Dalla mia palla di cristallo_Governo gialloverde: com’è andata & come andrà_di Roberto Buffagni

Governo gialloverde: com’è andata & come andrà

Dalla mia palla di cristallo

 

Cari amici vicini e lontani, eccoci al consueto appuntamento con la mia palla di cristallo e i Superiori Sconosciuti che per mezzo suo ci fanno sgocciolare un po’ di info. Anticipo che i Superiori Sconosciuti tendono all’ellissi e hanno anche il gusto un po’ sadico della suspense, quindi non vi aspettate un bel resoconto dettagliato con tutti i puntini sulle i e i trattini sulle t. E via con le rivelazioni dal Regno Sovratemporale.

Com’è andata

La formazione del governo è stato un mezzo miracolo, forse anche un miracolo intero. Lo scorso 24 maggio la mia palla di cristallo indicava che il progetto di formazione del governo gialloverde poteva essere una “abile manovra tattica, grave errore strategico” (70% di possibilità) oppure una “abile manovra tattica seguita e raddoppiata da audacissima manovra operativa” (30% di possibilità)[1].

Grazie a Qualcuno che Lassù ama l’Italia, si è verificata la seconda e meno probabile ipotesi. La cosa buffa e altamente istruttiva è che l’ipotesi “manovra alla von Manstein” non si è verificata grazie a geniale intuizione di alta strategia dello Stato Maggiore leghista, ma grazie alla semplicità e all’assenza di pregiudizi dei medesimi. I quali hanno tratto le conseguenze immediate dalla situazione contingente: il PD aveva rifiutato l’alleanza con i 5*, Mattarella s’era rifiutato di dare l’incarico a Salvini, l’unica possibilità per formare un governo era allearsi con i 5*, la Lega si è detta “perché no?” e ci ha provato. Il feldmaresciallo von Manstein non so, ma io non ci sarei arrivato in un milione di anni, per tutte le ragioni (pur valide) illustrate nell’articolo linkato alla nota 1. Morale: una strategia che funziona è sempre semplice, e la semplicità è difficile. Chapeau!

Però, se la semplicità è una bella cosa, vita e politica sono complicate. L’audace Blitzkrieg non è stato condotto a termine, e gli enormi errori commessi dall’avversario non sono stati sfruttati a fondo come la situazione dettava. L’errore più grave commesso dal comandante in capo dell’avversario, il presidente Mattarella, è stato l’ostinato rifiuto di accettare il nome di Paolo Savona al Ministero dell’Economia. Il popolo italiano, questo naufrago che insiste a non voler annegare, si è reso immediatamente conto che a) Savona non è Lavrentij Beria o il dottor Goebbels b) Mattarella obbediva a pressioni di potenze straniere + organismi sovrannazionali e dunque non adempiva la sua funzione istituzionale di Presidente della Repubblica italiana c) se l’azione di Mattarella poteva essere legale, certo non era legittima (legittimità = chi comanda in nome di che cosa) c) tra legalità e legittimità c’è di mezzo non il mare ma la classe dirigente europeista, che considera le istituzioni dello Stato italiano come la crisalide di future altre, nuove e incompatibili istituzioni, che non rispondono al popolo italiano ma a oligarchie transnazionali d) per farla corta, che i dominanti italiani sono, secondo l’esatta definizione di Giulio Sapelli, una “borghesia compradora” incaricata di mediare il consenso, vulgo far stare buono il popolo italiano mentre viene tosato, diviso, miscelato e servito ammanettato a chi si vuole mangiare i suoi asset.

Tenendo fermo su Savona, il popolo italiano avrebbe assistito alla plastica rappresentazione della realtà effettuale, in forma di compresenza nelle medesime aule di un governo tecnico legale risibilmente minoritario, e di un governo ombra legittimo con larga maggioranza parlamentare, in grado di varare leggi perfettamente valide e di affossare con il voto i decreti del governo: una situazione prerivoluzionaria con tutti i crismi. La realtà effettuale che si sarebbe così plasticamente illustrata agli occhi di tutti gli italiani è che l’Unione Europea è una tigre di carta bollata e un sovrano privo sia della forza, sia del diritto a regnare. E dopo un corso accelerato di scienza politica come questo, si poteva passare al più presto all’incasso elettorale.

Quando l’avversario fa un grave errore, è un errore ancor più grave non approfittarne. Il modo c’era, e a portata di mano[2]. Per insipienza, inesperienza, e forse o senza forse qualche aiutino di esperti con agende divergenti, l’occasione non è stata colta, e la situazione sul campo si è stabilizzata.

L’azione di governo nei primi trenta o quaranta giorni si può riassumere in due righe: la ventata di stupore, freschezza, sollievo e fierezza levata da un vicepremier, Salvini, che fa due cose molto semplici. Anzitutto, dice con la voce di un’ istanza autorevole quel che pensa una larga maggioranza di italiani: “l’immigrazione è un pericolo e un male, basta!”; e per di più, lo dice senza avere paura di quel che penseranno a Berlino, a Bruxelles, al “New York Times” e al “Corriere della Sera”. Difficile sopravvalutare l’importanza e l’effetto salutare di queste emozioni, per un popolo che le sue classi dirigenti demoralizzano scientificamente da decenni per ridurlo all’impotenza e alla rassegnazione. Infatti, i sondaggi d’opinione parlano di un vasto consenso, indicato intorno al 30%, che la Lega si sarebbe conquistata in queste settimane di governo.

Poi, però, le cose finiscono qui.

La situazione, come dicevo, si è stabilizzata. Stabilizzata vuol dire che le classi dirigenti europeiste italiane, che sono il 90% delle classi dirigenti in tutti i settori, hanno ripreso in mano le leve di comando e controllo delle quali dispongono e che sanno usare molto bene e di concerto, com’è naturale si sono riorganizzate, e hanno cominciato a reagire: ostacolando l’azione operativa del governo, insinuando un cuneo tra gli alleati, e dando inizio alla formazione di un nuovo fronte d’opposizione. In ciò sono favorite dalle debolezze del governo e delle due formazioni che lo compongono, che non sono poche.

Nel caso dei 5*, i punti deboli principali sono:

  1. Il carattere impolitico originario di un movimento che non ha mai indicato chiaramente il suo nemico. Questo carattere impolitico ha permesso alla Lega di allearvisi e di egemonizzarlo provvisoriamente, ma costituisce anche un rischio permanente di opportunismo e veri e propri voltafaccia
  2. La cultura politica gravemente insufficiente e abborracciata, tinta di un generico progressismo con sfumature New Age
  • L’inesperienza e a volte la vera e propria insufficienza della sua classe dirigente
  1. La permeabilità a influenze non dichiarate e vere e proprie infiltrazioni, che consegue sia da quanto indicato ai punti precedenti, sia dall’origine non chiarissima (eufemismo) della sua formazione

Nel caso della Lega, i punti deboli principali sono:

  1. Il carattere reattivo della sua cultura politica. La vecchia Lega intendeva rappresentare la reazione della “comunità padana” che vedeva minacciato il suo interesse e la sua identità dallo Stato nazionale; la nuova Lega intende rappresentare la reazione della “comunità italiana” che vede minacciato il suo interesse e la sua identità dalla UE e dal mondialismo. Ma mentre le rivendicazioni della vecchia Lega potevano agevolmente tradursi in richiesta di concessioni, benefici e spazi politici dallo Stato centrale, senza metterne di fatto mai in questione la legittimità nonostante le smargiassate secessioniste e i duecentomila bergamaschi con la pallottola in canna evocati da Bossi quando alzava il gomito a Pontida, la nuova Lega si trova di fronte a un sistema politico sovrannazionale rispetto al quale le sue istanze nazionaliste sono affatto incompatibili, e finisce per essere, volens nolens, una forza antisistemica: come dimostra l’ostilità violentissima che suscita. Una forza antisistemica, se vuole sperare di vincere, non può esimersi dal delineare il nuovo sistema che intende instaurare, perché come disse Danton, che di rivoluzioni se ne intendeva, “si abbatte davvero un regime solo se lo si sostituisce”. E di delineare il nuovo sistema, la Lega (e non solo la Lega) non è ancora capace, neanche con il pensiero.
  2. Il suo rispettoso ossequio per le istituzioni italiane. Non dipende soltanto dal prestigio degli ori e della lunga storia che aleggia nelle sale del Quirinale e delle Camere, che sempre si impongono al neofita provinciale. Dipende da quanto esposto al punto precedente. La vecchia Lega non ha mai seriamente pensato di rivoluzionare lo Stato italiano, né tanto meno di abbatterlo con una secessione. Lo Stato nazionale italiano è sempre stato il suo orizzonte, l’ambito nel quale agire e pensare, certo strappandogli il più possibile, ma senza mai contestare sul serio la sua legittimità. Ora che la nuova Lega guida nei fatti il governo, e lo guida in nome della nazione, il rispetto per le istituzioni dello Stato e per chi le impersona diventa un riflesso condizionato. Purtroppo, chi di fatto dirige lo Stato italiano e ne riveste le più alte cariche, per le istituzioni e lo Stato non ha rispetto alcuno, perché, come dicevo sopra, “considera le istituzioni dello Stato italiano come la crisalide di future altre, nuove e incompatibili istituzioni, che non rispondono al popolo italiano ma a oligarchie transnazionali.” Questa dissimmetria mette la Lega in condizioni di inferiorità rispetto all’avversario, e le impedisce di cogliere preziose opportunità. Finché la nuova Lega non si persuaderà che Mattarella non è il Presidente della Repubblica italiana ma il capo dell’opposizione, non potrà cogliere le opportunità che l’avversario, usando strumentalmente le istituzioni, le ha offerto e le offrirà. In sintesi: il compito della nuova Lega non è strappare il più possibile all’Unione Europea senza contestarne la legittimità, ma quello di contestarne la legittimità e avviarne una trasformazione così profonda e imprevedibile da doversi chiamare, senza eccessi di linguaggio, rivoluzionaria. Perché l’Unione Europea, non essendo uno Stato ma un progetto irrealizzabile di Stato[3], non ha ampi margini di manovra per riassorbire le dissidenze e le rivendicazioni regionali: è un sogno politico, sa di esserlo, ed è disposta a tutto per impedire che le nazioni europee si sveglino.
  3. L’inesperienza di governo nazionale del suo personale, e le lacune in settori chiave del governo. L’inesperienza è inevitabile, e va scontata. Meno inevitabili le lacune in settori chiave del governo: per esempio, non era inevitabile mettere un prof di ginnastica al MIUR. Sono errori seri, che si spera verranno valutati come tali e corretti.

Come andrà

Come al solito, i beffardi Superiori Sconosciuti quando si viene al futuro sono sempre sbrigativi. Qualcosina però me l’hanno bisbigliato, e io fedelmente ve lo riporto.

  • Come si svilupperà l’offensiva dell’avversario. L’avversario agirà con una manovra a tenaglia, nell’intento di realizzare una replica della battaglia di Canne. La manovra si articolerà in due movimenti principali: a) spaccatura del Movimento 5* b) sterminio delle risorse economiche + isolamento della Lega. Vediamoli nei dettagli.
  • Spaccatura del Movimento 5*. Che cos’è andato a fare Di Battista negli USA? Turismo non credo proprio, anche perché non mi risulta che Dibba sia ricco di famiglia, né appare disporre di reddito personale ottimo e abbondante, e sei-otto mesi di turismo negli States con famigliola al seguito costano un minimo di 50.000 $, se non dormi in tenda. Quindi qualcuno paga, e siccome non esistono pasti gratis e neanche gite annuali premio, il qualcuno che paga vorrà qualcosa in cambio. Ha detto Dibba in TV che Mondadori gli ha versato un anticipo di 400.000 (quattrocentomila) euro per il suo libro di viaggio in USA. Non ho motivo per dubitarne, anche se anticipare quasi mezzo milione a un autore esordiente, per quanto personaggio noto, è una scelta economicamente avventurosa. I conti sono presto fatti: di solito l’autore incassa intorno al 10% del prezzo di vendita. Se il libro verrà messo in commercio a 20 euro, Mondadori dovrà vendere 200.000 (duecentomila) copie per rientrare dell’anticipo a Dibba. A meno che Dibba non si riveli uno scrittore prodigioso, difficilmente il suo libro di viaggio sarà un long seller: o vende subito, o resta in magazzino e poi va al macero. In Italia, non mi risulta sia mai esistito un libro di autore esordiente che abbia venduto 200.000 copie in una stagione[4]: qua si entra in classifica dei libri più venduti con 5.000 (cinquemila) copie vendute. Per sperar di arrivare intorno a quel volume di vendite, un libro italiano deve avere ottimi, anzi fantastici contratti di traduzione su altri mercati, in particolare – to’ ! – sul mercato anglosassone, che ha 400 MLN di lettori. E’ così? Non possiamo saperlo, e in ogni caso facciamo i migliori auguri a Dibba e a Mondadori, queste due preziose risorse culturali italiane. Ma questa digressione economicista è tutta mia, e me ne scuso (sarò invidioso?). I Superiori Sconosciuti, invece, che problemi di soldi non ne hanno, mi hanno fatto notare una certa analogia tra il viaggio in USA di Renzi e il viaggio in USA di Dibba. Analogie tra i due viaggiatori, entrambi giovani politici ambiziosi e promettenti che avrebbero voglia di spiccare il volo; analogie tra le tappe del viaggio; per tacere della destinazione, che è proprio identica (perché poi, con tutti i posti belli e istruttivi che ci sono al mondo, proprio negli USA bisogna andare?). Colgo il suggerimento dei Superiori Sconosciuti, e sottopongo alla vostra attenzione la seguente ipotesi. E se il tour manager di Renzi fosse lo stesso di Dibba? Cioè i democrats USA e i mondialisti che li innervano? Se così fosse, in questi mesi Dibba è stato sottoposto a un corso intensivo con teachers competenti in rivoluzioni colorate e affini, provenienti sia dagli abissi del Deep State USA sia dalla futuristica Scientology, che cura l’addestramento mediatico dell’alunno con la programmazione neurolinguistica, così fa bella figura nei dibattiti e si inventa begli slogan tipo “rottamazione”, “i gufi”, etc., scemenze che però in TV funzionano. In cambio, al suo ritorno Dibba dovrà consegnare una merce pregiata: la spaccatura del M5*, del quale si proporrà come il neo Che Guevara sociale e futuristico, e che dovrà trasformare nella base di un new & improved modello di “partito desinistra/Altraeuropa alla Tsipras-Varufuffa”  al quale si aggregheranno tutti i frustoli e residui dei moribondi partiti desinistra vecchio modello, dai Leucociti + frange PD in giù. Non sarà facilissimo, ma è tutt’altro che impossibile, vista la cultura politica progressista e vagamente fantascientifica/New Age dei 5*. A questo “partito desinistra/Altraeuropa alla Tsipras-Varufuffa”  si affiancherà un partito minore “di centrosinistra moderato” guidato dal vincitore della riffa in corso nel PD, che dovrebbe attirare parte di Forza Italia e forse lo stesso Silvio B., i radicali della Bonino, e insomma tutte “le persone serie” (questo flagello d’Italia) che si prefiggeranno di formare il corpo ufficiali del fronte desinistra/centro antiLega.
  • Sterminio delle risorse economiche + isolamento della Lega. Non so come tecnicamente sarà eseguito, ma sarà eseguito. Se qualcuno spera che non ci si arriverà sul serio, che Mattarella interverrà per evitare il vulnus alla democrazia o analoghi, si sbaglia di grosso. I Superiori Sconosciuti affermano con la massima chiarezza che gli europeisti sanno di correre un rischio esistenziale, e del fair play, di Montesquieu, della democrazia e altre cantafavole domenicali non si curano: si curano invece assai di sopravvivere e tenersi stretto quel che hanno, che non è poco.
  • Quindi per concludere: al ritorno di Dibba, presumibilmente intorno a settembre-ottobre prossimi, scatterà la manovra a tenaglia, con l’obiettivo strategico di arrivare all’appuntamento delle elezioni europee del 2019 con un Movimento 5* diviso e in larga maggioranza “desinistra/Altraeuropa alla Tsipras-Varufuffa”, un “partito di centrosinistra di persone serie” che fa un po’ di polemica con il giovane scapestrato Dibba ma alla fine vi si allea contro i fasciorazzisti della Lega, e una Lega isolata tranne la povera Giorgia Meloni, senza un centesimo in tasca, che non ha consegnato la merce economica promessa (flat tax, rilancio di investimenti e consumi), e che dunque perde un buon dieci per cento del 30% di consensi odierni. Sintesi: i tour manager di Dibba + la borghesia compradora italiana vogliono aggiornare il classico schieramento antifascista ad excludendum il partitaccio antisistema che tante soddisfazioni ha dato in Francia con il Front National; solo che stavolta lo slogan dirimente sarà “contro i razzisti-nazionalisti disumani”, e l’antifascismo, un po’ sdrucito dopo tanti decenni di onorato servizio, servirà solo per gli elettori più anziani e più disagiati.
  • Che può fare la Lega per battere la manovra a tenaglia? Secondo i Superiori Sconosciuti, le mosse sono obbligate, e sono due.
  • Prima contromossa: spaccare il M5*. Trovare un antagonista di Dibba, e portargli via almeno un terzo del M5*
  • Seconda contromossa. Chiudere la Lega usandola come bad bank alla quale addebitare l’esproprio della magistratura, e aprire un nuovo partito conservatore che si prefigga lo scopo di a) nascere nazionale, inserendo in posizioni di rilievo gli eletti più rappresentativi della Lega al Sud b) calamitare il meglio di Forza Italia c) calamitare la parte dei 5* che non si lascerà risucchiare da Dibba d) attirare una parte di astensionisti e) consolidare il consenso guadagnato con l’azione di governo f) prendere tanti voti alle europee.
  • I Superiori Sconosciuti aggiungono che il tempismo dell’operazione è essenziale. Non che ci volessero i Superiori Sconosciuti per arrivare a questo truismo, ma tant’è, così mi hanno detto e così vi riferisco.

Di mio, aggiungo solo che è comodo fare i Superiori Sconosciuti solennemente assisi in poltrona tra le nuvole del Regno Sovratemporale: quaggiù, nella spigolosa realtà effettuale, queste due contromosse non sono mica tanto facili, eh?

Comunque, tanto vi dovevo. In bocca al lupo all’Italia, e stay tuned!

 

 

 

 

 

[1] http://italiaeilmondo.com/2018/05/12/governo-lega-m5stelle-come-andra-a-finire-di-roberto-buffagni/

[2] Per esempio questo: http://italiaeilmondo.com/2018/05/29/dalla-mia-palla-di-cristallo-governo-ombra-di-roberto-buffagni/

[3] V.  http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2016/12/la-politicaitaliana-secondo-shakespeare.html

[4] http://www.lastampa.it/2017/03/04/cultura/i-libri-diventano-un-best-seller-con-mila-copie-PXKsG0krrjpA7BQfOuLfoJ/pagina.html

NOTE SU COSTITUZIONE E INTERPRETAZIONE COSTITUZIONALE, 2a parte_ di Teodoro Klitsche de la Grange

NOTE SU COSTITUZIONE E INTERPRETAZIONE COSTITUZIONALE

II PARTE

Secondo la tesi di Leibnitz, sopra cennata, teologia e giurisprudenza si basano ambedue su scriptura e ratio; a giudizio di Gierke (prima ricordato) i teologi-giuristi della Seconda Scolastica si servivano con dovizia della ratio. Questo sia per il carattere razionalista della teologia cristiana, sia perché il diritto positivo costituiva solo una parte del diritto, sia perché la rivelazione divina (la scriptura) non era un insieme univoco, esauriente e per così dire, “privo di lacune” che l’interprete non dovesse colmare. In particolare la distinzione fondamentale concerneva ciò che è necessario, perché corrispondente all’ordine creato da Dio – e quindi il diritto naturale – e ciò che era frutto di decisione (divina o umana). Mentre il primo non poteva essere altro da quello che era, il secondo era rimesso alla determinazione della volontà di chi lo poneva in essere. Anche Sieyès riteneva che “Una Nazione si costituisce solo in virtù di un diritto naturale. Un governo, al contrario, è frutto solo del diritto positivo. La Nazione è tutto quel che può essere per il solo fatto di esistere”.[41] Tale distinzione era stata (in parte) ripresa (e sviluppata) da Hegel nella formulazione sopra riportata[42], tra ciò che è necessario perché una moltitudine sia uno Stato (e quindi costituisca un potere comune) e ciò che essendo solo un modo di esistenza dello Stato, appartiene “alla sfera del caso e dell’arbitrio”. Trasponendola al diritto pubblico, ciò che rende possibile la stessa esistenza dello Stato, ne pone e collega gli elementi necessari perché l’istituzione (e la comunità) esista ed agisca, è costituzionale, anche se nessun testo (o dichiarazione costituzionale) la qualifica come tale: è costituzionale per natura, non perché una dichiarazione, per quanto solenne lo statuisca[43]. Anzi è esso che, nell’extremus necessitatis casus prevale sulla vigenza dell’apparato normativo (ed anche sull’assetto “normale” dei poteri) così come, con massima evidenza) nel momento genetico è l’esistenza di quello che consente al diritto – da esso posto o riconosciuto – abbia validità ed efficacia. Ma in quanto è costituzionale in se, non c’è nessuna norma che possa “costituirlo” né eliminarlo ( e tanto meno modificarlo); onde per comprenderlo non occorre alcuna scriptura, ma necessita la ratio. E infatti la ratio appare la sola via per capire ciò che è necessario, non essendo modificabile da una decisione umana, con la conseguenza che, anche se vi fosse – ed è anche capitato che vi siano – decisioni umane, anche espresse in testi costituzionali, che contraddicano ciò che è necessario, sono inapplicabili, in primo luogo (e quel che poi conta) nella concreta realtà, e, di conseguenza, non possono essere oggetto di comandi eseguibili, quindi neppure interpretabili in quel senso. E’ appena il caso di ricordare quanto scriveva Spinoza  che il sovrano può far tutto ma non modificare le leggi di natura (ovvero ciò che è necessario), e comandare cose impossibili come toccare gli anelli di Saturno o sedersi sugli angoli del triangolo (ad impossibilia nemo tenetur), o superflue perché non rientranti nell’ambito (delle possibilità di violazione e con ciò) della libertà umana (ad es. ordinare di rispettare la legge di gravità). Quel che più rileva è come in quel necessario non rientra soltanto ciò che è riconducibile alle leggi naturali (c.d. limite ontologico), ma ciò che è riconducibile alle costanti dell’azione sociale umana: come la necessità della comunità politica e dell’ordine (v. sopra); dell’assetto gerarchico del potere; della  classe politica[44] .

Mano a mano  che dal necessario (in senso assoluto) si passa al (relativamente) necessario[45] e all’accidentale (direbbe Hegel) si riduce l’uso necessario della ratio e cresce quella della “scriptura”, cioè della statuizione (scritta), in quanto tale oggetto d’interpretazione (nel senso tradizionale, anche se con le specificità dovute al carattere costituzionale della materia). Ad esempio, per qualificare democrazia il regime frutto della decisione costituente occorre che sia prescritto il diritto d’accesso di tutti i cittadini alla funzione pubblica (art. 51 della Costituzione) che è considerato una delle condizioni, (necessaria anche se non sufficiente) perché esista una democrazia politica da 25 secoli (cioè dal famoso passo di Tucidide in cui riporta il discorso di Pericle per i caduti della prima fase della guerra del Poleponneso): Una norma che, di converso, escludesse dall’accesso la grande maggioranza dei cittadini,  sarebbe a dispetto della dichiarazione costituzionale contraria, istitutiva di un regime oligarchico.

In una recente polemica, reperibile in rete[46] si possono trovare motivi e spunti su cosa possa essere l’interpretazione della costituzione, sotto il profilo di differenti teorie del diritto. Secondo Baldassarre i tratti fondamentali del positivismo giuridico sono:

– “il diritto (oggettivo) è «posto da una volontà (se no, perché chiamarlo «positivismo»?), nel senso che è il prodotto di un «potere» o di un’autorità, ossia è un atto di volontà di un sovrano precostituito (ora soggettivizzato, come lo Stato, la Nazione, il Popolo o altro Soggetto politico; ora oggettivizzato nell’ordinamento normativo, sia quello nazionale o internazionale, sia l’una o l’altra delle norme fondamentali che si impongono «di fatto»);”

– “il diritto (oggettivo) consiste in norme assistite da una sanzione (istituzionalizzata), vale a dire consiste in norme coattive;”

– “l’applicazione del diritto (norma,legge) è il frutto di una deduzione logica, di modo che la decisione di un caso (controversia) è sempre la conclusione di un «sillogismo deduttivo (o sussuntivo)», derivante da una scelta (valutazione) interamente ascrivibile al «legislatore», ossia alla «volontà» di chi ha posto la norma considerata (sovrano).”

Da cui conclude che “questi tratti comuni ad ogni approccio giuspositivista (esclusivista)… si siano dissolti nella vita pratica del diritto costituzionale dell’ultimo cinquantennio (in Europa)”.

Ad avviso di Guastini, che cita Bobbio, l’espressione positivismo giuridico “è di fatto usata per denotare non una sola ed univoca corrente di pensiero, ma tre modi di vedere distinti e logicamente irrelati tra loro: il positivismo «metodologico», il positivismo «teorico», e il positivismo «ideologico»” di cui il positivismo teorico è “grosso modo, la teoria del diritto, dominante nel secolo XIX: quel modo di vedere secondo cui le norme giuridiche (ivi incluse quelle consuetudinarie) sono interamente riducibili a comandi coattivi del sovrano politico (i. e., di un legislatore umano), un ordinamento giuridico è un insieme di norme completo e coerente, l’interpretazione del diritto è atto di conoscenza(non di volontà), la sua applicazione è attività logico-deduttiva.”. Avendo sostenuto Baldassarre “ che l’antica massima hobbesiana –vero manifesto del positivismo giuridico in tutte le sue forme-auctoritas, non veritas, facit legem sia ormai inattuale. Se ne  deve concludere che nello stato costituzionale di diritto “ratio,non auctoritas, facit legem”. Una tale tesi non è condivisa da Guastini “La tesi che il diritto nasca non dall’autorità, ma dalla “verità” o dalla “ragione” (così sostiene Baldassarre), significa che le norme giuridiche sono il prodotto non di atti di volontà, bensì di atti di conoscenza: di conoscenza, dobbiamo supporre, non della (eterna) “natura” umana, bensì dei “costumi” e della “coscienza sociale”. E ciò implica che le norme giuridiche – proprio come le proposizioni scientifiche – possono dirsi vere o false. Tesi classica dei giusnaturalisti, d’altronde, i quali disgraziatamente non hanno mai saputo indicare a noi, poveri giuspositivisti, quali mai possono essere i criteri di verità degli enunciati del discorso prescrittivo.”

In questo riepilogo  – largamente parziale e sintetico di quanto scritto – entrambi gli autori presuppongono che la costituzione sia un atto (documento) scritto e statuito (mentre per le parti più importanti, non è scritto e neppure statuito): nell’esposizione di Baldassarre una importanza decisiva (specie per le sentenze dei giudici costituzionali) riveste il fatto che le costituzioni (cioè gli atti/documenti) contengono enunciazioni di principio e statuizioni di valore, onde l’applicazione/interpretazione consiste in una valutazione di compatibilità “tra due distinti ordini di «principi»: quelli stabiliti, secondo una certa gerarchia e un certo ordine di preferenza, dalla costituzione e  quelli implicati… dalla «regola (generale e astratta)» contenuta nella norma legislativa  della cui costituzionalità si dubita”. Tale è il modo di “operare di tutte le corti costituzionali occidentali”.

Tuttavia sia che si tratti d’interpretare norme, sia di applicare principi (e/o valori) le due posizioni si riferiscono entrambe al diritto statuito (e scritto) tralasciando così tutto ciò che non è scritto né statuito[47]. Quanto all’altra questione– che più interessa ai fini del presente scritto – se il diritto nasca dall’autorità o dalla ragione (verità), occorre appena ricordare che un simile dilemma (se la legge sia atto della volontà e dell’intelletto) era stato largamente dibattuto dai teologi[48] e la soluzione che dava Suarez non era un “aut…aut” ma un “et…et”, nel senso che la legge era atto sia d’intelletto che di volontà[49]. La legge positiva è sia  ratio che voluntas; che sia la seconda è evidente; e che presupponga (e incorpori) anche la ratio (quasi altrettanto) evidente, giacché una legge bizzarra e/o superflua non è suscettibile di esecuzione e coazione, diventando così una bizzarria normativa, non potendo essere un comando eseguibile.

Se, come sostiene chi scrive, la costituzione non è (solo) un atto, e spesso neanche scritto, resta da vedere come si possa interpretare/applicare ciò che non è né scritto né statuito.

Nella realtà un problema siffatto è familiare al giurista: che come regola di una decisione (ad es. giudiziaria) il legislatore imponga all’interprete di ricavare il diritto da un comportamento (cioè da un fatto) è disposto (ad es. dall’art. 1362 c.c., o dalla previsione della consuetudine come fonte di diritto). Nel diritto internazionale è quello, analogo, dello jus non scriptum internazionale; la cui applicazione chiede in primo luogo l’accertamento storico dell’effettiva vigenza (e ancor prima esistenza) della norma.

Fatta questa premessa la disposizione costituzionale interpretanda può non essere formulata nello schema abituale “Se F (fattispecie), allora G (conseguenza giuridica)[50]” o in qualche formulazione analoga (cara alla giurisprudenza analitica); e ancor più la disposizione spesso non è espressa neanche come principio (cioè di guisa da non collegare la fattispecie alla conseguenza giuridica), e talvolta non espressa (non “statuita”). Ma se interpretare è per lo più enucleare il significato di un testo normativo, in tal caso il significato deve essere ricavato da rapporti, fatti, comportamenti (e principi) inespressi il che non è inconsueto, anche se, in un ordinamento moderno, meno frequente.

Piuttosto un’interpretazione/applicazione costituzionale richiede un cambiamento di prospettiva, che pone in secondo piano la classica  dicotomia sein/sollen, per riportare in auge quella dell’Amleto: essere o non essere. Inteso in un doppio significato: che il normativo presuppone l’esistente e che l’esistente prevale sul normativo, che potremmo chiamare limite naturale e criterio funzionalistico –teleologico. Nel limite naturale non c’è solo quello ontologico, ma in genere ogni condizionamento necessario dovuto a leggi, anche dell’agire sociale; così una costituzione non può essere interpretata nel senso che non costituisca rapporti di comando/obbedienza, perché ogni comunità politica, per esistere, necessita di  qualcuno che comanda e altri che obbediscano. Così, ma sul punto rinviamo alla prima parte di questo lavoro, il senso della massima  salus rei publicae suprema lex, è che l’esistente (la comunità) prevale sul normativo, onde il diritto dev’essere interpretato-applicato nel senso di salvaguardare l’esistenza collettiva e non l’esattezza dell’interpretazione/applicazione delle norme o dei valori o della giustizia, implicita nella (contrapposta) espressione fiat justitia, pereat mundus.

In entrambi i casi è così l’essere che condiziona in modo cogente il dover-essere, nel primo caso perché l’ordine comunitario, se non si osservano le leggi naturali (nel senso precisato) neppure può venire ad esistenza, o la conduce breve e grama; nel secondo perché verrebbe meno alla prima crisi (seria). Ma dato che, come scriveva Jhering, il diritto serve alla vita è pertanto da interpretare di guisa da conservare l’ordine e la vita comunitaria (ed individuale).

D’altra parte il limite “ontologico” all’applicazione dei precetti (norme, comandi) giuridici è già “codificato” non solo nel codice civile vigente (v. il combinato disposto dell’art. 1418-1346 c.c. sull’impossibilità dell’oggetto come causa di nullità del contratto) ma fin dalla giurisprudenza romana come risulta dai brocardi impossibile habetur id, cui natura impedimento est quominus existat; impossibilium nulla est obligatio; quae rerum natura prohibentur, nulla lege confirmata sunt.

Piuttosto da ciò derivano due problemi: il primo, quello cennato, e dato per scontato che l’obbligo (dovere, obbligazione) relativo ad un oggetto impossibile per natura è nullo, occorre ricordare che lo stesso trattamento compete alla norma (precetto, obbligo, ordinamento) che pretende di  violare le leggi del funzionamento e dell’equilibrio sociale, come risultano dall’uniformità sperimentale e (talvolta) dalla stessa analisi razionale. Come è (a dir poco) bizzarro presupporre una società politica senza comando, obbedienza, potere, così lo è concepire un’attività economica senza scarsità dei beni. Il secondo problema è che quei brocardi citati (ed altri) sono la conversione in termini giuridici di constatazioni e valutazioni di fatto. Potrebbe sembrare che così si violi la “legge di Hume”  per la quale non è possibile dedurre giudizi precettivi da proposizioni  assertive [51]. La tesi che le norme giuridiche (come il diritto) non possa essere dedotto dalle leggi di natura è stata più volte esposta – tra gli altri – da Kelsen[52]; il quale – ma non solo il giurista viennese – aveva sottolineato tuttavia un’essenziale distinzione tra diritto e morale, relativa al modo in cui essi prescrivono o  vietano un certo comportamento umano[53].

Tale distinzione, ancora più dell’altra, spesso ripetuta, che il diritto sanziona comportamenti “esterni”, mentre la morale sanziona (soprattutto) quelli interni, costituisce la differenza fondamentale tra dovere giuridico e morale: esserci o meno un apparato coercitivo  deputato (anche) a (prevenire e ) reprimere le violazioni del diritto (come ad incentivare l’osservanza dello stesso). Ma la violazione dev’essere possibile, la coazione – che è l’essenza della differenza – dev’essere esercitabile, così come l’obbligazione giuridica eseguibile. Come sopra cennato, un legislatore che prescrivesse di sedersi sugli angoli del triangolo, produrrebbe solo ilarità[54], ma nulla di concretamente efficace[55].

Contrariamente a quanto giudicava Hume per la morale, nel diritto che un obbligo sia coercibile o meno  non è un giudizio di valore, un sollen, ma un sein. Pertanto il legislatore (o nel caso di altri precetti giuridici – e con le dovute diffferenze -, il giudice o il funzionario) compie sia un giudizio di “fatto” che una scelta di valore, nel formulare le norme legislative[56].

Anche Bobbio considerava  connotato peculiare dell’ordinamento giuridico la coazione[57]  pur precisando per l’appunto che “la teoria del diritto come regola della forza, sin qui esaminata, è una teoria non già della norma giuridica isolatamente considerata, come la teoria tradizionale, ma dell’ordinamento giuridico nel suo complesso”[58].

Ciò conferma che, da un lato, la differentia spaecifica del diritto, rispetto alla morale, è la coercibilità; dall’altro che, proprio per ciò l’applicazione al diritto della legge di Hume – pensata e scritta per la morale –  necessita  di adattamenti di guisa da non poter essere di carattere esclusivo e portata generale. Una cosa è sanzionare con qualche anno di Purgatorio i peccati; altro è adempiere un contratto d’appalto per la costruzione di una villa su Marte (o chiedere al Giudice la relativa esecuzione dell’obbligo di fare – art. 2931 c.c.). Ogni precetto richiede (quanto meno) un giudizio sulla di esso coercibilità/applicabilità/efficacia. Per cui ogni precetto giuridico consta di un duplice giudizio sia al momento della statuizione che a quello dell’applicazione: è sia un atto di conoscenza che di volontà: la tesi di Suarez (e non solo) appare confermata[59].

Infatti giudicare che un’obbligazione sia possibile è una constatazione (un giudizio) di fatto; il giudizio che tutte le costituzioni disciplinano il rapporto di comando/obbedienza (cioè il potere) può essere storicamente (e sociologicamente) verificato e così anche i  corollari di questo. Ovvero che se c’è un potere di comando obbedito allora c’e una costituzione (Hegel e Santi Romano); se questo non c’è – viceversa – non vige la costituzione (nel senso di costituzione statale) – e neppure esiste lo Stato; e che una costituzione non è interpretabile nel senso che non costituisca e disciplini rapporti di comando-obbedienza: E il tutto è applicabile anche agli altri “presupposti del politico”: pubblico-privato, amico-nemico, tutti verificabili storicamente e sociologicamente.

Ulpiano sosteneva Ius nostrum constat aut ex scripto aut sine scripto (D I, 1, 6). Concezione condivisa  quindi (e per lo più) da (almeno) diciotto secoli. Ma che negli ultimi due  appare un po’ in affanno. Un ausilio a capire la ragione ce l’offre Max Weber, il quale nel delineare i presupposti del potere razionale-legale (cioè la rappresentazione del potere prevalente nelle concezioni moderne) ne indica (tra gli altri) i seguenti: “ Il potere legale riposa sulla validità dei seguenti presupposti, tra loro connessi:  che qualsiasi diritto possa essere statuito rispetto al valore o rispetto allo scopo (o a entrambi), mediante pattuizione o imposizione…che ogni diritto sia nella sua essenza un cosmo di regole astratte,  e di norma statuite di proposito, che la giurisdizione costituisca l’applicazione di queste regole al caso particolare…il tipico detentore del potere legale – il «superiore» – mentre dispone e insieme comanda, da parte sua obbedisca all’ordinamento impersonale in base al quale orienta le sue prescrizioni…che i membri del gruppo – in conformità al n. 3 – obbedendo al detentore del potere obbediscano non alla sua persona, ma a quegli ordinamenti impersonali[60]. L’identificazione della costituzione con un atto scritto e statuito appare quindi conseguenza della fede dei moderni nella legittimità del potere razionale-legale, d’altra parte enunciata nello (spesso ricordato) art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, dove, oltre ad essere enunciati i principi dello Stato borghese è formulata la concezione della costituzione come statuizione consapevole (e scritta) al punto di negare il carattere di costituzione agli ordinamenti privi di queste caratteristiche[61]. Com’è noto questo non era il concetto di costituzione di Weber secondo il quale “Per costituzione di un gruppo si deve intendere la possibilità effettiva di disposizione a  obbedire – possibilità diversa per misura, specie e presupposti – nei confronti della forza di imposizione dell’autorità di governo sussistente” e precisa “ Il concetto di «costituzione» qui impiegato è uguale a quello usato da Lassalle: Esso non coincide con il concetto di una costituzione «scritta», e in genere di costituzione  in senso giuridico. La questione sociologica è semplicemente la seguente: accertare quando, per quali oggetti ed entro quali limiti, ed eventualmente in base a quali presupposti particolari (per esempio in base all’approvazione di divinità o di sacerdoti, o al consenso di comizi elettorali) i membri del gruppo si piegano al capo”[62];concezione imperniata sul rapporto comando-obbedienza.

Il carattere necessario dei presupposti costituzionali condiziona l’interpretazione, dato che senza quelli non c’è né esistenza né capacità di azione politica. Chiedersi se la norma (costituzionale) o il valore (costituzionale) sono stati violati presuppone che ci sia unità politica e ordinamento giuridico senza i quali non si capisce come far rispettare le une e gli altri. Vale il giudizio di Hegel che lo Stato è la “realtà della libertà concreta”[63]; o come scriveva Croce “prima vivere e poi filosofare, prima essere e poi essere morale”[64]; e il giudizio del filosofo si adatta bene al rapporto tra esistenza dell’istituzione,  i principi e le norme che impone o i valori cui fa riferimento. Senza vita (e vitalità) di quella non c’è possibilità di applicare o di realizzare questi. Così  si può aggiungere che se le norme cambiano – spesso vorticosamente – pur lasciando sostanzialmente inalterata l’istituzione; e anche i principi e i valori mutano – anche se più lentamente – l’istituzione – Stato – è sempre la stessa, anche nel mutamento di norme, valori (e classi dirigenti), per cui, secondo i principi del diritto internazionale risponde degli obblighi contratti verso gli altri Stati, cui quei cambiamenti (di norme e/o valori) sono del tutto indifferenti.

Così l’Italia ha cambiato tre costituzioni (liberale, fascista e repubblicana) e  relative “tavole di valori” senza che fosse alterata la (continuità dell’) istituzione statale. Consegue da ciò che né norme né valori possono essere interpretati nel senso che mettano in pericolo l’esistenza (e la capacità d’azione) dell’istituzione.

Nel caso questo si verifichi è l’esigenza primaria (d’esistenza) che deve prevalere sulle altre. Il tutto non è “negoziabile” né “bilanciabile” e non per la ragione onde si ritengono tali (e sottratti anche alla revisione costituzionale) i principi fondamentali (o i valori altrettanto fondamentali) della Costituzione, ma perché – come sostenuto – il normativo presuppone l’esistente[65]. E mentre questo può cambiare quello, di converso il primo non può modificare il secondo.

  1. La conseguenza è che, al contrario di quanto spesso si pensa, ogni conseguenzialità (e coerenza) normativa non può prevalere sull’esistenza comunitaria. In caso contrario la massima di Jhering, già sopra ricordata, che il diritto è un mezzo finalizzato alla vita sarebbe capovolta nel senso che la vita (l’esistenza) è un mezzo del diritto. Come sopra cennato, una Corte costituzionale – o un altro organo pubblico – che interpretasse il sistema normativo nel senso di attentare all’esistenza concreta (alla salus rei publicae), anche se normativamente (e logicamente) fondata (nel senso “corrente”), sarebbe invalida. Anzi potrebbe costituire (in tutti gli ordinamenti vi sono norme volte a tutelare l’esistenza e l’unità politica) un illecito penale tra i più gravi (attentato alla costituzione, usurpazione e via emunerando).

La massima fiat justitia pereat mundus non vale per gli organi statali costituiti: non è nel loro potere distruggere l’istituzione e la comunità[66], da cui dipende il loro esser costituiti.

Se si ammette, come molti giuristi, e tra questi Santi Romano, che la necessità sia fonte di diritto, vale la regola necessitas non habet legem (e infatti imporre una legge alla necessità è un bisticcio logico e una contraddizione concreta); regola che è anch’essa la specificazione della prevalenza dell’esistente (e della conservazione dell’esistente) sul normativo[67].

Per cui se per necessità è consentita la deroga alla legge (o la normazione praeter legem) a ratione majus la necessità costituisce criterio di giudizio per valutare la costituzionalità (o meno) di presunte trasgressioni alla costituzione.

  1. Dato che il significato usuale dell’interpretazione (e dell’attività interpretativa) è l’attribuzione di significato a un testo, un segno, un simbolo[68], ove si tratti d’interpretare lo jus involuntarium, l’operazione (prima) che si richiede all’interprete è la ricostruzione (l’individuazione) del precetto applicabile.

È stato sopra cennato come questo sia familiare al giurista. È chiaro che la ricostruzione del precetto può avvenire (talvolta) applicando i principi della logica deduttiva (identità, non contraddizione, terzo escluso e quanto ne consegue) ma per lo più attraverso verifiche storiche e sociologiche (e combinandoli, se necessario, con i primi). Ad esempio la vexata (in Italia)  quaestio della legittimità costituzionale delle deroghe alla giurisdizione ordinaria (nel caso di processi a carico di personale politico apicale). Se si parte dal principio d’uguaglianza è chiaro che la deroga (di qualsiasi genere) possa essere facilmente ritenuta contrastante con quello[69]. Ma se si parte dalla natura dell’istituzione, dal carattere della forma di governo e li si verifica anche in concreto, la conclusione è opposta. Occorre tener presente quanto scriveva Santi Romano sullo jus involuntarium, la cui prima specie era costituita dai “principii generali o fondamentali che sono impliciti nella stessa esistenza dello Stato, nella sua struttura, e nei suoi atteggiamenti concreti, dai quali sono da esprimersi e desumersi. Se alla c.d. «natura delle cose» o «dei fatti» non si può riconoscere valore di vera e propria fonte formale del diritto, lo stesso non è da ritenersi per la natura delle istituzioni e, quindi, in primo luogo dello Stato, giacché queste sono da per sé diritto positivamente vigente”[70].

Per cui, operando una verifica comparativa, tutti i principali testi costituzionali vigenti stabiliscono deroghe alla giurisdizione ordinaria nel caso di “giustizia politica” (onde tutti sarebbero lesivi del principio d’uguaglianza, pur essendo stabilite nelle costituzioni moderne considerate democratiche – l’argomento criticato quindi prova troppo) per cui, oltretutto c’è una concordanza in quello che Hauriou chiamava droit commun constitutionnel; le stesse costituzioni italiane precedenti quella vigente stabilivano vistose deroghe (nel tempo e nello spazio la regola è quindi la deroga); ragione di ciò è che, se così non fosse, la scelta del personale di governo, immediatamente o mediatamente riconducibile al corpo elettorale, come naturale in democrazia, sarebbe “controllata” da un potere burocratico, non selezionato con procedimenti democratici (elezione o nomina di organi elettivi) e irresponsabile verso il corpo elettorale. Ma dato che la repubblica è democratica (e ciò sia per disposizione costituzionale espressa dall’art. 1 sia perché desumibile dall’intero testo della costituzione scritta) e che la scelta per la democrazia è un modo d’esistenza dell’istituzione, è questa a prevalere sulla competenza normale del giudice ordinario. Alla stessa conclusione si arriva partendo dalla distinzione dei poteri fatta propria dalla Costituzione (e dalla legislazione ordinaria), anche se non applicata (del tutto) coerentemente: se non fosse prevista una qualche deroga alla giurisdizione, la repubblica parlamentare diverrebbe uno Stato giurisdizionale (justizstaat) consentendo al potere giudiziario d’intromettersi (liberamente) nel funzionamento (e nella composizione) degli altri poteri costituzionali, e stravolgendo il principio di distinzione dei poteri.

Combinando le conclusioni (concordanti) di questi tre percorsi argomentativi si ha che l’applicazione “meccanica” del principio di isonomia (nel caso, della legge processuale) potrebbe ledere le capacità di azione politica, la forma democratica di Stato (e di governo) e il principio di distinzione dei poteri. Tutti principi fondamentali (due dei quali scritti), sicuramente non secondari a quello d’isonomia.

Occorre peraltro vedere se sia utilmente applicabile il criterio del bilanciamento cioè di determinare un ordine “gerarchico o preferenziale di valori o di principi” (v. Baldassarre op. cit.), e più in generale i parametri (non normativi) del giudizio di costituzionalità, come intesi da molti[71].

In effetti nel caso sopra considerato ad applicare letteralmente l’art. 3 della Costituzione, la deroga non sarebbe possibile; ma ricorrendo ai criteri di cui al passo citato di Baldassarre, e soccorrendo anche la massima di Celso scire leges non hoc est verba earum tenere sed vim ac potestatem (D I, 3, 17) – uno dei capisaldi dell’interpretazione sistematica – il risultato cambia completamente. Anche a tener conto delle considerazioni di Baldassarre che “se, per tale teoria, l’«interpretazione» è, in generale, una «mediazione creativa», nella quale il contributo degli interpreti concorre al «perfezionamento» o al «completamento» (Gadamer) del segno oggetto dell’interpretazione medesima, nel campo specifico del diritto, proprio in quanto «comprensione» eminentemente rivolta ai fini pratici, il fattore principale della mediazione ermeneutica è dato dagli «effetti veicolati dal segno» (Peirce), vale a dire dagli effetti pratici riferibili alla disposizione normativa nel relativo contesto sociale di attuazione. Sono, insomma, questi «effetti», vale a dire le conseguenze pratiche ipotizzate in relazione all’applicazione della disposizione normativa nell’ambiente sociale dato (attuale), che contribuiscono maggiormente a quella «attribuzione di significato» nella quale consiste il risultato finale (ancorché «anticipatorio» rispetto all’applicazione effettiva) di quel complesso processo chiamato «interpretazione»”.

In effetti nel caso della controversia sulla “giustizia politica”, l’inesistenza di deroghe, consentirebbe l’effetto pratico di cambiare la maggioranza parlamentare o la composizione del governo, cioè gravissime limitazioni e condizionamenti alla capacità di azione politica e/o al pouvoir déliberant del parlamento[72].

Cioè “effetti” contrari sia alla capacità d’azione dell’istituzione sia, alla specifica forma di governo scelta nella costituzione medesima.

  1. Più in generale occorre chiedersi come “graduare” o “bilanciare” (ovvero “determinare il valore relativo di due principi” costituzionali – Guastini). In questo caso il valore relativo tra ciò che è necessario, (assolutamente); ciò che lo è in relazione alle scelte costituzionali (relativo); e ciò che è accidentale. E insieme tra lo jus involontarium (non scritto) e il diritto statuito.

Quanto al rapporto tra ciò che è necessario (in senso assoluto) e l’ “accidentale”, sia che si tratti di norme che di principi o valori, il contrasto tra il primo e il secondo non può che risolversi con il riscontro dell’inesistenza/inapplicabilità del secondo. Almeno finché l’esistenza (e l’unità) politica  perdura è sul presupposto di questa – e del suo durare – che vige un diritto e può avere efficacia concreta. Per cui è l’esistenza di quella a costituire il presupposto necessario di questo; e una decisione contraria all’esistenza è, come sopra scritto, opposta all’essenza (ai presupposti essenziali e allo scopo) della costituzione. Del pari una decisione lesiva della capacità di azione (politica), perché, avendo gli Stati un’esistenza storica e politica, è loro essenziale la capacità d’azione.

Più sfumato è ove la necessità sia relativa (cioè consegua non dalle generali condizioni d’esistenza ed azione, ma da quelle particolari della forma di stato e di governo e dalle decisioni fondamentali della costituzione; cioè di qualcosa rimesso alla volontà – ed alla possibilità di scelta – del potere costituente) È chiaro che questi precetti possono essere esplicitati nella costituzione (ad es. per quella vigente, il principio democratico)  o impliciti (ad esempio la distinzione dei poteri).

Un aiuto a determinare ciò che è (relativamente) necessario lo può dare Lassalle. Questi nella (notissima) conferenza Über verfassungswesen, nel definire l’espressione legge fondamentale, diceva “ma una cosa che ha un fondamento non può più essere a piacere così o diversamente; ma deve essere così come essa è. Del fatto che essa è diversa non soffre il suo fondamento. Solo ciò che non ha fondamento e quindi anche ciò che è casuale può essere così come è e anche diversamente. Ma ciò che ha un fondamento, è necessario così come è. I pianeti hanno per esempio un certo movimento”[73].

Un altro ce lo offre il concetto di “rottura” della Costituzione. Com’è noto la prima formulazione della (necessità di istituti che comportino la )rottura della costituzione è di Machiavelli. Questi scrivendo della dittatura romana, sostiene “E però le repubbliche debbano intra loro ordini avere uno simile modo… Perché quando in una republica manca uno simile modo, è necessario, o servando gli ordini rovinare, o per non rovinare rompergli… Talché mai fia perfetta una republica se con le leggi sue non ha provvisto a tutto, e ad ogni accidente posto il rimedio e dato il modo a governarlo. E però chiudendo dico che quelle republiche le quali negli urgenti pericoli non hanno rifugio o al Dittatore o a simili autoritadi, sempre ne’ gravi accidenti rovineranno” (Discorsi, I, XXXIV). È chiaro, nel passo del Segretario fiorentino, che l’ “ottima” costituzione deve prevedere i modi per essere disapplicata o sospesai (parzialmente).

Onde potrebbe individuarsi il limite tra quello che è (relativamente) necessario a quello che è – per usare la terminologia hegeliana – accidentale in ciò che, in caso di previsione costituzionale della rottura, è immodificabile da quello che non lo è. Ad esempio nel caso dell’art. 16 della Costituzione francese vigente, il Presidente, pur utilizzando i poteri eccezionali, non può sciogliere il Parlamento; analogamente nell’art. 48 della Costituzione di Weimar il Presidente, pur potendo prendere le misure eccezionali, doveva riferire al Reichstag e revocarle a richiesta di questo. Schmitt a tale proposito sosteneva “La costituzione come un tutto resta non solo lo scopo di ogni provvedimento sulla base dell’art. 48: essa è anche determinante in quanto fondamento dei suoi presupposti… Essenzialmente ogni costituzione è l’organizzazione. Per questo l’unità dello Stato è creata come quella di un ordinamento”[74].

Da ciò consegue che, nelle rotture costituzionali, a non poter essere innovata, è la costituzione intesa come (decisione sulla) forma di Stato e di governo (e cioè sull’essenziale dell’organizzazione di governo); nei casi esaminati, come repubblica democratica semi-presidenziale, con i due organi (dotati) di rappresentanza politica (cioè Presidente della repubblica e Parlamento), che rimangono intangibili, mentre sono disapplicabili (momentaneamente l’esercizio dei) diritti, anche se garantiti dalla costituzione[75].

Tutto ciò può servire a chiarire se le decisioni riconducibili al (relativamente) necessario possano essere oggetto di valutazioni contemperabili con altre disposizioni della costituzione formale.

Ad avviso di chi scrive la risposta è negativa: non può “bilanciarsi” un principio che da forma allo Stato ed al governo – rientrando così nel “nocciolo duro” della costituzione – con prescrizioni, anche ricondotte dal testo costituzionale a quelle di principio, che comunque non sono costitutive della forma politica.

Nella costituzione vigente sicuramente di questa sono costitutivi il principio democratico (e quello – connesso – d’eguaglianza) quello di libertà nonché di tutela dei diritti dell’uomo – e le conseguenze immediate di quelli, come il diritto d’elettorato attivo e passivo, l’inviolabilità della libertà personale, di domicilio, di riunione (e, in genere, di tutti i diritti di cui agli artt. 13-27 della Costituzione vigente), mentre non sono “costitutivi” della forma politica il principio di tutela delle minoranze (art. 6) la tutela della cultura e del paesaggio (art. 9) la conformazione all’ordinamento internazionale (art. 10, I e II comma), il ripudio della guerra (art. 11).

Piuttosto un “bilanciamento” appare possibile all’interno della categoria dei precetti “costitutivi” della forma politica: ad esempio se una riduzione delle libertà di cui agli artt. 13-27 della Costituzione sia compatibile in occasione di gravi turbative all’ordine ed alla sicurezza pubblica, di guisa da mettere in dubbio il funzionamento delle istituzioni. In questo caso una compressione della libertà va commisurata all’ineliminabilità, specie in certi periodi (come quelli elettorali) – della fruizione delle stesse, ai fini di un corretto funzionamento dell’istituzione e della forma di governo in cui è organizzata[76].

Mentre tali esigenze di salvaguardare il “nocciolo duro” della Costituzione (cioè la costituzione e non le leggi costituzionali nel senso di Schmitt) non sussistono se i valori da bilanciare sono riconducibili a ciò che è “accidentale”; ossia non necessariamente (nei due sensi specificati) facente parte della Costituzione.

  1. Altro problema è quello del carattere prevalentemente teleologico dell’interpretazione. Qua s’intende per teleologico non tanto la considerazione privilegiata del “fine” della norma, quanto quello della funzione della costituzione, cioè di disciplinare l’esistenza e l’azione della comunità, anche con riguardo agli effetti concreti.

In questo senso è determinante il carattere di “comunità perfetta” che il pensiero teologico attribuisce a quella politica[77] e presente anche nel pensiero giuridico dello scorso secolo, in particolare in Santi Romano[78]; e in Rudolf  Smend[79].

La conseguenza che ne traeva Santi Romano era che “il diritto costituzionale è quella parte del diritto dello Stato, in cui meglio si rivela l’esattezza del concetto sopra fugacemente accennato sulla garanzia del diritto. L’opinione comune che ripone questa garanzia in una norma che dovrebbe farsi valere da una potestà sopraordinata ai soggetti vincolati ad essa o in altra norma, cui la prima servirebbe di sanzione,  nel campo del diritto costituzionale è manifestamente inammissibile. Se la costituzione è l’ordinamento supremo dello Stato, non ci può essere una norma ancora superiore che la protegga e quindi essa deve trovare nei suoi stessi elementi e atteggiamenti la propria garanzia[80].

Dato il carattere di comunità perfetta e il fatto di non essere obbligata (o facultata) a chiedere (e ad ottenere) la garanzia del proprio ordinamento ad un’altra istituzione (tanto meno ad una norma, a un principio, o a un valore), l’interpretazione della costituzione deve avere connotati particolari, così come la decisione delle controversie costituzionali.

In effetti, e tornando al criterio di conservazione dell’esistenza (cioè la salus rei publicae…) esso è del tutto peculiare (alla costituzione e) all’interpretazione costituzionale: un giudice ordinario che applica la norma in una lite tra privati non deve porsi il problema delle salus rei publicae. Lo stesso accade in ogni caso d’applicazione di precetti giuridici che poggino (e presuppongano) la saldezza e la vitalità dell’insieme (e non li ponga a rischi – il che è un’ipotesi rarissima, quasi di scuola – per le disposizioni non aventi carattere costituzionale).

Smend scriveva in proposito che “Il criterio che distingue la costituzione dal resto dell’ordinamento giuridico è sempre e di nuovo il carattere «politico» del suo oggetto”, e “qui il metodo formalistico rinuncia consapevolmente a fondare la teoria dello Stato nel senso delle scienze dello spirito, cioè ad assumere, come punto di partenza del lavoro giuridico, una teoria dell’essenza materiale specifica del suo oggetto”. Infatti così rinuncia a comprendere la costituzione non come “regolamentazione astratta di un infinito numero di casi”, mentre “qui si tratta di una legge individuale di un’unica e concreta realtà di vita”[81]. È chiaro che la funzione d’integrazione come essenza della costituzione costituisce “il principio del divenire dinamico dell’unità politica[82].

Pertanto il criterio interpretativo, in questa come nelle altre concezioni costituzionali improntate a considerare la  costituzione come “modo d’esistenza di un popolo” (de Bonald) è (segnatamente) sistematico ma soprattutto teleologico, mentre uno spazio assai minore rispetto all’interpretazione della norma legislativa è riservato all’interpretazione letterale.

E, come scrive Smend, si tratta di interpretare la costituzione, come la “legge vitale di un essere concreto”, cioè in funzione della vitalità dell’insieme; per cui il criterio teleologico non è incentrato sullo scopo che la singola norma si propone di raggiungere (la ratio legis) ma quelli che la costituzione, nel suo insieme, persegue (per così dire la ratio constitutionis).

Ne consegue che da un canto la garanzia della costituzione, come scriveva Hegel, viene dalle istituzioni stesse[83]. Il che è un modo di significare che, come per il diritto internazionale non ci sono Pretori tra gli Stati[84], anche per il diritto costituzionale la garanzia effettiva deriva più dal (complesso) assetto istituzionale che da un ricorso al “Pretore” costituzionale del tutto incongruo a proteggere effettivamente l’unità e la forma dello Stato[85]. Sul piano interpretativo ciò conferma il particolare carattere teleologico e “fattuale” dell’interpretazione costituzionale: quanto Baldassarre sostiene che occorre guardare anche agli effetti (alle conseguenze) dell’interpretazione (nel caso della Corte, delle sentenze); questo criterio che per un giudice non costituzionale, sarebbe del tutto residuale, perché, per lo più, vietato – di converso è  peculiare all’interpretazione della costituzione (molto meno per le leggi costituzionali, a seguire la distinzione di Schmitt).

Anche in questo è confermata la regola che l’esistente prevale sul normativo: la costituzione – che è il modo d’esistenza politica di un popolo – va interpretata nel senso che le relative decisioni conservino quel modo d’esistenza. Se un potere costituito lo mettesse in pericolo, ciò non rientrerebbe nei suoi poteri: sarebbe come segare il ramo (o la pianta) su cui è appollaiato (e da cui è sostenuto). Cioè costituirebbe un atto rivoluzionario o almeno un atto apocrifo di sovranità, essendo riservato al sovrano (o al potere costituente, laddove l’uno e l’altro coincidono – v. sopra).

  1. Le tesi sopra esposte confermano quanto sostenuto (da buona parte) della dottrina politica – e del diritto pubblico – classica, le cui conseguenze si riflettono sull’interpretazione costituzionale.

In particolare che non si ha a che fare (per lo più) con un diritto scritto e statuito (de Maistre e Santi Romano, tra gli altri)[86]; in buona parte ciò che è (realmente) costituzionale non è rimesso alla volontà umana; lo jus dicere, e più ancora il condere leges è un atto di volontà, ma anche di conoscenza (assertivo) (Suarez e Vico); c’è un diritto costituzionale necessario – nei due significati indicati – e uno volontario (Vico, Spinoza ed Hegel); la ratio, dati i presupposti di cui sopra, ricopre un ruolo superiore a quanto usuale in altri campi del diritto; la distinzione tra costituzione e leggi costituzionali (Schmitt) è feconda e spesso decisiva – anche ai fini esegetici; la costituzione è il modo d’esistenza di un popolo (de Bonald) e come tale va, in primo luogo, considerata; il diritto serve alla vita e non viceversa (Jhering, tra i molti); leggi, principi e valori cambiano più o meno velocemente, mentre comunità, istituzioni, Stati cambiano i primi, ma non mutano – o mutano poco e lentamente – il loro ordinamento (Hauriou e Santi Romano).

Tutti aspetti che non risultano particolarmente frequentati né (implicitamente) condivisi: ai quali si preferiscono altrettante riduzioni/semplificazioni: che il diritto sia statuito (e scritto), che la costituzione sia un determinato (e deliberato) documento, distinguibile dalla legge solo per la sua posizione nella stufenbau; che le “regolarità” dell’agire sociale siano modificabili ad libitum del legislatore (aspetto del “prometeismo” moderno, di cui il marxismo realizzato nel socialismo reale – e la sua fine ingloriosa – hanno mostrato l’inconsistenza); che la costituzione sia (solo) un atto connotato dalla rigidità.

E altro, il cui limite manifesto e ricorrente è di spiegare solo (parte) dell’oggetto, con l’accorgimento di delimitarlo in misura assai più stretta di quello che la realtà mostra; e con l’inconveniente di lasciarne fuori gran parte: non il troppo e il vano, ma l’essenziale e il decisivo.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

[41] Qu’est-ce-que le Tièrs Etat  ora in Opere Milano 1993 p. 256 ss e ribadisce : “Non solo la Nazione non è sottomessa a una Costituzione, ma non può neanche esserlo, il che è come ribadire una volta di più che non lo è… (le nazioni) vanno considerate come individui privi di ogni legame sociale, ovvero, come si suol dire, nello stato di natura. L’esercizio della loro volontà è libero ed indipendente da ogni forma civile…comunque una Nazione voglia, è sufficiente che essa voglia; tutte le forme sono buone, e la sua volontà è sempre legge suprema…” op. cit, pp. 257-258 (i corsivi sono nostri). La distinzione fra potere costituente/diritto naturale e poteri costituiti/diritto positivo è chiaramente formulata.

[42] v. Behemoth n. 45 p. 12

[43] L’espressione “natura delle cose” (e quelle similari) è stata intesa come essenzialmente giusnaturalistica. Bobbio ritiene che “si tratta di una nozione di derivazione prettamente giusnaturalistica. L’essenza del giusnaturalismo consiste infatti nella convinzione di poter ricavare le regole fondamentali della condotta umana dalla natura stessa dell’uomo: ora, è evidente la stretta parentela fra il concetto di natura dell’uomo e quello di natura delle cose; intendendo il termine “cose” in senso lato (come sinonimo di “enti”), il primo concetto può essere ricompreso nel secondo”. Il Positivismo giuridico, Torino s.d., p. 265.

È chiaro che nel presente scritto s’intende qualcosa di diverso, ovvero la necessità (assoluta) di un ordinamento per le comunità umane, o la necessità (relativa) cioè in relazione al fine, al modo d’essere, alla forma di Stato e di governo. Onde appartiene alla natura delle cose (per necessità assoluta) che vi sia una società politica con un potere di comando ed obbedienza (et simili); alla natura della democrazia (ad es.) che i governati eleggano i governanti (direttamente e/o indirettamente), che abbiano il diritto d’accesso alle cariche pubbliche (e così via). Mentre nel primo caso non può esistere qualcosa di diverso, nel secondo la necessità deriva dalla scelta, libera e consapevole (e realisticamente conseguente), di quelle che Schmitt chiama le “decisioni politiche fonamentali” (cioè l’essenza della Costituzione) v. Verfassungslehre, trad. it. di A. Caracciolo, Milano 1984, pp. 38 ss.. Per una concezione della “natura delle cose” prossima a come la poteva intendere Spinoza (v. nota 54). v. M.S. Giannini Introduzione al diritto costituzionale, Roma 1984, p. 72.

[44] v. per le “regolarità” del politico la presentazione di G. Miglio alla raccolta di saggi di Schmitt Categorie del politico, Bologna 1972 p. 13; quanto alle costanti, alle leggi dell’agire sociale, basti ricordare, tra i molti, Comte, per cui la società ha una realtà naturale ed originaria: gli uomini vivono in società perché questo fa parte della loro natura sociale; la società ha proprie leggi di funzionamento; la sociologia che la studia si divide in statica sociale, che costruisce la teoria dell’ordine; e in dinamica che sviluppa la dottrina del progresso. “La liberté véritable se trouve partout inhérente et subordonnée à l’ordre, tant humain qu’extérieur”; infatti “si la liberté humaine consistait à ne suivre aucune loi, elle serait encore plus immorale qu’absurde, comme rendant impossible un régime quelconque, individuel ou collectif” in Catéchisme positiviste(I parte, IV colloquio).

[45] Sul concetto di necessità assoluta e necessità relativa (conseguente alle scelte politiche fondamentali v. supra nota 42.

[46] v. articoli di Riccardo Guastini “Sostiene Baldassarre” e Antonio Baldassarre “Una risposta a Guastini” – reperibili in rete.

[47] La distinzione tra enunciati di principio e norme giuridiche, spesso all’attenzione della dottrina contemporanea, in rapporto alla tesi esposta non fa differenza, perché sia i principi che le norme sono ricavate dal diritto statuito.

[48] V. per un’esposizione delle tesi v. F. Suarez,  Tractatus de legibus ac Deo legislatore, trad. it a cura di O. De Bertolis, Padova 2008, pp. 81 ss.

[49] “Per gli argomenti che abbiamo addotti a favore di queste opinioni sembrano persuaderci che l’uno o l’altro atto, di intelletto e di volontà, sono necessari per la legge, e perciò può sostenersi la terza tesi, che dice che la legge si forma e si compone con un atto di entrambe le potenze; perché in queste cose morali non si richiede di ottenere un’unità perfetta e semplice ma accade che una realtà, che moralmente è una, può constare di molte realtà fisicamente distinte, e che si aiutano l’una con l’altra”  op. cit. pag. 96

[50] v. Guastini op. cit.

[51] v. “Non posso evitare di aggiungere a questi ragionamenti un’osservazione, che forse può avere una certa importanza: In ogni sistema morale che ho finora incontrato, ho sempre trovato che l’autore procede per un po’ nel consueto modo di ragionare, e afferma l’esistenza di Dio o si esprime riguardo alle questioni umane; e poi improvvisamente trovo una certa sorpresa che, invece delle abituali copule è e non è incontro soltanto proposizioni connesse con un deve, o non deve. Questo cambiamento è impercettibile; ma è comunque molto importante. Infatti, dato che questo deve, o non deve, esprime una certa nuova relazione o affermazione, è necessario che siano osservati e spiegati; e allo stesso tempo è necessario spiegare ciò che sembra del tutto inconcepibile, ossia che questa nuova relazione possa costituire una deduzione da altre relazioni completamente diverse” A treatise on human nature, trad. it. di P. Guglielmoni, Milano 2005, p. 329 (i corsivi sono nostri)

[52] V. General theory of law and state,  trad. it. Milano 1952 pp. 8 ss; v. anche Reine Rechtslehre, trad. it. Torino 1968. pp. 86 ss, ma è rivisitata in altre opere

[53] e prosegue “Si può distinguere sostanzialmente il diritto dalla morale soltanto se – come si è dimostrato in precedenza – si concepisce il diritto come ordinamento coercitivo, cioè come ordinamento normativo, che tenta di generare un certo comportamento umano, ricollegando al comportamento opposto un atto coercitivo dell’organizzazione sociale, mentre la morale è un ordinamento sociale che non prevede alcuna di tali sanzioni, un ordinamento, cioè, le cui sanzioni consistono soltanto nell’approvazione del comportamento conforme alla norma e nella disapprovazione del comportamento in contrasto con essa¸un ordinamento in cui non si prende quindi neppure in considerazione la possibilità di applicare la coazione fisica. V. Reine Rechtslehre, trad. it. cit. di Mario Losano p. 78. Anche nella  Reine rechtslehre Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik trad, it. Torino 1952 p. 66 Kelsen scrive “Con la categoria formale del dovere o della norma si è riusciti però soltanto a determinare il genere prossimo, non già la differenza specifica del diritto. La teoria del diritto del secolo XIX è stata in genere concorde nel ritenere che la norma giuridica fosse una norma coattiva…In questo punto la dottrina pura del diritto continua la tradizione della teoria positivistica del diritto del secolo XIX. Essa sostiene che in una proposizione giuridica, a una determinata condizione è unito come conseguenza l’atto coattivo dello Stato, cioè la pena e l’esecuzione forzata civile e amministrativa…Ciò fa si che un determinato comportamento umano valga come illecito, come delitto nel più ampio senso della parola, non è affatto una qualità immanente e neppure un rapporto con una norma meta-giuridica, con un valore morale, cioè trascendente il diritto positivo, ma è solo ed esclusivamente il fatto che nella proposizione giuridica tale comportamento sia posto come condizione di una conseguenza specifica e che l’ordinamento giuridico positivo reagisca a questo comportamento come un atto coattivo”. (I corsivi dei passi citati sono nostri)

[54] V. sul punto, la tesi, già ricordata  (Trattato politico  Torino 1958 pp. 204-206) di Spinoza: “Se, per esempio, io dico che ho diritto di fare quel che voglio di questo tavolo, non intendo, perbacco, di poter far sì che esso mangi erba; così, pur dicendo che gli uomini non sono liberi di sé, ma soggetti allo Stato, non intendiamo che essi perdano la natura umana e ne assumano un’altra, o che lo Stato abbia diritto di far sì che gli uomini volino… esistono  certe condizioni, poste le quali si impone si impone ai sudditi il rispetto e l’ossequio verso lo Stato, e tolte le quali, non soltanto vengono meno il rispetto e l’ossequio, ma lo Stato stesso cessa di esistere: Per conservare la propria autorità, insomma, lo Stato deve badare che non gli vengano meno i motivi del rispetto e dell’ossequio, altrimenti perde il suo essere di Stato”

[55] Si nota la differenza tra la tesi qui sostenuta e quella di Bobbio dal seguente passo del filosofo torinese, sempre sulla “natura delle cose” in cui introduce (nella propria concezione del diritto) la “legge di Hume” “La natura delle cose è una nozione che nasce dunque dall’esigenza di garantire l’oggettività della regola giuridica. Il problema è appunto se esiste effettivamente questo rapporto fra la natura del fatto e la regola. A nostro avviso la nozione di natura delle cose è inficiata da quella che in filosofia morale è detta la fallacia naturalistica, cioè dall’illusoria convinzione di poter ricavare dalla constatazione di una certa realtà (il che è un giudizio di fatto) una regola di condotta (la quale implica un giudizio di valore): il sofisma della dottrina della natura delle cose, come del giunaturalismo, è il pretendere di ricavare un giudizio di valore da un giudizio di fatto”, op. ult. cit., p. 268. In effetti qua non si ricava una scelta (giudizio di valore) da un giudizio di fatto, in quanto l’atto (il fatto) non è giuridico perché non coercibile, non efficace, non applicabile. Semmai la scelta del legislatore è nel disciplinare gli effetti giuridici di un atto privo delle possibilità concrete di applicazione. In tal senso, ad esempio, il c.c. sanziona di nullità il tutto, prescrivendo alle parti (e al giudice) la restituzione delle prestazioni eseguite in “esecuzione” del contratto ad oggetto impossibile (art. 2033 c.c.) in applicazione del principio quod nullum est nullum producit effectum. In realtà il legislatore nel caso di prestazione impossibile non costituisce un precetto, ma riconosce ciò che risulta dal giudizio di fatto, statuendo solo sullo statuibile (la conseguenza dell’atto nullo).

[56] Per le norme d’ “applicazione” il discorso – che qui non interessa – è diverso.

[57] v. Studi per una teoria generale del diritto Torino 1970 pp. 143 ss.

[58] e prosegue “ Sia in Kelsen sia in Olivecrona e in Ross l’idea di coazione è strettamente connessa all’idea di forza (fisica): “il dire che l’ordinamento giuridico è un ordinamento coattivo (coercive order, Zwangsordnung) equivale a dire che contiene regole per l’esercizio della forza, anzi è caratterizzato da queste. Ciò presuppone che l’unico espediente cui ricorre un ordinamento giuridico per rendere efficaci le norme primarie sia il ricorso della forza”, precisando successivamente “Mi pare si possa proporre, per le nullità, questa interpretazione: quando si dice che l’ordinamento giuridico è un ordinamento coattivo, caratterizzato dall’esistenza di norme che regolano l’esercizio della forza, si vuol dire, come si è visto, che l’ordinamento giuridico stabilisce le condizioni (norme sostanziali) in base alle quali l’intervento della forza diventa lecito, e le modalità (norme procedurali) con cui questo intervento deve essere esercitato”… “ in altre parole, il giudizio di illiceità, presupposto di una pena (o un’esecuzione forzata, pone le condizioni per l’intervento di una forza vendicatrice (o riparatrice); il giudizio di invalidità presupposto della nullità, pone le condizioni per il non intervento di una forza protettrice” – p. 134-137 (i corsivi sono nostri). Bobbio non prende in considerazione le sanzioni  premiali   anch’esse “coercibili”, che tratta Carnelutti.

[59] È da considerare la tesi di G. B. Vico sul rapporto tra verità e certezza “Verum gignit mentis cum rerum ordine conformatio; certum gignit conscientia dubitandi secura. Ea autem conformatio cum ipso ordine rerum est et dictur «ratio». Quare, si alternus est ordo rerum, ratio est aeterna, ex qua verum aeternum est: sin ordo rerum non semper, non ubique, non omnibus constet, tunc in rebus cognitionis ratio probabilis, in rebus actionis ratio verisimilis erit” De uno universi juris principio et fine uno (proloquium); e nel cap. LXXXII “Ratio autem legis eidem dat esse verum- Verum autem est proprium ac perpetuum adiunctum iuris necessarii.

Certum est pars veri.

Certum vero est proprium et perpetuum iuris voluntarii attributum, sub aliqua tamen veri parte, ut Ulpianus nuper ius civile definivit”.

[60] Wirtschaft und Gesellschaft trad. it. vol. I. Milano 1980 pp. 212-213 (i corsivi sono nostri).

[61] In realtà si è scambiata quella che è un’aspirazione, per quanto condivisibile e diffusa, con la realtà (e la necessità) dell’esistenza politica e sociale. Per cui se è possibile (ed auspicabile) regolare molti istituti e materie, è impossibile (e dannoso) credere di poter regolare tutto. Cioè arrivando ad una giuridificazione di (tutta) la vita.

[62] Op. cit. p. 48-49

[63] Lineamenti di filosofia del diritto  § 260

[64] v. B. Croce Etica e politica Bari 1931 p.185.

[65] Ovvero come sostiene Santi Romano criticando l’opinione fondata sull’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 20-26 agosto 1789 “l’errore dell’opinione di cui si è fatto cenno è evidente: Ogni Stato è per definizione, come si vedrà meglio in seguito è coevo all’esistente (politicamente),  un ordinamento giuridico, e non si può immaginare, quindi, in nessuna sua forma fuori del diritto: Qualunque sia il suo governo e qualunque sia il giudizio che se ne potrà dare dal punto di vista politico, esso non può non avere una costituzione e questa non può non essere giuridica, perché costituzione significa niente altro che ordinamento costituzionale. Uno Stato «non costituito» in un modo o in un altro, bene o male, non può avere neppure un principio di esistenza, come non esiste un individuo senza almeno le parti principali del corpo. Il diritto costituzionale del c.d. Stato assoluto o dispotico sarà poco sviluppato; si concreterà in una sola istituzione fondamentale, quella del suo sovrano; sarà regolato da poche norme che, esagerandone e stilizzandone la figura tipica, si potranno ridurre magari soltanto a quella che dichiarerà l’appartenenza del sovrano di tutti i poteri; ma almeno questa norma non potrà mancare e non essere giuridica, se su di essa si impernia per intero quell’ordinamento giuridico quale è sempre, per sua  indeclinabile natura, lo Stato”. Diritto Costituzionale generale Milano 1947, p. 3

[66] Il giovane Hegel esercitava la sua (amara) ironia su come il rispetto per il diritto contribuisse ad indebolire l’Impero nel momento in cui aumentava l’aggressività della Francia rivoluzionaria “è un elemento, se pur non razionale, almeno in certa misura nobile del carattere tedesco il fatto che il diritto in generale, comunque siano costituiti il suo fondamento o le sue conseguenze, è per esso qualcosa di sacro. Se pur la Germania in quanto Stato proprio e indipendente, di cui ha tutta l’apparenza, e la nazione tedesca in quanto popolo, va del tutto in rovina, tuttavia procura sempre una vista piacevole il notare tra gli spiriti distruttori il rispetto per il diritto” v. Verfassung Deutschlands, trad. it. Bari 1960, p. 21.

[67] V. l’opinione di Santi Romano “Come la consuetudine, anzi a maggior ragione, data la sua maggiore energia, la necessità è fonte autonoma del diritto, superiore alla legge. Essa può implicare la materiale e assoluta impossibilità di applicare, in certe condizioni, le leggi vigenti e, in questo senso, può dirsi che «necessitas non habet legem». Può anche implicare l’imprescindibile esigenza di agire secondo nuove norme da essa determinate e, in questo senso, come dice un altro comune aforisma, la necessità fa legge. In ogni caso «salus rei publicae suprema lex»” in Diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 92.

[68] Ricordiamo la concezione di Bobbio “interpretare significa risalire dal segno (signum) alla cosa significata (designatum), cioè comprendere il significato del segno individuando la cosa da esso indicata. Ora, il linguaggio umano (parlato o scritto) è un complesso di segni” op. ult. cit., p. 325.

[69] In effetti, a seguire la teoria di Rousseau sulla volontà generale, essa è tale perché lo è nell’oggetto e nell’essenza, perché “deve partire da tutti per applicarsi a tutti” (Du conrtact social, II, 4). Nella concezione dell’eguaglianza come (mera) isonomia passiva, c’è una visione estremamente riduttiva del principio d’uguaglianza, visto solo quale assoggettamento alla legge (e al comando), tralasciando la partecipazione alla funzione di “governo” (in senso lato).

[70] V. op. ult. cit., p. 92. Bobbio sostiene (v. prima) che “in realtà non è il fatto in sé che impone la regola, ma il fine che si vuole raggiungere: è il fine che fa valutare in un certo modo i fatti; nel nostro caso il fine è di garantire la sicurezza del traffico e la possibilità per tutti gli automobilisti di poter parcheggiare. Ma nell’individuazione del fine interviene necessariamente un giudizio (o una serie di giudizi) di valoreop. ult. cit., p. 269. A parte le pendenti considerazioni, qua non si nega che vi sia un giudizio di valore, ma che non vi sia quello di fatto (assertivo). Sul punto ritorniamo in seguito.

[71] Sul punto v. Baldassarre op. cit.: “Nell’ipotesi del giudizio di costituzionalità, invece, colui che interpreta/applica le norme (costituzionali) procede in modo diametralmente inverso. Innanzitutto, tutte le norme costituzionali, incluse quelle che appaiono come le più particolari (ad es. la necessità di convertire i decreti-legge entro 60 giorni dalla loro emanazione), vanno comprese nel significato loro attribuibile in modo da riferirle ai principi supremi e ai valori ultimi della costituzione (come sentiti e vissuti dalla comunità politica). Così, per riprendere l’esempio fatto, il termine di conversione dei decreti-legge entro 60 giorni è stato inteso restrittivamente, cioè nel senso di precludere la possibilità di reiterazione del medesimo decreto, solo a partire da una sentenza del 1996, in quanto solo se così interpretato il principio della conversione è stato ritenuto più coerente con il principio della democrazia parlamentare, come allora, e non prima, sentito e condiviso.  In secondo luogo,  dai principi costituzionali non vengono «dedotte» le «regole» per decidere il giudizio, per il semplice motivo che la questione di costituzionalità viene decisa, non in base a una (presunta) «regola», ma in base a «principi»: in genere, il giudice della costituzionalità procede a una «riduzione» della «regola» legislativa (= generale e astratta) oggetto del giudizio ai principi o ai valori ad essa sottesi, al fine di valutare la compatibilità/incompatibilità di questi ultimi con il quadro dei principi e dei valori costituzionali ritenuti rilevanti rispetto alla «regola» contestata”.

[72] E anche altro. È per lo più dimenticato che la legge sui pieni poteri al governo del Reich del 23 marzo 1933 –legge di modifica (abolizione) della costituzione di Weimar, e quindi necessitante della maggioranza qualificata – raggiunse il quorum grazie all’opportuno scioglimento del PC tedesco e l’arresto di una dozzina di deputati dell’opposizione.

[73] E proseguiva “Questo movimento o ha un fondamento, che lo determina, o non ne ha. Se non ne avesse, questo movimento, sarebbe casuale e ad ogni momento potrebbe anche essere diverso. Ma se ha un fondamento, come dicono gli scienziati, cioè la forza d’attrazione del sole, con ciò è già determinato il fatto che questo movimento dei pianeti è determinato e regolato attraverso il fondamento, la forza d’attrazione del sole, in modo tale da non potere essere altro rispetto a ciò che è. Nella rappresentazione del fondamento vi è quindi l’idea di una necessità attiva, di una forza effettiva, che con necessità rende ciò che è fondato su di essa ciò che esso è. Se quindi la costituzione rappresenta la legge fondamentale di un paese, o essa è così – e qui albeggia forse per noi la prima luce, miei Signori, – un qualcosa puramente ancora da determinare in modo più preciso ovvero, come abbiamo intanto scoperto, una forza attiva che rende obbligatoriamente  tutte le altre leggi e istituzioni giuridiche che vengono varate in questo paese ciò che sono” v. trad. it. di Clemente Forte in Behemoth n. 20, p. 6 (i corsivi sono nostri).

[74] Die Diktatur (App. I) trad. it. di A. Caracciolo, Roma 2006, p. 283 (i corsivi sono nostri).

[75] E’ da notare che nell’evoluzione dell’istituto francese dell’état de siège, alle misure straordinarie non è connessa alcuna alterazione (dei rapporti) tra organi costituzionali. v. M Hauriou Prècis de droit costitutionnel.  Paris 1929 p. 705 ss

[76] In questo senso quelle libertà – normalmente inquadrate, come da rubrica, tra i rapporti civili (diritti dell’uomo, libertà liberali) – sono anche condizioni per l’esercizio dei diritti (politici) del cittadino di partecipare alla formazione della volontà pubblica, e così della forma democratica di governo. Tra i (non pochi) esempi delle conseguenze di una mancata garanzia dell’esercizio di questi, ricordiamo il decreto per la protezione del popolo e dello Stato (del 28/02/1933) proposto da Hitler e sottoscritto da Hindenburg, pochi giorni prima delle elezioni del 05/03/1933 (e i risultati di queste), v. William Shirer, Storia del Terzo Reich, vol. I, Torino 1990, p. 303 ss. A tale proposito Hauriou, citando Thiers, ritiene che questi aveva ragione a sostenere che la libertà di stampa, riunione, d’associazione (e d’insegnamento) nella società moderna erano delle libertà necessarie: in questo caso il necessario era inteso sia rispetto al principio (politico) democratico sia a quello liberale di protezione delle libertà (della società civile rispetto allo Stato)  Prècis de droit constitutionnel. Paris 1929 p. 711

[77] v. Suarez op. cit., p. 118 ss.. Suarez distingue – sulla base del pensiero di Aristotele e S. Tommaso – tra comunità sufficienti a se stesse (perfette) e non sufficienti a se stesse: “È detta perfetta nel suo genere quella che è capace di governo politico, che, in quanto è tale, è detta sufficiente in questo ordine; come disse Aristotele e S. Tommaso, che la città è una comunità perfetta… Ma è detta «comunità imperfetta» non in relazione ad altre, ma in senso assoluto, la casa privata, alla quale presiede il padre di famiglia, come ha notato S. Tommaso, e Soto, e sopra è preso da Aristotele.

Il motivo è che quella comunità non è sufficiente a se stessa, come ora sarà spiegato… E così tale comunità, parlando di per sé e in termini propri, non è retta da una propria potestà di giurisdizione, ma da [una potestà che si può chiamare] dominativa… Per cui [la casa privata] non possiede perfetta unità o un potere uniforme, e nemmeno partecipa propriamente di un governo [che possa essere detto] propriamente politico, e così quella comunità è detta assolutamente imperfetta” (i corsivi sono nostri).

[78] “Si possono distinguere le istituzioni perfette, che sono sempre originarie e che possono essere o semplici o complesse, dalle imperfette, che cioè si appoggiano ad altre istituzioni rispetto alle quali sono, non soltanto presupposte, ma coordinate o subordinate”, L’ordinamento giuridico, rist. Firenze 1962, p. 143; v. anche p. 38 “Ci sono istituzioni che s’affermano perfette, che bastano, almeno fondamentalmente, a se medesime, che hanno pienezza di mezzi per conseguire scopi che sono loro esclusivi. Ce ne sono altre imperfette o meno perfette, che si appoggiano a istituzioni diverse”.

[79] V. “Qui non è possibile discutere a fondo il criterio che distingue lo Stato dalle altre associazioni. Dalla particolare posizione dello Stato derivano comunque due elementi. In primo luogo, la sua stabilità non viene garantita, come per le altre associazioni, da un potere situato all’esterno; il suo funzionamento non viene mantenuto da un motore o da un giudice esterni alla sua struttura, non viene sorretto da una causa o da una garanzia eteronome, ma si integra, grazie alla legislatività oggettiva rispetto al valore, esclusivamente in un sistema di integrazione gravitante su se stessoVerfassung und verfassungsrecht trad. it., Milano 1988, p. 156; nella voce Integration, scritta da Smend per Evangelisches Staatlexikon e riportato nel volume citato, chiarisce: “Ciò è inesatto poiché, per quanto anche le altre formazioni sociali, dal matrimonio o dalle associazioni private sino alle più complesse comunità politiche e apolitiche, necessitino di una continua e sempre nuova inclusione degli uomini che le sorreggono, dispongono tuttavia di garanzia di stabilità del tutto differenti da quelle statali. Quelle comunità e associazioni vengono garantite dalla dissoluzione interna perlopiù mediante poteri esterni: il giudice, la coercizione amministrativa, sino agli strumenti della coercizione sociale e a quelli della politica estera e del diritto internazionale. Per lo Stato, in quanto si pone semplicemente come compito, non vi sono affatto tali garanzie esterne: esso riposa in ultima istanza non sul diritto o sul suo potere di fatto, ma sulla sempre nuova e volontaria adesione dei suoi appartenenti”, op. cit., p. 286 (i corsivi sono nostri)..

Nella diversità delle concezioni, ambedue i giuristi citati concordano nel fatto che diversamente da altre (associazioni e) comunità umane lo Stato (e quindi la costituzione statale) devono trovare all’interno dell’ordinamento gli strumenti di garanzia dello stesso. Questo perché, come scriveva de Bonald, riguardo alla costituzione della monarchia francese “la nazione era costituita, e così ben costituita, che essa non ha mai chiesto a nessuna nazione vicina la protezione della sua costituzione”. Il che è un’applicazione della regola (hobbesiana) del protego ergo obligo; e in termini giuridici (e politici), significa la perdita (o la restrizione) dell’indipendenza dello Stato.

[80] Principii di diritto costituzionale generale, cit., p. 57 (i corsivi sono nostri).

[81] E prosegue “A tale metodo sfugge il fatto che si tratta della legge vitale di un essere concreto e precisamente, dal momento che tale essere concreto non è una statua ma un processo di vita unitario che riproduce di continuo questa realtà,  della legge della sua integrazione… ogni singolo aspetto del diritto dello Stato è comprensibile non in se stesso e isolatamente, ma come momento della connessione di senso da realizzare, cioè della totalità funzionale dell’integrazioneop. cit., pp. 216-217. Così “non si può comprendere la giustizia costituzionale in analogia con la giustizia civile o amministrativa. La tutela delle minoranze parlamentari da parte del giudice costituzionale è una cosa diversa dalla tutela di un gruppo di azionisti, con i loro interessi individuali, da parte di un giudice civile, in quanto deve servire alla ricomposizione integrativa delle parti”, op. cit., p. 218 (i corsivi sono nostri).

[82] Così C. Schmitt op. ult. cit., p. 18.

[83] Op. cit., § 286.E anche, a seguire Hauriou – per le costituzioni liberali, dal complesso e dall’assetto generale, che fa sì che  la “libertà si protegga da sola” v. Précis. cit. pag. 709.

[84] Hegel, op. cit., § 333; e anche, per conflitti acuti, all’interno dello Stato, come sosteneva Locke, che quindi non restava altro che l’appello al cielo, cioè la rivoluzione.

[85] È chiaro che nel caso di grave crisi politica la “garanzia della costituzione” dipende ancor più da circostanze meramente “fattuali”, come il consenso dei governati e la determinazione dei governanti. Ossia sulla legittimità, l’autorità, la virtù – intesa nel senso classico di Machiavelli. Anche l’assetto istituzionale (i poteri costituiti), in tali casi, diviene quasi evanescente.

[86] A tale proposito è opportuno ricordare l’introduzione di Roberto de Mattei al “Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche e delle altre istituzioni umane” da tale opera di de Maistre è “un saggio polemico rivolto contro una determinata categoria di avversari, i fabbricatori di costituzioni a tavolino, gli autori di artificiose costruzioni intellettuali, gli ideologi rivoluzionari che, disprezzando la lezione della storia e dell’esperienza, avevano preteso elaborare un modello puramente astratto delle strutture sociali e politiche” (op. cit., p. 12).

LA CRISI DELL’ESTETICA TRASCENDENTALE OCCIDENTALE: 2. IL TEMPO, di Pierluigi Fagan

LA CRISI DELL’ESTETICA TRASCENDENTALE OCCIDENTALE: 2. IL TEMPO.

Detto della coordinata spazio (qui), volgiamoci a quella tempo. Sul tempo si danno almeno tre famiglie di concetti. La prima è quella naturale che scompone il continuo del tempo nel tempo che è stato (passato), che è (presente) che sarà (futuro) e loro relazioni. La seconda è quella della metrica di scorrimento se cioè il tempo accelera e decelera come nostra impressione anche per via del fatto che ciò vi accade salta o si svolge in continuità. La terza è il rapporto che abbiamo col tempo, se cioè lo trascorriamo passivamente o decidiamo unendoci con qualcuno a forzarne lo svolgimento, se abbiamo un piano da costruire con una valutazione tattico-strategica di ciò che serve per raggiungere i nostri obiettivi declinati nella tripartizione “a breve-medio-lungo tempo” o nell’improbabile magica aspettativa del “non c’è-c’è”.

Il primo ambito, quello della naturale tripartizione, vede l’occidentale non importa se globalista, nazionale o locale, ristretto al presente. L’occidentale americano non ha neanche davvero un passato, è storicamente giovane e il suo tempo storico è una unica sequenza di espansione costante costellata di molte vittorie e qualche sconfitta non decisiva, che non fa piacere ricordare ed è meglio prontamente archiviare. Più in generale, è proprio della mentalità anglosassone svalutare la tradizione, non avere profondità temporale dal momento che prima del moderno erano nei bassifondi periferici del medioevo e prima ancora erano semplicemente “barbari”. In più, visto che si sono trovati a dominare la storia occidentale e poi mondiale, non hanno certo buoni motivi per volgersi ad altri tempi che non i contingenti di cui s’illudono di aver trovato la formula magica ed eterna del potere, del dominio, del benessere e del successo. Altresì, schiacciati nel presentismo, così come non hanno piacere ad osservare quello che di diverso è successo prima (se non rintracciandovi improbabili tracce dei presupposti che poi si sono inverati nel loro splendido “qui ed ora”), o altrove, non prevedono possa succedere dell’altro nel futuro. La loro scelta di affidarsi con fede fondamentalista al mercato ordinatore di tutto e tutti, non li spinge a notare altre forme che sono state così come altre forme che potrebbero essere. Nemici giurati del costruttivismo che non sia svolto nelle segrete stanze dalle loro élite dominanti (una lunga, questa sì, tradizione di club, circoli, società segrete, consorterie e massoneria proprio da loro rifondata tra fine XVII ed inizi XVIII secolo), il loro unico piano per il futuro è come prorogare un nuovo secolo anglosassone. La sopravalutazione del presunto oggettivismo scientifico a scapito del più ampio relativismo storico, atteggiamento che impatta anche sull’organizzazione dei nostri saperi, conoscenze ed insegnamenti, rinforza questa auto-reclusione nel presente.

Quanto a gli occidentali europei le cose sono ben diverse per quanto anche qui agisca un motore schizofrenogeno che in quanto sistema secondario del primario anglosassone tenta di condividere questo presentismo negazionista, mentre di sua natura, l’occidentale europeo non può certo far finta di non aver un passato. Altresì, conviene all’occidentale europeo non pensare al futuro se non come neutra ripetizione lineare del presente, non conviene per un ovvio motivo: nessuno dotato di buonsenso potrebbe profetare per gli europei un futuro altrettanto o più brillante dell’attuale o del recente passato. Infatti, il futuro diventa un rimossso che converge con la paura da smarrimento nei vari spazi di cui abbiamo parlato prima, accrescendo la paura e quindi cancellando proprio lo spazio mentale che dovrebbe occuparsi di questo problematico “come sarà?”. Se provate a parlare a gli europei dei prossimi trenta anni, cosa che stanno facendo più o meno tutti quei popoli del mondo in cui fioriscono “piani&strategie”, “vision”, “long view”[1] ed altri tentativi di pre-visione e relativa programmazione, vi guarderanno smarriti anche perché, popolazione sempre più anziana, è ovvio che del futuro abbiano una visione breve e non piacevole. Tra l’altro, ulteriore motore schizofrenogeno sul piano individuale, le società europee sempre più anziane, rimangono centrate sull’idolatria di una giovinezza che non c’è più, ma del resto la sofferenza dell’inadeguatezza è propedeutica e vendere jeans, creme, palestre e sedute di varie terapie riabilitanti chissà poi a cosa.

Ci sono poi altri motivi per non guardare indietro. Chi scrive è da tempo convinto che l’atteggiamento europeo nei confronti della nostra storia della prima metà del Novecento (i due conflitti mondiali e tutto ciò che li ha accompagnai nel loro svolgersi e negli effetti di lungo periodo) sarebbe da ri-analizzare ad ampio spettro. Quell’inglorioso pezzo di storia è stato fin troppo normalizzato, considerato pagina buia ma “naturale” della storia della nostra civiltà. Leggendo come altri popoli giudicano quello che è successo in Europa in quei cinquanta anni, senza entrare nel merito di questo o quella nazione, ideologia, dinamica ma come esito finale e mostruoso di secoli di feroce e mai risolta competizione interna, si può riacquisire una mente ingenua e pulita che rimane giustamente attonita nel constatare il tragico fallimento di una intera forma di civilizzazione, un vero e proprio collasso su cui noi abbiamo transitato con troppa fretta di mettercelo alle spalle.

Purtroppo, l’oscuramento della storia, permette anche di slegare l’attuale sistema del modo di stare al mondo occidentale, proprio dalla composizione delle cause e ragioni che l’hanno reso possibile. Se non ha tempo indietro, non avrà quindi neanche problemi col tempo in avanti e si potrà essenzializzare ad esempio la sua formula economica con acclusa teologia della mano invisibile, dimenticandosi velieri, cannoni, schiavi, furti, massacri, esproprio, feroce dominazione, imperialismi, colonialismi, egoismi, distruzione naturale e culturale e tutto il resto. Quando proprio non si può far a meno di prender atto di tutto ciò, la furba mossa è quella di ascrivere questi fatti al registro morale “sì certo c’è stato anche molto male, anche gratuito e da censurare”, dice lo storico europeo in un soprassalto etico sapendo quanto poco sia importante il giudizio etico nella propria cultura ed in fondo, nella storia stessa. Certa storiografia anglosassone, ultimamente ha presentato una interpretazione che si potrebbe chiamare “Impero per caso”. -L’impero per caso- è il tentativo di rendere accessorio tutto ciò che si racconta in storia, l’imperialismo ed il colonialismo sono censurabili epifenomeni, non voluti, non necessari, un “ci è scappato di mano”, potevamo evitarcelo.  Ascrivendo questi fatti storici al registro morale o a quello addirittura del casuale ed accessorio, si evita di comprendere il necessario ruolo funzionale che hanno altresì svolto. La Rivoluzione industriale s’è fatta col cotone ma il cotone non cresce in Gran Bretagna, il libero mercato non si è espanso per fascino ma si è fatto strada con le cannoniere, buona parte della nostra evoluzione tecno-scientifica è stata trainata del militare con assai spesso un ruolo diretto o indiretto decisivo dell’investimento statale. Quindi, si cerca di dimostra che il nostro modo di stare al mondo potrà continuare a prosperare anche ora che non è più possibile comportarsi come ci siamo comportati in passato.

L’occidentale globalista embedded nella cultura anglosassone quindi, è tutto fuso nel presente, rimuove il passato, presuppone che il futuro sarà un presente allungato. L’occidentale europeo sospeso tra nazione e mercato comune, inorridisce all’idea di precipitare indietro al suo pieno essere nazionale ma non ha più la pallida idea di come andare avanti nel sogno unionista. L’occidentale locale può ricordare nostalgicamente qualche decennio appena trascorso, l’ottimismo felice degli anni ’90, l’edonismo auto indulgente  degli anni ’80, l’impegno politico e culturale degli anni ’70, il keynesismo miracoloso degli anni ’60, ma è subito richiamato dal problematico “qui ed ora”, mentre e sul piano individuale e su quello pubblico e sociale, evita come la peste il farsi domande sul domani. Gli occidentali hanno diverse concezioni dello spazio ma una sola del tempo: il presente. Dovrebbe essere il contrario.

E veniamo alla metrica di scorrimento del e nel tempo. Tutti gli occidentali si trovano in una doppia percezione -per l’ennesima volta- schizofrenogena. Da una parte è evidente a tutti l’impressione che il tempo, ovvero i fenomeni che lo abitano, sta accelerando continuativamente. La semplice sequenza di fatti nuovi e soprattutto l’impressione siano inaspettati come rileviamo dalle fonti informative ormai permanentemente “stupite” dal 2001 in poi, conferma la condizione. Rovesci politici, geopolitici, della gobalizzazione, ambientali, di costume, migratori, della condizione sociale sono percepiti direttamente da tutti ed il fatto che l’informazione non li razionalizzi o li razionalizzi in forme sempre più surreali, crea anche maggior ansia inconscia. Solo recentissimamente, qualcuno ha cominciato a razionalizzare l’idea ci si trovi in tempi del tutto nuovi, “rivoluzionari”. Per lungo tempo recente, le élite hanno fatto finta di niente negando l’eccezionalità dei fenomeni per non allarmare il proprio ambiente sociale e politico, tutto procedeva più o meno come al solito e quando era meno e non più, era per caso o era colpa di qualcuno che non seguiva lo spartito. Questa doppia condizione che percepisce la inusuale velocità dei cambiamenti  da una parte e dall’altra la nega e ne rimuove le cause per non prendersi la briga di mettere in discussione i propri quadri di riferimento, smarrisce e va a sommarsi alle altre “fonti della paura”. La doppia posizione di coloro che pubblicamente esagerano la paura e di coloro che la negano, acuisce lo smarrimento e costoro, da una parte contribuiscono in vario modo ad aumentarla comunque (non c’è niente di più pauroso che avere paura e non sapere di cosa, evolutivamente -i centri mentali della paura- si sono affermati proprio per pre-allertare, ma se non compare subito l’oggetto lo stato diventa permanente, si trasforma in ansia ed avvelena il cervello, quindi la mente) e dall’altra ne danno sfogo nel reciproco insulto. Nessuno sembra volersi occupare delle fonti della paura, tutti sembrano semplicemente dediti a sfogare la tensione attaccando l’altro ed il come e se la percepisce o se la spiega. Naturalmente, essere sprofondati nel presentismo di cui abbiamo prima parlato come condizione occidentale generale e percepire che questo eterno presente non solo non sarà eterno ma è in moto accelerato continuo, verso dove e chissà per quanto, questa percezione senza spiegazione, smarrisce nel profondo.

In tutto ciò, agisce la nostra idea generale del fluire del tempo che storicamente si divide tra continuisti e saltazionisti.  I continuisti risalgono indietro nel tempo come tradizione concettuale, al “natura non facit saltus” che spazia dai latini ai medioevali fino al Leibniz, i saltazionisti sono cresciuti di numero prima nel XIX secolo a seguito della comparsa del concetto di “rivoluzione” e poi corroborati dalla natura appunto saltazionista dei quanti di Planck-Einstein. Particolarmente fuorviante risulta sia questa contrapposizione ed in effetti, la contrapposizione stessa è falsata dalla scarsa conoscenza sistemica della realtà. E’ certo che gli imput naturali tanto quanto sociali, fluiscono continuativamente a basso regime in modalità diciamo grossomodo continuata, è che però si vanno ad accumulare dentro sistemi che resistono al cambiamento fino a quando non possono più assorbire imput ed allora subiscono una riformulazione “rivoluzionaria”. E’ del resto proprio questo accumulo con salto finale che notò Planck per primo, per cui alla domanda “quanto accumulo porta al salto?” decise di rispondere un “tot” ovvero un “quantum”. La natura quantistica della fisica è saltazionista perché è sistemica, così funzionano anche i neuroni del cervello e tutte le cose che sono sistemi (praticamente tutto) quindi anche le società.

Non è che i francesi si sono svegliati nel 1789 e tutto ad un tratto “oplà!” hanno trovato opportuno e necessario fare la rivoluzione. La Francia è stata da sempre storicamente allacciata in un sistema che potremmo definire binario col suo competitore naturale inglese. Gli inglesi la “rivoluzione” che portava al vertice le nuove classi imprenditoriali a scapito del dominio aristocratico nobiliare ma soprattutto monarchico, con successiva entrata e sviluppo del moderno, l’avevano fatta esattamente un secolo prima ed anche prima visto che il primo salto con Cromwell era prematuro e non era perfettamente riuscito, ma in quella direzione andava. I francesi erano un secolo in ritardo su gli inglesi ed i russi quando decisero di cambiare diventando sovietici, più di due quanto a modernizzazione. Così il cumulo di innovazioni e modi produttivi, nonché accumulo di capitale e materie prime e potere coloniale prima ed imperiale poi, per la rivoluzione industriale. Oggi molti dilatano anche i tempi della rivoluzione scientifica del XVII secolo, retrocedendo ad un lungo accumulo di approcci proto-scientifici ben precedenti. Questa aspetto della “lunga durata” dei fenomeni è invisibile all’immagine di mondo occidentale, anche perché non ragiona per sistemi.

Altresì, non notando il lungo tempo dell’accumulo di energia che fa la maturazione dell’evento, ci si illude che il cambiamento sociale possa esser fatto intenzionalmente con un “oplà!”, un prima nero e poi bianco, un prima negativo poi positivo, una magia. Così c’è un sacco di gente, pure di buone intenzioni, che immagina possibile e desiderabile questo cambiamento magico, repentino, profondo tanto quanto istantaneo e quindi è lì da un secolo e passa che coltiva la sua speranza rivoluzionaria come altri coltivarono la religione del cargo. Oltre alla inutilità fideistica di questa speranza, c’è il più grave disimpegno all’impegno della modificazione continua che è l’unica che per accumulo può portare davvero ad un nuovo sistema. Inutile  fare guerriglia sociale e politica giorno per giorno ed anno per anno su tutto spettro delle strutture che configurano il sistema sociale, meglio aspettare il giorno in cui marceremo uniti e compatti con la pelle d’oca e canti a voce alta, alla presa del Palazzo d’Inverno! Inutile costruire mattone su mattone la nuova utopia concreta, meglio criticare il mondo reale, chissà che non decida di trasformarsi a chiacchiere. La storia si fa in continuo è la cinematografia ed il mito che cattura l’eroico momento discreto. Così, l’occidentale confuso ed allarmato, sta piano piano capendo che il mondo non è più quello di una volta, non capisce ancora bene il perché visto che non è uso rintracciare i percorsi di lunga durata e l’accumulo di fatti nuovi, non sa neanche dove cercarli se all’interno o all’esterno, non saprebbe neanche come leggerli visto che al massima coltiva una delle tante discipline che leggono la realtà complessa scomponendola in frammenti irrelati, “sente” di esser capitato in una “rivoluzione” e quindi eccolo invocare una rivoluzione adattativa che pensa alla portata di qualche formuletta come il trasformarsi in una belva darwiniana (per l’interpretazione distorta di darwinismo che alcuni pensatori anglosassoni hanno dato del concetto che -per chi scrive- è una teoria dell’adattamento) chiamata a lottare nel tutti contro tutti e vinca il migliore, cioè il più forte ed il più cattivo! Merito, è l’unico paradigma che ci può salvare! Poi magari qualcuno potrebbe notare che in natura sono pochissimi gli individui che si adattano da soli, è tutto un branchi, banchi, stormi, sciami, gruppi, foreste, ecologie, cioè sistemi ma che importa, l’immagine di mondo prescrive altro e tutto si deve rivoluzionare, meno i sistemi di pensiero, quelli hanno una eternità garantita. Peccato che tener fisso il sistema di pensiero in tempi di cambiamento profondo e rapido, sia esattamente la ricetta infallibile per fallire l’adattamento.

Siamo così impercettibilmente scivolati dalle concezioni del tempo a priori alla valutazione dell’utilizzo attivo del tempo per  modificare noi e il circostante onde ripristinare condizioni di adattamento, ossia di sopravvivenza se non di esistenza qualitativa. Il dramma dell’occidentale capitato in tempi di forte discontinuità è la somma del presentismo che nega al contempo il ruolo lentamente costruttivo del passato e l’interrogativo del futuro mai così problematico come quando ti accorgi che questa volta non è come sempre è stato e quindi sarà, con tutto il resto.

Il “resto” è la prima lunga fase negazionista stessero avvenendo fatti di eccezionale discontinuità, poi riduzione dei fatti ai loro portatori per cui l’11 settembre è colpa della spectre islamista, il crollo del 2008-2009 è eccesso famelico dei banco-finanziari, Brexit è ridotta a populismo, Trump a gli hacker russi, nuove destre europee ad ignoranza, nuovo governo italiano somma di populismo-hacker-ignoranti, infine la pur debole accettazione del fatto che i fatti eccezionali sono troppi e troppo fitti (ed oltretutto iniziati già quantomeno nel 2001) per negare l’eccezionalità del momento con conseguente affidamento fideistico chi da una parte alle promesse della nuova rivoluzione dell’informazione con destini finali di singolarità (?), chi a sospirare su qualche soluzione salvifica che sia la sovranità, l’uscita della gabbia d’acciaio euro-pea, la liberazione dal neo-ordo-liberismo, Putin ed un nuovo afflato euroasiatico, il ripristino del keynesismo che fu, “forse Trump non è così male come lo disegnano” ed altri generi di conforto.

Presentismo e questa matassa di reazioni compulsive, fanno la condizione occidentale che è poco definire “smarrita”. Smarrita forse sul piano intellettuale, su quello sociale e politico quando c’è pressione minacciosa ed eccessiva, c’è paura e dalla paura si esce in genere con una pronta reazione che tenta di sedarla non importa come. Sappiamo poi bene come va a finire questo “non importa come”. Le élite lungamente negazioniste per le quali questo era il migliore dei mondi possibili, oggi sono sfidate da nuove élite che si candidano a gestire il marasma con iniezioni di ordine e qualche soluzione semplice e prontamente ansiolitica oltreché ovviamente sbagliata. Per il resto il livello del dibattito pubblico è percorso da domande paurose con risposte sempre più impaurite. Demografia? Ma non sarai mica maltusiano? Geopolitica? Ma non sarai mica nazista? Ambiente? Ma non sarai mica pauperista? Stato che in Europa è concetto correlato (almeno fino ad oggi) a nazione? Ma non sarai  rossobruno o liberal-cosmopolita? Migranti? Ma non sarai mica razzista o buonista? Nuove tecnologie mangia lavoro? Ma non sarai mica in favore del reddito di sudditanza, non hai studiato Schumpeter, sarai mica luddista? Democrazia? Ancora con la democrazia, la democrazia è morta o popolo e leader o élite o restringere il voto ai competenti o socialismo (o barbarie), alto vs basso. Soprattutto, nessuno ha la benché minima voglia e possibilità, forse capacità, di fare una analisi integrata della situazione e delle prospettive anche perché ci siamo tranquillamente fatti carcerare nelle specializzazioni disciplinari e quindi chi mai è in grado di restituire l’intero di cui provar a predicare il vero? In più, senza profondità storica e capacità previsionale e convinti o che il mondo sarà come è sempre stato o salterà improvvisamente ad un nuovo livello chissà quale-come-e-perché, mancanti del tutto dei concetti di strategia, tattica, costruzione per tentativi ed errori con obiettivi di minima, media e massima dilazionati nel tempo, indisponibilità a seppellire i sistemi di pensiero del XIX secolo a cui siamo tutti ancora così legati, impossibilità a tenere assieme globale-nazionale-locale, una élite intellettuale non meno smarrita del suo popolo (ed impaurita di aver perso il proprio vantaggio di lucidità nella comprensione e nel giudizio, per cui un po’ isterica) ed un popolo che ha paura e s’incattivisce giorno dopo giorno, la condizione occidentale sembra disperata.

CONCLUSIONE

Questa analisi non ha finalità altra che rintracciare gli apriori del nostro stato confusionale. L’indagine appena tratteggiata ci dice non che la nostra estetica trascendentale di tipo kantiano ha problemi, spazio e tempo sono apriori neutri riempiti poi a posteriori di forme, sono queste forme culturali che ereditiamo dal nostro percorso storico e culturale il problema.

Avendo perso la natura politica delle nostre forme di vita associata, ci siamo fatti disperdere in concezioni di diversa estensione dello spazio dovute al dominio dell’ordinatore economico (il mercato) e ciò ha e sta portando le nostre società a vivere simultaneamente diverse e non componibili concezioni dello spazio. La polis non è più e non più neanche solo la nazione, per alcuni è il sub continente, per altro addirittura l’universo-mondo. Il ricentraggio del pensiero non può che imporre in via prioritaria il definire daccapo che sistema siamo, quale sia il contratto sociale che non può esser più quello del XVI o del XIX secolo, in che spazio è ambientato, quali i suoi confini che per quanto permeabili, aperti e chiusi al contempo, ne segnano il profilo, quindi l’esistenza e sopratutto le condizioni di possibilità future. Questa ri-definizione si deve fare come sempre è stata fatta dalla storia stessa, mediando la consistenza interna della comunità e la condizione adattiva che deve cercare col suo circostante. Non è una opzione liberamente disponibile nel catalogo delle idee e delle forme a piacere e non può rispondere a sistemi ideologici ereditati dal passato, non si formula la domanda giusta se partiamo da “come funziona meglio il mercato?” o da “come è possibile l’irrinunciabile democrazia?”. La domanda giusta è una mediazione, il giusto mezzo tra i due punti del politico e dell’economico, dando il potere ordinatore al politico, ma sopratutto : quanti e quali dobbiamo essere, organizzati come, impegnati in cosa, per darci condizioni di possibilità adattative per i prossimi decenni? Questa la domanda spaziale.

Altresì, la coordinata tempo, se taglia verticalmente la risposta che dovremmo dare alla domanda spaziale fissandola sull’oggi, dovrà necessariamente sia rispondere alle ipotesi sul futuro che siamo giù in grado di fare (ad esempio, le previsioni demografiche almeno al 2050, sono chiare e abbastanza solide, così le proiezioni di crescita e peso economico), sia misurarsi con la geo-storia che rende possibile alcune cose ed altre no. Oltre naturalmente a tener conto che non siamo più in modalità caccia e raccolta, il pianeta è sempre più affollato e l’ambiente ci pone limitazioni insormontabili e rendimenti decrescenti. Se riuscissimo a darci una comune convenzione temporale, una presa d’atto diffusa che siamo capitati in tempi storici di grande e profondo cambiamento e che il cambiamento ha la doppia natura continuata e saltazionista, potremmo meglio condividere una stessa coordinata del tempo da incrociare con quella dello spazio.

Ma la discontinuità storica e culturale più profonda è l’ultima: dovremmo volgerci tutti ad una postura costruzionista e non farci vivere dagli eventi. Tale postura è inedita per noi e specificatamente vietata da Agostino d’Ippona a Friederich Hayek, dalla religione (ci pensa Dio) come dall’economia (ci pensa il Mercato), i due ordinatori storici  che hanno governato l’ultimo millennio, i due Dioscuri occidentali dietro i quali si son nascoste le élite che hanno dominato e dominano i tempi e gli spazi dell’Occidente, prima medioevale, poi moderno. Questa è ancora la condizione socialmente, politicamente e culturalmente passiva fotografata da Marx nell’XI Tesi su Feuerebach, tesi che invocava il necessario ed intenzionale ribaltamento copernicano a cui abbiamo dato scarso seguito. Prometeo venne condannato per l’ardire costruzionista, noi oggi non abbiamo altra scelta che liberarlo dall’incatenamento, ricordandoci l’etimologia del suo nome oltre che l’esempio del suo ardire: colui che riflette prima. C’è molto lavoro da fare per il pensiero occidentale a cominciare proprio dalla revisione degli apriori spazio-temporali e c’è molto mondo da cambiare se non vogliamo patire le pene del lento e doloroso disfacimento a cui son condannate le stirpi di cent’anni di solitudine: non avere una seconda opportunità sulla terra[2].

(2/2)

[1] La Cina ha varato un programma industriale 2025 ma anche quello delle vie della seta e più in generale le varie strategie di condivisione del “futuro moderatamente prospero, condiviso ed armonioso” in una visione che Xi Jinping chiama il sogno cinese ovvero “the great rejuvenation of the Chinese nation”. Ecco un programma di ringiovanimento per una civiltà che ha più di cinquemila anni, mi pare un segnale sintomatico.

[2] G.G.Marquez, Cent’anni di solitudine, Feltrinelli, Milano 1988

Putin mette a nudo la distopia americana, di Paul Craig Roberts

Putin mette a nudo la distopia americana

Paul Craig Roberts

Dobbiamo concederlo a Putin. Lui è il migliore che ci sia. Notare la facilità con cui ha regolato il confronto con quell’idiota di Chris Wallace. https://www.rt.com/usa/433447-putin-interview-fox-wallace/

Cosa c’è che non va nel sistema dei media statunitensi il quale non riesce a produrre un secondo giornalista competente che faccia compagnia a Tucker Carlson? Perché i restanti giornalisti americani, come Chris Hedges, ora sono nei media alternativi?

Tutto quello che posso dire, e Putin probabilmente lo sa già, è che c’è qualcosa di più importante in corso di presstitute che tiene in ostaggio la relazione tra la Russia e gli Stati Uniti rispetto alla lotta politica interna tra il Partito Democratico e il Presidente Trump. Non è solo che i media corrotti degli Stati Uniti servono come propagandisti per il Partito Democratico contro il Presidente Trump. Gli uffici stampa stanno servendo l’interesse del complesso militare / di sicurezza, che ha interessi di proprietà nei media statunitensi altamente concentrati, per mantenere la Russia posizionata come il nemico che giustifica l’enorme budget di $ 1.000 miliardi del complesso militare / di sicurezza. Senza il “nemico russo”, qual è la giustificazione di uno spreco di denaro quando così tanti bisogni reali sono sottofinanziati e non finanziati?

In altre parole, i media americani non sono solo stupidi, sono corrotti oltre ogni misura.

Oggi alle 12:40, ora di New York, la NPR aveva una raccolta di trump-basher che facevano del loro meglio per impedire all’appuntamento di Trump / Putin di produrre una normalizzazione delle relazioni tra i due governi. Ad esempio, come sa ogni persona informata, la comunità dei servizi segreti degli Stati Uniti non ha certamente concluso che la Russia ha interferito nelle elezioni presidenziali. Questa conclusione è stata raggiunta da alcuni membri selezionati di 3 delle 16 agenzie di intelligence ed è stata espressa non come un fatto provato ma come “altamente probabile”. In altre parole, non era altro che un parere orchestrato dato da agenti cooperativi i quali senza dubbio si aspettano delle promozioni in cambio.

Nonostante questo fatto noto, la squadra di propaganda dell’NPR ha detto che Trump aveva creduto a Putin piuttosto che a un rapporto unanime di intelligence dei fatti degli Stati Uniti che provava le interferenze della Russia. I denigratori di Trump-basher hanno detto che aveva creduto al “teppista Putin” e non ai suoi stessi esperti americani. I sostenitori NPR di Trump hanno continuato a confrontare il “raccordo con Putin” con l’opinione di Trump che la violenza di Charlottesville fosse stata alimentata da entrambe le parti. I criticoni di NPR hanno equiparato la dichiarazione fattuale di Trump sulla violenza da entrambe le parti con lo “schierarsi con i neonazisti” a Charlottesville.

Il punto di NPR è che Trump si schiera con nazisti e teppisti russi ed è contro gli americani.

Quello che Trump disse in effetti riguardo alle presunte interferenze elettorali era che se c’era o non c’era interferenza elettorale, essa non aveva alcun effetto come hanno ammesso Comey e Rosenstein, e non assume la stessa importanza della possibilità che due potenze nucleari vadano d’accordo ed evitino le tensioni in grado di provocare una guerra nucleare. Si potrebbe pensare che persino un idiota NPR possa capirlo.

Il trionfo su NPR è andato avanti per tutto il giorno mescolato a un occasionale attacco della Russia per aver ucciso civili siriani in attacchi aerei contro i jihadisti supportati da Washington che, secondo le istruzioni di Washington, cercano di aggrapparsi a un po ‘di Siria in modo che Washington e Israele possono ricominciare la guerra. Ci si meraviglia della stupidità di coloro che danno soldi all’NPR in modo che l’NPR possa mentirgli tutto il giorno. Come George Orwell aveva previsto, le persone sono più a loro agio con le bugie del Grande Fratello che con la verità.

Una volta la NPR era una voce alternativa, ma è stata rotta dal regime di George W. Bush ed è diventata completamente corrotta. NPR continua a fingere di essere “ascoltatore supportato”, ma in realtà ora è una stazione commerciale proprio come ogni altra stazione commerciale. NPR cerca di mascherare questo fatto usando “con il supporto di” per introdurre gli annunci a pagamento dalle aziende.

“Con il sostegno di” è come NPR ha tradizionalmente riconosciuto i suoi donatori filantropici. La vera domanda è: come fa NPR a mantenere il suo status di esenzione fiscale 501c3 quando vende pubblicità commerciale? Non c’è bisogno che NPR si preoccupi. Finché l’entità presstitute serve l’élite dominante a spese della verità, manterrà il suo stato di esenzione fiscale illegale.

È ovvio che le incriminazioni dei 12 ufficiali dei servizi segreti russi immediatamente precedenti alla riunione di Trump / Putin avevano lo scopo di minare l’incontro e di offrire ai giornalisti maggiori opportunità per i colpi più disonesti ai danni del presidente Trump. Ai miei tempi, i giornalisti sarebbero stati abbastanza intelligenti e avrebbero avuto abbastanza integrità per capirlo. Ma i comunicati stampa occidentali non hanno né intelligenza né integrità.

Quante prove vuoi? Ecco la stampa di Michelle Goldberg che scrive sul New York Times che “Trump mostra al mondo che è il lacchè di Putin.” La giornalista dice di essere “sconcertata dalla prestazione servile e schifosa del presidente americano.” Apparentemente Goldberg pensa che Trump avrebbe dovuto picchiare Putin.

Il Washington Post, in passato un giornale, ora uno scherzo malato, sosteneva che “Trump si era appena colluso con la Russia. Apertamente.”

Non sono solo i presstitutes. Sono i cosiddetti esperti, come Richard Haass, presidente del Consiglio per le relazioni estere, un gruppo auto-importante, finanziato dal complesso militare / di sicurezza, che presiede la politica estera americana. Haass, aderendo alla linea ufficiale di sicurezza / sicurezza, ha dichiarato erroneamente: “L’ordine internazionale per 4 secoli si è basato sulla non interferenza negli affari interni degli altri e sul rispetto della sovranità. La Russia ha violato questa norma sequestrando la Crimea e interferendo con le elezioni americane del 2016. Dobbiamo affrontare la Russia di Putin come lo stato canaglia che è “.

Di cosa sta parlando Haass? Quale rispetto per la sovranità ha Washington? Sicuramente Haass ha familiarità con la dottrina neoconservatrice dominante dell’egemonia mondiale degli Stati Uniti. Sicuramente Haass sa che i problemi orchestrati con Iraq, Libia, Siria, Corea del Nord, Russia e Cina sono dovuti al risentimento di Washington per la loro sovranità. Qual è l’unilateralismo di Washington sul fatto che Washington rispetti la sovranità dei paesi? Perché Washington vuole un mondo unipolare se Washington rispetta la sovranità di altri paesi? È precisamente l’insistenza della Russia su un mondo multipolare che la pone nel mirino della propaganda. Se Washington rispetta la sovranità, perché Washington rovescia i paesi che ce l’hanno? Quando Washington accusa la Russia di essere una minaccia per l’ordine mondiale, significa che la Russia è una minaccia per l’ordine mondiale di Washington. Haass sta dimostrando la sua idiozia o la sua corruzione?

Come i media americani hanno definitivamente dimostrato non hanno indipendenza ma sono un portavoce dei democratici e degli interessi delle multinazionali; dovrebbero essere nazionalizzati. I media americani sono così compromessi che la nazionalizzazione sarebbe un miglioramento.

Anche l’industria degli armamenti dovrebbe essere nazionalizzata. Non solo è un potere più grande del governo eletto, ma è anche molto inefficiente. L’industria degli armamenti russi con una minima frazione del budget militare statunitense produce armi di gran lunga superiori. Come ha detto il presidente Eisenhower, un generale a cinque stelle, il complesso militare-industriale è una minaccia per la democrazia americana. Perché la feccia dei media è così preoccupata per l’inesistente interferenza russa quando il complesso militare / di sicurezza è così potente da poter realmente sostituirsi al governo eletto?

Ci fu un tempo in cui il Partito Repubblicano rappresentava gli interessi degli affari, e il Partito Democratico rappresentava gli interessi della classe operaia. Ciò ha tenuto l’America in equilibrio. Oggi non c’è equilibrio. Dal momento che con il regime di Clinton, l’uno per cento ricco è diventato molto più ricco, e il 99 per cento è diventato sempre più povero. La classe media è in serio declino.

I democratici hanno abbandonato la classe operaia, che i democratici ora liquidano come “Trump deplorables” e sostengono invece la divisione e l’odio di IdentityPolitics. In un momento in cui il popolo americano ha bisogno di unità per resistere a mire guerrafondaie e avidità, non c’è unità. Alle razze e ai sessi viene insegnato a odiarsi l’un l’altro. È ovunque tu guardi.

Rispetto all’America in cui sono nato, l’America di oggi è fragile e debole. L’unico sforzo per l’unità è creare unità che la Russia sia il nemico. È proprio come nel 1984 di George Orwell. In altri aspetti l’attuale distopia americana è peggiore di quella descritta da Orwell.

Cerca di trovare un’istituzione pubblica o privata americana che sia degna di rispetto, che sia onorevole, che rispetti la verità, che sia compassionevole e che cerchi la giustizia. Quello che trovi al posto della compassione e della richiesta di giustizia sono leggi che puniscono se critichi il genocidio israeliano dei palestinesi o perdi informazioni che mostrano i crimini commessi dal governo degli Stati Uniti. Con tutte le loro istituzioni corrotte, anche il popolo americano viene corrotto. La corruzione è ciò in cui i giovani sono nati. Non sanno niente di diverso. Che futuro si riserva per l’America?

Come possono la Russia, la Cina, l’Iran, la Corea del Nord raggiungere un compromesso con un governo che non conosce il significato della parola, un governo che richiede la sottomissione e quando la sottomissione non viene segue la distruzione come abbiamo imparato in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria e Yemen.

Chi sarebbe così sciocco da fidarsi di un accordo con Washington?

Invece di perseguire un accordo con Trump, che si sta preparando ad essere rimosso, Putin dovrebbe preparare la Russia alla guerra.

La guerra sta sicuramente arrivando.

LA CRISI DELL’ESTETICA TRASCENDENTALE OCCIDENTALE. 1. LO SPAZIO, di Pierluigi Fagan

LA CRISI DELL’ESTETICA TRASCENDENTALE OCCIDENTALE. 1. LO SPAZIO.

Kant, iniziava la sua indagine sulla ragione umana[1], premettendo l’analisi sulle forme della mente entro le quali si ambientano poi tutte le altre funzioni. Le chiamò -estetica-, dal greco àisthesis che significava “sensazione” e -trascendentale- ovvero che si danno prima ancora di farne esperienza, sono apriori, sono condizioni di possibilità per tutto il resto. L’ET quindi indagava proprio le forme a priori che permettono la collocazione mentale di quegli oggetti e fenomeni di cui poi facciamo esperienza sensibile. Queste forme, secondo il nostro, erano due: la spazio ed il tempo. Queste due forme sono nella nostra mente. Kant visse mezzo secolo prima di Darwin e quindi non poteva dedurre che queste forme fossero il portato dell’evoluzione, ma oggi sappiamo che sono presenti in noi perché ci danno la possibilità di entrare in relazione con ciò nel quale siamo immersi. Ai fini pratici, poco importa disquisire se queste forme esistono oggettivamente fuori di noi o meno, se esiste davvero lo spazio e proprio così come ci sembra che sia -sappiamo ad esempio, con la fisica quantistica, che dello spazio si danno altre forme oltre a quella che sperimentiamo sensibilmente- o se esiste il tempo, tema su cui molti fisici si appassionano in seguito ai portati della relatività einsteniana. Prendiamo atto che così funziona la nostra mente, “come se” davvero la realtà in cui siamo immersi rispondesse a queste forme che ci aiutano a percepirla per poi -in essa- orizzontarci ed agire.

Detto ciò sul piano generale ed impersonale, trasferiamoci al piano sociale ovvero storico e culturale. A priori le forme di spazio e tempo sono scenari del possibile, a posteriori queste forme pluri-possibili, hanno preso alcune inclinazioni discriminanti, alcune forme determinate dalla storia e dalla cultura che, cumulandosi, fanno la nostra mentalità. E’ quindi una corruzione del trascendentale puro, è un apriori in cui la forma pura si declina con quella acquisita nella storia. La nostra indagine tende a verificare come sono fatte e se risultano idonee ai tempi che viviamo in particolare relativamente alla società, come pensiamo lo spazio in cui si ambientano le nostre società, come pensiamo il loro tempo. Il nostro sospetto è che esse non solo non siano idonee ma pregiudichino ogni altra successiva forme di elaborazione del pensiero che possa aiutarci a cambiare le forme sociali in cui viviamo, stante che sono questi “veicoli adattativi” che usiamo da sempre per vivere nel mondo.  L’indagine quindi, tende e segnalare punti di riforma del pensiero o meglio delle forme in background da cui poi traiamo pensiero, pensiero che precede l’azione sul mondo, il fare cose.

LO SPAZIO.

Per l’occidentale[2], lo spazio è sempre stato un ritaglio più o meno esteso del mondo. Una stretta minoranza in genere facente parte dell’èlite delle varie società storiche, ha sempre avuto un concetto di spazio più grande rispetto alla massa legata al proprio circostante. Gli antichi navigatori cartaginesi, ad esempio, c’è chi sostiene siano addirittura arrivati in America. Sappiamo per certo che quelli fenici e greci conoscevano bene l’intero spazio mediterraneo e forse anche oltre. Gli storici come Erodoto e i geografi come Strabone e prima di loro Anassimandro ed Ecateo di Mileto, avevano conoscenza di grandi spazi. Gli stoici elaborarono il concetto di cosmopolitismo in uno spazio allargato e vasto detto ecumene. Alessandro si spinse fino all’India mentre le élite romane presidiavano buona parte dell’Europa e non solo, commerciando -via arabi e persiani- coi cinesi. Col Medioevo, inizialmente l’idea di spazio collassò di nuovo al circostante, poi riprese ad aprirsi prima all’ecumene cristiano che si espandeva all’Europa occidentale, poi alle coste musulmane del Mediterraneo. La fine del Medioevo è anche l’inizio delle grandi navigazioni con la “scoperta” del continente americano, il periplo dell’Africa e quindi l’accesso all’oceano Indiano ed all’Asia estrema per la via marina e per via terrestre prima con gli scopritori come Marco Polo, poi con lo sciame commerciale lungo le vie della seta. In seguito, colonie ed imperi hanno portato alcuni occidentali non solo ad avere percezione o conoscenza del vasto mondo, ma a viverlo. Nel moderno, se alcune élite cominciavano ad avere concezione spaziale del vasto mondo, altre rimanevano legate al nuovo spazio nazionale, mentre i più rimanevano legati al loro locale. Più o meno, questo primo assetto tripartito della concezione spaziale  della modernità, mondiale – nazionale – locale,  che corrisponde a tre precise fasce di popolazione, è quello che è rimasto sino ad oggi sebbene con qualificazioni diverse da quelle del XV-XVI° secolo.

Oggi abbiamo una élite pienamente cosmopolita ed anche ideologicamente mondialista. Questa élite però è in un certo senso figlia di quella del passato nel senso che nonostante Internet, i viaggi aerei, le vacanze esotiche e il funzionariato in qualche multinazionale o organizzazione internazionale, piuttosto che una salgariana e libresca conoscenza del mondo ad uso degli studiosi di varie discipline tra loro sempre rigidamente separate, considera il mondo ancora un territorio provvidenziale in cui andare sostanzialmente a far caccia e raccolta, sotto forma di “affari”. Pochissimi son coloro che hanno una più corretta percezione problematica di quanto il mondo sia diventato frazionato, denso e complesso, di quanto nuove siano per noi le dinamiche di feedback derivate dalla raggiunta finitezza dello spazio planetario,  dalla incombente finitezza di alcune risorse, dalle prime avvisaglie di una pronunciata sregolazione ambientale. Questa élite entusiasta del globale, ha quindi la più ampia percezione dello spazio ma con una risoluzione molto bassa e spesso, assai distorta. A partire dal non aver forse ancor ben compreso quali saranno i rapporti di massa, peso e forza tra l’Occidente precedentemente aristocrazia del mondo e questo Resto del Mondo che già lo sopravanza di quasi dieci volte demograficamente (erano solo tre volte, appena un secolo fa). Una distanza quantitativa molto più ampia che nel recente passato ed una distanza qualitativa in termini di performance di economia moderna che si è di molto ridotta, in alcuni casi annullata, in altri addirittura invertita.

A raggio più limitato abbiamo poi l’élite intermedia che verte sullo spazio nazionale/continentale ed essendo più politica dell’altra che è economica, rimane la più importante. Diversa è questa condizione intermedia per l’occidentale americano che è ambientato in uno stato molto grande e massivo che ha stabili rapporti di dominanza con il suo continente e nessun vicino competitivo e l’occidentale europeo. Questo è legato ad uno spazio storico di relativa omogeneità (la nazione è un concetto tipicamente europeo e che gli europei hanno imposto al tempo degli imperi e delle colonie al resto del mondo, con esiti assai problematici come in Africa, Asia e Medio Oriente), che già da tempo deve fare i conti con tre fatti.

Il primo è il tentativo di trovare una forma stabile di convivenza pacifica tra le nazioni europee storicamente dedite all’offesa/difesa reciproca. Questo primo fatto ha spinto gli europei a trovare un loro regolamento di relazione reciproca nel fatto economico -mercato comune- che ha poi portato al regolatore monetario -l’euro-. Tale soluzione apparve la migliore in tempi in cui l’Occidente sembrava aver davanti a sé un lungo periodo di egemonia mondiale e sostenute prospettive di crescita e buona salute economica, prospettiva che oggi non si dà più. Erano state provate altre vie inizialmente, come il progetto di difesa comune ma l’egoismo nazionale francese aveva fatto naufragare il tentativo come poi gli stessi francesi ed olandesi fecero nei referendum sulla ipotesi costituzionale comune. In pratica, nessuno mai si è sognato una vera evoluzione di fusione sovra-statale nel modello federale di cui si è più scritto che creduto, ognuno rimaneva nel suo spazio storico ma al contempo, faceva sistema economico comune con tutti gli altri. Se lo scambio economico tesse la trama interna al sistema nazional-europeista, il fattore geopolitico pone questioni diverse, ad esempio,  al fronte meridionale e orientale d’Europa. Il primo deve fare i conti di vicinato con gli afro-vicino asiatici,  il secondo con i russi un po’ euro-slavi ed un po’ asiatici. Il modello unionista era e rimane confederale con uno spazio politico nazionale per quanto attiene l’interno ed europeo per quanto attiene alle politiche confederali che sono solo politiche economiche, una moneta senza stato basata su un trattato (quindi a gestione rigida) ed una economia decisamente intrecciata. Tutti rimangono poi subalterni sul piano militare al capobranco occidentale americano nella NATO, la costruzione europea che ha esclusivo senso economico, è del tutto estranea ai problemi geopolitici. Ogni volta che si pongono questioni di politica estera, riemerge la natura nazionale di questo sistema indeciso a tutto che si spacca com’è ovvio che sia visto che non “un” soggetto, né sembra abbia seria intenzione ed anche possibilità di diventarlo.

Il secondo fatto discende da questa imperfetta costruzione in cui invero, le nazioni europee sembrano aver voluto superare von Clausewitz che leggeva la guerra come una continuazione in altre forme della politica, facendo dell’economia una sorta di guerra regolata che, dopo secoli, gli europei non possono o non vogliono più combattere in quanto tale. Questa postura tutta economicista e perdurantemente competitiva al suo interno porta le nazioni europee  ad orizzontarsi nel limitato raggio del sub-continente, laddove oggi il raggio  per tutti, su molte questioni, dovrebbe essere tendenzialmente il mondo. Così le nazioni europee, alcune nazioni europee con pedigree ex imperiale ed ex coloniale, nel Medio Oriente sono andate passivamente appresso al capobranco americano e in Africa hanno continuato a rubare e sfruttare salvo aprire interi corsi di studi che avrebbero dovuto analizzare la nuova condizione post-coloniale quando più che “post”, si era in una condizione “neo” coloniale. Com’è noto, se l’impero almeno obbliga il dominante a farsi carico dei problemi che tramano lo spazio che si domina, se la colonia obbliga almeno ad una presenza responsabile e partecipata dei problemi locali anche in ragione degli interessi locali dei propri coloni, l’atteggiamento neo-coloniale è puramente di caccia e raccolta, si va, si prende, ruba e sfrutta, si lascia la mancetta al corrotto guardiano locale e tanti saluti. Quindi, non solo non esiste una politica estera europea, non solo l’Europa rimane un sistema ibrido più a competizione interna regolata che cooperativo, ma le singole nazioni alimentano la propria forza continuando ad attingere con stile di rapina da un esterno che però non è più quello di un secolo fa.

Il terzo fatto, è più recente ed è relativo alla confusione che si sta ingenerando tra globale ed internazionale.  Dal momento che gli Stati Uniti sembrano voler dare il “rompete le fila” ovvero l’ognun per sé che tende a disintegrare il precedente sistema occidentale detto “atlantico”, i nani europei rimangono un po’ disorientati dal doversi prendere carico ognuno delle proprie responsabilità di relazione a cotanta complessità. Interessi, cultura e mentalità che son rimaste radicatamente nazionali per ogni stato europeo, mentalità che ha mosso ognuno a cercar di coltivare il proprio unilaterale interesse, pone i singoli stati di nuovo in competizione tra loro nel mentre scoprono le difficoltà della nuova competizione a spazio mondiale. Così gli euro-orientali sono tutti presi dai problemi di relazione duplice con i cugini occidentali tedeschi e con i russi, i tedeschi seguono la metrica mercantilista tanto in Europa che nel mondo curando il proprio “grande spazio” germano-scandinavo, i francesi curano le loro colonie africane, i britannici salutano la compagine per volgersi al loro ex Commonwealth, al Pacifico ed ovunque si possa piazzare il loro vantaggio comparato ormai ridotto alla banco-finanza e servizi annessi, gli scandinavi si preoccupano dei russi anche in visione del prossimo e già ampiamente annunciato conflitto dell’Artico, i mediterranei vanno in ordine sparso a fronteggiare i flussi migratori africani cercando si scaricare l’un sull’altro le incombenze. Qualcuno va a promuovere il proprio interesse nazionale a Mosca o a Pechino ma quasi di nascosto perché ufficialmente l’istituzione comune è ufficialmente allineata alla politica estera americana che vieta queste relazioni. Presi nella schizofrenica morsa bipolare della “sovranità liberista” (in cui l’un termine è politico e l’altro economico, da cui la natura contraddittoria della convivenza tra i due concetti), le nazioni europee navigano a vista osservando preoccupati la perdita del “benevolo” governatore americano, il ritorno dei loro mai sedati egoismi nazionali e la rottura della mai davvero creduta e praticata solidarietà europea, nonché la problematica torma di nuovi attori in esuberante crescita nel circostante mondo “grande e terribile”. In più, gli euro-occidentali invecchiano e presi singolarmente come stati, nessuno sembra aver sufficiente massa e quindi potenza per competere con l’ex amico americano, per non parlare dei giganti asiatici o con la pletora dei vivaci Paesi in via di emersione se non già sviluppati. Problemi sistemici come il collegamento est-ovest o sud-nord, rimangono fuori portata dello spazio trascendentale delle mentalità europee. Le élite nazionali dei vari paesi europei quindi, non solo vengono prese nella tenaglia tra un globale che il precedente sponsor americano sta ripudiando e il risorgente interno sovranismo nazionale, ma vedono anche la nuova problematica forma delle relazioni bilaterali alle quali non sanno come accedere partendo dalla base della loro eterogenea e litigiosa unione incompiuta (e non componibile) e la consistenza ormai poco più che relativa del loro singolo stato-nazione.

Se dunque i primi sono ancora convinti con entusiasta leggerezza che “tutto il Mondo è paese” ed i secondi si stanno rendendo conto che al di là dell’ubriacatura ideologica, ogni Paese è rimasto un mondo a sé, la maggioranza degli occidentali europei, i locali, è drammaticamente lontana da tutto ciò e rimane legata al proprio stretto specifico. Un locale sempre più strattonato dal continentale, dal geopolitico, dal geoeconomico e dal globale che non mostra più la faccia sorridente e ricca di doni della globalizzazione ingenua ma il volto rabbuiato ed a volte minaccioso della competizione planetaria, delle migrazioni indotte e naturali al contempo, delle ripercussioni del disordine ambientale ed ecologico, dell’erosione del lavoro e del potere d’acquisto, del problematico islam, della rottura dei quadri multilaterali, della pirateria banco-finanziaria, della imperscrutabile dinamica dei grandi player del gioco di tutti i giochi e della sostanziale impotenza della convenzione politica democratica. I locali hanno paura anche perché persi i vantaggi della posizione occidentale otto-novecentesca, in via di abbandono dalla tutorship americana, abbandonati a loro stessi dalle élite globaliste e da quelle nazionali ambiguamente poste un po’ di qui (per i necessari voti elettorali) ed un po’ di là (gli interessi del mercato europeo), si sentono soli là dove “la diritta via era smarrita”, il bosco si fa fitto e sta pure calando la notte.

Questi tre gruppi di occidentali hanno tre diverse visioni dello spazio, che accettano o rifiutano vicendevolmente e che abitano con divergenti visioni del mondo non sempre attinenti alle reali e concrete condizioni di possibilità. Il prematuro annuncio della fine delle ideologie, ha oscurato il fatto che ovviamente le ideologie come sistemi organizzati di pensiero (magari dette “visioni del mondo”) non possono morire perché sono consustanziali al funzionamento della mente umana. Ed hanno oscurato quanto siano forti quelle oggi presenti e quanto muovano da presupposti realistici o del tutto idealistici. Il conflitto quindi tra parti sociali (si sarebbero chiamate “classi” nel passato ancora recente), si riflette nel conflitto tra le loro ideologie e visioni del mondo di riferimento, ma è tutto da vedere quanto queste attengano alle reali condizioni del mondo o quanto si strutturino nel tentativo di prevalere le une sulle altre, conformandosi in opposizione negativa o critica a quelle avversarie. I richiami all’ineluttabilità della globalizzazione, l’idea degli utopici Stati Uniti d’Europa, il neo-sovranismo, il neo-nazionalismo, il vago cosmopolitismo, sembrano più conformarsi le une idee rispetto alle altre che rispetto a soggetti non precisati (individui? classi? nazioni? popoli? civiltà?) che debbono adattarsi ad un preciso spazio (regionale? nazionale? continentale? mondiale?), discendono tutti da presupposti che vengono discussi per i loro effetti non per la legittimità della loro fondazione.  In più non si capisce mai con chiarezza se stiamo parlando dell’economico, del politico o del culturale, se l’una dimensione che fa bene all’economico fa bene anche al politico o viceversa. Per l’occidentale, il concetto di spazio è fratturato, di una pluralità troppo eterogenea, legato a visioni del mondo costruite sull’interesse personale o di classe e non su quello di tipo sistemico sociale e comune, nonché difese le une contro le altre, più che basate su una realistica analisi della condizioni di possibilità e necessità adattiva.

L’elenco diagnostico quindi segna quattro punti: 1) stiamo perdendo lucidità sul concetto di sistema politico. Proveniamo dalla sequenza  poleis, comuni, città-stato, principati, regni, poi stati e poi stati-nazioni con qualche impero qui e là. Forse, come europei, dovremmo pensare a più grandi stati con più nazioni prima di saltare da 27 a 1, ma una nube confusiva fatta di vago cosmopolitismo, mondialismo, internazionalismo, europeismo fortemente idealistico ed assai poco pragmatico e realistico, idee che discendono da precise immagini di mondo (liberalismo mercatistico, internazionalismo comunista, universalismo cristiano che a volte convergono in un europeismo formale), sostituisce il cosa ci converrebbe e ci è possibile fare con il cosa è idealmente prescritto dalle stesse immagini di mondo; 2) tutti i passaggi storici precedentemente elencati si sono affermati in modo impersonale. A ritroso ci sembrano una sequenza ordinata, progressiva e logica ma nessuno invero ha deciso ex ante queste forme. Non abbiamo quindi tradizione di costruzione storica intenzionale, a partire dal fatto che pensiamo queste forme ignorando la relazione tra la demografia e lo stile di vita del sistema originario e le condizioni date da ambiente e vicini. Ora siamo a stato-nazione ma lo stato-nazione europeo ha senso adattivo oggi e domani visto che nasce cinque secoli fa in tutt’altro contesto? Non sapendo bene come la storia si è fatta, certo non sappiamo bene neanche come eventualmente farla ed inoltre siamo respinti da varie ideologia passivizzanti dall’idea di fare noi la storia; 3) il tutto prende la forma di una divaricazione irrisolvibile tra gli interessi economici delle singole parti che anelano al globale, gli interessi economici e politici sistemici che dovrebbero convergere nel sistema europeo post-nazionale che sembra impantanato in un irrisolvibile transizione tra la pletora degli stati nazionali e l’ipotesi federale che viene in aiuto logico ma che di per sé non ha sufficiente teorizzazione con destino pratico e l’interesse politico di tipo -debolmente- democratico che rimane ancorato alla dimensione nazionale stante che in linea teorica la democrazia presupporrebbe spazi ancora più ristretti; 4) dopo il doppio cataclisma novecentesco l’Europa sta per esser abbandonata dal tutor americano, ma se ciò richiederebbe di aver  maggiori responsabilità sul proprio destino, queste responsabilità -gli europei- non sono pronti a prendersele.

Il tutto può esser riassunto nella diagnosi stretta che sarebbe necessario ridiscutere che tipo di spazio ci servirebbe per adattarci al mondo che viene e che tipo di contratto sociale lo debba ordinare, una domanda che, per varie ragioni, tutti sembrano voler eludere.

Ma se la concezione dello spazio presenta problemi, cosa ne è dell’altra coordinata, il tempo?

(1/2)

= 0 =

[1] I. Kant, Critica della Ragion Pura, Bompiani, Milano, 2004 (o varie altre edizioni)

[2] Specifichiamo l’”occidentale”  perché è di esso che ci vogliamo occupare. L’orientale è un’altra generalizzazione con cui di solito s’intende il cinese (ma non l’indiano o il mongolo delle steppe o l’isolano nipponico). Brevemente, il cinese è convinto di essere lo spazio centrale del tutto e sul tempo coltiva tanto la profondità passata che l’ipotesi su un futuro che sente di dover prevedere e pianificare.

NOTE SU COSTITUZIONE E INTERPRETAZIONE COSTITUZIONALE , di Teodoro Klitsche de la Grange 

NOTE SU COSTITUZIONE E INTERPRETAZIONE COSTITUZIONALE

  1. E’ opinione generalmente condivisa che i testi costituzionali (spesso identificati con le costituzioni) sono interpretabili, ma che l’interpretazione di questi non è del tutto assimilabile a quella delle leggi ordinarie (o dei negozi, o dei provvedimenti).Questo sia per la presenza, in molte costituzioni, di disposizioni di principio, sia perché alcuni enunciati non hanno carattere normativo, ovvero per l’importanza dei “valori coessenziali alla forma di Stato”[1]; o anche per l’importanza delle “convenzioni costituzionali”, e ancor più di quelle che Mortati chiamava le “esigenze istituzionali latenti” ( e si potrebbe continuare).

A questo si aggiunge che certi tipi di interpretazione sono, per così dire di non agevole attivazione. Ad esempio, in una costituzione “rigida” l’interpretazione “autentica”, essendone competente il titolare del potere costituente il quale, a meno che non si voglia identificarlo- ma ciò non appare possibile in molti testi costituzionali, tra i quali quello italiano vigente- con quello deputato alla revisione costituzionale, non è istituzionalizzato in un organo[2]. Inoltre in tal caso non ne sarebbe previamente giuridificabile l’esercizio, atteso che vale la considerazione di Sieyès che il potere costituente (cioè, per l’abate, la Nazione) al contrario di quelli costituiti non necessita di alcuna legittimazione (né regolamentazione) “giuridica”; “alla volontà nazionale basta invece soltanto la propria realtà per essere sempre legittima. Essa è la fonte di ogni legalità”, cioè non è tenuta a osservare alcuna forma e/o procedimento giuridico previamente stabilito[3]. Inoltre anche le “tecniche” dell’interpretazione costituzionale sono oggetto di vaste discussioni, tendenti ad escluderne talune (come per l’interpretazione evolutiva, che in particolare nelle costituzioni rigide, può costituire violazione della competenza dell’organo di revisione costituzionale) o a ridimensionarne altre (come quella letterale).

Ma la differenza che appare più evidente e peculiare dell’interpretazione costituzionale rispetto a quella legislativa è quella relativa all’oggetto interpretato. Nell’interpretazione della legge o di un atto ci si trova dinanzi ad un testo; nel caso della legge anche ad un sistema legislativo, comunque – almeno in un sistema di diritto moderno continentale[4] -, coordinato o coordinabile e valutabile secondo criteri logico-sistematici.

Tuttavia nel caso della Costituzione non è chiaro, in primo luogo, cosa sia costituzione e cosa no. La dicotomia tra costituzione materiale e formale ne è uno degli esempi. In secondo luogo è controversa anche la distinzione tra costituzione e leggi costituzionali[5]. In terzo luogo vi sono disposizioni costituzionali non scritte; inoltre alcune leggi – come la legge elettorale per la scelta degli organi rappresentativi dello Stato – rientrano nella materia costituzionale, ma non sono “norme costituzionali” (nel senso della rigidità); o queste non sono proprio espresse in un testo, come le “esigenze istituzionali latenti”, ovvero, (come di seguito) i presupposti della costituzione, ovvero le decisioni costituzionali implicite. Appare decisivo il fatto quindi che altro é interpretare un testo (un atto, o un documento) altro è interpretare qualcosa che non lo è.

  1. All’inizio del periodo storico caratterizzato (tra l’altro) dal diffondersi delle costituzioni scritte, de Maistre stigmatizzava la convinzione di “credere che una costituzione politica potesse essere scritta e creata a priori, mentre ragione ed esperienza si uniscono per dimostrare che una costituzione è un’opera divina e che proprio ciò che vi è di più fondamentale e di più essenzialmente costituzionale nelle leggi di una nazione non potrebbe mai essere scritto.” [6]. E dopo aver illustrato gli argomenti a favore della propria tesi enuncia le proposizioni che ne conseguono: “1- Le radici delle costituzioni politiche esistono prima di ogni legge scritta.

2- Una legge costituzionale non è e non può essere che lo sviluppo o la sanzione di un diritto preesistente e non scritto.

3- Ciò che vi è di più essenziale, di più intrinsecamente costituzionale e di veramente fondamentale non è mai scritto, e neppure potrebbe esserlo, senza esporre a pericolo lo Stato.

4- La debolezza e la fragilità di una costituzione sono direttamente proporzionali proprio alla molteplicità degli articoli costituzionali scritti.”[7] E in questa convinzione ironizza su chi crede “che i legislatori siano uomini, le leggi pezzi di carta, e le nazioni possano essere costituite con l’inchiostro. Esse mostrano invece che la scrittura è costantemente un segno di debolezza, di ignoranza o di pericolo; che quanto più una istituzione è perfetta, meno scrive”[8] .

Smend partendo dal proprio peculiare concetto di costituzione afferma “La Costituzione è l’ordinamento giuridico dello Stato, più precisamente della vita in cui esso ha la sua realtà vitale, cioè del suo processo d’integrazione. Il senso di questo processo è la sempre nuova produzione della totalità di vita dello Stato, e la costituzione è la normazione tramite leggi (gesetzliche Normierung) di singoli aspetti di questo processo”[9]e, per cui “La corrente di vita politica spesso può giungere a questa riuscita per vie diverse e non propriamente costituzionali: in questo caso l’adempimento del compito d’integrazione, posto dalle leggi dello spirito rispetto al valore come dagli articoli della costituzione, corrisponderà, nonostante queste singole deviazioni, al senso della costituzione”; ne deriva che “Dunque il senso stesso della costituzione, la sua intenzione tendente non al particolare, ma alla totalità dello Stato e alla totalità del suo processo d’integrazione, non soltanto consente, ma addirittura esige quell’interpretazione elastica, suppletiva della costituzione, che è di gran lunga lontana da ogni altra interpretazione del diritto[10] (i corsivi sono nostri).

Schmitt, come noto, sostiene che “Un concetto di costituzione è possibile soltanto se costituzione e legge costituzionale vengono distinte. Non è ammissibile lo scomporre la costituzione prima in una molteplicità di singole leggi costituzionali e poi definire la legge costituzionale per qualche contrassegno esteriore o addirittura a seconda del metodo della sua revisione. In questo modo va perso un concetto essenziale della dottrina dello Stato e il concetto fondamentale della dottrina della costituzione”[11]; la costituzione nasce da un atto del potere costituente “Questo atto costituisce la forma e la specie dell’unità politica, la cui esistenza è presupposta. Non è che l’unità politica si forma proprio perché «è data una costituzione». La costituzione in senso positivo contiene soltanto la determinazione consapevole della forma speciale complessiva, per la quale l’unità politica si decide”; una costituzione “siffatta è una decisione consapevole che comporta di per sé e si dà essere da se stessa l’unità politica tramite il titolare del potere costituente”[12]; onde “La costituzione vige in forza della volontà politica esistente di chi la pone. Ogni specie di normazione giuridica, anche la normazione legislativo-costituzionale, presuppone come esistente una simile volontà”[13]. La conseguenza è che “ogni unità politica esistente ha il suo valore ed il suo «diritto all’esistenza» non nella giustezza o utilizzabilità delle norme, ma nella sua stessa esistenza. Ciò che esiste come entità politica, è – giuridicamente considerato – meritevole di esistere. Perciò il suo «diritto all’autoconservazione» è il presupposto di ogni ulteriore discussione; essa cerca di conservarsi soprattutto nella sua esistenza, «in suo esse perseverare» (Spinoza); essa protegge «la sua esistenza, la sua integrità, la sua sicurezza e la sua costituzione» – tutti i valori esistenziali”[14]. La costituzione è quindi una decisione, non una legge od una norma “Prima di ogni normazione c’è una decisione politica fondamentale del titolare del potere costituente, cioè in una democrazia del popolo, nella monarchia pura del monarca”[15]. Le disposizioni più importanti non sono norme: “frasi come: «Il popolo tedesco si è data questa costituzione»; «Il potere dello Stato emana dal popolo»; oppure «Il Reich tedesco è una repubblica», non sono leggi e quindi nemmeno leggi costituzionali. Non sono neppure una sorta di leggi-quadro o di principi fondamentali. Ma non per questo sono qualcosa di insignificante o di scarsa importanza. Sono più che leggi e normazioni, ossia le decisioni politiche concrete, che fissano la forma dell’esistenza politica del popolo tedesco e formano il presupposto fondamentale per tutte le altre normazioni, anche quelle delle leggi costituzionali. Tutto quello che c’è all’interno del Reich tedesco nella legalità e nella normatività, vale soltanto sulla base e nell’ambito di queste decisioni. Esse formano la sostanza della costituzione”[16] (i corsivi sono nostri).

L’errore della dottrina dello Stato è “non riconoscere l’essenza di queste decisioni e al di là della sensazione che c’è ancora qualcosa d’altro che una normazione legislativa parlare «conseguentemente» di «mere proclamazioni», «mere dichiarazioni» o addirittura «luoghi comuni». La costituzione stessa in questo modo si dissolve da ambo i lati in un nulla: da una parte alcune locuzioni più o meno di buon gusto, dall’altra una quantità di leggi disparate e caratterizzate esteriormente. Esattamente considerate, queste decisioni politiche fondamentali sono anche per una giurisprudenza positiva l’elemento decisivo e quello veramente positivo[17] (i corsivi sono nostri).

Kelsen, pur notoriamente sostenendo l’opportunità del Giudice (e della Giustizia) costituzionale, non si nascondeva le difficoltà relative, in particolare per le disposizioni di principio e quelle di “valore”. Scrive infatti che “Proprio nel fatto che la considerazione o l’incorporazione di questi principi, ai quali finora, nonostante ogni sforzo, non è stato possibile dare un contenuto piuttosto univoco, non hanno e non possono avere nel processo di creazione del diritto, per motivi indicati, il carattere di una applicazione del diritto in senso tecnico, si trova la risposta al problema se possono essere applicati da un organo di giustizia costituzionale” di guisa che “Proprio nel campo della giustizia costituzionale esse possono svolgere tuttavia un ruolo assai pericoloso: Le disposizioni costituzionali che invitano il legislatore a conformarsi alla giustizia, all’equità, all’uguaglianza etc. potrebbero essere infatti interpretate come direttive riguardanti il contenuto delle leggi: naturalmente a torto, giacchè sarebbe così solo se la costituzione stabilisse una direttiva precisa, se indicasse essa medesima un qualunque obiettivo criterio”[18]

Secondo Santi Romano “La costituzione, nel suo primo aspetto, meglio che come norma, si presenta come un edificio o un complesso di ingranaggi, nel quale si concreta la struttura fondamentale di quella istituzione che si chiama Stato e, quindi, lo stesso Stato. Ma, essendo lo Stato niente altro che un ordinamento giuridico, essa non è che la parte essenziale di quest’ultimo”[19]; “Costituzione in senso materiale e diritto costituzionale sono espressioni equivalenti. Costituzione, infatti, significa, come si è detto, assetto o ordinamento che determina la posizione, in sé e per sé e nei reciproci rapporti che ne derivano, dei vari elementi dello Stato, e, quindi, il suo funzionamento, l’attività, la linea di condotta per lo stesso Stato e per coloro che ne fanno parte o ne dipendono”[20] (i corsivi sono nostri).

Hauriou osservava che la Costituzione della Terza repubblica francese (cioè le tre leggi del 1875 e loro modifiche) non comprendeva che venticinque articoli, limitati alle sole attribuzioni e rapporti dei poteri pubblici, ma la questione più interessante era se si riducesse solo a quelli; in particolare perché non vi era alcun elemento di “costituzione sociale” la cui conseguenza logica era che “i diritti individuali dei francesi, non avrebbero più alcuna esistenza costituzionale”[21].

La conclusione che ne trae – come la grande maggioranza dei giuristi dell’epoca della Terza Repubblica – è che la dichiarazione dei diritti, o meglio la constitution sociale che essa delinea, è diritto vigente malgrado non fosse menzionata dalle leggi costituzionali del 1875.

Questa elencazione – ovviamente non esauriente – delle tesi sostenute da autorevoli giuristi mostra che l’oggetto dell’interpretazione costituzionale differisce radicalmente da quella dell’esegesi legislativa. Vuoi perché  l’oggetto non è una norma, o perché non è espressa in un testo, ovvero perché è controverso se, in casi determinati, sia riconducibile alla costituzione o alla materia costituzionale. Inoltre nella costituzione, nel potere costituente o nel processo costituente c’è preponderanza di elementi “fattuali”, esistenziali e storici (a secondo di come li si sia denominati) il cui connotato comune, al di la delle differenze, è di non essere riconducibili a un dover-essere, e comunque a fatti (giudiziariamente) non valutabili, ma che, al contrario, sono fondanti il diritto.

  1. Ancor più questi giudizi mostrano l’attualità delle considerazioni di de Maistre. Quanto alla prima, cioè che le radici delle costituzioni politiche esistono prima di ogni legge scritta, questa appare sia dal rapporto potere costituente/costituzione, in cui l’esistenza di quello è condizione (di esistenza) e validità di questa; e la cui validità si misura sulla legittimità, e in genere, sulla conformità all’ethos prevalente nella comunità. Quanto alle considerazioni sulla costituzione scritta, è vero che le disposizioni più intrinsecamente costituzionali e realmente fondamentali (per lo più) non sono scritte; e che a scriverle c’è rischio di esporre a pericolo lo Stato, perché ciò rende più fragile l’assetto costituzionale. E questo, si può aggiungere, anche per le costituzioni moderne (intendendo come tali quelle vigenti dal XIX secolo).

A rendere tuttora valida la tesi di de Maistre è la stessa rassegna – meramente esemplificativa – sopra ricordata. Infatti i giuristi (e altri) ivi ricordati, fanno riferimento, come fondamento delle carte costituzionali scritte, a qualcosa che non è scritto; e spesso, che non ha carattere giuridico. Lo stesso Kelsen, nel ritenere non esser possibile “accettare l’estremismo paradossale della celebre tesi di Lassalle che la costituzione di uno stato siano, in definitiva, l’esercito e i cannoni dei quali il governo dispone – giacché essa sottovaluta la forza delle idee e soprattutto delle idee giuridiche – bisogna tuttavia concedere che la costituzione esprime le forze politiche di un determinato popolo, è un documento che attesta la situazione di equilibrio relativo nella quale i gruppi in lotta per il potere permangono fino a nuovo ordine[22] (i corsivi sono nostri).

Nello stesso senso è stato individuato che “il principio normativo originante e giustificante un ordinamento, cioè la costituzione per eccellenza, consiste nella forza normativa della volontà politica, con applicazione realistica del principio di effettività”[23].

Dalla “forza normativa del fattuale” alla realtà della Nazione che ha la propria legittimità, fino ai cannoni di Lassalle è tutto un fondare la Costituzione scritta su elementi non scritti e neppure giuridici, nel senso di fondare il diritto senza essere (in larga misura) giustiziabili (Justiciables). Quel che parimenti interessa è che proprio tali elementi e presupposti non scritti sono quelli squisitamente costituzionali nel senso di co-stituire (cioè tenere insieme in modo stabile e ordinato) una comunità politica.

Quanto alla scrittura come elemento di debolezza e fragilità della Costituzione, occorre dire che è presupposto del ragionamento di molti giuristi, in particolare per quanto riguarda l’essenza dell’ordinamento (e quindi della costituzione), che l’esistenza di un testo scritto non sia necessario. Ciò che è essenziale (e insostituibile) per l’ordine politico e sociale è che vi sia un insieme organizzato di autorità, organi, uffici che assicurino l’unità dell’agire e la regolarità dei rapporti sociali. Come scrive Santi Romano “il diritto, prima di essere norma, prima di concernere un semplice rapporto o una serie di rapporti sociali, è organizzazione, struttura, posizione della stessa società in cui si svolge e che esso costituisce come unità, come ente per sé stante[24] (i corsivi sono nostri).

Ed è nota la tesi di Carré de Malberg che non condivideva la costruzione kelseniana di una gradazione di norme dato che non teneva conto della “gradazione” degli organi statali[25].

In realtà non è soltanto vero che necessario (e sufficiente) perché esista un ordinamento è che vi sia un sistema organizzato di rapporti di subordinazione e coordinazione (“la complessa e varia organizzazione dello Stato” di Santi Romano); e proprio perciò che questi rapporti e comandi siano espressi in norme è opportuno, ma non indispensabile all’esistenza dell’ordinamento; ma ne consegue – spesso – che il carattere normativo (e scritto), come sosteneva de Maistre, non è opportuno, anzi corre il rischio di rivelarsi dannoso (e insieme o no, anche ultroneo).

Anzi procedendo in modo discendente giù per li rami dell’ordinamento, si va dal non scritto allo scritto come dal non justiciable (nel senso sopra precisato) al justiciable.

Ad esempio, per il potere costituente, l’apice della piramide dell’ordinamento: si può solo sapere chi sia (il fatto è storico) e può essere designato nella costituzione (designazione che vale fin quando la Storia non ci ripensa), ma non tollera limiti giuridici né di essere tenuto all’osservanza di quelli; cioè non è giuridificabile né justiciable. Passando al sovrano (ove si acceda alle teorie che vedono anche in un potere costituito – e non solo nel costituente – i connotati della sovranità) buona parte degli atti dello stesso si fondano su mere autorizzazioni, indeterminate (o quasi del tutto) nei presupposti e nel contenuto (la dittatura commissaria del Presidente del Reich secondo Schmitt)[26].

Le stesse espressioni della Costituzione in relazione alle attribuzioni (ed alle limitazioni) degli organi “apicali” in particolare quelli a carattere rappresentativo sono ampie nel conferimento dei poteri, ma scarne e vaghe nell’indirizzare i contenuti (questo vale in particolare per le dichiarazioni cosiddette “programmatiche” delle costituzioni).

L’applicazione della norma ad un caso concreto, nel senso – variamente qualificato – della sussunzione di questo a quella (cioè il modo più “tipico” dell’applicazione/gradazione tra norme) è così realmente possibile solo per gli atti del potere giudiziario di uno Stato di diritto, en quelque façon nul come sosteneva Montesquieu e in forma più limitata per il potere governativo-amministrativo, tenuto conto della discrezionalità nell’an, nel quid o nel quomodo che compete in misura maggiore o minore, totale o parziale, alla pubblica amministrazione secondo le norme di conferimento (e regolanti l’esercizio) delle relative potestà.

Questa costante (dal non justiciable al justiciable), verificabile dall’esame del diritto e della legislazione (costituzionale e ordinaria), in particolare per i casi d’emergenza, corrisponde ad una esigenza razionale perché reale. Il diritto, come scriveva Jhering, serve alla vita[27]. Di qui la necessità sia di autorizzazioni indeterminate che di azioni di salvataggio per salvare l’esistenza delle comunità; come scrive Jhering “Il criterio per valutarle è insito nel loro successo. Dal foro del diritto, che le ha condannate, appellano al tribunale della storia e, fino ad oggi, questa istanza è sempre stata considerata da tutti i popoli come l’istanza suprema. La sentenza da essa pronunciata è decisiva e definitiva”[28]. Questo è il punto in cui “il diritto sfocia nella politica e nella storia”[29].

Alla stessa funzione adempie secondo Santi Romano la necessità “che implica un’esigenza esplicita ed impellente di bisogno sociale, che imponga una determinata condotta in difesa delle istituzioni vigenti” questa “acquista il carattere di una norma giuridica quando si esplica come un’esigenza non puramente razionale, ma istituzionale”[30].

La necessità, così, non solo è diritto non scritto, ma è connaturale all’istituzione, anzi all’essenza di questa.

L’indeterminatezza della “norma” e la sua gradazione inversa (dall’indeterminato al determinato) serve a salvaguardare proprio l’istituzione che ha il proprio fondamento non nel diritto, ma nella storia; e quindi, ai livelli apicali non è (o non è in parte) oggetto di coazione giuridica (e predeterminata dal diritto). Così dalla totale non giuridificabilità, come per il potere costituente e la costituzione, si passa per gradi a norme sempre più determinate perché cresce l’esigenza di salvaguardare un certo grado di certezza (e prevedibilità) attraverso un diritto via via più ricco di contenuti espressi (di comandi applicabili) e così definiti o esattamente definibili: analogamente all’albero di Porfirio che dalla sostanza arriva alla classe indivisibile (o all’individuo concreto) perdendo di estensione e arricchendosi in intensione (cioè di contenuto), così nel diritto indeterminatezza e certezza (nel senso weberiano di calcolabilità e prevedibilità) sono inversamente proporzionali. E ciò che determina il calare dell’una e il progredire dell’altra è la prossimità al momento genetico dell’istituzione (alla “storia”, al “fatto” , alla “vita”).

  1. A questo punto si potrebbe pensare che non solo de Maistre aveva colto nel segno, ma che l’interpretazione della Costituzione è una chimera, perché più è praticabile, meno l’oggetto su cui si esercita è importante e “decisivo”. Il che in subiecta materia è naturale perché a far le costituzioni non sono i giuristi ma la Storia (cioè i più volte ricordati cannoni di Lassalle); ed avendo i giuristi al massimo la funzione, come scriveva sempre Lassalle, di vergare su un foglio di carta le decisioni prese dalla politica, il risultato non è dei più governabili.

Comunque anche se le norme scritte e dal contenuto certo hanno un ruolo costituzionale limitato, ciò non toglie che all’interprete possa essere consentito ricavare un senso (e un significato) da quanto è non scritto e non normativo (o indeterminato) nella Costituzione.

Infatti, e cominciando dalle espressioni a carattere non normativo (quelle che Schmitt definisce le decisioni fondamentali nella costituzione di Weimar)[31] è certo che espressioni come quelle dell’art. 1 della Costituzione italiana vigente: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nella forma e nei limiti della Costituzione” esclude tutta una serie di modifiche che, stante il potere di revisione costituzionale potrebbero essere apportate alla medesima, possano esserlo, appunto, in sede di procedimento di revisione. Con ciò ciascuna di tale modifiche comporta non una revisione della Costituzione, ma un mutamento (radicale) della medesima, cioè una Costituzione nuova. È escluso quindi che la Costituzione vigente sia compatibile con la forma monarchica di governo; che possa trasformarsi in una Repubblica sovietica (uno Stato del socialismo reale) perché un ordinamento comunista-leninista non è una democrazia ma è la forma di oligarchia (ideocratica) più conseguente espressa dalla modernità; o in uno Stato a partito unico fascista o nazionalsocialista; che sovrano possa essere un potere costituito; che uno straniero, o un potere anche non statale possa appropriarsi della sovranità o i poteri costituiti cedergliela. Questo per le di essa determinazioni che appaiono più sicure (secondo la regola in claris non fit interpretatio) tralasciando quelle più controverse.

Nonostante la forma (e il contenuto) non normativo, questo articolo è, comunque, estremamente ricco di senso e, in larga parte, interpretabile in modo univoco[32].

Così del pari le decisioni di cui alla maggior parte dei “principi fondamentali” della costituzione vigente.

Peraltro occorre considerare che l’indeterminatezza delle disposizioni è spesso parziale, a differenza delle norme legislative, le quali consentono (per lo più, ma non sempre) un’applicazione “calcolabile”; ovvero senza zone d’indeterminatezza (e quindi di “libertà” anche dell’organo chiamato ad applicarle). Ciò non toglie che anche una disposizione assai vaga, come in genere quelle attributive di competenza, ad esempio l’art. 70 della costituzione vigente (la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere) permette:; a) di escludere che possano esercitarla altri organi, non abilitati a ciò dalla Costituzione; b) che lo possa fare una Camera da sola. Oltre, s’intende, agli altri limiti derivanti dalla Costituzione e dal suo carattere rigido. Queste conseguenze operano per lo più in negativo: nel senso che non è determinato ciò che l’organo può (e/o deve) fare ma è determinato ciò che è vietato (sia riguardo alla competenza che al contenuto).

Il che comunque è di notevole utilità per l’interprete dato che vale a sgombrare il campo da una considerevole parte dei dubbi e delle possibili lacune che si possono presentare; anche perché la logica della reiezione (quella rivolta ad escludere ragionamenti fallaci o scegliere tra più soluzioni la più probabile) ha una larga applicazione – anche se poco consapevole- in sede giudiziaria (e giuridica)[33].

Ma ciò che più conta è che, anche in assenza di redazione (proclamazione, disposizione, norma) scritta è possibile enucleare delle norme (comandi) dai presupposti fondamentali, condizionanti la validità anche di quelle scritte e utili, e spesso necessari, a chiarirne il significato.

In un certo senso, operando similmente a come fatto dai teorici del diritto naturale, e in particolare dai teologi della Seconda Scolastica. Questi “svilupparono in effetti una dottrina dello Stato scevra di qualsiasi presupposto dogmatico, su fondamenti puramente filosofici. Anche i maggiori teorici di questa tendenza sono d’accordo nel ritenere che l’unione statale abbia le sue radici nel diritto naturale, che in forza di questo spetti alla collettività associata la sovranità sui suoi membri, e che ogni diritto dei governanti provenga dal volere della collettività alla quale il diritto naturale attribuisce la facoltà e l’obbligo di trasmettere i propri poteri”[34].

In effetti come i teologi sostenevano che Dio ha creato l’uomo essere naturalmente sociale, ha voluto anche il potere pubblico, e che nessuna società può conservarsi senza un’autorità dotata del potere di comandare a ciascuno, e quindi la necessità del potere consegue dalle leggi stesse che condizionano l’ordine sociale. Leggi di cui Dio è l’autore[35]. E proprio perché Dio ne è l’autore sono immodificabili dall’uomo, che tuttavia può, nell’esercizio della libertà politica darsi forme politiche diverse, nei limiti delle leggi di natura che condizionano l’ordine sociale e politico. Ad esempio l’intera costituzione, ancor più se – come quasi tutte le costituzioni moderne – frutto di una decisione deliberata, presuppone l’esistenza sia della comunità politica che del potere costituente. E l’uno e l’altro non sono “modificabili” attraverso una procedura giuridica perché sono essi a costituire le condizioni minime perché una costituzione (atto del potere costituente) esista e abbia validità; con l’ulteriore conseguenza che ogni norma costituzionale e in generale la costituzione stessa debbano interpretarsi nel senso di presupporre l’esistenza della comunità politica e del pouvoir constituant. Sono questi imperi causae et fundamenta naturalia: senza i quali non avrebbe senso né scopo un documento chiamato “costituzione”. Ma, proprio perciò la costituzione non può interpretarsi nel senso che neghi (o porti alla rovina) l’esistenza dello Stato – cioè della comunità organizzata – né del potere costituente. Anche perché una simile conclusione interpretativa ha altrettante possibilità di essere efficace, quanto le pillole contro il terremoto: non è nel potere del diritto e tanto meno dell’interprete di questo creare unità politiche o poteri costituenti (semmai, lo è – in una certa misura – di regolarli).

Comunità e poteri non sono enunciati normativi, ma realtà concretamente esistenti: sono tali perché esistono, e in, quanto esistenti, hanno il diritto di essere quel che possono essere (Sieyès)[36] ossia di “conformarsi” come vogliono, nell’ambito del possibile.

Compito del diritto è regolare l’esistente: per cui presupposto ne è che esista qualcosa da regolare: si può pensare, seguendo Santi Romano, che l’esistente sia contemporaneo al diritto[37], ma è impossibile che questo consista in una forma o una regola giuridica di ciò che non esiste.

Di conseguenza e tenuto conto che “diritto non è l’insieme delle statuizioni consacrate in un testo di legge ed operanti pel solo fatto di tale consacrazione, ma quel complesso ordinato di situazioni e di rapporti che si raccoglie in un centro di autorità, e costituisce il diritto «vivente», valevole come tale anche se contrastante con quello legale, allorché l’osservazione documenti l’avvenuta sua stabilizzazione, non si rende possibile escluderne l’autonomo rilievo. In altri termini quando la categoria del giuridico si collochi sotto il segno della effettività si rende necessario alla sua comprensione l’esame del concreto modo di operare delle istituzioni sociali sottostanti alle norme”[38], ciò che è presupposto, nella costituzione, (cioè è “valevole come tale”) è, confermando l’intuizione di de Maistre, la parte “decisiva” e più “importante” della costituzione stessa. Perché, come scrive Sieyès non ha alcuna necessità di essere conforme al diritto, ma è esso a esserne il presupposto e la condizione di validità.

Ad esempio la regola salus rei publicae suprema lex è tale che, oltre a condizionare il normativo costituisce anche il criterio di validità del medesimo: nel senso che la norma o il complesso di norme, confliggenti con l’esistenza dell’istituzione e della comunità organizzata, sono interpretabili solo nel senso che non contraddicano l’esigenza di salvaguardare l’esistenza della comunità. Tale regola contiene la decisione per l’esistenza (politica) della comunità ed è prevalente rispetto all’osservanza del diritto, anche di quello modellato sui “valori” fatti propri dalla costituzione[39].

  1. Analizzando le varie categorie di “fatti normativi”[40], in primo luogo, vi sono realtà che costituiscono i presupposti della costituzione.

Prima si è ricordato la comunità e il potere costituente; occorre specificare che quest’ultimo non va inteso nel senso di organo (lo può essere, ma che lo sia non è connaturale al concetto), ma come entità concreta che decide (e/o mantiene) la costituzione[41].

Più in generale i presupposti sono quelle realtà necessarie perché lo Stato abbia esistenza: lo Stato e non una determinata forma di governo. La dottrina dello Stato ne ha indicati diversi. Secondo von Seydel “questi requisiti essenziali sono:

“1) Territorio e popolo

2) Dominati da un supremo volere”[42]

Nel pensiero di Hauriou ciò che è essenziale nella Costituzione lo si deduce principalmente da quello che è tale perché esista un’istituzione. Così i tre presupposti necessari perché esista lo Stato sono il potere di un governo centrale (elemento coercitivo); l’unità spirituale della nazione (elemento consensuale); l’«entreprise» della cosa pubblica (elemento ideale). Senza andare all’esame delle diverse teorie – che non sempre identificano come “presupposti” essenziali ciò che s’intende per tali, i quali sicuramente sono un elemento oggettivo, cioè un popolo e uno soggettivo, un potere che organizza e controlla – occorre andare alla distinzione, intrinseca alla dottrina teologica cattolica (e non solo) del XVII secolo tra ciò che è legge di natura (sottratta al volere umano) e ciò che è forma di governo (cioè modellabile e conformabile dalla volontà umana)[43].

Di conseguenza occorre anche andare alla ricerca di ciò che è comunque, per natura, costituzionale, anche se non è regolamentato dalla Costituzione (e neppure menzionato); perché non ha bisogno di una decisione (e ancor meno di una norma) umana per essere costituzione; anche perché, a seguire Santi Romano se è l’esistenza dello Stato a implicare necessariamente la costituzione[44], non è necessaria a uno Stato esistente, una esplicita redazione in un testo di ciò che, per il fatto di esistere, “possiede già”.

Hegel scriveva a tale proposito distinguendo “ciò che è necessario, che cioè una moltitudine sia uno Stato e un potere comune, e ciò che invece è soltanto una particolare modificazione di questo potere e non rientra nella sfera del necessario, bensì appartiene, per il concetto, alla sfera del più o meno bene, per la realtà invece alla sfera del caso e dell’arbitrio”; ciò che non è necessario all’essenza, cioè all’esistenza dello Stato e tuttavia fa parte della “realtà di uno Stato che appartiene al caso si deve ascrivere il modo e la maniera in cui il comune potere statale esiste in un centro unitario. Che il detentore del potere sia una sola persona o più persone; che questa sola o queste molte persone giungano a tale maestà per nascita o per elezione: è indifferente per l’unica cosa necessaria, che cioè una moltitudine formi uno Stato”. Per cui né l’unità del diritto, né il procedimento di formazione delle leggi, né l’organizzazione e le procedure giurisdizionali costituiscono parti essenziali della Costituzione.

Nella Verfassung Deutschlands Hegel delinea – in buona sostanza – come contenuto essenziale di una costituzione statale, l’istituzione di un potere pubblico, assoluto in via di principio, dotato dei mezzi sufficienti a far eseguire le proprie deliberazioni. Senza questi requisiti non esiste Stato, né di conseguenza costituzione dello Stato.

Tesi in larga misura simili sono state ripetute da molti, giuristi e non, che si sono occupati del problema di ciò che è essenziale alla costituzione[45]. Tuttavia è da ricordare che la tesi di G. Burdeau che le “costituzioni, per loro ragione d’essere e loro oggetto, obbediscono a regole ineluttabili”[46]. E tali costanti del contenuto di una costituzione sono l’organizzazione del Potere, e la natura e i fini dell’attività politica dei governanti.

Per cui si può individuare ciò che è essenziale nella costituzione nelle disposizioni necessarie all’esistenza ed all’azione della comunità; le quali non sono solo i presupposti dell’unità politica sopra ricordata. Ciò che veramente conta, ed ha carattere essenziale, è che siano previsti i mezzi perché il potere legittimo sia pure efficace: l’organizzazione concreta e particolare che ne consegue, i modi per assicurare ciò, sono secondari, e variano a seconda del tipo e della forma dell’unità politica.

In buona sostanza esistono – e non potrebbe essere diversamente – dei “fatti di normazione” i quali pur non essendo espressi in un testo, costituiscono diritto e più ancora lo determinano[47].

Questi sono intendibili ed interpretabili, come riteneva Betti, secondo cui l’intendere “concerne «i valori dello spirito oggettivati» in testi e, più in generale, in «forme rappresentative», vale a dire «istituzioni, leggi, riti, strutture e forme strumentali che per la loro stessa destinazione debbono rimanere e rimangono in uso o in vigore». L’interpretazione verte in effetti su queste oggettivazioni del pensiero, che, «come vennero in origine impresse o configurate da uno spirito vivente e pensante, così fanno assegnamento sopra uno spirito capace di intenderne il senso, che nel presente le ritrovi, (…) animandole della sua stessa vita»”[48].

Il che è una prospettiva non frequente, ma non del tutto insolita per il giurista. Dover interpretare non un testo, ma ricavare il precetto da una situazione di fatto (non quindi da una norma) è cosa che, per l’appunto ricorre con maggior frequenza che in altri casi nel diritto pubblico. In particolare ne costituiscono un esempio le concezioni del diritto naturale del XVI – XVIII secolo (sopra cennate), con la distinzione tra ciò che, venendo direttamente da Dio, quale creatore della stessa natura (e della legge naturale) non è modificabile; e quello che appartiene all’uomo e al potere umano[49]; onde mentre il secondo può essere espresso in un testo ed avere forma normativa, per il primo ciò è ovviamente escluso: se ne può cogliere il senso solo attraverso la ragione.

Nel duplex principium per cui Leibnitz accostava il diritto alla teologia, cioè la ratio (con la conseguente teologia naturale e la giurisprudenza naturale) e la scriptura, cioè “un libro contenente rivelazioni e comandamenti positivi”[50], è quindi giocoforza servirsi – per lo più – della prima.

D’altra parte la distinzione tra diritto di natura e legge positiva (con la necessità del primo) ritorna in altri pensatori. Per tutti ricordiamo Spinoza[51].

Ciò stante occorre ripartire da quella considerazione di Hauriou, secondo il quale il diritto naturale non è tanto una collezione di precetti di giustizia, quanto un corpo di diritto (corps de droit) costituito insieme di ordine sociale e di giustizia[52]. Anche in questo è ravvisabile la concezione cristiana dell’ordine, naturalmente gerarchico[53]: se questa non trascura la giustizia (quae sint imperia sine justitia nisi magna latrocinia?), la colloca sempre nel quadro di un’esistenza ordinata.

Ma non ordinata (solo) dalla legge positiva: ordinata perché conforme all’ordine sociale qui naturam sequitur, proprio perciò inderogabile (o, in pochi casi, derogabile a proprio danno e per durata limitata)[54].

Per cui è d’uopo applicare, in difetto di scriptura, la ratio a quelle “leggi” dell’ordine sociale che sono costitutive di comunità ordinate e proprio perché tali non sono derogabili “positivamente”, ma anzi determinano esse ciò che può essere disposto dalla legge positiva, compresa quella costituzionale.

Di più: la stessa costituzione positiva (cioè quella statuita) deve interpretarsi in modo conforme a quella, e il senso delle disposizioni (positive) non può derogarvi: ad esempio ritorniamo sulla massima salus rei publicae suprema lex.

Interpretare le norme costituzionali in modo che, per l’appunto, mettano in forse l’unità e l’esistenza politica non costituisce, come prima cennato, un’interpretazione valida né, comunque, solida: perché, come scriveva Jhering “al di sopra del diritto è la vita” per cui, nelle situazioni d’emergenza “la forza sacrificherà il diritto per salvare la vita”[55]. E un concetto assai simile è espresso da Santi Romano con la sua teoria delle necessità. E si potrebbe aggiungere anche da Manzoni che lo fa esprimere da Adelchi morente “Una feroce forza il mondo possiede, e fa nomarsi dritto”.

E la ratio in tal caso non è una scelta obbligata solo dall’assenza di scriptura; lo è anche perché gran parte di quelle “leggi” non sono frutto di decisione (e di volontà) umana, ma di necessità, a meno di non volere – il che (raramente) succede – la distruzione dell’unità politica e/o dell’ordine sociale della comunità[56].

Quindi nell’espressione – presa a mo’ d’esempio e su cui è d’uopo ritornare – salus reipublicae suprema lex la sapienza romana affermava anche l’essenza giuridica di quella massima. Al contrario di quei giudizi (a quella contrapposti) che tendono a escludere dal mondo giuridico massime e regole non riconducibili a “norme” o a “leggi positive”.

A far l’analisi delle quali si potrebbe affermarne la coerenza ai presupposti da cui partono: se si pensa invero che il diritto sia riducibile (solo) a norme statuite (poste in essere) da organi competenti in base a regole prestabilite, massime come quella, non statuite da alcun organo competente, sono fuori del diritto. Ove, di converso, si prenda come fondamento del diritto l’istituzione, è chiaro che quella massima è giuridica, e al massimo grado, perché tende alla salvaguardia dell’istituzione cioè, secondo il notissimo paragone della scacchiera di Santi Romano, del giocatore che muove le pedine (le norme) sulla scacchiera. Per cui queste sono determinate, “derivate” e “secondarie” rispetto a quella che è la principale e primaria “essenza” del diritto.

A costituire l’istituzione e mantenerla (in suo esse perseverare) è il rispetto (e l’attivazione) di massime come quella: mentre hanno un carattere secondario, spesso non costituente alcunché, e talvolta di rilievo decisamente marginale non poche delle norme inserite nei testi costituzionali. All’uopo è istruttivo leggere le sentenze della Corte Costituzionale la quale, come giudice costituzionale, con quotidiana frequenza, per proprio compito, ha la funzione di verificare la conformità alle norme costituzionali (intese generalmente come diritto statuito e scritto) di quelle legislative.

Ne esce fuori una rassegna di decisioni che con l’esistenza, la forma, il tipo dell’unità politica non hanno nulla a che vedere.

Possiamo ricordare, limitando la ricerca, per ragioni di spazio, agli ultimi tre anni, che la Corte si è occupata del “diritto di precedenza dei lavoratori stagionali nelle assunzioni presso la medesima azienda e con la medesima qualifica” (Corte Cost., 04/03/2008, n. 44): ovvero dei requisiti del personale dei gruppi consiliari della Regione Abruzzo: “È incostituzionale l’art. 1, 22º comma l.reg. Abruzzo 8 giugno 2006 n. 16, nella parte in cui, abrogando le parole «in possesso dei requisiti per l’accesso alla categoria D» nell’art. 6, 3º comma, l.reg. Abruzzo 9 maggio 2001 n. 18, prescinde, per l’assegnazione della qualifica di responsabile delle segreterie dei gruppi consiliari e con riguardo ai soggetti esterni all’amministrazione, dal possesso dei suddetti requisiti, richiesti invece per i dipendenti interni” (Corte cost., 21/02/2008, n. 27), del registro regionale (marchigiano) degli amministratori di condominio “Sono incostituzionali gli art. 2, 1º comma, e 3, 1º e 3º comma, l.reg. Marche 9 dicembre 2005 n. 28, nella parte in cui prevedono l’istituzione, presso la struttura competente della giunta regionale, del registro regionale degli amministratori di condominio e di immobili in cui possono iscriversi coloro che siano in possesso di determinati requisiti professionali” (Corte cost., 02/03/2007, n. 57) e del personale in esubero da inserire nei ruoli del S.S.N. (regione Marche): “Sono incostituzionali gli art. 1, 2 e 3 l.reg. Marche 24 febbraio 2004 n. 4, nella parte in cui disciplinano l’inserimento nei ruoli del ssn del personale, già assunto con contratto a tempo indeterminato da unità operative o strutture sanitarie private, che risulti in esubero a seguito dei processi di riconversione o disattivazione o soppressione delle predette unità e strutture” (Corte cost., 10/05/2005, n. 190).

E così via: quanto sopra citato è una minima parte della minutaglia che costituisce il lavoro quotidiano della Corte Costituzionale.

Viene naturale la domanda: cos’ha di costituzionale il registro degli amministratori di condominio o gli esuberi del personale delle cliniche marchigiane (e così via)? È chiaro che la ragione di tanto lavoro è soltanto la presenza nel testo della Costituzione di molte norme che hanno il carattere (e la rigidità) di legge costituzionale, ma “costituiscono” poco o niente.

E il ragionamento si può fare anche partendo dall’altro corno del dilemma: quante sono le sentenze della Corte in cui ci si occupa delle decisioni politiche fondamentali (nel senso di “costituire” le forme e il tipo dell’unità politica)? Praticamente (quasi) nessuna. Più si sale verso il fondamento, il nocciolo duro della forma politica, più gli interventi della Corte Costituzionale si rarefanno: ad avvicinarsi, e nemmeno tanto, all’Empireo, cessano del tutto.

Per cui, come sopra cennato è giuridica nel senso ricordato in primo luogo quella massima – ed altre consimili -, come implicito in quel suprema lex: suprema proprio perché superiore a tutte le altre. E la cui superiorità è comprovata non solo dalla possibilità – anzi dal dovere – di “rompere la costituzione”, o di derogare e sospendere il diritto positivo (anche non costituzionale) ove lo richieda la salvezza dello Stato ma dal fatto che in base a quella suprema lex l’istituzione richiede, nei casi d’urgenza, anche il sacrificio della vita: quel “sacro dovere” che anche nella vigente Costituzione (statuita), l’art. 52 prescrive.

Il fatto che principi come quello siano considerati meta – o pre-giuridici – è condivisibile solo in parte. Vale per concetti e massime del genere quel che si può affermare della sovranità: che è, a un tempo, esterna ed interna al diritto, vi “partecipa”. Se, come scriveva von Seydel “il volere sovrano è sempre un volere sopra lo Stato, non un volere dello Stato”, è pur vero che una volta voluto, diventa volere dello Stato e perciò diritto. Per ragioni analoghe Kant sosteneva che “il sovrano nello Stato ha verso i sudditi soltanto diritti e nessun dovere (coattivo)[57], per cui c’è un rapporto giuridico tra l’uno e gli altri, per cui il primo ha solo diritti e i secondi solo doveri. Il sovrano è così il punto d’Archimede dell’ordinamento giuridico; e la massima salus rei publicae… è la clausola “costitutivo-conservativa” in virtù della quale la protezione dell’esistenza (collettiva) prevale sulla legislazione positiva, anche costituzionale. Coincidendo, secondo Santi Romano il concetto d’istituzione con quello d’ordinamento, questa clausola è così giuridica, perché costitutivo-conservativa dell’esistenza della comunità organizzata, politicamente e giuridicamente, nell’istituzione.

Scriveva von Seydel, quanto alla massima suddetta “Questo limite del volere sovrano però non è giuridico, poiché il diritto comincia soltanto dal sovrano, ma naturale, ossia derivante dalla natura della sovranità stessa. Tosto quindi che la volontà del sovrano oltrepassa questi suoi limiti naturali, diventa egoistica (tirannia, governo di classe) e si mette in contraddizione con gli interessi collettivi dei cittadini, essa distrugge la base dello Stato, e incorre in contraddizione con la sua propria natura[58]. Quindi la massima suddetta è “di diritto naturale” (come affermava – in termini simili – Spinoza); ma è anche un comando giuridico, almeno, nei confronti dei poteri costituiti – tra i quali quelli che hanno il potere d’interpretare la Costituzione.

Per cui non pare possibile ridurre l’interpretazione della costituzione a quella del diritto scritto (legislativo). L’interpretazione del quale, è (fondamentalmente) quella prescritta dall’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale: norma che per l’appunto è pensata per un diritto scritto, statuito (e in larga misura codificato): ma è proprio perciò di applicazione assai difficile quando non si tratta di esegesi di testi, ma di principi, massime, usi, non codificati in un testo e – in larga misura – neppure codificabili.

Ove se ne espunga la parte non-scritta, il risultato è un’interpretazione spesso non solo fallace, ma anche inutile, perché inidonea a comprendere il senso del diritto “vivente”, espresso nell’istituzione statale.

Si può rivolgere a una tesi del genere la critica analoga a quella rivolta alla teoria normativista: che riducendo l’interpretando e interpretabile al normativo “se ne perde per strada, per così dire, qualche pezzo troppo importante per essere trascurato”[59].

E che questi, come scriveva Lassalle, siano dei bei pezzi di costituzione, anzi la maior pars, non appare dubbio: a conferma della terza tesi (sopra citata) di de Maistre.

La contraria tesi, molto frequentata è conseguente all’identificazione tra diritto e norma, e di norma intesa come comando statuito: per cui essendo (quasi) tutto il diritto statuito, si identifica questo con quello, cioè la parte con il tutto. Come scriveva Max Weber il potere (razionale-legale) poggia su certi presupposti, tra cui “che ogni diritto sia nella sia essenza un cosmo di regole astratte, e di norma statuite di proposito, che la giurisdizione costituisca l’applicazione di queste regole al caso particolare”. Se questo è vero, in particolare per un diritto moderno (meglio ancora se codificato) tuttavia non lo è, o non lo è altrettanto, né per il diritto (in genere) né, anche nella tarda modernità, per il diritto costituzionale.

Ciò non toglie che, proprio perciò, la problematica che si apre a non seguire la tesi riduttivistica che vede nella costituzione solo un insieme di norme “rigide” (o “meno flessibili”), è ampia.

Infatti interpretare norme (scritte) è sicuramente più agevole, e supportato da una notevole – spesso bimillenaria – dottrina (e pratica) che ha elaborato regole, topoi, “norme di chiusura” e quant’altro; lo è assai meno “interpretare” qualcosa che non è scritto, non è statuito e non ha quasi sempre forma normativa. In fondo è stato visto con ragione che “una forma è necessaria per l’esistenza di una norma”[60].

E, nella specie, di “forma”, intesa in quel senso, c’è poco o nulla. Il positivismo classico si reggeva sulla concezione di un ordinamento di norme positive statuite da organi competenti, la cui volontà formalmente espressa era riferibile – mediatamente – a quella del sovrano. Tutte cose che mancano – per lo più – nel caso delle massime e dei presupposti essenziali o fondamentali. Per capire i quali bisogna partire da metodi, modi e regole – in gran parte – diversi.

Il che è il tema della seconda parte di questo scritto.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] V. C. Mortati voce Costituzione (dottrine generali): “Se l’essenza della costituzione è da riporre, come si è visto, nei valori coessenziali alla forma di Stato, da essi anzitutto l’interpretazione dovrà attingere l’aspirazione necessaria a determinare l’esatto significato dei principi consacrati nel testo, a graduarli secondo il diverso rilievo da assegnare a ciascuno, ad individuare quelli che, se pure non formulati espressamente, sono tuttavia impliciti perché presupposti da singoli gruppi di norme o ricavabili dal sistema, che appunto deve essere ricostruito muovendo dalla considerazione dei valori predetti. La pretesa di esaurire nella costituzione scritta l’intero sistema si è rivelata sempre più illusoria, e sempre più manifesto è apparso il bisogno di attingere da fonti extratestuali gli elementi necessari a fare abbracciare la totalità di vita sociale unificata dalla costituzione nel senso materiale che si è illustrato.” in Enciclopedia del diritto, vol. XI, p. 181.

[2] In effetti il testo dell’art. 1 della Costituzione vigente, decidendo che la sovranità appartiene al popolo, enuncia (implicitamente) che gli compete anche il potere costituente come, e contrario sensu che questo non spetta ad alcun potere costituito diversamente da come è – o meglio era- ad esempio, nelle monarchie assolute.

[3] Oltre che per l’altra ragione, desumibile da Hobbes, che se ci fosse un giudice in grado di statuire sulla legalità dell’esercizio del potere costituente, a essere “titolare” di questo sarebbe esso e non il “popolo” o la “nazione”.

[4] Diverso, in parte, è il caso della common law e del vincolo al precedente:

[5] Per cui vedi la “classica” esposizione di Carl Schmitt nella Verfassungslehre, trad. di A. Caracciolo, Milano 1984 p. 35 e ss.

[6] Essai sur le principe génerateur des costitutions politiques et des autres institutions humaines, trad. it. a cura di Roberto De Mattei, Milano 1975, p.33.

 

[7] Op. cit. pag. 40 (i corsivi sono nostri).

[8] Op. cit. pag. 52 (i corsivi sono nostri).

[9] Verfassung und verfassungsrecht, trad. it., Milano 1988, p. 150.

[10] Op. loc. cit.

[11] Op. cit. p. 38.

[12] Op. cit., p. 39.

[13] Op. cit., p. 40.

[14] Op. cit., p. 41 e “Di fronte a questa decisione esistenziale tutte le regolamentazioni normative sono secondarie”.

[15] Op. loc. cit..

[16] Op. cit., p. 42-43.

[17] Op. cit., p. 43 e prosegue “Le altre normative, le enumerazioni e le delimitazioni delle competenze nei singoli dettagli, le leggi, per le quali per motivi determinati è scelta la forma della legge costituzionale, sono di fronte a quelle decisioni relative e secondarie; la loro particolarità esteriore è caratterizzata per il fatto che possono essere rimosse o modificate soltanto con il procedimento di modificazione aggravata dell’art. 76”.

[18] V. La garantie jurisdictionnel de la Costitution, trad.it. (dal testo francese) ne La Giustizia Costituzionale, Milano 1981 pp.189 ss. e prosegue  “il limite tra queste disposizioni e le tradizionali disposizioni sul contenuto delle leggi che si rinvengono nelle dichiarazioni dei diritti individuali scompare facilmente e non è quindi impossibile che un tribunale costituzionale, chiamato a decidere sulla costituzionalità di una legge, l’annulli perché è ingiusta, essendo la giustizia un principio costituzionale che esso deve conseguentemente applicare. In tal caso però il potere del tribunale  dovrebbe essere considerato semplicemente intollerabile: La concezione della giustizia  della maggioranza dei giudici di questo tribunale potrebbe contrastare del tutto con quella della maggioranza della popolazione e contrasterebbe evidentemente con quella del parlamento che ha voluto la legge”; per evitare un simile spostamento di potere (dal Parlamento al Giudice costituzionale) “un organo estraneo e che può diventare il rappresentante di forze politiche ben diverse da quelle che si esprimono nel parlamento, la costituzione deve, specie quando crea un tribunale costituzionale, astenersi da questa fraseologia e, se intende porre  principi relativi al contenuto delle leggi, li deve formulare nel modo più preciso possibile”. ( I corsivi sono nostri).

[19] Principi di diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 5.

[20] Op. cit., p. 2.

[21] Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, pp. 338-339.

[22] V. Der drang zur Verfassungsreform, trad. it. di C. Geraci ne La giustizia costituzionale, cit. p. 49; e prosegue: “Se la richiesta di modifica della costituzione cresce a tal punto che non può essere ulteriormente accantonata, è certo un segno che c’è stato uno spostamento di forze che cerca di esprimersi sul piano costituzionale”; le tesi di Lassalle sono esposte nello scritto Über Verfassungswesen, trad. it. di C. Forte in Behemoth n. 20, pp. 5-14.

[23] V. G. De Vergottini, voce Costituzione in Dizionario di politica. Tale principio è in grado “di garantirne l’unità in sede di valutazione interpretativa delle norme esistenti e di completarne le lacune, di permettere di individuare i limiti della continuità e dei mutamenti dello Stato tenendo conto della medesima come parametro di riferimento. Sono dunque i principi costituzionali sostanziali cui si fa cenno che rivestono un ruolo essenziale per la comprensione di una costituzione”.

[24] L’ordinamento giuridico, rist. Firenze 1967, p. 27; e poco prima scrive “È stato detto più volte che è possibile concepire un ordinamento, che non faccia posto alla figura del legislatore, ma solo a quella del giudice. Ed è ripiego, suggerito dalla nostra mentalità moderna, ma non corrispondente alla realtà, il dire che in questo caso il giudice, nel medesimo tempo in cui decide il caso concreto, pone la norma che presiede al suo giudizio. La verità è, invece, che questo può essere determinato dalla c.d. giustizia del singolo caso, dall’equità o da altri elementi che sono qualche cosa di ben diverso dalla norma giuridica vera e propria, che, per sua natura, concerne una serie o classe di azioni ed è quindi astratta e generale. Se così è, il momento giuridico, nell’ipotesi accennata, deve rinvenirsi, non nella norma, che manca, ma nel potere, nel magistrato, che esprime l’obiettiva coscienza sociale, con mezzi diversi da quelli che son propri di ordinamenti più complessi e più evoluti”.

[25] V. “non sembra che si possa sperare di costruire una teoria normativista nella quale la gradazione tra norme si possa dedurre unicamente dai caratteri propri e dalla natura intrinseca di ciascuna delle specie di norme che sono destinate a succedersi” perché “la gradazione delle norme, non proviene dal grado di qualità inerente a ogni specie di norma presa in sé, ma dal grado di potere degli organi o delle autorità da cui la norma è stata emanata, dalla funzione esercitata o dall’atto compiuto. In altri termini, il percorso graduale e successivo che si osserva nella elaborazione del sistema di norme dello Stato moderno non ha la sua causa primaria nella gradazione, naturale o logica, delle norme stesse considerate nel rapporto che collega le une alle altre, ma per gradazione di norme bisogna intendere una gradazione che ha la sua causa effettiva nelle considerazioni organiche alle quali è sottomessa, secondo l’ordine giuridico positivo, la formazione del diritto” ne La teoria gradualistica del diritto, Milano 2003, p. 35.

[26] V. sul punto in particolare Die Diktatur a cura di A. Caracciolo, Roma 2006, pp. 243-303.

[27] “Il diritto non è quanto di più elevato vi sia al mondo, non è fine a se stesso, ma è soltanto un mezzo diretto ad un fine, ed il suo fine ultimo è l’esistenza della società” e “al di sopra del diritto è la vita; e se la situazione concreta è quella da noi ipotizzata – cioè una situazione di emergenza politica riducibile all’alternativa: o il diritto  o la vita – non vi possono essere dubbi sulla decisione da prendere: la forza sacrificherà il diritto per salvare la vita” Der Zweck im Recht, trad. it., p. 148.

[28] Op. cit, p. 186.

[29] Op. loc. cit e prosegue “qui il giudizio del politico, dell’uomo di stato e dello storico deve sostituirsi a quello del giurista, che giudica soltanto alla stregua del diritto positivo. Quest’ultimo criterio, infatti, si rivela adatto alle situazioni normali da cui è desunto, ma non è applicabile a situazioni eccezionali per cui non è stato pensato e da cui non può essere applicato. Se non ci si fanno scrupoli nell’usare il termine ‘diritto’ in questo senso, potremmo qui parlare di un diritto eccezionale della storia, che in linea di principio rende praticamente possibile l’esistenza del diritto e, sporadicamente, il riaffiorare della forza nella sua missione e funzione storica originaria, cioè come fondatrice dell’ordinamento e creatrice del diritto”.

[30] Corso di diritto costituzionale, Padova 1934, p. 284.

[31] V. Verfasungslehre, p. 41 ss.

[32] A tale proposito si potrebbe sostenere, applicando criteri e topoi dell’interpretazione della legge, come il brocardo ubi lex dixit voluit, ubi non dixit noluit, che prescrivendo l’art. 139 che la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale, la Costituzione consente di trasformarla in Stato fascista o in repubblica sovietica, o conferire la sovranità all’ONU o agli USA o all’UE anche attraverso procedimenti di revisione costituzionale. La conclusione non regge anche ad applicare il criterio d’interpretazione “sistematica”. Ma decisivo è che il costituente stesso ha presupposto tacitamente che democrazia, sovranità popolare fossero scelte immodificabili nel quadro costituzionale, non foss’altro perché conseguenti non solo dalla costituzione, ma dal potere costituente.

 

[33] Sul che ci permettiamo di richiamare il nostro piccolo lavoro Spunti su logica della reiezione e ragionamento giudiziario ne Il Consiglio di Stato, n. 6-7 giugno-luglio 1983, p. 855 e ss.

[34] O. von Gierke Johannes Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien e prosegue “Non rinunciano naturalmente in alcun modo al principio che lo Stato è fondato sul volere divino e che ogni potere viene da Dio: ma lo sviluppano sempre più in un senso che non offre alcun ostacolo alla costruzione esclusivamente giuridico-razionale dello Stato; e quel principio rimane ancora soltanto a significare che la natura e la ragione naturale, e quindi anche i rapporti, i diritti e i doveri su esse fondati, sono in ultima analisi emanazione dell’essenza divina” trad. it. Torino 1974, p. 70.

[35] Sintetizziamo così quanto scrive Carré de Malberg in La contribution à la théorie générale de l’État, Paris 1929, tomo 2°, p. 151.

[36] La tesi di Sieyès è una (nuova) formulazione della tesi di Spinoza che nello stato di natura vale la regola tantum juris quantum potentiae.

[37] “Il diritto costituzionale è perciò, come si vedrà meglio più avanti, il diritto che segna la stessa esistenza dello Stato, il quale comincia ad avere vita solo quando ha una qualche costituzione; gli dà una forma e, per dir così, una determinata fisionomia” e poco dopo “Uno stato «non costituito» in un modo o in un altro, bene o male, non può avere neppure un principio di esistenza, come non esiste un individuo senza almeno le parti principali del corpo” Principii di Diritto costituzionale generale, pp. 2-3, Milano 1947.

[38] C. Mortati, istituzioni di diritto pubblico, Tomo I, Padova 1975, p. 34.

[39] È chiaro che se invece prevale la scelta per i “valori” o la religione o quant’altro – come i briganti del XV secolo, che preferivano il turbante turco alla tiara papale – la comunità, come istituzione ovvero come esistenza organizzata politicamente, cessa di esistere e così la di essa costituzione. Si può sempre decidere per non avere un’esistenza (politica) e l’istituzione che le da forma.

[40] Raggruppiamo sotto tale definizione, momentaneamente, tutto ciò che è accomunato da essere una decisione costituzionale inespressa, ma necessaria.

[41] Anche nel caso delle costituzioni “naturali” cioè formate storicamente, esiste comunque una realtà effettuale che legittimi e mantenga la costituzione, come il consenso dei governati.

[42] E prosegue: “Da questo stesso principio risulta chiaramente che lo Stato non è affatto il volere sovrano, né possiede il volere sovrano, anzi, è diverso da esso. Il volere sovrano è sopra lo Stato, e la soggezione ad esso dà al territorio e al popolo la qualità di Stato. Essi si chiamano Stato soltanto se sono dominati, analogamente come si chiama proprietà la cosa solo quando ha un padrone”, Principi di una dottrina generale dello Stato, (trad. it.) Torino 1902, p. 1155.

[43] Sul che v. Otto von Gierke Johannes Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien “Non sono però i singoli che con la loro volontà stabiliscono la sovranità della collettività sopra i propri membri: essi infatti non possiedono inizialmente alcuno dei diritti sorti con la collettività stessa (per es. il diritto di vita e di morte e il vincolo di coscienza), né, volendo l’associazione, possono impedire che essa divenga sovrana. Ma nemmeno è Dio ad attribuire, con un atto particolare alla collettività (come al Papa), la sovranità, pur essendo, in qualità di «primus auctor», la fonte di ogni potere. Il potere sovrano spetta piuttosto ad essa «ex vi rationis naturalis», e Dio lo concede come «proprietas consequens naturam», «medio dictamine rationis naturalis ostendentis, Deum sufficienter providisse humano generi et consequenter illi dedisse potestatem ad suam conservationem et convenientem gubernationem necessariam». Esattamente come l’uomo, per il fatto solo che è e non appena è, è libero ed è dotato di potere su se stesso e sulle sue membra, così il corpo politico, dal momento che esiste, ha il potere e la sovranità sopra se stesso e di conseguenza sopra i suoi membri”, trad. it, Torino 1974, p. 71.

[44] SANTI ROMANO, Principi di diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 2 ss.

[45] Per un esame delle principali ci permettiamo di rinviare a nostro scritto Note sull’essenza della Costituzione in Behemoth n. 18-19.

[46] G. BURDEAU, Droit constitutionnel et institutions politiques, Paris 1980, p. 68.

[47] V. sul punto C. Mortati in Istituzioni di diritto pubblico, tomo I, Padova 1975, p. 31 in nota “Cfr. ORESTANO, I fatti di normazione nell’esperienza romano-arcaica, Torino 1967, p. 28, che efficacemente definisce «fatti normativi» quelli ai quali, al di fuori di una preventiva posizione di norme regolatrici, valgono, in virtù del loro realizzarsi e stabilirsi, a instaurare o modificare un ordinamento giuridico, nel suo insieme o in singole strutture ponendosi essi stessi fattori determinanti della propria legittimità ed efficacia”.

[48] E. BETTI, Teoria generale della interpretazione, vol. I, p. 50 ss. citato da V. Marinelli in Dire il diritto, Milano 2002, p. 36.

[49] Ricordiamo S. Roberto Bellarmino in Scritti politici, pp. 233 ss., Bologna 1950 il quale scrive “A questo proposito però son da farsi alcune osservazioni. La prima è questa: il potere politico in generale, cioè non considerato nelle sue forme particolari di monarchia, aristocrazia o democrazia, viene immediatamente soltanto da Dio, poiché è una conseguenza necessaria della natura dell’uomo; perciò viene immediatamente da colui che ha fatto la stessa natura. Inoltre questo potere è di diritto naturale; non dipende infatti dal libero consenso degli uomini: vogliano o non vogliano, gli uomini devono essere governati da qualcuno, a meno che non vogliano che il genere umano vada in rovina; ma ciò è impossibile perché sarebbe contro l’inclinazione della natura… Essendo infatti questo potere di diritto divino, questo diritto non diede il potere a un qualche uomo particolare; lo diede quindi a tutta la moltitudine” e prosegue “lo stesso diritto naturale trasferisce il potere politico della moltitudine a uno o a più individui. La moltitudine infatti non può esercitare essa stessa questo potere, e perciò è obbligata a trasferirlo a uno o ad alcuni pochi individui. Pertanto il potere dei principi, considerato in generale, è esso pure di diritto naturale e divino, e il genere umano, anche se tutti gli uomini in ciò s’accordassero, non potrebbe stabilire il contrario, che cioè non vi fossero principi e capi. La quarta osservazione è questa: le norme particolari di regime politico sono «de jure gentium» e non di diritto naturale, poiché è chiaro che dipende dalla libera volontà della moltitudine stabilire che governi un re o alcuni consoli o altri magistrati; e, se v’è una legittima causa, la moltitudine può mutare un regime monarchico in aristocratico o democratico e viceversa, come sappiamo che è avvenuto a Roma” (i corsivi sono nostri); Suarez scrive “In primis enim requiritur, ut Deus sit causa proxima, sua voluntate conferens talem potestatem. Non enim satis est, ut Deus tanquam prima causa et universalis potestatem tribuat”; perché “nulla est potestas, quae hoc modo non sit a Deo, ut a prima causa, ac proinde immediate in illo genere” per cui “sine ulla prorsus ambiguitate evidentique ratione statui potest quomodo principatus politicus sit immediate a Deo, et nihilominus regibus et senatibus supremis non a Deo immediate, sed ab hominibus commendatus sit. Primo enim suprema potestas civilis per se spectata immediate quidem data est a Deo hominibus in civitatem, seu perfectam communitatem politicam congragatis, non quidem ex peculiari, et quasi positiva institutione, vel donatione omnino distincta a productione tal naturae, sed per naturalem consecutionem ex vi primae creationis eius; ideoque ex vi talis donationis non est haec potestas in una persona, neque in peculiari congrgegatione multarum, sed in toto perfecto populo seu corpore communitatis” v. Defensio fidei catholicae et apostolicae, Lib. III, cap. XI.

[50] Prendiamo l’esposizione che ne fa Schmitt in Politische theologie ora ne Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 62.

[51] “Se, dunque, la potenza per cui le cose naturali esistono è operano è la medesima potenza di Dio, è facile capire che cosa sia il diritto naturale. Infatti, poiché Dio ha diritto a ogni cosa, e poiché il diritto di Dio non è altro che la stessa potenza divina considerata come assolutamente libera, ne segue che ciascuna cosa naturale ha da natura tanto diritto quanta potenza a esistere e a operare: giacché la potenza, per la quale ciascuna cosa naturale esiste e opera, non è altra che la stessa potenza di Dio, la quale è assolutamente libera” in Trattato politico, Torino 1958, p. 160; poco dopo scrive “la natura non si esaurisce nelle leggi della ragione umana, che non hanno riguardo se non alla vera utilità e alla conservazione degli uomini, ma si estende ad infinite altre, che riflettono l’ordine eterno della intera natura, di cui l’uomo è una piccola parte e della cui sola necessità tutti gli individui sono in certo modo determinati a esistere e a operare”; lo stato civile (cioè vivere in società politica) non ripugna alla ragione “lo stato civile è naturalmente istituito al fine di vincere il comune timore e di ovviare alla comune indigenza, e quindi ha appunto di mira ciò che i singoli viventi secondo ragione tenterebbero invano nello stato naturale”; ma lo Stato è soggetto alla legge di natura “poiché le parole legge e contravvenzione riguardano ordinariamente, non soltanto il diritto civile, ma anche le regole comuni di tutte le cose naturali, e in primo luogo della ragione, non possiamo escludere in assoluto che lo Stato sia soggetto alle leggi o che possa ad esse contravvenire. Infatti se lo Stato non fosse soggetto ad alcuna delle leggi o regole, grazie alle quali è quello che è, non sarebbe una realtà naturale ma una chimera” perché “le regole e i motivi di soggezione e di ossequio, che lo Stato deve a propria garanzia conservare, non sono del diritto civile, ma del diritto naturale” (i corsivi sono nostri) op. cit., cap. IV, 4-5.

[52] V. “Il est vrai que le droit naturel est considerée comme plus près de la nature que les droits positifs, naturam sequitur, de là vient son nom; mais quelle est la véritable nature de l’homme et des sociétés, est-ce seulement l’équité dans les relations, n’est-ce point, en même temps, l’ordre dans la structure sociale?op. cit., p. 59.

[53] V. S. Agostino De civitate Dei, lib. XIX, cap. 13: “la pace della città è l’ordinata concordia dei suoi cittadini nel comandare e nell’obbedire; la pace della città celeste è la più perfetta e armoniosa concordia nel gioire di Dio e nel godere vicendevolmente in Dio; la pace di tutte le cose è la tranquillità dell’ordine. E l’ordine è la disposizione degli esseri uguali e disuguali che assegna a ciascuno il posto che gli conviene” (i corsivi sono nostri).

[54] Così se viene meno l’autorità, o se questa è priva dei mezzi per garantire l’ordine sociale, la conseguenza è il venir meno dell’ordine per entrare in una situazione d’anarchia. Il che è non solo contrario alla concezione dell’uomo come zoon politikon, ma è, ancor più, “impossibile” se non come stato di transizione tra due diversi ordinamenti, dato che inevitabilmente, dopo una fase di disgregazione sociale, la naturale tendenza all’ordine ricompone le relazioni e i gruppi umani, anche se in un ordine diverso. L’anarchia, come ideale politico è utopico, dato che da millenni non si vede una società anarchica, se non nelle favole; come situazione sociale è ricorrente, ma transeunte, come parentesi tra due forme di ordine.

[55] Der Zweck im Recht, trad. it., Torino 1972, p. 185 e poco dopo scrive “Abbiamo così individuato il punto in cui il diritto sfocia nella politica e nella storia: qui il giudizio del politico, dell’uomo di stato e dello storico deve sostituirsi a quello del giurista, che giudica soltanto alla stregua del diritto positivo… Se non ci si fanno scrupoli nell’usare il termine ‘diritto’ in questo senso, potremmo qui parlare di un diritto eccezionale della storia, che in linea di principio rende praticamente possibile l’esistenza dei diritto e, sporadicamente, il riaffiorare della gorza nella sua missione e funzione storica originaria, cioè come fondatrice dell’ordinamento e creatrice del diritto”.

[56] Un caso recente è stata la dissoluzione dell’Unione sovietica a seguito dell’implosione del comunismo. Non è in questione – né interessa – la “legalità” della trasformazione dell’URSS in CSI, fondata sull’art. 72 della Costituzione sovietica, riconoscente il diritto di secessione alle repubbliche, anche perché il vero “nucleo” costituzionale dell’URSS era nell’art. 6 della Costituzione per cui il PCUS era “la forza che dirige ed indirizza, la società sovietica, il nucleo del suo sistema politico”; piuttosto il PCUS, come altri partiti comunisti, implose perché non esisteva più la volontà politica di (credere e) sostenere quell’ordine sociale (e relativa unità politica).

[57] E prosegue: “E anche se l’organo del sovrano, il reggitore, agisse contrariamente alle leggi, se per esempio con imposte, reclutamento e simili egli violasse la legge dell’uguaglianza nella divisione degli oneri dello Stato, il suddito può a quest’ingiustizia opporre bensì querela (gravamina), ma nessuna resistenza.

Non può anzi esser contenuto nella costituzione nessun articolo, che renda nello Stato possibile a un potere di opporsi a colui che possiede il comando supremo nel caso che questi trasgredisca le leggi costituzionali: che renda quindi possibile di limitarne il potere” Die Metaphysik der Sitten, trad. it., Bari 1973, p. 149.

[58] Principii di una dottrina generale dello Stato, cit., Torino 1902, p. 1157.

[59] E prosegue “o messo tra parentesi, proprio come una teoria fisica è esposta al rischio di trascurare qualche aspetto della realtà troppo importante per non dover essere spiegato. D’altra parte, chi mi assicura che il mio modello di conoscenza della realtà sia veramente coestensivo alla realtà che voglio spiegare? In altri termini: chi mi assicura che il mio ragionamento spieghi veramente tutto ciò che devo spiegare? La scienza rischia di essere un insieme di proposizioni che, paradossalmente, non fotografa il mondo, ma se stessa: lo scienziato rischia cioè di non vedere altro che il proprio ragionamento, e non la realtà che vuole spiegare. La «verità» significa così soltanto la coerenza ai presupposti di partenza, che peraltro non sono dimostrati, e scompare ogni riferimento alla realtà, per spiegare la quale lo scienziato «puro» ha iniziato a fare scienza. Siamo di fronte a una vera implosione del sistema” v. Ottavio De Bertolis S.I. La metodologia giuridica di Norberto Bobbio in Civiltà cattolica 3687 (2004).

[60] V. V. Gueli  il quale così continua “Tale assioma è così formulato, ad es., dal Regesbelger, (tuttavia in maniera troppo limitata, perché con esclusivo riguardo alle norme legislative): «Una espressione della volontà è indispensabile per l’esistenza della legge e precisamente l’espressione deve consistere nelle parole della legge»; e similmente, da noi, da Alfredo Rocco, (riferendosi però anch’egli alla legge definita come «erklärter Gemeinwille» e dal Carnelutti”, Elementi di una dottrina dello Stato e del diritto, Roma 1959, p. 327.

TRUMP E ERDOGAN: PRIMO INCONTRO IN AMBITO N.A.T.O. DOPO IL FALLITO GOLPE, di Antonio de Martini

TRUMP E ERDOGAN: PRIMO INCONTRO IN AMBITO N.A.T.O. DOPO IL FALLITO GOLPE.

Ahmet Insel, gia titolare di cattedra alla Sorbona e editorialista di Cumhurriet, ha finalmente ammesso quel che scrivo da quattro anni: Erdogan è – mutatis mutandis- il nuovo Ataturk.

Ha vinto la sfida interna, sconfiggendo i golpisti e i seguaci di Gulen, ha sfidato gli USA, uscendone indenne e
adesso ruba la scena a Trump alla riunione NATO nella sua prima uscita estera dopo la rielezione.

Tutti gli analisti guardano a lui e liquidano le ingiunzioni del presidente USA, che è gia pronto ad offrire i saldi di stagione, agli alleati che ormai lo guardano con la preoccupata compassione riservata ai ripetitori di poesiole già logorate dalla Corea che resta nucleare.

Mezza Asia è intervenuta alla cerimonia di insediamento del “very powerful president” e poco contano gli assenti.
La Turchia assume sempre più i propri connotati asiatici e riesuma il passato che Ataturk aveva rinnegato per marciare verso l’Europa.

Il più grande scrittore Kirghiso, Cenghiz Aytmatov, – il terzo scrittore più letto al mondo con 70 milioni di copie vendute, amico e consigliere di Gorbaciov- viene commemorato ufficialmente da tutta la Turchia che gli ha dedicato l’intero l’anno 2018.

Ecco un avvicinamento in più tra russi e turchi, visto che Aytmatov era cittadino sovietico ( e ambasciatore URSS presso la NATO) e che oltre che in Kirghiso ha scritto in lin lingua russa.

In vista del suo primo incontro con Erdogan dopo il tentato golpe di ispirazione USA, Trump ha ostentato disinteresse per la sorte della NATO con l’intento di attutire il potere contrattuale di Erdogan, ma, in realtà, preoccupa solo se stesso. Erano anni che il massimo rappresentante USa non partecipava a un vertice N.A.T.O. e questa presenza suona smentita alle dichiarazioni fatte.

Il presidente USA, credendo di intimidire i turchi rimbrottando gli europei, si è inimicato l’intera UE e anche questo non mi pare un successo.

Il metanodotto verso l’Europa si farà, diminuendo il potere contrattuale dell’Ucraina verso la Russia e il 4% di spese per la Difesa non finiranno nelle tasche dei committenti del presidente USA che vuole gestire il mondo come fosse un condominio del New England e noi dei fornitori da spremere.

NOTA: questo post è stato aggiornato.

 

Macerata vista da New York, di Roberto Buffagni

Macerata vista da New York

 

Lo scorso 7 luglio il “New York Times” ha pubblicato un lungo articolo sui fatti di Macerata a firma Jason Horowitz, responsabile per la redazione di Roma e per tutto il Sud del Mediterraneo.[1]

E’ un articolo di grande interesse per due ragioni: perché esce sul più importante e rispettato organo di stampa liberal del mondo, e perché fornisce il modulo o template dell’interpretazione liberal dei seguenti fatti di primario rilievo politico e culturale contemporaneo: l’immigrazione, la crisi/sconfitta delle sinistre liberal in tutto il mondo, la crisi dell’Unione Europea e del globalismo, l’insorgenza/vittoria dei populismi.

Intendiamoci: non vi si trovano novità analitiche, o spunti di riflessione di eccezionale qualità. Vi si trovano però, formulati molto professionalmente, i luoghi comuni liberal, gli stessi che ritroviamo e ritroveremo, mille volte ripetuti e riformulati con maggiore o minore efficacia ed eleganza, nella comunicazione politica e nei media dominanti occidentali.

Eccone una breve analisi.

Sulle 323 righe dell’articolo, 37 sono dedicate a Luca Traini, 23 a Pamela Mastropietro, 11 a Martina Borra segretaria di Forza Nuova Macerata, 47 a Salvini. C’è una foto (primo piano) di Traini, nessuna di Pamela, tranne la serigrafia col viso di sua figlia che si scorge sulla maglietta indossata dalla madre di Pamela al funerale. Luca Traini è nominato 18 volte, Pamela/Mastropietro 15. Salvini è nominato 19 volte. Fascism/Fascist ricorre 13 volte. Populist/Right-Wing 7volte.

Sull’assassinio di Pamela Mastropietro si dice l’assoluto minimo possibile: che è stata uccisa e smembrata, che sono stati ritrovati i suoi resti nei dintorni di Macerata, che è accusato dell’omicidio il nigeriano Innocent Oseghale, che “le circostanze della morte di Ms. Mastropietro sono tuttora ignote”. Viene riportata la notizia, inesatta, che Pamela si fosse ricoverata in comunità perché tossicodipendente (era invece affetta da una malattia psichiatrica, un serio disturbo bipolare, e non assumeva abitualmente droghe pesanti). Non vengono riportate le dichiarazioni del medico legale che ha eseguito la seconda autopsia sui resti di Pamela, prof. Mariano Cingolani: “Io, con gli strumenti giusti e un tavolo operatorio ci avrei messo almeno 10 ore per sezionare un corpo in quel modo, non posso credere che sia stato fatto in una vasca da bagno[2]; né il fatto che nel referto della prima autopsia, eseguita dal dr. Antonio Tombolini, si parla di “irreperibilità di alcuni organi come il cuore e parte del pube, oltre alla scomparsa della porzione di collegamento tra testa e torace, cioè del collo della ragazza.”[3] Nessun cenno a Lucky Awelima e Desmond Lucky, possibili complici di Oseghale, né alla loro spaventosa conversazione in carcere[4], tradotta la quale l’interprete nigeriana, terrificata, si è resa irreperibile. Nessun cenno all’ipotesi, pur diffusa, che possa essersi trattato di un omicidio rituale. Viene citato l’Hotel House, “il grattacielo multiculturale” con i suoi molti problemi di criminalità, e viene citata anche la fossa comune dove sono stati ritrovati resti umani: ma non vengono messi in relazione. Non si tratta di un errore del reporter, ma di una omissione intenzionale: della fossa comune si parla riferendo di un’escursione in automobile nei dintorni di Macerata insieme a Martina Borra, che indica al giornalista un “housing project”, un grande condominio popolare divenuto centro per lo spaccio di droga, che non può essere altro che l’Hotel House; la guida italiana indica a Horowitz una casetta nei pressi “dove un tempo le donne andavano a comprare le uova e dove adesso i tossici comprano droga – lì vicino la polizia ha trovato resti umani”. Dell’Hotel House, però, si riparla più di trenta righe dopo. Intenzionale anche l’omissione della scoperta che tra i resti umani ritrovati in prossimità dell’Hotel House ci sono quelli di Camey Mossamet[5], la quindicenne bengalese scomparsa nel 2010. La notizia è uscita sui giornali il 28 giugno[6], l’articolo del NYT è uscito nove giorni dopo: Horowitz aveva tutto il tempo (e l’obbligo) di informarsi, e il grande quotidiano USA ha alle sue dipendenze una schiera di redattori addetti al controllo dei fatti.

Il taglio interpretativo dell’articolo è ben riassunto dai paragrafi di apertura e chiusura:

Apertura: “Una volta Macerata era famosa per la sua tolleranza. Ma l’assassinio di una donna e una sparatoria per vendetta hanno trasformato la città in un simbolo della marea montante della destra politica.[7]

Chiusura: “Mr. Diallo, il senegalese che si impratichiva dei verbi italiani al centro della Caritas, rideva con gli amici mangiando specialità africane e italiane. Tiziana Manuale, responsabile del centro, sedeva lì accanto. Molta della gente che sta pranzando qui sarà costretta ad andarsene, disse. ‘Un tempo c’era l’idea di Macerata città accogliente,’ disse. ‘Ma certi settori della popolazione non sono pronti.’ “ [8]

Sintesi: andava tutto bene finché  un omicidio, tragico finché si vuole ma in fin dei conti legato alla droga e allo sbandamento giovanile, problemi endemici e gravi ma non legati all’immigrazione in quanto tale, è stato sfruttato dalla destra per far leva sull’arretratezza culturale dei settori di popolazione che “non sono pronti”.

Pronti per che cosa, non è specificato. Pronti a mangiare all’aperto specialità africane e italiane insieme agli immigrati? Per questo, non credo ci sarebbero problemi: quando viene la bella stagione, pranzare insieme all’aperto con parenti, amici e forestieri è un’antica tradizione popolare italiana, bella e toccante come “l’ora italiana”, gli incantevoli, lunghi momenti in cui il giorno trascolora nella sera, e lasciati i luoghi di lavoro, si passeggia serenamente per la città, diretti a casa senza fretta.

Pronti a rassegnarsi ad accettare come effetti collaterali dell’accoglienza, certo incresciosi ma inevitabili, crimini di un’atrocità terrificante? Bambine stuprate, uccise e magistralmente fatte a pezzi? O che escono per andare a scuola, spariscono, e non se ne sa più nulla finché otto anni dopo la polizia ritrova un dente in una fossa comune? E’ arretrato, chi non è pronto per questo? Vuole tornare indietro e dunque è un fascista? Vale persino questa candela, il gioco del progresso e dell’accoglienza?

Forse, se Mr. Horowitz si fosse permesso di riflettere e immaginare un po’ meglio quel che è realmente accaduto a Pamela Mastropietro e a Camey Mossamet, non avrebbe avuto bisogno di tirare in ballo Mussolini e il fascismo, e neanche Casa Pound o Salvini, per spiegarsi come mai i crollino i consensi per le sinistre liberal non solo italiane, e perché Macerata e l’Italia non siano più “famose per la loro tolleranza”.

[1] https://www.nytimes.com/2018/07/07/world/europe/italy-macerata-migrants.html

[2] https://it.blastingnews.com/cronaca/2018/02/tutti-i-particolari-sul-depezzamento-di-pamela-mastropietro-002358745.html ; v. anche http://italiaeilmondo.com/2018/06/17/fatti-di-macerata-tre-domande-senza-risposta-di-roberto-buffagni/#_ftn6

[3] http://m.dagospia.com/il-medico-legale-pamela-e-stata-mutilata-con-orrore-molti-organi-non-si-trovano-piu-166498

[4] https://www.giornalettismo.com/archives/2660597/pamela-mastropietro-intercettazione-carcere

[5] http://italiaeilmondo.com/2018/07/03/a-trenta-chilometri-da-macerata-di-roberto-buffagni/#_ftn1

[6] https://www.cronachemaceratesi.it/2018/06/29/pozzo-dellorrore-le-ossa-sono-di-cameyi/1121347/

[7] Macerata once had a reputation for tolerance. But the killing of a woman and a revenge shooting made the Italian town a symbol of rising right-wing politics.

[8] “Mr. Diallo, the Senegalese man who had practiced his Italian verbs at the Caritas center, laughed with friends as they ate African and Italian specialties. Tiziana Manuale, who managed the center, sat nearby. Many people at the lunch would be forced to leave, she said. ‘There was the notion that Macerata is a welcoming city,’ she said. ‘But some parts of the population aren’t ready.’

Subordinazione alla francese, a cura di Giuseppe Germinario

Pubblichiamo qui sotto il testo tradotto di una intervista di Leslie Varenne riguardante le ragioni dello spezzettamento e della cessione a General Electric dell’intero comparto energetico. Nell’affrontare il tema dell’elezione di Macron abbiamo già sottolineato alcuni aspetti della politica estera ed economica francese. http://italiaeilmondo.com/2018/01/06/macron-micron_-3a-parte-di-giuseppe-germinario/ Dietro i toni e la retorica nazionalista, ben inserita nel contesto europeista, si celava una condizione di subalternità deprimente, del tutto paragonabile a quella italiana. Questa intervista chiarisce nei dettagli alcuni aspetti importanti di queste dinamiche. Rivela positivamente, ancora una volta, la presenza strutturata anche se minoritaria di forze sovraniste ben radicate in alcuni centri di potere e decisionali. Soprattutto, svela come la competizione economica sia parte integrante della competizione politica e geopolitica. Uno dei meriti dell’elezione di Trump è di aver messo a nudo una verità a lungo nascosta dalle ideologie globaliste. Buona lettura_Giuseppe Germinario

10.July.2018 // The Crises

Le vere ragioni del taglio di Alstom, di Leslie Varenne

Alstom-Siemens

 

Fonte: IVERIS, Leslie Varenne , 10-10-2017

Durante una conferenza, Christian Harbulot, capo della Scuola di Guerra Economica, ha parlato del caso Alstom e dell’acquisto del suo ramo energetico da parte della General Electric, come parte della dura guerra economica tra Stati Uniti e Cina (1). Infatti, prima che il caso scoppiasse, Alstom e Shanghai Electric si stavano preparando a sottoscrivere una joint venture nel mercato delle caldaie per le centrali elettriche. Questa partnership avrebbe permesso loro di diventare il leader mondiale in questo settore. Nel luglio 2013, Alstom ha firmato un accordo di partnership con il gruppo cinese Dongfang per progetti di reattori nucleari. Per comprendere le vere cause dello smantellamento di quello che era un fiore all’occhiello dell’industria strategica francese, l’IVERIS offre un’intervista a Loïk il Floch-Prigent.

Pensi che i progetti di fusione e partnership di Alstom con i gruppi cinesi siano stati determinanti nell’acquisizione americana del business dell’energia di Alstom, e in che modo queste due attività erano strategiche?

Cos’è la globalizzazione oggi? Sostanzialmente la coesistenza di due sistemi antagonisti, gli Stati Uniti d’America con una potenza economica e militare senza precedenti e una popolazione media, e la Cina, che si è svegliata con una popolazione tre volte più alta e un’innegabile forza di volontà. È il Regno di mezzo che ha davanti a sé il futuro, il tempo, e che avanza silenziosamente sulle sue pedine sulla scacchiera mondiale. L’Europa è troppo divisa per pesare in questa avventura, e la Russia è ancora indebolita dopo settant’anni di oscurantismo sovietico. È chiaro che durante la Guerra Fredda la nostra industria era sotto una lente d’ingrandimento in modo che non venisse in aiuto all’impero sovietico. Ora è la Cina il problema numero uno negli Stati Uniti. Non vederlo, ignoralo, ignoralo,

Alstom ha avuto due specialità dopo che la Compagnie Générale d’Electricité (CGE) è stata smantellata da ideologi mediocri: il trasporto ferroviario e l’energia. La ferrovia non è un problema centrale per gli Stati Uniti, ma l’energia è una risorsa importante nella loro spinta verso il potere. Hanno dominato il petrolio sin dal suo inizio e vogliono mantenere questo fondamentale vantaggio. Negli ultimi anni, l’aumento dei prezzi del petrolio ha portato gli Stati Uniti a rendere economiche le loro riserve di petrolio non convenzionale (shale oil) e sono diventati autosufficienti almeno per i prossimi 150 anni, il che ha giustificato il loro relativo disimpegno Politica del Medio Oriente; non hanno più bisogno dell’Arabia Saudita per funzionare!

Quello che è stato ascoltato nel 2012-2013 da Alstom, una delle principali società di trasformazione dell’energia (carbone, gas, energia idroelettrica, nucleare)! Stava per trovare un partner russo in orbita per il suo dipartimento ferroviario, e lei si sarebbe concentrata sulle soluzioni energetiche, grazie ad un accordo con Shanghai Electric per le centrali a carbone e un altro con Dongfang per il nucleare! È questa roadmap che viene presentata alla stampa e ai sindacati dal capo del gruppo che segnala in questa occasione che, di fronte al potere della singola compagnia ferroviaria cinese, Alstom-transport non può vivere da solo poiché il mercato futuro è principalmente asiatico, ed è urgente trovare un partner in questo settore per avere la libertà di rimanere nel cuore industriale di Alstom,

Poche settimane dopo, un dirigente di Alstom domiciliato in Asia viene arrestato durante uno dei suoi viaggi negli Stati Uniti, e l’amministratore delegato del gruppo annuncia il trasferimento del dipartimento energia al conglomerato americano General Electric, che dovrebbe consentire di effettuare il trasporto ferroviario Alstom una pepita globale!

Una piccola prospettiva, una buona conoscenza della geopolitica mondiale, e abbiamo capito … ” fai le tue sciocchezze nel trasporto, non ci riguarda ma l’energia siamo noi e serviamo le tue conoscenze ai cinesi, non le domande“! Questa non è la prima volta che gli Stati Uniti ci avvertono che sono i padroni del mondo nella politica energetica, possiamo fingere di ignorarlo, combattere contro i mulini a vento con tremoli nella voce, s ‘ all’indignazione, sarebbe comunque necessario fornire i mezzi, e il gruppo Siemens con il quale si sarebbe potuto discutere era appena uscito indebolito in modo duraturo da un caso analogo in cui aveva dovuto separarsi da tutto il suo gruppo dirigente per le stesse ragioni che Alstom: corruzione di stati esteri con dollari, e quindi punita dall’emittente della valuta, gli Stati Uniti.

Questa è la storia che abbiamo vissuto. Non volevamo guardare in faccia, volevamo credere alla terribile corruzione del nostro campione nazionale, ma in questo settore tutti hanno agito nello stesso modo. Ciò che era insopportabile è che Alstom si impegna in una politica di alleanza con la Cina senza l’esplicita autorizzazione del padrone di energia del paese, gli Stati Uniti.

Dovremmo vedere un legame con la severa condanna negli Stati Uniti di Frederick Pierucci ai sensi della legge anti-corruzione poiché era il vicepresidente della divisione mondiale delle caldaie e che avrebbe dovuto prendere l’iniziativa? joint venture?

È chiaro che l’immediata detenzione di Frédéric Pierucci, la costituzione della joint venture con Shanghai Electric nel carbone, ma anche il centro delle trattative con la Cina, è stata chiarissima perché c’era un grande numero di altri dirigenti Alstom che hanno partecipato agli atti illeciti, in particolare l’amministratore delegato. La detenzione di Frédéric Pierucci era sia un avvertimento che un ricatto contro il management team del gruppo, che era già stato raggiunto con Siemens qualche anno prima. Sappiamo anche che i politici europei sono cauti non appena compare la parola ” giustizia “. Possiamo dire che gli americani hanno giocato molto bene!

Il processo a Frederic Pierucci si è svolto il 25 settembre e il verdetto è sconcertante: trenta mesi di carcere mentre eseguiva solo gli ordini dei suoi superiori e non beneficiava di un arricchimento personale. Ottiene la stessa punizione del CEO di Halliburton, mentre quest’ultimo ha ricevuto una tangente da $ 10 milioni. Questo dirigente di Alstom è chiaramente un ostaggio economico, non è anche lui una vittima della guerra USA / Cina?

Certo, ma è stato anche abbandonato dalla compagnia che gestiva, e questo è semplicemente sconcertante.

Quindi l’FCPA (American Corruption Act (2)) è anche un’arma della guerra economica condotta da questi due stati per il dominio economico mondiale? Airbus, che è attualmente sottoposto a una procedura negli Stati Uniti, si assume dei rischi quando firma un contratto di 20 miliardi di euro sull’A330 con la Cina?

L’FCPA, ovvero la capacità di agire in tutto il mondo per la giustizia degli Stati Uniti non appena un dollaro ha cambiato le sue mani, è un’arma formidabile con cui i politici europei hanno familiarità. Non vogliono andare in prima linea, e capiamo, ma quando lasciano i leader industriali da soli nel caos, possiamo chiederci a cosa giocano. Nessun commentatore si preoccupa. Abbiamo sperimentato questo tipo di rassegnazione collettiva e cecità nel nostro paese in altri momenti della sua storia. L’FCPA è un problema fondamentale per la sopravvivenza della grande industria del nostro continente. Vedremo come si sistemeranno gli affari di Airbus!

Nell’affare ” Alstom “, che è davvero uno scandalo di stato, c’era un rapporto, un libro, un documentario, le audizioni all’Assemblea nazionale. I ministri hanno parlato sull’argomento, eppure nessuno ha visto che Alstom era il bersaglio degli americani a causa dei suoi progetti con gruppi cinesi. Perché? Non è questo il segno del fallimento del pensiero strategico francese? Non siamo tutti collettivamente responsabili della situazione di Alstom oggi?

Non possiamo scacciare il nostro sguardo sull’ombelico, è una malattia che abbiamo visto la devastazione con la COP 21 e la recente necessità di dare ” l’esempioProibendo l’esplorazione e la produzione di idrocarburi in Francia! Pensiamo che sogniamo! La nostra produzione nazionale annua rappresenta metà della produzione giornaliera del mondo! Quale esempio, quale impatto, su chi? Il mondo continuerà la sua esplorazione e sfruttamento degli idrocarburi perché gli Stati Uniti e la Cina non fermeranno la loro crescita per soddisfare sia il loro desiderio di potere che la loro popolazione. La nostra possibilità, con Alstom, era quella di essere in prima linea per un uso più pulito del carbone, che rimane il più grande produttore di elettricità del mondo, per essere all’avanguardia dell’idroelettrico, che è la grande opportunità del continente. raddoppierà la sua popolazione in 25 anni, sulla punta dei turbo-alternatori « Arabelle Che equipaggia oltre la metà delle centrali nucleari del mondo. Dovevamo dimostrare la nostra determinazione a mantenere il controllo del nostro destino ed evitare di prestarci alle critiche volendo combinare con la Cina (3)! Non lo abbiamo ancora capito e il nostro paese, i nostri team, i nostri ingegneri stanno pagando il prezzo oggi senza capire veramente cosa sia successo. Alcuni stanno ancora soffrendo, altri godono di giorni felici, ma il nostro Paese soffre di non vedere e non capire che una politica energetica è necessaria, e che passa attraverso una revisione senza concessioni della nostra realtà. In noi ‘ spargimento“Alstom abbiamo perso il controllo della nostra industria nucleare già minata da molta incompetenza. Abbiamo anche perso il controllo sulla nostra idraulica e non rappresentiamo nulla in quelle che chiamiamo ” nuove energie “, cioè energia solare ed eolica. La nostra politica energetica è una politica di scarabocchi, che può solo rallegrare gli Stati Uniti e la Cina. Ci rifiutiamo di vederlo. Abbiamo avuto molti altri errori in passato e i risultati sono stati piuttosto scoraggianti.

Nel mondo in cui viviamo, stiamo sistematicamente fallendo. Le continue informazioni, i dibattiti concordati tra i cosiddetti esperti su tutti i temi attuali ci impediscono di prendere un po ‘di altezza. Reagiamo nell’immediatezza mentre i commentatori e gli attori politici praticano in larga misura la negazione della realtà.

Patrick Kron, l’ex amministratore delegato di Alstom, ha negoziato con gruppi cinesi per il settore dell’energia e con i russi per il settore dei trasporti. Questa strategia non era rischiosa? Ha ignorato così tanto le relazioni di potere? Cosa avrebbe dovuto fare per evitare di cadere nelle trappole e di essere in grado di proteggere il suo gruppo ei suoi dipendenti?

Patrick Kron non ha avuto la strategia vincente per Alstom, è un fatto acquisito ora. Lascio ad altri di analizzare le singole azioni. Ho detto quello che pensavo della nostra cecità collettiva, è molto più serio.

(1) Questa conferenza è stata dedicata all’ultimo libro di Christian Harbulot, intitolato ” American Economic Nationalism “, pubblicato da VA nella raccolta ” War of Information “.

(2) https://www.iveris.eu/list/compterendus_devenements/114-apres_alstom_a_which_the_tour__

(3) https://www.iveris.eu/list/tribunes_libres/61-the_turbine_arabelle_or_the_independence_technology_francaise

Fonte: IVERIS, Leslie Varenne , 10-10-2017

 

NEMICO, OSTILITA’ E GUERRA, di Teodoro Klitsche de la Grange

NEMICO, OSTILITA’ E GUERRA

  1. La crisi finanziaria che da qualche mese ha colpito l’ “eurozona” pone – di nuovo – il problema di comprendere se si tratti – come in parte è – di un fatto puramente economico – finanziario (dovuto in larga parte – secondo molti – a difetti di costruzione dell’euro, a cominciare dall’essere una moneta senza Stato) ovvero, in buona misura, politico.

Se si giudica dagli effetti finora prodotti, il carattere politico è innegabile: basti ricordare che, in meno di otto mesi, sono stati sostituiti i governi (d’investitura popolare) di due paesi dell’euro-zona (Italia e Grecia) con governi tecnici; mentre in un terzo (Spagna) il governo è stato battuto (e rimpiazzato) dall’opposizione. Fatto comunque in buona parte causato dalla crisi finanziaria. Non è sufficiente comunque giudicare la natura politica di una causa (situazione, fatto) dagli effetti che comporta: anche una malattia può portare – e la Storia ce lo dimostra – conseguenze politiche di grande rilievo[1]. Ciò non toglie che la malattia non sia una causa politica.

Ma del pari, che la causa sia normalmente qualificata come economica non implica che i soggetti che la producono e gli scopi che perseguono non possano essere politici. Un esempio (tra tanti) è la decisione degli Alleati nel 1941 di imporre l’embargo al Giappone sulle esportazioni di petrolio e materiali ferrosi (e altro). Ciò risultava più efficace dell’intero esercito cinese: infatti costrinse il Giappone ad attaccare le potenze anglosassoni prima della fine dell’anno. Se i generali nipponici avessero indugiato qualche altro mese, i giapponesi avrebbero subito una devastante crisi economica che li avrebbe costretti probabilmente a ritirarsi dalla Cina subito dopo. Il che significa che, anche se in quella situazione non si era fatto uso di violenza, non si può ridurre il tutto alla mera constatazione (economica) che il Giappone mancava di ferro e petrolio e che gli Alleati  – che ne abbondavano – avessero il diritto di non rifornirlo (giuridicamente ovvio). A qualificare quella misura come politica erano i soggetti (le potenze anglosassoni e i loro  satelliti) e lo scopo (ottenere la ritirata del Giappone dalla Cina occupata).

Ciò non toglie che, almeno in Italia, ma per quanto ne so, anche in Europa, quasi nessuno abbia dato attenzione al possibile carattere e scopo politico della crisi, e tanto meno all’esistenza di soggetti interessati a provocarla per raggiungere fini di carattere politico.

Il che, per certi aspetti non sorprende: rientra nella tendenza al rifiuto della politica (non solo dell’attività, ma della politica come costante dell’esistenza umana) che ha connotato (in parte prima piccola, ma crescente) la modernità, in particolare dal XVIII secolo e che negli ultimi decenni è diventata di gran lunga prevalente in Europa (e nell’Occidente).

Vent’anni fa era di moda la tesi – espressa da Fukuyama – che la conclusione della guerra fredda fosse la fine della storia: che il pianeta avesse solo una Superpotenza (gli U.S.A.); che non ci fosse nessun nemico, perchè quello esistente (il comunismo) era collassato e niente faceva presagire che il sistema comunista sarebbe risuscitato (valutazione – quest’ultima –  da confermare anche oggi).

Tutte tali tesi (e le altre similari) si fondavano su una convinzione: che il nemico non ci fosse più e neppure un conflitto (politico) estremo, per cui ogni tipo di lotta (residuata dopo la “fine della storia”) fosse gestibile con mezzi giuridici ed economici: governance, tecnocrazia, amministrazione delle cose al posto del governo degli uomini.

L’occidente, così rallegrato, si inoltrava, senza accorgersene, non tanto verso la fine della storia, quanto, probabilmente (e sicuramente l’Europa) nella propria decadenza costituita – sul piano interno – da una variante (peggiore) di quel “dispotismo mite”, profetizzato da Tocqueville nella parte IV della Democratie en Amérique.

Qualche anno fa “Catholica” organizzava un incontro a Parigi: il libro che ne raccoglie le relazioni ha il titolo – quanto mai significativo – de “La culture du refus de l’ennemi”. Difficilmente un titolo ha reso così efficacemente il senso del convegno[2], né poteva essere altrettanto preciso: perché un certo tipo di cultura non si limita a negare la (possibilità) di guerra (anche nel senso limitato che la si possa sempre evitare); ma si spinge assai più lontano, asserendo di possedere il rimedio che evita l’inimicizia e i conflitti.

  1. Tipico esempio ne è Marx (e i marxisti) che, nella fase compiuta del comunismo (la società senza classi), immagina una società umana senza Stato/i (senza politica), armonica e quindi non necessitante né di un apparato di difesa e di repressione: priva di tutti i presupposti del politico, come individuati da Freund, ovvero delle regolarità costanti della politica (Miglio). Quindi senza lotta per il potere (Tucidide), senza autonomia del politico (Machiavelli), senza sovranità (Bodin), senza classe politica (Mosca e Pareto), senza nemico (Hobbes e C. Schmitt), senza conflitti.

Qualcosa di assai simile all’età dell’oro degli antichi, alla terza età di certe riflessioni teologico-storiche cristiane (per lo più eretiche) o al “Paese dei balocchi” descritto in Pinocchio[3].

Ma, a parte l’illusione (prevedibile) teorie siffatte – o similari – sono connotate da un errore e confusione “fattuale” e concettuale: quella tra guerra, nemico, conflitto. Nel senso che evitare la guerra non significa far cessare l’inimicizia (né l’intenzione ostile e neanche il conflitto); affermare non c’è guerra, quindi non c’è nemico (né conflitto) significa confondere soggetti (nemico), presupposti (conflitto), fini (obiettivo politico) e mezzi (tra i quali c’è la guerra). La guerra è (un’attività) e uno status; come la pace essa è un mezzo della politica. La politica non implica (in ogni situazione) necessariamente e ineluttabilmente la guerra; ma non è pensabile senza nemico. Così il conflitto: questo presuppone solo la pluralità di soggetti – e correlative pretese – a uno stesso oggetto (bene). Dato che molti beni sono limitati, ne consegue che il conflitto esiste indipendentemente dai mezzi usati per risolverlo: la concorrenza o la guerra (o altro, come l’accordo)[4]. Mentre conflitto e nemico sono (relativamente o totalmente) indipendenti dalla volontà (perché esistono) la guerra richiede comunque la volontà di aggredire e di difendersi (e quindi due volontà irriducibilmente ostili)[5].

La guerra, in definitiva presuppone il nemico e il conflitto: ma non ne è la conseguenza necessaria. Ne deriva che l’assenza di guerra non significa che non esistono conflitti e nemici: ma solo che questi non hanno deciso di risolvere i conflitti e raggiungere i loro obiettivi politici col mezzo della guerra.

  1. La speranza della fine del nemico (in una con quella della Storia) fu contraddetta subito dopo il crollo del comunismo, dai conflitti che tale collasso generò (Balcani, Cecenia). Passato qualche anno provvide Bin Laden a confermarne l’illusorietà con l’attacco dell’11 settembre 2001. Tra la conclusione del comunismo e l’emergere del terrorismo di Al Quaeda, era pubblicato uno studio dei colonnelli cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui destinato a dare un grosso dispiacere alle speranze e alle illusioni del pacifismo “senza se e senza ma”. Sostenevano i colonnelli che “la nuova situazione creatasi dopo il 1989-1991 facesse sì che “da questo momento in poi la guerra non sarà più ciò che è stata tradizionalmente. Il che significa che, se in futuro l’umanità non avrà altra scelta che entrare in conflitto, non potrà più condurlo nei modi consueti… Quando la gente comincia ad entusiasmarsi e a gioire propendendo per la riduzione di forze militari come mezzo per la risoluzione dei conflitti, la guerra è destinata a rinascere in altre forme e su di un altro scenario… In tal senso esistono fondate ragioni per sostenere che l’attacco finanziario di George Soros all’Asia Orientale, l’attacco terroristico di Osama Bin Laden all’ambasciata militare in Sudan… rappresentano una ‘semi-guerra’, una ‘quasi –guerra’ e una ‘sotto-guerra’, vale a dire la forma embrionale di un altro genere di guerra[6]. Il tutto significava assimilare alla guerra delle situazioni in cui l’ostilità non è riconducibile al concetto classico di questa (atto di forza).

L’acuto giudizio dei colonnelli in effetti non fa che confermare sia il famoso discorso sul potere di Tucidide (l’ambasciata degli ateniesi agli abitanti di Melo) sia, ancor più, il giudizio di Karl von Clausewitz e Giovanni Gentile[7] che la guerra è un atto di forza (comunque un mezzo) per costringere un’altra (potenza) a fare la nostra (di potenza) volontà: se a raggiungere questo fine tuttavia non è necessario mobilitare gli eserciti, ma bastano le scalate in borsa o gli attentati terroristici, ciò non toglie né che questi modifichino i rapporti di forza né che costringano l’aggredito a doversi adeguare alla volontà del nemico, se si arrende; se intende difendersi, al modo di combattere dell’aggressore.

In sostanza i due colonnelli, innovando alla (prima) definizione della guerra data da Clausewitz avevano acutamente posto il problema, prevedendo come l’inimicizia poteva ricorrere a forme inconsuete (ma non del tutto) una volta ritenuto inutile, inopportuno o antieconomico il ricorso alle armi.

Questa concezione dei colonnelli era tributaria dell’antico pensiero strategico cinese (Sun Zu) e indiano (Kautilya).

Scriveva Sun Zu: “Ottenere cento vittorie su cento battaglie non è il massimo dell’abilità: vincere il nemico senza bisogno di combattere, quello è il trionfo massimo[8]: per cui la vittoria è realizzare l’obiettivo politico: i mezzi sono secondari. Se lo si raggiunge senza far uso della forza, risparmiando sangue (e denaro) è meglio.

Nell’Arthasastra, Kautilya distingue vari tipi di guerra: quella aperta; quella dissimulata che consiste nell’infondere paura, nel colpire in modo imprevedibile; silenziosa con pratiche clandestine e complotti suscitati da spie[9].

D’altra parte è ripetuto da Kautilya che la scelta tra pace e guerra è funzionale all’interesse di potenza degli Stati, onde se mantenendo la pace si rovina (o decresce) la potenza – anche economica – del nemico, è meglio non fare guerra; l’inverso se la potenza si accresce[10]. Così anche se la guerra non è in atto, l’ostilità è sempre presente.

Pur nella diversità (inevitabile, anche se parziale) Sun Zu e Kautilya danno due insegnamenti, poi ripetuti in forma diversa e sotto vari profili, e tuttora validi: che il nemico (e il conflitto) non si manifestano sempre nella guerra (l’insopprimibilità dell’ostilità e della competizione di e per il potere), onde la guerra (mezzo) è subordinata alla politica (scopo); e che i tipi di “guerra” possono essere diversi, e non sempre richiedere l’impiego della violenza[11].

Per cui appare logico – e in linea con l’antico pensiero strategico orientale – quanto sostenuto da Quiao Liang e Wang Xiangsi che “se si riconosce  che i nuovi principi della guerra non sono più quelli di «usare la forza delle armi per costringere il nemico a sottomettersi ai propri voleri», quanto piuttosto quelli di «usare tutti i mezzi, inclusa la forza delle armi e sistemi di offesa militari e non-militari e letali – non letali per costringere il nemico ad accettare i propri interessi», tutto ciò costituisce un cambiamento: un cambiamento nella guerra e un cambiamento nelle modalità della guerra da ciò provocato”. Il che comporta un concetto più ampio di guerra che “non può che ridurre l’attaccamento dei soldati alla categoria di «operazioni militari diverse dalla guerra» nella quale, in ultima istanza, essi non saranno in grado di inserire il nuovissimo concetto di «operazioni di guerra non militari»”, in particolare il concetto di “«operazioni di guerra non militari», amplia la nostra percezione di ciò che esattamente costituisce uno stato di guerra a tutti i campi dell’attività umana, ben oltre, dunque, i contenuti racchiusi nell’espressione «operazioni militari». Questo ampliamento è il risultato naturale del fatto che gli esseri umani useranno qualsiasi mezzo per conseguire i loro obiettivi”.

  1. Indubbiamente a far maturare il nuovo/vecchio concetto di guerra, è da un lato la novità della tecnologia, dall’altro il progredire delle ideologie pacifiste.

Quanto alla prima ragione, non si può che rimandare a quanto scrivono i due colonnelli. Ma occorre aggiungere alle precedenti una terza ragione: il  tramonto dello jus publicum europeaum e dello stesso razionalismo occidentale, fondati in larga misura sul realismo e la teologia politica cristiana.

Per l’irenismo, tanto accresciuto dalle straordinarie distruzioni delle guerre del “secolo breve”, si è passati dal rifiuto della guerra – di per se una scelta, per lo più opportuna, la quale va valutata sotto tale profilo – alla negazione “a prescindere” della guerra e ancor più del nemico, in se totalmente irreale. Illusione che si può giudicare con le parole di Tucidide (rivolte dagli ambasciatori ateniesi agli abitanti di Melo) “giudicate il futuro più evidente della realtà concreta, e il desiderio vi fa trattare come cosa salda l’inesistente”[12]. Pretendere che il nemico non esista perché non è gradito e turba i sogni di pace fa parte delle stesse (pericolose) illusioni del non capire che azioni ostili possono compiersi (e ottenere il loro scopo politico) pur senza atti di violenza.

Tuttavia il giudizio di Tucidide, che corrisponde a quello di Machiavelli nel XV capitolo del Principe[13], introduce la terza ragione della “soppressione” del nemico: l’abbandono della concezione realistica cristiana e dello jus publicum europeaum.

É inutile dire che per la teologia politica cristiana la guerra è da evitare, ma essendo sempre possibile, data l’insopprimibilità dell’inimicizia tra uomini (e gruppi umani), non si può escludere né condannare sempre il ricorso a questa[14].

Tale concezione è realistica: parte dall’osservazione della realtà, ovvero l’esistenza di una pluralità di soggetti in grado di far guerra e aventi motivi di conflitto, per identificare le condizioni che consentano di evitare le guerre, e, se inevitabili, ridurne le potenzialità distruttive: i tre (poi quattro) requisiti della guerra giusta (auctoritas, justa causa, recta intentio, debitus modus gerendi bellum) limitavano i soggetti, le occasioni, le modalità e i fini della guerra. Ne contenevano gli effetti più devastanti e le ragioni più discutibili, senza né pretendere di aver trovato il rimedio per l’inimicizia e la guerra. Anche perché, a negare il nemico, ed in presenza di  qualcuno che ci fa comunque la guerra (a dispetto delle nostre buone intenzioni) la conclusione è che si tratta di un criminale, come sosteneva Carl Schmitt[15].

Quei principi passavano nel diritto internazionale westphaliano, con la nota “enfatizzazione” dell’auctoritas, cioè del soggetto legittimato alla guerra e così justus hostis, e il deperimento della justa causa (almeno fino all’inizio del secolo scorso).

Resta il fatto che, fino all’inizio del XX secolo la guerra era un mezzo giuridicamente lecito, il nemico era quel soggetto con cui si faceva la guerra, ma (poi) la pace. Come riteneva Raymond Aron “Il diritto internazionale pubblico europeo non aveva mai avuto lo scopo di mettere fuori legge la guerra, né mai si era attenuto a questo principio”[16]. Ma se quel mezzo è stato già condannato in sedi internazionali[17] e quel che più conta, è rifiutato da gran parte della popolazione, resta tuttavia l’esercizio dell’ostilità tramite mezzi non violenti.

  1. Scrive Max Weber che potenza significa la capacità d’imporre la propria volontà in una relazione sociale[18]; Aron, trasponendo tale definizione nel contesto internazionale sostiene che “la potenza o capacità di una collettività di imporre la sua volontà ad un’altra non va confusa con la sua capacità militare”. Freund elenca, esemplificandoli, i mezzi non violenti dell’ostilità, con cui si cerca di piegare la volontà di una comunità[19].

Correntemente per potere s’intende la capacità “d’un soggetto individuale o collettivo, di conseguire in modo intenzionale e non per accidente determinati scopi in una sfera specifica della vita sociale, ovvero di imporre in essa la propria volontà, nonostante la eventuale volontà contraria o la resistenza attiva o passiva di un altro soggetto o gruppo di soggetti”.

Ne consegue che ai fini della lotta per il potere è del tutto indifferente che l’effetto sia conseguito con l’uso della forza o con altro. L’essenziale è il risultato.

Tuttavia di fronte al conseguimento del risultato è peccato d’ingenuità non solo pensare che non sia un atto ostile, ma anche credere che la fondatezza giuridica (ad esempio, l’embargo all’esportazione di beni propri) escluda l’intenzione politica e l’ostilità: tutt’altro, semmai le occulta[20].

  1. Secondo Schmitt “Pensiero politico ed istinto politico si misurano perciò, sul piano teoretico come su quello pratico, in base alla capacità di distinguere amico e nemico. I punti più alti della grande politica sono anche i momenti in cui il nemico viene visto, con concreta chiarezza, come nemico” e prosegue “dovunque nella storia politica, di politica estera come di politica interna, l’incapacità o la non volontà di compiere questa distinzione appare come sintomo della fine della politica”.

Quello che sta succedendo è qualcosa che viene prima dell’incapacità di non distinguere amico e nemico: è la volontà e prima ancora la convinzione di non poterli distinguere: perché si presuppone che il nemico non esista ove la guerra non sia dichiarata, o perché non è tale in quanto ha ragione sul piano giuridico e/o economico.

Entrambe illusioni: quanto alla prima, stigmatizzata da Freund[21], consegue, come scrive, dalla concezione giuridica dell’ostilità[22]. Anche se il tutto è influenzato dal nominalismo giuridico (conseguente alle correnti neo-positiviste) e dalle sue versioni più modeste e “popolari”; per cui non c’è guerra se non la si dichiara (formalmente) tale. Con la consegueza che chi la dichiara è formalmente e apertamente un guerrafondaio; e per evitare tale nomea – così nociva in una società – spettacolo come quella globalizzata – la si fa evitando di dichiararla[23].

Credere poi che il compimento di atti d’ostilità sia giustificato sul piano giuridico ed economico (e quindi non è guerra, in senso lato, ma è attuazione di un diritto, riscossione di un credito) è anch’esso un truffarsi da soli, per almeno due ragioni: la prima perché sottovaluta che sotto le pretese giuridiche (ed economiche) c’è sempre un interesse (e un effetto) di potere. Il “diritto per il diritto” non è tale neppure nelle procedure giudiziarie (che richiedono, in linea generale, un interesse), tantomeno nei conflitti internazionali di guisa che, come scriveva Suarez il sovrano è legittimato a muovere guerra per i diritti della propria comunità politica non per quelli altrui[24].

D’altra parte se tali atti non sono atti di guerra, non si devono applicare neanche le limitazioni del diritto di guerra: le cui conseguenze possono essere devastanti[25].

Schmitt già nello scritto “Inter pacem et bellum nihil medium[26], giudicando cosa s’intendeva per “guerra” e “pace” negli anni ’30 del secolo scorso riteneva che “dimostra che l’ostilità, l’animus hostilis è divenuto il concetto più importante riguardo alla guerra”; ciò considerando che “In tutti i tempi ci sono state guerre «a metà», «parziali», «incompiute», «dosate», «localizzate», «wars sub modo»”[27].

  1. Se si condivide il giudizio di Schmitt che l’incapacità di operare la distinzione tra amico e nemico è sintomo della fine politica, si deve anche concludere che il capolavoro del nemico è quello di far credere che non esista: non c’è sistema più efficace di esercizio dell’ostilità. Sun Zu sostiene che l’abilità strategica consiste nel disorientare l’avversario “L’attacco migliore è quello che non fa capire dove difendersi, La difesa migliore è quella che non fa capire dove attaccare” di guisa che muovendosi “con rapidità senza lasciare traccia, quasi fossi evanescente, meravigliosamente misterioso, impercettibile: sarai padrone del destino del nemico”; ma gli stratagemmi consigliati dallo stratega cinese sono giochi da bambini rispetto al creare l’illusione che non esiste né ostilità né nemico. La clausewitziana “nebbia della guerra” così non copre solo il campo di battaglia, ma, per intero, lo stato conflittuale.

Il rifiuto dell’inimicizia consegue – come sopra scritto – a quello della guerra; quest’ultimo è il prodotto di un approccio (prevalentemente) di carattere giuridico al fenomeno guerra. Freund nel passo sopra citato si riferisce a concezioni giuridiche e non ad atti, e non fa pertanto riferimento alle costituzioni italiana e giapponese, successive alla fine del secondo conflitto mondiale, dov’è prescritto il rifiuto della guerra anche se con espressioni diverse[28].

Bisogna dar atto che malgrado il dettato pacifista, le due norme costituzionali non si sono spinte a negare l’esistenza e la possibilità dell’ostilità e del nemico, né che lo Stato lo possa individuare. Anzi il fatto che sia legittima la guerra difensiva presuppone che il nemico possa esistere e muovere guerra, e che ci si debba difendere.

Diverso appare il rifiuto del nemico in voga nella società contemporanea globalizzata: questo appare non solo come un residuo d’illusioni ideologiche smentite dalla storia (l’ultima e più conseguente delle quali è stata il comunismo), ma anche come derivato della società-spettacolo e della capacità di manipolare le credenze nella società di massa.

Se si prende per guerra (per conflitto) solo quello praticato con mezzi violenti, peraltro tanto spettacolari grazie alla tecnologia, è chiaro che dove non c’è spettacolo (la guerra classica con missili, bombe, corazzate e carri armati)  allora non c’è conflitto. Se poi a questo si aggiunge che la società di massa è drogata dai mezzi di comunicazione, è sufficiente un’attenta campagna di disinformazione – che sarebbe stata approvata da Kautylia e Sun Zu – per convincere che non essendoci violenza in atto, non ci sono né atti di ostilità né nemico. Specie se tale disinformazione si basa su notizie che all’uditorio piace sentire e occulta quelle sgradite: l’aspetto psicologico (nella e) della guerra è sempre stato fondamentale. L’aveva già sostenuto Joseph de Maistre, affermando che una battaglia persa è una battaglia che si è convinti di aver perduto. L’aveva ribadito Giovanni Gentile per il quale la guerra era un modo di superare l’opposizione tra volontà umane, e la soluzione della lotta era che il nemico riconosca “come sua la nostra volontà”, e cessi così di essere “volontà avversaria”[29].

Perché cessi di essere tale i modi possono essere tanti, il più efficace dei quali è non farla nascere cioè non far percepire l’esistenza di inimicizia e atti di ostilità a chi subisce (o subirà) l’aggressione.

Neppure il fatto che il nemico abbia ragione sul piano giuridico, lo assolve dall’ostilità politica e dalla conseguente necessità di difendersi. Solo una concezione decadente e limitata del diritto, ridotto a norme (e alle conseguenti decisioni giudiziarie, magari di Corti internazionali) può legittimare una concezione così lesionista. Se ci si richiama al principio romano che salus rei publicae suprema lex, è chiaro che nessun governante della comunità aggredita “a ragione” (normativa) potrebbe sacrificare l’esistenza della comunità, o anche “solo” la vita di molti cittadini, al rispetto dei trattati o comunque delle norme di diritto internazionale, applicando il contrario principio fiat justitia, pereat mundus. La politica, come sosteneva Max Weber, esige un’etica della responsabilità: degli uomini possono (e talvolta devono) decidere di morire per il rispetto delle leggi, e talvolta tale scelta può avere un significato di conservare il vincolo comunitario[30], ma non procurare morte e sofferenza ai propri concittadini in ossequio alla legalità[31].

D’altra parte la politica genera rendite politiche[32] e quindi ne produce la guerra. Un tempo si chiamavano tributi; nel XX secolo spesso “riparazioni”: ambedue i termini presuppongono un rapporto tra unità politiche. Nel XXI secolo dovremo forse chiamarle interesse differenziale, spread o quant’altro: il nomen conta (e dice) poco. Ciò che rileva è che trattasi di spostamento di risorse dal dominato al dominatore, dal vinto al vincitore. Quello che un tempo i primi pagavano ai secondi diventandone schiavi o prestando corvées; ed oggi, meno scomodamente (ma la società moderna è molto più comoda di quelle antiche, per cui la comodità non è merito del dominatore, ma dell’epoca), contraendo i consumi, modificando modi ed abitudini di vita per pagare debiti ed interessi. E in questa strada verso la servitù (e la povertà) ci s’inoltra tranquilli e contenti, per aver perso la guerra senza neanche accorgersene.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Tra le tante ricordiamo che, a giudizio di molti storici, l’unità d’Italia fu propiziata dalla morte di Ferdinando II di Borbone – Napoli, morto nel 1859 per un’infezione mal curata; l’opinione dei quali è che se Garibaldi avesse dovuto combattere col padre (Ferdinando II) invece che col figlio (Francesco II) l’esito sarebbe stato probabilmente diverso. Ovvero che le imprese dei conquistadores in America siano state assai favorite dall’epidemie di vaiolo e tubercolosi nelle popolazioni amerinde.

[2] Come scritto da G. Dumont nell’Avant-propos “…La première, qui est l’objet du prèsent ouvrage, est le modérantisme, considéré comme recherche du compromis, plus encore que du consensus, c’est-à-dire comme refus a priori de la possibilité même de toute situation conflictuelle”. I lavori sono stati di recente pubblicati in volume dal titolo “La guerre civile perpetuelle” (ed. Artège – Perpignan 2012); sulla guerra economica v. gli interventi di De Lauzun, Bonnet e Mescheriakoff.

[3] E del protagonista della favola di Collodi, tale illusione condivide anche il “naso lungo”:  d’essere una falsa profezia, cioè una menzogna, giacché della società comunista, nel socialismo reale, non s’è visto che il contrario: guerre, campi di concentramento, dittatura, governi totalitari più che polizieschi.

[4] É interessante ricordare, a tal riguardo, le distinzioni che fa Carnelutti in Teoria generale del diritto, Roma 1946, p. 15 e ss..

[5] Freund definisce il conflitto così: “Le conflit consiste en un affrontement ou heurt intentionnel entre deux êtres ou groupes de même espèce qui manifestent les uns à l’égard des autres une intention hostile, en général à propos d’un droit, et qui pour mantenir, affirmer ou rétablir le droit essaient de briser la résistance de l’autre, éventuellement par le recours à la violence, laquelle peut le cas échéant tendre à l’anéantissement physique de l’autreSociologie du conflit, Paris 1983, p. 65.

[6] E proseguono “Comunque si scelga di definirla, questa nuova realtà non può renderci più ottimisti che in passato. Ciò perché la riduzione delle funzioni della guerra in senso stretto non implica affatto che quella guerra abbia cessato di esistere. Anche nella cosiddetta era postmoderna e post-industriale la guerra non sarà mai eliminata del tutto. É solo tornata a invadere la società in modi più complessi, più estesi, più nascosti e sottili… La guerra che ha subito i cambiamenti della moderna tecnologia e del sistema di mercato verrà condotta in forme ancor più atipiche. In altre parole, mentre si assiste a una relativa riduzione della violenza militare, allo stesso tempo si constata una aumento della violenza politica, economica e tecnologica. Tuttavia, indipendentemente dalle forme assunte dalla violenza, la guerra è guerra, e un cambiamento nella sua veste esteriore non le impedisce di mantenere i principi della guerra in sé” v. Guerra senza limiti, Gorizia 2001, p. 39; si può dire, mutuando una frase di Clausewitz, che la guerra ha una grammatica, ma non una logica, cambia la grammatica, ma non la logica.

[7] Il concetto di Gentile è più sfumato, distinguendo tra diverse forme di guerra: v. appresso al punto 7.

[8] La stessa tesi, sotto diversi profili – riecheggia in altri passi di Sun Zu, con “agisci soltanto nell’interesse dello Stato. Se non sei più che sicuro di riuscire, non impiegare uomini. Se non sei in pericolo, non combattere”; o sul calcolo (costo) delle risorse necessarie alle spedizioni militari “Ricorda: quando si mobilita un esercito di centomila uomini per impegnarlo in una campagna militare a mille li dallo Stato, le spese che ne derivano per il popolo, costituite dagli esborsi dell’Erario, ammontano a mille pezzi d’oro al giorno. Possono essere necessari anni di guerra per un giorno di vittoria. Ne nascerà un grande turbamento, sia interno che esterno; il popolo sarà sfibrato dalle imposte, e i bilanci di settecentomila famiglie andranno in dissesto” v. L’arte della guerra, Edizioni Mediterranee, Roma 2005, pp. 49, 143, 145.

[9] v. Kautilya, Arthasastra, trad. fr. Paris 1998, p. 40.

[10] L’esame nell’Arthasastra di cause, presupposti, condizioni della guerra e della pace è assai più articolato, e vi rimandiamo; lo consideriamo qui solo per l’aspetto “economico” che è quanto interessa ai fini dello scritto.

[11] Ad esempio basta appoggiare, anche con mezzi economico-finanziari, uno dei belligeranti. É la linea, tra tanti, seguita dal Cardinal Richelieu nella guerra dei Trent’anni, aiutando i protestanti fino alla (prima) battaglia di Nordlingen (poi si trasformò in guerra aperta agli Asburgo); o di F.D. Roosevelt nell’appoggio finanziario ed economico alla Gran Bretagna, alla Cina (e all’Unione Sovietica), fino a Peral Harbour (dopo di che fu guerra).

[12] La guerra del Peloponneso, V, 113. G. Miglio riconduce il concetto di “pace” intesa come anti-politica a “una tendenza culturale squisitamente borghese”. Ovviamente la pace come situazione permanente dell’umanità non è mai esistita e non può esistere, a meno che non venga meno la costante dell’obbligazione politica (e l’esigenza umana che la fonda). In questo senso intesa, la pace è riconducibile a quelle “anti-realtà” ideologiche che “si contrappongono alla struttura dell’obbligazione politica. Sono valori utopici, la cui permanenza è legata proprio al fatto che contraddicono parti di quella struttura costante; pretendono di contraddire alcune regolarità fondamentali dell’obbligazione politica. La pace nega la realtà indistruttibile della conflittualità e della guerra, sulla quale è basata la sintesi politica; l’eguaglianza nega la struttura articolata delle istituzioni politiche; la libertà nega la stessa struttura delle procedure convenute delle convenzioni pattuite e delle istituzioni politiche”, v. G. Miglio Lezioni di politica, vol. II°, Bologna 2011, p. 419.

[13] “E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere. Perché gli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa, per quello che si dovrebbe fare, impara più presto la ruina che la perseverazione sua”.

[14] Evitiamo di ricordare i principali teologi che se ne sono occupati. Rinviamo per questo a Roberto De Mattei, Guerra Santa. Guerra giusta, Casale Monferrato 2002.

[15] La necessità di distinguere nemico e criminale è già nel Digesto: “Hostes’ hi sunt, qui nobis aut quibus nos publice bellum decrevimus: ceteri ‘latrones’ aut ‘praedones’ sunt”, Nemici sono coloro che ci hanno o cui noi abbiamo dichiarato pubblicamente guerra; gli altri sono briganti o pirati (v. D. 118, 50, 16).

[16] Paix et guerre entre les nations, trad. it. Milano 1983, p. 143.

[17] v. C. Schmitt Der Nomos der Erde, trad it. Milano 1991, pp. 335 ss. (sul mutamento di significato della guerra tra le due guerre mondiali).

[18] Wirtschaft und Gesellshaft, vol. I, trad. it. Milano 1980, p. 51.

[19]De tout temps on a essayé de menacer l’existence politique d’une collectivité par d’autres moyens que la guerre: affamer la population, soudoyer un parti politique et favoriser sa prise du pouvoir afin d’opérer ensuite, avec son accord, le rattachement de ce pays à une autre collectivité… mettre l’embargo sur des produits de première nécessité, faire un blocus, etc. Que sont les moyens dits pacifiques comme l’encerclement diplomatique ou les sanctions que l’on prend contre un pays récalcitrant, sinon des mesures d’hostilité destinées à menacer l’existence de ce dernier ? Bref, il existe toutes sortes d’agressions. A côté de la conquête militaire, il y a les moyens psychologiques de la propagande, de la mise en condition, de la subversion, les aggressions économiques, sociales et thecniques ou encore les armes biologiques. Les ressources de l’inimitié sont donc extrêmement variables”, v. Freund L’essence du politique, Paris 1965, p. 507.

[20] Al riguardo è opportuno ricordare in questo caso il rapporto che Hauriou vedeva tra teologia e diritto: l’una il nocciolo, l’altro l’involucro. O il giudizio di Freund che l’obbligazione giuridica è eteronoma: suppone una volontà diversa da quella del giurista.

[21] Op. cit. p. 507.

[22] “… qui a empêché la plupart des auteurs ayant écrit sur la politique de voir dans la relation ami-ennemi un présupposé du politique, en quoi ils se sont trompés et sur la nature de la politique et sur celle de la guerre” Freund Op. loc. cit.

[23] Per i giuristi più attenti al pensiero realista, la guerra è un fatto: dichiararla è un obbligo giuridico. Farla senza dichiarazione non è un merito: è semplicemente la violazione di una regola di diritto internazionale.

[24] De charitate, disp. 13 De Bello, sectio IV. E’ chiaro che, senza la limitazione dell’interesse proprio (anche quindi nel rinunciare all’attuazione d’interessi propri) le cause di guerra si moltiplicherebbero geometricamente.

[25] Ad esempio l’embargo su prodotti alimentari. Se ciò provoca carestie (ed epidemie) è soprattutto a carico della popolazione civile, e della fazione più debole della stessa. Così si viola la limitazione a non coinvolgere nella guerra gli innocentes: se si può credere che il progresso tecnologico abbia prodotto delle bombe “intelligenti” tali da ridurre al minimo i c.d. “danni collaterali”, non ci risulta che esistano delle carestie “intelligenti”. Sull’embargo dell’IRAQ è interessante leggere l’appello consegnato da 54 vescovi cattolici al Presidente Clinton nel gennaio del 1998; i quali giudicavano “Questa campagna di bombardamenti, assieme all’embargo totale in vigore dall’agosto 1990, era, ed è, un attacco contro la popolazione civile dell’Iraq. Una tale guerra contro la popolazione è stata condannata in maniera inequivocabile dal corpus magisteriale più autoritativo della Chiesa cattolica, il Concilio Vaticano II (1962-1965). Agenzie indipendenti continuano a documentare il devastante impatto delle sanzioni sulla popolazione civile … qualunque sia l’intento di queste sanzioni, siamo costretti da questa valutazione a giudicarle una violazione dell’insegnamento morale, segnatamente come è formulato nella tradizione cattolica”.

[26] in “Schriften der Akademie für Deutsches RechtGruppe Völkerrecht, n. 7, Berlin, 1939, trad. it. in Lo Stato X (1939), pp. 541-548.

[27] e prosegue “l’espressione usata dalla relazione Lytton sull’avanzata dei giapponesi «war disguised» non presenterebbe in sé alcunché di nuovo. Il nuovo era lo stato intermedio fra pace e guerra, elaborato giuridicamente e reso istituzione dalla Lega delle Nazioni e dal patto Kellogg”. D’altra parte quando Schmitt, sottolineando l’incongruenza dei concetti di guerra e pace applicati dalla Lega delle nazioni (determinati a contrario per cui non era guerra l’aggressione giapponese alla Cina ma lo era quella italiana all’Abissinia) rispetto a quello di vera pace ricorda da vicino la concezione della pace come “tranquillità dell’ordine” di S. Agostino.

[28] L’art. 9 della Costituzione giapponese prescrive “Aspirando sinceramente ad una pace internazionale fondata sulla giustizia e sull’ordine, il popolo giapponese rinunzia per sempre alla guerra, quale diritto sovrano della Nazione, ed alla minaccia o all’uso della forza. quale mezzo per risolvere le controversie internazionali.

Per conseguire l’obiettivo proclamato nel comma precedente, non saranno mantenute forze di terra, del mare e dell’aria, e nemmeno altri mezzi bellici. Il diritto di belligeranza dello Stato non sarà riconosciuto”; l’art. 11 di quella italiana dispone che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Le due espressioni normative non vanno prese troppo alla lettera: né la rinuncia della guerra ha impedito al Giappone di riarmarsi, né il ripudio italiano della stessa era totale (perché era ammessa quella di difesa) né del tutto efficace, perché non ha impedito di mandare corpi di spedizione all’estero per “pacificare” sotto comando straniero popolazioni riluttanti.

[29] In effetti il concetto di guerra di Gentile è anch’esso più esteso di quello usuale di guerra come atto di forza “Tra i modi di superare l’opposizione è la guerra: della quale il filosofo non può ignorare che ci sono mille forme, e si vengono moltiplicando col moltiplicarsi dei modi in cui si esplica l’espressione del pensiero umano e la volontà si sforza di farsi valere. C’è la guerra a punte di spillo, e c’è la guerra a colpi di cannone. Le punte di spillo sono parole: parole però che tendono a scopi sostanzialmente affini a quelli perseguiti dal cannone: l’annientamento dell’avversario. Ma la guerra propriamente detta è quella che gli Stati combattono con tutte le armi più micidiali per aver ragione l’uno dell’altro, quando l’uno sia d’impedimento all’altro nel raggiungimento di fini essenziali alla sua esistenza”  (i corsivi sono nostri) Genesi e struttura della Società, rist. Firenze 1983, p. 104.

[30] Come per Socrate nel “Critone”, nel noto passo della prosopopea delle Leggi (le quali però non sono le “norme” dei neo-positivisti).

[31] Cosa che è assai chiara nella concezione dei giuristi istituzionisti. Per Maurice Hauriou l’istituzione – per la modernità lo Stato – ha la funzione principale di “Protéger la société individualiste par son gouvernement, lui assurer la paix et l’ordre au dedans et au dehors par sa force armée, par sa diplomatie, par sa police, par sa législation, par ses tribunaux”, Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 49. La funzione di protezione è l’obbligo principale dell’istituzione nei confronti della comunità (e così dei governanti verso i governati). Per Santi Romano la necessità è fonte di diritto superiore alla legge. Se la necessità (il cui concetto nel giurista siciliano non è molto distante dal Ausnahmezustand di Carl Schmitt) impone di violare la legge, la “violazione” della norma è legittima, in quanto salvaguarda l’ordinamento. Sia in Hauriou che in Romano e Carl Schmitt è evidente la lezione di Hobbes, per cui il protego ergo obligo è la sostanza dell’obbligazione politica (v. Leviathan, Esame critico e conclusione, rist. Bari 1974, in particolare p. 661). Pretendere di obbligare senza proteggere, o viceversa di essere protetti senza essere obbligati è un inganno e un’assurdità.

[32] Sul punto v. Gianfranco Miglio, Lezioni di scienza della politica, Bologna 2011, pp. 320 ss.

1 339 340 341 342 343 376