L’Afghanistan, è un territorio fondamentale dell’Asia centrale per la costruzione dei grandi spazi delle potenze mondiali, a cura di Luigi Longo

L’Afghanistan, è un territorio fondamentale dell’Asia centrale per la costruzione dei grandi spazi delle potenze mondiali

a cura di Luigi Longo

Una piccola premessa con Manlio Dinucci “[…] WASHINGTON considerava la nascente alleanza tra Cina e Russia una minaccia agli interessi statunitensi in Asia, nel momento critico in cui gli Stati Uniti cercavano di occupare, prima di altri, il vuoto che la disgregazione dell’Unione Sovietica aveva lasciato in Asia Centrale. «Esiste la possibilità che emerga in Asia un rivale militare con una formidabile base di risorse», avvertiva allora il Pentagono in un rapporto del 30 settembre 2001.

Quale fosse la reale posta in gioco lo dimostrava il fatto che, nell’agosto 2003, la Nato sotto comando Usa assumeva con un colpo di mano «il ruolo di leadership dell’Isaf», la «Forza internazionale di assistenza alla sicurezza» creata dalle Nazioni Unite nel dicembre 2001, senza che in quel momento avesse alcuna autorizzazione a farlo. Da quel momento oltre 50 paesi, membri e partner della Nato, partecipavano sotto comando Usa alla guerra in Afghanistan. […]” (Manlio Dinucci, Nessuna lezione dalla catastrofe afghana, www.ilmanifesto.it, del 20/8/2021).

In relazione a questa premessa propongo tre letture per una riflessione sulla situazione esplosa in Afghanistan da leggere all’interno del conflitto strategico tra le potenze mondiali: la prima di carattere storico, è uno scritto di Friedrich Engels del 1857, a cura di Eros Barone, pubblicato sul sito www.sinistrainrete.info del 17/8/2021; la seconda di carattere economico, è uno scritto di Marco Lupis apparso su www.huffingtonpost.it del 12/8/2021; la terza di carattere geopolitico, è una intervista ad Alberto Negri a cura di Ventuno news uscita su www.ariannaeditrice.it del 18/8/2021.

 

La prima lettura

LA TRAPPOLA DELL’AFGHANISTAN, 180 ANNI FA

Uno scritto di Friedrich Engels

a cura di Eros Barone

 «Non è affatto una bizzarria pubblicare questo testo di Friedrich Engels sull’Afghanistan, scritto nell’estate del 1857 per la New American Cyclopœdia.» Così Valentino Parlato presentava tale testo in un suo articolo di dieci anni fa. E proseguiva dichiarando di essere convinto che sull’Afghanistan dominasse ancora una clamorosa ignoranza della sua storia e della sua geografia. Giova allora ricordare che dopo il disastroso intervento militare sovietico nel paese, un prestigioso generale dell’Urss ebbe a dire: «Se avessimo letto Engels, mai e poi mai ci saremmo imbarcati in questa avventura».

Sarebbe stato opportuno consigliare la lettura di questo scritto del “Generale” a tutti quelli che, nel corso di questi ultimi 180 anni, hanno voluto intervenire in Afghanistan, ma è noto che la storia è una maestra severa quanto inascoltata. Del resto, in Afghanistan dai tempi di Engels a oggi assai poco è cambiato: l’unico cambiamento rilevante è la diffusione della coltura del papavero da oppio, di cui oggi l’Afghanistan è il maggior produttore mondiale, mentre i maggiori importatori sono i paesi dell’Occidente capitalistico, ‘in primis’ gli Stati Uniti. Sennonché la lettura dello scritto engelsiano sarebbe stata utile ed istruttiva, al netto del livello culturale ed intellettuale dell’attuale responsabile della Farnesina, anche per gli altri responsabili del governo italiano.

* * * *

Afghanistan: vasto paese dell’Asia, a nord-ovest dell’India. In una direzione si estende tra la Persia e le Indie, nell’altra tra l’Hindukush e l’Oceano Indiano. In passato comprendeva le province persiane del Khorasan e del Kohistan, oltre che le regioni di Herat, Belucistan, Kashmir, Sind e una considerevole porzione del Punjab.

All’interno dei suoi attuali confini probabilmente non vi sono più di 4 milioni di abitanti. La superficie dell’Afghanistan è molto irregolare – elevati altipiani, grandi montagne, profonde vallate e gole. Come tutti i paesi tropicali montagnosi, presenta ogni varietà di clima. Nell’Hindukush la neve copre le alte cime per tutto l’anno, mentre nelle vallate il termometro arriva fino a 130°F (54°C, ndt)… Sebbene la differenza tra temperature estive e invernali, e tra temperature diurne e notturne, sia alquanto pronunciata, il paese è generalmente salubre. Le principali malattie che si contraggono sono febbri, catarro e oftalmia. Occasionalmente si diffondono devastanti epidemie di vaiolo.

Il suolo manifesta una fertilità esuberante. Le palme da dattero crescono rigogliosamente nelle oasi dei deserti sabbiosi; la canna da zucchero e il cotone nelle calde vallate; le frutta e gli ortaggi europei prosperano lussureggianti sulle terrazze dei fianchi montani fino a un’altitudine di 6.000 o 7.000 piedi. Le montagne sono coperte di splendide foreste abitate da orsi, lupi e volpi, mentre il leone, il leopardo e la tigre si trovano nelle regioni più adatte alle loro caratteristiche. Né mancano gli animali utili per l’uomo. Si alleva una bella varietà di pecora di razza persiana, o con la coda lunga. I cavalli sono di buone dimensioni e razza. Come bestie da soma si usano il cammello e l’asino, e si trovano capre, cani e gatti in notevole quantità. Oltre all’Hindukush, che costituisce una prosecuzione dell’Himalaya, nella parte sud-occidentale si erge la catena dei Monti Sulaiman e, tra l’Afghanistan e Balkh, quella del Paropamiso (…). I fiumi scarseggiano: i più importanti sono l’Helmand e il Kabul, i quali nascono entrambi dall’Hindukush. Il Kabul scorre verso oriente e si immette nell’Indo nelle vicinanze di Attock; l’Helmand scorre verso occidente e, dopo aver attraversato il distretto di Sistan, sfocia nel lago di Zirrah. (…)

Le città principali dell’Afghanistan sono: Kabul, la capitale, Ghazni, Peshawar e Qandahar. Kabul è una bella città, situata a 340° di latitudine N e 60° 43° di longitudine E, sull’omonimo fiume. Gli edifici sono costruiti in legno, sono puliti e spaziosi, e la città, essendo circondata da bei parchi, ha un aspetto molto gradevole. Nei suoi dintorni sorgono diversi villaggi, nel mezzo di un’ampia pianura attorniata da basse colline. Il monumento principale è la tomba dell’imperatore Babur. Peshawar è una grande città, con una popolazione stimata intorno ai 100.000 abitanti. Ghazni, centro di antica fama, un tempo capitale del gran sultano Mahmud, ha subito un notevole declino ed è attualmente un povero villaggio. Nelle sue vicinanze è sepolto Mahmud. La fondazione di Qandahar è relativamente recente e risale al 1754. La città sorge sulle rovine di un antico insediamento e per qualche anno fu capitale; nel 1774 la sede del governo fu trasferita a Kabul. (…) Nei pressi si trova la tomba dello Shah Ahmed, fondatore della città, un luogo talmente sacro che neanche il re può ordinare la cattura di un criminale che si sia rifugiato tra le sue mura.

Rilevanza politica

La posizione geografica dell’Afghanistan e la particolare natura del suo popolo conferiscono al paese una rilevanza politica che, nell’ambito degli affari dell’Asia centrale, non sarà mai troppo sottolineata. La forma di governo è la monarchia, ma l’autorità di cui il sovrano gode sui suoi turbolenti e focosi sudditi è di tipo personale e molto indefinito. Il regno è diviso in province, ciascuna controllata da un rappresentante del sovrano, il quale raccoglie le tasse e le invia alla capitale. Gli afghani sono coraggiosi, intrepidi e indipendenti; si occupano esclusivamente di pastorizia e agricoltura, rifuggendo il commercio e gli scambi che sdegnosamente lasciano agli indù e ad altri abitanti delle città. Per loro la guerra è un’impresa eccitante e una distrazione dalla monotonia delle abituali attività. Gli afghani sono divisi in clan, sui quali i vari capi esercitano una sorta di supremazia feudale. Soltanto un odio irriducibile per l’autorità e l’amore per l’indipendenza individuale impediscono loro di diventare una nazione potente; ma questa stessa irregolarità e incertezza nell’azione li rende dei pericolosi vicini, capaci di essere sballottati dai venti più mutevoli o istigati da politici intriganti che eccitano astutamente le loro passioni.

Le due tribù principali sono i durrani e i ghilzai, sempre in lotta l’una con l’altra (entrambe di etnia pashtun). I durrani sono i più potenti e, in virtù di tale supremazia, il loro amir o khan si è proclamato re dell’Afghanistan. Il suo reddito è di circa 10 milioni di dollari. Gode di autorità suprema solo all’interno della sua tribù. I contingenti militari sono forniti principalmente dai durrani; il resto dell’esercito è composto da membri degli altri clan o da soldati di ventura che si uniscono alle truppe sperando nella paga o nel bottino. Nelle città la giustizia è amministrata dai cadì, ma gli afghani raramente ricorrono alla legge. Le sanzioni decretate dai khan si estendono fino al diritto di vita e di morte. La vendetta di sangue è un dovere familiare; tuttavia, si dice che gli afghani siano un popolo liberale e generoso quando non vengono provocati, e che i diritti di ospitalità siano a tal punto sacri che se un nemico mortale riesce, anche con uno stratagemma, a mangiare pane e sale del suo ospite, egli diventa inviolabile, e può perfino pretendere la protezione di quest’ultimo contro ogni altro pericolo. Di religione sono maomettani sunniti, ma non intolleranti, e le alleanze tra sciiti e sunniti non sono affatto infrequenti.

L’Afghanistan è stato soggetto alternativamente al dominio dei moghul e dei persiani. Prima che gli inglesi si insediassero sulle coste indiane tutte le invasioni straniere che spazzarono le pianure dell’Indostan provenivano immancabilmente dall’Afghanistan. Seguirono quella via il sultano Mahmud il Grande, Gengis Khan, Tamerlano e Nadir Shah. Nel 1747, dopo la morte di Nadir, Ahmed Shah, che aveva appreso l’arte della guerra al comando di quell’avventuriero, decise di liberarsi dal giogo persiano. Sotto il regno di Ahmed l’Afghanistan raggiunse l’apice della grandezza e della prosperità in tempi moderni. Ahmed apparteneva alla famiglia dei suddosi, e la sua prima azione fu quella di impadronirsi del bottino che il suo defunto capo aveva raccolto in India. Nel 1748 riuscì a cacciare il governatore moghul da Kabul e Peshawar e, dopo aver attraversato l’Indo, conquistò il Punjab. Il suo regno si estendeva dal Khorasan a Delhi, ed egli incrociò le armi anche con i potenti marathi. Tutte queste grandi imprese non gli impedirono tuttavia di coltivare alcune arti parifiche ed egli fu anche apprezzato poeta e storico. Morì nel 1772 e lasciò la corona al figlio Timur, che però non si dimostrò all’altezza del gravoso compito.

Questi abbandonò la città di Qandahar, che era stata fondata dal padre ed era diventata in pochi anni una città ricca e popolosa, e trasferì la sede del governo a Kabul. Durante il suo regno ripresero vigore i dissensi tra le tribù, in passato repressi dalla mano ferma di Ahmed Shah. Timur morì nel 1793 e gli successe Siman. Questo principe accarezzava l’idea di consolidare il potere maomettano in India e il suo progetto, che avrebbe potuto mettere in serio pericolo i possedimenti britannici, fu considerato così rilevante che Sir John Malcolm raggiunse la frontiera con il compito di tenere gli afghani sotto controllo nel caso in cui avessero effettuato qualche movimento; al tempo stesso vennero avviate trattative con la Persia in modo da stringere gli afghani tra due fuochi.

Queste precauzioni non furono comunque necessarie; Siman Shah era più che occupato dalle cospirazioni e dai disordini in patria, e i suoi grandi progetti furono stroncati sul nascere. Il fratello del re, Mohammed, si gettò su Herat con l’intenzione di costituire un principato indipendente, ma, fallendo nel suo tentativo, fuggì in Persia.

Siman Shah era salito al trono con l’aiuto della famiglia dei Barakzay, il cui capo era Sheir Afras Khan. La nomina di un visir impopolare da parte di Siman accese l’odio dei suoi vecchi sostenitori, i quali ordirono una congiura che fu scoperta e portò alla condanna a morte di Sheir Afras. I cospiratori richiamarono allora Mohammed, Siman fu fatto prigioniero e accecato. In opposizione a Mohammed, che era sostenuto dai durrani, i ghilzai avanzarono la candidatura di Sujah Shah, che fu re per qualche tempo ma fu infine sconfitto, principalmente a causa del tradimento dei suoi stessi fautori, e costretto a cercare rifugio presso i sikh.

Nel 1809 Napoleone aveva inviato in Persia il generale Gardanne, nella speranza di indurre lo scià a invadere l’India; il governo indiano da parte sua aveva inviato un rappresentante alla corte di Sujah Shah per creare un fronte di opposizione contro la Persia. Fu in quest’epoca che Ranjit Singh acquistò potere e fama. Era un capotribù sikh e, grazie al suo genio, guadagnò al suo paese l’indipendenza dagli afghani e fondò un regno nel Punjab, assumendo il titolo di maharaja e conquistandosi il rispetto del governo anglo-indiano. L’usurpatore Mohammed, tuttavia, non era destinato a godere a lungo della sua vittoria. Il vizir Futteh Khan, che, spinto dall’ambizione o da interessi contingenti, aveva oscillato continuamente tra Mohammed e Sujah Shah, fu catturato da Kamran, figlio del re, accecato e quindi crudelmente assassinato. La potente famiglia del vizir ucciso giurò di vendicare la sua morte.

Di nuovo fu avanzata la candidatura del fantoccio Sujah Shah e decretato l’esilio di Mohammed. Ma poiché Sujah Shah si rese responsabile di un’offesa, fu immediatamente deposto e al suo posto fu incoronato un fratello. Mohammed fuggì a Herat, di cui mantenne il possesso, e alla sua morte nel 1829 il figlio Kamran gli successe al governo di quel distretto. La famiglia dei Barakzay, conquistato il potere supremo, divise il territorio tra i propri membri i quali, secondo l’abitudine nazionale, continuarono a litigare tra di loro riunendosi soltanto di fronte a un nemico comune. Uno dei fratelli, Mohammed Khan, ricevette la città di Peshawar, per la quale pagava un tributo a Ranjit Singh; un altro ebbe Ghazni e un terzo Qandahar, mentre a Kabul dominava Dost Muhammad, il più potente della famiglia.

Come gli inglesi persero Kabul

Nel 1835 – in un periodo nel quale Russia e Inghilterra ordivano intrighi reciproci in Persia e in Asia centrale – presso Dost Muhammad, dominatore di Kabul, fu inviato come ambasciatore il capitano Alexander Burnes. Burnes presentò l’offerta di un’alleanza che Dost sarebbe stato lieto di accogliere, ma il governo angloindiano pretendeva tutto e non era disposto a dare niente in cambio.

Nel frattempo, sostenuti e consigliati dai russi, i persiani posero l’assedio a Herat, città chiave per l’Afghanistan e per l’India; giunsero a Kabul un agente persiano e uno russo, e Dost, constatato il continuo rifiuto da parte dei britannici di prendere impegni concreti, fu infine praticamente costretto ad accettare le proposte dell’altra parte. Burnes lasciò Kabul e Lord Auckland, allora governatore generale dell’India, influenzato dal proprio segretario W. Macnaghten, decise di punire Dost Muhammad per ciò che egli stesso lo aveva obbligato a fare. Stabilì di detronizzarlo e di sostituirlo con Sujah Shah, che ormai si trovava sul libro paga del governo indiano. Fu così concluso un trattato con Sujah Shah; questi cominciò a radunare un esercito, pagato e comandato dai britannici, e una forza anglo-indiana fu concentrata sul Sutlej. Macnaghten, con Burnes come suo vice, doveva accompagnare la spedizione in qualità di delegato per l’Afghanistan. Nel frattempo, però, i persiani avevano tolto l’assedio a Herat e così venne a mancare l’unica valida ragione per intervenire in Afghanistan; nel dicembre del 1838, l’esercito marciò quindi sul Sind, regione che fu costretta all’obbedienza e al pagamento di un tributo in favore dei sikh e di Sujah Shah.

L’esercito passa l’Indo

Il 20 febbraio 1839, l’esercito britannico passò l’Indo. Era composto di circa 12.000 soldati, con un seguito di oltre 40.000 persone, oltre alle nuove truppe di Sujah Shah. In marzo fu attraversato il passo di Bolan; iniziò ad avvertirsi la mancanza di provviste e foraggio: i cammelli cadevano a centinaia e gran parte del bagaglio andò perduta. Il 7 aprile l’esercito arrivò al passo di Kojuk, lo attraversò senza incontrare resistenza e il 25 aprile entrò a Qandahar, che i principi afghani fratelli di Dost Muhammad avevano abbandonato. Dopo una sosta di due mesi, il comandante Sir John Keane avanzò verso nord con il corpo principale dell’esercito, lasciando a Qandahar una brigata al comando di Nott. Ghazni, la roccaforte inespugnabile dell’Afghanistan, fu conquistata il 22 luglio, dopo che un disertore ebbe informato i britannici che la porta di Kabul era l’unica a non essere stata murata; di conseguenza la città fu presa d’assalto in quel punto. Dopo questa disfatta l’esercito raccolto da Dost Muhammad sbandò immediatamente, e il 6 agosto si aprirono anche le porte di Kabul. Sujah Shah fu insediato nella sua carica, ma la vera direzione del governo rimase nelle mani di Macnaghten, il quale pagava anche tutte le spese di Sujah Shah attingendo alle casse indiane.

La conquista dell’Afghanistan sembrava compiuta, e così gran parte delle truppe fu rispedita indietro. Ma gli afghani non erano affatto contenti di essere governati dai Feringhee Kaffirs (infedeli europei) e nel corso di tutto il 1840 e del 1841 le insurrezioni si susseguirono in ogni parte del paese. Le truppe anglo-indiane erano sempre all’erta. Tuttavia, Macnaghten dichiarò che per la società afghana si trattava di una situazione normale e inviò dispacci affermando che tutto procedeva bene e che il potere di Sujah Shah si stava consolidando. Fu vano ogni ammonimento dei militari e dei rappresentanti politici. Dost Muhammad, che si era arreso ai britannici nell’ottobre del 1840, fu tradotto in India; tutte le insurrezioni dell’estate del 1841 furono represse con successo e verso il mese di ottobre Macnaghten, nominato governatore di Bombay, si preparò a partire per l’India con un altro contingente militare. Fu allora che scoppiò la tempesta.

L’occupazione dell’Afghanistan costava alle casse indiane 1.250.000 sterline all’anno: si dovevano pagare 16.000 soldati, tra anglo-indiani e truppe di Sujah Shah, di stanza nel paese; poi c’erano altri 3.000 uomini nel Sind e al passo di Bolan; gli sfarzi regali di Sujah Shah, i salari dei suoi funzionari e tutte le spese della corte e del governo, erano coperti dal denaro indiano e, inoltre, da questa stessa fonte si sovvenzionavano, o meglio si corrompevano i capi afghani affinché si tenessero fuori dalla mischia. Essendo stato informato dell’impossibilità di proseguire su questi livelli di spesa, Macnaghten tentò di arginare le uscite, ma l’unico modo praticabile sarebbe stato quello di tagliare gli appannaggi dei capi locali. Il giorno stesso in cui il tentativo fu messo in atto i capi ordirono una congiura diretta allo sterminio dei britannici e, di conseguenza, fu proprio Macnaghten a causare la concentrazione delle forze insurrezionali che fino ad allora avevano lottato isolatamente, senza unità né accordo, contro gli invasori. Tuttavia, è anche certo che, a quel punto, tra gli afghani l’odio per la dominazione britannica aveva raggiunto il suo apice. A Kabul gli inglesi erano comandati da Elphinstone, un anziano generale gottoso, irresoluto e molto confuso, i cui ordini erano perennemente in contraddizione l’uno con l’altro. Le sue truppe occupavano una sorta di accampamento fortificato, talmente esteso che i soldati della guarnigione riuscivano a malapena a coprirne il perimetro, e men che meno avrebbero potuto distaccare qualche unità per il combattimento sul campo.

Assurdità militari

Come se non bastasse, l’accampamento si trovava praticamente a tiro di schioppo dalle alture circostanti e, per coronare l’assurdità di una simile disposizione, tutto il materiale di approvvigionamento e quello sanitario erano depositati in due forti distaccati, a una certa distanza dall’accampamento, al di là di giardini cinti di mura e di un altro fortino non occupato dagli inglesi. Baia Hissar, la cittadella di Kabul, avrebbe potuto offrire all’intero esercito un acquartieramento invernale splendido e sicuro, ma per compiacere Sujah Shah, gli inglesi non ne presero possesso. Il 2 novembre 1841 ebbe inizio l’insurrezione. L’abitazione di Alexander Burnes, nel centro della città, fu assaltata e lui stesso assassinato. Il generale britannico non si mosse e la rivolta crebbe vigorosa grazie all’impunità. Elphinstone, assolutamente incapace di reagire, e in balia dei consigli più contrastanti, fece ben presto precipitare la situazione in quello stato confusionale che Napoleone descriveva con tre parole: ordre, contreordre, désordre. Si continuò a non occupare Baia Hissar. Contro le migliaia di insorti furono mandate alcune compagnie che, naturalmente, furono battute; ciò rese gli afghani ancora più intraprendenti. Il 3 novembre essi occuparono i fortini nei pressi dell’accampamento. Il giorno 9 conquistarono il forte del commissariato, riducendo gli inglesi alla fame. Il 5 Elphinstone aveva già parlato di negoziare un pagamento per lasciare il paese. Verso la metà di novembre la sua indecisione e la sua incapacità avevano talmente demoralizzato le truppe che né i soldati europei né i sepoy (truppe mercenarie indiane comandate da inglesi, ndt) erano ormai in grado di affrontare gli afghani in campo aperto. Quindi iniziarono le trattative, durante le quali, nel corso di una riunione con i capi afghani, Macnaghten fu assassinato. La neve cominciò a cadere, le provviste scarseggiavano. Il 1° gennaio si giunse alla capitolazione. Tutto il denaro, 190.000 sterline, doveva essere consegnato agli afghani, oltre a 140.000 sterline in promesse sottoscritte di pagamento. L’artiglieria e le munizioni, a parte 6 pezzi da sei libbre e 3 cannoni da montagna, dovevano essere lasciate in loco. Tutto l’Afghanistan doveva essere evacuato. I capitribù, da parte loro, promisero un salvacondotto, rifornimenti e bestiame per il trasporto. Il 5 gennaio gli inglesi si misero in marcia con 4.500 soldati e un seguito di 12.000 persone; una marcia durante la quale sparirono anche gli ultimi residui di ordine, con militari e civili che si confondevano in maniera irreparabile rendendo impossibile qualsiasi tipo di resistenza. Il freddo e la neve, e la mancanza di cibo, agirono come durante la ritirata di Napoleone da Mosca. Ma invece che dai cosacchi che si mantenevano a debita distanza, gli inglesi furono incalzati dai furibondi tiratori scelti afghani piazzati su ogni altura e armati con fucili a miccia a lunga gittata. I capi che avevano firmato la capitolazione non potevano né volevano tenere sotto controllo le tribù montane. Il passo di Kurd-Kabul divenne così la tomba di quasi tutto l’esercito, e i pochi superstiti (tra cui meno di 200 europei) caddero all’ingresso del passo di Jugduluk. Un solo uomo, il dottor Brydon, riuscì a raggiungere Jalalabad e a raccontare ciò che era accaduto. Molti ufficiali, tuttavia, erano stati catturati dagli afghani e fatti prigionieri. Jalalabad era presidiata dalla brigata di Sale. Gli fu intimata la resa, ma egli rifiutò di abbandonare la città; lo stesso fece Nott a Qandahar. Ghazni era caduta; in città non c’era nessuno che s’intendesse di artiglieria, e i sepoy della guarnigione avevano ceduto a causa delle condizioni climatiche.

Nel frattempo, appena venute a conoscenza della disfatta di Kabul, le autorità britanniche di stanza lungo la frontiera avevano concentrato a Peshawar alcune truppe destinate a portare soccorso ai reggimenti in Afghanistan. Ma mancavano i mezzi di trasporto e i sepoy caddero ammalati in gran numero. In febbraio il comando fu assunto dal generale Pollock, il quale ricevette nuovi rinforzi alla fine di marzo del 1842. Egli quindi si aprì la strada attraverso il passo di Khaybar e puntò su Jalalabad per andare a soccorrere Sale.

Riguadagnare l’onore nazionale

Lord Ellenborough, nuovo governatore generale dell’India, ordinò l’immediato ritiro delle truppe, ma sia Nott sia Pollock addussero come scusa la mancanza di mezzi di trasporto. Infine, ai primi di luglio l’opinione pubblica in India costrinse Lord Ellenborough a prendere provvedimenti per riguadagnare l’onore nazionale e il prestigio dell’esercito britannico; egli quindi autorizzò l’avanzata su Kabul da Qandahar e da Jalalabad. Verso la metà di agosto Pollock e Nott si accordarono sui rispettivi movimenti e il giorno 20 Pollock mosse verso Kabul; raggiunse Gundamuk, sbaragliò un corpo di afghani il 23, superò il passo di Jugduluk l’8 settembre, sconfisse le truppe nemiche riunite a Tezin il 13 e si accampò il 15 sotto le mura di Kabul. Nott nel frattempo aveva lasciato Qandahar il 7 agosto, dirigendosi a Ghazni con tutti gli uomini a sua disposizione. Dopo alcuni scontri di minore entità, sgominò un notevole contingente di afghani il 30 agosto, prese possesso il 6 settembre di Ghazni, che era stata abbandonata dal nemico, distrusse le fortificazioni della città, sconfisse nuovamente gli afghani nella loro roccaforte di Alydan e il 17 settembre giunse nei pressi di Kabul, dove si mise in contatto con Pollock.

Sujah Shah era stato assassinato già da tempo da un capotribù e, da quel momento in poi, l’Afghanistan non aveva avuto alcun governo regolare, anche se nominalmente il re era Futteh Jung, il figlio di Sujah Shah. La distruzione del bazar di Kabul fu decisa come atto di ritorsione e in tale circostanza i soldati saccheggiarono parte della città e massacrarono numerosi civili. Il 12 ottobre i britannici lasciarono Kabul e marciarono, attraverso Jalalabad e Peshawar, in direzione dell’India. Futteh Jung, disperando per la sua sorte, si unì a loro. Dost Muhammad fu liberato e fece ritorno nel suo regno. Così si concluse il tentativo dei britannici di creare con le loro mani un sovrano per l’Afghanistan.

(Scritto nel mese di luglio e nella prima decade di agosto del 1857. Pubblicato in The New American Cyclopœdia, vol. I, 1858)

La seconda lettura

AUTOSTRADE ED ENERGIA: COSÌ LA CINA SI COMPRA I TALEBANI

Il progetto di Pechino: allungare all’Afghanistan il corridoio Cina-Pakistan. Con tanti saluti agli Usa

di Marco Lupis

Nel novembre del 1982, l’allora presidente cinese Deng Xiaoping disse: “I problemi in Afghanistan sono di importanza strategica globale. Cina e Afghanistan hanno un confine comune. Pertanto, l’Afghanistan rappresenta una minaccia che potrebbe circondare, anche geograficamente, la Cina”.

Certamente, la situazione di entrambi i paesi – e soprattutto quella della nuova superpotenza cinese – è radicalmente cambiata dai tempi del grande riformista Deng, ma non l’interesse e l’estrema attenzione verso l’area afgana, e nei confronti di ciò che accade in quello che oggi è conosciuto come “Il Paese dei barbuti”: i Talebani. La massiccia offensiva delle ultime ore, che ha visto il gruppo estremista islamico riconquistare pezzo dopo pezzo, territorio dopo territorio, città dopo città, larghe parti dell’Afghanistan, ha riportato di estrema attualità il ruolo di Pechino negli equilibri geopolitici dell’Asia centrale, una parte di Mondo sulla quale la Cina ha sempre cercato di estendere il proprio controllo. E non ha mai nascosto le proprie ambizioni in tal senso.

In realtà, Il confine che la Cina divide con l’Afghanistan è il più breve tra i confini che il paese – ormai nuovamente in mano ai Talebani – spartisce con altri 5 suoi vicini: Iran, Pakistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan. Tuttavia, questo breve confine di soli 90 chilometri (Wakhan Corridor), difficile da attraversare a causa delle condizioni del terreno, potrebbe essere la prima regione in cui si concretizzerà la nuova ondata di radicalizzazione. I talebani, che dopo il ritiro degli Usa controllavano circa due terzi del Paese, ormai hanno raggiunto il confine montuoso con la Cina, dominando la provincia di Badakhshan.

I colloqui tra il governo afghano e le squadre negoziali talebane, iniziati lo scorso settembre, hanno fatto scarsi progressi oltre a quello che i media hanno annunciato come una ” svolta ” nel dicembre 2020, che stabilisce regole e procedure. Da allora, mentre le parti si sono incontrate più volte, non è stata concordata un’agenda reciproca e i talebani hanno continuato ad accumulare successi militari. A fine luglio, i rappresentanti del governo afghano e dei talebani si sono incontrati di nuovo a Doha ma ancora una volta non sono riusciti a compiere progressi.

Ma il fallimento dei colloqui di Doha è passato in secondo piano rispetto alla frenetica attività del capo negoziatore dei talebani, il mullah Abdul Ghani Baradar, che di recente ha incontrato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi a Tianjin. L’incontro di Baradar con Wang è arrivato solo due giorni dopo la visita nella stessa città del vicesegretario di Stato americano Wendy Sherman, per quelli che si sono rivelati ennesimi colloqui inconcludenti. E il ministero degli Esteri cinese ha subito dichiarato che “Il ritiro precipitoso delle truppe statunitensi e della NATO dall’Afghanistan segna in realtà il fallimento della politica statunitense nei confronti di quel Paese”. Il capo della diplomazia di Pechino, Wang, ha sottolineato che “i talebani afghani sono un’importante forza militare e politica in Afghanistan e si prevede che svolgano un ruolo importante nel processo di pace, riconciliazione e ricostruzione del Paese”. Mentre da parte sua, il mullah Baradar avrebbe assicurato alla Cina che i talebani afghani “non avrebbero mai permesso a nessuna forza di utilizzare il territorio afghano per compiere atti dannosi per la Cina”. Sembrerebbero tutti elementi per un nuovo “idillio” tra Pechino e i feroci estremisti Barbuti, ma è effettivamente così?

Di fatto la Cina sta cercando di trovare un modo per prevenire l’instabilità ambientale e la minaccia terroristica che potrebbe diffondersi nel suo territorio attraverso l’Afghanistan: un’aspirazione che hanno coltivato in molti, ma che sicuramente Pechino non vorrebbe attuare attraverso un’azione militare, ben consapevole che tutti gli attori che sono intervenuti militarmente fino ad oggi in Afghanistan hanno fallito, consentendo al Paese di guadagnarsi la reputazione di “cimitero degli imperi”.

L’amministrazione di Pechino desidera migliorare l’economia e la prosperità della regione sviluppando relazioni commerciali con il Paese dei Barbuti e avviando progetti infrastrutturali. In questo modo, pur aumentando la sua influenza, la Cina eviterà i rischi di un’operazione militare. L’interesse del Dragone infatti – come accadde ormai da tempo in qualsiasi contesto e scenario internazionale – è prettamente economico. Pechino vuole realizzare in Afghanistan qualcosa di simile al Corridoio Economico Cina-Pakistan, o quantomeno estendere questo corridoio fino a Kabul, così da garantire i propri rilevanti interessi nel Paese – in costante aumento attraverso lo sviluppo di importanti progetti – e garantire la sicurezza di una sperata “tappa afgana” dell’attraversamento est-ovest utile allo sviluppo del grande progetto della Nuova Via della Seta. Di conseguenza, la stabilità dell’Afghanistan agli occhi della Cina è la chiave principale per il successo dei progetti di infrastrutture energetiche e di trasporto nelle regioni economiche dell’Asia meridionale e centrale. Per questo motivo, di recente, i funzionari cinesi hanno rilasciato importanti dichiarazioni, che mostrano la loro volontà di estendere il corridoio economico Cina-Pakistan all’Afghanistan nell’ambito appunto della Belt and Road Initiative.

Pechino prevede di investire in Afghanistan in molti settori, soprattutto nelle risorse sotterranee e nel potenziale idroelettrico, e nelle sue dichiarazioni, il portavoce dei talebani Süheyl Şahin ha affermato senza mezzi termini che i talebani accoglierebbero con favore gli investimenti della Cina in Afghanistan, suggerendo così la concreta possibilità di un significativo riavvicinamento tra Cina e Talebani in quest’area.

Con la sua Belt and Road Initiative (BRI), quindi, la Cina è pronta a entrare in esclusiva nell’Afghanistan post-americano. Secondo i rapporti di intelligence più credibiili, le autorità di Kabul stanno intensificando il loro impegno con la Cina per l’estensione del Corridoio economico Cina-Pakistan da 62 miliardi di dollari (CPEC), il progetto di punta della BRI. Il progetto prevede la costruzione di autostrade, ferrovie e condutture energetiche tra il Pakistan e la Cina, fino all’Afghanistan. In particolare, sul tavolo ci sarebbe la costruzione di una strada principale sostenuta dalla Cina tra l’Afghanistan e la città nordoccidentale del Pakistan, Peshawar, che è già collegata alla rotta CPEC: Collegare Kabul a Peshawar su strada significherebbe infatti l’adesione formale dell’Afghanistan al CPEC.

La Cina intende collegare l’Asia con l’Africa e l’Europa tramite reti terrestri e marittime che coprono 60 paesi come parte della sua strategia BRI. La strategia non solo promuoverebbe la connettività interregionale, ma aumenterebbe anche l’influenza globale della Cina al costo stratosferico – ma perfettamente gestibile dalla gigantesca economia cinese – di 4 trilioni di dollari. Grazie alla sua posizione, l’Afghanistan può fornire alla Cina una base strategica per diffondere la sua influenza in tutto il mondo, situato com’è in una posizione ideale per fungere da hub commerciale che collega il Medio Oriente, l’Asia centrale e l’Europa.

Appare chiaro che, per realizzare i suoi ambiziosi piani economici, Pechino ha bisogno di pace e stabilità nella Regione, e in particolare proprio in Afghanistan.

Con ogni evidenza, però, nella partita afgana Pechino ha anche un’altra ambizione, meno “materialistica”: vuole dimostrare che la sua ideologia e le sue politiche possono portare stabilità anche nelle geografie più impegnative del mondo, sviluppando economicamente e rendendo stabile l’Afghanistan, proprio laddove gli stati occidentali, in particolare gli Usa, hanno completamente fallito. Quello afgano, insomma, sarebbe un tassello di primaria importanza nella vasta strategia di Soft-power del Dragone.

Xi Jinping ha dichiarato questa strategia fin dal 2014 quando, partecipando alla “Conference on Cooperation and Confidence-Building Measures in Asia”, disse: “I problemi dell’Asia dovrebbero essere risolti dagli asiatici in ultima istanza e la sicurezza dell’Asia dovrebbe essere garantita da asiatici”.

E gli americani [gli Stati Uniti d’America, mia precisazione LL], staranno a guardare?

 

 

La terza lettura

AFGHANISTAN. FALLIMENTO POLITICO-MILITARE MA ANCHE IDEOLOGICO

di Alberto Negri

Il fallimento in Afghanistan? Politico-militare ma anche ideologico. Dopo i sovietici, i talebani hanno sconfitto anche gli occidentali, pur con importanti differenze. E ora costruiranno l’Emirato II, con nuovi partner e una nuova struttura statale. Per capirne qualcosa di più, Ventuno ne ha parlato con Alberto Negri, giornalista tra i massimi esperti di esteri, che conosce l’Afghanistan – dove è stato una dozzina di volte a partire dagli anni ’80 – come le sue tasche. Editorialista de Il Manifesto, quotidiano che ha compiuto 50 anni, Negri è stato a lungo inviato di guerra per Il Sole 24 Ore, seguendo in prima linea, tra le altre, le guerre nei Balcani, in Somalia, in Afghanistan e in Iraq.

Cosa sta succedendo in Afghanistan?

«Per dirlo in maniera dettagliata bisognerebbe essere sul posto. Abbiamo sempre un taglio della realtà afghana che proviene soprattutto da Kabul, la capitale. Sappiamo poco, però, di quello che accade nelle province. Questo è un limite dell’informazione attuale che ci dovrebbe far riflettere, perché la storia dell’Afghanistan non è solo quella di una guerra sbagliata, ma anche di una narrativa sbagliata. Per esempio si ignora che i talebani controllavano già il 40-50% del territorio quattro-cinque anni fa. Soprattutto nelle province. Questo spiega perché c’è stata una loro rapida avanzata, dovuta ovviamente alla dissoluzione dell’esercito nazionale afghano, ma anche al fatto che in questi anni i talebani hanno consolidato la loro presenza, stando molto più attenti che in passato ai rapporti con la popolazione civile».

Come?

«Il Mullah Baradar, che ha rappresentato i talebani nel negoziato di Doha e che gli americani conoscono benissimo – fu arrestato nel 2010, tenuto in prigione in Pakistan fino al 2018 e liberato su richiesta degli stessi americani – è autore di un codice di comportamento in cui si chiedeva ai combattenti di non fare attentati o azioni militari che mettessero troppo a rischio la popolazione civile innocente. Questo ha aiutato a consolidare il movimento talebano, che poi ha allargato le sue alleanze, anche superando in alcuni casi alcune barriere etniche settarie che hanno sempre contraddistinto l’Afghanistan. La sconfitta del 2001 è stata la sconfitta non solo dell’Emirato, ma anche dei pashtun, cioè dell’etnia maggioritaria (con il 40%) dell’intero Paese. Questa è un po’ la rivincita anche da quella disfatta di 20 anni fa».

Qual è la narrativa sbagliata?

«Avere scambiato Kabul, Herat o Mazar-i-Sharif per tutto l’Afghanistan. Molte donne afghane in questi vent’anni avevano potuto tornare a scuola o entrare in politica, ma molto spesso nelle province le donne afghane hanno continuato a vivere secondo regole tradizionali oscurantistiche che hanno dominato la vita dell’Afghanistan nei secoli. E non solo con i talebani. Inoltre, si è pensato alla modernizzazione del Paese ma rivolgendosi soprattutto a un’élite politico-economica che poi ha dato vita a governi altamente corrotti. Questo, uno degli aspetti più superficiali della politica americana e occidentale in Afghanistan, ha determinato il fatto che la stragrande maggioranza degli afghani rimanesse fuori dal circuito economico e dalle aspirazioni a una vita migliore di un popolo che vive con un dollaro e mezzo al giorno. Ecco perché non solo si è disgregato l’esercito nazionale, ma addirittura le nuove generazioni afghane – su cui gli occidentali pensavano di puntare – alla fine hanno invece appoggiato i talebani. E non hanno fatto alcuna resistenza alla loro avanzata. Quindi la sconfitta americana e occidentale in Afghanistan non è solo militare ma anche ideologica, perché il processo di modernizzazione è completamente fallito. E oggi i jihadisti possono vantare due vittorie in 40 anni contro due superpotenze: una contro i sovietici, cioè contro il comunismo con l’appoggio degli americani, l’altra contro il sistema liberal-capitalistico».

Questa è stata una guerra sbagliata, quindi?

«Sono sempre sbagliate tutte le guerre che non si possono vincere. E soprattutto sono sbagliate le guerre che nella propaganda occidentale mirano a esportare la democrazia, ma dove nella realtà dei fatti c’è ben altro».

Ecco. Cos’altro c’è, nella realtà dei fatti?

«La missione del 2001 avrebbe dovuto “vendicare” l’11 settembre. Se si fosse limitata a quello, puntando soprattutto su Al Qaeda, si sarebbero risparmiati molto tempo e molti morti. Invece si è pensato, abbattendo il regime dei talebani, di imporre un modello occidentale a un Paese che ha rifiutato questi modelli e li aveva già rifiutati nella storia. In realtà, gli americani avevano pensato di mettere una postazione strategica nel cuore dell’Asia, ai confini con l’Iran e con la Cina, nell’area di influenza della Russia e vicino al Pakistan, paese che ha creato i talebani – con il governo di Benazir Bhutto – come strumento di penetrazione in Asia centrale. Erano in Pakistan, non a caso, i generali che avevano i contatti con i talebani e con Osama Bin Laden: io ho intervistato capi talebani e jihadisti in clandestinità, nella lista nera degli Usa, alla periferia di Islamabad, non di Kabul. Quindi è stata un’operazione sbagliata anche da quel punto di vista!»

Che Afghanistan vedremo con questo Emirato II?

«Mentre il primo Emirato – che aveva la sua capitale a Kandahar – lo conoscevamo poco e male, questo secondo lo conosciamo perfettamente. Gli americani ci hanno combattuto per anni contro e poi ci hanno trattato a Doha. Oltretutto questo secondo Emirato ha una rete di relazioni internazionali molto più estesa del precedente. A trattare con i talebani in Qatar andavano turchi, iraniani, russi, cinesi… Non stupisce infatti che questi paesi abbiano ancora le ambasciate perfettamente funzionanti. Questo Emirato probabilmente sarà radicale nei metodi e nell’ideologia, come il precedente, ma più pragmatico nei rapporti internazionali».

Perché?

«Perché dovrà governare il Paese. Dovrà assicurare la stabilità e il controllo sul territorio, ma dovrà anche far funzionare la macchina statale. E per questo servono i soldi. Finora i soldi arrivavano da statunitensi ed europei».

E ora quali saranno i partner dei talebani?

«La Cina è uno dei partner più probabili dal punto di vista economico. Con la Via della Seta sta investendo dozzine di miliardi di dollari in Pakistan (il maggior alleato dei talebani) e in Iran, ha già investito nelle miniere in Afghanistan ed è politicamente interessata acché gli afghani non destabilizzino la popolazione musulmana degli uiguri nel confinante Xinjiang».

Quali altri?

«La Russia vorrà avere la sua influenza. Poi l’Iran, che ha incontrato e forse appoggiato più volte i talebani e che ora si aspetta un comportamento più corretto nei confronti della popolazione afghana sciita. Poi ci sono i paesi arabi del Golfo: prima di tutto gli Emirati Arabi Uniti (già oggi il maggior partner commerciale dell’Afghanistan), il Qatar e l’Arabia Saudita. Su di loro i talebani puntano per fare cassa».

Come potrà essere strutturato questo Emirato II?

«Il primo ruotava intorno alla figura carismatica del Mullah Omar. Questo è un po’ diverso, perché non c’è un leader carismatico. C’è un leader, l’emiro Akhundzada, che è capo politico-militare ma anche religioso. Poi c’è una parte più pragmatica, costituita da suoi vice: Baradar, la rete Haqqani, Yaqoob (il figlio del Mullah Omar) … Quindi si può delineare una struttura in due modi: un capo supremo e una struttura di governo che si occupa delle questioni politiche e di gestione del Paese, un po’ all’iraniana».

In questi giorni si parla molto della condizione delle donne e si vedono immagini dell’esperienza socialista afghana di alcuni decenni fa, con donne a viso completamente scoperto per esempio, che stridono con la situazione attuale…

«La presenza sovietica in Afghanistan è stata molto forte ed è durata a lungo, anche negli anni ’60-’70. Il partito comunista afghano (il Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan) nel 1979 chiese aiuto all’Urss, che invase l’Afghanistan il 24 dicembre 1979 per sostenere la guerra contro i mujaheddin allora sostenuti dagli Stati Uniti, dall’Arabia Saudita e dal Pakistan. C’erano già dei forti piani di modernizzazione all’epoca, prima dell’intervento dell’Urss: la riforma agraria e dell’istruzione per esempio. L’attuale università di Kabul è a forma di stella rossa! In quell’università era da vent’anni che andavano a studiare non solo gli uomini ma anche le donne, che giravano a capo scoperto e persino con la minigonna. Nel 1975 a Kabul ci fu il primo concerto rock dell’Asia centrale! Se è vero che i russi furono costretti a ritirarsi nel 1989, il governo afghano resistette per tre anni prima di cadere, fino al 1992. Poi le truppe dei mujaheddin entrarono a Kabul e impiccarono l’ex presidente Najibullah a un lampione».

Questo cosa ci dice di oggi?

«Allora, come in questi ultimi 20 anni, anche i russi puntarono a creare un’élite per tenere in piedi lo stato afghano. Ma quell’élite era molto più convinta, coesa e larga di quella creata dagli americani, altrimenti quel governo non sarebbe resistito da solo, senza l’aiuto di Mosca, per tre anni. Invece la modernizzazione applicata negli ultimi 20 anni si è sciolta come neve al sole, perché questa élite è subito scappata e non ha difeso le istituzioni impiantate dagli occidentali».

Ci sono coincidenze tra la fuga da Saigon, in Vietnam, nel 1975 e quella di questi giorni da Kabul?

«No. L’apparenza delle immagini ci fa sfuggire tantissime differenze. Innanzitutto quella guerra fu combattuta dagli Usa con un esercito di leva e ci morirono decine di migliaia di soldati americani. La guerra in Afghanistan invece non ha coinvolto gli americani emotivamente. Contro la guerra in Vietnam, poi, c’era un grande coinvolgimento nelle proteste, anche qui in Italia. Per l’Afghanistan quante manifestazioni si sono viste?»

Le colture di oppio erano state quasi azzerate prima dell’intervento degli Usa del 2001. Poi è andata diversamente…

«Oggi la produzione è 10-12 volte superiore a quella del primo Emirato talebano, con un’estensione quasi pari a quella della Lombardia. La produzione di oppio è una delle basi “economiche” del Paese, oltre all’estrazione mineraria. In Afghanistan ci sono diversi minerali che fanno gola alla Cina».

Si può dire, in definitiva, che la guerra in Afghanistan è il più grosso fallimento della Nato?

«L’Alleanza atlantica, a dispetto del nome, è andata a fare guerre ben lontane, ma gli errori non finiscono. Ora la missione Usa in Iraq sarà sostituita da una missione Nato, il cui prossimo comando sarà preso dall’Italia. Il fallimento Usa e Nato in Afghanistan dovrebbe far riflettere su come noi accettiamo supinamente missioni militari e guerre senza mai opporci».

Chi si opponeva era Gino Strada, morto pochi giorni fa.

«Gli ipocriti che hanno incensato Gino Strada in questi giorni sono gli stessi che sostennero gli interventi militari americani nel 2001 e soprattutto nel 2003, oltretutto sulla base della fake news più colossale della storia: le armi di distruzione di massa che non vennero mai trovate. Cosa andiamo a fare in queste guerre? A esportare la democrazia? I diritti umani? Questi argomenti sono ridicoli, servono a giustificare le cannonate su interi paesi che potremmo aiutare senza sparare un colpo».

Come?

«Per esempio con aiuti alla cooperazione, con aiuti sanitari o con aiuti nel campo dell’istruzione. In Afghanistan è difficile andare a scuola non solo per le ragazze ma anche per i ragazzi, perché il sistema scolastico statale è completamente crollato in questi 20 anni. E dove andavano a studiare i ragazzi? Nelle madrasse, le scuole islamiche. Ecco un altro motivo che ci spiega perché i talebani hanno fatto larga propaganda. L’Afghanistan è il motore concreto dei fallimenti successivi: in Iraq, in Libia, in Siria etc. Queste guerre mascherate da interventi umanitari hanno ridotto intere regioni nel caos. La “strategia del caos” l’ha teorizzata Hillary Clinton da Segretario di Stato Usa. E gli effetti di questi disastri li vediamo qui nel Mediterraneo».

 

L’Afghanistan irrompe all’interno della Casa Bianca; un resoconto_a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto un resoconto dettagliato dei momenti frenetici che hanno colto, per meglio dire travolto il Presidente Biden e lo staff della Casa Bianca al precipitare della crisi in Afghanistan. Si possono mettere certamente in conto le carenze delle modalità operative dei servizi di intelligence, ormai sempre più incentrate sugli strumenti digitali ed informatici e meno sull’uso degli strumenti classici di presenza, influenza e infiltrazione; si potrà parlare del distacco crescente dei più alti livelli decisionali dalla realtà concreta e delle modalità di selezione di questi; si potrà indugiare sullo spirito messianico che impregna l’azione politica americana, atteggiamento che collide spesso con il realismo nei comportamenti. Elementi però insufficienti a spiegare esaustivamente l’enormità di quanto successo a Kabul. La disfatta in Afghanistan sul terreno non è probabilmente così disastrosa ed irreversibile come potrebbe sembrare; rimane disastrosa per l’immagine e l’autorevolezza offerti con una buona dose di sprezzo del ridicolo dagli Stati Uniti agli avversari ed agli alleati, spingendo i primi probabilmente ad un maggiore dinamismo e i secondi ad una minore sicumera. Il rischi di passi più lunghi delle proprie gambe da parte dei vari attori si accentuano e con esso l’eventualità di un risveglio dal torpore del vecchio leone. E’ poco verosimile che settori e centri decisionali determinanti all’interno degli USA non fossero al corrente della reale situazione in Afghanistan, vista la presenza per altro di decine di migliaia di operatori ancora sul terreno. Forse la chiave di lettura principale va però ancora una volta individuata nella natura e nelle modalità dello scontro politico interno alla classe dirigente americana; conflitto che sta dividendo ed anche frammentando quella compagine sociale. E’ noto che lo scontro politico interno ad un paese egemone ha una grande influenza e condiziona pesantemente le dinamiche geopolitiche rispetto alle fibrillazioni fine a se stesse che travolgono la superficie politica di paesi ininfluenti come l’Italia.

Questa vicenda rappresenta visivamente qualcosa di molto più importante che già trapela da tempo nelle dinamiche politiche statunitensi e che questo sito sta costantemente rilevando ormai da anni. Lo scontro politico interno ha assunto livelli così distruttivi da arrivare a strumentalizzare e manipolare eventi rilevanti come quelli in Afghanistan, anche nelle sue pieghe negative, in funzione dell’ascesa e della caduta di uomini e settori politici. Quello odierno rappresenta probabilmente il punto di non ritorno del presidente americano in carica. Lo spirito umanitario, buonista e le feroci critiche sull’inettitudine operativa e previsionale che stanno pervadendo la campagna mediatica ai danni di Biden, promossa dai principali organi di informazione americani, in prima linea NYT, WP e CNN e portata avanti per riflesso condizionato dai corifei europei non deve ingannare. Contribuirà a far emergere definitivamente figure politiche, quali Kamala Harris, di fazioni opposte all’interno dello stesso gruppo dominante, ma talmente scialbe da essere del tutto inadeguate nella definizione ed attuazione delle scelte strategiche. Talmente insipide, appunto, che l’eventualità di un ritorno di vecchie, ma ancora potenti cariatidi è un’ipotesi niente affatto peregrina. Pare infatti che il Primo Ministro Canadese Justin Trudeau, in assenza di interlocutori affidabili, abbia avuto una lunga telefonata con Hillary Clinton, una ex con insopprimibili ambizioni di ritorno, ma ancora fuori dal giro degli incarichi ufficiali; il disastro della ritirata dall’Afghanistan metterà sicuramente in secondo piano il disastro dell’uccisione del console americano di Bengasi, la macchia che ha segnato le ambizioni politiche della Clinton. Occorreranno probabilmente eventi ancora più catastrofici per arrivare ad una condizione politica interna risolutiva e ad una definizione più coerente delle linee strategiche. Una situazione, quindi, al momento di probabile ulteriore progressiva decomposizione della quale continueremo a parlare appena possibile soprattutto con Gianfranco Campa. Nelle more più gli europei attenderanno, più precari saranno i relitti ai quali aggrapparsi al momento del naufragio_Buona lettura, Giuseppe Germinario

“Questo sta realmente accadendo”

Nei cinque giorni di affanno all’interno della squadra di Biden durante il crollo dell’Afghanistan.

President Joe Biden speaks at the White House. From left, Secretary of Defense Lloyd Austin, Vice President Kamala Harris, Biden, Secretary of State Antony Blinken and White House national security adviser Jake Sullivan.

Il presidente Joe Biden parla dell’evacuazione dei cittadini americani, dei richiedenti SIV e degli afghani vulnerabili nella Sala Est della Casa Bianca, venerdì 20 agosto 2021. Da sinistra, il segretario alla Difesa Lloyd Austin, il vicepresidente Kamala Harris, Biden, segretario dello Stato Antony Blinken e del consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan. | Manuel Balce Ceneta/AP Photo
Con l’aiuto di Oriana Pawlyk, Daniel Lippman e Lara Seligman

Benvenuti al National Security Daily , la newsletter di POLITICO sugli eventi globali che agitano Washington e tengono sveglia l’amministrazione di notte. Sono Alex Ward, la tua guida su ciò che sta accadendo all’interno del Pentagono, dell’NSC e della macchina della politica estera di Washington.

Il presidente Joe Biden e la sua cerchia ristretta erano di ottimo umore.

Era mercoledì mattina, 11 agosto, e si stavano crogiolando nel bagliore delle vittorie legislative consecutive. Il giorno prima, il Senato aveva approvato un disegno di legge bipartisan per le infrastrutture da 1,2 trilioni di dollari. E nelle prime ore di mercoledì mattina, hanno assistito all’avanzamento di un quadro da 3,5 trilioni di dollari per finanziare l’agenda sociale dei Democratici.

Guardando il conteggio dei voti del Senato davanti a uno schermo televisivo nella sala da pranzo privata del presidente , Biden e il vicepresidente Kamala Harris hanno alzato i pugni in segno di trionfo. Il fulcro della loro agenda interna aveva cominciato a prendere posto.

Biden non vedeva l’ora che le sue vacanze estive iniziassero tra pochi giorni, compresi alcuni periodi di inattività a Camp David e nella sua casa vicino alla spiaggia nel Delaware. Nel frattempo, anche molti membri dello staff senior e di medio livello dell’ala ovest si stavano preparando per un po’ di tempo libero, impostando le loro risposte via e-mail “fuori sede”. “È una città fantasma”, ha detto un funzionario della Casa Bianca, descrivendo la scena nell’ala ovest.

Ma mentre la Casa Bianca stava compiendo un gigantesco giro di vittoria sui suoi successi interni, un disastro incombeva dall’altra parte del mondo in Afghanistan.

Questo resoconto di cinque giorni caotici a metà agosto si basa su interviste con 33 funzionari e legislatori statunitensi, molti dei quali hanno parlato a condizione di anonimato per descrivere discussioni interne delicate.

Mercoledì mattina – crepuscolo in Asia centrale – il già fragile controllo del governo afghano sul paese devastato dalla guerra si stava rapidamente disfacendo di fronte a una rapida offensiva talebana in coincidenza con il ritiro quasi completo delle truppe statunitensi ordinato da Biden ad aprile.

Pochi giorni prima, il gruppo militante aveva occupato il capoluogo di provincia di Zaranj, il primo di molti a cadere in una guerra lampo che ha sbalordito i funzionari americani con la sua velocità e ferocia.

Molti dei migliori diplomatici e generali americani stavano ancora operando con il presupposto di avere tutto il tempo per prepararsi a un’acquisizione del paese da parte dei talebani: potrebbero passare anche un paio d’anni prima che il gruppo sia in grado di riconquistare il potere, molti pensavano. Sebbene alcuni funzionari militari e agenzie di intelligence avessero intensificato i loro avvertimenti sulla possibilità di un crollo del governo, i funzionari si sentivano fiduciosi nella strategia delle forze di sicurezza afghane di consolidarsi nelle città per difendere i centri abitati urbani.

E poche ore prima, Biden aveva espresso pubblicamente la speranza che i talebani sarebbero stati tenuti a bada dall’esercito afghano. “Penso che ci sia ancora una possibilità”, ha detto ai giornalisti alla Casa Bianca martedì. (Un mese prima, Biden aveva affermato che un’acquisizione completa dei talebani era “altamente improbabile”.)

Poi, mercoledì, le forze di sicurezza afghane hanno in gran parte abbandonato le province di Badakhshan, Baghlan e Farah all’esercito guerrigliero dei talebani. Mentre altre aree del paese erano già cadute, era chiaro che il ritmo stava accelerando.

Il presidente e i suoi migliori collaboratori avevano ancora un’altra riunione in programma per mercoledì sera, una sessione pre-programmata su una questione di sicurezza nazionale classificata. Quando la notizia del deterioramento della situazione è giunta allo Studio Ovale quella mattina, Biden ha ordinato che l’incontro in prima serata si concentrasse sull’Afghanistan.

La squadra di sicurezza nazionale di Biden aveva già tenuto dozzine di incontri sull’Afghanistan. Ma questo incontro segreto, tenuto nella Situation Room della Casa Bianca, il centro operativo sicuro nel seminterrato dell’ala ovest, stava arrivando in un momento cruciale.

Seduti intorno al grande tavolo da conferenza c’erano Harris; il segretario alla Difesa Lloyd Austin; il presidente dei capi congiunti, il generale Mark Milley; Vicepresidente dei capi congiunti Gen. John Hyten; il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan e il suo vice Jon Finer; Direttore dell’Intelligence Nazionale Avril Haines; capo del personale Ron Klain; il vicedirettore della CIA David Cohen; Liz Sherwood Randall, consigliere per la sicurezza interna del presidente; e altro personale della Casa Bianca e della sicurezza nazionale. Il segretario di Stato Antony Blinken ha partecipato per telefono.

L’atmosfera era drammaticamente diversa dallo spirito celebrativo mostrato poche ore prima nella sala da pranzo. “È stato un momento serio”, ha ricordato un alto funzionario.

Gli eventi stavano diventando così disastrosi che il presidente ordinò ad Austin e Milley di preparare un piano per schierare truppe aggiuntive nella regione, dove avrebbero rinforzato quelle messe in attesa mesi prima per evacuare il personale americano.

Austin era diventato così allarmato che aveva già convocato il primo di quelli che sarebbero diventati incontri due volte al giorno sull’Afghanistan nella sala di videoconferenza sicura al terzo piano del Pentagono, nota come “cavi” del segretario. Erano presenti i massimi dirigenti civili e militari del dipartimento; altri pezzi grossi, come il generale Frank McKenzie, il capo del comando centrale degli Stati Uniti, e il contrammiraglio Pete Vasely, il comandante delle forze sul campo in Afghanistan, hanno chiamato tramite video protetto.

Nella Situation Room, Biden ha anche ordinato al Dipartimento di Stato di espandere l’evacuazione degli alleati afgani – quelli che avevano lavorato con gli americani e ora erano in pericolo di morte – per includere l’uso di aerei militari, non solo aerei civili noleggiati. Il presidente era già stato oggetto di pesanti controlli al Congresso per la lentezza delle evacuazioni per gli afgani che hanno prestato servizio come interpreti e traduttori per le forze armate statunitensi durante i 20 anni di conflitto.

Biden ha anche chiesto ai suoi funzionari dell’intelligence di preparare una valutazione aggiornata sulla situazione in Afghanistan entro la mattina seguente.

Dopo lo scioglimento della riunione, è stata inviata un’e-mail riservata ai membri dello staff competenti per la convocazione alle 7:30 del giorno successivo. L’e-mail è stata inviata così tardi che anche il personale della Situation Room ha iniziato a chiamare quegli assistenti per assicurarsi che fossero puntuali giovedì mattina.

“Ricordo come sembravano tutti intontiti”, ha ricordato un funzionario mentre il gabinetto di sicurezza nazionale di Biden si è riunito giovedì mattina presto. Il sole era sorto solo un’ora prima, ma la Situation Room, il centro operativo senza finestre situato nelle profondità dell’ala ovest, era già brulicante di attività.

Sullivan, il consigliere per la sicurezza nazionale, era lì con altro personale della Casa Bianca, mentre i membri del governo hanno partecipato tramite collegamenti sicuri.

La riunione dei dirigenti è iniziata con un briefing dell’intelligence concludendo che la situazione era così “fluida” che la sede del potere del governo afghano a Kabul potrebbe cadere “entro settimane o giorni”, ha osservato il funzionario.

Questo era molto diverso dalle valutazioni su cui si basavano i funzionari pochi giorni prima che stimavano che un’acquisizione talebana avrebbe richiesto mesi, o anche fino a due anni, dopo il ritiro delle truppe americane e della NATO. Di recente, l’8 agosto, McKenzie ha inviato ad Austin una nuova stima più pessimistica: che Kabul potrebbe essere isolata entro 30 giorni.

“È stato un incontro piuttosto deludente”, ha detto il funzionario. “Pensavamo di avere mesi davanti a noi per abbattere l’ambasciata e fare l’elaborazione e il trasferimento”.

Ma giovedì mattina a Washington, più centri abitati stavano cadendo in mano ai talebani di ora in ora, compresi i capoluoghi di provincia di Ghazni e Badghis.

Nella Situation Room, Austin stava ora raccomandando a Biden di inviare truppe per evacuare l’ambasciata e proteggere il principale aeroporto internazionale di Kabul. Sullivan ha chiesto a ciascun membro del gabinetto durante la riunione di intervenire. Hanno concordato all’unanimità.

Quello era il momento “oh, merda”, ha detto il funzionario americano. Ormai era ufficialmente una crisi.

Sullivan è entrato nello Studio Ovale poco prima delle 10 per fare rapporto al presidente. Biden prese il telefono e disse ad Austin di inviare le truppe preposizionate.

Anche in tutta Washington, il Congresso stava diventando sempre più allarmato dal deterioramento della situazione. In alcuni casi, i legislatori si sono presi la responsabilità di saperne di più su ciò che stava accadendo, in assenza di una guida da parte dell’amministrazione Biden.

Il giorno prima, mentre il Senato passava a una serie di voti della durata di un’ora e durante la notte su uno dei principali punti dell’agenda interna di Biden, i senatori che guidavano lo sforzo sono stati ritirati dalle riunioni e dall’aula del Senato dove sono stati informati sui rapporti inquietanti in arrivo fuori dall’Afghanistan. Alcune di quelle storie e immagini terrificanti hanno cominciato a emergere nelle prime ore di mercoledì mattina, quando i senatori sono rimasti a terra dopo le 4 del mattino.

Uno dei pochi legislatori che parlavano attivamente degli sviluppi in Afghanistan all’epoca era il senatore democratico Chris Murphy del Connecticut, un sostenitore di lunga data del ritiro delle truppe statunitensi. Martedì era andato in Senato per difendere preventivamente Biden e affermare che l’ondata dei talebani era in effetti un motivo per mantenere la rotta con il ritiro.

“Il completo, totale fallimento dell’esercito nazionale afghano, in assenza della nostra mano nella mano, per difendere il loro paese è un’accusa feroce di una strategia ventennale fallita basata sulla convinzione che miliardi di dollari dei contribuenti statunitensi potrebbero creare una centrale efficace e democratica governo in una nazione che non ne ha mai avuto uno”, ha detto Murphy.

I legislatori hanno iniziato a discutere tra di loro delle conquiste dei talebani al Senato fino a mercoledì, ma nessuna delle parti ha permesso di mettere in ombra i loro sforzi di politica economica.

Il rappresentante Michael Waltz (R-Fla.), il primo berretto verde a servire al Congresso e una delle prime e più forti voci che spingono per l’evacuazione degli alleati afghani, era in costante comunicazione con i funzionari legati al presidente afghano Ashraf Ghani. Anche se mercoledì i talebani stavano conquistando vaste aree di territorio, Waltz ha affermato che le forze afgane credevano di “poter capovolgere la situazione” finché gli Stati Uniti avessero continuato a fornire supporto aereo.

Quel sostegno non è stato sufficiente quando l’esercito afghano ha deposto le armi in massa. In un’intervista, Waltz ha descritto il supporto aereo tiepido come “mettere un cerotto su una ferita al petto risucchiante”.

Più tardi giovedì, verso l’ora di pranzo, un funzionario della Casa Bianca ha chiamato il rappresentante Jason Crow (D-Colo.), un membro dei comitati dei servizi armati e dell’intelligence, per fornire un aggiornamento sul deterioramento della situazione.

Crow, un ex ranger dell’esercito che ha prestato servizio in Afghanistan, faceva parte di un gruppo bipartisan di legislatori che da mesi sollecitavano l’amministrazione Biden a muoversi più velocemente per evacuare gli afgani che hanno aiutato lo sforzo bellico degli Stati Uniti.

Sia Crow che Waltz credevano ormai che, in assenza di una drammatica accelerazione delle evacuazioni, era improbabile che gli Stati Uniti sarebbero stati in grado di portare in sicurezza tutti gli alleati americani e afghani fuori dal paese prima della scadenza del 31 agosto di Biden.

Giovedì sera, il Pentagono ha annunciato che altre 3.000 truppe sarebbero state portate d’urgenza per mettere in sicurezza l’aeroporto internazionale Hamid Karzai di Kabul e aiutare a far uscire in sicurezza dal paese i restanti americani, così come gli alleati afghani e della NATO.

“Kabul non è in questo momento in un ambiente di minaccia imminente, ma chiaramente … se guardi solo a ciò che i talebani hanno fatto, puoi vedere che stanno cercando di isolare”, ha detto ai giornalisti il ​​portavoce del Pentagono John Kirby.

Biden settimane prima aveva approvato tutte le raccomandazioni di Austin per posizionare risorse navali e migliaia di truppe nella regione in caso di evacuazione, inclusa la portaerei USS Ronald Reagan e tre battaglioni di fanteria.

Ma quasi subito, è diventato chiaro che non sarebbe bastato.

Brad Israel, un ex berretto verde che ha servito più tour in Afghanistan, giovedì sera ha ricevuto un’e-mail frenetica dal suo ex interprete afghano.

Il giorno prima, l’uomo è stato costretto a fuggire da Kandahar dopo che i talebani hanno bruciato la sua casa – inclusa la distruzione delle prove documentali della sua domanda di asilo negli Stati Uniti – e hanno giustiziato suo fratello.

Israele ha inviato un’e-mail all’indirizzo elencato sul sito Web del Dipartimento di Stato per scoprire come il suo amico potrebbe inviare nuovamente la sua domanda di visto, solo per il messaggio di rimbalzo: “La casella di posta del destinatario è piena e non può accettare messaggi ora”. Un portavoce del Dipartimento di Stato non ha risposto alla richiesta di spiegare il motivo.

Anche lo sforzo diplomatico degli Stati Uniti per gestire un ritiro ordinato dall’Afghanistan stava andando in pezzi.

I funzionari dell’ambasciata degli Stati Uniti a Kabul avevano concluso venerdì che non avevano altra scelta che chiudere l’avamposto diplomatico americano. Hanno ordinato al personale di iniziare immediatamente la “distruzione di emergenza” di tutti i documenti e materiali sensibili.

Ciò includeva l’incenerimento di bandiere americane e altri loghi del governo degli Stati Uniti “che potrebbero essere utilizzati in modo improprio negli sforzi di propaganda”, secondo un promemoria rilasciato al personale dell’ambasciata. E, secondo il rappresentante Andy Kim (DN.J.), tra i documenti bruciati c’erano i passaporti dei cittadini afgani che avevano richiesto i visti americani, rendendo quasi impossibile identificarli mentre cercano di lasciare il paese nei prossimi giorni.

Tornato a Washington, Tracy Jacobson, capo della Task Force Afghanistan del Dipartimento di Stato, ha informato Crow per telefono sulla risposta pianificata dell’amministrazione.

Crow si diresse verso una struttura di informazioni compartimentata sensibile situata nel seminterrato del Campidoglio, dove rivedeva gli ultimi rapporti dell’intelligence segreta da Kabul.

Anche i leader del Congresso stavano tenendo sotto stretto controllo la situazione. Il leader della minoranza al Senato Mitch McConnell (R-Ky.) ha detto al conduttore radiofonico Hugh Hewitt questa settimana che era in contatto con i leader militari che erano “accecati”.

Settimane prima, l’esercito americano aveva abbandonato la base aerea di Bagram, a lungo il cuore pulsante delle operazioni americane in Afghanistan. Con solo poche migliaia di soldati rimasti indietro, i funzionari del Pentagono hanno deciso che non potevano tenere al sicuro la struttura tentacolare mentre difendevano l’ambasciata e l’aeroporto di Kabul.

I piani prevedevano invece l’uso di elicotteri per trasportare gli americani dal complesso dell’ambasciata nel centro di Kabul all’aeroporto internazionale di Hamid Karzai, a poche miglia di distanza, piuttosto che rischiare di rimanere impantanati o tendere un’imboscata nel traffico intasato della capitale afgana. Significherebbe rischiare esattamente il tipo di scene caotiche che Biden aveva promesso che non sarebbe accaduto: immagini indelebili, in stile Saigon, dell’America in ritirata.

“Venerdì pomeriggio mi era chiaro che stavamo rapidamente perdendo il controllo della situazione nella capitale, nell’aeroporto, e che l’operazione di evacuazione era a rischio”, ha detto Crow.

Gli è stato anche detto che il Pentagono “avrebbe accelerato rapidamente l’evacuazione in termini di quantità di persone, ma anche di chi stavano cercando di evacuare”.

Ma questo significava decidere quali americani e alleati afgani rimasti bloccati a Kabul dovessero essere evacuati per primi.

Il Pentagono non aveva un elenco completo degli afgani che hanno lavorato a fianco degli Stati Uniti durante la guerra. I funzionari stavano ancora compilando una “lista di priorità” di interpreti da evacuare.

Ciò è avvenuto nonostante i ripetuti avvertimenti, incluso un appello bipartisan a Biden all’inizio di giugno che esprimeva crescente preoccupazione “che non hai ancora ordinato che il Dipartimento della Difesa sia mobilitato come parte di un piano di governo completo e attuabile per proteggere i nostri partner afghani. “

Nel frattempo, sul campo in Afghanistan, Vasely era in contatto diretto con Ghani o il suo staff quasi ogni giorno. Anche Austin e Blinken hanno parlato con Ghani, ma non ha dato alcuna indicazione che avrebbe lasciato bruscamente il paese.

“Si è presentato come disposto a rimanere e combattere”, ha detto un funzionario della difesa.

Quella promessa si è rivelata di breve durata.

Sabato, il National Military Command Center, il centro operativo globale altamente sicuro sotto il Pentagono, è stato bloccato dal traffico di messaggi.

L’ultimo domino caduto nelle mani dei talebani è stato il centro commerciale settentrionale di Mazar-e-Sharif. Stava diventando chiaro che Kabul sarebbe stata la prossima. Ufficiali militari esperti hanno espresso incredulità sul fatto che le forze afghane sembravano pronte a rinunciare alla loro capitale senza combattere.

“L’e-mail stava esplodendo a destra e a manca [con la gente che diceva] ‘Wow, sta succedendo proprio ora’”, ha detto un funzionario della difesa. “Questa cosa è appena andata in pezzi durante il fine settimana.”

I funzionari del Pentagono si sono resi conto troppo tardi che i talebani avevano condotto un’efficace campagna di influenza oltre a quella fisica, sfruttando le dinamiche tribali per costruire legami con gli anziani del villaggio e altri che hanno svolto ruoli chiave nella marcia per lo più incruenta del gruppo attraverso il paese.

Allo stesso tempo, l’esercito americano aveva meno di 2.500 soldati rimasti – non abbastanza per capire quanto velocemente il morale e la coesione dell’esercito nazionale afghano si stessero sgretolando.

“Nessuno è rimasto sorpreso dal fatto che si siano piegati come un mazzo di carte, ma solo per la velocità: è semplicemente evaporato”, ha detto il funzionario.

Un altro funzionario della difesa ha scritto in cima al suo taccuino per la giornata: “Caduta di Kabul”.

Alla luce del deterioramento della situazione, quella mattina Biden aveva approvato la raccomandazione di Austin di inviare altri 1.000 soldati dell’82a divisione aviotrasportata per aiutare a evacuare il personale da Kabul. Altri due battaglioni erano in viaggio verso la regione per schierarsi in Kuwait come riserva pronta.

Biden era ancora a Camp David, vestito con pantaloni color cachi e una polo e accompagnato solo da alcuni aiutanti più giovani. In una lunga dichiarazione, ha annunciato i movimenti delle truppe e altri passi che l’amministrazione si stava affrettando a compiere, quindi ha fatto perno su una strenua difesa della sua decisione di ritiro.

“Sono stato il quarto presidente a presiedere una presenza di truppe americane in Afghanistan: due repubblicani, due democratici”, ha detto. “Non vorrei, e non lo farò, passare questa guerra a un quinto.”

Entro domenica 15 agosto, Austin, Milley e il loro staff hanno tenuto telefonate frettolosamente organizzate con i legislatori per discutere della situazione.

Durante una di queste telefonate, i funzionari militari hanno riferito che un alleato chiave di Ghani, il vicepresidente del parlamento afghano, aveva disertato per diventare capo della polizia dei talebani a Kabul.

“È stato allora che abbiamo capito che era davvero FUBAR”, ha detto un anziano aiutante democratico , usando l’acronimo militare per “incasinato oltre ogni riconoscimento”.

Milley ha anche avvertito i legislatori che con l’ascesa dei talebani, c’era anche la minaccia che al Qaeda, lo Stato Islamico e altri gruppi terroristici che cercavano di attaccare gli Stati Uniti potessero essere ancora una volta in grado di complottare dal territorio afghano.

Nel frattempo, Austin aveva autorizzato altri due battaglioni dell’82a divisione aviotrasportata a dirigersi direttamente a Kabul invece di fare scalo in Kuwait, portando il totale ordinato di confluire nella capitale a circa 6.000 soldati.

Ma per molti versi era troppo tardi. I combattenti talebani avevano già preso la città orientale di Jalalabad senza combattere, circondando efficacemente Kabul, e stavano iniziando ad entrare nella capitale con poca resistenza.

In rapida successione domenica, Ghani è fuggito dal Paese, i talebani sono entrati nel palazzo presidenziale e hanno posato per dei selfie nel suo ufficio. L’aeroporto si stava rapidamente trasformando in un campo profughi, invaso da migliaia di frenetici afgani che chiedevano a gran voce di fuggire, alcuni addirittura disposti ad aggrapparsi agli aerei in rullaggio sulla pista. Le immagini satellitari hanno mostrato minuscoli punti raggruppati attorno all’asfalto, simboli viventi di disperazione e disperazione.

Alla fine della giornata, la bandiera americana non sventolava più sull’ambasciata degli Stati Uniti. Diplomatici stranieri hanno pubblicato selfie online dall’interno degli elicotteri Chinook, mentre i fotografi hanno catturato lo spettacolo da lontano. E le truppe americane fresche in viaggio verso Kabul avrebbero protetto un aeroporto nel caos.

I membri del gabinetto di Biden e i loro vice avevano tenuto circa tre dozzine di riunioni di “pianificazione dello scenario” dopo l’annuncio del presidente di aprile che le truppe statunitensi sarebbero state fuori dall’Afghanistan entro l’11 settembre.

Hanno trattato di tutto, da come proteggere l’ambasciata degli Stati Uniti e gestire i rifugiati afgani a come posizionare al meglio l’esercito americano nella regione nel caso in cui le cose andassero fuori controllo Molte altre sessioni si sono tenute presso il Pentagono, il Comando Centrale degli Stati Uniti a Tampa, il Dipartimento di Stato e altre agenzie.

Ma non era ancora abbastanza per prepararsi al crollo totale, nel giro di pochi giorni, dello sforzo americano di due decenni, da 2 trilioni di dollari, progettato per sostenere il governo afghano. Biden aveva insistito che l’esercito afghano avrebbe combattuto; in gran parte no. Blinken aveva deriso l’idea che Kabul sarebbe caduta durante un fine settimana; eppure lo ha fatto. Il “momento Saigon” che Biden temeva fosse arrivato.

Anche se migliaia di truppe americane si affrettano a salvare il personale statunitense e gli afghani frenetici che temono per la propria vita, le domande su come il governo degli Stati Uniti sia stato colto così alla sprovvista stanno crescendo. Per anni, i rapporti delle autorità di vigilanza avevano avvertito che l’esercito afghano era pieno di corruzione, morale basso e cattiva leadership. Ma pochi hanno apprezzato quanto fosse grave.

Il Dipartimento della Difesa ha dichiarato di aver condotto un’esercitazione al Pentagono diverse settimane fa che includeva scenari di evacuazione dall’aeroporto di Kabul. Ancor prima, il 28 aprile, Austin convocò un’esercitazione nel centro di comando del Pentagono per provare le varie fasi del ritiro, inclusa la possibilità di evacuare i non combattenti. Ma i militari sono rimasti sorpresi dalla velocità con cui i talebani si sono impossessati della capitale.

“Non c’era niente che io o chiunque altro abbiamo visto che indicasse un crollo di questo esercito e di questo governo in 11 giorni”, ha detto Milley ai giornalisti mercoledì.

Il caos all’aeroporto di Kabul durante il fine settimana e all’inizio di questa settimana, con le operazioni di volo temporaneamente sospese dopo che i disperati afgani si sono precipitati sulla pista, ha sollevato dubbi sulla pianificazione dell’amministrazione Biden per il ritiro, incluso se sia stato un errore chiudere la base aerea di Bagram.

Milley ha difeso la decisione dell’esercito di chiudere Bagram, che ha due piste per l’aeroporto di Kabul, ma dista quasi 40 miglia dall’ambasciata. Con meno di 2.500 soldati rimasti a terra in quel momento, ha detto Milley, i funzionari hanno dovuto scegliere tra mettere in sicurezza Bagram e l’aeroporto commerciale.

“Abbiamo dovuto far crollare l’uno o l’altro, ed è stata presa una decisione”, ha detto Milley. Biden, in un suo discorso questa settimana, ha espresso una difesa a tutto tondo delle sue azioni, dicendo: “Sono fermamente dietro la mia decisione”.

“Dopo 20 anni”, ha aggiunto, “ho imparato a mie spese che non c’era mai un buon momento per ritirare le forze statunitensi”.

È in arrivo un resoconto completo di ciò che molti altri a Washington vedono come una debacle. Repubblicani e Democratici arrabbiati al Congresso hanno promesso di condurre una serie di udienze di supervisione, esaminando potenziali fallimenti dell’intelligence e precedenti valutazioni delle capacità dell’esercito afghano.

“Sembra che tutti [il Pentagono] e la comunità dell’intelligence siano stati colti alla sprovvista dalla velocità dell’avanzata dei talebani su Kabul”, ha detto il rappresentante Seth Moulton (D-Mass.), membro del Comitato dei servizi armati e un Veterano della guerra in Iraq. “Come è possibile? È stata una mancanza di risorse focalizzate sul problema? Fallimento della pianificazione di emergenza? Altro?”

“Avremmo dovuto essere preparati per questa contingenza e chiaramente non lo eravamo”, ha aggiunto Moulton. “Se facessi i semplici calcoli non potresti eseguire questa operazione nell’arco di pochi giorni, nemmeno di qualche settimana. E non ci sono scuse per questo”.

Commento di Massimo Morigi su “USA/AFPAK: Secondo Tempo”, di Antonio de Martini

Commento di Massimo Morigi su “USA/AFPAK: Secondo Tempo”, di Antonio de Martini, articolo pubblicato sul “Corriere della Collera” (URL https://corrieredellacollera.com/2021/08/19/usa-afpak-secondo-tempo/#comment-69568, Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20210819153327/https://corrieredellacollera.com/2021/08/19/usa-afpak-secondo-tempo/) e sull’ “Italia e il Mondo” (URL http://italiaeilmondo.com/2021/08/19/usa-afpak-secondo-tempo-di-antonio-de-martini/, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20210819163424/http://italiaeilmondo.com/2021/08/19/usa-afpak-secondo-tempo-di-antonio-de-martini/)

Qualche anno fa, sul “Corriere della Collera”, imperdibile ed unico blog nel desolante panorama dell’informazione italiana, a proposito dell’approccio geostrategico degli Stati Uniti, ebbi a scrivere “strategia del caos applicata caoticamente”. Purtroppo, dopo gli ultimi fatti afghani, sempre il sopraddetto sistema dell’informazione italiana ed anche internazionale, per sviare l’attenzione da questo permanente dato di fondo, comincia ora timidamente ad incolpare Biden del disastro afghano, la qual cosa altro non è che cominciare a propalare a mezza bocca una verità (Biden è tecnicamente e dal punto di vista sanitario un cerebroleso al quale un sistema politico sano, non importa se “democratico” o di altra natura, avrebbe dovuto impedire di esercitare la pur minima responsabilità politica) per nascondere, appunto, la più importante verità intorno alla persistente natura caotica della politica estera americana, che va ben oltre Biden e la sua sgangherata e truffaldina amministrazione (detto per inciso, Biden è stato eletto tramite elezioni truccate, e quello che sempre i sopraddetti organi di informazione se fossero degni di questo nome avrebbero dovuto fare, non doveva essere ridicolizzare come complottisti e QAnonisti coloro che, del resto senza nemmeno tante difficoltà, si erano resi conto di questa realtà, ma semmai, rendere edotto il povero popolo bue che a memoria d’uomo non c’è mai stata una singola elezione presidenziale americana che non sia stata profondamente truccata: sulla evidente truffa elettorale che ha permesso al cerebroleso Biden di divenire presidente degli Stati uniti, non si può che rinviare alle numerose formidabili videointerviste di Giuseppe Germinario a Gianfranco Campa pubblicate sull’ “Italia e il Mondo” a partire dall’autunno del 2020 e che, verosimilmente, saranno anche nei prossimi mesi da altre seguite). Termino il discorso, se non per ribadire per l’ennesima volta, l’assoluta necessità per l’Italia di svincolarsi da un padrone d’oltreoceano così erratico, imprevedibile e pericoloso. La qual cosa, è ovvio, sarà possibile solo attraverso la crescita (o sarebbe meglio dire, la nascita) di una diffusa e pervasiva cultura politica italiana che attraverso l’abbattimento degli idola politico-filosofici nati nel secondo dopoguerra possa portare all’annientamento politico e d’immagine con conseguente ridicolizzazione presso la più vasta massa dell’oggi popolo bue dei già citati prezzolati e sgangherati organi d’informazione. Ma anche questo è un mio (e, ovviamente, non solo mio, medesima impostazione seguita prima dal “Corriere della Collera” di Antonio De Martini e poi anche dall’ “Italia e il Mondo” di Giuseppe Germinario ) vecchio discorso e una delle cose positive della vittoria talebana in Afghanistan (bando ai piagnistei, i talebani che hanno vinto, oltre che il risultato della stupidaggine del c.d. Occidente, è anche il risultato del valore guerriero di costoro, e il non riconoscerlo da parte di tutti i “grandi” commentatori e canali di rimbambimento di massa dovrebbe insinuare anche nei più inebetiti il sospetto sulla natura manipolatoria di questa pseudoinformazione: non fosse che solo per questo, essi meritano il nostro più profondo rispetto e la loro reductio ad Hitlerum non è altro che il segno della vecchia mentalità coloniale che si serve dei soliti mezzucci per far prosperare le vecchie e nuove botteghe ideologiche, quelle nuove, per chi non l’avesse capito, sono quelle originariamente di sinistra, dirittoumanistiche, democraticistiche et similia – oggi addirittura condivise anche da una destra priva di identità e che ha abbandonato del tutto la grande tradizione del realismo politico), è che dovrebbe costituire una sorta di “segnalatore d’incendio” sul fatto che se continueremo ad adagiarci sui vecchi idola politico-filosofici la sopravvivenza dell’Italia sarà messa in gravissimo pericolo. Di tutto ciò non sarebbe male discuterne nei prossimi mesi, con l’obiettivo, ovviamente, di allargare con tutti i mezzi il nostro uditorio, perché la consapevolezza della gravità della situazione non è mai mancata in questi anni, mentre del tutto insufficiente (per usare un eufemismo) è stata la capacità di “sbovizzare” il sopraddetto popolo.

Massimo Morigi – 19 agosto 2021

 

DARE VALORE AL VALORE AUTENTICO, di Antonio de Martini

Un grande ed essenziale Antonio de Martini
DARE VALORE AL VALORE AUTENTICO
Durante le ultime quattro presidenze della Repubblica, abbiamo lamentato una media quotidiana di uno – e a tratti due – morti di operai per incidenti sul lavoro.
Da tre a cinquecento vittime all’anno.
Nei venti anni di impegno in Afganistan, la Difesa ha comunicato che ben cinquantamila persone si sono avvicendate nell’area e le perdite sono state di 54 morti e 727 feriti.
Quando si lamentano perdite fatali dell’ordine dell’uno per mille in una campagna militare – pari a una media di quattro mesi di incidenti sul lavoro in Patria – un capo deve fare attenzione a scegliere bene le parole.
Il presidente Draghi – che deve la sua fama alla maestria con cui ha saputo gestire l’inflazione europea – dovrebbe fare attenzione anche all’inflazione di parole quali “ eroi”.
Buona parte dei nostri bravi ragazzi è saltata su una mina durante un trasferimento, così come buona parte degli “ eroi di Nassirya” è morta con una scopa in mano ( erano di corvée), perché stava curiosando attorno alla troupe che filmava la vita di caserma.
Eroi furono i militari di sentinella che continuarono fino alla fine a sparare sul camion che li ha travolti.
L’inflazione dei termini può provocare danni altrettanto gravi quanto quella monetaria e dura molto di più.
Alimentare equivoci su termini etici essenziali demotiva intere generazioni.

Banalità e inerzie di un disastro politico, di Roberto Buffagni

In questo articolo Michael Anton, (nello staff del National Security Council dal 2001 al 2005) spiega molto bene la dinamica delle decisioni che condussero gli USA al ventennale impegno in Afghanistan. Riassumo, di tanto in tanto commentando:
1) All’indomani dell’attacco alle Twin Towers, gli USA dovevano rispondere per conservare il prestigio scosso dalla violazione del territorio nazionale (la prima dalla guerra con l’Impero britannico del 1812)
2) La prima opzione fu per una ritorsione-lampo. Punizione di Al Quaeda e dei Talebani per mezzo di un rapido e violento attacco, guidato da un piccolo contingente americano che avrebbe “moltiplicato le forze” di alleati indigeni. L’operazione fallì: Osama Bin Laden e il suo Stato Maggiore riuscirono prima a rifugiarsi nelle caverne di Tora Bora, e poi a sfuggire.
3) COMMENTO: l’operazione implicava un accerchiamento, e le FFAA USA non padroneggiano bene la guerra di manovra. Se i comandanti USA sul terreno hanno delegato l’esecuzione dell’accerchiamento agli “alleati” afghani, probabile che questi abbiano favorito l’esfiltrazione di Osama.
4) Fallita la ritorsione – lampo, si comincia a discutere. Siamo stati attaccati dal terrorismo islamista: come si fa a prevenire altri attacchi?
5) Prevale l’idea che è necessario un approccio radicale: i paesi da cui vengono gli attacchi vanno democratizzati. Chi sostiene questa posizione crede che sia possibile farlo senza eradicare l’Islam e senza secolarizzare e occidentalizzare a forza le popolazioni. Secondo loro, responsabile del terrorismo non è l’Islam in quanto tale, ma i sistemi politici “chiusi”: la democrazia è compatibile con l’Islam. Infatti, gli americani che hanno scritto le costituzioni di Iraq e Afghanistan vi hanno lasciato un posticino anche alla sharia. Questa posizione risponde anche a un’esigenza di giustificazione etica delle azioni belliche, ed è conforme alla persuasione radicatissima negli USA che la democrazia sia in assoluto il miglior regime politico possibile. Nel dibattito interno all’Amministrazione Bush II ha notevole influenza l’analogia (totalmente sballata) con la IIGM, e la democratizzazione di Giappone e Germania.
6) COMMENTO: Ovviamente su questa posizione si butta a pesce un attore di grande rilievo, il “complesso militare-industriale”, che da un progetto di nation-building di proporzioni ciclopiche ha da lucrare valanghe di soldi. Ci si buttano a pesce anche i servizi d’informazione, che dal traffico di droga scremano fondi neri giganteschi, e sanno bene che l’Afghanistan produce il 90% dell’oppio mondiale. Dalla convergenza tra ideologia dominante e interessi colossali consegue quel che è conseguito, 20 anni di guerra in Afghanistan + relativa sconfitta, prevedibile (e prevista) sin dal giorno 1.

Occorre rifondare l’Europa delle nazioni per parlare di autonomia e autodeterminazione. Appunti di riflessione_di Luigi Longo

Occorre rifondare l’Europa delle nazioni per parlare di autonomia e autodeterminazione. Appunti di riflessione.

di Luigi Longo

Sul blog Italiaeilmondo è stato pubblicato, in data 12 agosto 2021, lo scritto Stati Uniti, Nato e Unione europea! L’illusione di un addio, il miraggio dell’autonomia di Giuseppe Germinario.

http://italiaeilmondo.com/2021/08/12/stati-uniti-nato-e-unione-europea-lillusione-di-un-addio-il-miraggio-dellautonomia_di-giuseppe-germinario/

Avanzerò in merito quattro riflessioni che saranno approfondite successivamente.

La prima. L’Unione europea è stata creata dagli Stati Uniti per le loro strategie di potenza: contrapposizione all’ex URSS, continua ricerca di coordinamento mondiale quale potenza egemone (obiettivo fallito, dopo dieci anni dall’implosione dell’ex URSS, per l’importanza assunta dalle potenze in ascesa, Cina e Russia). L’Unione europea, pertanto, non è un soggetto politico capace di una propria idea di sviluppo, o autonomia politica, né, tantomeno, una propria autodeterminazione in relazione mondiale, o un proprio ruolo nella relazione tra Occidente e Oriente, o una propria idea per contrastare il declino della civiltà occidentale. E’ occupata militarmente da basi Nato-Usa che incidono negativamente sullo sviluppo delle sue nazioni in tutte le sfere sociali (politiche, economiche, istituzionali, culturali, territoriali, eccetera). L’Europa occupata da basi Nato-Usa non è un territorio libero!

La seconda. L’Unione europea è funzionale alle strategie statunitensi fondamentalmente come strumento di contrasto alle due potenze mondiali in ascesa (con le loro dinamiche aree di influenza), ma soprattutto è funzionale al ruolo che può avere per contrastare il coordinamento, assai temuto dagli USA, tra Cina e Russia (coordinamento sempre più intenso in questa fase); per questo la UE sarà ancora mantenuta come istituzione di un grande spazio a servitù volontaria ma coordinata dalla Nato che agisce a livello mondiale nelle aree strategiche per il conflitto egemonico (Europa orientale, Mediterranei, Medio Oriente, Asia centrale, Pacifico). Diventa, a questo punto, relativamente importante la tattica (maggiordomo-governante-valletto-cameriere o vassallo-valvassore-valvassino per usare le metafore più utilizzate) degli Stati Uniti perché comunque sarà sempre finalizzata alla strategia di dominio sull’Europa. Quindi il problema reale è il dominio statunitense sull’Europa.

La terza. E’ velleitario sperare, vista l’attuale situazione oggettiva dei Paesi europei (partiti, governi, istituzioni, società), nella possibilità di creare una Europa con una minima autonomia. L’Unione Europea- occupata, gestita e governata dai cotonieri lagrassiani con peculiari caratteristiche nazionali storicamente date- seguirà le strategie statunitensi per frenare l’ascesa delle potenze (che invece mettono in discussione il loro dominio monocentrico per un dominio multicentrico del sistema mondo) e rilanciare la sfida, sia per tentare di fermare il loro declino (a mio avviso irreversibile), sia per l’egemonia mondiale. Per dirla con Carl Schmitt, l’alternativa è tra un mondo pluralista e multipolare, formato da grandi spazi autonomi e autocentrati, o un mondo unipolare dominato da una sola superpotenza.

Occorrerebbe un nuovo soggetto politico (che non sia zavorrato ancora dalla struttura storica del ‘900) capace, nel breve-medio periodo, di agire con una rivoluzione dentro il capitale per la ri-fondazione di una nuova idea dell’Europa espressione di una libera scelta delle nazioni e per la smilitarizzazione del territorio europeo con conseguente uscita dalla Nato. Occorrerebbe, cioè, lasciare perdere “l’unico popolo indispensabile nel mondo” come sosteneva il porco (traditore macchiavelliano del popolo) Bill Clinton e guardare a Oriente; tale soggetto politico potrebbe, nel lungo periodo, pensare ad una rivoluzione sessuata fuori dal capitale. E’ dalla rivoluzione sessuata fuori dal capitale che si può aprire realmente un nuovo continente storia e pensare la strada per contrastare il declino sempre più evidente della civiltà occidentale.

La quarta. La fase multicentrica si fa sempre più intensa: la guerra batteriologica della cosiddetta pandemia da covid-19 (di origine artificiale e statunitense, le ricerche su queste questioni sono sempre più rivelatrici) segna una frattura tra un prima e un dopo questo evento che ha poco a che fare con la salute, nel senso che la malattia è una influenza particolare, per dirla con Giulio Tarro, curabile tranquillamente con medicinali disponibili così come è stato dimostrato praticamente e scientificamente dai medici (che hanno ricordato con il loro operato che la scienza non è neutrale, grande insegnamento di Giulio Maccacaro) che sono andati oltre la legge e hanno salvato vite umane, tranquillamente, nonostante la marginalizzazione e l’ostilità governativa che aveva bisogno di creare paure e terrore con l’intasamento degli ospedali e la relativa riconversione in ospedali covid-19 con danni, anche mortali, per i malati con gravi patologie (qui la statistica nulla dice, vero?!). La vaccinazione in atto, fatta in via sperimentale, con protocolli pseudoscientifici, sulla pelle delle popolazioni e nascondendone gli effetti collaterali, è un delitto (Per Luc Montagnier non si tratta di vaccini, di fatto li definisce “miscele di composti di biologia molecolare che possono essere dei veri e propri veleni. Sono inutili, pericolosi e anche inefficaci: non impediscono la trasmissione del virus e non evitano i casi più gravi come invece dicono. Negli ospedali ci sono persone vaccinate che sono state infettate e contagiate dalle varianti, contro le quali, questi vaccini non sono efficaci”). E’ assurdo produrre vaccini quando una malattia è curabile normalmente; è assurdo prendere a campione della sperimentazione la quasi totalità della popolazione mondiale; è assurdo vaccinare in piena pandemia mentre il virus continua a sviluppare nuove e sconosciute varianti. Questo modo di procedere favorirà il prolungamento dello stato di emergenza e giustificherà qualsiasi decisione caotica quale, ad esempio, quella di vaccinare la popolazione giovanile con l’effetto di abbassamento delle difese immunitarie proprio nel momento in cui gli esperti denunciano l’aumento, tra i giovani, di crisi depressive dovute alle stupide pratiche di isolamento, per non parlare della didattica a distanza, deprivante del confronto e dello scambio in presenza, l’unico capace di produrre l’apprendimento efficace, che passa nella interazione dei corpi e promuove la conoscenza di sè e dell’altro; gli effetti negativi di questa pratica didattica supertecnologica (non garantita a tutti!) si vedranno a breve nella scuola di ogni ordine e grado.

In questa fase multicentrica, ora è evidente, l’obiettivo non è la tutela della salute delle popolazioni, ma l’accelerazione verso un nuovo modello che accentra sempre più il potere decisionale per il controllo capillare, sociale e territoriale, grazie alla rivoluzione informatica e digitale (la Cina è molto avanti in questa direzione!) che rimodellerà la vita nelle relazioni individuali e sociali, nell’uso degli spazi, dei territori, delle città e coinvolgerà la ristrutturazione, la riconversione e la trasformazione di tutte le sfere della produzione e della riproduzione sociale. Un rimodellamento della vita basato sulla mancanza di relazioni individuali e sociali è una rivoluzione antropologica già in atto, con l’aggravante che il sistema immunitario umano è sempre più debole. Si va verso un nuovo paradigma sociale che porta dritto al nichilismo, che è il massimo pericolo per l’umanità, se non si creeranno la necessità e la possibilità di frenare questa discesa nel baratro.

E’ la fase multicentrica che impone a) l’accentramento della filiera del comando, b) un nuovo modello di relazioni individuali e sociali, di sviluppo e di rapporti sociali, c) il dinamico posizionamento delle nazioni nei nascenti centri di potenza.

Dietro la pseudo pandemia da covid-19, che in superficie presenta problemi reali come la malattia (curabile con normali cure), gli interessi di Big Pharma (che inventa vaccini sperimentali sulla pelle della popolazione mondiale), la ristrutturazione della sanità (riducendone la garanzia sociale a favore di quella privata, di fatto l’americanizzazione della salute), c’è il conflitto strategico all’interno delle singole potenze e tra le potenze mondiali in ascesa e in relativo declino.

USA/AFPAK: SECONDO TEMPO, di Antonio de Martini

USA/AFPAK: SECONDO TEMPO

CONTRATTACCO FINANZIARIO USA. PARTE IL SOFFOCAMENTO FINANZIARIO. PROVOCHERÀ RITORSIONI TERRORISTICHE?

L’ex capo della CIA Leon Panetta collega il Pakistan con i recenti avvenimenti ( ai suoi tempi crearono la soglia AFPAK per dire che i due paesi erano un tutt’uno, si profila una nuova fase della guerra in Asia.

li Stati Uniti hanno il controllo su tutte le riserve di cambio dei paesi più o meno satelliti e con l’Afganistan non hanno fatto eccezione: hanno appena bloccato nove miliardi di dollari – in contanti e buoni del tesoro USA – depositati a garanzia in banche americane.
Il pretesto adottato é che attualmente non esiste attualmente un governo riconosciuto dell’Afganistan.

Sono entrati venti anni fa infischiandosene della legalità internazionale e adesso escono facendo i legalitari ad oltranza.

Anche l’ FMI ha annunziato che lunedì non liquiderà un fondo speciale di prelievo già concesso senza garanzie all’Afganistan.
Queste notizie sono state date dal governatore della Banca centrale tempestivamente fuggito domenica sera.

Da notare e sottolineare il fatto che questo provvedimento iugulatorio, adottato anche contro il Venezuela, nel 2014, gli USA non lo presero a carico del DAESCH che si impossessò di circa un miliardo di dollari dei fondi del governo regionale curdo di Mossul e li spese per finanziare le sue attività.

Viene da chiedersi con chi stianno realmente questi indecifrabili bugiardi o se non sia meglio rimpatriare il nostro oro per metterlo in sicurezza.

Viene anche da chiedersi se non si rendano conto che il blocco finanziario potrebbe affrettare l’arrivo della influenza cinese. O lo hanno fatto perché preferiscono i cinesi ai russi. Non hanno ancora capito che ora si confrontano col blocco Russia-Cina?

Prevedo che i Talebani potrebbero reagire autonomamente a questa misura bloccando gli espatri da Kabul e collegando i visti di uscita ( anche di americani, o di occidentali) con lo sblocco dei loro fondi; oppure seguire l’esempio iraniano coi francesi, lanciando attacchi terroristici – ovviamente anonimi- a strutture governative o finanziarie americane ovunque si trovino. Ad esempio a Londra o Amsterdam.

https://corrieredellacollera.com/2021/08/19/usa-afpak-secondo-tempo/

IL DEMOCRATICO SORRIDENTE ( nella foto)
Il presidente afgano testé uscito, Ashraf Ghani, qui ritratto con al fianco la moglie libanese Rula, secondo fonti russe avrebbe lasciato il paese “ con un elicottero, giungendo in aeroporto con 4 autovetture contenenti 169 milioni di dollari.”
Sempre secondo gli stessi testimoni, non essendo riusciti a stipare tutto sull’aeromobile, una parte é stata abbandonata sulla pista.
Dopo una sosta in Tagikistan , e la notifica di “persona non grata” delle autorità di Dushanbé, é partito alla volta di Dubai dove gli é stato accordato l’asilo “per motivi umanitari”.
L’ex presidente era in carica dal 2014. Un settennio. Come Mattarella.

Affrontare la realtà: una nuova strategia americana _ Di  George Friedman

Pericle è tornato_Giuseppe Germinario

Affrontare la realtà: una nuova strategia americana

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Gli Stati Uniti sono stati in guerra per quasi l’intero 21° secolo, ed è appena il 2021. Al contrario, gli Stati Uniti sono stati in guerra solo per il 17% dell’intero 20° secolo, durante il quale hanno vinto le guerre mondiali, subito sconfitte che hanno portato a trasformazioni esistenziali del Paese e quindi dell’ordine internazionale. Ma proprio come ha perso la Corea e il Vietnam – guerre che non erano una minaccia esistenziale – così ha perso anche in Iraq e Afghanistan.

Ciò potrebbe suggerire che gli Stati Uniti si impegnano in troppi conflitti che sono subcritici e sono negligenti nel modo in cui li combattono, mentre combattono guerre critiche con grande precisione. Ma per capire perché, dobbiamo iniziare a capire la realtà geopolitica degli Stati Uniti. La geopolitica definisce gli imperativi e i vincoli di una nazione. La strategia modella quella realtà in azione. E la sconfitta degli Stati Uniti in Afghanistan dopo 20 anni impone una rivalutazione della strategia nazionale americana, non solo di come combattiamo le guerre, ma anche di come determiniamo quali guerre dovrebbero essere combattute.

Il problema delle grandi guerre, però, è che sono rare, o dovrebbero esserlo. Il sistema internazionale in genere non si sviluppa abbastanza rapidamente da permettere alle grandi potenze di sfidarsi a lungo. Eppure, dalla Seconda Guerra Mondiale alla Corea sono passati solo cinque anni. Il Vietnam è arrivato 12 anni dopo, poi Desert Storm e Kosovo negli anni ’90, e ovviamente Iraq e Afghanistan nei primi anni 2000. La frequenza delle guerre solleva la questione critica se siano state imposte agli Stati Uniti o selezionate da loro, e se la storia si stia muovendo così rapidamente ora che anche il ritmo della guerra ha accelerato. Se quest’ultima dinamica non è reale, allora c’è una forte possibilità che gli Stati Uniti stiano seguendo una strategia difettosa che indebolisce profondamente il suo potere, limitando la sua capacità di controllare gli eventi mondiali.

Principali conflitti militari statunitensi dalla seconda guerra mondiale
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La misura chiave della strategia è la sua relativa semplicità. La geopolitica è complessa. Le tattiche sono dettagliate. La strategia dovrebbe, in teoria, essere semplice nella misura in cui rappresenta la spinta principale degli imperativi di una nazione. Per gli Stati Uniti, quella strategia potrebbe consistere nel controllare le strettoie oceaniche evitando piani dettagliati per altre aree del mondo. Una strategia di successo deve rappresentare il nucleo essenziale dell’intento di una nazione. L’eccessiva complessità rappresenta incertezza o, peggio, un compendio di imperativi strategici che superano la capacità di una nazione di eseguire o comprendere. Una nazione con un eccesso di obiettivi strategici non ha fatto le scelte difficili su cosa conta e cosa no. La complessità rappresenta una riluttanza a prendere quelle decisioni. L’inganno è una questione tattica. L’autoinganno è un fallimento strategico. Solo così si può fare tanto; comprendere le priorità senza ambiguità e resistere all’espansione strisciante della strategia è l’arte indispensabile dello stratega.

La realtà geopolitica degli Stati Uniti

1. Gli Stati Uniti sono virtualmente immuni agli attacchi terrestri. È affiancato da Canada e Messico, nessuno dei quali è in grado di costituire una minaccia. Ciò significa che le forze armate statunitensi sono principalmente progettate per proiettare il potere piuttosto che difendere la patria.

Realtà geopolitica degli Stati Uniti
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2. Gli Stati Uniti controllano gli oceani del Nord Atlantico e del Pacifico. Un’invasione dall’emisfero orientale dovrebbe sconfiggere le forze aeree e navali statunitensi in uno di questi oceani in modo tale da impedire l’interdizione di rinforzi e rifornimenti.

3. Qualsiasi minaccia esistenziale per gli Stati Uniti proverrà sempre dall’Eurasia. Gli Stati Uniti devono lavorare per limitare lo sviluppo di forze, soprattutto navali, che potrebbero minacciare il controllo statunitense degli oceani. In altre parole, la chiave è deviare l’energia militare eurasiatica dal mare.

4. Le armi nucleari sono una forza stabilizzatrice. È improbabile che la Guerra Fredda sarebbe finita così senza che due potenze nucleari gestissero il conflitto. Le armi nucleari hanno essenzialmente impedito la terza guerra mondiale. Il mantenimento di una forza nucleare stabilizza il sistema e impedire l’emergere di nuove potenze nucleari è auspicabile ma non del tutto essenziale.

5. La posizione degli Stati Uniti in Nord America ne ha fatto la più grande economia del mondo, il più grande importatore di beni e la più grande fonte di investimenti internazionali. Gli Stati Uniti sono anche un generatore di cultura internazionale. Definisce anche la cultura IT in tutto il mondo. Questo può essere un sostituto del potere militare, in particolare prima di situazioni di prebelliche.

6. L’interesse primario degli Stati Uniti è mantenere un sistema internazionale stabile che non metta in discussione i confini statunitensi. Ha poco interesse nell’assunzione di rischi. Il rischio maggiore viene dai tentativi di mantenere il controllo dei mari poiché solo le grandi potenze possono minacciare l’egemonia marittima statunitense.

7. La grande debolezza degli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale consiste nel fatto che viene trascinata in conflitti che non sono nell’interesse geopolitico degli Stati Uniti e che diffondono il potere degli Stati Uniti per un lungo periodo di tempo. Ciò viene fatto principalmente, ma non esclusivamente, dal terrorismo strategico attuato da nazioni o attori non nazionali.

8. Gli Stati Uniti sono un progetto morale e, come tutti i progetti morali, pensano che il proprio modello sia superiore agli altri. L’intervento morale è raramente nell’interesse geopolitico degli Stati Uniti e non finisce quasi mai bene. Per gli Stati Uniti, la tentazione di impegnarsi in queste guerre dovrebbe essere evitata per concentrarsi sugli interessi diretti e perché questi interventi spesso fanno più male che bene. Se l’intervento è ritenuto necessario, dovrebbe essere spietatamente temporaneo.

Attuazione della strategia

1. Nord America: mantenere il dominio e l’armonia degli Stati Uniti in Nord America è fondamentale per tutta la strategia degli Stati Uniti. Messico e Canada non possono minacciare militarmente gli Stati Uniti, ed entrambi sono legati agli Stati Uniti economicamente. Tuttavia, qualsiasi potenza ostile agli Stati Uniti accoglierebbe con favore l’opportunità di coinvolgere entrambi i paesi in una relazione con essi. È imperativo che gli Stati Uniti seguano una strategia che renda sempre una relazione con gli Stati Uniti molto più attraente di un’alleanza di terze parti.

2. Atlantico e Pacifico: il controllo degli oceani è principalmente un problema tecnico. Mentre un tempo veniva raggiunto dalle corazzate e poi dalle portaerei, ora è una questione di missili a lungo raggio e altre armi. La chiave è conoscere la posizione del nemico in un ambiente in cui gli aerei non possono sopravvivere facilmente su una flotta. Poiché la chiave per il comando del mare è ora la ricognizione per il targeting delle informazioni, i sistemi spaziali seguiti da veicoli aerei senza equipaggio sono la variabile critica nel controllo del mare. La US Navy e la US Space Force (man mano che maturano) saranno i servizi più importanti che controlleranno i mari d’ora in poi.

3. Eurasia: gli Stati Uniti affrontano l’Eurasia su due fronti: attraverso l’Atlantico si affacciano sull’Europa e attraverso il Pacifico si affacciano sull’Asia orientale. Dopo la seconda guerra mondiale, l’Europa era l’obiettivo principale di Washington. La minaccia dell’epoca era l’Unione Sovietica. L’idea era che una penisola europea conquistata dall’Unione Sovietica avrebbe fornito la tecnologia e il personale per costruire una flotta che potesse sfidare gli Stati Uniti. La soluzione era creare la NATO. La NATO e il concetto di distruzione reciprocamente assicurata bloccarono l’espansione sovietica verso ovest e, nel caso scoppiasse la guerra, avrebbero dissuaso la marina sovietica dal tentativo di controllare le rotte marittime a tentare di interdire i convogli statunitensi che rafforzavano la NATO. La minaccia ora è il tentativo della Cina di assicurarsi l’accesso al mare. Gli Stati Uniti hanno creato un’alleanza informale che si estende dal Giappone all’Oceano Indiano per contenere la Cina. Ha anche usato il potere economico per fare pressione sulla Cina. La chiave in entrambe le strategie era una risposta tempestiva e l’uso della potenza militare per aumentare il rischio di guerra da parte sovietica o cinese e poi aspettare di vedere le loro mosse.


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4. Armi nucleari: la soggezione e il senso di sventura generati dalle armi nucleari sono diminuiti dalla fine della Guerra Fredda, ma le armi nucleari sono ancora l’arma americana per antonomasia. La strategia degli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale consiste nel costruire confini contro nemici significativi per vedere come reagiscono, ad esempio spingendo i confini o invitando a uno scontro stabile. In questo caso, le armi nucleari sono il muro. Non sono uno strumento offensivo per un Paese che dovrebbe evitare operazioni offensive. Sono stabilizzatori per un Paese che ha bisogno di perseguire lo status quo.

5. Economia: nella maggior parte dei paesi, l’economia limita sia la prontezza che il potere deterrente di un esercito. Negli Stati Uniti, l’economia in realtà fornisce entrambi. In termini di potere d’acquisto, crea una base interna stabile in grado di generare tecnologia militare e una forza significativa. In termini di gestione delle relazioni globali, l’economia prevede incentivi e sanzioni non militari. Essendo il più grande importatore al mondo, la capacità degli Stati Uniti di limitare gli acquisti può rimodellare la politica. Usata con prudenza, la disponibilità ad acquistare beni da un Paese può creare relazioni che prevengono la necessità di un’azione militare. Washington ha bisogno di sviluppare un programma economico strategico che riduca il rischio di combattimenti e aumenti i potenziali alleati che potrebbero essere preparati a sostenere l’onere dei conflitti condivisi.

6. Raggiungere l’interesse primario: l’interesse primario degli Stati Uniti è proteggere la patria dall’invasione straniera. Lo scopo di tale sicurezza è mantenere un sistema economico in grado di fornire ricchezza al pubblico americano e mantenere il regime. In parole povere, alcune cose minacceranno la sicurezza e altre no. Per quelle cose che minacciano la nazione, ci deve essere un attento calcolo se la minaccia e il costo della mitigazione della minaccia sono allineati. Il grande pericolo degli Stati Uniti è stato quello di riconoscere le minacce senza riconoscere né il costo né la probabilità di contenerle con successo. Ciò ha portato a una serie di guerre che gli Stati Uniti non hanno vinto e che hanno distolto l’attenzione dagli interessi fondamentali mentre a volte destabilizzavano la nazione.

7. Terrorismo: i gruppi terroristici sono piccoli e diffusi e quindi non possono essere contrastati con l’azione militare tradizionale. Di volta in volta, i militari lottano per determinare dove si trovano questi gruppi e contenerli, anche se si trovano in un paese noto per ospitarli (l’Afghanistan, per esempio). Le organizzazioni di intelligence e le forze speciali sono essenziali in questo senso. La strategia nazionale non può essere deviata dagli interessi geopoliticamente definiti perché così facendo disperde il potere degli Stati Uniti contro un gruppo che non rappresenta una minaccia esistenziale contro gli Stati Uniti.

Schieramento delle truppe statunitensi per regione
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Ci sono, ovviamente, questioni di politica estera che devono essere gestite ma che non costituiscono una parte significativa della strategia nazionale. Il dilemma è che coloro che lavorano su tali questioni le considerano estremamente importanti, come dovrebbero. Ma questo si trasforma in una questione burocratica o politica. I funzionari del Dipartimento di Stato Minore cercheranno l’importanza e i presidenti cercheranno i voti. La strategia nazionale può essere chiara, ma la sua amministrazione è complessa. Alla fine spetta al presidente stabilire i confini sempre mutevoli e preservare il carattere essenziale della strategia nazionale. Altrimenti, questioni minori possono diventare grandi guerre e distruggere una presidenza.

Guerre non strategiche: Vietnam e Afghanistan

La decisione di entrare in guerra in Afghanistan era radicata in un fraintendimento della geopolitica e della strategia americana, non diversamente da quanto accaduto in Vietnam decenni prima. Gli Stati Uniti hanno combattuto la seconda guerra mondiale per impedire il consolidamento dell’Europa sotto un’unica potenza. Ciò si basava su un imperativo americano prevalente: impedire una sfida al dominio americano dell’Atlantico. La seconda guerra mondiale dissolse la Germania, ma l’Unione Sovietica emerse come la nuova minaccia in grado di dominare l’Europa. Un’alleanza americana, la NATO e il pericolo di una guerra termonucleare hanno bloccato l’espansione sovietica. L’Europa è stata effettivamente bloccata.

Gli Stati Uniti l’hanno interpretata come una lotta contro il comunismo. In parte, questo era corretto, dal momento che i sovietici volevano indebolire gli Stati Uniti. Con le armi nucleari che rendevano impossibile lo scontro diretto, l’unica strategia aperta ai sovietici era tentare di aumentare la presenza dei regimi comunisti al di fuori dell’Europa, nella speranza che gli Stati Uniti riducessero la loro presenza in Europa per affrontarli. Gli Stati Uniti erano sensibili alla diffusione dei regimi comunisti ma generalmente rispondevano solo con pressioni politiche ed economiche e operazioni segrete. Un’eccezione è stata la crisi missilistica cubana, che è stata una minaccia fondamentale alla sicurezza del Nord America e che gli Stati Uniti hanno contrastato minacciando una guerra, portando alla capitolazione sovietica. Dopo la Corea, non ci furono più guerre anticomuniste su vasta scala fino al Vietnam. Gli Stati Uniti considerarono l’ascesa di un’insurrezione comunista in Vietnam più minacciosa di quando lo stesso accadde in Congo o in Siria.

Il Vietnam non rappresentava una minaccia strategica per gli Stati Uniti. Anche unificato non poteva minacciare il controllo statunitense del Pacifico, e la caduta del Vietnam rappresenterebbe solo un’estensione del Vietnam del Nord. Ma gli Stati Uniti hanno visto due ragioni per intervenire lì. Uno era la teoria del domino, in cui la caduta del Vietnam avrebbe portato alla diffusione del comunismo in tutto il sud-est asiatico. La seconda ragione era la credibilità. Il sistema di alleanze degli Stati Uniti, in particolare la NATO, dipendeva dalla convinzione che gli Stati Uniti avrebbero adempiuto agli obblighi di resistere all’espansione comunista. Gli Stati Uniti erano particolarmente preoccupati per l’Europa, dove il presidente francese Charles de Gaulle sollevava dubbi sull’affidabilità americana e sosteneva un deterrente nucleare indipendente. Qualsiasi cambiamento nell’alleanza sarebbe parziale ma indebolirebbe il muro che contiene i sovietici.

Le parole “domino” e “credibilità” hanno orientato la causa dell’intervento in Vietnam. Non è stata menzionata la possibilità che una sconfitta possa accelerare questi processi. Alla fine, il fatto che si trattasse di un’espansione comunista ha prevalso su qualsiasi considerazione che si trattasse di una guerra non strategica. Un altro fatto è stato ignorato. Durante la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti stavano rispondendo all’aggressione piuttosto che iniziare la guerra. Ciò ha fatto una differenza fondamentale nel dinamismo politico interno. In Vietnam, gli Stati Uniti dovevano avere successo in una guerra non strategica, una guerra che non sembrava essenziale e non era essenziale.

La necessità di mantenere un consenso politico per la guerra del Vietnam non era un lusso. È stato cruciale. Ma i leader americani credevano che le forze statunitensi avrebbero potuto schiacciare rapidamente i Viet Cong e l’esercito nordvietnamita. Il problema era che l’esercito americano era stato creato per una guerra europea, una guerra strategica. È stato addestrato a combattere contro una spinta corazzata sovietica usando aerei, corazze e la complessa logistica necessaria per supportare tale operazione. L’esercito non è stato formato per combattere una guerra contro la fanteria leggera e mobile in un terreno che va dalle colline alle giungle. Washington presumeva che gli attacchi aerei su Haiphong avrebbero costretto alla capitolazione e non comprendeva né l’impegno quasi religioso delle truppe vietnamite né la spietatezza del regime nordvietnamita. Gli Stati Uniti si sono avvicinati il ​​più possibile alla vittoria dopo la fallita offensiva del Tet, ma i fallimenti del comando, problemi logistici e vincoli operativi, insieme al rapido rafforzamento da parte del Nord, lo rendevano impossibile. E questo è stato integrato da un fraintendimento dell’evento da parte della stampa americana che è stato determinante nel portare il pubblico americano contro la guerra.

Il problema con la guerra del Vietnam era che non era strategicamente necessario. L’opinione pubblica degli Stati Uniti sancirebbe una vittoria a buon mercato, ma non una guerra senza fine. Sapeva che né la teoria del domino né la credibilità dell’America dipendevano da questo. I comandanti in guerra avevano combattuto nella seconda guerra mondiale, dove entrambi i fronti erano strategicamente essenziali. Loro e le loro truppe non erano abituati ad accettare una guerra che sarebbe durata sette anni prima della capitolazione americana.

Un processo simile è avvenuto in Afghanistan. Come nazione, l’Afghanistan non era strategico per gli Stati Uniti. Al-Qaeda aveva pianificato l’attacco dell’11 settembre da lì, e l’uso iniziale della CIA, di alcune forze speciali statunitensi e delle tribù anti-talebane per sconfiggere il gruppo aveva senso. Ma al-Qaeda fuggì in Pakistan, e dovette essere presa la decisione di ritirarsi o tentare di prendere il controllo dell’Afghanistan. La risposta ovvia era andarsene, ma quella scelta era restare e cominciare lanciando attacchi aerei su varie città afgane. I talebani controllavano quelle città e l’attacco aereo aveva lo scopo di distruggerle. Lasciarono le città e c’era speranza che la guerra fosse vinta. Ma i talebani si erano semplicemente ritirati e dispersi, e nel tempo si sono raggruppati nelle aree da cui provenivano e che conoscevano meglio.

La missione si è evoluta nel tentativo di distruggere una forza profondamente radicata nella società e nella geografia afghane. I talebani potevano essere contenuti nelle loro aree, con un costo di vittime, ma era impossibile farli cadere. Se i Viet Cong hanno combattuto con un impegno quasi religioso, i talebani hanno combattuto con un impegno religioso genuino. Gli Stati Uniti hanno cercato di creare un esercito nazionale afghano filoamericano come avevano creato l’esercito della Repubblica del Vietnam. L’idea di creare un esercito nel bel mezzo di una guerra ha molti difetti, ma il più grande è che le prime reclute che avrebbero ricevuto sarebbero state inviate dai comunisti o dai talebani. Il risultato fu un esercito che aveva il nemico in posizioni strategiche. Il nemico avrebbe anticipato qualsiasi offensiva che il nuovo esercito avrebbe potuto organizzare.

Viene creata una forza militare per soddisfare gli imperativi strategici. Quando viene combattuta una guerra non strategica, le probabilità sono schiaccianti che la forza, e in particolare la struttura di comando, non sia pronta. Il Vietnam ha impiegato sette anni. L’Afghanistan ha impiegato 20 anni. Nessuna delle due guerre è finita per mancanza di pazienza da parte degli americani. Sono finite perché il nemico era maturato; in Vietnam e Afghanistan, mentre le truppe statunitensi entravano e uscivano a rotazione, il nemico era in casa. E finirono perché ciò che era stato vero per anni era diventato manifesto: gli Stati Uniti non potevano vincere e nessun grande danno ai segreti americani sarebbe derivato dalla fine della guerra.

Nessuna guerra rientrava nella strategia imposta agli Stati Uniti dalla realtà geopolitica. Nessun esercito è stato progettato per combattere una guerra contro una fanteria leggera impegnata, esperta e agile. Combattere una guerra non strategica indebolisce inevitabilmente i militari schierati. E in entrambe le guerre, il nemico potrebbe essere stato sottovalutato, ma una forza americana mal preparata è stata notevolmente sopravvalutata. Ciò che ne seguì non fu il fallimento delle truppe a terra. È stato un fallimento dell’addestramento, del comando e, soprattutto, del fatto che le truppe statunitensi volessero tornare a casa. I talebani erano a casa.

La geopolitica definisce la strategia. La strategia definisce la forza. Il prezzo di impegnarsi in una guerra non strategica è alto e la tentazione di combattere guerre non strategiche è grande. Si aprono con vero allarme e scendono lentamente verso il fallimento. Altrettanto importante, distraggono dalle priorità strategiche della nazione. La guerra del Vietnam ha notevolmente indebolito le capacità statunitensi in Europa, una debolezza di cui i sovietici non hanno approfittato. L’Afghanistan non ha indebolito la forza, ma ancora una volta ha scosso la sua fiducia e la fiducia del pubblico statunitense. Tuttavia, non ha diminuito il potere americano.

Le due guerre sono durate quanto sono durate perché i presidenti coinvolti (è sempre il presidente) hanno trovato più facile continuarle che finirle. Perdere una guerra è difficile. Decidere di aver perso una guerra ancora in corso e fermarla è più difficile. E questo è il prezzo da pagare per le guerre non strategiche.

Dal non strategico all’estremamente strategico: la Cina

La minaccia sovietica all’Europa e all’Atlantico fu gestita senza guerra. La natura strategica della minaccia ha imposto una chiara comprensione, forze appropriate e sostegno politico. A tempo debito la parte più debole, i sovietici, si incrinò sotto la pressione economica imposta dagli Stati Uniti. Questo è il risultato strategico ideale.

La minaccia in Europa è notevolmente diminuita. I russi stanno cercando di riconquistare i territori perduti, ma non sono in grado di minacciare l’Europa. La struttura dell’alleanza transatlantica creata dagli Stati Uniti non è più rilevante e non lo sarà per anni, se non mai. Le alleanze sono vitali per generare ulteriore potere militare ed economico. Forniscono vantaggi geografici e spostano la psicologia degli avversari. Ma con l’evolversi della condizione strategica, anche l’alleanza evolve. La realtà strategica del 1945 era una Russia potente e un’Europa debole. La situazione strategica oggi è una Russia indebolita e un’Europa prospera. La necessità della NATO, quindi, si sposta su qualcosa di meno centrale nella politica statunitense e meno definita da ciò che deve essere fatto, così come si sposta negli altri membri. Il pericolo di alleanze che sopravvivono alla loro utilità è una distorsione della strategia nazionale tale da poter indebolire gli Stati Uniti invece di rafforzarli. Lo scenario peggiore è che possano trascinare gli Stati Uniti in politiche e guerre che minano piuttosto che rafforzare la loro sicurezza nazionale.

Divisione Europea, 1990
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Il ridimensionamento del teatro europeo lascia gli Stati Uniti liberi di fare i conti con l’Oceano Pacifico e la potenziale minaccia della Cina. La Cina ha urgente bisogno di costringere gli Stati Uniti a ritrarsi, lontano dalle sue coste e più in profondità nel Pacifico. Ciò è iniziato con la richiesta americana di parità di accesso al mercato cinese, il rifiuto della Cina e l’imposizione di dazi alla Cina da parte degli Stati Uniti. La questione economica non era critica, ma la Cina ha ragionevolmente tratto la conclusione che la visione degli Stati Uniti della Cina era cambiata e che la Cina doveva essere preparata per uno scenario peggiore.

Il caso peggiore sarebbe che gli Stati Uniti impongano un embargo ai porti della costa orientale della Cina e/o lungo le strettoie dell’isola a est della Cina. La Cina è una potenza mercantile dipendente dal commercio marittimo. La chiusura dei porti, così come dello Stretto di Malacca, paralizzerebbe la Cina. Gli Stati Uniti non l’hanno minacciato, ma la Cina deve agire nello scenario peggiore. Gli Stati Uniti hanno creato una struttura di alleanza informale che riguarda la Cina. Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Filippine, Indonesia, Vietnam e Singapore sono tutti formalmente o informalmente allineati con gli Stati Uniti, o semplicemente ostili alla Cina. Inoltre, India, Australia e Regno Unito sono attivamente coinvolti in questa quasi-alleanza. La Cina deve presumere che a un certo punto gli Stati Uniti cercheranno di fare pressione se non sui porti, quindi con un blocco di questa linea di isole.

Partner statunitensi e Chokepoint marittimi cinesi
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Gli Stati Uniti sono grosso modo nella posizione in cui si trovavano durante la Guerra Fredda. Ha un’alleanza che gli fornisce la geografia necessaria per affrontare un attacco cinese, per lanciare un attacco o semplicemente per mantenere la sua posizione. La Cina deve agire per cambiare questa realtà. Un’opzione sono le maggiori concessioni economiche agli Stati Uniti e ad altre di questo gruppo. Un’altra opzione è lanciare un attacco progettato per rompere la linea di blocco. Un altro è semplicemente mantenere questa posizione a meno che e fino a quando gli Stati Uniti non si muovano. O forse la Cina potrebbe fare ciò che hanno fatto i sovietici: creare una minaccia non strategica a cui gli Stati Uniti non possono resistere, dato il suo noto appetito per il non strategico.

Lanciare una guerra apre le porte alla sconfitta oltre che alla vittoria. La Cina non può essere certa di cosa accadrebbe, e non è chiaro quale sarebbe il conto di una sconfitta. L’economia cinese è sempre sotto pressione, con un vasto numero di persone relativamente povere. Le concessioni economiche non sono una possibilità. Rimanere in questa posizione consente agli Stati Uniti di fare la prima mossa e, dato quello che la Cina vede come avventurismo militare statunitense, Pechino non è sicura che gli Stati Uniti non sopravvaluteranno il potere della Cina. Pertanto, la scelta più probabile sarebbe un diversivo.

I cinesi hanno la capacità di imporre un cambio di regime in qualsiasi numero di paesi che agli Stati Uniti sembrerebbe una sfida diretta, come hanno fatto Vietnam e Afghanistan. La tendenza degli Stati Uniti ad accettare queste sfide non strategiche include anche l’Iraq e, in una certa misura, la Corea. La Cina potrebbe trarre la stessa conclusione dei sovietici, ovvero che gli Stati Uniti risponderanno a una minaccia anche se non strategica. La Cina non è impegnata in tali attività da molto tempo, ma la situazione attuale è più rischiosa di prima. La creazione di un diversivo potrebbe essere vista come l’opzione a basso rischio.

Questo è l’ultimo problema con il secolo americano: è reattivo e talvolta reagisce all’amico gettato sull’acqua dai suoi nemici nella speranza che gli Stati Uniti mordano. Il problema centrale è che la strategia degli Stati Uniti non è guidata dallo strategico e, di conseguenza, è stato difficile distinguere il non strategico dallo strategico. È necessaria una nuova strategia americana per fornire la disciplina per evitare un tentativo cinese di deviare gli Stati Uniti.

L’esito ideale della controversia tra Stati Uniti e Cina è una soluzione negoziata. Nessuno dei due può assorbire il costo della guerra, sebbene gli Stati Uniti abbiano un vantaggio geografico che può neutralizzare qualsiasi vantaggio bellico che la Cina potrebbe aver guadagnato. E questo è il punto della strategia. Primo, la guerra deve essere rara, non la norma. Evitare la guerra richiede un pensiero geopolitico, strategico e disciplinato. Gli Stati Uniti sono stati in prima linea in Europa per 45 anni e hanno posto fine al conflitto con l’Unione Sovietica in modo pacifico, ad eccezione della guerra del Vietnam, che non era materiale. Gli Stati Uniti e la Cina manovreranno sul Pacifico occidentale, ma se gli Stati Uniti si concentrano sulla strategia, probabilmente non finiranno in guerra. La preparazione alla guerra è essenziale. Buttare via quella preparazione su distrazioni non strategiche e sanguinose è l’abitudine che la classe dirigente americana deve superare.

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La guerra delle banane del 1954. Complotto o convergenza di interessi? _ di Davide Gionco

La guerra delle banane del 1954.
Complotto o convergenza di interessi?

di Davide Gionco

La United Fruit Company (oggi diventata Chiquita), multinazionale americana operante nel commercio della frutta, possedeva da decenni importanti piantagioni di banane in Guatemala, stato dell’America centrale. La UFCO tutelava i propri interessi esercitando una forte influenza sul potere politico locale, costituito da dittatori militari accondiscendenti che si succedevano uno dopo l’altro, La situazione andò liscia fino al 1944, quando in Guatemala ci fu una rivoluzione popolare (militari, insieme a studenti e lavoratori) che spodestò l’ultimo dittatore-fantoccio filoamericano Jorge Ubico. Nell’anno successivo 1945 ci furono le prime elezioni libere in Guatemala che portarono all’elezione di Juan José Arévalo, che restò in carica fino al 1951, periodo nel quale vi furono ben 30 tentativi falliti di colpo di stato, sponsorizzati con ogni probabilità dalla UFCO e dagli altri latifondisti locali, i quali temevano che il nuovo corso politico portasse alla perdita dei loro privilegi e della loro azione di sfruttamento dei lavoratori e del territorio guatemalteco.
Nel 1950 vi furono le seconde elezioni libere, che portarono all’affermazione del nuovo presidente socialista
Jacobo Árbenz, ministro della difesa uscente, che iniziò il mandato l’anno successivo, promettendo delle riforme economiche che ponessero fine al latifondismo, con la diffusione della piccola proprietà agraria e di una vera economia di mercato. Quindi non un socialismo “comunista”, ma qualcosa di simile a quello in Italia negli anni 1950-1960, con la redistribuzione delle terre ai contadini, tramite confisca delle terre dei grandi proprietari terrieri.
Ovviamente questo progetto politico andava decisamente contro gli interessi della United Fruit Corporation.

I principali azionisti della United Fruit Corporation erano i due fratelli John Foster Dulles e Allen Welsh Dulles. La società aveva da tempo sviluppato profondi rapporti di collaborazione con il Partito Repubblicano statunitense, al punto che in quegli anni, durante la presidenza di Eisenhower, Allen Welsh Dulles ricopriva l’incarico di direttore della CIA, mentre suo fratello John Foster era diventato niente di meno che segretario di stato (ministro degli esteri) di Einsenhower.

Per risolvere il problema la UFCO assunse come esperto di pubbliche relazioni il famoso Edward Bernays, che già si era distinto in passato per avere convinto gli americani neutralisti a partecipare alla prima guerra mondiale e per avere convinto le donne a fumare, raddoppiando i guadagni delle società del tabacco.
Edward Bernays elaborò una strategia di comunicazione basata su notizie false, ma non verificabili dal grande pubblico americano, che facessero credere che in Guatemala non vi era un governo democratico, ma una pericolosa dittatura comunista che sarebbe servita ai russi come base di attacco agli USA.
Bernays invitò a sue spese (ovvero a spese della corporation) degli influenti giornalisti americani, che nulla sapevano del Guatemala, nella capitale Ciudad de Guatemala. Pagò alcuni sedicenti politici di opposizione guatemaltechi che dipinsero il presidente Arbenz come un dittatore comunista privo di legittimazione popolare. Bernays pagò altre persone per fare delle manifestazioni fortemente antiamericane proprio sotto gli occhi degli influenti giornalisti, per dimostrare la pericolosità di quel paese latinoamericano.
Il risultato fu che gli influenti giornalisti si convinsero dell’esistenza di una pericolosissima dittatura comunista filosovietica a due passi dagli Stati Uniti e questo scrissero sui giornali più autorevoli, che alimentarono di conseguenza l’informazione televisiva, i giornali locali, le chiacchiere dei bar, ma soprattutto le convinzioni dei senatori americani che avrebbero poi approvato l’intervento armato americano in Guatemala.

Il travisamento della realtà era compiuto.

Una volta ottenuta la copertura politica (come la definiva Colin Powell prima della seconda guerra in Iraq), fu facile per il direttore della CIA (e principale azionista della UFCO) organizzare i bombardamenti sul Guatemala, addestrare dei militari per formare degli squadroni guidati dal colonnello Carlos Castillo Armas, il quale mise in atto il colpo di stato che lo portò al potere come nuovo dittatore.
La democratizzazione mediatica dell’evento fu completata dalla visita in Guatemala del vicepresidente Richard Nixon, il quale nel discorso ufficiale esaltò il ripristino della democrazia in Guatemala, con l’instaurazione della dittatura militare di Castillo Armas (filo UFCO) e con l’esilio del dittatore Arbenz (che era stato democraticamente eletto).
Questa fu la versione ufficiale americana, fino alla desecretazione dei documenti avvenuta nel 1997.

Per la cronaca, interferenze degli USA, o meglio delle multinazionali a cui i governi del mondo devono rendere conto, nella politica interna di altri paesi si sono verificate moltissime altre volte. Nulla fa pensare che oggi le cosa vadano diversamente.

Si trattò di un complotto? O piuttosto della convergenza di diversi interessi che hanno reso possibile tutto questo?

I fratelli Dulles avevano l’interesse economico dello sfruttamento monopolista delle piantagioni di banane in Guatemala.
Il Partito Repubblicano aveva l’interesse a disporre di generosi finanziamenti (provenienti dagli utili della vendita delle banane) per il successo delle proprie campagne elettorali.
In cambio di questi fondi i repubblicani ed Eisenhower avevano acconsentito la nomina dei fratelli Dulles a capo della CIA e della segreteria di stato.
Einsehower aveva bisogno di rafforzare la propaganda anti-sovietica (ricordiamoci che sono gli anni della guerra di Corea e dell’apogeo di
Joseph McCarthy) e l’immagine di un governo che difende gli americani dal comunismo.

Il punto difficile della manovra era avere l’appoggio dei giornalisti, che probabilmente non avevano degli interessi personali da perseguire.
In questo fu decisivo l’intervento di Edward Bernays, che da un lato regalò il viaggio-premio, tutto spesato, in Guatemala e dall’altro riuscì a convincere gli influenti giornalisti di fatti che non corrispondevano per nulla alla realtà.
Ma, pensandoci bene, quei giornalisti perché avrebbero dovuto difendere un piccolo presidente socialista del paese delle banane e schierarsi contro il direttore della CIA ed il segretario di stato americano?
Oggi, con i principali azionisti delle corporations che controllano l’informazione che sono gli stessi che controllano il commercio delle banane e che finanziano i partiti di governo, l’operazione sarebbe stata ancora più semplice.
In alternativa è sempre possibile
pagare e mettere in posizione di rilievo gli influenti giornalisti.

Se non ci fosse stata la convergenza di interessi fra tutti questi soggetti chiave, il colpo di stato in Guatemala sarebbe fallito (come i 30 precedenti). Si realizzò proprio perché tutti i soggetti chiave avevano degli interessi comuni da perseguire e perché il colpo di stato in Guatemala avrebbe consentito loro di guadagnare ciascuno la sua parte.

Lo stesso è sempre avvenuto prima di allora ed avviene ancora oggi.
Chi persegue i propri interessi senza riguardi per l’umanità, farà sempre ciò che è in suo potere per perseguirli. Se vi saranno le condizioni per avere l’appoggio di altri portatori di interessi, stringeranno un’alleanza. E l’azione verrà portata a termine.

Quindi non chiamiamoli “complotti”, ma chiamiamole convergenze di interessi.

Nazione, nazionalismo, etnia, popolo, razza, razzismo, impero, imperialismo, globalizzazione, cosmopolitismo (3), di Fabrizio Mottironi

Nazione, nazionalismo, etnia, popolo, razza, razzismo, impero, imperialismo, globalizzazione, cosmopolitismo (3)
Le due Guerre Mondiali hanno archiviato definitivamente il “nazionalismo” tardo ottocentesco. Gli europei sono riusciti a procurarsi 88 milioni di morti ammazzati nell’assurda gara per stabilire la loro nazione “alpha”.
88 milioni di morti per non risolvere nulla e consegnare il presunto scettro degli “alpha” (perché “presunto” lo vedremo più avanti), fino a quel momento da loro posseduto, agli USA e ai sovietici…
I nazisti hanno fondato le loro dottrine nazionalistiche sul primato della loro razza “superiore”, ma nel bunker di Berlino il loro führer si troverà a dover amaramente constatare che questa “superiorità” non si è davvero dimostrata.
Mussolini e il re italiano, mai stati razzisti ma divenuti razzisti per “Realpolitik” nazionalistica, impareranno amaramente che l’approssimazione, il velleitarismo e il cinismo non sono risultati premianti. Nel ’41 hanno dichiarato guerra agli Stati Uniti d’America nella convinzione che quel paese non sarebbe stato in grado di trasformare la propria industria civile in industria bellica: nel solo mese di aprile del 1945 gli USA fabbricheranno tanti aerei militari quanto l’Italia in tutto il periodo compreso tra il 1941 e il 1945…
La mitologia “nazionalista”, ovvero la gara europea per stabilire il “Volkgeist” più duro e puro, costato 88 milioni di morti, è dunque stata definitivamente archiviata nel 1945.
Analoga archiviazione per la mitologia positivista “razziale” che, va ricordato, non fu una sola prerogativa del nazifascismo, ma trovò fervente accoglienza fino agli anni ’50 almeno in una parte del partito democratico statunitense, ossia nel partito di Clinton, Obama e Biden, con le leggi di Jim Crow propugnate, emanate e applicate nel Sud degli Stati Uniti proprio dal partito democratico.
Gli studi di genetica hanno ampiamente dimostrato l’infondatezza dell’esistenza delle “razze” umane di cui non era per niente convinto, già nel XIX secolo, lo stesso Charles Darwin.
Sulle cause che hanno reso negli ultimi tre secoli gli europei all’avanguardia mondiale nelle scoperte scientifiche, tecniche e nell’organizzazione sociale del lavoro, vi è un godibilissimo e chiaro saggio dell’antropologo statunitense James Diamond che consiglio vivamente a tutti: “Armi, acciaio e malattie”. Vi consiglio vivamente di leggerlo…
Dalle ceneri dell’Europa 1945 escono sostanzialmente fuori due vincitori: gli Stati Uniti, propugnatori della mitologia “liberale”, e l’URSS che propugna invece la mitologia “comunista”.
La storia la conosciamo tutti. L’URSS è imploso nel 1989, al suo posto c’è oggi la Russia del nuovo zar Putin. È implosa anche una successiva superpotenza, la Cina di Mao ossia quella della Rivoluzione culturale. La Cina sorta da quelle ceneri, la Cina non ancora ‘imperiale’ di Hua Guofeng e Deng Xiaoping è già assolutamente diversa.
Da queste due implosioni del comunismo emerge un dato sconcertante. Nonostante la rigida economia comunista e pianificata e l’indottrinamento capillare per circa tre generazioni, questi due immensi paesi non hanno partorito nemmeno un singolo “uomo nuovo”, con una coscienza diversa dal denaro, potere e filosofia dell’apparire. Nemmeno uno straccio di “uomo nuovo” che potesse, pure nell’implosione, rilanciare la rivoluzione e la coscienza proletaria. E già solo questo fatto denuncia la grave fragilità antropologica di quella ideologia. Da archiviare nella pattumiera come quelle precedenti: decine e decine di milioni di morti per non concludere nulla. Niente, solo souvenir per tardi e frustrati romantici di Che Guevara.
Gli Stati Uniti? Gli Stati Uniti per come li conoscevamo alla fine della guerra sono definitivamente implosi anche loro, nonostante il vano tentativo di restaurazione operato da Donald Trump.
Gli Stati Uniti della mitologia “liberale” del secondo Dopoguerra sono coerenti con gli Stati Uniti della mitologia “liberale” del primo Dopoguerra ma vi è una profonda cesura tra questi, richiamati dall’ultimo presidente repubblicano, e i nuovi Stati Uniti della mitologia “neoliberale” di Biden, già anticipati dai Clinton e da Obama.
Non sto parlando a livello geopolitico ma solo di storia delle idee. È quello che mi preme. E i due piani (geopolitico e di storia delle idee) non andrebbero mai confusi, e questo per buone ragioni. Ma li confondono quasi tutti.
Nel frattempo, dopo questa rapida ricostruzione delle origini delle idee in circolazione e prima di arrivare nel dettaglio al caso italiano ed europeo, passando per quello statunitense, invito ciascuno di noi intanto a domandarsi dove ci si intende collocare.
Siamo “imperiali”, “sovranazionali” o “internazionali/universali”? Beh… le dottrine e i valori dell’antica Roma, del cristianesimo, del Sacro Romano Impero, dell’aristocrazia europea fino al XVIII secolo, del comunismo e del pensiero neoliberale si muovono lungo quell’asse, anche se ne predicano diversi tipi.
Oppure ci si riconosce come nazionali o nazionalisti, come ad esempio i massoni del XIX secolo o i fascisti del XX secolo, e poi questo sul piano regionale, italiano o europeo?
Ecco che, sempre con valori diversi, oggi il supermercato delle idee ci propone di acquistare i nostri prodotti ideologici preferiti misurati secondo i nostri gusti.
Oggi possiamo acquistare davvero gelati identitari “tutti i gusti” persino abbinandoli: abbiamo comunisti sovranisti, nazionalisti sovranisti, neoliberali con visione europeista ma anche internazionalista, ci sono poi i nazionalisti europeisti, i comunisti internazionalisti, cristiani sovranisti ma anche internazionalisti o europeisti o regionalisti, etc.etc. Diciamo che nessuno ha più l’esclusiva, e anche i partiti possono facilmente cambiare idea a seconda della bisogna o del momento. E lo fanno e lo faranno, fin troppo frequentemente…
Ognuno cerca le sue identità, anche a seconda della moda, della confusione o della convenienza.
Ma c’è un fatto che molti dimenticano, e lo fanno in modo imperdonabile: i desideri, anche quelli identitari, possono essere infiniti, ma le risorse no, le risorse non sono infinite, per la semplice ragione che il nostro pianeta non è infinito e la nostra vita, almeno su questo pianeta, nemmeno.
E ci sono temi davvero cogenti che nessuno ha ancora sollevato se non nei ristretti ambiti accademici, lì dove nascono le idee che poi nutriranno tutte le lobby e tutte le tifoserie con le loro mitologie spesso mal comprese, di qualsivoglia colore o sua sfumatura.

 

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