BETTINO CRAXI, UNO DEGLI UOMINI POLITICI PIU’ ONESTI NELLA STORIA DEL NOVECENTO ITALIANO, di Giuseppe Angiuli

 

BETTINO CRAXI, UNO DEGLI UOMINI POLITICI PIU’ONESTI NELLA STORIA DEL NOVECENTO ITALIANO

 

 

Il ventesimo anniversario della morte di Bettino Craxi è stato accompagnato da un inatteso clima di curiosità, attenzione e partecipazione emotiva nell’opinione pubblica del nostro Paese, lasciandoci forse intravedere per la prima volta dei barlumi circa la possibilità di aprire finalmente un serio dibattito che conduca ad una radicale riscoperta e ad una giusta ri-valorizzazione della figura del leader socialista, con cui porre fine ad un lungo periodo di ingiusto oblio e di inaccettabile damnatio memoriae nei suoi riguardi.

A determinare tale clima nel Paese non penso abbia contribuito unicamente la programmazione nelle sale cinematografiche della pregevole pellicola di Gianni Amelio dal titolo Hammamet, contraddistinta da una interpretazione straordinariamente realistica dell’attore Pierfrancesco Favino e che, lungi dal fare luce sui torbidi retroscena del Golpe morbido del 1992 passato alla storia come Mani Pulite, è riuscito quanto meno nell’intento di risarcire parzialmente la dignità di Bettino Craxi restituendolo in tutta la sua nuda umanità all’immaginario collettivo degli italiani.

In realtà, a distanza di 20 anni esatti dalla tragica dipartita dello statista milanese – a cui fu di fatto reso impossibile il rientro in Italia per curarsi, senza correre il contestuale rischio di farsi arrestare – vi sono ormai tutte le condizioni per trarre finalmente un serio ed onesto bilancio sulle vicende che portarono alla fine della cosiddetta Prima Repubblica, con tutto quel che ne è conseguito in termini di trionfo del neo-liberismo e della globalizzazione nonché in termini di drastica riduzione della sfera delle opportunità economiche e dei diritti sociali degli italiani.

In particolare, i nostri concittadini con un po’ di capelli bianchi sul cranio sono oggi perfettamente in grado di operare un serio e crudo confronto fra le condizioni generali di vita in cui si trovava il Belpaese nei tanto vituperati anni ’80 del secolo scorso, quando i socialisti craxiani erano collocati a Palazzo Chigi (all’epoca l’Italia era la quinta potenza industriale al mondo) e le condizioni miserevoli e patetiche in cui esso si trova oggigiorno, dopo una lunga fase di sistematica spoliazione delle nostre ricchezze e di umiliazione della nostra sovranità nazionale e dopo quasi un trentennio di idiozie e scempiaggini (prima fra tutte quella sui meccanismi che avrebbero dato vita alla spirale dell’incremento del nostro debito pubblico) che hanno preso il totale sopravvento nel dibattito politico di casa nostra su qualsiasi ragionamento strategico minimamente dotato di buon senso.

Negli anni ’30 del secolo scorso, Benedetto Croce, con una saggia riflessione che al giorno d’oggi si attaglierebbe perfettamente a tutti i post-dipietristi travagliati ed in particolar modo ai grilloidi a cinque stelle, affermava che la frequente richiesta di onestà in politica altro non è che un «ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli».

E a chi gli domandava che cosa fosse per lui, in fondo, l’essere onesti nella vita politica, il filosofo nativo di Pescasseroli rispondeva così: «L’onestà politica non è altro che la capacità politica, come l’onestà del medico e del chirurgo è la sua capacità di medico e di chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze».

Noi siamo d’accordo con Croce e ci permettiamo di aggiungere che a nostro avviso l’uomo politico onesto fino in fondo è colui il quale si dedica con passione alla lotta politica perseguendo una sua precisa visione del mondo e del Governo della cosa pubblica, che è capace di comunicare con trasparenza tale visione ai suoi elettori o seguaci e che, una volta acquisite delle responsabilità dirette verso la collettività, è in grado di ancorare nel modo più possibilmente coerente i suoi atti e comportamenti alle sue parole.

 

La tomba di Bettino Craxi nel cimitero cristiano di Hammamet

Ebbene, se ci si potesse trovare tutti quanti concordi con questa definizione del concetto di onestà nella vita politica, ecco che dovremmo quasi inevitabilmente pervenire alla conclusione per cui Bettino Craxi non soltanto poteva a giusta ragione qualificarsi come un uomo politico di grande onestà intellettuale ma con buona probabilità è stato senz’altro tra i più onesti e capaci fra tutti i dirigenti politici che il nostro Paese abbia avuto nella storia del novecento.

Craxi è stato onesto e capace prima di tutto nell’avere saputo approntare per tempo una rielaborazione critica, seria e lineare del retaggio ideologico ereditato dal pensiero positivista ottocentesco e dai movimenti politici di matrice marxiana[1].

Senza operare alcuna comoda o frettolosa abiura – come avrebbero fatto i post-comunisti appena dopo il collasso della cortina di ferro nel 1989 – appena dopo avere assunto la guida del P.S.I. nel 1976, Craxi seppe rapidamente dotare il suo partito di una visione moderna e realistica del socialismo riformista, una visione che riusciva a collegare sapientemente i meriti con i bisogni, la giustizia sociale con la salvaguardia delle libertà degli individui, le esigenze della crescita, della produttività e dello sviluppo con quelle legate al welfare ed all’ambizione di ascesa dal basso verso l’alto della piramide sociale.

Tale operazione di saggio revisionismo storico del pensiero marxiano – alla cui elaborazione concorse senz’altro in misura determinante l’apporto dottrinale di pensatori del calibro di Luciano Pellicani e Norberto Bobbio – consentì ai socialisti italiani di giungere bene attrezzati alla responsabilità di guidare il nostro Paese, nel corso degli anni ’80 del secolo scorso, muniti di grande credibilità, di sano realismo e di un’indubbia solidità politico-programmatica.

Il contesto che i detrattori di Craxi oggi descrivono in modo caricaturale come quello degli anni bui della «Milano da bere», della corruzione e delle tangenti fu in realtà un periodo di straordinaria ed impetuosa crescita economica dell’intero Paese, un periodo in cui al successo del Made in Italy nel mondo si associavano un’efficace mobilità sociale ed un potere reale d’acquisto dei salari dei lavoratori italiani impensabilmente alto se posto al confronto con quello odierno, un periodo in cui, in fin dei conti, anche alle famiglie di operai italiani era concesso ogni anno il lusso di farsi almeno due settimane di vacanza in riviera romagnola o sulle Dolomiti.

 

 

Sbaglia peraltro chi pensa di potere accostare politicamente ed ideologicamente in modo perfetto le figure di Bettino Craxi e di Silvio Berlusconi, che erano due personalità molto diverse e per certi versi di natura opposta.

Il rapporto di amicizia, complicità e di reciproca convenienza che Craxi strinse con Berlusconi fu dettato in primo luogo dallo stato di necessità in cui venne a trovarsi lo statista socialista: giunto a Palazzo Chigi nel 1983, egli si trovò a dover fronteggiare il fuoco di sbarramento dell’intero gotha economico-finanziario italiano, a cominciare da Cuccia-Mediobanca, Agnelli e De Benedetti con tutto il corollario della grande stampa ad essi connessa: Corriere, Stampa, Repubblica-L’Espresso.

Fu così che Craxi si trovò di fronte alla scelta obbligata di cercare una sponda mediatica nel parvenu Berlusconi, il quale a sua volta, non essendo mai riuscito a fare ingresso in certi salotti che contano, dapprima utilizzò l’amicizia con Craxi per conquistare terreno nel settore televisivo ma poi nel 1992 mollò presto il suo vecchio amico al suo triste destino, cavalcando anch’egli la prima fase dell’ondata giustizialista di Mani Pulite.

Ma Craxi fu un leader di grande onestà anche e soprattutto per il merito di non avere mai smarrito nella sua azione un forte senso della difesa dell’interesse nazionale, in un Paese come l’Italia che da almeno un migliaio di anni si contraddistingue per una strutturale e atavica propensione al particolarismo, al tradimento, ad un’esterofilia figlia della nostra debole autostima come italiani, un sentimento patologico che molto spesso ci induce perfino a vantare e sbandierare pubblicamente la nostra intelligenza col nemico, all’insegna del celebre motto «Franza o Spagna, purchè se magna».

La sua visione dirigista, statalista ed anti-liberista in economia non venne mai meno nel corso degli anni di Governo a partecipazione socialista, allorquando Bettino non mancò di protendersi coraggiosamente a difendere i gioielli delle nostre partecipazioni statali dalle grinfie e dagli appetiti famelici di uomini senza scrupoli del calibro di Carlo De Benedetti il quale già nel 1985, platealmente agevolato da Romano Prodi, con il tentativo maldestro di acquisizione del comparto alimentare dell’IRI (SME) provò con impudenza a mettere in atto le prime prove tecniche di privatizzazioni-svendita.

 

Craxi in compagnia dello storico leader palestinese Yasser Arafat

La notevole abilità e destrezza con cui Bettino Craxi si muoveva sui più complessi scenari della politica estera costituisce la prova più evidente del carattere genuino della sua passione politica, coltivata fin da quando era un ragazzino e che negli anni lo condusse ad instaurare una rete assai fitta e articolata di rapporti politici, in cui un posto d’onore era riservato ai leader laici e socialisteggianti dell’area mediterranea e dei Paesi in via di sviluppo, su tutti il palestinese Yasser Arafat, il somalo Siad Barre e il libico Muhammar Gheddafi (a quest’ultimo Craxi salvò la vita nel 1986, avvertendolo per tempo dell’intenzione degli USA di bombardare il suo quartiere generale a Tripoli).

Con la visione craxiana della politica estera euro-mediterranea l’Italia ha saputo esprimere il meglio della sua credibilità nel campo delle relazioni internazionali, agendo all’insegna di uno spirito di mutua cooperazione con tutti i popoli del bacino mediterraneo, una modalità d’azione che riusciva a coniugare la legittima difesa dei nostri interessi nazionali col rispetto della sacra aspirazione dei popoli del sud del mondo a coltivare il loro diritto alla conquista della sovranità ed il definitivo affrancamento dal colonialismo.

Secondo l’analista Luca Pinasco, «il grande sogno di Craxi era la costruzione di una “terza via socialista” definita “Socialismo Mediterraneo” che vedeva l’Italia leader di un terzo polo, socialista, il quale aggregava Paesi del sud Europa e i Paesi arabi più laici a sud e a est del Mediterraneo, proseguendo nella via già tracciata qualche decennio prima da Enrico Mattei»[2].

Sfortunatamente per Craxi e per il nostro Paese, agli inizi degli anni ’90 del Novecento, dopo il crollo del Muro di Berlino, gli USA iniziarono a guardare all’Europa con un’ottica del tutto nuova,  in un contesto inedito nel quale il nostro Paese aveva ormai perso la sua funzione strategica di contenimento dell’avanzata del comunismo sovietico verso ovest.

 

Antonio Di Pietro a cena con Bruno Contrada e con altri amici fidati il giorno del primo avviso di garanzia a Craxi (dicembre 1992)

L’operazione sporca Mani Pulite, nella cui orchestrazione furono coinvolti senza alcun dubbio alcuni apparati investigativi e/o informativi d’oltre-oceano, si configurò dunque come una precisa strategia di destabilizzazione degli equilibri politici dell’Italia, alla cui guida era previsto che si collocasse una nuova classe politica docilmente addomesticabile o comunque non in grado di opporre alcuna resistenza a tutte le principali dinamiche che avrebbero contraddistinto la successiva fase storica della Seconda Repubblica, nel contesto generale della globalizzazione neo-liberista: privatizzazioni scriteriate, de-industrializzazione del Paese, smantellamento del welfare e delle tradizionali garanzie del mondo del lavoro dipendente e, in politica estera, sudditanza euro-atlantica senza se e senza ma (la manifestazione più clamorosa di tale sudditanza l’avremmo avuta nel 1999 col bombardamento NATO di Belgrado, avvenuto giusto in coincidenza con l’ingresso del primo Presidente del Consiglio “comunista” a Palazzo Chigi).

Bettino Craxi, una volta compresa la natura sostanzialmente e politicamente eversiva – ancorchè formalmente confinata entro i limiti del diritto positivo – dell’azione dei magistrati del pool di Mani Pulite, si rese conto che per lui, soprattutto se fosse andato in carcere, il destino avrebbe riservato una fine assai simile a quella del caffè al cianuro già dispensato a personaggi del calibro di Michele Sindona e Gaspare Pisciotta e fu così che egli, essenzialmente al fine di salvaguardare la sua incolumità fisica, decise di rifugiarsi stabilmente in Tunisia sotto la protezione dell’amico Presidente Ben Alì (il quale nel 1987 era stato aiutato proprio da Craxi e dal nostro SISMI ad ascendere al potere a Tunisi, facendo infuriare i francesi).

Negli anni del suo esilio malinconico di Hammamet, Craxi seppe riordinare i suoi pensieri e ci regalò delle pillole di verità così chiarificatrici sulla natura oligarchica e profondamente penalizzante per l’Italia del processo di costruzione dell’Unione Europea al punto da apparire oggigiorno preveggenti.

Su tutte merita di essere ricordata la sua infausta previsione sui profondi squilibri economici e sociali che l’incauta adozione dell’euro avrebbe ineluttabilmente creato: «Affidare effetti taumaturgici e miracolose resurrezioni alla moneta unica europea, dopo aver provveduto a isterilire, rinunciare, accrescere i conflitti sociali, è una fantastica illusione che i fatti e le realtà economiche e finanziarie del mondo non tarderanno a mettere in chiaro»[3].

Nell’Italia del 2020, la riscoperta della figura di Craxi potrebbe costituire il miglior viatico per l’auspicabile imbocco di una nuova strada per il Paese all’insegna del recupero della dignità nazionale e del rilancio della stessa dimensione della politica al cospetto di organismi oligarchici a carattere sovranazionale che in questi ultimi decenni ci hanno colpito al cuore con delle «limitazioni di sovranità» che sono andate ben aldilà dei confini semantici dettati dall’articolo 11 della nostra carta costituzionale.

Ecco perché per i nostri giovani è oggi essenziale studiare a fondo la figura politica di Bettino Craxi sotto tutti i suoi profili quale dirigente socialista riformista, uomo di Governo, statista, stratega in politica estera, patriota e infine martire dell’indipendenza nazionale.

Per i giustizialisti pedanti come Marco Travaglio, che con la loro voce stridula ancora oggi strepitano e ululano alla luna ripetendo il consueto ritornello stantio del Craxi uomo corrotto e «latitante», la migliore risposta la si può forse attingere da una celebre riflessione di Indro Montanelli (che proprio del Travaglio fu a suo tempo maestro protettore nel periodo di avvio della sua carriera di giornalista), il quale soleva ripetere: «Nella mia vita ho conosciuto farabutti che non erano moralisti ma raramente dei moralisti che non erano farabutti».

 

Giuseppe Angiuli

 

[1] Si legga il significativo discorso tenuto da Craxi nel 1977 a Treviri, in occasione del 30° anniversario della ricostruzione della casa natale di Karl Marx, dal titolo «Marxismo, socialismo e libertà» (http://www.circolorossellimilano.org/MaterialePDF/marxismo_socialismo_liberta_bettino_craxi.pdf). Più noto di tale discorso è il celebre articolo Il Vangelo socialista, pubblicato sul settimanale L’Espresso nel 1978.

[2] L. Pinasco, Bettino Craxi e Giulio Andreotti: il Mediterraneo come spazio vitale, pubbl. in AA. VV., L’Italia nel Mondo – L’altra politica estera italiana dal dopoguerra ad oggi, Circolo Proudhon, 2016, p. 135.

[3] Citazione riportata nel libro Io parlo e continuerò a parlare – Note e appunti sull’Italia vista da Hammamet, a cura di A. Spiri, Oscar Mondadori, 2016.

La pecorella smarrita, di Giuseppe Germinario

Anche le immagini, nella loro crudezza, hanno bisogno di una interpretazione. Non conosciamo il retroscena e la dinamica, il non detto, sottostante alle immagini della cerimonia conclusiva della conferenza. Qualche accesa confabulazione da retrobottega deve aver turbato la solennità del momento. Quella più verosimile è probabilmente quella più amara. Il Presidente Conte ha affermato che l’Italia è riuscita a mantenere “un posto in prima fila” nella gestione della crisi libica. Non sappiamo quale credito possa avere un personaggio che con tutta evidenza non riesce a conquistare nemmeno in una foto di rito una posizione di primo piano. Forse il nostro confonde il ruolo di primo piano con l’esposizione in prima linea. Tutto lascia presagire che l’Italia sarà tra i paesi, notoriamente il più ligio e solerte agli ordini, che più si esporranno militarmente e politicamente nella “pacificazione” della Libia, ma che meno raccoglieranno i frutti di quel processo. I precedenti lasciano poco scampo. L’Italia nel 2011 è stato l’unico paese che ha partecipato in Libia ad una guerra contro il legittimo capo di quella nazione, ma anche contro se stessa. La tragedia è che anche nell’altro versante politico nostrano non siamo messi meglio. Ormai non rimane che confidare nello stellone o nella imperscrutabilità della trama in corso che lasci aperta una via di fuga. In Libia appare sempre più chiaro che Al Serraj è ormai parte in causa del conflitto; stanno maturando i tempi perché sorga in Libia una figura terza in grado di ricomporre il mosaico tribale. Tra i papabili potrebbe esserci la reincarnazione della vittima sacrificale di quell’anno. Sarebbe l’ultima beffa, postuma, di un abile istrione _Giuseppe Germinario

https://video.repubblica.it/mondo/conferenza-berlino-foto-di-gruppo-dei-leader-conte-cerca-un-posto-prima-fila-ma-non-c-e/352330/352904?video&ref=RHPPLF-BH-I246077083-C8-P2-S3.4-T1

W l’uguaglianza, di Piero Visani

IL CORAGGIO DELLA VERITA’

Nei miei anni di ginnasio-liceo classico statale “Massimo d’Azeglio” di Torino (1964-1969), la sinistra azionista e (pseudo)comunista era più scaltra di quella romana attuale. Nella mia scuola “radical chic” (ante litteram) non c’erano divisioni “di classe”, nel senso che i figli della piccola borghesia e del proletariato partivano dalla sezione E in avanti. Le sezioni A, B, C e D erano riservate ai rampolli dei “beati possidentes” e di quelli con il “cognome con la particella” (direbbero i francesi). Nessuno lo diceva e tanto meno ne faceva proclami in Rete (neppure c’era, all’epoca). Era così e basta…
Si respirava a pieni polmoni lo spirito libertario, non classista, sinceramente favorevole al popolo di una certa Torino, quella di sempre, quella che crede di essere all’avanguardia, mentre è solo ottusamente reazionaria e codina, e che si crede migliore di tutti.
Se non fossi stato già di mio ostile a questa deplorevole gentaglia, mi avrebbero insegnato a diventarlo. Dunque un periodo fantasticamente formativo, che non ho mai più dimenticato e per il quale, in fondo, li ringrazio. Se sono stato come sono e sarò, lo devo un po’ anche a loro. Mi hanno insegnato lo straordinario valore dell’eguaglianza… 🤣

Potenza e vicolo cieco dell’europeismo in Francia – Di Éric Juillot

Considerazioni che possono tranquillamente essere trasposte in gran parte alla situazione italiana_Giuseppe Germinario

ps_ la traduzione sarà perfezionata appena possibile

Potenza e vicolo cieco dell’europeismo in Francia – Di Éric Juillot

Fonte: Les Crises, Éric Juillot , 23-12-2019

Nell’ambito ideologico, l’attuale situazione in Francia è paradossale: l’europeismo domina in modo egemonico i mondi politico, mediatico e accademico, ha scavato un profondo solco nella vita politica nazionale per più di trenta anni – fino a “determinarne il corso e persino le finalità – anche se è in minoranza all’interno dell’elettorato e le scelte politiche a cui ha guidato si sono tutte rivelate dannose, se non catastrofiche per il nostro paese [1] .

Quindi qual è la forza dell’europeismo, perché è ancora l’ideologia dominante, in gran parte impermeabile ai suoi fallimenti?

Un nocciolo duro: ” Europa ” salvifica e redentrice

Come tutte le ideologie, l’europeismo si basa su un certo numero di credenze, stabilite come certezze assolute e razionalmente supportate da argomentazioni apparentemente oggettive. Il tutto in realtà non produce un sistema, in cui ogni idea si adatterebbe a un insieme coerente e gerarchico, ma questo non è un requisito essenziale per la solidità dell’edificio ideologico. In effetti, la vaghezza dei contorni e l’incertezza riguardo ai dettagli del discorso ideologico aiutano a rafforzarlo; prospera molto più sugli elementi di credenza che sugli argomenti passati nel calore di un lontano esame critico.

L’attuale dominio dell’europeismo è un esempio lampante: per trent’anni la retorica filoeuropea non è mai andata oltre il palcoscenico del generale banale; gli stessi argomenti continuano all’infinito nonostante la loro povertà; sono ripresi senza batter ciglio da ogni nuova generazione di militanti, convinti – apparentemente giustamente – che esaltazione e fervore rendono gli argomenti spessi e sottili [2].

Ciò consente a questo discorso di diffondersi su larga scala in modo più efficace di quanto farebbe un sistema, la cui chiarezza razionale darebbe facilmente luogo a posizioni forti che potrebbero alimentare un dibattito sostanziale che è necessariamente pregiudizievole per la causa. Chiunque osservi l’europeismo da lontano, senza distinguerne i contorni, può aderire ad esso inerte, senza pensarci troppo; chiunque lo osservi da vicino nel contesto di un esame critico è obbligato a osservare i suoi vizi e difetti.

Alla radice dell’europeismo, quindi, una convinzione tanto diffusa quanto irremovibile: è l’Unione europea (UE), sistematicamente chiamata “Europa” – secondo una logica usurpante – che i francesi e gli altri popoli del il continente otterrà la redenzione e la salvezza durante questo secolo. Redenzione per i nostri crimini politici del ventesimo secolo (guerre mondiali, guerre di decolonizzazione con i loro numerosi massacri e atrocità, ecc.) E salvezza, perché il Male è ancora dentro di noi e chiede solo di rinascere, per meno, appunto, di “Europa” ci libera distruggendola.

Una simile prospettiva potrebbe essere facilmente descritta come escatologica – “Europa” o morte! – se la nostra era disincantata non impedisse l’espressione di questo tipo di assoluto. È piuttosto necessario parlare, in materia, di un’escatologia alla moda borghese. La formula è priva di significato a priori, ma esprime l’idea di un vago imperativo categorico, di un requisito morale per il futuro, conferendo all’europeismo proprio ciò di cui ha bisogno dell’idealismo in modo che i suoi sostenitori affrontare senza fatica le ingiustizie e le crisi che il suo spiegamento provoca nella cascata immediata.

L ‘”Europa” è stata così eretta, dalla fine degli anni ’80, fine a se stessa , quando la costruzione europea era fino a quel momento solo un mezzo al servizio degli Stati. Fu da questa inversione di prospettiva che nacque l’europeismo [3], la cui formalizzazione concettuale fu poi effettuata negli anni ’90, secondo le idee ideologiche allora di moda [4]: ​​fine della politica e persino fine della storia superando lo stato, la nazione, la sovranità, il territorio … così tanti pilastri dell’universo politico moderno distrutti dal trionfo dell’individuo, della legge e del mercato, eccetera “Europa” come traguardo finale dell’umanità, fase finale della sua evoluzione [5].

L’europeismo deve quindi parte del suo successo a ciò che sembra in grado di materializzare, a breve o medio termine, le idee e le speranze politiche portate brevemente al culmine della vita intellettuale alla fine del XX secolo. È l’ennesimo avatar del mito del progresso, un mito in crisi da oltre un secolo, ma la cui versione soft ha trovato un comodo ricettacolo nell’UE.

Il paradosso è che la sua morbidezza gli conferisce una resistenza innegabile: ci crediamo, ma non troppo (nessuno morirà per questo) e questa convinzione dà a coloro che vi aderiscono una piacevole base di tempo, a causa di un leggero ancoraggio nel futuro raggiante, così come il conforto di appartenere, per il momento, al campo Buono. Dalla tribù gallica all’incarnata “Europa”, l’evidenza di un’evoluzione lineare e graduale verso un grado sempre più elevato di civiltà, la certezza di un arrivo imminente a questo risultato ci incoraggia a sbarazzarci dell’ultimo il più rapidamente possibile. vestigia politiche del 20 ° secolo, a partire dall’appartenenza nazionale.

L’europeismo è effettivamente dispiegato, in certi ambienti, tanto più facilmente quando non incontra più l’ostacolo che l’idea nazionale rappresentava storicamente prima di esso. Dagli anni ’50 agli anni ’80, questa idea era ancora abbastanza forte da resistere con successo al dilagare del progetto della comunità. Il grande passaggio che rende possibile la nascita dell’UE ha come condizione fondamentale il declino della nazione in senso politico. Ora è possibile toglierne la sostanza – in questo caso, la sua sovranità – nella speranza di vestire di nuovo la dea “Europa”.

Tale operazione potrebbe essere concepibile solo grazie a un profondo cambiamento nella cultura politica del nostro paese: il declino, in pochi decenni, del sentimento di appartenenza alla nazione. Questo sentimento fu oggetto di desacralizzazione , dal 1918 alla seconda guerra mondiale, poi di una demitificazione dal 1945 agli anni ’70 per arrivare finalmente allo stadio della negazione dagli anni ’80 [6]. È l’abbassamento del punto di riferimento nazionale, particolarmente marcato tra le élite culturali del paese, che consente la transizione verso “l’Europa”. La nazione non è più nient’altro che una forma vecchia e pericolosa, o una forma vuota, senza altro contenuto che artificiale e superfluo. In breve: un’illusione ingannevole di cui è tempo di liberarsi.

La convinzione di salvare “l’Europa” corrisponde quindi a un momento molto particolare della nostra storia nazionale. È particolarmente osservato negli strati superiori della popolazione, dove funge da indicatore di identità e dove determina convinzioni tanto vaghe quanto irremovibili.

Caratteristiche sociologiche del blocco d’élite

“Blocco Elite” [7] o “blocco borghese” [8]: qualunque sia l’espressione scelta, designa questa frazione del popolo francese che comprende la stragrande maggioranza delle persone con un livello di istruzione, qualifica e redditi significativamente al di sopra della media. Se questi contorni non sono chiari, le ultime elezioni ci consentono comunque di stimare che rappresenta tra il 20 e il 30% dell’elettorato.

Se ovviamente presenta un’eterogeneità politico-ideologica interna, l’europeismo contribuisce fortemente alla sua omogeneità. Ne costituisce il cemento e la forza politica, poiché spiega quasi da solo il successo del campione che il blocco ha trovato nelle ultime elezioni presidenziali. L ‘”Europa” era in effetti il ​​tema unificante del suo programma, nonché un efficace schermo idealista, utile per nascondere l’impresa neoliberista di regressione sociale portata avanti dal nuovo presidente.

Dal punto di vista sociologico, il blocco è composto dai seguenti gruppi: il più ricco “1%” nel paese è completamente compreso. Il loro sostegno all’UE è ovvio poiché è uno dei più solidi garanti del capitalismo finanziario in tutto il mondo da cui derivano la loro immensa fortuna. Numericamente molto deboli, hanno una forza di sciopero finanziario che dà loro una reale influenza politica (in particolare per il loro peso nel mondo della stampa scritta).

A questo piccolo gruppo si aggiunge quello dei più grandi dirigenti senior del settore privato, residenti nel cuore delle grandi città, fluenti in inglese, che sono chiamati a viaggiare frequentemente all’estero come parte della loro professione, ma anche durante le vacanze. Questo gruppo costituisce i grandi battaglioni di élite nomadi, deterritorializzati, che credono di vivere “l’Europa” su una base quotidiana dalla loro apertura al mondo, per il quale il patriottismo è un valore obsoleto e il decentramento quale espatrio fornisce una fine morale più alta. L ‘”Europa” è una prova inquieta in questi ambienti, tanto più facilmente perché il loro radicamento nel cuore delle metropoli li esime dal notare gli effetti deleteri in altre parti del paese.

A questo gruppo deve essere aggiunta la maggioranza degli alti dirigenti del servizio pubblico. Se non hanno un livello di reddito paragonabile alle loro controparti nel settore privato, dall’altra parte hanno la sensazione di formare un’élite culturale il cui indicatore principale risiede in un cosmopolitismo di buona qualità, un vuoto universalismo e, di conseguenza, , una profonda aderenza a un “ideale” europeo che consente di superare la ristrettezza e l’egoismo di un’identità nazionale identicamente onerosa.

È inoltre necessario sottolineare la dimensione sacrificale del loro europeismo, nella misura in cui quest’ultima induce una politica economica obiettivamente sfavorevole ai loro interessi: tutti, nel loro rispettivo ambiente professionale, hanno notato per decenni il continuo deterioramento delle loro condizioni di lavoro, rispetto alla loro sotto-remunerazione, in un contesto globale di ritirata statale imposta dal neoliberismo di Bruxelles. Il loro attaccamento alla causa europea è ancora più sorprendente, anche se la sicurezza del lavoro di cui beneficiano contribuisce notevolmente al suo mantenimento. Infine, è la frazione del blocco d’élite più propensa a sviluppare un discorso critico nei confronti dell’UE, limitato tuttavia a poche imprecisioni generali sulla necessità di un’altra “Europa”.

Su base giornaliera, la coesione del blocco è assicurata dai media ideologicamente conformi. I cittadini di questo blocco leggono gli stessi giornali, le stesse riviste; tutti ascoltano le stesse stazioni radio e guardano le stesse trasmissioni politiche, il cui spettro ideologico si è ridotto come un granello di dolore nel corso dei decenni.

Se alcune sfumature di dettagli le differenziano ancora, tutti concordano sull’essenziale. Poiché gli uffici editoriali di questi media sono tutti popolati da giornalisti della sociologia del blocco e che sono conquistati incondizionatamente dall’europeismo, il mantenimento delle proprie convinzioni e convinzioni è pura routine intellettuale, conformismo in ogni momento, d ‘igiene mentale di base in nome della quale tutte le critiche un po’ stridenti all’UE vengono immediatamente scartate come populismo grossolano. L’europeismo mediatico merita pertanto una validazione istituzionale e quotidiana di questa ideologia; è una parte essenziale della sua forza di resistenza alla realtà.

Questo blocco d’élite è oggi forte nella sua coesione ideologica, nella sua posizione sociale e nel suo controllo egemonico dell’universo dei media. Se domina politicamente, sebbene sia una minoranza, è dovuto alla sua posizione centrale sulla scacchiera politica che lo deve. Nel 2017, durante le elezioni presidenziali, gli elettori del blocco hanno formato la piazza attorno al loro campione, per garantire la vittoria della loro causa. Ma il catastrofico fallimento del progetto europeo e le prime convulsioni sociali e politiche che seguirono in Francia a breve termine costituirono una minaccia mortale per il bastione “centrista” [9].

Aspettando la prossima ondata

Il tempo in cui potremmo sentirci in colpa per le masse riluttanti con argomenti bludgeon del tipo “Europa-è-pace” o “Unione-fa-forza”, questa volta è andato [10]. Oggi non è più possibile vietare tutte le critiche all’UE nel suo principio, sulla base del fatto che questo sarebbe un modo stupido e pericoloso di pensare alle cose. Ma la cecità regna sovrana all’interno del blocco d’élite, dove nessuno capisce che la rabbia popolare è radicata nei fallimenti a cascata del progetto europeo, portando allo stesso tempo devitalizzazione democratica, regressione sociale e declino economico per il nostro paese.

Mentre si aggrappa al suo universo ideologico fallito, il blocco d’élite inchioda la sua bara elettorale, come sicuramente fece il precedente partito socialista, il cui europeismo era la tomba. Se non avesse ricoperto la posizione centrale – quella dei partigiani dell’immobilità – non avrebbe alcuna possibilità di rimanere alla fine dell’attuale mandato presidenziale. Ma non può sperare in nient’altro che guadagnare tempo, a rischio di aggravare in proporzioni vertiginose la crisi politica che scuote la Francia oggi e in attesa di essere spazzato via quando il suo posizionamento politico sarà chiaramente percepito da tutto per quello che è, vale a dire un nuovo tipo di estremismo, tanto più pericoloso dal momento che è al potere.

Il divario ideologico che sta rovinando il paese oggi deve essere ridotto al più presto; il blocco dominante non può continuare a governare secondo le sue convinzioni ideologiche e interessi ben compresi, poiché ciò equivale a una usurpazione così grave dell’interesse generale che mina la democrazia nelle sue basi.

Per il futuro, la sovversione dell’ordine ideologico in atto può seguire due strade: quella del rinnovo immediato, o quella del rinnovo differito, preceduta da una fase di decomposizione e convulsioni. Il rinnovo immediato può provenire solo dalla cima del blocco d’élite stesso. Dopo l’ irrigidimento in difesa di un regime di dominio ideologico ingiusto e senza fiato, logicamente dovrebbe arrivare il momento di rinunciare alle credenze che lo strutturano; una rinuncia legata al riconoscimento dei suoi fallimenti, del suo impasse e del suo rifiuto da parte del maggior numero.

Il governo al potere è in grado di un tale aggiornamento ideologico? Nessuno può prevederlo, ma la chiara consapevolezza del suo immediato interesse, unita alla volontà dei suoi elettori di mantenere la loro posizione sociale dominante, potrebbe agire in questa direzione – soprattutto dal momento che anche coloro che hanno storicamente beneficiato del sistema in atto iniziano a soffrire delle sue contraddizioni terminali [11].

Un’altra ipotesi, quella del rinvio ritardato, in altre parole, nell’immediato, della putrefazione: può derivare dalla fuga in avanti e dall’aumentato autoritarismo del potere in atto; può essere esteso dalla sua possibile vittoria nel 2022, nonché dalla vittoria del suo principale avversario, l’RN, i due partiti rivali che comunicano nella stessa nullità ideologica. Durante questo periodo di decadenza, l’ordine ideologico in atto potrebbe essere improvvisamente spazzato via da un’emozione popolare di una grandezza ancora maggiore di quella dei giubbotti gialli nel 2018-2019.

Comunque sia, a breve o medio termine, la distruzione dell’europeismo come l’ideologia dominante è davanti a noi: non può sopravvivere per sempre al fallimento di tutti i suoi tentativi di materializzarsi e alla crescente rabbia della gente. Solo la ricostruzione di un ordine economico sovrano rigenera la vita politica e ripristina la prosperità economica nel nostro paese.

Eric Juillot

fonti:

[1] È necessario richiamarli? A livello economico, la costruzione europea, che doveva renderci più forti, non ha ridotto (piuttosto li ha rafforzati) questi mali che sono la disoccupazione di massa, la deindustrializzazione, il deficit commerciale, l’interrogatorio della protezione e diritto del lavoro … In termini geopolitici, l’UE è rimasta nana, ma la speranza di vederla crescere è stata una delle forze trainanti del ritorno della Francia alla NATO nel 2008, venti anni dopo la fine del la guerra fredda (era necessario dare impegni di atlantismo ai nostri partner europei per ottenere il sostegno dell’idea di difesa europea)![2] Questo anche se al cuore militante – in questo caso, gli intellettuali organici che dominano lo spazio mediatico – piace essere convinti del contrario. Per usare la formula di Alain Besançon, se i fedeli di una religione “sanno di credere”, gli stessi ideologi “credono di sapere”.[3] Istituito istituzionalmente dal passaggio dalla CEE all’UE nel 1992.[4] Vedi in particolare il lavoro di Fukuyama e Hobsbawm, emblematico di questo periodo.[5] L’uso massiccio del prefisso “post”, tuttavia, riflette l’incertezza e la difficoltà di pensare al di fuori del vecchio quadro: post-nazionale, post-politico, post-democratico, ecc.[6] Per uno sviluppo discusso, vedi E. JUILLOT , La déconstruction européenne , 2011, edizioni Xénia.[7] Espressione usata da Jérôme Sainte-Marie, da cui si ispirano le seguenti righe. Vedi in particolare: https://www.marianne.net/debattons/entrfaits/jerome-sainte-marie-la-dynamique-elitaire-du-macronisme-prepare-l-ascension-du[8] B. AMABLE e S. PALOMBARINI, L’illusion du bloc borghese , Raisons d’Agir, Parigi, 2018.[9] Questa è, inoltre, la causa fondamentale dell’irrigidimento autoritario dell’apparato politico-mediatico nel trattamento della rivolta dei giubbotti gialli: tutti sentono in cima che la fine si sta avvicinando, tranne forse per ricorrere al violenza per contenere le orde barbariche.[10] In effetti, per quindici anni. La debole portata concreta di questi argomenti era già osservabile durante la campagna referendaria del 2005 a favore o contro la “costituzione” dell’UE.[11] In particolare per il calo del rendimento del capitale investito dell’assicurazione sulla vita sotto l’effetto distruttivo di tassi negativi sui titoli di Stato.Fonte: Les Crises, Éric Juillot , 23-12-2019

https://www.les-crises.fr/puissance-et-impasse-de-leuropeisme-en-france-par-eric-juillot/

Marco Revelli, “Turbopopulismo”, a cura di Alessandro visalli

Nell’epoca in cui austeri dizionari on line, come quello della Treccani, coniano termini come “sovranismo psichico”[1], riprendendo un Rapporto del Censis[2] ed avviando una polemica[3] ben meritata, l’illustre sociologo torinese Marco Revelli, di cui abbiamo già letto altro[4] si impegna in una damnatio di quel che identifica come un populismo 3.0.

Il libro del politologo e sociologo torinese (anzi cuneese) ex Lotta Continua e poi Bobbio boys[5], sembra interessante soprattutto per questo: è perfettamente espressivo dello spiazzamento della migliore cultura della sinistra italiana.

Una cultura che è forse di sinistra, ma certamente da lungo tempo completamente disancorata con la tradizione socialista[6], se pure nella radice dalla quale proviene l’ex ribelle fattosi pompiere torinese è mai stata connessa[7].

Ciò che accade nel presente a Revelli appare chiaro da un lato e completamente oscuro dall’altro. È in corso quella che chiama una “rivolta dei margini”, un ‘ribollire’ di periferie in fibrillazione (p.56). Svolgendo sotto questo profilo un’analisi simile nella descrizione, ma del tutto opposta nella presa di posizione, a quella che ad esempio abbiamo letto nel lavoro del geografo Guilluy[8], Revelli individua una precisa rappresentazione dell’inversione tra sinistra e destra negli esiti elettorali che dal 2016, sempre più chiaramente, si sono accumulati (Brexit, Trump, fino ai Gilet Gialli). Ma ritrova, proprio come Guilluy, una conferma anche nelle vittorie del centro, quella di Macron in Francia, che ottengono il successo esercitando una loro forma populista, come fece, peraltro Renzi nella sua breve parabola[9]. Quel che si sta verificando è dunque una rivolta, precisamente “dei margini”.

Ma mentre il geografo francese sta con i rivoltosi, sperando possano divenire rivoluzionari, il politologo piemontese sta senza alcun dubbio con il centro assediato. La cosa non potrebbe essere più chiara. E non potrebbe essere più interessante. Come nel caso del Censis e della Treccani, qui è in corso il principio di uno scontro civile totale, occorre prendere posizione[10].

Come si prende posizione? Avvicinandosi ai simili. È quel che fa Revelli, in effetti, ed è quel che tutte le élite, con la loro ampia corona di organizzazioni, media, ed ambienti sociali, fanno. Si tratta di alzare le bandiere della ‘civiltà’, del ‘buon senso’, della buona educazione, della ‘competenza’ contro i barbari, incivili, incomprensibili, plebei, incompetenti, rozzi e ineducati, e quindi anche pieni di ri-sentimento, di rancore. Gente lontana, cattiva, la cui attitudine è distruttiva, l’opposto di ogni buon ordine. Questa “fibrillazione dei margini”, che il nostro professore osserva con distacco da entomologo, come fosse un brulicante mondo di insetti, è infatti pieno, al suo sguardo lontano, di “rancoroso distacco e ostilità nei confronti delle élite governanti” (p.68). Di rancore che “i secondi” portano ai “primi”, tra i quali, è evidente, si annovera per una sorta di diritto di nascita[11].

I “secondi”, vivono in quelli che descrive con precisa immagine spazi a “scorrimento più lento”, in sé quindi portatori dello stigma della lontananza dal principio della modernità e della civiltà. Questi “lenti” e per questo lontani (ed inferiori) vivono in spazi marginali, nella “province, le zone rurali, le periferie dei poveri”. Si tratta di spazi nei quali, l’immagine è di potentissima ed indicativa evocazione, “domina il buio, la luce privata costa, quella pubblica è magari fulminata o intermittente”.

Se domina il buio insorgerà il maligno. Non tarderà a palesarsi.

Il sociologo qui introduce alcune spiegazioni, in epoca di risorse pubbliche calanti e di dominio dello spirito del mercato i servizi sono andati dove potevano essere sostenuti, ed hanno abbandonato le periferie, incoraggiando un circolo vizioso discendente nel quale molti, e molti territori, sono affondati. Naturalmente chi è vicino a chi affonda, anche se sta per ora un poco meglio, ha paura. Ha paura di raggiungere chi sta scendendo (p.76). Del resto ormai mancano tutti quei corpi intermedi, come i vecchi partiti di massa (quelli socialisti e la democrazia cristiana) che sostenevano una relazione interna con i ceti marginali. Questa relazione, ormai persa, è descritta come disciplinante; attraverso l’egemonia culturale che il mondo allargato della sinistra, nella quale svolgevano ruolo centrale e strutturante i ‘chierici’ dei quali l’autore è esponente, lo spirito del buio era tenuto a freno. Oggi il freno è venuto meno.

Tramite gli effetti di questo venire meno è interpretato da Revelli il dispositivo centrale del populismo. L’uomo che si sente ‘perduto’, perché si rende conto di essere periferico, catturato nella lentezza e nel buio, abita spesso in una piccola città, assiste alla proletarizzazione diffusa e alla conseguente perdita di status ne è il protagonista. Si tratta di quello che moltissimi sociologi ed economisti identificano come l’arretramento della classe media.

Il populismo è, in altre parole, l’effetto di una disattivazione. La disattivazione del dispositivo della cetomedizzazione che era sviluppato dall’insieme di politiche e dei corpi sociali che le trasmettevano (sindacati, centri dopolavoristici, circoli sportivi, associazioni, volontariato, partiti). Dispositivo che, sottolineo ancora, sotto la guida degli intellettuali ‘organici’, disciplinava i ‘subalterni’, spingendoli ad accettare il loro posto nel mondo. Questa è una delle possibili declinazioni del concetto di “riformismo” nel quale la cultura azionista e quella ex socialista in particolare di matrice comunista (e della ‘nuova sinistra’) si è ritirata dopo gli anni ottanta.

In realtà è sempre stata la declinazione principale del termine.

Revelli la tocca davvero forte. Con un richiamo prima a Kracauer[12], poi a Bloch[13], peraltro entrambi datati e quindi fuori spazio, lancia un anatema sui ribelli che si rifiutano a farsi ancora guidare. Sarebbero niente di meno che inumani.

Con la stessa mossa del Censis e della Treccani, ma molto più violento, riduce ogni opposizione al disciplinamento che il riformismo diretto dall’alto produceva sulle masse, e che è ormai del tutto screditato, con la tecnica dell’evocazione del male assoluto. Nel 1933, quando sale al potere Hitler, Ernst Bloch scrisse: “non è solo l’uomo mite a scomparire: scompare tutto quanto reca il nome di uomo”. Ciò che accadde, secondo lo scrittore tedesco, alla insorgenza del primo nazismo è quindi una metamorfosi degli uomini in demoni[14].

Seriamente, per decine di pagine, procede a paragonare, fino ad identificare, il male del nazismo con la rivolta degli elettori contemporanea[15]. L’insorgenza di Hitler con l’eventuale, aborrita, vittoria democratica del più vecchio partito italiano, pur criticabile[16].

Richiama una presunta “tara antropologica”, il male nell’uomo, una “cattiveria”, un “compiacimento nell’inumano”, il gusto di “mostrarsi crudeli”, o “indifferenti al male altrui” (cosa che sarebbe, da notare, per lui equivalente). Certo l’indifferenza al male altrui è, in effetti, quella che lui stesso esercita, in quanto nomina ma non comprende il senso di essere abbandonati e traditi dalle politiche che la sinistra, in primis, ha portato avanti. Politiche che ha lui stesso avallato qaundo non mancò di dare il proprio pensoso appoggio a Monti[17] (dato che scacciava l’altro male assoluto, all’epoca rappresentato da Berlusconi).

Ovviamente il punto di massimo esercizio di questo paradigma interpretativo, che segnala in modo davvero plastico l’abbandono dello spirito popolare da parte delle sinistre rifugiatesi da decenni nelle loro cittadelle (siano esse sociali, universitarie o variamente baronali), è l’immigrazione. Una ventina di pagine di autentici deliri. In cui le “vere vittime” sono gli immigrati (lo sono, naturalmente[18], ma non per questo le plebi abbandonate a se stesse dall’assetto neoliberale non lo sono, non per questo sono “false”). Tutte le politiche di respingimento sarebbero allora semplicemente “disumanizzazione” (dal che si deduce che sono inumani in pratica tutti i popoli del mondo, e lo sono da sempre[19]). Per respingere sarebbe necessaria una sorta di “neutralizzazione morale” ed il “rovesciamento del rapporto vittimario” (p.101). Questo rovesciamento poggerebbe sulla “percezione di una concorrenza sleale”, che viene vissuta da chi si sente assediato dalle bollette da pagare, non riesce più a stare dietro alle scadenze e a pagare la scuola ai figli, o a vestirli, soffre la deprivazione corrispondente, non si può pagare le cure mediche, e via dicendo. Si tratta di “un grande serbatoio di disagio materiale” che, però, essendo solo un “disagio” (e non una disperazione, che evidentemente il professore, non avendola mai vissuta, non è in grado di capire e neppure di com-patire) non basta a spiegare quel che Revelli identifica come, niente di meno che “uno spaventoso svuotamento del sé dall’umano”. Una frase pomposa, come se il sé possa essere svuotato dall’essenza umana, quasi come si toglie un liquido da un recipiente. Una frase che alluderebbe a “qualcosa di mentale”, un vedersi fuori del “racconto collettivo”, invisibili.

C’è qualcosa del genere, accade, ma resta il fatto che per il nostro professore torinese il ‘mentale’ implica immediatamente una “regressione nel disumano” che nessun dolore subito può giustificare; implica una “metamorfosi in demoni” di gente comune che, se poteva essere magari sostenuta da Bloch (se pur nel 1933 e non nel 1943), suona strana, stridula applicata oggi a persone che, in fondo, protestano contro la perdita di senso e di democrazia.

Suona ancora più strana nel momento in cui l’autore si mostra consapevole che c’è una connessione con il fatto della globalizzazione. Un evento che era stato indicato dalla sinistra come la “premessa per un nuovo, più universalistico, umanesimo”, mentre ne è nemico. Ma questa relazione è ricondotta a sua volta ad una “sindrome”, ovvero è ancora medicalizzata. La sindrome non elaborata del melting pot in cui si sciolgono (e devono farlo perché è un destino storico) le identità collettive e “nessuno riesce più ad avere un proprio ruolo e un proprio status corrispondente, garantito”. Qui compare, scritto da un garantito ovviamente, un gioco di prestigio dialettico:

“cosicchè si crede – falsamente – che segregando e sigillando ‘fuori’ quell’umanità eccedente, che preme oltre i confini e che si vorrebbe escludere rafforzando quei confini (peraltro sempre più precari), si possa ritornare ad ‘essere’ – come prima – qualcosa, senza accorgersi che così, sciaguratamente, si finisce per estinguere anche quel residuo di umanità che si conservava dentro, e che ci salvava. Come individui e come ‘popolo’. Ci si riduce, appunto, a niente” (p.108).

Sarò sincero, è un esercizio di stile, ma non significa assolutamente nulla. Intanto non c’è qualcosa come una “umanità eccedente”, questo è esercizio di pura astrazione liberale del tipo peggiore[20], esistono invece sempre esseri umani situati, che sono ‘nati da donna’ e che sono stati cresciuti in una cultura, connessi a degli obblighi e portatori dei diritti reciprocamente riconosciuti in comunità umane specifiche. E questi esseri umani possono essere talvolta ‘eccedenti’, quindi indotti o costretti ad emigrare, ma ciò non ha proprio nulla a che fare con l’essere qualcosa (ovvero dotati di risorse e diritti, ordinati nel mondo) o con il non esserlo. Comprendo molto bene che la generazione dei chierici alla quale appartiene Revelli abbia fatto dell’abbandono del popolo al suo destino un segno morale, un elemento di distinzione e marcatore di superiorità, l’identificatore di una appartenenza e di una promozione[21], ma la questione di essere qualcosa, usando gli stessi termini, si pone, e non è affatto vana. Avere, come ovviamente si ha, un confine ed affermare in esso una sovranità è una precondizione per poter lottare (certo contro le élite che l’autore così ben rappresenta), per tornare ad essere. Non è questione di avere “residui di umanità” che “salvano”, idea che solo un borghese con tutto l’essenziale al sicuro può accarezzare. È questione di avere di nuovo il materiale necessario.

Per nascondere questa semplice posta, keynesiana si potrebbe dire, della redistribuzione necessaria per rimettere in questione i rapporti di forza, ci si sposta sulla Repubblica di Weimar, la Turchia del 1916, la Roma del tardo impero, addirittura Sodoma e Gomorra… per sostenere la tesi piuttosto astorica ed astratta che la pietà sarebbe “sostanza indivisibile”, o si ha per tutti e sempre o non c’è, o la si prova o se ne è privi. Se ne deduce che Revelli ne è privo, dato che prova un evidente disprezzo di classe, con assoluta incapacità di comprensione, delle sofferenze di almeno dieci milioni di italiani, cinquanta milioni di statunitensi, un’altra trentina di milioni di europei, che magari talvolta si fanno tentare a votare populista (qualunque cosa significhi), ma certo vivono la disperazione di sentirsi scendere ed arretrare giorno dopo giorno da anni. Come sia, al netto di qualche altra ridicolaggine, come il sacro dovere di ospitalità (che è sempre stato altamente selettivo) o l’abuso di Cicerone e Seneca, il tono resta questo.

Ovviamente i politici che hanno interpretato questo sentimento di dolore ed abbandono dei propri concittadini sono dichiarati “psicopatici” (anche se “di successo”), colpevoli di “sdoganare il male” e di un comportamento mimetico che compie la mossa del “assorbimento mediante abbassamento” (p.126). Colpevoli di utilizzare ed esercitare un linguaggio semplificato e di cercare di passare dal principio di legittimazione nel quale le élite “positive” sono esperte, il “paradigma della superiorità”, a quello nel quale eccellono quelle populiste, il “paradigma del rispecchiamento”.

In altre parole, invece di mostrarsi “migliori” (ovvero aristoi) questi nuovi politici si mostrano schietti, talvolta volgari, praticano “l’abbassamento” verso un popolo che è “un aggregato linguistico maleodorante di termini fallici e in genere sessuali, di posteriori e promiscuità, da frequentatori di angiporti e di trivii; un popolo, appunto ridotto ai propri attributi corporeo-materiali, capace di recepire con particolare rilievo i richiami elementari della riproduzione genitale o gastro-intestinali”.

In questi passaggi lo scontro tra estetiche e quindi tra classi non potrebbe essere più chiaro. Si tratta di una profonda frattura, incomunicabile, una matrice di reciproco disprezzo e finanche di odio. Ma non sono solo i “populisti” che odiano gli aristocratici alla Revelli, è, evidentemente, anche che lui odia loro.

Revelli sente emanare da questo popolo frammentato quello che chiama “un acre odore di zolfo”, una società regredita ad una condizione asociale. Una regressione alla “forma informe del vuoto” (p.163). Una forma che “farà il suo giro” e nella sua ambiguità costitutiva sta prendendo la forma di una sorta di “populismo 3.0”, più espressamente “di destra” che lavora con la vecchia tecnica del “capro espiatorio”.

Scrivevamo all’inizio che è il principio di uno scontro civile totale.

Gli allineamenti sono abbastanza evidenti, anche formazioni intermedie, sensibili al “momento populista”[22] sentono il richiamo della foresta, i tam tam della tribù che battono. Oppure è evidente nella mobilitazione semispontanea delle “Sardine”[23] che appare sempre più come un movimento vasto e reattivo, trascinato dalla paura esistenziale. Se quel che si muove dal fondo e dalla periferia della società occidentale è una ‘rivolta degli elettori’ alla loro designazione come vittime (della storia, secondo la lettura di aristoi come Revelli), quel che dall’altro lato si allinea è una contro-rivolta, un singolare movimento pro-establishment composto da ceti e frazioni di classe non solo protetti e garantiti, ma accumunati da un desiderio di status. Sostiene Guilluy che la frazione dominante della società occidentale ha abbandonato i segmenti popolari e si è distaccata (una tesi che a suo tempo avanzò anche Lasch ed altri), e che l’egemonia sta passando al basso.

Di fronte a questo movimento ‘polanyiano’[24] è in corso una sorta di contro-contro-movimento. Si tratta di un allineamento che in altri termini avremmo definito “sovrastrutturale”. Una spaccatura che nasce dalla paura di alcuni mondi vitali di essere travolti, dalla “rivolta degli elettori” che si sentono messi a margine e scacciati nell’irrilevanza.

Il mondo vitale plurimo che si mobilita contro la rivolta, e che si esercita in una singolare contro-rivolta pro-establishment, è aggregato da un certo tono libertario, da un’estetica liberale e da un afflato ancora competitivo, dal desiderio se non altro di essere cooptato di accedere alle aree dense e veloci. Spesso si assommano anche i militanti di movimenti non distributivi, come l’ambientalismo, le lotte per i diritti civili, il pacifismo, il femminismo. Movimenti che hanno, e da sempre, una chiara egemonia piccolo-borghese e metropolitana. In questo campo c’è maggiore densità degli urbani, di coloro che hanno una formazione media o alta, che condividono quindi le narrazioni e le strutture cognitive dominanti, sono stati formati in esse. In termini di stratificazione sociale (ma ricordo che l’adesione ai ceti medi è questione di status percepito molto più che di mera condizione materiale), troviamo in questo campo allineato con la contro-reazione impiegati, giovani precari ad alto sfruttamento (ma “provvisorio”), insegnanti, studenti, quadri pubblici, piccolo borghesi anche autonomi, professionisti, pensionati a reddito alto, imprenditori di imprese rivolte ai mercati esteri. Insomma, coloro che sono nel centro o aspirano ad accedervi.

Nello scontro civile l’altra parte, i barbari e gli inumani, i demoni, sono molto più operai, ancora giovani precari, ma con poche speranze di riscattarsi, certo anche alcuni sottoproletari, alcuni dipendenti pubblici e privati, ancora segmenti di piccola borghesia e di lavoro autonomo, molti professionisti, anche imprenditori che lavorano verso il mercato interno e ne percepiscono la sofferenza. Coloro che sono al margine sanno di esservi.

Le contraddizioni attraversano entrambi i campi ed i confini sono tutt’altro che impermeabili, soprattutto i meri interessi economici non spiegano tutto. Se la prima Italia, quella alta e centrale, è per il mercato, di cui apprezza le virtù salvifiche, lo spirito libero e competitivo, il vitalismo, la seconda Italia, quella bassa e periferica, normalmente avversa lo Stato, la sua imposizione fiscale. Contraddittoriamente la prima si trincera in esso, la seconda ne richiede la protezione, sociale e lavoristica.

Lo scontro civile totale, al quale il libro di Revelli porta armi, nasce dall’incapacità di entrambe le Italie, della rivolta come della contro-rivolta, di comprendere se stesse e di venire a patti con la propria estetica. Non si riconoscono vicendevolmente l’appartenenza al campo dell’umano, e parlano lingue diverse.

Si riconoscono al primo sguardo, al movimento, al vestiario, alla prima parola, e si odiano.

[1] – Il neologismo compare a questa voce: “sovranismo psichico s. m. Atteggiamento mentale caratterizzato dalla difesa identitaria del proprio presunto spazio vitale. ♦ Sovranismo psichico, prima ancora che politico. È la definizione del Censis nel 52esimo rapporto presentato ieri al Cnel a Roma. Più che un’analisi sui dati dell’economia, e della sua crisi, l’indagine trova un suo interesse per il panorama che offre sulla crisi della soggettività nell’epoca del risentimento e del «populismo» al potere. L’espressione ridondante di «sovranismo» non allude solo al conflitto tra Stato-Nazione e tecnocrazia europea, ma al cittadino-consumatore che «assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio». (Roberto Ciccarelli, Manifesto.it, 8 dicembre 2018, Italia) • Non accettiamo la realtà del nostro futuro che sarà nella globalizzazione dei mercati e in una società multietnica e multirazziale? Noi italiani che corrispondiamo a meno dell’1% della popolazione mondiale vogliamo metterci alla guida dell’altro 99% affermando che devono fare quello che riteniamo giusto noi? Naturalmente, in questo modello di pensiero, se gli altri popoli non si adeguano ci sentiamo incompresi e accerchiati per cui costruiamo dei nemici mentali che in questo momento storico sono i migranti e le istituzioni sovranazionali come l’Unione europea, i mercati, il Fondo monetario, etc. Ringrazio il Censis e il Dr. De Rita per aver chiarito, inventando il termine sovranismo psichico, questo modello di pensiero e perché poi, inevitabilmente, sfoci in rabbia e cattiveria verso gli altri. (Luciano Casolari, Fatto Quotidiano.it, 18 dicembre 2018, Blog) • È vero: sondaggi alla mano, questo grumo ideologico di nazionalismo securitario e xenofobo seduce molti italiani, rinchiusi nei miti della “Piccola Patria” e nei riti del “sovranismo psichico” (per restare alla formula Censis). (Massimo Giannini, Repubblica.it, 2 gennaio 2018, Commento).”

[2] – 52° Rapporto Censis, che attribuisce ad un sentimento, come il rancore e quindi la cattiveria, che è normalmente pensata come una attitudine ad offendere, a far del male, e quindi la radice di azioni riprovevoli, dannosi, il sovranismo. Cito: “Al volgere del 2018 gli italiani sono soli, arrabbiati e diffidenti. La prima delusione ‒ lo sfiorire della ripresa ‒ è evidente nell’andamento dei principali indicatori economici nel corso dell’anno. La seconda disillusione ‒ quella del cambiamento miracoloso ‒ ha ulteriormente incattivito gli italiani. Così, la consapevolezza lucida e disincantata che le cose non vanno, e più ancora che non cambieranno, li rende disponibili a librarsi in un grande balzo verso un altrove incognito. Una disponibilità resa in maniera pressoché incondizionata: non importa se il salto è molto rischioso e dall’esito incerto, non importa se si rende necessario forzare – fino a romperli – i canonici schemi politico-istituzionali e di gestione delle finanze pubbliche, a cominciare dalla messa in stato d’accusa di Bruxelles. L’Europa non è più un ponte verso il mondo, né la zattera della salvezza delle regole rispetto al nostro antico eccesso di adattismo: è una faglia incrinata che rischia di spezzarsi. Così come il Mediterraneo non è più la culla delle civiltà e la nostra piattaforma relazionale, bensì ritorna come limes, limite, linea di demarcazione dall’altro, se non proprio cimitero di tombe. Gli italiani sono ormai pronti ad alzare l’asticella: sono disponibili a un funambolico camminare sul ciglio di un fossato che mai prima d’ora si era visto da così vicino, perfino a un salto nel buio, se la scommessa è quella poi di spiccare il volo. È quasi una ricerca programmatica del trauma, nel silenzio arrendevole delle élite, purché l’altrove vinca sull’attuale. È una reazione pre-politica che ha profonde radici sociali, che hanno finito per alimentare una sorta di sovranismo psichico, prima ancora che politico. Un sovranismo psichico che talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare e disperata, ma non più espressa nelle manifestazioni, negli scioperi, negli scontri di piazza tipici del conflitto sociale tradizionale”.

[3] – Scrive, ad esempio, Andrea Zhok: “Dopo essere stata presa in giro sui social per mesi la definizione di ‘sovranismo psichico’ ha l’onore di essere ospitata come voce dalla Treccani online. Forse è il caso di smettere di ridere e di chiederci se ci siano ancora limiti che i poteri mediaticamente ed economicamente più influenti (l’establishment) considerano non sorpassabili, o se oramai siamo arrivati al punto in cui si ritiene che valga tutto, assolutamente tutto, pur di abbattere l’avversario. Già, perché ospitare come voce accreditata una formula che è dimostrabilmente un’idiozia con finalità di lotta politica spicciola ricalca esattamente una delle dinamiche descritte da George Orwell, di confisca concettuale e assoggettamento culturale. Da un lato le istanze del ‘politicamente corretto’ mettono fuori legge tutte le espressioni che suonano come critiche dell’opinionismo mainstream, e dall’altro vengono accreditate unità concettuali farlocche e strumentali come se fossero descrittori di natura scientifica. Non basta dunque aver distorto pervicacemente la nozione di ‘sovranismo’, applicata originariamente in contesto francofono per le istanze di rivendicazione autonomiste su base nazionale (Quebec, Irlanda, Palestina, ecc.), trasformandola in un sinonimo di ‘nazifascismo’. Ora si passa alla fase della patologizzazione del dissenso, che viene ridotto a categoria psichiatrica, a deviazione mentale. Esaminiamo innanzitutto la definizione che ne viene data: ‘Atteggiamento mentale caratterizzato dalla difesa identitaria del proprio presunto spazio vitale’.

La prima cosa da osservare è che se togliamo l’aggettivo ‘presunto’, che insinua la natura illusoria, erronea del giudizio (per il loro ‘presunto’ punto di vista obiettivo), il resto della definizione rappresenta una descrizione che si attaglia a tutte le specie viventi, a tutte le unità culturali, istituzionali e statali di cui abbiamo contezza. Infatti, la ‘difesa identitaria del proprio spazio vitale’ è qualcosa che può valere per l’identità di un organismo rispetto a fattori esogeni che ne destabilizzano l’identità, così come per ogni unità politica nota. Anche la multiculturale e multinazionale Svizzera opera in forme che tendono a preservare la difesa identitaria del proprio spazio vitale: ha una Costituzione, dei confini, leggi comuni, regole che ne definiscono l’indipendenza da altre unità politiche entro uno spazio in cui vivono i suoi cittadini.

Salvo che per colonie, protettorati o entità politiche fittizie (come alcuni paradisi fiscali), nel mondo non esistono che unità politiche per cui è ovvio che la propria identità entro uno spazio vitale vada difeso. Tutto il peso dello stigma nella definizione sta nel carattere di illusorietà (‘presunto’), che farebbe dell’ ‘atteggiamento mentale’ una forma di delirio, di allucinazione malata. Le citazioni che forniscono la campionatura d’uso dell’espressione sono in questo senso eloquenti. La prima fa riferimento ad un atteggiamento ‘paranoico’, cioè appunto ad una categoria delirante; niente viene aggiunto al quadro, salvo il giudizio insindacabile del giudicante: si tratta di patologia mentale.

La seconda addirittura, secondo il canone retorico dello ‘strawman’, inventa di sana pianta una tesi che nessuno, neanche qualche ultras neonazi etilista, ha mai sostenuto (“vogliamo metterci alla guida dell’altro 99% affermando che devono fare quello che riteniamo giusto noi?”), per poter procedere alla liquidazione forfettaria di ogni richiesta di sovranità. Ora, ciò che è particolarmente preoccupante in questo episodio di malcostume culturale è vedere l’abisso di malafede, arroganza e ignoranza in cui sguazzano soddisfatti precisamente quelli che sparacchiano accuse ad alzo zero di malafede, arroganza e ignoranza sui dissenzienti. Siamo di fronte ad operazioni spudorate, prive di scrupoli, in cui vengono avvelenati i pozzi del dibattito pubblico da coloro i quali sono stati posti a guardia degli stessi.

E’ qualcosa che eravamo abituati a leggere nelle descrizioni sull’atmosfera di falsificazione culturale nella Controriforma tridentina o nella Restaurazione napoleonica, pensando che eravamo fortunati a vivere in un’epoca che li aveva superati. E ci ritroviamo oggi con i sedicenti portatori sani di ‘illuminismo’ a fare le stesse cose, ma con meno scuse.”

[4] – Si veda, Marco Revelli, “Finale di partito”, 2013; “Dentro e contro”, 2015; “Populismo 2.0”, 2016.

[5] – Marco Revelli, figlio di un partigiano e poeta come Nuto Revelli, si è laureato in giurisprudenza sotto la guida di Norberto Bobbio all’avvio degli anni settanta, insegna Scienza della politica all’Università del Piemonte orientale dalla fondazione fino allo scioglimento aderisce a Lotta Continua e poi aderisce al gruppo di Primo Maggio. La sua biografia è perfettamente rappresentativa di un’intera epoca della cultura italiana.

[6] – Per questa distinzione tra le tradizioni della “sinistra” e del “socialismo” si veda Jean-Claude Michéa, “I misteri della sinistra”, che pone in chiave di ricostruzione filosofica della storia delle idee al centro il semplice fatto, noto a tutti ma da tutti dimenticato, che il socialismo non è il liberalesimo. Sono stati alleati, nella lotta contro la reazione, ma non coincidono. E neppure si può dire che il socialismo sia il superamento dialettico del liberalesimo, in quanto si tratta di tradizioni di pensiero che da quasi duecento anni procedono in parallelo, anche se hanno alcuni costrutti comuni. Tra i più profondi e problematici quello di “progresso”, che entrambe le tradizioni tendono a leggere, in una sorta di residuo illuminista e positivista, sotto la forma della crescita economica illimitata e auto programmata. In questo modo la dimensione “sociale” e comunitaria della tradizione socialista viene oscurata in favore della fascinazione per il continuo sradicare e rendere flessibili, mobili, della modernità contemporanea. La pratica della costante rivoluzione culturale della modernità discioglie nelle gelide acque del calcolo egoista tutte le costituzioni e le eredità, smontando ciò che permane. E’ chiaro che questa ideologia, e sin dall’inizio, trova senso e scopo nell’ineguaglianza e guarda il mondo dal punto di vista dei possidenti. A chi giova la libertà desiderante dai vincoli sociali ed il trionfo dell’individuo, a chi ha le risorse economiche per goderne e non vuole limiti a questo, o a chi lotta giorno per giorno per avere l’essenziale? Nascondendo questo fatto la metafisica del progresso è “lo zoccolo duro di tutte le concezioni borghesi del mondo” (Michéa), e con esso l’idea che le forme produttive dominanti siano anche, e sempre, delle forme della ragione (una sorta di hegelismo pervertito) e dunque “tappe storicamente necessarie” per la liberazione e la parusia. La versione liberale di questa è la “pace perpetua” nel contesto di una futura governance mondiale a-politica e della totale mobilità di ogni fattore (con la dissoluzione di ogni identità, in quanto ostacolo al dispiegarsi della logica del valore e della sua appropriazione individuale). La versione socialista sfuma in quella. Ma nella tradizione socialista è presente anche un altro sistema di idee, radicalmente indisponibile alla dissoluzione nelle gelide acque del calcolo, la critica alla reificazione che ricorda come non necessariamente ogni passo “avanti” è per definizione nella “giusta” direzione. La direzione della storia, in particolare quando procede verso la dissoluzione delle forme sociali esistenti sotto la spinta dell’automovimento della tecnologia e dell’economico, non è sempre apprendimento ed emancipazione. Secondo quanto sintetizza Michéa, “nessun liberale autentico – ovvero nessun liberale psicologicamente capace di accettare tutte le implicazioni logiche delle sue convinzioni – potrà mai ritrovarsi in un’altra ‘patria’ (se con tale nome ormai demonizzato s’intende ogni primaria struttura di appartenenza che –come la famiglia, il paese di origine, o la lingua madre- non può derivare, per definizione dalla libera scelta degli individui) che non sia quella ormai costituita dal mercato globale senza frontiere” (p.31). I liberali sono, cioè, naturaliter cosmopoliti. Ma essere ‘conservatori’ non è sempre identico all’essere di destra, a volte significa essere realmente socialisti. La conclusione di Michéa è prettamente politica: accettando questa analisi, ne deriva che il ‘significante principale’ intorno al quale schierare un fronte avverso al selvaggio liberalismo trionfante dei nostri tempi non può limitarsi alla “sinistra”, ma deve riprendere quelle che chiama “bandiere a priori” molto più larghe ed unificanti. Che abbiano senso per tutte le classi popolari e per i loro alleati. E’ chiaramente la questione del populismo.

[7] – Si veda in proposito Luc Boltanski, Eve Chiappello, “Il nuovo spirito del capitalismo”, 2014

[8] – Christophe Guilluy, “La società non esiste”, 2018.

[9] – Si veda la diagnosi dello stesso Revelli in “Dentro e contro”, 2015.

[10] – Da una parte la visione dell’emancipazione come rottura e liberazione da ogni vincolo, in primo luogo comunitario. In quella che Honneth in “Il diritto della libertà”, caratterizzerà in modo convincente come una parziale ed insufficiente libertà solo “negativa”, da oltrepassare sia in senso “riflessivo” (è libero ciò che effettivamente scelgo senza essere costretto neppure da passioni e costrizioni acquisite) sulla scorta delle lunghe riflessioni in questo senso (da Aristotele alle riprese di Rousseau e dello stesso Kant) sia e più profondamente dalla “libertà sociale” (sono libero solo quando mi oriento verso l’altro e insieme sosteniamo i reciproci piani d’azione). Ecco che un’emancipazione come libertà di essere solo, in concorrenza con tutti gli altri, invece attiva inevitabilmente forme di schiacciamento dell’altro, di mancato riconoscimento come persona e di riduzione ad oggetto, a strumento, e di potenziamento delle ineguaglianze.

[11] – Ciò che accade nel secondo dopoguerra è, in particolare in alcuni ambienti semicentrali come la Torino degli anni dai cinquanta ai settanta e ottanta l’effetto di un mito fondativo imperniato sulla resistenza e sull’azionismo. Chi scrive condivide l’alta valutazione della resistenza ma bisogna avere il coraggio di dire il vero. Intorno a questa si sono formate delle vere e proprie aristocrazie che fondano il proprio potere, radicato in alcuni ambienti densi come l’università e alcune amministrazioni e soprattutto corpi intermedi essenziali per il funzionamento democratico, ma anche viatico di cooptazioni che assicurano la continuità, sulla presunta e rivendicata superiorità morale. Questo tono inconfondibile è la tecnica attraverso la quale si sceglie ex ante chi è “primo” e chi “secondo”, chi sta al centro, perché ha il buon diritto che deriva dalla riconosciuta cultura e dalla indubitabile integrità, e chi è, perché lo deve, periferico.

[12] – Siegfried Kracauer, “Gli impiegati”, Einaudi, 1980

[13] – Ernst Bloch, “Il mito della Germania e le potenze mediche”, 1933

[14] – Ricordiamo qualche antefatto: Nel 1923 la grande guerra è finita da pochi anni e la Germania è nel pieno del caos, dall’ottobre 1918 al 1919 si sussegue una guerra civile a bassa intensità nella quale trovano la morte Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, il governo andò ai socialdemocratici moderati di Ebert che vinsero le elezioni del 19 gennaio 1919, formando la Repubblica di Weimar. A Monaco, invece, venne proclamata una Repubblica Sovietica che fu repressa dall’esercito. Quindi ci furono sollevazioni in Polonia e tre distinte sollevazioni slesiane. Nel frattempo la Germania firmò il Trattato di Versailles accettando condizioni che umilieranno il paese e porranno le condizioni (come previse un giovane Keynes), della rivalsa successiva. Tale fu l’odio per il Trattato che due dei firmatari per parte tedesca saranno successivamente assassinati. Il nuovo Stato è sotto la pressione di opposti estremismi. Mentre altre sollevazioni comuniste si susseguivano (nella Ruhr, in Sassonia ed a Amburgo) dal 1923 la Repubblica è insolvente verso le riparazioni di guerra e le truppe francesi occuparono la Ruhr; seguirono scioperi massicci e stampa di ulteriore moneta per pagare comunque gli operai. Partì quindi una breve ma impressionante fiammata di iperinflazione (causata dalla totale mancanza di fiducia nella moneta e nel governo che questa rappresentava). Nel 1923, a Monaco di Baviera, Adolf Hitler con il neonato Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (NSDAP) diede seguito al Putsch della birreria; dal 1921 si formarono le SA (sturmabteilung). Hitler venne arrestato e condannato a cinque anni di carcere, ma dopo uno fu rilasciato. Dal 1923 si formò un governo di coalizione che sembrò tranquillizzare un poco la situazione, per stabilizzare l’economia avviò però una brutale politica restrittiva (ridusse le spese e alzò le tasse). Purtroppo nel 1930 Heinrich Bruning venne nominato cancelliere, ma il governo era debole e cadde quasi subito. Il 14 settembre 1930 alle elezioni il NSDAP ottenne il 18% dei voti. Mentre la nazione scivolava verso la guerra civile Bruning sulla base di Decreti Presidenziali di emergenza, non avendo la maggioranza, tentò di risanare lo Stato su inflessibili linee di stretta austerità liberale. Ridusse quindi drasticamente la spesa pubblica, creando milioni di disoccupati in un paese in cui l’iperinflazione di pochi anni prima aveva distrutto i risparmi di moltissimi, ed eliminò anche i sussidi per la disoccupazione introdotti nel 1927. La disoccupazione arrivò al 40%. Le elezioni del 3i luglio 1932 portarono la NSDAP al 37,2%, e poi al 33% nelle immediatamente successive nuove elezioni. Il 30 gennaio 1933 Adolf Hitler fu nominato Reichskanzler.

Ma anche nel resto del mondo nei cruciali anni venti si era nel pieno di quelle reazioni difensive a catena imperniate sotto molti profili nella difesa ostinata della “base aurea” e quindi delle politiche deflattive che questa imponeva. Negli anni venti l’Italia cade nel fascismo, nei trenta tocca alla Germania e, al termine del decennio, alla Spagna. Il sistema internazionale che aveva retto il mondo nel settantennio di pace sotto l’imperialismo inglese e “il concerto” delle nazioni termina quindi definitivamente; fallisce cioè il tentativo di ripristinarlo dopo la grande guerra. In tutti i paesi europei, Inghilterra nel 1931, Austria nel 1923, Francia nel 1926, Germania nel 1931, i partiti della sinistra, dopo aver sostenuto politiche di austerità perdendo parte del loro consenso, furono allontanati quando si trattò di “salvare la moneta”. Come Karl Polanyi fisserà nel suo capolavoro “La grande trasformazione” furono accusati delle difficili condizioni i salari inflazionati e i disavanzi di bilancio per cui si perseverò nella scelta di ulteriore austerità nel mezzo di una devastante crisi. Come dice Polanyi, quindi: “il tempo divenne maturo per la soluzione fascista”. Nel 1932 molti intellettuali si rivolsero verso la ricerca di soluzioni forti, Werner Sombart pronunciò un indicativo discorso su “L’avvenire del capitalismo”.

[15] – Formula richiamata in un fortunato libro di Andrew Spannaus, “La rivolta degli elettori”, del 2017.

[16] – Si veda, ad esempio, “Giochi di specchi ed equivoci: il caso della Lega

[17] – Si veda, Marco Revelli, “Bacio il rospo Monti, ma…”. E’ interessante che dichiari di fare il tifo per Monti per una questione estetica (ed etica), di pelle. Lo strepitio, la volgarità al potere, il caravanserraglio, … del governo di Berlusconi offendevano il suo senso dell’appropriato. Si tratta di uno schieramento che si manifesta su linee prerazionali (anche se non mancano anche le ragioni razionali, il solito Tina), ovvero per allineamenti identitari. E quale è l’identità che è qui così bene manifestata? Ovviamente si tratta di un richiamo ai tradizionali valori di sobrietà, buon senso, educazione ed ordine della buona borghesia. Anche un poco noiosa, un poco conservatrice, ma certamente capace di sapere come si sta a tavola. Si potrebbe dire molto altro, e di interessante, su questo articolo, ma non è la sede.

[18] – Sono vittime sia per il viaggio, sia per il selvaggio sfruttamento, la vera e propria schiavitù cui sono sottoposte da parte dei ceti imprenditoriali e borghesi italiani. In un sistema di sfruttamento paraschiavistico che coinvolge milioni di persone (questa è l’unica parte valida del recente libro di Luca Ricolfi “La società signorile”, 2019.

[19] – Difficile non vedere, se non dagli spessi occhiali della ideologia, che in pratica tutti i paesi del mondo praticano, tanto più quanto più sono sovrani, la regolazione dell’immigrazione. Come difficile non sapere che le politiche di welfare sono cresciute sempre in condizione di regolazione forte degli spiriti animali del capitalismo e di rafforzamento della coalizione sociale del lavoro, e quindi dell’immigrazione (che tende ad alimentare gli uni e depotenziare l’altra). Si veda, ad esempio, Kiran Klaus Patel, “Il New deal”, ma si veda anche per un quadro allargato “Appunti sull’economia politica delle emigrazioni: il caso dei paesi semi-periferici”.

[20] – Si veda, ad esempio la polemica tra liberali e comunitari degli anni ottanta. Ad esempio il grande classico di Michael Sandel “Il liberalismo e i limiti della giustizia”, 1982.

[21] – La promozione a classe dirigente del paese e a parte essenziale della sua borghesia. Proprio mentre si disprezza il paese reale e si dichiara l’indispensabilità del vincolo esterno.

[22] – Mi riferisco a Patria e Costituzione, che qualche giorno fa ha pubblicato il post “Perché il fascismo è una patologia dell’anima”, nel quale con argomenti piuttosto leggeri riprende la tesi di una sorta di radice antropologica del fascismo e con l’artificio retorico dell’abuso del termine “negazionalista” (riferito non a chi neghi l’olocausto, ma a chi dubiti della natura fascista dei populisti) accusa indifferentemente di “tentare di difendere i fascisti”. Con questo cortocircuito, ed il richiamo del libro più liberale della fase più liberale di un autore come Umberto Eco (“Il fascismo eterno”, nel quale in sostanza si bollava come fascismo tutto quello che non è liberale), e la dimostrazione dell’esistenza di qualche sparuto gruppuscolo di autentici fascisti, la redazione prende posizione, disumanuzzando gli avversari. Si tratta di un allineamento estetico, in effetti. Un allineamento di classe.

[23] – Si veda, “Sardine”. Per un intervento di Marco Revelli si veda, “Il neo-qualunquismo della sinistra radicale che attacca le sardine”.

[24] – Si veda Karl Polanyi, “La grande trasformazione”, 1944. nel quale descrive appunto il crollo subitaneo della mondializzazione liberale di tardo ottocento per effetto delle forze che aveva mobilitato e della reazione difensiva della società sfidata di distruzione da queste. Come scrive, cioè, l’effetto dell’incapacità del capitalismo del lassaire-faire di governare le forze che esso stessa aveva messo in moto e il venir meno quindi dei meccanismi fondamenti del suo funzionamento. L’utopia di autoregolazione senza politica e dissolvendo la società crolla sotto il peso delle sue contraddizioni e del mondo inospitale che crea. L’opinione dell’autore è, infatti, che queste idee siano del tutto errate, che l’individualismo e in particolare la rivoluzione industriale non sia un veicolo di progresso, ma una vera e propria calamità sociale; che il mercato non sia autoregolato, non sia soggetto ad un automovimento, ma sia un’artificiosa costruzione parte di un intreccio funzionale di “istituzioni” (un equilibrio di potere geopolitico, la base aurea internazionale, lo Stato liberale), e alla fine non possa che operare, se lasciato nella sua purezza, per annullare la sostanza umana e naturale della società (che talvolta chiama “organica”); per distruggere quindi sia l’uomo che l’ambiente.

È per reazione a quest’aggressione che “la società” (cioè concretamente le forze sociali che hanno di volta in volta da perdere, anche in inedite alleanze di fatto) si difende, introducendo vincoli e garanzie che sono alla lunga incompatibili con esso e finiscono per provocarne il crollo (descritto negli anni quaranta).

Per Polanyi la popolazione ed in essa le classi sociali e le forze che sono principalmente aggredite e destabilizzate dalla centralità dell’interesse egoistico senza freni del mercato (nelle tre dimensioni del lavoro, del denaro e della terra in particolare) “manifesta una fondata esigenza di sicurezza materiale e di riconoscimento sociale”. Dunque legittimamente sottopone il mercato al vincolo di una “società democratica” che sottrae i fattori del lavoro, del denaro e della terra al mercato, fissandone politicamente i prezzi (cioè regolando il lavoro ed i relativi contratti, limitando i movimenti di capitale e controllando gli scambi nei limiti del danno ai territori).

https://tempofertile.blogspot.com/2019/11/marco-revelli-turbopopulismo.html

diritto internazionale e geopolitica, con il professor Augusto Sinagra

La fase di incipiente multipolarismo sta evidenziando sempre più la precarietà e la volatilità del sistema di relazioni internazionali. L’evidente squilibrio di forze esistente ancora tra i vari poli evidenzia ancora una volta come non esista in realtà un diritto internazionale così come lo si intende all’interno della area di giurisdizione degli stati; gli ultimi avvenimenti in Medio Oriente, legati all’uccisione del generale Soleimani, evidenziano come gli atti politici spesso e volentieri non si premurano nemmeno di assumere una copertura giuridica e di legittimità_Buon ascolto_Giuseppe Germinario

la matassa, di Pierluigi Fagan

Avevamo detto che la logica degli eventi culminati con l’uccisioni di Soleimani, ci sarebbe apparsa più chiara in seguito ai suoi sviluppi. Proviamo dunque a fare il punto del cosa e quanto successivamente successo, ha o non ha chiarito il quadro.

L’Iran ha inviato una serie di missili forse avvertendo per tempo gli americani di modo da non fare vittime. Ha mostrato i suoi gioielli (i missili erano tutti made in Iran), ha dato in pasto alle sue opinioni pubbliche un segno di presenza, ha minimizzato gli effetti concreti dell’attacco. In realtà, per dichiarazioni convergenti dei suoi vari vertici politici e militari, l’Iran ha ribadito che l’obiettivo di fondo rimane l’estromissione degli americani dalla regione, che a sua volta è una dichiarazione propagandistica che va ridotta a “estromissione dall’Iraq”.

Ci sono almeno tre buoni motivi per perseguire questo obiettivo: 1) non avere gli americani vicini di terra, stante che rimarranno vicini di acqua sulla sponda occidentale del Golfo Persico ed in parte nel Kuwait; 2) poter espandere la propria influenza sul territorio vicino vista la maggioranza sciita di quest’ultimo; 3) continuare a perseguire l’obiettivo del continuum territoriale che dia in qualche modo a Teheran la possibilità di portare una pipeline a sfociare nel Mediterraneo che poi era il cuore del lavoro tessuto da Soleimani.

A proposito di gas e Mediterraneo, va segnalato che: 1) il giorno dell’attacco Netanyahu si trovava in Grecia dove ha firmato con la Grecia e Cipro, accordi per una nuova pipeline che partendo dalle acque territoriali israeliane, via Cipro, arriverà in Grecia. I Greci hanno specificato che dell’accordo fa implicitamente parte l’Italia (poiché la pipeline, dalla Grecia andrebbe in Italia) che però non era presente per suoi motivi interni di governo; 2) pare che i Greci si apprestino anche a diventare porto d’attracco per l’importazione di gas GNL offerto dagli USA (fonte analista di al Jazeera ovvero Qatar). Più in generale, si stanno configurando due cartelli del gas, uno è quello turco-russo, l’altro è quello americano-israeliano-egiziano-cipriota-greco (con la linea egiziana che è concorrente di quella israeliana). Entrambi contano sulla riconversione energetica europea di transizione (da petrolio e carbone a gas, in attesa delle rinnovabili) ampiamente annunciata dalla ex punk U. von der Leyen; 3) pochi giorni fa il cartello turco-russo ha inaugurato il TurkStream che arriverà in Bulgaria e da lì Serbia ed Ungheria, mentre per completare a nord il NorthStream2 che arriverà in Germania, mancano solo 300 Km su i 2.500 previsti e già pronti. Su entrambi o meglio su i paesi partner, Trump è pronto ad elevare sanzioni secondo una legge firmata a dicembre e ratificata dal Congresso. Per altro i russi hanno fatto anche un nuovo accordo con gli ucraini nell’ambito dell’operazione disgelo promossa da Macron per far passare il gas di nuovo anche tramite loro. In Italia arriverà anche il TAP si stima nel 2020.

I turchi sono su tutte le furie con gli israeliani-greci-ciprioti in quanto, sebbene non riconosciuta dalla comunità internazionale, c’è una parte turca di Cipro e quindi pretendono di esser messi in torta al nuovo progetto. Ignorati, hanno allora fatto un accordo con la Libia e questa nuova liaison spiega anche il perché delle truppe di jihadisti siriani amici di Ankara inviati da quest’ultima in Libia. Libia in cui oltre a quello di terra, si può perforare nel Golfo di Sirte sotto il quale c’è sicuramente altro gas abbondante. La faccenda turco-greca animerà le cronache dei prossimi mesi/anni poiché sotto c’è una certa confusione su i diritti delle acque territoriali e quindi ci sarà da questionare parecchio. In questo casino s’inscrive l’ambizione di Teheran di aggiungersi al “porta anche tu il metano in Europa”, stante che a questo punto potrebbe anche portare quello del Qatar (visto che l’operazione Siria non è andata in porto) che è alleata e finanziatrice di Serraj tramite Erdogan, anche condividendo i panni ideologici sempre utili della comune “fratellanza musulmana”, che invece fa venire l’orticaria a quelli del Golfo ed all’Egitto.

Tornando a USA vs Iran, il giorno dopo lo strike iraniano, Trump ha detto che aumenterà la pressione sanzionatoria verso Teheran e tutti coloro che ancora fanno affari con Teheran (cioè l’Asia e la Russia), pretendendo più impegno da parte della NATO. Si potrebbe allora ipotizzare che Trump voglia in effetti quasi uscire quatto-quatto dall’Iraq facendo bella figura elettorale tipo “riporto i ragazzi a casa”, facendo anche finta di assecondare le volontà irachene che però vanno pesate in quanto sunniti e curdi non sono affatto d’accordo col ritiro americano voluto dagli sciiti, allentando la tensione con Teheran, ma senza effettivamente levare il piedino dall’Iraq poiché sostituito da quello NATO che è pur sempre una sistema ordinato dagli americani. La cosa diventerebbe confusa, con sopra tutta l’ulteriore confusione propagandistica, si guadagnano un po’ di mesi e dopo la rielezione si vedrà.

Ma Trump, invero, nel mentre tutti si aspettavano notizie sul fatto del giorno che era lo strike missilistico, è apparso circonfuso di luce avvicinandosi al leggio della conferenza stampa in quel della Casa Bianca, parlando invece di nucleare. E sul nucleare iraniano ha detto che tutti i paesi del precedente accordo debbono archiviarlo, incluso l’Iran che per altro non lo ha abbandonato del tutto pur avendo dichiarato l’aumento delle produzioni connesse. La sua raccolta di nuovi accordi da portare all’esame elettorale (di cui parlammo in un precedente post), avrebbe compimento laddove potesse presentarsi con un nuovo accordo con l’Iran. Trump infatti, mentre tutti aspettavano di sapere notizie sull’attacco, si è dilungato su i miliardi dati da Obama all’Iran a seguito di quell’accordo, mostrando alla propria opinione pubblica come questi abbiamo finanziato le strategie del super-cattivo Soleimani. Vedo analisti che snobbano la partita elettorale americana nell’analisi dei fattori, ma mi sa che sono poco informati sulle reali condizioni politiche di Trump e del suo centro di potere. Super sanzioni all’Iran quindi ed a tutti coloro che ci fanno affari cioè i co-firmatari del precedente accordo, a dire: “perché non la fate finita e mi fate fare questo nuovo accordo che ce ne stiamo tutti più tranquilli e felici?”.

Sul piano militare si segnala che gli USA stanno silenziosamente rinforzando la presenza aero-navale-missilistica nella zona a dire “io voglio trattare con le buone ma se necessario da qui a novembre, posso anche usare le cattive se preferite”. Tant’è che i dem hanno fatto un pronunciamento che tanto non passerà al Senato, per limitare i “poteri di guerra” del Presidente. Certo che i dem sanno cosa sta succedendo sul piano militare e lo sanno dal di dentro. “Speak softly and carry a big stick; you will go far” diceva Theodore Roosevelt, tra i beniamini di Trump per sua esplicita ammissione.

Middle East Eye (Qatar, se non amico, quasi-amico o non nemico dell’Iran, stante che comunque ospita la più grande base americana della zona da cui probabilmente è partito il drone killer di Soleimani, ma ha anche in condominio con l’Iran il più grande giacimento di gas del mondo sotto le onde del Persico) ha sostenuto che spifferi ottenuti dai diretti interessanti, dicono che le forze irregolari alleate di Teheran nella regione non sono pronte a condurre attacchi significativi, la decapitazione missilistica americana ha anche gettato in confusione le forze sciite in Iraq. Tant’è che si segnala la nascita di una sorta di federazione delle forze sciite perché lo sbandamento è stato forte. Iraq in cui si comincia a giocare anche la partita di nuove elezioni per un nuovo governo (parallelamente anche in Israele, con probabilità) che è poi quello che dovrebbe dar seguito ai pronunciamenti del parlamento sull’uscita della forze straniere dal proprio territorio e stante che il nazionalismo iracheno (inclusa una parte sciita), comincia a mal soffrire tanto gli americani, che gli iraniani.

Infine, Teheran, ha ammesso l’errore dell’abbattimento dell’aereo ucraino. Poteva non farlo ma l’ha fatto, segno che ci tiene a tenere un certo profilo a livello di comunità internazionale, pagando in immagine di affidabilità ma guadagnando in onestà. Potrebbe anche trattarsi di un segno di prevalenza dell’ala riformista vs quella militare, partita nota a gli USA da prima di colpire Soleimani e parte del quadro come dicemmo il giorno dopo il fatto.

Insomma, non abbiamo le idee molto più chiare o meglio abbiamo chiarito certi punti ma se ne sono aperti altri, come al solito. Chiudo con una nota metodologica. Allego cartina presa da un post di un contatto amico che ringrazio (Davide Ragnolini) perché esemplifica visivamente che sorta di grande casino sia il Medio Oriente, tenuto conto che manca l’affaire palestinese-israeliano, le questioni petrolifere, quelle ideologiche, gli sciiti e sunniti, per “semplificare”. Nonché la Cina, l’India e Keyser Söze. Anche a consigliare a molti amici di moderare gli impeti ideologici nel fare analisi, la realtà è già bella complicata e dovremmo tutti cercar di comprenderla meglio moderando l’entropia dei giudizi in libera uscita. Dopo tifiamo, ma prima raccontiamo la partita. Al prossimo aggiornamento che tanto la faccenda, come si sarà capito. “non finisce qui”.

 

UN NUOVO CAPITOLO PER L’OPERA DI PUVIANI, di Teodoro Klitsche de la Grange

UN NUOVO CAPITOLO PER L’OPERA DI PUVIANI

Quando Amilcare Puviani scrisse “L’illusione finanziaria” era, ovviamente, orientato e attento a bilanci e spese dei grandi Stati dell’epoca. Nell’elencare le varie forme assunte dall’illusione ad esempio ritorna quella delle spese militari che all’epoca, assorbivano buona parte dei bilanci pubblici. Scriveva “Si ha l’illusione nell’impiego o nel motivo della spesa se s’ignori in genere l’acquisto di corazzate…; si ha invece illusione nel fine della spesa se s’ignori che la esistenza del nostro naviglio o di certe sue unità vale o valse in una data contingenza ad impedire l’attacco delle nostre coste”; quanto alle entrate sosteneva poi che “Noi possiamo dunque concludere che le specie fondamentali di illusione sulle entrate pubbliche attenuano il costo contributivo mercé…” e continuava ricordando i relativi espedienti: nascondimento di ricchezze prelevate, effetti penosi (sui contribuenti) sia immediati che mediati e così via.

Un nuovo capitolo bisogna aggiungere al lavoro di Puviani, dopo l’ultima legge di bilancio, dato che l’economista non poteva prevedere come, in uno Stato del XXI secolo, si sarebbe giustificato un aumento delle imposte; e le novità non mancano.

La prima giustificazione, ed è il presupposto della manovra, è che l’Europa vuole che non aumenti il debito pubblico. Ossia la colpa (e la responsabilità) non è dei governanti. Ci siamo abituati a tale argomento ormai da (almeno) un decennio. Quello che i nostri governanti – quasi tutti – non dicono è che l’indebitamento può ridursi o contenendo le spese o aumentando le entrate. Che la seconda strada  sia quella perseguita in misura preferenziale dalla classe dominante è altrettanto chiaro. A chi non volesse vedere questa realtà, ricordate che qualche decennio orsono l’IVA era al 19%, ora al 22%; che non c’era l’IMU e, fino al 1992 neppure l’ICI e così via. Per non parlare delle aliquote IRPEF e del loro (mancato) aggiornamento o delle rivalutazioni catastali. Per cui più che volontà della Merkel, la preferenza dei governanti nostrani per la spremitura dei contribuenti è frutto di una libera interpretazione “nazionale” delle direttive europee.

A parte ciò la giustificazione prevalente degli aumenti delle imposte, sparse qua e là, è frutto di due (principali) motivi. Il primo è che i governanti ci vogliono bene e desiderano fare il nostro bene.

Ad esempio la tassa sulle merendine e le bibite gassate (se non si sono perse per strada) è dovuta non dalla propensione degli stessi per i nostri portafogli, ma dalla loro intenzione di avere cura della nostra linea e salute. Per cui dovremmo ringraziarli per cotanto affetto.

L’altro che corrispondono a degli idola diffusi almeno in parte dell’elettorato.

Non sappiamo la fine della questione assorbenti. Anche qua la giustificazione data (da un ministro) era che si poteva evitare lo spreco di carta sostituendoli con quelli di stoffa, riusabili. Salvaguardando così le foreste (Amazzonica e del pianeta in genere) usate, anche, per produrre carta.

Così per gli imballaggi e, in genere, i contenitori di plastica; così nocivi per lo smaltimento, l’inquinamento diffuso, la salute delle tartarughe marine (e pare anche dei delfini). Onde Greta sicuramente li approva.

In sostanza la giustificazione delle imposizioni presenta un carattere eudemonistico associato, spesso, all’andare al seguito di esigenze di rilievo mediatico.

Come il tutto riesca ad occultare il fatto che da decenni con questa politica non si è fatto altro che sfruttare gli italiani (ingessando la società) e che, anche per questo l’Italia è progressivamente arretrata e sorpassata da nazioni in crescita, è cosa che non si può prevedere.

Ma, nel concludere il suo libro, proprio Puviani notava che storicamente, può avvenire che a un certo punto la disillusione finanziaria dei governanti prevalga sulle tecniche prestigiatorie dei governanti: così – ricordava –                                                                                                    fu per la rivoluzione francese. Vedremo.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

Il Medio Oriente post-Soleimani : 10 punti per capire le poste in gioco, di Anthony Samrani

Il Medio Oriente post-Soleimani : 10 punti per capire le poste in gioco

Soldati americani in partenza ieri AFP

E’ ancora possibile evitare l’escalation ?

 

Anthony SAMRANI | OLJ

06/01/2020

 

 

Ristabilimento dell’equilibrio della deterrenza o nuova escalation ?

Tutto dipende non dall’azione in sé, ma dalla percezione che ne ha ciascuno degli attori. Per gli Stati Uniti, l’eliminazione di Kassem Soleimani è un modo per ristabilire l’equilibrio della deterrenza dopo parecchi segnali di debolezza o quanto meno di esitazione da parte loro, in seguito agli attacchi nel Golfo attribuiti all’Iran, e ai quali gli Stati Uniti avevano deciso di non rispondere.

Si tratta di costringere l’Iran ad accettare la politica di massima pressione che le sanzioni economiche americane le fanno subire, e di cessare la sua strategia di graduale escalation controllata. In altri termini, è un modo di dire all’Iran “Smettila di giocare col fuoco o ti brucerai”.

Ma gli iraniani possono sentirci da questo orecchio? Dal punto di vista di Teheran, Washington ha appena eliminato il numero due del regime, una delle personalità più emblematiche del regime, e l’architetto della sua politica regionale.

E’ molto probabile che il regime iraniano percepisca questa azione come un atto di guerra al quale deve rispondere in modo proporzionato per non perdere la faccia e non inviare un segnale di debolezza a tutti i suoi nemici, nemici interni compresi. L’eliminazione di Kassem Soleimani è senz’altro un atto di dissuasione di prima grandezza, ma il regime può incassare senza reagire una simile umiliazione, quando a lungo termine il suo potere, se non la sua sopravvivenza, è seriamente minacciato dalla pressione economica americana?

 

L’Iran ha i mezzi per dare una risposta proporzionata ?

Sta lì il punto dolente per Teheran. La Repubblica islamica può certo dare il via a un’escalation su diversi teatri della regione, per mezzo delle milizie che le sono collegate, ma è assai difficile che possa “fare male” agli Stati Uniti senza correre il rischio di un confronto diretto, che non si può permettere, con la prima potenza mondiale.

Il regime iranano non è suicida, e probabilmente cercherà di trovare un equilibrio tra una risposta vigorosa e una risposta suscettibile d’esser percepita dagli USA come un atto di guerra.

Come fare il calcolo esatto dopo che tutte le convinzioni che s’erano formate su Donald Trump e la sua volontà di evitare ad ogni costo l’opzione militare sono andate in fumo dopo l’operazione contro Kassem Soleimani ?

In un’intervista concessa ieri alla catena americana CNN, il consigliere militare della Guida Suprema Hassan Dehghan ha affermato che “la risposta sarà militare, contro siti militari”. Il Segretario Generale di Hezbollah Hassan Nasrallah ha affermato ieri che l’esercito americano avrebbe « pagato il prezzo » dell’azione contro Soleimani. E’ possibile che Teheran ricominci a bluffare con Washington, facendo affidamento sul fatto che l’operazione contro il generale iraniano sia stata un atto limitato, e che gli Stati Uniti continuino a non voler andare oltre. Ma sarebbe una scommessa estremamente arrischiata.

Gli esempi del passato possono chiarire la situazione ?

In questi ultimi anni, gli israeliani hanno operato migliaia di attacchi in Siria contro gli interessi iraniani, uccidendo numerosi quadri dei pasdaran senza provocare risposte forti da parte di Teheran. Ma da un canto, le operazioni solo di rado vengono rivendicate, dall’altro non è mai stata eliminata una personalità del rango di Soleimani.

Il caso più simile è probabilmente l’eliminazione di Imad Moughniyé, il capo militare di Hezbollah, a Damasco nel 2008, che l’asse iraniano ha attribuito a Israele e promesso di vendicare con severità. A quasi dodici anni di distanza, la risposta di Teheran e di Hezbollah è rimasta piuttosto limitata.

Tuttavia, la perdita di Soleimani è simbolicamente molto più grave, e non si può seriamente equiparare ad alcuun esempio del passato, tanto più perché l’operazione è stata rivendicata. E’ proprio perché l’evento non ha precedenti che è difficilissimo sapere come reagirà l’Iran.

Gli Stati Uniti hanno finalmente una strategia chiara ?

E’ il principale punto interrogativo dopo l’eliminazione di Kassem Soleimani.  I giornali americani hanno rivelato che l’eliminazione del generale iraniano era stata programmata domenica 29 dicembre, all’indomani della morte di un contractor americano attribuita a Kata’ib Hezbollah.

L’assalto all’ambasciata americana ad opera delle milizie pro-iraniane il martedì e il mercoledì successivi ai raids di rappresaglia contro il Kata’ib Hezbollah avrebbe finito per convincere l’amministrazione Trump a passare all’azione. Gli Stati Uniti hanno chiaramente preso la decisione di far montare la tensione di una tacca contro l’Iran, ma sono pronti ad assumerne le conseguenze?Concretamente : Washington deciderà di continuare l’escalation in caso di risposta iraniana ? E in che modo?

Sabato, Donald Trump ha minacciato di colpire 52 siti iraniani « molto rapidamente e molto duramente » se la Repubblica islamica attaccasse personale o siti americani. Il presidente americano che voleva lasciare il Medio Oriente e le sue “guerre inutili” è pronto, in piena campagna elettorale, a colpire direttamente l’Iran, il che, senza dubbio alcuno, provocherebbe una escalation senza precedenti nella regione tra Iran e suoi alleati, da un canto, e Stati Uniti e suoi alleati dall’altro? Qui si pone la questione della determinazione americana a impegnarsi a medio termine in Medio Oriente.

Gli Stati Uniti hanno perso l’Irak ?

L’hanno mai preso ? L’invasione americana in Irak somiglia a una successione di errori che hanno largamente contribuito a peggiorare la situazione. Il parlamento irakeno ieri ha votato per mettere fine alla presenza americana nel paese. Ormai il governo deve prendere la decisione, e se la confermerà, di norma ci vorrà un certo tempo prima che sia messa in opera.

In queste condizioni, sembra difficilissimo che i 5.200 soldati americani restino sul posto. In ogni modo, l’Amministrazione Trump lo desidera, quando il presidente non ha nascosto la sua volontà di disimpegnarsi dalla regione? La partenza delle truppe americane sarebbe una vittoria politica e strategica per l’Iran, ma al contempo la priverebbe di un capro espiatorio in tempo di crisi, e di un bersaglio potenziale per rispondere alla pressione massima degli Stati Uniti.

Partite le truppe americane, gli iraniani sarebbero i padroni del paese. In certa misura lo sono già, ma allora dovranno gestire soltanto le manifestazioni popolari, le velleità d’indipendenza dei Curdi e l’ostilità dei sunniti, visto che Curdi e Sunniti hanno boicottato la seduta parlamentare di ieri. Soltanto 169 deputati su 329 erano presenti.

Che avverrà delle forze americane nella regione ?

Gli Stati Uniti dispongono di meno di 1000 uomini in Siria, la permanenza dei quali non può darsi per certa, vista la volontà di disimpegno da quel terreno di Donald Trump. Se lasciano l’Irak, lasceranno al regime iraniano la possibilità di passare da un paese all’altro, dall’Iran fino al Libano, senza incontrare una forza militare nemica.

Ieri, Hassan Nasrallah ha dichiarato che solo la partenza di tutte le truppe americane dalla regione potrebbe controbilanciare l’uccisione di Kassem Soleimani. Sabato Kata’ib Hezbollah ha invitato i soldati irakeni ad allontanarsi « di almeno mille metri » dai siti ove sono presenti soldati americani a partire da domenica sera, sottintendendo che quei siti potrebbero essere bersaglio di attacchi.

Dal canto suo, il Segretario di Stato Mike Pompeo ieri ha ammesso che le forze americane stazionate nel Vicino Oriente potrebbero subire le rappresaglie iraniane. Secondo il Comando militare centrale degli Stati Uniti, ci sono circa 60.000 soldati dispiegati nella regione. La base più grande è quella di al-Udeid nel Qatar, dove sono di guarnigione 13.000 soldati americani.

Già il presidente Barack Obama aveva designato come obiettivo strategico il disimpegno dal Medio Oriente, senza poterlo poi veramente perseguire a causa dell’evoluzione degli avvenimenti.

Donald Trump, che ha il medesimo obiettivo, potrebbe trovarsi di fronte alla stessa problematica, tanto più che desidera perseguire l’escalation nei riguardi dell’Iran. L’amministrazione Trump aveva annunciato, alla fine del 2019, che circa 3.000 soldati americani sarebbero stati dispiegati in Arabia Saudita per proteggere la regione “contro l’azione ostile dell’Iran e dei suoi satelliti”. Venerdì scorso, Washington ha annunciato che avrebbe dispiegato da 3.000 a 3.500 soldati americani nella regione per rafforzare la sicurezza delle posizioni americane.

Quali conseguenze per le petromonarchie del Golfo ?

Esse potrebbero essere in prima linea nella risposta iraniana contro gli Stati Uniti, per due ragioni almeno. Uno: sono quelle che ospitano il maggior numero di soldati americani nella regione. Due: niente indica che beneficerebbero nuovamente dell’ombrello americano, in caso di un attacco iraniano che non prendesse di mira i soldati americani. Altrimenti detto, se oggi si ripetesse uno scenario simile agli attacchi dello scorso settembre contro il gigante petrolifero Aramco in Arabia Saudita, attribuiti all’Iran, le monarchie saudite del Golfo non hanno la garanzia che gli Stati Uniti risponderebbero.

Ieri, un responsabile saudita ha dichiarato all’AFP che Riyad non è stata consultata da Washington in proposito del raid contro Kassem Soleimani.  Segno del timore del regno saudita di subire le conseguenze di questa nuova escalation, il responsabile saudita ha sottolineato “importanza di dar prova di moderazione”. Va notato che il ministro degli Affari Esteri del Qatar si è recato sabato in Iran, quando i due paesi intrattengono relazioni cordiali nonostante la presenza della grande base americana su territorio qatarino.

Che ne sarà della lotta contro lo Stato Islamico ?

Lo Stato islamico potrebbe approfittare nuovamente del caos geopolitico. Mentre l’organizzazione riprende le forze sia in Siria sia in Irak, la coalizione antijihadista diretta dagli Stati Uniti ha annunciato ieri “la sospensione” dell’addestramento delle forze irakene e dei combattimenti contro lo Stato Islamico, perché sono “ormai totalmente dedicati a proteggere le basi irakene che ospitano e sue truppe”

Quali conseguenze per l’accordo nucleare ?

La questione del nucleare è all’origine dell’escalation americo-iraniana , eppure la si è quasi dimenticata. Mentre gli Stati Uniti sono usciti dall’accordo nucleare nel maggio 2018, ieri l’Iran ha dichiarato che non rispetterà più alcun limite nel numero delle centrifughe.

Questa decisione è stata ritenuta equilibrata dagli esperti, secondo i quali essa proverebbe che l’Iran non vuole, per ora, uscire completamente dal quadro degli accordi. Gli europei cofirmatari dell’accordo, che da mesi tentano di convincere gli iraniani a restare nel quadro da esso delimitato, si preoccupano di questa nuova prospettiva, che potrebbe anch’essa creare una escalation. Né gli Stati Uniti né Israele possono permettere, a priori, che l’Iran si doti dell’armamento atomico.

Resta una chance per la diplomazia ?

In questi ultimi mesi, Iran e Stati Uniti hanno già tentato di aprire un canale diplomatico attraverso il sultanato di Oman, ma il tentativo si è già arenato di fronte al rifiuto di transigere sulle rispettive esigenze di entrambe le potenze.

Anche la Francia ha tentato, senza successo, di farsi mediatrice nella crisi. Alcuni ritengono che l’attuale crisi, se permette il ritorno all’equilibrio della deterrenza, può essere un modo di rilanciare l’iniziativa diplomatica. Questo implicherebbe che Teheran accettasse alcune condizioni americane riguardanti la sua politica regionale. Tuttavia, nelle condizioni attuali, e tenuto conto della reciproca diffidenza dei due attori, ci sono molti motivi d’essere scettici sulla possibilità che si produca uno scenario del genere.

https://www.lorientlejour.com/article/1201274/the-post-soleimani-middle-east-10-points-to-better-understand-the-challenges.html

 

SARDINE SOTT’ODIO, di Teodoro Klitsche de la Grange

SARDINE SOTT’ODIO

Dubitiamo molto che i parlamentari che hanno approvato la mozione Segre contro il “no hate speech”, ossia contro i discorsi di odio in politica, avessero letto quello che scriveva negli anni ‘20 Julien Benda: “il nostro secolo sarà stato in senso proprio il secolo de l’organizzazione intellettuale degli odi politici. Sarà uno dei grandi titoli nella storia morale dell’umanità”. Questo perché permetteva alle parti politiche di incrementare a dismisura la loro potenza di passione (puissance passionelle). Di guadagnare consenso indicando dei nemici, anche assoluti, onde consolidare  il proprio potere.

Di lì a poco, l’avvento al potere del nazismo permise di confermare il giudizio dell’intellettuale francese, che nel momento in cui scriveva La trahison des clercs, pensava allo sciovinismo, al pangermanesimo e, in genere, all’atteggiamento di molti politici ed intellettuali durante la prima guerra mondiale.

Il dubbio è legittimo perché Benda condannava l’ “organizzazione intellettuale” dell’odio in generale. Mentre il parlamento italiano (e non solo) lo ha circondato di sostantivi aventi valore (e senso) illustrativo-restrittivo (intolleranza, antisemitismo, razzismo) che ne delimitano il campo d’applicazione. In particolare non è indicato il fattore socio economico come suscitore d’odio. Come sosteneva Duverger “Per i marxisti gli antagonisti politici sono frutto delle strutture socio-economiche… La contesa politica è perciò il riflesso della lotta delle classi“. Fattore ovviamente positivo per i marxisti.

Per cui, al limite, predicare l’odio di classe non è riconducibile alle cure della commissione Segre, al contrario di quello razziale.

Prima e dopo è stato tutto un fiorire – sui media dell’establishment – e altrove – di dichiarazioni – e invettive preoccupate per l’odio che le posizioni dei popul-sovranisti presupponevano e comunque esternavano, nonché contro le relative menzogne (a cominciare dalle fake-news). A giudizio dei benintenzionati si dovrebbe far politica, ma senza coltivare sentimenti di avversione verso l’avversario. Una lotta a base di riverenze e buone maniere. Che il tutto sia, in diversi casi, auspicabile, è condivisibile; che possa esserlo in ogni frangente è impossibile; che sia poi opportuno, lo è a seconda dei casi. Spieghiamo il perché. Benda scriveva dell’organizzazione intellettuale degli odi politici, cioè della sottomissione dei “chierici” alle esigenze della prassi politica (alla conquista e conservazione del potere), con relativo tradimento della loro funzione. Che questo sia un connotato del XX secolo è, in larga parte vero, ma occorre aggiungervi, come, in modo non altrettanto pervasivo ed efficace, lo sia stato sempre. Nel XX secolo sono state la potenza propagandistica dei mezzi di comunicazione di massa da un lato e la democratizzazione della politica (e della guerra) – con la necessità di coinvolgere, convincere e mobilitare le masse popolari – ad implementare il ruolo dell’ “organizzazione intellettuale” delle passioni politiche, in primis dell’odio. Ma che questa sia una componente costante della politica, perfino quando gestita essenzialmente dai gabinetti ministeriali, (in tal caso in ruolo minore) è cosa nota. Scriveva Clausewitz di quello strumento essenziale della politica (da cui mutua presupposti e funzioni) che è la guerra, che consiste di uno “strano  triedro composto:

  1. della violenza originale del suo elemento, l’odio e l’inimicizia, da considerarsi come un cieco istinto;
  2. del giuoco delle probabilità e del caso, che le imprimono il carattere di una libera attività dell’anima;
  3. della sua natura subordinata di strumento politico, ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione.

La prima di queste tre facce corrisponde più specialmente al popolo, la seconda al condottiero ed al suo esercito, la terza al governo. Le passioni che nella guerra saranno messe in giuoco debbono già esistere nelle nazioni”.

E così è per la politica: una politica senza distinzione tra l’amico e il nemico la quale operi senza suscitare un sentimento di avversione per il secondo e solidarietà per il primo è un oggetto sconosciuto. La lotta, anche se non militare, si fa con i presupposti della lotta. Il primo (e più importante dei quali è) l’indicazione del nemico. Se non è tale è necessario crearlo: in mancanza la lotta non ha senso. Il nemico e l’avversione verso il medesimo è la condizione minima (necessaria e sufficiente) per condurre la lotta.

Il che è confermato dal movimento delle sardine, che pare l’ultima (per ora) mascherata in soccorso delle élite decadenti. Non si riesce a strappare dalla bocca dei loro portavoce intervistati in televisione una indicazione su problemi reali, concreti (e divisivi): volete salvare l’ILVA? che ne pensate del MES? o del reddito di cittadinanza? e così via. Nulla: e a ragione. Perché scegliere è dividere: pronunciarsi a favore del MES significa perdere i voti dei contrari e così per il resto. Mentre opporsi a Salvini e al sovranismo unifica gli avversari più disparati: da quelli che rimpiangono Stalin, a coloro che disdegnano il leader leghista perché volgare o perché goloso di Nutella. Così le sardine hanno capito che il nemico serve ad unificare non solo i diversi ma anche gli opposti. Cosa che un poeta tragico come Eschilo aveva capito venticinque secoli fa. Hitler servì a far alleare un conservatore duramente anticomunista come Churchill a un bolscevico rivoluzionario come Stalin.

State sicuri che le sardine e chi le consiglia e le sponsorizza l’hanno capito bene: e quindi se la prendono con l’odio: quello degli altri.

Teodoro Klitsche de la Grange

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