IL VOLTO DI DIO NEI PRESSI DI KANDAHAR*, di Daniele Lanza

L’Afghanistan si sta rivelando un acceleratore della fase multipolare. Alla perdita di capacità egemonica degli Stati Uniti corrisponde l’emergere di numerosi attori con l’ambizione di perseguire proprie ambizioni e determinare aree di influenza dai molteplici e mutevoli punti di attrito e cooperazione cui corrisponde uno scontro politico interno alle formazioni socio-politiche della stessa asprezza e volatilità. Una moltiplicazione di focolai di conflitto e di continue mediazioni in grado di procrastinare l’evenienza di schieramenti contrapposti più stabili e delimitati e le conseguenti tentazioni di confronto risolutivo. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
https://rumble.com/vm7qpb-stati-uniti-afghanistan-e-multipolarismo-con-gianfranco-campa.html
Gianluca Magi Goebbels, 11 tattiche di manipolazione oscura, Piano B Edizioni, 2021, pp. 193, € 15,00
A considerare quanto affermato (da quasi tutti) i mass-media, il nazismo sarebbe morto e sepolto, come tutti i suoi capi – tra cui Goebbels – nel 1945. Probabilmente è vero (per lo più) per le idee, assai meno per i mezzi di cui si servì per conquistare e mantenere il potere. Soprattutto la propaganda di cui Goebbels fu un vero maestro, e le cui tecniche di manipolazione dell’opinione pubblica sono tuttora praticate dalle élite dirigenti per esercitare e accrescere il proprio potere. E quindi d’attualità. Anche se si può affermare che, essendo la retorica – parente nobile della propaganda – già praticata e studiata dall’antichità, molte di quelle tecniche sono attualizzazioni/adattamenti ai mezzi moderni (stampa, radio, televisione ecc.) di modelli di persuasione già praticati da Demostene e Cicerone. L’autore lo afferma dall’introduzione “La volontà di dominio dell’uomo sull’uomo, le strategie di manipolazione , il controllo sociale e l’arte dell’inganno sono antiche quanto la storia dell’umanità”, oggi poi “se consideriamo che passiamo oltre un terzo della vita immersi nei media (tra TV, web, film, quotidiani e riviste), possiamo comprendere come la nostra capacità di parlare, pensare, costruire rapporti con gli altri, i nostri desideri i nostri sogni e il nostro stesso senso d’identità siano plasmati dai media”; dato ciò – e l’importanza decisiva che ha la persuasione nell’esercizio del dominio – scrive l’autore “ Perché non usare le 11 tattiche di manipolazione oscura per illuminare chi, secondo le intenzioni, dovrebbe esserne il bersaglio?”. E per l’appunto dopo una breve biografia di Goebbels, Magi passa ad esporre le 11 tecniche (principi tattici) usate dal ministro nazista per garantirsi il controllo dell’opinione pubblica, soprattutto interna. E così il potere sul “seguito”. Questi principi si fondano sul disprezzo per la capacità di giudizio – razionale o almeno ragionevole – delle masse e per lo sfruttamento dei pre-giudizi, luoghi comuni, idola più condivisi, basati su emozioni (e non su ragionamenti). Così la creazione del nemico, utilissimo per la polarizzazione e il consolidamento del seguito (lo aveva già compreso Eschilo), anche se poi il nemico non è tale; l’affermazione dell’unanimità anche se creata fittiziamente; la semplificazione del messaggio; l’orchestrazione (lo stesso messaggio è ripetuto all’infinito e da tutti (o quasi) i media; l’occultamento delle notizie in contrasto con la tesi che si sostiene; la disinformazione, con la creazione di falsi bersagli, o comunque che abbiano l’effetto di distrarre l’opinione pubblica. È impressionante come tali principi siano utilizzati dalle élite contemporanee allo stesso scopo della dirigenza nazista. Tattiche come il silenziamento, la disinformazione, lo sviamento ecc. ecc. sono identificabili facilmente in gran parte dalla comunicazione odierna. C’è tuttavia un carattere principale che rende differenti la propaganda della NSDAP e quelli delle élite, soprattutto italiane, contemporanee. Mentre quella era rivolta alla conquista del potere (prima nazionale, poi internazionale) cioè era accrescitiva e implementativa, quella delle élite della (seconda) Repubblica e molto più limitatamente, indirizzata a mantenere (parte del) potere gestito. Ha cioè un’ambizione enormemente ridotta. E dati i più che mediocri risultati dei governi della (seconda) Repubblica, sarebbe stato troppo difficile sostenere derivazioni (in senso paretiano) diverse.
Teodoro Klitsche de la Grange
Uno striscione nella valle del Panjshir ritrae Ahmad Massoud e suo padre con uno slogan “Sogna un paese libero, libero grazie al tuo esercito, Ahmad è al tuo fianco, che Dio ti protegga”.
Reza/Getty Images
In Afghanistan, la storia ha modo di ripetersi: oggi, proprio come quando i talebani presero il potere per l’ultima volta nel 1996, l’aspra provincia del Panjshir è l’ultima ridotta che si frappone alla loro completa dominazione del paese – e ancora una volta, il nome del leader che si oppone a loro è Massoud.
“Oggi scrivo dalla valle del Panjshir, pronto a seguire le orme di mio padre con i combattenti mujaheddin che sono pronti ad affrontare ancora una volta i talebani”, ha scritto Ahmad Massoud in un articolo pubblicato sul Washington Post poco dopo che i talebani hanno preso Kabul. “Abbiamo scorte di munizioni e armi che abbiamo pazientemente raccolto fin dai tempi di mio padre, perché sapevamo che questo giorno sarebbe arrivato”.
Suo padre, Ahmad Shah Massoud, era una figura straordinaria – vista da molti come un genio militare e maestro della guerriglia che ha contribuito a combattere l’Unione Sovietica fino all’arresto negli anni ’80 e alla fine ha montato una difesa efficace contro i ripetuti sforzi di i talebani per ottenere il controllo della valle.
Il leader della guerriglia afghana, Ahmad Shah Massoud (al centro) è circondato da comandanti ribelli durante una riunione nella valle del Panjshir nel nord-est dell’Afghanistan, nel 1984.
Jean-Luc Bremont/AP
Tale era la sua abilità come comandante ribelle che Massoud era conosciuto dai suoi sostenitori e nemici allo stesso modo come il “Leone del Panjshir”.
Ma due giorni prima degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, Massoud – che era sfuggito a molte minacce ravvicinate sul campo di battaglia – fu assassinato da attentatori suicidi di al-Qaeda che si spacciavano per giornalisti televisivi. La sua morte ha avuto eco in tutto il mondo.
Avanti veloce al 2021: il figlio 32enne di Massoud sta riprendendo da dove il suo leggendario padre aveva interrotto. Ma a differenza del Leone del Panjshir, il giovane Massoud non ha esperienza di combattimento. Ha studiato nel Regno Unito, dopo essersi formato come cadetto straniero presso il Royal Military College di Sandhurst, aver studiato al King’s College e successivamente aver conseguito un master in politica internazionale presso la City University di Londra, secondo The Spectator. Le sue tesi di laurea e post-laurea erano sui talebani.
Mentre i talebani si rafforzavano negli anni precedenti al loro assalto finale del mese scorso a Kabul, la capitale afghana, Massoud ha iniziato a organizzare l’opposizione contro un possibile ritorno della milizia islamista intransigente. In primavera, Massoud ha fatto il giro e ha incontrato il presidente francese Emmanuel Macron a Parigi, dove suo padre, che ha studiato in un liceo francese in Afghanistan, rimane una figura venerata.
L’educato nel Regno Unito Ahmad Massoud (mostrato qui nel 2019) è il figlio del leggendario comandante Ahmad Shah Massoud e, come suo padre, sta accumulando forze di resistenza nella provincia del Panjshir.
Reza/Getty Images
Massoud è stato recentemente raggiunto nella valle del Panjshir da Amrullah Saleh , un ex vicepresidente afgano che si è dichiarato presidente legittimo del paese dopo che Ashraf Ghani è fuggito quando i talebani hanno preso il controllo di Kabul. Saleh ha invitato i suoi sostenitori a radunarsi nel Panjshir per continuare la lotta contro i talebani.
È difficile valutare la forza delle sedicenti Forze di Resistenza Nazionali guidate da Massoud. Secondo quanto riferito, il gruppo è una coalizione di milizie e resti dell’esercito afghano.
La provincia del Panjshir, situata a circa 80 miglia a nord-est di Kabul, oltre l’ex campo d’aviazione di Bagram gestito dagli Stati Uniti e attraverso le aspre montagne dell’Hindu Kush, è una fortezza naturale contro gli invasori. I residenti del Panjshir includono un mix di tagiki etnici – come lo stesso Massoud – insieme ad Hazara, una minoranza musulmana sciita e altri.
Questa diversità è in contrasto con i talebani, che sono dominati dalla maggioranza pashtun dell’Afghanistan. Non è “una forza monoliticamente pashtun”, scrive Anatol Lieven, professore alla Georgetown University in Qatar, osservando che i militanti hanno “raccolto un buon sostegno tra le altre etnie facendo appello al conservatorismo religioso”. Ma, scrive, “la leadership talebana è ancora in modo schiacciante pashtun, e vista come tale dalla maggior parte degli altri popoli”.
Gli hazara afgani, in particolare, hanno motivo di temere i talebani e un forte incentivo a resistere. Durante gli anni precedenti al potere, i talebani hanno preso di mira gli hazara in una campagna di repressione e persecuzione, incluse uccisioni di massa. Non c’è alcuna indicazione che abbiano moderato da allora: un recente rapporto di Amnesty International delinea le recenti atrocità dei talebani contro il gruppo di minoranza.
“Queste uccisioni mirate sono la prova che le minoranze etniche e religiose rimangono particolarmente a rischio sotto il dominio dei talebani in Afghanistan”, ha affermato Agnès Callamard, segretario generale del gruppo.
Nonostante l’editoriale dal suono bellicoso di Massoud sul Washington Post , ha suggerito che il Panjshir potrebbe uscire dal controllo dei talebani. La scorsa settimana, secondo quanto riferito , delegazioni dei talebani e della resistenza del Panjshir si sono incontrate nella provincia settentrionale di Parwan, ma l’incontro di tre ore sembra aver prodotto poco più di un accordo per continuare a parlare.
“Vogliamo che i talebani si rendano conto che l’unico modo per andare avanti è attraverso i negoziati”, ha detto Massoud a Reuters di recente. “Non vogliamo che scoppi una guerra”.
In un’intervista via e-mail con la rivista Foreign Policy , Massoud ha spiegato: “Se i talebani sono disposti a raggiungere un accordo di condivisione del potere in cui il potere è equamente distribuito e decentralizzato, allora possiamo muoverci verso un accordo che sia accettabile per tutti”, ha scritto. “Qualsiasi cosa meno di questo sarà inaccettabile per noi e continueremo la nostra lotta e resistenza fino a quando non raggiungeremo giustizia, uguaglianza e libertà”.
Da parte dei talebani, uno dei suoi leader più anziani, Amir Khan Motaqi, ha invitato la resistenza del Panjshir a deporre le armi e a negoziare la pace. “L’Emirato islamico dell’Afghanistan è la casa di tutti gli afgani”, ha detto in un discorso.
Ma potrebbe essere già troppo tardi. Con Kabul sicura e gli americani finalmente spariti, i talebani hanno rivolto la loro attenzione militare alla provincia canaglia.
I talebani affermano che “centinaia” dei loro combattenti si stanno dirigendo verso il Panjshir “dopo che i funzionari locali … si sono rifiutati di consegnarlo”, secondo l’account Twitter arabo del gruppo, riporta Al-Jazeera .
E il primo sangue è già stato versato, apparentemente attenuando le possibilità di un accordo negoziato. Mentre gli ultimi voli statunitensi partivano da Kabul lunedì notte, almeno sette soldati talebani sono stati uccisi negli scontri nel Panjshir, secondo il gruppo di resistenza di Massoud, secondo l’Associated Press.
Nel frattempo, i talebani sono in grado di circondare i combattenti della resistenza di Massoud e impedire loro l’accesso ai rifornimenti. Non è chiaro per quanto tempo possano resistere.
Massoud sta cercando aiuto a Washington stanca della guerra, così come dal Regno Unito e dalla Francia.
“[Abbiamo] bisogno di più armi, più munizioni e più rifornimenti”, ha scritto.
https://www.npr.org/2021/09/02/1032891596/afghanistan-taliban-panjshir-ahmad-massoud
LA LETTERA DEGLI STUDENTI DI BERGAMO: ESEMPIO DI PENSIERO CRITICO ARGOMENTATO, CHIARO ED EFFICACE
a cura di Luigi Longo
Leggendo la lettera degli studenti dell’Università di Bergamo, riportata subito dopo, mi sono ricordato del bel film del 2007, ispirato ad una storia vera, diretto e interpretato dal vincitore del premio Oscar Denzel Washington, The Great Debaters. Il potere della parola.
E’ “la storia di Melvin B. Tolson, professore universitario e poeta degli anni ’30 ’40, in prima linea nella lotta contro i pregiudizi razziali e gli abusi culturali nei confronti della comunità afroamericana negli Stati Uniti. Dalla sua cattedra nel college di Wiley nel Texas, frequentato da ragazzi di colore, Tolson, spronò i suoi studenti a fondare il primo gruppo di discussione dell’Istituto. Sfidando pareri contrari e la generale opinione pubblica, portando il suo team a sfidare quello di Harvad nel campionato nazionale di dibattito”.
La lettera degli studenti dell’Università di Bergamo è un esempio di pensiero critico argomentato, chiaro ed efficace. Se gli studenti e i docenti riuscissero a intrecciare relazioni significative per mettere in discussione il degrado sociale rappresentato sia dalla costruzione della cosiddetta pandemia da covid-19 che nulla a che fare con la salute della popolazione ma molto con le relazioni conflittuali di riorganizzazione della società dentro il sistema cosiddetto capitalistico, sia dal degrado delle Università che da luoghi di saperi sono state ridotte a luoghi di stupidità.
Affido la conclusione di questa riflessione all’intervento di Samantha Booke tenuto contro l’università di Ohlahoma così come dal film surriportato: “il tempo per la giustizia, il tempo per la libertà e il tempo per l’uguaglianza è ogni giorno, è adesso!”
La lettera degli studenti dell’Università di Bergamo
LA LETTERA DEGLI STUDENTI DELL’UNIVERSITÀ DI BERGAMO AI DOCENTI, AL RETTORE, AL PERSONALE UNIVERSITARIO
Alla cortese attenzione dei docenti tutti I ricercatori e i dottorandi
I componenti del Senato Accademico
Il Magnifico Rettore Remo Morzenti Pellegrini
Il personale tecnico e amministrativo
I responsabili delle Biblioteche di Dipartimento
Gli uscieri dell’Università degli Studi di Bergamo
Gentili tutti, vorremmo iniziare col ricordarvi alcuni presupposti eletti a linee-guida della nostra Università, così ben esposti nel manifesto disponibile sul sito della stessa: La mission della nostra università è già tutta racchiusa nel suo nome: universĭtas. Apertura, pluralità, libertà, incontro, appunto: “universalità”. Sapere vuol dire sfidare i tempi, saperli scuotere. Un’interpretazione preconfezionata non è mai buona: ogni interpretazione pretende infatti una mente critica. Dunque: apertura, pluralità, libertà, incontro, universalità, capacità di porsi criticamente rispetto ai tempi e di sfidarli. Insieme a voi, crediamo e vorremmo continuare a credere in questi valori, che il biglietto da visita della nostra università – come di molte altre università d’Italia e del mondo – dichiara esplicitamente di tenere in alto grado.
Ma oggi, alla luce del D.L. 111/2021 del 6 agosto (Misure urgenti per l’esercizio in sicurezza delle attività scolastiche, universitarie, sociali e in materia di trasporti), si impone un principio di discriminazione, legittimato da motivazioni presentate come medico-scientifiche, che ci appare agli antipodi di quella stessa inclusività posta sin dall’etimo a fondamento dell’istituzione universitaria. Con questo provvedimento discriminante e divisivo vengono di fatto esclusi dal diritto allo studio e dai servizi erogati dall’Università – o ne viene gravemente limitata l’accessibilità ‒ tutti coloro che per legittima scelta personale non intendono prestarsi a trattamenti sanitari invasivi e a proprie spese, quali i tamponi PCR, né aderire alla campagna vaccinale sperimentale, consapevoli di come sulla reale attendibilità dei primi e, soprattutto, sulla validità e sulla sicurezza della seconda manchi ad oggi un accordo scientifico risolto e unanime.
Com’è possibile accettare che strumenti sanitari di dubbia efficacia condizionino i principi di apertura, libertà e indipendenza dell’insegnamento universitario? Ancora in piena emergenza pandemica, il nostro stesso Rettore aveva avuto modo di ribadirci alcuni obiettivi essenziali dell’Istituzione che è chiamato a rappresentare, promettendo di mantenere l’Università saldamente imperniata sui principi di inclusione (garantire un sapere condiviso e relazionale, email del 31 marzo 2020; siamo una comunità dove studiano e lavorano tante persone, dove ognuno deve essere rispettato tanto nei propri doveri quanto nei propri diritti, email del 29 aprile 2020) e di coesione (l’obiettivo dell’UniBg di farvi provare sempre e comunque la forza coesiva che deve caratterizzare un Ateneo […] crediamo fortemente nel nostro procedere uniti, nonostante le difficoltà che possono presentarsi, email del 14 ottobre 2020). Non ha dimenticato nemmeno di sottolineare l’impegno dell’Università nel garantire un sostegno costante (senza mai permettere che il vostro e, anzi, il nostro percorso verso le conoscenze possa essere interrotto, email del 4 novembre 2020). Questa promessa, però, sembra ora venir meno, con la comunicazione del 10 agosto 2021 agli studenti: tutti coloro che accederanno, per motivi di studio o lavoro, alle sedi universitarie dovranno essere infatti in possesso del cosiddetto green pass. Non un cenno a chi non si adegua a questo aut-aut, scegliendo di non sottoporsi ai tamponi diagnostici, il cui alto tasso di inattendibilità è certificato dallo stesso Istituto Superiore di Sanità (cfr. rapporto ISS Covid-19 n. 46/2020), né all’inoculazione dei vaccini sperimentali a mRna o a Dna ricombinante, la cui efficacia nell’arginare i contagi è presentata come relativa, ad esempio, nello stesso foglietto illustrativo della “Pfizer: potrebbe non proteggere completamente tutti coloro che lo ricevono 1 e la durata della protezione non è nota (dalla nota informativa 1 del modulo di consenso vaccinale Comirnaty).
Considerato che lo stesso vaccinato può contagiare ed essere a sua volta contagiato, ci si chiede quale possa in effetti essere la funzione del Green Pass, e se essa sia realmente di natura sanitaria o eminentemente politica. Anche la garanzia di non nocività dei vaccini sperimentali è alquanto dubbia: come esplicitato dal punto 10 del consenso informato (non è possibile al momento prevedere danni a lunga distanza), non si escludono possibili effetti collaterali a lungo termine, anche gravi. Che ne sarà allora delle promesse di inclusione, di coesione e di sostegno per tutti gli studenti che sceglieranno di non aderire acriticamente e incondizionatamente alla sperimentazione vaccinale di massa o al tracciamento sanitario via Green Pass, dispositivo di controllo sociale e amministrativo in aperta violazione del diritto alla privacy dei propri dati? Proprio a Bergamo, come se i molti lutti non fossero bastati, osiamo mettere in discussione quella che viene attualmente presentata come l’unica soluzione in grado di contenere il contagio? Sì, proprio a Bergamo, la città più colpita dalla pandemia. Come in tutt’Italia, ci si prepara ora a perdere anche l’universale diritto all’istruzione e alla cultura (sancito dalla nostra Costituzione all’art. 34) o quantomeno a vederne compromessa la fruibilità. Proprio a Bergamo, la città in cui – com’è noto – il direttore del dipartimento di anatomia patologica dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII, mettendo in discussione le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e del Ministero della Salute che sconsigliavano di eseguire le autopsie sui corpi deceduti a causa del Covid, scoprì il ruolo decisivo della formazione dei trombi nell’aggravarsi della malattia, evidenziando la necessità dell’utilizzo dei farmaci anticoagulanti.
Proprio a Bergamo, la città in cui il primo atto di disubbidienza in materia di pandemia si è dimostrato un primo passo verso la verità clinica. Con lo stesso spirito, siamo portati oggi a dubitare dell’utilità scientifica, della legittimità giuridica e della liceità etica di un lasciapassare sanitario formalmente preposto a contenere la diffusione del Covid-19. Questo strumento, infatti, oltre a non garantire la non-contagiosità dei suoi detentori, comporta la discriminazione nei diritti costituzionali in base allo stato di salute e all’assunzione di un prodotto sperimentale (non privo di possibili effetti collaterali gravi) per una malattia ritenuta curabile da sempre più medici con i protocolli farmacologici di terapia domiciliare (come testimoniato, ad esempio, dall’esperienza dei dottori di ippocrateorg.org e del Comitato Cure Domiciliari Covid-19, a smentire con oltre 60.000 guariti la diffusa vulgata secondo cui non esistono valide alternative mediche al vaccino). Proprio a Bergamo, dove a inizio pandemia l’abbandono dei pazienti fino all’aggravarsi della malattia e l’inopportuna pratica di ventilazione forzata precoce hanno contribuito a causare così tante morti, possiamo permetterci altri errori? Oggi chiunque critichi l’effettiva utilità sanitaria e la neutralità politica del Green Pass rischia di attirarsi quella stessa accusa di “irresponsabilità” che viene già disinvoltamente rivolta, con modi sempre più violenti e intimidatori, a chiunque decida di non farsi iniettare i vaccini genici a mRna e a Dna ricombinante (la cui fase di sperimentazione terminerà, per i diversi brevetti, tra il 2022 e il 2023). Ci si chiede quale considerazione del concetto di responsabilità abbia realmente oggi chi ci governa, laddove Stato, istituzioni e multinazionali farmaceutiche – ben lungi dall’assumersi la responsabilità delle proprie decisioni politiche e tantomeno i rischi degli effetti avversi da vaccini – li scaricano sul senso civico e sulla “libera scelta” dei cittadini stessi. La manleva di responsabilità avviene tramite consenso informato, accompagnata da forme di pressione psicologica, sociale e mediatica che giungono ora a compimento con l’imposizione del Green Pass, a una sorta di obbligo indiretto che preclude – in assenza di tamponi diagnostici o certificati d’avvenuta vaccinazione – l’accesso a servizi essenziali. Queste misure, come l’obbligo vaccinale ventilato in queste settimane, sarebbero forse più comprensibili e accettabili se il rapporto benefici/rischi della vaccinazione anti-Covid 19 fosse nettamente a vantaggio dei primi, ma anche su questo vi sono ragionevoli dubbi all’interno della stessa comunità scientifica. Al netto di una controversa ma in genere assai bassa letalità del virus (attestata secondo l’OMS allo 0,6%, senza considerare le differenze per fasce d’età e i casi di co-morbilità e patologie pregresse), si ricorda che tra gli effetti avversi a breve termine dei vaccini genici possono presentarsi gravi trombosi, danni neurologici, miocarditi e pericarditi; nel lungo termine, sono svariati gli scienziati che prospettano il serio rischio di effetti mutageni, infertilità, malattie autoimmuni e tumori. Perfino i dati ufficiali iniziano a parlare chiaro: l’Eudravigilance, la banca dati europea di farmacovigilanza dell’EMA, registrava al 31 luglio 2021 e per i soli paesi dell’Unione Europea un totale di 20.594 morti associate ai vaccini anti-Covid e un totale di 1.960.607 effetti avversi provocati dagli stessi (dei quali 968.870 gravi). In fatto di responsabilità, com’è possibile sorvolare sulle gravi reazioni che possono conseguire dalla vaccinazione anti-Covid 19, specie per una fascia d’età, quella degli studenti universitari, in cui la relativa pericolosità del virus è ulteriormente ridotta? Tornando a noi, e sempre a questo proposito, è utile a questo punto richiamare le parole del nostro Rettore, dalla citata email del 10 agosto 2021 sull’introduzione del Green Pass: Contiamo sul vostro senso di responsabilità, come abbiamo sempre fatto, convinti che provvederete quanto prima (e possibile) a farvi vaccinare: solo in questo modo avremo la speranza di “tenere a bada” il contagio e, di conseguenza, di proseguire le nostre attività in presenza tutti insieme, senza paura di danneggiarci l’un l’altro. Caro Rettore, con la presente ci sentiamo di rassicurarLa: Lei può senz’altro contare sul nostro senso di responsabilità morale, non certo nel farci “quanto prima (possibile)” vaccinare (visto che il vaccino, come sopra ricordato, non assicura affatto di poter “tenere a bada” il contagio), bensì nel non assecondare, per il bene nostro e altrui, un nuovo ordine culturale, legislativo e sociale nutrito d’irresponsabilità politica e di coartazione tecnologico-sanitaria. Da parte nostra sarebbe relativamente comodo, facile e indolore accettare il requisito del Green Pass per meglio concentrarci egoisticamente sulla nostra singola carriera universitaria, apprestandoci a vivere il mondo di domani come se non fosse un prodotto delle nostre scelte (o delle nostre reticenze) di oggi. Disgraziatamente, però, il nostro senso di responsabilità ci trattiene dal farlo. A Lei che ce ne ha ricordato l’importanza, ci permettiamo così – a nostra volta – di ringraziarLa richiamandoLa a questo stesso principio, non solo nei riguardi dell’Università di Bergamo ma di tutti gli atenei lombardi di cui è coordinatore. A porsi idealmente di fronte a tutti gli studenti, indistintamente. E a ribadire, se vorrà, queste sue stesse parole suasive e perentorie. È sicuro di volersene prendere la responsabilità? Insieme a tutti i destinatari della presente, ci chiediamo in particolare se anche i professori della nostra Università vorranno accondiscendere, foss’anche solo nel silenzio/assenso, a questa stessa sovrana attitudine alla deresponsabilizzazione, al pensiero unilaterale e semplificatorio, al silenziamento d’ogni dissenso critico, quando non già criminalizzato o patologizzato. Esattamente novant’anni fa, nel 1931, venne imposto a tutti i professori universitari l’obbligo di giurare fedeltà al regime fascista, pena la destituzione dalla cattedra di cui erano titolari. Come ben sappiamo, solo 12 professori su 1.225 rifiutarono. Oggi il personale docente e non docente presente negli istituti universitari italiani ammonta a circa 125.600 persone: quanti di questi si rassegneranno ad accettare l’inaccettabile?
Giova ricordare a tutti noi – che conosciamdo così male la Storia – quanto ancora rischiamo di ripeterne gli orrori?
Cari professori: anche noi, come il Rettore nei nostri confronti, sappiamo di poter contare sul suo e sul vostro senso di responsabilità, certi “che provvederete quanto prima (e possibile)” a levare finalmente una voce contraria e non sottomessa dinanzi a questo provvedimento incostituzionale e inqualificabile, come alcuni vostri colleghi stanno già coraggiosamente iniziando a fare, da Andrea-Sigfrido Camperio Ciani (ordinario di Etologia, Psicobiologia e Psicologia evoluzionistica all’Università di Padova) a Francesco Benozzo (associato di Filologia e linguistica romanza all’Università di Bologna, candidato al Nobel per la Letteratura dal 2015). Forse non sarete tutti, forse sarete solo una piccola parte, ma ci basterà per essere fieri, una volta di più, di essere o essere stati vostri studenti. Ci sarà sufficiente per non incrinare la fiducia che in questi anni di studio abbiamo avuto e tuttora abbiamo in voi. Per non dover mettere in discussione, alla radice, il senso del vostro stesso insegnamento. Se poi vorrete, spazientiti, sbirciare già alla fine di questo messaggio ben poco smart, social friendly o parcellizzabile in slogan pronti ad essere confutati con ottusa disinvoltura dai sedicenti fact-checker, troverete un nuovo motivo di delusione.
Vedete, non ci firmiamo “Studenti contro il Green Pass”. Nemmeno “Studenti contro i sieri genici sperimentali a mRna e Dna ricombinante”, o “Studenti contro il terrorismo mediatico, il tracciamento sanitario e la digitalizzazione totalitaria”. Siamo, semplicemente, studenti dell’Università di Bergamo. Spiacenti di aggiungere un’inerte constatazione in un momento già governato dal consenso tautologico e dal culto dell’identico, ma, sapete, questo non è niente di più e niente di meno di quello che effettivamente siamo. Siamo parte della comunità universitaria. Ci siamo regolarmente iscritti, pagando le tasse universitarie. Abbiamo frequentato le lezioni, abbiamo sostenuto gli esami, anche con medie eccellenti. Durante il nostro percorso universitario, come tutti, siamo stati colpiti dai lutti e dalle restrizioni. Infine siamo tornati in Università, per riprendere, terminare o proseguire i nostri studi. E ora? Ora, con il D.L. 111/2021 e la conseguente comunicazione del Rettore, chi è deciso a non accettare l’illegittima imposizione del Green Pass non sembra venir nemmeno contemplato nella vita universitaria, sia pure con altre modalità di partecipazione (senza curarsi del considerando n. 36 del regolamento 953/2021 del Consiglio d’Europa e dell’Unione Europea sull’uso del Green Pass, dove si sancisce che anche coloro che hanno scelto di non essere vaccinati non possono essere oggetto di discriminazione, diretta o indiretta). Neppure un riferimento alla possibilità – comunque moralmente discutibile e insoddisfacente – di svolgere gli esami a distanza, ricorrendo a una modalità partecipativa così sistematicamente e agilmente adottata nell’anno e mezzo di emergenza pandemica. Ed eccoci esclusi, come accaduto ad altri studenti Unibg nel curioso caso di occultamento dei 192 commenti – in larghissima parte critici – sottoscritti al post di Facebook con cui l’Università di Bergamo informava dell’introduzione del Green Pass, lo scorso 23 agosto: fuori dal testo, fuori dal diritto, fuori dalla comunità. Confidiamo in una dimenticanza, in un refuso, a cui auspichiamo si rimedi presto, come a livello governativo si è fatto con quel celebre “per scelta” curiosamente omesso e poi reintegrato nella traduzione italiana dello stesso 953/2021. Perché questo è quello che siamo: studenti dell’Università di Bergamo, a rappresentanza di pressoché tutte le sue facoltà. Non ci qualifichiamo, non ci quantifichiamo. Potremmo essere 10, 100, 1000, 10000… Ma anche se fossimo solo in due, come erroneamente e grottescamente riportato dal Corriere della Sera-Bergamo in data 18 agosto 2021 riguardo ai primi due giorni di raccolta firme a Bergamo per la petizione indetta dal Prof. Granara, dovrete fare i conti con la nostra presenza. E con le nostre domande.
Da aspiranti filologi e filosofi, ci chiediamo come sia ammissibile una massificazione tanto violenta e un depauperamento tanto sistematico e su larga scala del linguaggio e del pensiero critico.
Da aspiranti pedagogisti, ci domandiamo se tutto ciò non sottintenda un preoccupante stravolgimento dei concetti stessi di istruzione, di educazione e di insegnamento.
Da aspiranti psicologi, ci interroghiamo su quanto sia legittimo ed eticamente accettabile l’abuso di tecniche di condizionamento mentale da parte di mass media e istituzioni nel promuovere la campagna vaccinale.
Da aspiranti ingegneri, ci chiediamo quanto sia effettivamente fondato e corretto un utilizzo mediatico e strumentale di statistiche e dati, volti a giustificare restrizioni e norme politico-sanitarie.
Da aspiranti giuristi, ci interroghiamo su quanto siano tollerabili nel nome dell’emergenza sanitaria la drastica riduzione e il graduale smantellamento delle libertà fondamentali sancite dalla Costituzione Italiana e dell’ordinamento democratico del nostro Paese.
Da esseri umani, ci domandiamo quanto sia sostenibile questa china tecnocratica e disumana che si va profilando, e a quale idea di futuro autoritario e biomedicalizzato ci stiamo progressivamente adattando. Per paura, indifferenza o conformismo. Ci chiediamo tutto questo, e lo chiediamo a voi. A ciascuno di voi. Cosa deciderete di fare? In un contesto di pianificato caos normativo e statistico dove di osservabile e verificabile sembra rimanere ben poco, e dove a dettare legge sono spesso gli scienziati più autoritari in luogo dei più autorevoli, avanziamo il sospetto che l’Università tutta rischi oggi di trovarsi davanti a un bivio cruciale.
Può darsi, a ben vedere, che non siamo lontani dalla concreta, drammatica possibilità di regredire dai moderni principi del metodo scientifico sperimentale – che delle Università rinnovarono, illuminarono e affinarono lo spirito – all’opacità di un nuovo, restaurando dominio del principio d’autorità, sclerotizzato in granitica e incontestabile Scienza. Per riconoscere la direzione più giusta e probabilmente più sana, può darsi che la strada da percorrere non sia all’insegna della paura e del controllo, bensì del coraggio e della libertà, debitamente scrostati dalle sedimentazioni propagandistiche di questi mesi.
E può darsi che al netto di tutti i ricatti morali e occupazionali del caso, non siamo altri che noi – mittenti e destinatari di questa lettera, insieme – i primi artefici del futuro che ci aspetta.
Da oggi stesso, ognuno di noi, individualmente, ne sarà responsabile.
Grazie dell’attenzione,
Studenti dell’Università di Bergamo
Bergamo, 1 Settembre 2021
La tentazione di ridurre la storia a grandi trame o all’inconsapevolezza dei protagonisti è sempre ricorrente. La vicenda disatrosa della ritirata statunitense e della NATO dall’Afghanistan ci dice qualcosa di più. La volontà di piegare a qualche scadenza simbolica il corso degli eventi per trarne un qualche beneficio immediato in termini di immagine può ritorcersi pesantemente ed accelerare inesorabilmente la crisi e la resa dei conti.. E’ quanto è successo a Joe Biden; è l’epilogo di un lungo processo che a portato all’emersione di un ceto politico mediocre circondato da un gruppo dirigente accondiscendente a prescindere. Così la rovina politica di un uomo, la sua evidente decadenza fisica rischiano di portarsi dietro una intera classe dirigente e con esso il loro paese. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
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TALEBANI E RIVOLUZIONE PASSIVA
Mentre Kabul cadeva dinanzi all’offensiva dei talebani, molti ricordavano come la “dottrina” dell’espansione del modello democratico occidentale con la forza fosse stata condivisa – a quanto si leggeva – da almeno tre Presidenti U.S.A.: Clinton, Bush jr. e Obama e i loro consiglieri sia di destra che di sinistra.
Taluni ritenevano – non infondatamente, che fosse una derivazione degli interessi di potenza – politica ed economica – degli U.S.A. soprattutto, se non dell’intero mondo occidentale.
Nessuno – che mi risulti – ha ricordato, come da oltre due secoli, in varie formulazioni e declinazioni quella concezione è stata ripetuta. Esportava gli immortali principi dell’89, facendo la guerra alle monarchie europee (ed alle classi dirigenti) già la Convenzione francese nel 1792, sintetizzandola in una frase efficace: “guerra ai castelli, pace alle capanne”, con il decreto del 15/12/1792.
Il che a prescindere dalle buone intenzioni (e dalla buona fede) era nient’altro che un programma di guerra civile europea. Che infatti infiammò il continente per quasi un quarto di secolo: le armate rivoluzionarie e poi napoleoniche trovavano molti alleati nei paesi conquistati, ma anche un “nuovo” nemico: i combattenti partigiani controrivoluzionari. I quali, ebbero un ruolo non secondario nella caduta di Napoleone. Fabrizio Ruffo, Empecinado, Andreas Hofer furono l’altro volto di una ostilità “irregolare” quanto profonda che, nel pensiero di Clausewitz, l’avvicinava alla guerra assoluta. Il richiamo agli immortali principi dell’89, servì a suscitare nemici almeno quanto a trovare alleati-seguaci, e fu comunque fertile nel provocare e aggravare l’ostilità. Non tanto perché presentarsi a casa d’altri con le baionette inastate e i cannoni rombanti non è propriamente il modo migliore e più rassicurante per farlo; ma soprattutto perché quegli immortali principi erano poco o punto condivisi dalle popolazioni invase.
Già lo aveva capito Vincenzo Cuoco il quale spiegava la breve esistenza della Repubblica partenopea (quattro mesi) col concetto di “rivoluzione passiva” destinato ad una notevole fortuna nel pensiero politico italiano (a cominciare da Gramsci). Scriveva il pensatore napoletano che le idee importate dalla rivoluzione francese erano lontane ed astratte dagli usi e dai bisogni delle popolazioni meridionali, onde queste le consideravano estranee; per di più condivise da minoranze afrancesade: “le vedute de’ patrioti e quelle del popolo non erano le stesse: essi avevano diverse idee, diversi costumi e finanche due lingue diverse”. In questa situazione mancava il principale fattore aggregante dell’unità politica: l’idem sentire de re publica.
Nell’epoca delle rivoluzioni Sieyés e Thomas Paine confidarono nella condivisione di idee, valori, interessi, bisogni e costumi tra francesi e americani per sostenere la rivoluzione e le Costituzioni dei nuovi ordinamenti nonché delimitare i “confini” con chi non li condivideva (sia all’esterno che all’interno della sintesi politica). Renan ne avrebbe formulato, nel di esso concetto di nazione, una denotazione esauriente.
Il problema si presenta ancor più difficile quando nella storia moderna tale pratica si è collegata allo “scontro di civiltà”. Se a popoli facenti parte della stessa civiltà era ostico esportare certi principi, soprattutto con le armi, non era da meno, data la maggiore distanza, tra popoli di civiltà diverse; Toynbee ricorda i principali casi e personaggi che l’hanno tentato e, spesso, realizzato. In senso positivo (cioè riuscito), Pietro il Grande e gli statisti giapponesi della rivoluzione Meiji.
Tuttavia i tentativi riusciti avevano di solito due caratteri: di essere d’iniziativa interna, e spesso del potere legittimo (lo Zar o il Tenno), e non d’importazione armata. Anche se generarono rivolte e repressioni (gli Strelizzi e i Samurai) al limite della guerra civile, non c’erano “terzi interessati” a fomentare, indirizzare, sostenere i contendenti, e trasformare così il conflitto in guerra partigiana (contro il nemico esterno e interno). L’altro, che si proponevano di introdurre novità sì profonde nelle società tradizionali, ma non totali. Il fatto che fosse il potere legittimo ad introdurle era una garanzia a favore della non totalità delle innovazioni: cambia l’ordine, ma non l’ “ordinatore”. Oltretutto i cambiamenti erano comunque parziali, e volti ad acquisire ed utilizzare la tecnica e la scienza (e modelli istituzionali) occidentale, in funzione degli interessi e del sistema di valori delle nazioni in via di modernizzazione.
Questi elementi non ricorrono nella guerra afgana né nella fase anti-sovietica né in quella anti-americana, perché sia il comunismo che il capitalismo globalizzatore comportano la sostituzione del “sistema di valori” delle società tradizionali, con quello d’importazione; e così dei titolari del potere legittimo. A farne le spese è in particolare la religione, onde la guerra che ne consegue presenta un accentuato carattere di conflitto di religione, che Croce già notava nelle insorgenze anti-francesi del 1799.
I talebani, data la loro formazione di studenti di teologia, si può dire che in questo hanno un vantaggio culturale sui loro avversari, i quali pensano che la superiorità tecnico-scientifica occidentale possa sostituire (o depotenziare, anche se di molto) la fede.
Errore antico e ripetuto. Suscita stupore che, allorquando circa vent’anni fa furono decise le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq, si fosse anche teorizzato il contrario, di poter esportare con la forza la democrazia e lo Stato di diritto in società così distanti da quella del cristianesimo occidentale di cui fa parte la potenza “liberatrice”; il tutto in qualche decennio e con i gendarmi alla porta.
Ma fare ciò significa pensare di ripetere in pochi lustri quanto da noi è stato concepito e realizzato in più di tredici secoli: dalla lotta per le investiture alla tolleranza, dalla Magna Charta alla dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, dall’editto di Rotari al Code civil.
Oltretutto è sopravvalutato il ruolo che un “sistema di valori”, per quanto appetibile, può avere rispetto ai fondamenti di un potere efficace ossia l’autorità o la legittimità, che non si vede come possa avere un occupante straniero, anche se liberatore.
Neanche in una società occidentale democratica il potere di un occupante– o del di esso Quisling – è legittimo perché carente di qualsiasi riferimento al popolo sia ideale che procedurale (e concreto). E non si comprende perché l’Afghanistan dovrebbe fare eccezione.
Concludendo, la caduta di Kabul induce due considerazioni.
La prima è che se gli afgani (o buona parte di essi) è riuscita a vincere due guerre partigiane con le maggiori superpotenze del pianeta, difendendo la propria in-dipendenza, non è detto che la marcia, fino a qualche anno fa (asseritamente) trionfante della globalizzazione non possa trovare altre battute d’arresto, si spera in modi meno cruenti.
La seconda che l’impresa iniziata dopo l’11 settembre era difficile. Oggi si risponde che è comodo e facile giudicare col…senno di poi.
Ma in realtà, qua si trattava di senno di prima. Cioè di valutare gli eventi del passato, le riflessioni che avevano generato da un lato (le difficoltà delle rivoluzioni passive) nel conformare (anche) le istituzioni politiche, le controindicazioni all’uso della forza, dall’altro i fatti più recenti (come la vittoria sull’occupazione sovietica). Tutti ben noti e determinanti per capire che il tentativo di esportare la democrazia e diritti umani con eserciti stranieri, quisling, collaborazionisti non sarebbe andato a buon fine. Neanche – anzi forse ancor più – se non fosse stato un ipocrita involucro per occultare la volontà ed interessi di potenza (politica ed economica). Perché, come scriveva Machiavelli, a credere questo si va appresso non alla realtà dei fatti ma all’ “immaginazione” che se ne ha – o se ne vuole avere, col risultato di trovare la ruina propria, cioè la sconfitta sul campo. Puntualmente avvenuta.
Teodoro Klitsche de la Grange