare la complessità di quel suo pensiero che lo rende ancora un maestro della politica , ma anche evidenziarne le peculiarità di uomo del suo tempo e di ciò che di quel pensiero politico allora ne impedì l’applicazione pratica.
Premetto per i pochi interessati che questo commento sarà un po’ più lungo del solito e poco attinente alla geopolitica corrente.
Diciamo subito che la distanza tra teoria e pratica in politica non è una quisquilia perché dipende da una miriade di fattori spesso anche casuali. In politica , per il successo personale la semplice teoria non basta, come dimostrò il più pratico Guicciardini.
Tra il Machiavelli e il Guicciardini il pensiero politico non era molto dissimile, anzi pare che i due furono anche amici; ma il Guicciardini servendo sempre e soltanto “i Grandi” ebbe un enorme successo personale; il Machiavelli, al contrario, servendo solo le sue idee rimase sostanzialmente un “fallito”.
La differenza è che seppur oggi gli aristocratici discendenti del Guicciardini vendono un ottimo vino, nessuno rilegge il Guicciardini mentre si rilegge Machiavelli e non ci sono suoi discendenti che vendono vino con il suo nome.
E io sono sicuro che Machiavelli sarebbe contento così.
Perché innanzitutto diamo giustizia al Machiavelli? In lui non c’era altra motivazione personale che quella degli “eroi”: la gloria conseguita con merito.
E c’era anche una grande tensione morale. Lui non era quel cinico che Federico il grande cercò poi di rivelarsi; lui sì, un cinico “politico di successo”.
Machiavelli invece semplicemente descriveva i meccanismi del potere come essi sono sempre stati e sempre saranno all’ interno dello “Stato” inteso come organizzazione di ogni società umana.
Machiavelli non era nemmeno un antireligioso, ma uno che prende atto che la Religione non basta a moderare il male nella vita umana e che in questo essa deve essere supplita dall’etica di uno Stato dotato della forza necessaria ad imporla ad uomini intrinsecamente cattivi.
E non è quindi un caso che questa conclusione sia stata apprezzata da tanti pensatori marxisti. La differenza, però, è che Machiavelli non si illude che l’ indole umana sia modificabile da uno Stato che si proclama “ etico”, perché sa bene che anche dietro quello Stato ci sarebbero in posizione di potere uomini intrinsecamente cattivi sempre pronti a diventare così dei “Grandi” a spese altrui.
Per Machiavelli quindi l’ unica forma di Stato utile è quella “repubblicana” nella quale un gruppo di uomini liberi gestiscono la “cosa pubblica” con la prima e principale attenzione a che nessun uomo di “virtù” ( “virtù” machiavellica appunto ) possa coartare gli interessi di tutti gli altri , così che a questi uomini, potenzialmente “Grandi”, resti solo il servizio dello Stato come unico campo dove esprimere la propria “virtù”.
Una posizione di potere che però non è una sinecura; la repubblica punisce severamente i dirigenti fedifraghi , incapaci ed inetti ). Né è trasmissibile a membri della propria “familia”, nel senso romano, se non attraverso un nome reso grande da grandi cose fatte ad esclusivo vantaggio della Repubblica.
Ed in questo, sì, la “repubblica” di Machiavelli è la “repubblica romana” descritta nei libri di Tito Livio, cosa che non era certo la “repubblica fiorentina” che Machiavelli servì con impegno venendo poi sempre “sorpassato” da incapaci membri di consorterie , per poi essere alla fine pure punito dai Medici, tornati momentaneamente “signori” a Firenze.
Recuperata comunque la fiducia di costoro, tornando quindi a servire lo Stato fiorentino, ne fu poi espulso alla seconda cacciata dei Medici come “pallesco” .
Machiavelli allora opportunista e banderuola come milioni di “ordinari” italiani ? No, solo la coerente ambizione a servire il SUO “ Stato” sapendo di poter svolgervi un grande servizio, sempre comunque malpagato per altro.
Ma è proprio nella sua attività di uomo di Stato e di pianificatore militare che si evidenziano i limiti di Machiavelli, grande analista e teorico politico, a disbrigarsi nella gestione pratica della politica.
Sia chiaro, niente di male in questo; piuttosto l’ evidenza che teoria e pratica in politica sono cose estremamente diverse perché “la politica è l’ arte del possibile”. In politica si può definire una teoria , ma nella pratica si deve operare solo nel campo del possibile
Perché, oltre che una grande tensione morale, Machiavelli aveva anche una coscienza “nazionale” che però non andava molto oltre la sua Firenze. Se infatti Machiavelli vedeva il disastro che si stava appressando su una Italia divisa ed imbelle, di fatto si preoccupava soprattutto dello “Stato” che conosceva. Se certamente capiva il limite di una Italia che non aveva mai superato la dimensione degli “ Stati regionali”, non sognava certo “l’ Italia “ di Dante.
Machiavelli studiava i meccanismi della politica e poteva anche simpatizzare per il “Valentino” che si stava costruendo un suo stato personale a spese di tanti “signorotti” e in prospettiva anche di Firenze; ma serviva solo lo Stato fiorentino.
Il quale era allora giustappunto l’ unica “repubblica” italiana di un peso “passabile” sebbene il cui “populus” e il suo “senatus” erano però con caratteristiche ben diverse dal modello romano. E soprattutto era diverso il tipo di guerra combattuta nel 1500 da quella di 1800 anni prima. Fallì così ovviamente il Machiavelli nella sua costruzione pratica della milizia fiorentina.
E qui si apre un interessante capitolo sulla interazione intervenuta tra lui e Giovanni delle Bande Nere .
Narrano infatti le cronache che, essendo venuto a passare in Firenze Giovanni con le sue “bande” e avendo il Medici e il Machiavelli discusso di tattica militare e di ordini di battaglia, Giovanni dimostrò al Campo di Marte come le sue “bande” superassero agilmente le milizie fiorentine schierate “alla romana” e come invece quest’ultime , scegliendovi un gruppo più piccolo meglio selezionato e molto più mobile si comportassero molto meglio quando gestite dallo stesso Giovanni.
Perché in politica anche la migliore teoria si scontra sempre con la realtà e i cittadini fiorentini del 1500 non potevano essere organizzati in una “formazione quadrata” come ancora potevano esserlo i montanari svizzeri e , seppur in misura minore, anche i contadini spagnoli.
Quella lezione, poco dopo, Giovanni la stava appunto impartendo ai lanzichecchi che calavano in Italia se non vi fosse morto per il tradimento dei principotti padani.
La grandezza così inespressa di Giovanni che forse, se non fosse morto così giovane, avrebbe fatto un’ ALTRA Italia, fu dimostrata dalle sue “bande”, che seppur “ decapitate” continuarono la loro guerra di decimazione della soldataglia imperiale finché lo stesso papa Medici gli ordinò il “ disbando” dopo la sua resa a Carlo V.
E in quelle “bande nere” si era distinto anche quel Ferrucci che fu chiamato dalla seconda repubblica fiorentina a difendere Firenze dall’ attacco degli imperiali cosa che fece egregiamente finché non cadde, per il solito tradimento, nell’ imboscata di Gavinana.
Quale è quindi la lezione che portava Giovanni ?
Che gli italiani non sono un “popolo”. Noi siamo una variegata accozzaglia di “miseria e nobiltà”, ragion per cui non siamo nemmeno un “gregge”.
Si, ci sono tantissime “ pecore” e tantissimi aspiranti “cani pastore”, ma ci sarebbero anche tanti “lupi” che però non possono essere schierati sparsi in mezzo a “ pecore e traditori “.
Ma se fosse stato possibile schierare tutti insieme un numero sufficiente di “lupi” , forse avremmo potuto costruire 500 anni fa uno stato , “etico” nel senso del Machiavelli , per cui oggi potremmo anche essere quei “romani“ che lui sognava.
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Chi ha visto il film “wag the dog” capisce subito di quale relazione geopolitica parlerò qui
Ora questo intervento di Morigi è stimolante per parlarne , anzi meriterebbe pure una critica articolata anche su altri spunti qui contenuti.
Innanzitutto però mi si perdoni una critica formale, perché questo pur eccellente contributo è poco leggibile sia per la sua grafia ( il neretto) che per la sua stesura senza stacchi e per l’ affastellamento di tanti interessanti spunti i quali tutti meriterebbero una trattazione più estesa.
Ragion per cui, premettendo che forse potrei aver frainteso quanto in esso volesse essere scritto dall’autore, di questi spunti ne commento brevemente solo quello che mi pare dovrebbe rappresentare l’essenza di questo articolo, laddove cioè solleva la relazione U$A -Israele con una similitudine “tripla”:
Biden: netanyau= Alessadro V : Cesare Borgia= Trump: Giulio II
La trovo molto stimolante ma errata .
Innanzitutto perché la vera similitudine dovrebbe essere semplicemente
In quanto sia i Democratici e Repubblicani che le due branche del Sionismo sono rispettiva espressione di due ” partiti unici” : l “americanismo” e il “sionismo” appunto.
E poi perché nemmeno i termini mi sembrano esatti.
Infatti se Biden e Trump possono essere considerati due papi della ” chiesa americana”, almeno i loro frontmen, Netaniahu è solo un “braccio” del Sionismo , paragonabile ad un Cesare Borgia, ma solo in quanto anch’esso un “avventurista” , in questo caso mosso però anche dalla visione “messianica” che pervade da sempre “la destra” del Sionismo.
E qui posso garantire che, al contrario del Borgia, non ci sarà nessuna “rovina personale” per Bibi; semplicemente “ a tempo debito” sarà “posato” ( per usare, non a caso ,un termine mafioso) cosa che era già calcolata fin da l’ inizio della “operazione Gaza” .
C’ è appunto nel sionismo una “cupola” più efficiente che in quella “americana” e che evita che la “dialettica interna” sfoci mai in qualcosa di realmente e platealmente “punitivo” per i membri perdenti della tribù; pure per quelli dannosi.
La “ carità” interna alla “ nota etnia” è non solo molto forte ma anche profondamente astuta nell’ assunto che per consolidare la propria tenuta ed estendere il proprio potere non devono essere né abbandonati, né esemplarmente puniti non solo gli “incapaci” ma pure i “transfughi” e perfino anche i “rinnegati”.
Ad esempio dopo il 1945 nessuno dei nazisti di “sangue ebreo” fu realmente punito, nemmeno chi fu sempre leale ad “ Herr H “ e il “nazismo” non lo abiurò mai.
Poi perdipiù le due entità : U$A e Israele sono ormai così tanto simbiotiche da mostrarsi sempre di più come una sola entità : U$rael.
Di questa si può certamente definire chi per stazza sia “il cane ” e chi ” la coda”, ma mi sembra incontestabile che sia quest’ultima a far ” scodinzolare il cane “.
Trump non è un Giulio II che è andato a “punire” un borgia- netaniahu . Trump è stato solo chiamato a tirare fuori Netaniahu dai pasticci in cui si era cacciato.
E qui si può discutere solo se “l’ ordine ” sia stato impartito direttamente dalla ” destra sionista” americana che sostiene sia Netaniahu che Trump o dalla cupola sionista tramite la cupola americana in cui essa è comunque pesantemente presente, e dalla quale comunque Trump è dipendente.
La ” pace di trump” serviva solo a questo, pur condito con un teatrino in cui si è cercato di narrare che U$rael ha vinto.
Ma non è una “pace “, è solo una pausa tra un “round” e il successivo ed è pure discutibile che U$real questo round lo abbia realmente vinto.
Certo parecchi “punti” U$rael li ha segnati, ma al prezzo di aver smascherato al mondo la complicità che esso riceve da lunga data da pressoché tutti gli stati arabi e sunniti .
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