Israele, la sua realtà vista da un israeliano_con Gabriele Levy

Israele è una realtà complessa e originale nello scacchiere mediorientale. E’ un oggetto di contesa, ma anche un pretesto di contesa tra i paesi che lo circondano. Dalla sua fondazione è un attore che si è imposto di fatto, ma negli ultimi decenni, in particolare dalla caduta del blocco sovietico, è un protagonista riconosciuto da una parte sempre più larga di stati e comunità arabe. Il cammino verso un definitivo riconoscimento reciproco è però ancora irto di ostacoli ed incognite in un quadro nel quale le opzioni militari assumono ancora grande spazio assieme a processi di convivenza ed integrazione_Giuseppe Germinario

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GLI USA E LE ORECCHIE DA MERCANTE, di Antonio de Martini

Al breve ma ficcante testo di Antonio de Martini segue la recente dichiarazione dei Ministri degli Esteri del G7, durissima, sia nella forma che nei contenuti, nei confronti della Russia. A questo punto la battuta dal senno uscita di Biden riguardante l’indole assassina di Putin non si può ritenere più una uscita così estemporanea e incontrollata. La Russia non è più considerata una mediatrice nel conflitto civile interno all’Ucraina, ma parte in causa e unica responsabile della situazione di destabilizzazione di quel paese. I nostri dimenticano bellamente il loro contributo in armi e denari offerto al colpo di mano, un vero e proprio colpo di stato, di piazza Majdan con il quale si è rovesciato il vecchio regime con l’attuale; come pure rimuovono senza ritegno gli impegni a garantire la neutralità di quel paese  e il rispetto della condizione e della identità della parte russa di quella popolazione; glissano sul fatto che buona parte del ceto politico emerso con quel colpo di mano abbia poco a che fare con quel paese e che il tanto vantato sostegno economico occidentale ha in realtà portato alla rovina e alla depressione un paese uscito malconcio dall’esperienza sovietica; denuncia l’interventismo russo senza accennare ai preparativi militari ucraini, sostenuti dai rifornimenti occidentali, di una offensiva mirante alla rioccupazione del Donbass. L’accordo di Minsk non è stato promosso da “mediatori”, ma è stato concordato, sottoscritto e gestito da tutte le parti in causa del conflitto, comprese Francia, Germania e Polonia, tranne che paradossalmente dal convitato di pietra, gli Stati Uniti. Il paese che, attraverso suoi uomini politici di primo piano, di affari e diplomatici ha avuto modo di occuparsi persino degli affari domestici quotidiani di quel ormai disgraziato paese; esattamente come successo nella Russia di Eltsin. Un documento che sembra costruito a posta per tagliare ogni ponte con la Russia. L’Ucraina è una trappola. Apparentemente per la sola Russia; in realtà lo potrà diventare strategicamente per gli Stati Uniti, perché rischia di rafforzare il sodalizio sino-russo sempre che col tempo non maturi un al momento improbabile patto di spartizione sino-americano della Siberia.
Si sa che il confronto politico e geopolitico avviene tra centri decisionali, gruppi e schieramenti di stati e interni agli stati stessi. Siamo però al limite della fantapolitica, visto il contesto caotico della realtà politica americana. Lo è nell’immediato per i paesi europei, in particolare la Francia e la Germania, destinati a sobbarcarsi i principali oneri politici, economici e militari di tale confronto e a rinunciare ad un qualsiasi ruolo autonomo costruttivo sia nei confronti della Russia che soprattutto nel Mediterraneo. Non è da escludere che sia proprio questo il principale obbiettivo del restaurato, anche se malconcio, vecchio establishment americano: l’offerta di un mercimonio fatale in cambio magari di un qualche sostegno ingannevole alle ambizioni franco-tedesche nell’Africa Sub-sahariana_Giuseppe Germinario
GLI USA E LE ORECCHIE DA MERCANTE, di Antonio de Martini
L’Associated Press ha lanciato la notizia che il governo iracheno ha chiesto all’amministrazione Biden di fissare una data per riprendere i negoziati per l’evacuazione delle truppe USA dal paese.
Il negoziato, iniziato poco dopo l’attentato al generale iraniano kassem Soleimani, e a seguito di una mozione approvata dal parlamento, ha avuto una battuta d’arresto con le elezioni presidenziali americane e il cambio di governo in Irak.
Le prime due tornate di colloqui si erano tenute con l’amministrazione Trump a giugno e agosto 2020.
La terza viene richiesta adesso anche se gli USA speravano che il nuovo primo ministro iracheno Mustafa al-Kadhimi, avrebbe soprasseduto.
Evidentemente anche lui tiene alla Patria o alla pelle.
Con questa richiesta di evacuazione dall’Irak, l’impegno USA a evacuare l’Afganistan entro il 1 maggio p. v. e le difficili relazioni con la Turchia, si completa la dissoluzione dell’accerchiamento strategico dell’Iran e rende piu difficile il mantenimento delle sanzioni agli Ayatollah.
Se a questa situazione si aggiunge una recente presa di posizione del New York Times che atttribuisce la mancata, finora, evacuazione dell’Afganistan al rifiuto dei signori dello State Department di riconoscere i loro errori, il quadro è completo.
Entro breve, ce lo dice il generale Mario Arpino ( classe 1937) su @Formiche, ci sarà l’assessment strategico NATO e UE, con l’Italia che chiede attenzione al fronte sud – dove anche la Turchia è in forse- invece che alle isterie antirusse delle repubbliche baltiche.
Restiamo in vigile attesa, sicuri come siamo che la Tachipirina non sia sufficiente a calmare la febbre dell’area.
Dichiarazione dei Ministri degli Esteri del G7 sull’Ucraina, a cura di Ennio Bordato
I ministri degli esteri del G7 sono uniti nel condannare le continue azioni della Russia per minare la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza dell’Ucraina.
Noi, Ministri degli Esteri di Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito, Stati Uniti d’America e l’Alto rappresentante dell’Unione Europea, condanniamo all’unanimità le continue azioni della Russia volte a minare la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza dell’Ucraina.
Oggi, sette anni dopo l’annessione illegittima e illegale da parte della Russia della Repubblica Autonoma di Crimea e della città di Sebastopoli, riaffermiamo il nostro incrollabile sostegno e impegno per l’indipendenza, la sovranità e l’integrità del territorio dell’Ucraina entro i suoi confini internazionalmente riconosciuti.
La Carta delle Nazioni Unite, gli Accordi di Helsinki e la Carta di Parigi stabiliscono chiaramente i principi fondamentali riguardanti il ​​rispetto dell’integrità territoriale degli Stati, qualunque essi siano, e il divieto dell’uso della forza per cambiare i confini. Usando la forza contro l’integrità territoriale dell’Ucraina, la Russia ha apertamente violato il diritto internazionale e violato questi principi.
Denunciamo inequivocabilmente l’occupazione temporanea della Repubblica Autonoma di Crimea e della città di Sebastopoli da parte della Russia. I tentativi della Russia di legittimare tale occupazione non sono e non saranno riconosciuti. Condanniamo le violazioni dei diritti umani commesse dalla Russia nella penisola, in particolare contro i Tartari di Crimea. Chiediamo alla Russia di rispettare i suoi obblighi internazionali, di consentire l’accesso agli osservatori internazionali e di rilasciare immediatamente tutti coloro che sono stati ingiustamente detenuti. Accogliamo con favore, in linea di principio, l’iniziativa ucraina di istituire una piattaforma internazionale sulla Crimea al fine di consolidare gli sforzi della comunità internazionale al riguardo.
Inoltre, ci opponiamo fermamente alla continua destabilizzazione dell’Ucraina da parte della Russia, e in particolare alle azioni che quest’ultima sta intraprendendo in alcune aree delle regioni del Donetsk e Lugansk, a dispetto degli impegni assunti nel quadro degli Accordi di Minsk.
L’avvento della pace richiede la piena attuazione degli accordi di Minsk. La Russia è una parte nel conflitto nell’Ucraina orientale e non un mediatore. Accogliamo con favore il rinnovo del cessate il fuoco attuato il 27 luglio, che ha ridotto in modo significativo la violenza nella zona di conflitto. Tuttavia, il conflitto continua a mietere vittime e a causare gravi danni alle infrastrutture strategiche. Deploriamo la recente escalation militare sulla linea di contatto da parte di gruppi armati sostenuti dalla Russia. Chiediamo alla Federazione Russa di smettere di alimentare il conflitto fornendo sostegno militare e finanziario ai gruppi armati nell’Ucraina orientale e concedendo la cittadinanza russa a centinaia di migliaia di cittadini ucraini, e di garantire invece che i passi compiuti di recente dall’Ucraina allo scopo di aiutare a migliorare la vita delle persone su entrambi i lati della linea di contatto diventino reciproci. Riaffermiamo l’importanza di rispettare il cessate il fuoco, che è fondamentale per qualsiasi progresso verso una risoluzione pacifica del conflitto.
Accogliamo con favore gli instancabili sforzi della Germania e della Francia nell’ambito del Formato Normandia per risolvere il conflitto attraverso i canali diplomatici e riaffermiamo la nostra disponibilità a continuare a sostenere questi sforzi. Chiediamo a tutte le parti di attuare pienamente gli Accordi di Minsk e sottolineare la responsabilità della Russia di impegnarsi in modo costruttivo nel Formato Normandia e nel Gruppo di contatto trilaterale al fine di raggiungere una soluzione politica e giusta del conflitto.
Il G7 resta pienamente impegnato nell’attuazione delle sanzioni e sarà al fianco dell’Ucraina per difendere la sua indipendenza, sovranità e integrità territoriale entro i suoi confini internazionalmente riconosciuti. La Crimea è l’Ucraina.

Lettera all’avatar Presidente U.S._di Massimo Morigi

Lettera all’avatar Presidente U.S. Joseph Robinette Biden Jr. ( detto Joe Biden) di più di trenta membri democratici del Congresso degli Stati Uniti per limitare il suo potere monocratico di scatenare una guerra nucleare ovvero sul degrado delle classi dirigenti politiche nei regimi a  c.d.   democrazia    rappresentativa. Prima   nota   sull’argomento del theatrum electoralis-fraus electoralis   delle     nostre     post-democrazie     rappresentative

                                                                

Di Massimo Morigi

 

 Il documento che segue, è la lettera di tre pagine che più di trenta  deputati democratici del Congresso degli Stati Uniti hanno scritto al Presidente Joe Biden in data 22 febbraio 2021 per limitare il suo potere di essere l’unico decisore in merito se lanciare o meno un attacco nucleare. Sebbene la notizia tecnicamente sia stata riportata da varie fonti di informazione americane, in pratica sia negli USA che altrove nel mondo ha avuto pochissima risonanza (in Italia, assolutamente nessuna e per quello che ne sappiamo è stata riportata solo dal nostro blog di geopolitica “L’Italia e il Mondo” e più precisamente questa importantissima notizia è stata data  da Gianfranco Campa intervistato  per il blog da Giuseppe Germinario (intervista pubblicata in data 15 marzo 2021, titolo dell’intervista: “Stati Uniti. Una transizione prematura”, all’ URL dell’ “Italia e il Mondo”:   http://italiaeilmondo.com/2021/03/15/stati-uniti-una-transizione-prematura_con-gianfranco-campa/, URL del caricamento sempre a cura del blog su Rumble: https://rumble.com/vene61-stati-uniti-la-transizione-prematura-con-gianfranco-campa.html, ulteriore URL del caricamento dell’intervista sempre a cura de “L’Italia e il Mondo” su YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=KIRLdXeH1_o&t=124s, e infine, nostro autonomo caricamento dell’intervista su Internet Archive, generando gli URL https://archive.org/details/stati-uniti-la-transizione-prematura-con-gianfranco-campa-480p e https://ia801502.us.archive.org/8/items/stati-uniti-la-transizione-prematura-con-gianfranco-campa-480p/Stati%20Uniti%20la%20transizione%20prematura%20con%20Gianfranco%20Campa_480p.mp4).  In ogni modo, negli Stati uniti fra coloro che hanno perlomeno riportato la notizia sono il “New York Post” (all’URL https://nypost.com/2021/02/25/democrats-ask-biden-to-give-up-power-to-launch-nuclear-bomb/,  Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20210321093941/https://nypost.com/2021/02/25/democrats-ask-biden-to-give-up-power-to-launch-nuclear-bomb/) e “Politico” (all’URL  https://www.politico.com/newsletters/morning-defense/2021/02/23/tester-outlines-defense-budget-strategy-793538, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20210314075126/https://www.politico.com/newsletters/morning-defense/2021/02/23/tester-outlines-defense-budget-strategy-793538). Per ultimo, una illustrazione tecnica del documento ora proposto all’attenzione dei lettori de “L’Italia e il Mondo”. La lettera   di tre pagine qui presentata non è  il download di un file  PDF ma è stata da noi ricostruita attraverso  la copiaincollatura di tre immagini jpg le quali sono state scaricate dall’account Twitter sempre di “Politico” agli URL  https://twitter.com/politico/status/1364251316852322305/photo/1, https://twitter.com/politico/status/1364251316852322305/photo/2 e https://twitter.com/politico/status/1364251316852322305/photo/3, mentre il congelamento Wayback Machine di questi URL restituisce sempre la stessa immagine per cui ci limitiamo a fornire il congelamento del primo URL del terzetto:  Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20210321101400/https://twitter.com/politico/status/1364251316852322305/photo/1. Non ci dilunghiamo sul commento al documento, bastando per il momento quello di Gianfranco Campa e Giuseppe Germinario (e bastando anche, per chi voglia ascoltarle – ascolto assolutamente consigliato,anzi tassitivo per chi voglia darsi un’idea realistica e non fantasmagorica da fairy tales sulle ultime paperopolinische elezioni presidenziali USA – le numerose ed illuminanti interviste sui brogli elettorali nelle elezioni americane che Gianfranco Campa ha rilasciato a Giuseppe Germinario sempre sul nostro “L’Italia e il Mondo” le quali ci consentono di dire che non siamo in presenza di brogli elettorali ma, molto più semplicemente, a elezioni ridotte a pura rappresentazione teatrale ad uso e consumo delle masse omega-strategiche, ma su questo argomento, l’ esito di queste elezioni, cioè il  neoletto presidente Joseph Robinette Biden Jr. detto Joe Biden che non è altro che un avatar di presidente,  e su come questa rappresentazione teatral-avatariale venga riproposta sui palcoscenici anche della altre c.d. democrazie rappresentative occidentali torneremo fra non molto con più approfondito approccio teorico)   e, per quanto riguarda l’estensore di questa introduzione, tutte le sue note ed osservazioni teoriche di questi ultimi anni improntate al paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico e sottolineanti il sempre più marcato degrado dell’ideologia e della pratica politica dell’affabulazione liberaldemocratica nonché delle classi dirigenti dei regimi   a  c.d.   democrazia    rappresentativa che a questa ideologia e pratica politica dolosamente prendono le mosse e si ispirano per gabbare le masse omega-strategiche (e come appena detto, lungo questa linea interpretativa saranno improntate le nostre ulteriori riflessioni sull’argomento di cui questa nota può essere considerata un’introduzione oltre che del documento in questione anche dell’argomento più generale del rapporto fra decisori alfa-strategici ed omega strategici nei regimi a c.d. democrazia rappresentativa, un rapporto di soggezione dei secondi verso i primi che solarmente viene come non mai messo in rilievo nel corso delle rappresentazioni del theatrum electoralis-fraus electoralis delle ormai completamente mature – anzi del tutto marce – nostre post-democrazie rappresentative).

Massimo Morigi – 21 marzo 2021

 

PER QUALCHE MIGLIAIO IN PIÚ, di Teodoro Klitsche de la Grange

PER QUALCHE MIGLIAIO IN PIÚ

È degno di nota l’attaccamento delle élite decadenti e dei loro mezzi di comunicazione alle parole d’ordine e agli idola con cui cercano di rappresentare una situazione che non è quella reale e che, in ogni caso, non intendono cambiare, se non in un senso di loro gradimento.

Fino a qualche tempo fa, dopo l’inizio dell’emergenza Covid, si erano accorti, con grande clamore, che in Italia la pubblica amministrazione funziona poco e male. Era ora! Ma tanto ed insistente  lamento non induceva a procedere con qualche misura coerente ed incisiva, come la rimozione di dirigenti inetti (o altro), ovvero la prescrizione di sanzioni serie per inadempimenti, ritardi, ostruzionismi delle P.P.A.A. e così via.

Misure legittimate, anzi prescritte, tra l’altro, dagli artt. 28 e 97 della “costituzione più bella del mondo”, ma di fatto inattuati o meglio sabotati dall’entrata in vigore ad oggi. Fa piacere che Draghi, oltre ad annunciare qualche riforma (vedremo), ha esordito mettendo alla porta alcuni dei responsabili amministrativi della gestione della pandemia. Si resta in attesa per i politici.

La gestione sanitario-amministrativa del Covid riporta alla mente quanto scriveva un economista sulfureo come Milton Friedman, sul controllo (anche) dei farmaci esercitato negli USA della FDA (Food and Drug Administration).

Il pezzo di Friedman, che fa parte di un libro scritto con la moglie Rose, è una succinta ma persuasiva argomentazione di come delle buone intenzioni ed istituzioni finiscono poi per funzionare male, ottenendo, complessivamente, risultati meno positivi delle attese e spesso negativi.

Il controllo della FDA fu esteso ai farmaci nel 1938. Dopo la tragedia del talidomide (1962) furono approvati degli emendamenti i quali “al test di sicurezza previsto nella legge del 1938 aggiungevano un test di efficacia e abolivano i limiti di tempo a disposizione della FDA per decidere sulle richieste di autorizzazione dei nuovi farmaci”. Il risultato fu che i controlli più estesi e volti a tutelare il consumatore/paziente andarono a detrimento dell’interesse “che i nuovi farmaci siano resi disponibili a coloro che possano riceverne un beneficio il più presto possibile. Come spesso avviene, due obiettivi validi si contraddicono a vicenda. Sicurezza e prudenza in una direzione possono significare morte in un’altra”. E Friedman proseguiva “Una mole considerevole di dati accumulati indica che la regolamentazione della FDA è controproducente, cioè che ha fatto più male (perché ha ritardato il progresso nella produzione e nella distribuzione di farmaci validi) che bene (perché ha impedito la distribuzione di farmaci dannosi o inutili)”. E ne spiega la ragione “Provate a mettervi nella posizione di un funzionario della FDA, responsabile dell’approvazione o del rifiuto di un nuovo farmaco. Potreste fare due errori diversi”: approvare un farmaco nocivo alla salute o, al contrario impedire (o dilazionare) la disponibilità di un salva-vita. Ma se commettete il primo errore “il vostro nome sarà sulle prime pagine di tutti i giornali. Sarete coperti di infamia. Se cadete nel secondo errore, chi lo verrà a sapere?”. Non l’industria farmaceutica che voleva produrlo (il solito pescecane!); non i morti non risparmiati, perché non possono manifestare; e neppure le loro famiglie che non hanno “modo di sapere che i loro cari hanno perso la vita per la «prudenza» di uno sconosciuto funzionario della FDA”.

Le considerazioni dell’economista americano sono emblematiche di come l’eterogenesi dei fini sovverte anche le istituzioni e le attività pubbliche non contrassegnate da inutilità evidente e/o da bulimia predatoria. E così la guerra italiana alla pandemia, condivisibile nel fine, nella necessità e nell’urgenza, ma nei modi assai meno.

Parte delle misure prese dai poteri pubblici è stato connotata spesso più dell’esigenza di fare qualcosa, e di evidente, che dalle reali necessità; molti ripetono che sono state bloccate attività non particolarmente pericolose, se esercitate con attenzione e prudenza igienico-sanitaria. Tuttavia il timore per le critiche di non essere stati abbastanza determinati nella guerra al Covid, ha indotto alla soluzione più drastica (e anche contraddittoria, con quelle adottate per situazioni simili, come il trasporto pubblico). Altre sembravano scelte più per beneficiare qualche tax-consommers e qualche green-dipendente (come monopattini, biciclette, banchi a rotelle) che alla volontà di pugnare col virus.

Quanto alla battaglia decisiva – i vaccini – anche qua l’atteggiamento – in genere – delle autorità, nazionali ed europee – è stato spesso connotato più da esigenze d’immagine che da esigenze reali. Il ritardo nella campagna vaccini soprattutto rispetto a quanto fatto in Gran Bretagna, Israele, USA (e anche altrove), soprattutto. L’approvazione dei vaccini da parte di enti di controllo è stata lunga, rispetto a quanto fatto altrove. E non è finito, come dimostra il caso Astrazeneca.

E non è stato messo in conto quante migliaia di morti sia costata l’accuratezza dei controlli. Il numero dei decessi per abitanti in Gran Bretagna, nella settimana corrente, è circa un terzo di quelli in Italia. In Israele ancor meno.

Ma chi chiederà il conto per qualche migliaia di morti?

Teodoro Klitsche de la Grange

 

LE RAGIONI DELLA DISINTEGRAZIONE DELLA LIBIA DA PARTE DEGLI USA. a cura di Luigi Longo

LE RAGIONI DELLA DISINTEGRAZIONE DELLA LIBIA DA PARTE DEGLI USA.

a cura di Luigi Longo

 

Nel decennale della frantumazione della Libia da parte degli USA via NATO propongo la lettura dell’articolo di Manlio Dinucci Perché la NATO dieci anni fa demolì la Libia apparso su il Manifesto del 16/3/2021 e ripropongo un mio scritto del 2015 dal titolo Che ci fa l’Isis in Libia? pubblicato su www.conflittiestrategie.it.

Ritengo che il mio scritto sia ancora valido nella struttura del ragionamento che evidenzia le ragioni della disintegrazione della Libia da parte degli USA; pertanto non lo aggiorno (ad eccezione delle carte di Limes) ma segnalo tre questioni che riprenderò successivamente:

  1. Il ruolo della Turchia (con la sua politica neo-ottomana) nella strategia degli USA per contrastare l’ascesa della Russia sia attraverso il controllo delle risorse energetiche (il gas del mediterraneo orientale), sia attraverso la funzione di testa di ponte (la porta di entrata) nel Medio Oriente per opporsi all’alleanza Cina-Russia-Iran (vedi ruolo in Libia e in Siria).
  2. Il ruolo fondamentale della NATO per contrastare le potenze in ascesa: la Cina (la NATO in Medio Oriente) e la Russia (la NATO in Europa).
  3. La mancanza di una politica estera italiana per difendere i propri interessi. Il governo italiano segue appena le nostre imprese in maniera debole (vedi ENI a Cipro). L’Italia non è credibile nell’area Mediterranea (vedi la Libia) così come non è credibile nel Medio Oriente (vedi l’Iran).

 

 

PERCHÉ LA NATO DIECI ANNI FA DEMOLÌ LA LIBIA

di Manlio Dinucci

 

Dieci anni fa, il 19 marzo 2011, le forze Usa/Nato iniziano il bombardamento aeronavale della Libia. La guerra viene diretta dagli Stati Uniti, prima tramite il Comando Africa, quindi tramite la Nato sotto comando Usa. In sette mesi, l’aviazione Usa/Nato effettua 30 mila missioni, di cui 10 mila di attacco, con oltre 40 mila bombe e missili. L’Italia – con il consenso multipartisan del Parlamento (Pd in prima fila) – partecipa alla guerra con 7 basi aeree (Trapani, Gioia del Colle, Sigonella, Decimomannu, Aviano, Amendola e Pantelleria); con cacciabombardieri Tornado, Eurofighter e altri, con la portaerei Garibaldi e altre navi da guerra. Già prima dell’offensiva aeronavale, erano stati finanziati e armati in Libia settori tribali e gruppi islamici ostili al governo, e infiltrate forze speciali in particolare qatariane, per far divampare gli scontri armati all’interno del Paese.

Limes. Carta di Laura Canali 2020 (mio inserimento cartografico).

Viene demolito in tal modo quello Stato africano che, come documentava nel 2010 la Banca Mondiale, manteneva «alti livelli di crescita economica», con un aumento del pil del 7,5% annuo, e registrava «alti indicatori di sviluppo umano» tra cui l’accesso universale all’istruzione primaria e secondaria e, per oltre il 40%, a quella universitaria. Nonostante le disparità, il tenore medio di vita era in Libia più alto che negli altri paesi africani. Vi trovavano lavoro circa due milioni di immigrati, per lo più africani. Lo Stato libico, che possedeva le maggiori riserve petrolifere dell’Africa più altre di gas naturale, lasciava limitati margini di profitto alle compagnie straniere. Grazie all’export energetico, la bilancia commerciale libica era in attivo di 27 miliardi di dollari annui.

Con tali risorse lo Stato libico aveva investito all’estero circa 150 miliardi di dollari. Gli investimenti libici in Africa erano determinanti per il progetto dell’Unione Africana di creare tre organismi finanziari: il Fondo monetario africano, con sede a Yaoundé (Camerun); la Banca centrale africana, con sede ad Abuja (Nigeria); la Banca africana di investimento, con sede a Tripoli. Tali organismi sarebbero serviti a creare un mercato comune e una moneta unica dell’Africa.

Non è un caso che la guerra Nato per la demolizione dello Stato libico inizi nemmeno due mesi dopo il vertice dell’Unione Africana che, il 31 gennaio 2011, aveva dato il via alla creazione entro l’anno del Fondo monetario africano. Lo provano le email della segretaria di Stato dell’Amministrazione Obama, Hillary Clinton, portate alla luce successivamente da WikiLeaks: Stati uniti e Francia volevano eliminare Gheddafi prima che usasse le riserve auree della Libia per creare una moneta pan-africana alternativa al dollaro e al franco Cfa (moneta imposta dalla Francia a 14 ex colonie). Lo prova il fatto che, prima che nel 2011 entrino in azione i bombardieri, entrano in azione le banche: esse sequestrano i 150 miliardi di dollari investiti all’estero dallo Stato libico, di cui sparisce la maggior parte. Nella grande rapina si distingue la Goldman Sachs, la più potente banca d’affari statunitense, di cui Mario Draghi è stato vicepresidente.

Oggi in Libia gli introiti dell’export energetico vengono accaparrati da gruppi di potere e multinazionali, in una caotica situazione di scontri armati. Il tenore di vita della maggioranza della popolazione è crollato. Gli immigrati africani, accusati di essere «mercenari di Gheddafi», sono stati imprigionati perfino in gabbie di zoo, torturati e assassinati. La Libia è divenuta la principale via di transito, in mano a trafficanti di esseri umani, di un caotico flusso migratorio verso l’Europa che ha provocato molte più vittime della guerra del 2011. A Tawergha le milizie islamiche di Misurata sostenute dalla Nato (quelle che hanno assassinato Gheddafi nell’ottobre 2011) hanno compiuto una vera e propria pulizia etnica, costringendo quasi 50 mila cittadini libici a fuggire senza potervi fare ritorno. Di tutto questo è responsabile anche il Parlamento italiano che, il 18 marzo 2011, impegnava il Governo ad «adottare ogni iniziativa (ossia l’entrata in guerra dell’Italia contro la Libia) per assicurare la protezione delle popolazioni della regione».

 

 

CHE CI FA L’ISLAMIC STATE (IS) IN LIBIA? PERCHÉ NON LO CHIEDIAMO AGLI USA.

di Luigi Longo

 

Se ci minacciate, se ci destabilizzerete, ci sarà                                                                             confusione. […] Questo è ciò che accadrà.                                                                                     Avrete l’immigrazione, migliaia di persone                                                                                     invaderanno l’Europa dalla Libia […] ci sarà                                                                                una jihad di fronte a voi, nel Mediterraneo […] ”.

                                                                                                                      Mu’ammar Gheddafi*

 

 

1.La lotta ai movimenti islamici fondamentalisti (AL Qaida e IS sono tra i più noti e usati) è lo strumento cardine che amalgama la comunità internazionale per combattere chi mette in discussione la sicurezza dei popoli e delle nazioni: è la cosiddetta “Guerra al terrore”, salvo poi verificarne la strumentalità in funzione del conflitto strategico delle potenze mondiali in declino (USA) e in ascesa (soprattutto Russia e Cina).

L’ONU si mobilita con il suo Consiglio di Sicurezza per affrontare questo grave pericolo per la sicurezza, la pace e la democrazia mondiale. << La forza militare non è sufficiente– Si parla della sfida lanciata dall’Isis e da Al Qaida, che, ha detto Obama, “è una sfida per il mondo intero, non solo per l’America”. La forza militare non è però sufficiente, ha affermato il presidente americano. E’ necessario sconfiggere anche la propaganda, contrastare i terroristi che online “fanno il lavaggio del cervello” ai giovani musulmani. E il mondo islamico si deve mobilitare: “Schieratevi nella lotta contro gli estremisti”, ha detto il presidente rivolgendosi ai leader musulmani […] Mosca non si chiama fuori – L’azione contro l’Isis sotto la guida Onu potrebbe avvalersi anche della partecipazione della Russia. Il rappresentante permanente all’Onu, Vitali Ciurkin, non ha escluso la partecipazione di Mosca a un eventuale coalizione internazionale contro lo Stato islamico, in particolare garantendo un blocco navale per impedire l’arrivo di forniture di armi ai terroristi. Lo riferisce la Tass, dopo la riunione straordinaria di ieri sera del Consiglio di sicurezza Onu sull’emergenza libica >> (1).

Voglio solo ricordare, en passant, che le forniture di armi ai terroristi sono effettuate dalle stesse nazioni che formeranno il suddetto blocco navale: è il teatro dell’assurdo!

I miliziani del fondamentalismo islamico (soprattutto l’IS) vogliono addirittura creare uno Stato Islamico che confligge con l’Occidente nella stupida logica di contrapposizione tra la cultura Occidentale (la Civiltà) e la cultura Orientale (la Barbarie) così come viene rappresentata, in maniera pseudoscientifica, da Samuel P. Huntington e da studiosi arabi e dell’islam (2). Ovviamente la logica di contrapposizione Occidente/Oriente è antitetica polare (per usare una categoria lucacciana) per mantenere gli assetti di dominio degli agenti strategici dominanti delle varie potenze egemoni nelle diverse fasi storiche mondiali.

Si parla dell’ instaurazione di un nuovo califfato << da parte dei cosiddetti mujahidin – vale a dire “impegnati in uno sforzo gradito a Dio” – dell’area di confine tra Siria e Iraq, quelli che di solito i media definiscono i “jihadisti” di un autoproclamato Islamic State in Iraq and Levant (ISIL), pubblicata il 30 giugno scorso, è stata rapidamente diffusa provocando commenti di ogni genere: nella stragrande maggioranza dei casi, ahimè, del tutto fuori luogo.[ corsivo mio] L’ISIL, che a sottolineare il carattere universalistico della sua scelta ha contestualmente espunto dalla sua sigla statale le lettere I ed L che indicavano rispettivamente l’Iraq e il non troppo ben definito “Levante”, è da oggi in poi nelle intenzioni dei suoi promotori e sostenitori soltanto IS, Islamic State: esso dovrebbe pertanto raccogliere tutti i fedeli musulmani del mondo e ricostituire l’umma, la comunità musulmana nel suo complesso …>> (3).

Il fondamentalismo islamico non è più concepito come “frangia impazzita” di un vasto movimento << che costituisce la moderna militanza islamica. Le loro rivendicazioni sono politiche ma articolate in termini religiosi e fanno riferimento a una visione del mondo religiosa. Il movimento affonda le proprie radici in contingenze sociali, economiche e politiche >>, ma è visto come il portabandiera e << […] il loro linguaggio è oggi l’idioma dominante nel moderno attivismo politico islamico. Il loro svilito, violento, nichilistico millenarismo antirazionale è diventato l’ideologia standard cui aspirano i giovani musulmani arrabbiati. Questa è una tragedia. >> (4). La citata tragedia è un capolavoro degli agenti strategici pre-dominanti del conflitto mondiale (in primis degli USA in quanto potenza mondiale egemone che si vede minacciata dal formarsi di nuove potenze mondiali), ma anche degli agenti strategici sub-dominanti delle diverse aree occidentali e orientali ( per esempio l’Europa, il Vicino e Medio Oriente, l’Africa) che configureranno nella fase policentrica, tramite le zone di influenza, i poli delle potenze mondiali in lotta per la supremazia mondiale, quegli stessi agenti strategici che hanno agevolato e avallato ( se non creato in alcuni casi) il costituirsi delle frange “impazzite” del fondamentalismo islamico per le proprie strategie di conflitto per l’egemonia mondiale (5). La “Guerra al terrore” è il velo che serve per nascondere le strategie di conflitto che la fase multipolare, ormai lentamente ma decisamente avviatasi, impone. << “È un dato di fatto – scrive un ex ambasciatore arabo accreditato negli Stati Uniti e in Gran Bretagna – che gli Stati Uniti abbiano stipulato delle alleanze coi Fratelli Musulmani per buttar fuori i Sovietici dall’Afghanistan; e che, da allora, non abbiano cessato di far la corte alla corrente islamista, favorendone la propagazione nei paesi d’obbedienza islamica. Seguendo le orme del loro grande alleato americano, la maggior parte degli Stati occidentali ha adottato, nei confronti della nebulosa integralista, un atteggiamento che va dalla benevola neutralità alla deliberata connivenza”. L’uso tattico del cosiddetto integralismo o fondamentalismo islamico da parte occidentale non ebbe inizio però nell’Afghanistan del 1979, quando – come ricorda in From the Shadows l’ex direttore della CIA Robert Gates – già sei mesi prima dell’intervento sovietico i servizi speciali statunitensi cominciarono ad aiutare i guerriglieri afghani.

Esso risale agli anni Cinquanta e Sessanta, allorché Gran Bretagna e Stati Uniti, individuato nell’Egitto nasseriano il principale ostacolo all’egemonia occidentale nel Mediterraneo, fornirono ai Fratelli Musulmani un sostegno discreto ma accertato. È emblematico il caso di un genero del fondatore del movimento, Sa’id Ramadan, che “prese parte alla creazione di un importante centro islamico a Monaco in Germania, intorno al quale si costituì una federazione ad ampio raggio”. Sa’id Ramadan, che ricevette finanziamenti e istruzioni dall’agente della CIA Bob Dreher, nel 1961 espose il proprio progetto d’azione ad Arthur Schlesinger Jr., consigliere del neoeletto presidente John F. Kennedy. “Quando il nemico è armato di un’ideologia totalitaria e dispone di reggimenti di fedeli devoti, – scriveva Ramadan – coloro che sono schierati su posizioni politiche opposte devono contrastarlo sul piano dell’azione popolare e l’essenza della loro tattica deve consistere in una fede contraria e in una devozione contraria. Solo delle forze popolari, genuinamente coinvolte e genuinamente reagenti per conto proprio, possono far fronte alla minaccia d’infiltrazione del comunismo”. [corsivo mio].

L’uso strumentale dei movimenti islamisti funzionali alla strategia atlantica non terminò con il ritiro dell’Armata Rossa dall’Afghanistan. Il patrocinio fornito dall’Amministrazione Clinton al separatismo bosniaco ed a quello kosovaro, l’appoggio statunitense e britannico al terrorismo wahhabita nel Caucaso, il sostegno ufficiale di Brzezinski ai movimenti fondamentalisti armati in Asia centrale, gli interventi a favore delle bande sovversive in Libia ed in Siria sono gli episodi successivi di una guerra contro l’Eurasia in cui gli USA e i loro alleati si avvalgono della collaborazione islamista.>> (6).

Si sa che gli USA non amano un ordine mondiale multipolare, ma amano un mondo a loro immagine e somiglianza, democraticamente e civilmente costruito, e che, a tal fine scatenano guerre e usano tutti i mezzi per difendere e ri-creare su basi storicamente date un nuovo ordine mondiale. La guerra è un prolungamento della politica con altri mezzi, << La guerra non è dunque solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi. >> (7), può cambiare modalità, strumenti, strategie, eserciti, tecniche, eccetera, ma resta l’ultima istanza nel definire la potenza mondiale egemone, la storia questo insegna.

 

2.Lo storico del colonialismo italiano, Angelo Del Boca, in una intervista ( Il governo irresponsabile in “Il Manifesto del 17/2/2015), alla domanda << Come mai tanta arroganza e miopia del governo italiano in questa fase della crisi mondiale? >>, così risponde:<< È perché, in modo scellerato, manca una politica estera, una vera diplomazia italiana. Renzi dice che la Libia è uno «Stato fallito». E chi l’ha fatto fallire se non la guerra del 2011 voluta a tutti i costi dalla Francia di Sarkozy? [ corsivo mio] Dimenticano che con quella guerra fuggirono milioni di lavoratori migranti e di libici, dei quali ora un milione è in Egitto e 600mila in Tunisia. Voglio ricordare che quando gli aerei della Nato bombardavano la Libia nel marzo del 2011, io ammonivo<< la Libia diventerà una nuova Somalia >>. È quello che è accaduto.>>.

La leader del Front National francese, Marine Le Pen, in una intervista (Nessuna guerra, l’Europa chiuda le frontiere in “la Repubblica” del 19/2/2015), alla domanda << Nel 2011 la Francia ha guidato l’intervento contro il regime di Tripoli. È stato un errore? >>, così risponde:<< Non è stata la Francia ma il presidente di allora, Sarkozy, consigliato da Bernard-Henri Levy, e con il sostegno del partito socialista.[ corsivo mio] L’intervento di quattro anni fa ha provocato degli squilibri geopolitici di cui vediamo oggi le conseguenze. È stato un gigantesco errore strategico da parte di Sarkozy, e di chi l’ha appoggiato >>.

Ma davvero la Francia, insieme all’Inghilterra (lasciamo perdere il ruolo infame dell’Italia sotto la regia di Giorgio Napolitano), nel 2011 ha deciso di eliminare Mu’ammar Gheddafi e buttare nel caos una nazione come la Libia? Ma davvero Mu’ammar Gheddafi è stato assassinato perché era un feroce dittatore che appoggiava il terrorismo internazionale e che era in conflitto con un nano politico come Nicolas Sarkozy?

E’ fuorviante pensare ad un ruolo decisivo della Francia nella drammatica vicenda della Libia e nella barbara uccisione di Mu’ammar Gheddafi, un uomo capace di grande leadership.

Angelo Del Boca e Marine Le Pen non colgono l’aspetto fondamentale e decisivo dei fatti libici del 2011. Essi vedono i processi economicistici della Francia (interessi di imprese, risorse energetiche, finanziamenti occulti, eccetera) ma non vedono i processi strategici della potenza imperiale USA che impongono una fase del caos mirata ad un attacco deciso alla Russia (primavera araba, Siria, Ucraina, Iran, accordo Russia-Cina-Iran, eccetera) e alla Cina (ridimensionamento della politica di penetrazione e di espansione in Africa). Insomma un attacco duro e pericoloso per indebolire quelli che potrebbero essere i punti di forza delle nuove potenze che aspirano a competere con l’egemonia USA non solo a livello di specifiche aree geografiche ma sopratutto a livello mondiale.

Limes. Carta di Laura Canali 2018.

Gli USA nel 2011, tramite la Francia e l’Inghilterra (che avevano ed hanno interessi economici e di accaparramento di risorse energetiche), l’Italia (che oltre a perdere i suoi interessi economici ed energetici (8) doveva e deve svolgere il ruolo di nazione-spazio di infrastruttura militare a disposizione dei comandi USA e USA-NATO) e i miliziani dell’IS (9), hanno dato la stura alla disintegrazione di una nazione e di un popolo come la Libia.

Mu’ammar Gheddafi è stato eliminato per ragioni evidenti e precise: per aver portato la Libia ad essere una nazione superando le divisioni tribali; per averla fatta diventare la nazione sovrana più importante dell’Africa; per aver costruito una strategia di sviluppo non dipendente soltanto dalle risorse energetiche; per le sue azioni politiche ed economiche intraprese in Medio Oriente; per il ruolo svolto nella costruzione dell’Unione Africana ( gli stati uniti d’Africa) con obiettivi strategici di autodeterminazione e di costruzione di un polo geopolitico sovrano come il continente africano, con una sua moneta, un fondo monetario africano, una banca centrale africana; per il suo anticolonialismo. (10)

 

3.Perchè l’IS, in questa fase storica sta scorazzando, creando disordine, drammi umani e distruzioni territoriali attaccando tutte le aree e i Paesi del Vicino e Medio Oriente che hanno relazioni sociali con la Russia e la Cina? Qual è il ruolo che l’IS sta svolgendo per ora in Libia? E’ uno strumento per risolvere la divisione interna di quello che resta della Libia (il fronte laico del nasseriano Generale Haftar e del governo di Tobrouk e quello islamista del governo di Tripoli) (11)? E’ una minaccia terroristica (attraverso il controllo dei flussi migratori e la gestione delle risorse energetiche) all’Europa, meglio, agli Stati europei, per orientarli sempre di più verso l’Occidente e rallentare le relazioni con l’Oriente? E’ un vettore per affermare la potenza regionale (la Turchia?) più utile e flessibile in questa area diventata centrale per le strategie USA?

E’ tempo di uscire dall’egemonia degli USA, ad iniziare dalle istituzioni internazionali come l’ONU, perché gli USA, non accettando né il loro declino né un mondo multipolare, sono la potenza più pericolosa per la stabilità mondiale.

Limes. Carta di Laura Canali 2020.

 

 

*La citazione scelta come epigrafe è tratta da:

Intervista a Mu’ammar Gheddafi apparsa su “Le Journal du Dimanche” del 5 marzo 2011 e ripresa da diversi quotidiani italiani.

 

NOTE

 

1.Redazione Tiscali, Libia, per il Consiglio di Sicurezza la soluzione è politica, www.tiscali.it, 19 febbraio 2015;

2.Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 2000;

3.Sulla aleatorietà e sulla difficoltà della costruzione di uno stato islamico, Franco Cardini, Una restaurazione del Califfato?, 6 luglio 2014 e Idem, l’Islam nel XXI secolo, 27 luglio 2014, www.francocardini.net ;

4.Jason Burke, Al Qaeda. La vera storia, Feltrinelli, Milano, pp.17-18;

5.Sono arrivato a questa convinzione dopo la ri-lettura di Edward W. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano, 1999;

6.Claudio Mutti, Islamismo contro Islam? www.eurasia-rivista.org, 20 novembre 2012;

7.Clausewitz, Della guerra, Mondadori, Milano, 2011, pag.38;

  1. Interessi pesanti per la disastrata economia italiana: il gas e il petrolio (l’ENI ha avuto una diminuzione da un milione e mezzo di barili prodotti in Libia ogni giorno a 150 mila), le commesse per le nostre imprese e gli investimenti nel nostro sistema economico. Per esempio, in Puglia, il Centro Studi regionale della Confartigianato afferma che << […] le aziende della provincia di Bari esportano verso il Paese nordafricano beni per 8,7 milioni di euro. Pari al 48,3 per cento del totale delle esportazioni pugliesi verso la Libia. Seguono le province di Lecce con 5,4 milioni, pari al 30 per cento dei 18 milioni complessivi; Brindisi con un milione 400mila euro, pari al 7,8 per cento; Barletta-Andria-Trani con un milione 100mila euro (6,1 per cento); Foggia con 800mila euro (4,4 per cento). Chiude Taranto, già parecchio ridimensionata a causa dell’involuzione dell’Ilva, con 600 mila euro (3,3 per cento) […] I dati elaborati […] consentono di comprendere come la situazione generatasi nel Nordafrica abbia ripercussioni dirette anche sulla nostra economia regionale. Quest’ulteriore fronte si apre in un momento in cui le imprese pugliesi sono già duramente provate dalla restrizione ai commerci con la Russia, in forza delle sanzioni applicate a seguito della crisi ucraina. La situazione internazionale – osserva – è tale da causare una battuta d’arresto proprio per alcuni tra i flussi più corposi dell’export pugliese. Con i consumi interni ormai al lumicino, questa congiuntura rappresenta un pericolo concreto anche dal punto di vista economico >>, www.confartigianatopuglia.com;
  2. 9. << Sono gli stessi che nel 2011 – spalleggiati in tutto e per tutto da Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e poi anche dall’Italia – hanno compiuto la cosiddetta “primavera araba”. Queste persone che oggi rappresentano uno “spauracchio” venivano descritti nel 2011 come coloro che stavano portando in Libia la democrazia. Costoro, più o meno nell’ordine di un milione di persone armate fino ai denti, si stanno ora contrapponendo gli uni agli altri per guadagnare quanto più potere possibile. Oggi si parla tanto di Isis, ma in Libia esiste da tempo una miriade di sigle riconducibili tutte all’islamismo fondamentalista. La bandiera nera di al Qaeda è stata issata nei giorni in cui veniva ucciso Gheddafi: durante la rivolta sventolava sul Palazzo di Giustizia di Bengasi e sulla città di Derna, dove era stato istituito un Califfato. Nel tempo queste forze non hanno fatto altro che radicalizzarsi >> in Paolo Sensini-Federico Cenci, “La primavera araba” ha portato l’Isis in Libia, zenit.org, 17 febbraio 2015;

10.Oltre ai lavori dello storico Angelo Del Boca, si veda la buona sintesi di Arturo Varvelli, Gheddafi e l’Unione Africana: legittimità internazionale, influenza regionale e sviluppo interno, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, www.ispionline.it, luglio 2009;

11.Per una sintesi della frammentazione sociale della Libia si veda Marco Di Liddo-Gabriele Iacovino, Analisi delle possibili soluzioni alla crisi in Libia, Centro Studi Internazionali, www.cesi-italia.org, febbraio 2015.

 

 

 

 

 

Stati Uniti tra il dire e il fare_ ne parliamo con Gianfranco Campa

Non è una novità che tra le dichiarazioni elettorali, le intenzioni e i comportamenti politici reali non ci sia, per usare un eufemismo, esatta corrispondenza. Con l’amministrazione Biden l’incertezza e la contraddittorietà stanno assumendo una caratteristica più inquietante. Non è ormai solo mera tattica elettorale. Sempre meno uno scontro politico aspro ma aperto, caratteristico della presidenza Trump, sempre più un confronto sordo tra centri di potere poco coordinati e scarsamente concordi. Frutto di una situazione geopolitica complessa che vede la partecipazione di un numero sempre più folto di protagonisti e di uno squilibrio della formazione sociale statunitense difficilmente ricomponibile. Un disorientamento che rischierà di accentuare ulteriormente le tendenze centrifughe dal centro egemonico e la formazione di più poli geopolitici attrattivi in competizione sempre più evidente. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vevxh3-stati-uniti-tra-il-dire-e-il-fare-ne-parliamo-con-gianfranco-campa.html

 

SOLDI BEN INVESTITI, di Antonio de Martini

SOLDI BEN INVESTITI
il 25 marzo, la Grecia celebrerà con sfarzo i due secoli dall’inizio della guerra di indipendenza dall’impero ottomano : una imponente parata militare in onore dei tradizionali alleati, il premier russo Mishustin e il principe di Galles, Carlo, con la consorte.
Era stato invitato anche il presidente Francese Macron per completare il terzetto dei paesi che avevano appoggiato la Grecia, ma a causa dell’incrudelirsi dell’epidemia in Francia – da Venerdi ha decretato la quarantena per 21 milioni di francesi- questi ha disdetto ritenendo di condividere la sorte dei compatrioti restando a Parigi.
Si rifarà il 20 ottobre prossimo anniversario della battaglia navale di Navarino in cui gli anglofrancesi inflissero una severa lezione alla squadra ottomana che determinò la rinunzia turca a proseguire il conflitto e riconoscere l’indipendenza.
E pensare che lo scontro avvenne “ per caso” : mentre le due squadre navali si fronteggiavano senza affrontarsi ( erano ufficialmente neutrali) , da parte turca, i marinai iniziarono a provocsre con fucilate gli jnglesi che risposero e lo scontro degenerò in battaglia generale.
Il ricevimento, il veleno è in coda, lo faranno al Museo Nazionale per far notare al principe Carlo la mancanza dei fregi del Partenone – che sono a Londra- la cui evidente mancanza è un vero e proprio un pugno nell’occhio per i visitatori.
Il premier britannico Johnson si è recentemente rifiutato di restituire quanto rubato da Lord Elgin, ma la Presidente della Repubblica, Katerina Sakellaropoulou, punta sul fatto che Carlo ha nelle vene il sangue greco di suo padre Filippo di Edinburgo e l’Inghilterra – dopo il Brexit- ha bisogno di amici.
Ai festeggiamenti, come ulteriore pressione indiretta, è invitato e partecipa anche il presidente di Cipro Anastasiades, che ospita le due più importanti basi militari inglesi del Mediterraneo.
La presenza di tutti i vecchi alleati della Grecia, fungerà da monito ai turchi con i quali la Grecia sta attraversando un periodaccio per via del contenzioso per i giacimenti dell’Egeo.

Punto di vista strategico della Cina, di George Friedman

La realtà è cosa diversa dalla sua percezione, ma quest’ultima può determinare la realtà. In Alaska, nel summit in corso, gli Stati Uniti hanno definito i rapporti con la Cina come accesamente competitivi, ma non ostili. Realtà o percezione ingannevole?_Giuseppe Germinario

Punto di vista strategico della Cina

Di: George Friedman

Uno dei problemi più difficili della politica estera è lo sviluppo di una valutazione accurata delle intenzioni e delle capacità di un potenziale avversario, che spesso sono realtà separate. Ne ho discusso di recente in un articolo che metteva in evidenza il grado in cui gli Stati Uniti avevano interpretato male le intenzioni e le capacità dell’Unione Sovietica. I sovietici si sono concentrati sulla ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale, cosa che ha richiesto decenni di lavoro. Una guerra che avrebbe devastato l’Europa occidentale non ha dato loro alcun incentivo a iniziare una guerra. Gli Stati Uniti, nel frattempo, erano ossessionati dal conteggio delle attrezzature, non valutando la capacità del sistema logistico sovietico di supportare una massiccia offensiva. Gli Stati Uniti si sono concentrati sulle intenzioni e sulle capacità del caso peggiore. Quelli veri erano molto diversi.

Ciò era in parte dovuto a un altro errore di calcolo: la sottovalutazione delle capacità giapponesi nella seconda guerra mondiale. Washington sapeva che la guerra era probabile e quindi aveva un piano progettato per contrastarla. Ma i pianificatori sottovalutarono il grado di comprensione dei giapponesi dei piani di guerra e la flessibilità dei pianificatori navali nel declinare il combattimento in termini americani. Hanno anche sottovalutato il comando navale giapponese e non sono riusciti a capire le azioni rese possibili dalle portaerei. Capivano l’intento di combattere ma non l’intento di definire la battaglia e l’hardware necessario per farlo.

Durante la Guerra Fredda, gli Stati Uniti erano sulla difensiva in attesa di un attacco russo che non è mai arrivato. Allo stesso modo, durante la seconda guerra mondiale, Washington ha visto il Giappone come totalmente dipendente dalle materie prime del sud e ha assunto una spinta diretta verso sud. Non poteva concepire che il Giappone avrebbe lanciato un attacco indiretto. In entrambi i casi, gli Stati Uniti hanno ignorato la realtà. I vincoli russi militarono contro la guerra offensiva. I vincoli giapponesi militarono contro gli attacchi diretti. Gli Stati Uniti avevano vaste risorse e potevano sopravvivere alle incomprensioni, ma la costanza degli errori di calcolo in altre guerre come il Vietnam e l’Iraq indica un problema centrale della pianificazione militare. Se gli Stati Uniti dovessero mai affrontare la Cina, niente è più importante che capire come la Cina vede la sua posizione strategica o esattamente come la posizione strategica della Cina la costringerà ad agire.

La Cina ha due problemi fondamentali: mantenere l’unità e prevenire l’instabilità sociale. Gli eventi lungo il confine con il Tibet e nello Xinjiang e gli eventi minori nella Mongolia interna devono essere contenuti. Allo stesso tempo, il divario economico tra la Cina costiera e quella occidentale che ha alimentato la rivoluzione di Mao e non è stato ancora risolto deve essere gestito. Un elemento di questa gestione è la crescita economica. I primi anni furono esplosivi poiché lo sviluppo fu misurato dal disastro economico di Mao. Dalla metà degli anni 2000 circa, la crescita è aumentata, ma ha portato a tensioni nell’élite economica cinese. Il principale obiettivo strategico della Cina è interno.


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La Cina ha quindi avuto la tendenza a concentrarsi verso l’interno, ma ciò che complica tutto ciò è che il consumo interno non può ancora mantenere la crescita economica e che l’accesso ai mercati globali è un imperativo strategico. La Cina dipende dall’accesso alle rotte marittime collegate ai suoi porti orientali. Le idee sul trasporto terrestre verso l’Europa, la tanto annunciata Belt and Road Initiative, non sono ancora maturate come alternativa.

L’accesso agli oceani globali è ancora il fondamento della strategia di Pechino, così come lo era l’accesso del Giappone alle materie prime. I due problemi strategici hanno cose importanti in comune. La Cina deve aumentare la sua potenza navale, il che, qualunque sia l’intenzione di Pechino, rende le altre potenze del Pacifico come gli Stati Uniti estremamente ansiose. L’elemento più importante di questo è il vasto sistema americano di alleanze di paesi formalmente e informalmente ostili alla Cina: Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Filippine, Indonesia, Vietnam, Singapore, Australia e India. Costituisce una massiccia alleanza strategica ma anche un’alleanza economica molto significativa che coinvolge i principali partner commerciali cinesi.


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Ciò crea una lunga serie di strozzature che potrebbero bloccare l’accesso della Cina agli oceani e quindi danneggiare lo sviluppo economico interno e potenzialmente generare disordini sociali. Gli Stati Uniti non hanno bloccato l’accesso alla Cina, né lo hanno minacciato. Ma la Cina deve considerare ciò che è possibile e la capacità degli Stati Uniti è una profonda minaccia per la Cina. Dal punto di vista degli Stati Uniti, spostarsi verso est dalla linea Aleutian-Malacca concederebbe alla Cina l’ingresso nel Pacifico, il che minaccerebbe gli interessi fondamentali degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti non possono abbandonare l’alleanza. La Cina non può accettare la minaccia.

La Cina non può permettersi di ingaggiare direttamente le forze statunitensi. La sua stessa marina non è stata testata in guerra e ha condotto solo operazioni di controflotta della flotta. La Cina potrebbe benissimo sconfiggere la flotta americana, ma non può essere certa dell’esito; la sconfitta sarebbe catastrofica per il regime. Inoltre, gli Stati Uniti dispongono di vaste risorse e capacità. Guardando alla strategia di guerra degli Stati Uniti in passato, la sconfitta iniziale può generare un massiccio contrattacco. Quindi, a meno che gli Stati Uniti non sembrino intenzionati a bloccare i porti cinesi, il rischio implicito di una guerra è troppo grande.

Ma la Cina deve anche vedere gli Stati Uniti come contrari alla guerra e la percezione dei cinesi potrebbe essere sufficiente perché gli Stati Uniti rifiutino un conflitto più ampio e ritirino le forze sul blocco. Una strategia cinese secondaria, quindi, potrebbe essere quella di dimostrare una bramosia per il combattimento in un’area che non è critica per gli Stati Uniti tale che potrebbe non innescare una risposta. È stata lanciata l’idea che la Cina possa invadere Taiwan. Questo sarebbe militarmente e politicamente poco saggio. Le operazioni anfibie sono complesse e vengono vinte o perse grazie a vasti sforzi logistici. Il rinforzo e il rifornimento sarebbero vulnerabili ai missili anti-nave, ai sottomarini e alla potenza aerea statunitensi. I cinesi devono presumere che qualsiasi invasione verrebbe probabilmente sconfitta.

Anche così, la Cina deve dimostrare la sua volontà e capacità militare senza rischiare la sconfitta. In altre parole, deve attaccare un obiettivo di scarso valore e presumere che gli Stati Uniti non rischierebbero di combattere in un luogo in cui si sono concentrate le forze cinesi. Ma anche questa strategia comporta due problemi. In primo luogo, gli Stati Uniti riconoscerebbero lo stratagemma e potrebbero scegliere di impegnarsi per scoraggiare un combattimento maggiore. Anche se Washington volesse declinare, i suoi alleati potrebbero scatenare un inferno tale da non essere in grado di farlo. Questo coincide con il secondo problema: i membri dell’alleanza sono anche poteri commerciali vitali. Uno dei paradossi della posizione cinese è che quelli che rappresentano il maggior rischio strategico sono anche elementi essenziali dell’economia cinese. Il sequestro di un’isola al largo di Taiwan potrebbe innescare una risposta statunitense, ma convincerebbe i membri dell’alleanza del pericolo cinese e li costringerebbe, con il sostegno degli Stati Uniti, a intraprendere un’azione economica.

La Cina deve mantenere la crescita economica per mantenere la stabilità. Non può intraprendere azioni che lo renderebbero difficile. Né può tollerare la possibilità di un’azione navale statunitense che paralizzerebbe l’economia cinese. L’attuale situazione economica della Cina è soddisfacente. Certamente, una guerra non lo migliorerebbe. Sta correndo il rischio di un’azione degli Stati Uniti che lo paralizzerebbe. La soluzione chiave cinese è cercare un accordo con gli Stati Uniti su questioni economiche in sospeso, essendo consapevoli del fatto che gli Stati Uniti non hanno impulso per la guerra e inizieranno solo sotto una pressione significativa della Cina. La Cina deve indebolire l’alleanza anti-cinese chiarendo che non ha intenzione di fare la guerra e che allineerà la sua economia con le altre. In altre parole, la Cina deve rifiutare il combattimento e realizzare la pace economica e politica, senza dare l’impressione che lo faccia sotto costrizione.

La Cina è una grande potenza. Ma tutti i grandi poteri hanno dei punti deboli, quindi i loro concorrenti devono cogliere questi punti deboli. La paura e la prudenza fanno sì che i poteri si concentrino sulla forza e trascurino i punti deboli, e così facendo tendono a ingrandire il potere di un concorrente. È necessaria un’analisi accurata e spassionata per evitare sopravvalutazioni e sottovalutazioni e quindi errori di calcolo.

INSEGNA CREONTE?, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

INSEGNA CREONTE?

Luciano Violante, Insegna Creonte, Il Mulino, Bologna 2021, pp. 158, € 12,00.

Nell’Antigone i due protagonisti Antigone e Creonte sono da millenni simboli di polarità contrapposte: tra diritto naturale e positivo; tra legge divina ed umana; tra principio femminile e maschile (Hegel); tra diritto tradizionale e diritto “moderno”, razionale-legale e statuito dall’autorità politica (Von Seydel). Nel secolo scorso era Antigone a suscitare più consenso ed interesse: Creonte era considerato l’archetipo del tiranno.

Nel XXI, almeno tra i giuristi italiani, è stato (in parte) rivalutato. Probabilmente ha contribuito a ciò quanto notato (nel XX) da Max von Seydel: che Creonte impersona il diritto (e lo Stato) moderno, weberianamente “razionale-legale”.

Violante che nel libro Giustizia e mito aveva notato la “modernità” di Creonte, in questo ne sottolinea gli errori (politici) che lo portano all’autodistruzione. In ogni capitolo il comportamento di Creonte è considerato esempio di quanto un leader non debba fare: essere arrogante, non saper gestire i conflitti, sopravvalutare se stessi. E porta esempi di errori (analoghi a quelli del Re di Tebe) fatti da uomini di Stato contemporanei: da De Gasperi a Renzi, da Craxi a Cossiga.

Ne consegue che già la tragedia greca indicava 25 secoli fa delle regolarità e delle regole della politica (e dell’esistenza umana) le quali anche a distanza di millenni sono confermate.

E quanto alle “costanti” è anche un terzo personaggio della tragedia, Emone, figlio di Creonte e fidanzato di Antigone ad esprimerne, e forse quella decisiva. Emone, parlando col padre, lo invita a tener conto dell’opinione del popolo che non considera meritevole Antigone della condanna; onde prega il padre di “non portare in te soltanto questa idea, che è giusto quello, che dici tu, e nient’altro… Non così dice concordemente il popolo, qui in Tebe… Non esiste la città di un solo uomo… Certo tu regneresti bene da solo su una terra deserta”. Ma Creonte non è scosso: convinto di essere dalla parte della ragione, non tiene conto della diffusa (e opposta) opinione del popolo. Non comprende che comanda con successo il governante che può contare sull’obbedienza dei governati. Per aversi la quale occorre che le opinioni di governanti e governati non siano in contrasto: anzi si fondino su un idem sentire de re publica. È (o è anche) il principio d’integrazione (del tipo “materiale”) che Smend pone a fondamento della costituzione “come principio del divenire dinamico dell’unità politica” (Schmitt). E il contrasto tra ritenere che il legislatore sia divino o umano è ovviamente tra i più acuti e non mediabili.

L’autore, come detto, ricorda fatti contemporanei di governanti che hanno ripetuto gli errori di Creonte: vuoi per arroganza, vuoi per disprezzo del popolo, vuoi per convinzioni radicate.

Viene così ridimensionato l’errore più diffuso nell’ultimo trentennio e in particolare (ma non solo) in Italia: la mancanza di sintonia con la volontà popolare, anche attraverso la prassi di scegliere governanti mai eletti neppure in un condominio, e la cui rispondenza alla scelta democratica è inesistente.

Giustificata con concezioni diverse (tecnocrazia, aristocrazia, moralbuonismo), ma aventi in comune il considerare i governanti capaci di giudizi migliori dei governati, e quindi in espresso contrasto con il principio democratico o con quello, più limitato, dell’idem sentire; lo stesso che porta il re di Tebe alla rovina.

Dato che tale errore è tra i più frequenti e ripetuti, in particolare dalla parte politica cui l’autore apparteneva, se ne consiglia (loro) la meditazione. E la lettura a tutti.

Teodoro Klitsche de la Grange

Draghi e ologrammi, di Giuseppe Germinario

Il 10 marzo scorso Mario Draghi ha compiuto il secondo atto significativo del suo ministero, seguito alla sostituzione del vertice della Protezione Civile e del Commissario all’Emergenza Sanitaria: il patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale, sottoscritto con i sindacati confederali “http://www.governo.it/sites/governo.it/files/PATTO_INNOVAZIONE_LAVORO_PUBBLICO_COESIONE_SOCIALE.pdf “.

Di fatto una discontinuità rispetto agli ultimi governi in materia di relazioni sindacali; apparentemente una riedizione di quella concertazione che ha conosciuto il proprio sussulto crepuscolare con il Governo Ciampi, a metà anni ‘90.

I motivi pesanti che hanno spinto e reso necessario questa inversione sono diversi:

  • l’iniziativa fa da necessario corollario al sostegno quasi ecumenico offerto dai partiti al Governo Draghi in un contesto di paralisi e di grande disgregazione e debolezza di questi ultimi. Se il Governo Ciampi si era assunto il compito di preparare l’investitura del PDS/DS, della sinistra in pratica, di un partito graziato da “tangentopoli”, l’unico sufficientemente strutturato, radicato ed autorevole, a direttore di orchestra delle future compagini governative, il Governo Draghi a sua volta dovrà creare le condizioni per una ricostruzione e riconfigurazione di quasi tutti i partiti, alcuni dei quali in fase di evidente disgregazione ed assecondare il riallineamento nello schieramento europeista di quelli riottosi. Non che la condizione dei sindacati confederali sia molto migliore, tanto più che la caratteristica di confederalità, di progettualità e costruzione politica unitaria delle associazioni quindi, si sta ormai affievolendo vistosamente nel corso degli anni; rimangono comunque la sola significativa forza intermedia in grado di assecondare in qualche maniera ordinata i pesanti processi di riorganizzazione in corso e che soprattutto si annunciano nel prossimo futuro

  • la gestione della crisi pandemica, tra i tanti aspetti anche oggettivi dai quali si potrà valutare, si sta rivelando un test attendibile della capacità di affabulazione e di manipolazione della classe dirigente dominante e della reattività e della lucidità di azione di centri alternativi ben lungi ancora da sedimentarsi, ammesso che esistano attualmente. L’enormità dei problemi da affrontare in un contesto drammatico di recessione e ridimensionamento delle basi sociali e produttive è probabilmente la molla principale che sta spingendo questo governo a riproporre un coinvolgimento più stretto delle parti sindacali. Sta accelerando inesorabilmente la dinamica di un gigantesco processo di riorganizzazione, legato alla digitalizzazione e alla ridefinizione delle catene e delle gerarchie di produzione, che riguarderà all’interno i processi produttivi e la qualità dell’organizzazione e delle gerarchie delle varie attività economiche, istituzionali e di comando. Sono la nervatura e la base le quali definiscono le stratificazioni sociali, la conformazione dei ceti e la formazione dei blocchi sociali di una particolare formazione. In Italia assumerà connotazioni ancora più radicali per le caratteristiche proprie della formazione sociale costituita da industria ed attività più polverizzate e mediamente più arretrate tecnologicamente ed organizzativamente e da una pletora di piccola borghesia legata a rendite ed attività interstiziali, ma fondamentale nel garantire la coesione sociale e la stabilità politica.

Mario Draghi è arrivato per gestire al meglio alcune di queste dinamiche senza mettere in discussione la collocazione geopolitica e senza compromettere la collocazione geoeconomica del paese in maniera talmente grave e distruttiva da rischiarne la dissoluzione.

L’accordo quadro affronta un aspetto particolare e fondamentale di questa riorganizzazione; quello del funzionamento e della operatività degli apparati amministrativi fondamentali per il governo di questa riorganizzazione in vista in particolare dell’arrivo dei fondi europei.

Una missione che rende alquanto improbabili le analogie di questo patto con quello sottoscritto a suo tempo con Ciampi: quello intendeva regolare le cadenze contrattuali e la componente salariale della contrattazione interconfederale e di categoria; questo propone uno scambio tra i rinnovi contrattuali, il riconoscimento di aumenti stipendiali contrattuali, al momento per il solo pubblico impiego, in cambio della disponibilità ad affrontare e cogestire i processi di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche. Quello era un accordo che riguardava tutte le categorie di dipendenti, questo riguarda il pubblico impiego allargato, anche se probabilmente, in caso di successo, fungerà da apripista per un sistema di relazioni paragonabile per le altre categorie, ma da gestire più in autonomia con le associazioni datoriali.

Le ambizioni dichiarate in questo accordo sono grandi.

Gli organi di stampa hanno sottolineato soprattutto nell’avvicendamento legato ai prepensionamenti, nella formazione continua, tra i più avveduti nella assunzione di personale e quadri tecnici gli aspetti salienti dell’accordo. I punti essenziali in realtà riguardano ben altro: la possibilità di creare collaborazioni, comitati ed agenzie a conduzione privatistica o mista che gestiscano gli aspetti cruciali dei progetti, che fungano da supporto e da modello da implementare nelle amministrazioni attualmente incapaci di progettare e gestire interventi rilevanti; il cambiamento dello stato giuridico del pubblico impiego e l’intercambiabilità dei quadri dirigenti con il settore privato; una verifica operazionale legata al rispetto della tempistica e al raggiungimento dei risultati piuttosto che al rispetto formale delle procedure. Orientamenti che prendono ad esempio i modelli operativi della burocrazia europea legata per lo più all’utilizzo dei fondi strutturali e in maniera più approssimativa quelli della amministrazione inglese e statunitense.

Non è la prima volta però che si sono manifestate queste ambizioni.

La legge quadro sul pubblico impiego del 1983 è stato sino ad ora il tentativo più organico di riorganizzazione del personale pubblico ad eccezione parziale delle carriere direttive. Quell’articolato non intendeva agire direttamente sulla organizzazione delle amministrazioni pubbliche e sulle fonti che ne determinavano le modalità di funzionamento; definiva la contrattualizzazione collettiva del rapporto di lavoro, i soggetti abilitati a trattare e i criteri di inquadramento professionale; l’obbiettivo era di liberare il rapporto di lavoro pubblico dal legame diretto e dal clientelismo dei politici e dai provvedimenti legislativi dedicati a gruppi specifici, di trasformare il rapporto di lavoro secondo criteri civilistici e attribuire al sindacato del pubblico impiego un ruolo autonomo piuttosto che di mera appendice dei voleri delle fazioni politiche. Obbiettivo raggiunto, ma solo in parte e con qualche implicazione negativa, piuttosto pesante. La principale, che il sindacato oltre ad aver acquisito una propria autonomia operativa e una ragione d’essere costitutiva ha accentuato la sua pervasività nei meccanismi decisionali e operativi sino ad entrare a pieno titolo nelle pratiche di selezione delle promozioni e di occupazione dei centri decisionali diventando di fatto, in particolare la CISL, anche un’associazione lobbistica imprescindibile per il funzionamento. Una prerogativa rimasta anche in quegli ambiti, come quello di Poste Italiane, trasformatisi in aziende a gestione privatistica con tutte le distorsioni e i soffocamenti che ne sono conseguiti.

Il patto proposto e sottoscritto da Draghi è qualcosa di più profondo e strutturale, di più complesso.

Non può prescindere assolutamente da questa realtà informale che sino ad ora è sempre riuscita a neutralizzare i propositi di ridefinizione delle gerarchie sul campo.

L’altra cartina di tornasole in grado di svelare la reale credibilità e positività di quanto sottoscritto è la riorganizzazione istituzionale che definisca chiaramente le gerarchie e le competenze dello Stato centrale e delle amministrazioni periferiche nonché due o tre modelli organizzativi, non di più, ai quali attenersi secondo la missione dei vari ambiti operativi, siano essi aziende di servizio o ordinamenti funzionali. È la via attraverso la quale lo Stato ed il Governo centrali possono assumere il pieno controllo interno della situazione e possono porsi come interlocutori autorevoli e meno permeabili all’esterno, soprattutto in sede di Unione Europea (UE). Una riforma, mancando la quale, rischia in partenza di annacquare le potenzialità del patto o di ricondurlo lungo le dinamiche di disarticolazione ulteriore del controllo centrale e di ulteriore connessione diretta con la burocrazia della UE

Questo non pare rientrare nel programma di governo per due motivi, uno di orientamento strategico, l’altro tattico.

Il primo è che il nostro, essendo paladino di questo europeismo, non ha nessuna intenzione di accettare il fatto che quello della UE è, pur con regole particolari, un campo di azione di stati nazionali sul quale vince chi riesce a preservare meglio le proprie prerogative piuttosto che uno spazio di liquefazione concordata della propria realtà istituzionale; il secondo è che porre sul piatto la questione metterebbe prematuramente in crisi la Lega, soprattutto la componente più convinta nel sostegno a Draghi, ma comunque l’unico partito al momento non in crisi convulsiva, sostenitore del governo almeno sino a quando non si risolverà, se si risolverà, in qualche maniera lo stato confusionale del PD.

Una riorganizzazione istituzionale potrà aver luogo, comunque non in maniera risolutiva, solo nel momento in cui la componente europeista tradizionale dovesse assumere il pieno controllo non solo dei centri decisionali ma anche dell’opinione pubblica.

C’è un altro fattore che impedisce di porre correttamente sia la questione istituzionale che l’impostazione e l’applicazione del Patto. L’atteggiamento gretto e settario della destra radicale che contrappone visceralmente gli interessi e la condizione privilegiata dei ceti “garantiti” a quelli più minacciati dalla crisi pandemica e socioeconomica. Una postura che le impedisce di cogliere la effettiva posta in palio e l’opportunità di entrare nel merito delle questioni. Una ottusità ricorrente che le ha impedito di cogliere gli spazi che le si erano aperti nel mondo del lavoro e negli stessi ambienti sindacali. Una miopia che ad esempio non ha colto, almeno non nella stessa entità, Donald Trump negli Stati Uniti.

Un complesso di fattori ed orientamenti che nell’ipotesi riduttiva di attuazione del Patto rischiano di annichilire le migliori intenzioni riformatrici e di ridurre quel documento ad un mero pretesto per giustificare gli aumenti contrattuali, in quella più estensiva porterà a rendere più efficienti le amministrazioni soprattutto per rendere più fluido e subordinato il rapporto con la burocrazia della UE. Mario Draghi sarà il pendolo che oscillerà tra questi due estremi; se non sarà calamitato su uno dei due versanti, potrà conseguire qualche successo nel breve termine, portare a termine quindi quanto meno il Recovery Plan e la campagna di vaccinazione, ma cadrà ancora una volta nella trappola delle ulteriori duplicazioni di apparati ed amministrazioni che renderanno ancora più inestricabile la matassa istituzionale. La speranza di un afflato nazionale che dia senso e sentimento alla riorganizzazione dipenderà purtroppo da un contesto internazionale che deciderà dei destini della UE e del ruolo egemonico, quantomeno delle sue modalità di esercizio, degli Stati Uniti in questa area, piuttosto che da un irrefrenabile impulso interno al paese; con tutti i costi e i condizionamenti che si dovranno pagare. La stessa unità di Italia del resto è scaturita da un contesto simile; stiamo proseguendo su quella falsariga, ma senza grandi diplomatici, senza politici accettabili e con impulsi sempre più flebili. Le stesse organizzazioni sindacali, uno dei “corpi intermedi” con i quali Draghi cerca di puntellare la propria collocazione, stanno rivelando una tale povertà culturale da rendere impossibile la creazione di un sostrato “propositivo” nei settori che ancora rappresentano. È sufficiente tenere conto della condizione inerme di fronte alle innumerevoli crisi aziendali aperte, della posizione piattamente acritica sulle dinamiche di fondo del Recovery Fund e sulla natura della UE, della incapacità di coniugare il conflitto sociale con una ipotesi di difesa dell’interesse nazionale per comprendere come il carattere interconfederale tenderà sempre più ad affievolirsi in una frammentazione di iniziative giustapposte. La carrellata recente di interviste è alquanto illuminante. L’unica predominante preoccupazione riguarda l’estensione e la regolazione degli ammortizzatori sociali. Per condurre dove, non si sa.

PS_non ho trattato gli argomenti dell’articolo nell’ottica delle relazioni transatlantiche e dell’egemonia USA almeno in Europa, semplicemente perché in Italia il problema non si pone in nessuna delle forze politiche significative

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