
(7) Tutti gli Stati membri della zona euro diventeranno membri del MES. Per effetto dell’adesione alla zona euro, lo Stato membro dell’Unione europea dovrebbe diventare membro del MES con gli stessi diritti e obblighi delle parti contraenti.
Pubblichiamo l’interessante articolo di “Cesare Baronio”, pseudonimo di un Autore cattolico tradizionalista, probabilmente un prelato, che da qualche anno cura il blog https://opportuneimportune.blogspot.com/. Il Cesare Baronio[1] a cui rinvia lo pseudonimo fu uno storico italiano, membro dell’ordine degli Oratoriani, poi nominato cardinale di S. Romana Chiesa, morto nel 1607 a 68 anni.
Come è noto ai nostri lettori, Italiaeilmondo.com non si occupa specificamente di teologia o delle vicende della Chiesa, né sono cattolici la maggior parte dei suoi collaboratori. L’articolo di Baronio riveste però un notevole interesse per chiunque sia consapevole della profonda crisi, ancor prima culturale che politica, in cui versano l’Italia, l’Europa e in genere le nazioni che si richiamano alla civiltà europea.
L’immagine scelta da Baronio per illustrare il suo articolo raffigura “La predicazione dell’Anticristo” di Luca Signorelli, parte del ciclo a tema apocalittico affrescato nella cappella di S. Brizio del duomo di Orvieto (1499-1504). Colpisce subito lo sguardo la figura dell’Anticristo, che è un sosia del Cristo a cui Satana suggerisce che cosa predicare, sussurrandogli all’orecchio. Questa interpretazione teologica della figura dell’Anticristo come falso Cristo sviluppa la definizione patristica di Satana come simia Dei, “scimmia di Dio”; e nel recente passato ha ispirato il Racconto dell’Anticristo contenuto nei Tre dialoghi e racconto dell’Anticristo del grande pensatore religioso russo ortodosso Vladimir Solov’ev[2].
L’analogia proposta da Baronio tra crisi religiosa della Chiesa e crisi politica che attraversa la civiltà europea si fonda proprio sull’idea che in entrambi i casi, si tratti di crisi dissolutiva proveniente dall’interno, e non di crisi conseguente a conflitto con un nemico esterno; e che questa crisi si manifesti come dilagare dell’ impostura. Un’impostura sistematica che ha origine ai livelli più elevati della civiltà, là dove le massime Autorità spirituali e temporali elaborano le norme culturali, etiche e politiche fondamentali, in ordine alle quali si definisce il perimetro dei valori condivisi, e si stabiliscono i fini a cui vogliono e devono tendere sia la civiltà nel suo insieme, sia le persone che concretamente la costituiscono. Fondamenti normativi, valori e fini che gli impostori autorevoli sovvertono dall’interno, gradualmente, senza mai apertamente proclamarli decaduti o errati, senza mai proporre esplicitamente norme, valori e fini ad essi contrapposti; ma distorcendone progressivamente il senso e l’effetto, trasmutandoli nel contrario di se stessi con un’operazione alchemica dissolutiva (“l’opera al nero”) che in linguaggio contemporaneo si chiama “operazione di influenza”, una modalità della guerra psicologica.
Chi segua anche distrattamente il modus operandi della Unione Europea, ad esempio, non può fare a meno di notare che il processo di dissoluzione delle sovranità statuali degli Stati più deboli da parte degli Stati più forti, grazie all’intermediario-impostore della UE, la quale di per sé non ha personalità statuale o legittimità propria, segue proprio questa procedura clandestina; che parole come “riforma” o “democrazia” hanno gradualmente assunto, in questo contesto di impostura e dissoluzione, un significato persino opposto a quello registrato nei dizionari; e ovviamente, che le forze di sinistra sono i principali rappresentanti culturali e politici delle forme più predatorie di capitalismo.
L’analogia illustrata nell’articolo di “Cesare Baronio”, dunque, ci pare interessante e fruttuosa. Buona lettura._Roberto Buffagni
[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Cesare_Baronio
[2] https://www.vitaepensiero.it/scheda-libro/vladimir-solovev/i-tre-dialoghi-e-il-racconto-dellanticristo-9788834339220-140729.html
(7) Tutti gli Stati membri della zona euro diventeranno membri del MES. Per effetto dell’adesione alla zona euro, lo Stato membro dell’Unione europea dovrebbe diventare membro del MES con gli stessi diritti e obblighi delle parti contraenti.
A fine agosto in occasione del G7 di Biarritz, a seguito del lungo colloquio tra Macron e Trump, avanzammo l’ipotesi di un patto tra i due per il quale Macron avrebbe cercato si risolvere il contenzioso russo-ucraino, con successiva normalizzazione dei rapporti tra UE e Russia (quindi uscire dallo stato sanzionatorio), onde permettere a Trump di invitare Putin al successivo vertice in Florida nel 2020, come per altro Trump aveva annunciato possibile. Su questa supposta operazione di diplomazia inclusiva si sommano una serie di interessi, alcuni a favore, altri contro.
Trump cerca di perseguire il dialogo con Mosca dalla sua elezione ma è stato a lungo tenuto sotto scacco dal Russiagate poi terminato in un nulla di fatto. Ora è sotto procedura di impeachment però questo non pregiudica la sua operatività in politica estera. Il fine è noto a chiunque sappia due-cose-due di geopolitica. Ostracizzando al contempo Russia e Cina, gli USA si creano un nemico bicefalo che compensa mancanze con punti di forza. Potenza militare la Russia ma non economica, potenza economica ma non militare la Cina, un vero capolavoro di stupidità strategica. Il fatto è che buona parte del Deep State americano non ha nulla di specifico contro la Cina mentre confinare la Russia nel corner dei nemici assoluti ha grande utilità soprattutto per alimentare la macchina militar-industriale, NATO annessa. Di contro, per Trump ed il suo gruppo di potere, le posizioni sono esattamente inverse. La Russia potrebbe su base gas-petrolifera addirittura esser un partner come lo è stato per lungo tempo prima dell’affaire ucraino (si pensi anche a gli sviluppi siberiano-polari che avevano portato alla nomina a Segretario di Stato dell’ex CEO di Exoxn-Mobil, Rex Tillerson, grande amico dei russi) , il nemico strutturale e prospettico è obiettivamente la Cina in quanto la partita dei poteri mondiali è certo economico-finanziaria e non certo militare, spingere i primi ad unirsi ai secondi è esattamente il contrario di ciò che fece a sui tempo Kissinger ai tempi di Mao e Nixon, quando Cina ed URSS erano oltretutto allineate ideologicamente.
Putin certo è consapevole delle trappole insite in questo disegno e certo non ha nessuna intenzione di ri-orientarsi strategicamente dal formato “strana coppia” (RUS-CHI) come la chiama Limes, ad un improbabile nuova amicizia con gli infidi occidentali però, realisticamente, ottenere una qualche possibilità di “bilanciamento” avrebbe un suo appeal. Questo aumenterebbe il potere negoziale russo ed aiuterebbe la Russia ad aprirsi ventagli di possibilità sul prezzo a cui vendere i suoi patrimoni energetici fossili e potersi comprare tecnologia per far fare qualche salto alla sua industria.
Macron ne otterrebbe molti vantaggi. Il prestigio del ruolo di Ministro degli Esteri nella diarchia di Aquisgrana in cui Merkel è il Ministro del Tesoro, la possibilità del ruolo di intermediario primo con ricadute di affari con i russi a seguire, la diminuzione del peso geopolitico dell’Europa del’Est vs Europa dell’Ovest, un credito nei confronti di Trump ma anche di Putin, la titolarità per portare avanti la sua idea di parziale sganciamento dell’Europa dalla NATO che è la precondizione per i progetti di costituzione di una potenza militare europea che è l’unica carta che le permetterebbe di sedersi al tavolo della nuova fase di geopolitica multipolare.
Merkel di fatto è già da tempo e nonostante le roboanti dichiarazioni pubbliche contrarie, di fatto partner commerciale coi russi, si pensi al raddoppio del North Stream 2. Per altro, larga parte della confindustria tedesca e della politica bavarese sarebbe entusiasta di una normalizzazione. Pubblicamente però non si espone per salvaguardare equilibri interni contrari e soprattutto per non creare tensioni con quell’Europa dell’Est che è il suo bacino egemonico naturale. Lascia fare a Macron con l’aria di chi deve pur permettere al junior partner di avere il suo protagonismo.
Zelensky ha ricevuto poteri largamente maggioritari in Ucraina anche se le minoranze nazionaliste sono agguerrite e poco disposte al disgelo. Nei fatti, il gruppo di potere attorno a Zelensky bada a gli interessi ucraini e l’Ucraina dopo esser stata sedotta dall’amministrazione Obama che ha pilotato il colpo di stato travestito da insurrezione popolare, è stata nei fatti abbandonata. La situazione economica e sociale in Ucraina è pessima ed è su questo scontento palese che Zelensky sta costruendo la sua fortuna politica. La relazione a due vie tra Ucraina e Russia è di logica geo-storica, si può far davvero poco per trovare una logica sostitutiva e certo non senza il favore di Trump, Macron e Merkel che nei fatti vanno in direzione opposta.
Contro questo movimento si segnano: l’Europa dell’Est in perenne paranoia anti-russa, i britannici al solito inorriditi dalle pretese geopolitiche degli euro-continentali viepiù se saldate in relazioni coi russi (l’incubo Heartland di Mackinder), la NATO che dal felice esito di questo movimento vedrebbe fortemente ridimensionati i suoi interessi (con un bel po’ di generali e funzionari disoccupati, nonché parte del complesso industriale americano connesso in crisi), buona parte del Deep State americano, i democratici americani, i loro alleati liberali europei.
Ecco allora che si fa fatica a trovare oggi notizie sul felice esito della riunione “formato Normandia” (Macron, Merkel, Putin, Zelensky) di ieri a Parigi, sia sulla stampa nazionale che internazionale, molto meglio la notizia del ban alle Olimpiadi e forse Mondiali di calcio, per presunto doping russo. Una spessa cortina di silenzio intorno alla notizia che quando data, è data con sospetto corredato da sfiducia e dubbi.
Nei fatti però, dopo Biarritz, Macron è andato in Ucraina e si è sentito spesso con Putin, Zelensky si è telefonato con Putin quattro volte, hanno cominciato e sono a buon punto nello scambio dei prigionieri reciproci, hanno annunciato una sospensione delle ostilità in Donbass sebbene non sempre rispettata da chi ha evidentemente interessi contrari (nazionalisti ucraini e del Donbass), ieri si sono stretti la mano e parlato a quattro occhi fissando un successivo piano di diplomazia attiva a scadenza marzo 2020. Difficile chiudere in tempo e con venti contrari il processo per firmare una pace ad aprile e revocare le sanzioni a maggio per il G8 americano che è a giugno, con le elezioni americane a novembre. Però sembra che più d’uno abbia voglia di provarci, vedremo …
Certo va notato che il tema “pace e diplomazia” non riscuote grande successo d’attenzione presso le opinioni pubbliche occidentali, il che denota una forte contraddizione adattiva a quello che volenti o nolenti sarà lo statuto multipolare del nuovo equilibrio mondiale. Meglio spingere senza tregua ad odiare qualcuno e poi inveire contro l'”odio dilagante”, no?
commenti:
https://www.facebook.com/pierluigi.fagan/posts/10219535446952376
– La zona CFA nel suo complesso, i paesi del Sahel inclusi, rappresenta poco più dell’1% di tutto il commercio estero della Francia, i paesi del Sahel per un totale di un massimo di un quarto del 1%. Basti dire che il Sahel non esiste per l’economia francese.
– Per quanto riguarda l’uranio dal Niger, contrariamente a una sciocchezza e contro-verità sentite parlare dal momento che in realtà non è essenziale. Circa 63.000 tonnellate estratte nel mondo, il Niger ne produce a regime 2900 … E’ più economico, e senza problemi di sicurezza dal Kazakistan che ne estrae 22.000 tonnellate, quasi dieci volte, Canada (7000 t.), Namibia (5500 t.), Russia (3.000 t.), Uzbekistan (2400 t.) o l’Ucraina (1200 t.), ecc ..
– Per quanto riguarda l’oro in Burkina Faso e Mali, la realtà è che è schiacciante la quantità estratta dalle aziende canadesi, australiani e turche.
PROSPETTIVE
Di fronte alla prospettiva di un possibile default italiano, indotto dal combinato disposto delle modifiche del MES, c’è chi si chiede se i paesi che guidano questa riforma (Germania e Francia) non siano consapevoli che un default italiano sarebbe una catastrofe che porterebbe con sé anche i sistemi bancari altrui.
Su questo punto però c’è un equivoco che bisogna sfatare. Si trova spesso come argomento consolatorio l’idea che l’Italia è ‘too big to fail’. E questo è tecnicamente vero. Nessuno infatti ha interesse a vedere un default incontrollato dell’Italia, che metterebbe in crisi con effetto domino tutti i sistemi finanziari connessi.
Però la minaccia di un default unilaterale e senza paracadute sarebbe una minaccia effettiva solo se gestita autonomamente dall’Italia in una trattativa, alle proprie condizioni (e, naturalmente, se a gestirla ci fossero persone tecnicamente e diplomaticamente assai capaci, il che rende al momento questa trattativa del tutto implausibile).
Non è questa la prospettiva, e la riforma del MES indica già proprio le condizioni che si prevedono come desiderabili a livello UE per un ‘default controllato’.
La prospettiva che viene presa in considerazione come scenario desiderabile è quella in cui si procede ad alcuni ‘haircut’ circoscritti sui titoli del debito pubblico, sottoponendo simultaneamente il paese a rigide condizionalità.
Queste condizionalità devono indurre il paese che vi è soggetto a privatizzare tutto il patrimonio pubblico che c’è ancora da privatizzare, e a svendere le parti più interessanti del patrimonio privato connesso alla produzione (banche innanzitutto).
Gruppi come Leonardo-Finmeccanica, e le maggiori banche italiane sarebbero i primi a cadere, seguiti dalla delega dello sfruttamento estensivo del patrimonio ambientale e culturale.
Nel caso qualche anima bella ritenga che questa prospettiva sia troppo maligna, che i ‘fratelli tedeschi e francesi’ mai sarebbero così inclementi, ricordo che questo è esattamente quanto è successo, su scala minore, con la Grecia. (Solo che lì hanno imparato strada facendo, mentre ora la riforma del MES vuole disporre tutto in modo regolamentato a monte.)
In Grecia non c’è stato alcun default incontrollato (che avrebbe effettivamente coinvolto istituti bancari francesi e tedeschi). Si è invece proceduto a uno ‘haircut’ controllato e dilazionato, con allungamento dei tempi di restituzione dei prestiti, ed erogazioni centellinate quanto bastava per consentire al paese di ‘mantenere i propri impegni’, cioè di continuare nelle interazioni economiche più proficue con l’estero.
Ma tutto ciò avveniva sotto rigorosissime condizionalità, che hanno ristretto il settore pubblico greco ai minimi termini, e che hanno costretto a privatizzare tutti gli asset maggiormente produttivi, come il sistema aeroportuale e il porto del Pireo, oggi gestiti da compagnie straniere.
Il simpatico effetto collaterale di questa strategia è che oggi anche quando il Pil greco nominalmente cresce (e sui nostri giornali ci spiegano che la Grecia è ‘uscita dal tunnel’), comunque la maggior parte dei ricavi sono immediatamente veicolati su banche estere, ai gestori, contribuendo in maniera irrisoria a un miglioramento delle condizioni di vita dei Greci.
Il modello che abbiamo di fronte non è dunque quello del ‘crollo’, ma quello del saccheggio legalizzato, alla fine del quale resta il simulacro di una nazione, con la sua bandieretta e l’inno, ma di fatto ridotta ad un protettorato economico privo di ogni margine di reale indipendenza.
YES, WE MES
Come notava un amico c’è chi dice che il MES dopo tutto non è che una specie di assicurazione.
Bene così, se si vuol giocare al gioco delle semplificazioni, facciamolo.
Il MES, come emergerebbe nelle formulazione recentemente emendata, sarebbe un po’ come un’assicurazione sulla casa.
Un’assicurazione un po’ speciale, però.
L’assicurazione MES è un’assicurazione assai costosa (14 miliardi già versati, 125 miliardi di possibile versamento futuro).
Beh, però ne varrà la pena, no?
Dunque, vediamo. Se un meteorite mi distrugge la casa, un’assicurazione qualunque mi ripagherà di norma almeno i costi di ricostruzione.
Non l’assicurazione MES, però.
Essa può decidere insindacabilmente se conferirmi il premio dell’assicurazione oppure no.
(La decisione ultima è stata tolta alla Commissione, in modo da non subire pressioni, ed è affidata direttamente ai funzionari del MES, le cui decisioni non devono rispondere a nessuno, neanche legalmente, e non sono messe a conoscenza all’esterno.)
Ma non basta.
Nel caso decidesse di conferirmi il premio, poi, la nostra munifica assicurazione marca MES ci richiede preventivamente e inderogabilmente di vendere la macchina, le scarpe e un rene.
(La precondizione per l’accesso all’aiuto è una ristrutturazione automatica del debito, cioè un default).
Arrivati a questo punto, sono all’addiaccio, a piedi, scalzo e con un catetere. Si potrebbe sperare che finalmente la mia assicurazione mi erogherà l’agognato premio?
Beh, non precisamente.
A questo punto essa – ma proprio perché siamo noi, eh! – ci concederà un magnifico PRESTITO, in piccole comode rate, per ricostruirmi un muro qua e uno là, che poi Dio vede e provvede.
Ma beninteso, un prestito a interessi convenientissimi!
Ecco, ora se qualcuno si sente attratto da una simile compagnia di assicurazioni, lo prego gentilmente di contattarmi in privato.
Avrei giusto da vendergli una splendida fontana storica in piazza di Trevi a Roma.
Un affarone, giuro.
tratto da facebook
PRÌNCIPI E PRINCÌPI. Le società economiche hanno sede legale lì dove pagano le tasse, questo è il princìpio della loro soggettività giuridica. Così il prìncipe, in senso machiavelliano il “sovrano”, è colui che si fa pagare le tasse, cosa che assieme al monopolio di fatto e di diritto della forza (interna ed esterna), costituisce la base storica delle entità statali. Lo Stato in senso moderno, fu una invenzione progressiva che si affermò per prima in Francia, nel ‘500.
Così i francesi che sulla questione hanno le idee -in teoria- chiare, di recente, prima hanno cominciato a rivendicare il proprio diritto fiscale nei confronti delle compagnie americane del Mondo 2.0 (la dig-info sfera), poi a rumoreggiare intorno a fini e ragioni della NATO.
Così Trump, poco prima dell’inizio del vertice NATO a Londra, ha fatto sapere ai francesi ed a chiunque altro europeo volesse seguirli su queste idee balzane, che i princìpi sono prerogative dei prìncipi ovvero dei sovrani ed in mancanza di forza reale per competere sul punto, il sovrano dell’Occidente sono gli Stati Uniti d’America, quindi lui. “ Se voi suonerete le vostre trombe” dice Trump “noi suoneremo le nostre campane”. Lo scontro del 1494 era appunto su una questione di sovranità su pezzi d’Italia pretesa dal francese ed osteggiata dalla ritornata repubblica fiorentina. Le campane di Trump sono i dazi, fino al 100% di dazi ovvero l’estromissione dal più ricco mercato di acquirenti del mondo. Poi non sono solo i dazi però, come ben si sa ma si fa finta di non ricordare pensando che il sovrano lontano (USA) è meno incombente del sovrano vicino (UE).
Stante la presenza di fondo del problema dell’alleanza militare, il caso d’attualità è sulla “web tax” che i francesi vorrebbero elevare ai big five -Facebook, Amazon, Google, Apple, Netflix- i quali notoriamente non pagano le tasse nei paesi in cui pur operano. Non solo drenano ricchezza aspirando voracemente e riportando il bottino in USA, non solo la loro presenza commerciale monopolista (un solo venditore) e monopsonista (un solo acquirente) distrugge il mercato locale facendo chiudere imprese concorrenti -concorrenti nel Mondo 2.0 dig-info invero poche ma nel Mondo 1.0 del materiale (giornali, librerie, negozi vari, cinema, elettronica e molto altro) sempre di più- ma, seguendo a fondo il princìpio si potrebbe venir a creare la conseguenza che anche la responsabilità legale di queste imprese, verrà rivendicata di territorialità americana. Princìpio forse oggi di apparente non grave peso, ma che invece sempre più l’avrà all’espandersi egemonico del Mondo 2.0. Bioetica ad esempio?
A noi può sembrare che il Mondo 2.0 in cui si svolge questa guerra della sovranità, la prima guerra che è quella fondamentale perché stabilisce della sovranità il princìpio, sia solo una appendice poco rilevante della consistenza generale di un Paese ma già oggi non è propriamente così, ma soprattutto lo sarà sempre meno. Il Mondo 2.0 ha in animo di sostituire una buona parte del Mondo 1.0.
Non abbiamo qui spazio per fare una pur veloce overview dell’economia digitale all’oggi, ma soprattutto nell’immediato domani. Se vi fidate, sappiate che il disegno è quello di portare una grande parte del Mondo come lo conosciamo, nel Mondo 2.0 creato a partire dagli anni ’60 dagli Stati Uniti d’America a partire dalle idee del loro think tank militare RAND Corporation e del braccio operativo della Defense Advanced Research Projects Agency- DARPA del Dipartimento alla Difesa di Washington e da loro dominato con giganti deregolamentati che sono ormai di dimensione e potenza inarrivabile per chiunque volesse sfidarli. Naturalmente tutta questa storia è stata impacchettata con carta sbrilluccicosa di soft power ovvero scienziati che volevano il bene del mondo, giovani scamiciati imprenditori geniali nati in un garage, geek un po’ autistici in missione per conto della Fratellanza Universale. Ma si sa, “dare un pacco” è l’arte di far sembrare fuori una cosa che dentro è poi diversa, vedi Treccani alla voce: cavallo di Troia. “Temo i Greci anche quando portano doni” ammoniva il virgiliano Laocoonte, ma i laocoonti alla fine non contano niente, i donatori di pacchi sanno di psicologia molto più di Freud.
Il Progetto Mondo 2.0 ha piani ambiziosi. Non si tratta solo di informazione e comunicazione che già di per sé sarebbe già una bella potenza (naturalmente invisibile per chi sta ancora alle ferriere, il proletariato, l’acciaio e l’altoforno), ma anche di sanità e biologia, finanza, valute, distribuzione commerciale al servizio privilegiato di produzioni di paesi amici, funzioni amministrative d’impresa, telecomunicazioni, piazze e mercati, standard giuridici del lavoro, redditi, sviluppo ricerca e tecnologia, trasporti e logistica, reti, cultura popolare e non, sistema educativo, fisco e molto altro. Infine il nuovo “oro del Klondike”, i dati su tutto di tutti. L’insieme secondo logica cibernetica ovvero scienza del controllo tramite comunicazione. Ciò che Platone chiamava “kybernetikès techne” ovvero arte del governo (Alcibiade I, Repubblica). Potere alla sua essenza.
Così, non mi rimane che ricordarvi il contestato ed antipatico solito ammonimento. I volenterosi che oggi si pongono giustamente il delicato e complicato problema della sovranità ai tempi del secondo millennio, dovrebbero considerare che il controllo (la sovrantà) è nullo senza la potenza. Vale per la Grande Sorella di Bruxelles e vale per il Grande Fratello di Washington che assieme a zio Xi e cugino Putin saranno l’Addams Family dei prossimi, complicati, decenni. Auguri a tutti noi!
[L’articolo di riferimento alla notizia dell’ammonimento di Trump: https://www.repubblica.it/…/dazi_trump_minaccia_italia_fr…/…
tratto da facebook
DALLA MANO ALLA MENTE INVISIBILE. Negli anni ’60, al centro del sistema moderno o capitalistico occidentale e cioè negli Stati Uniti d’America, si mostra un preoccupante e poco noto effetto. La spinta alla crescita mostruosa oltre il 5% annuo per diversi anni di fila, che stava distinguendo la crescita post bellica un po’ in tutto il mondo e che in Europa meritò i concetti di Miracolo economico, Les Trente Glorieuses, Wirtschaftswunder, negli Stati Uniti cominciava a flettere pronunciatamente.
L’abitudine all’analisi qualitativa che produce narrazioni e contro-narrazioni, qualche volta si perde il quantitativo con risultato che, se da una parte si pensa si capire bene le cose, cioè la loro narrazione, dall’altra non si capisce mai perché certe cose avvengono ed in che misura. Quello che avveniva era che gli Stati Uniti, avendo per primi iniziato a crescere poderosamente negli anni ’50, stavano perdendo la spinta, non occasionalmente, strutturalmente. Spinta invece che continuava a sostenere il Resto del Mondo (Europa del’Ovest, dell’Est e dell’Asia, Giappone più di tutti, ma anche altrove). Il Nixon shock del 1971, per chi scrive, proviene da questo.
In quel decennio succedono molte cose interessanti. Sono gli anni in cui si sviluppa la tecnica produttivo-commerciale che poi si chiamerà marketing. Come molte cose del moderno, ahinoi, i primi passi della tecnica ragionata della manipolazione del mercato, sono fatti da un italiano che sviluppa i primi passi delle “ricerche di mercato”. P. Kotler conierà poi il termine e diventerà il fondatore e più illustre rappresentante teorico di questa tecnica. Sono gli anni del consumismo poi ragionati e raccontati criticamente da autori di cui spesso inconsapevolmente continuiamo a ripetere le intuizioni, tipo Adorno, Horkheimer, Marcuse, Fromm, ancora dopo cinquanta e passa anni.
Della tecnica fa parte la strategia “push and pull”. Se “push” è un insieme di tecniche per spingere i prodotti verso gli acquirenti ed intermediari, “pull” è l’insieme di tecniche utilizzate per attirarli. Tra queste tecniche c’è la conoscenza da parte delle aziende del proprio gruppo d’acquisto ideale detto target, termine mutuato come gran parte del vocabolario dei marketer, da quello militare (Marketing è guerra, Al Ries, JackTrout, testo anni ’80 McGraw-Hill). Se la mano invisibile mostrava pigrizia, c’era da dargli una mano visibile che spingesse concretamente, un aiutino insomma.
Negli anni ’60 in USA, si sviluppa una tecnica di analisi dei target che non è più quella tradizionale statistica su variabili socio-demografiche classiche (sesso, età, reddito), ma su variabili comportamentali. Si scopre cioè che i comportamenti d’acquisto originano dalla psiche che è certo correlata al sesso, età e reddito ma non così precisamente come si potrebbe pensare. Si scopre cioè che la “piramide dei bisogni” teorizzata negli anni ’50 dalla psicologo americano A. Maslow, ha sede e profonda origine in una psiche che ha proprie regole decorrelate in parte da quelle oggettive della condizione sociale. In accordo ai principi guida della psicologia americana a quel tempo dominante che è il behaviorismo (il comportamentismo), si decide di ignorare l’analisi del cosa succede davvero in quella psiche. Si sigilla il sistema e lo si definisce “scatola nera” ovvero sistema di causa che però non si analizza dentro, solo fuori. Se la psiche origina il comportamento, si osserverà direttamente il comportamento e per tentativi ed errori come negli esperimenti coi topi o cani del russo Pavlov, si cercherà di capire a quali imput corrispondono certi output (stimolo-risposta-rinforzo). Se si comprendono questi meccanismi si potrà condizionare il comportamento. Il corrispettivo nelle ricerche di mercato che anticipano ogni strategia di marketing, diventerà un nuovo tipo di analisi che si chiamerà “psicografica”. Siamo sempre negli anni’60.
Mentre i teorici dell’economia ovvero gli economisti ripetono il mantra dell’homo oeconomicus che è un calcolatore razionale delle sue utilità a presupposto della loro scolastica matematizzata, i pratici dell’economia cinquanta anni fa, si occupavano invece di psiche e comportamento reale. Il mondo dei bisogni su cui si basa mercato ed economia, per gran parte non è razionale. Un economista teorico si sveglierà cinquanta anni dopo e ci scriverà su un libro che gli varrà nel 2017 quel premio della Banca di Svezia che gli economisti chiamano Nobel (tale R.Thaler). Da quella svolta degli anni ’60, conseguirono marketing, pubblicità, società dei consumi, dei segni, innovazione, rivoluzioni economiche, tecnologie, neuromarketing e molto altro tra cui tutto il nostro Mondo 2.0 ovvero quello on line.
Come spesso racconto, io ho per venticinque anni fatto parte di quel mondo e non a livelli secondari. Quando ho cambiato vita e sono diventato uno studioso, balzellando tra meccanica quantistica e filosofia hardcore, quando ho cominciato a studiare i sacri testi degli economisti, per molti di loro sopratutto del Novecento (a parte Keynes) a lungo ho fatto fatica a capire di cosa stessero parlando per questo motivo. La rappresentazione del mercato come universo liscio con traiettorie perfettamente razionali che disegnano curve e linee geometriche posso dire sia una del tutto infondata astrazione non per piglio critico intellettuale, ma proprio perché so di certo che nulla ha a che fare con il fenomeno che si vorrebbe descrivere. Le narrazioni non corrispondono mai precisamente alle cose ma molte non hanno proprio nulla a che fare assolvono altri compiti.
La svolta psichica del capitalismo origina da più di cinquanta anni fa e le conseguenze giungono oggi a Cambridge Analytica, il totalitarismo dei Big Data, i Facebook-Amazon-Google-Apple-Netflix (FAGAN), la colonizzazione dell’immaginario, il “Capitalismo di sorveglianza” (Zuboff), “L’Internet ci rende stupidi” (N. Carr), la psicopolitica (P. Sloterdijk – Byung-chul Han), l’utilizzo di queste tecniche (nel frattempo, nel mondo della psicologia teorica americana il behaviorismo si è trasformato in un 2.0 detto “cognitivismo” ed è proceduto parallelo allo sviluppo delle scienze neuro-cognitive che oggi sfociano nel grande sviluppo dei programmi di ricerca detti A.I. Artificial Intelligence) non più o non solo per il dominio produttivo-commerciale ma ora anche direttamente sociale e politico.
Il discorso sarebbe lungo e complesso ma qui lo spazio c’impone la chiusura. Chiudiamo quindi osservando due cose:
1) La svolta psichica del capitalismo origina dal momento in cui l’economia americana non funzionava più in modo diciamo “naturale” o “semi-spontaneo”, occorreva collegare la stanca mano invisibile ad una vivace mente invisibile stimolata la quale sarebbero conseguiti comportamenti, prima economici, quindi sociali, infine politici. Da allora, è per lo più “economia del criceto”.
2) L’area critica del moderno e del capitalismo, origina da un pensatore di metà XIX secolo che ha detto molte cose giuste ed interessanti ma coloro che ancora usano quelle strumentazione analitica come integrale tendono a considerare le relazioni tra “struttura e sovrastruttura” in modo uni-diretto, del tutto simile al mainstream liberale che domina la disciplina economica (del resto sono in unità di tempo -metà XIX secolo- e luogo -Londra-) e che non ha alcuna attinenza con quello che è il nostro mondo moderno che intanto chiamiamo post-moderno già da diversi decenni. Ne consegue lo spiazzo di ogni teoria politica alternativa poiché i presupposti antropologico-sociali sono parziali se non infondati. Per costoro immagine di mondo, cultura, psiche e comportamento, valori, motivazione all’azione, sono conseguenze di presupposti ficcati da qualche parte in una scatola nera mossa solo dalla condizione sociale. Toccherebbe invece aprirla quella scatola e provare ad illuminarla se si vuole dare una bacchettata a chi ci sta da tempo mettendo le mani dentro. Oppure scriviamo l’ennesimo saggio corrucciato sul neoliberismo impazzito ed attrezziamoci per un lungo inverno di servitù volontaria.
Dopo essere stata presa in giro sui social per mesi la definizione di “sovranismo psichico” ha l’onore di essere ospitata come voce dalla Treccani online.
Forse è il caso di smettere di ridere e di chiederci se ci siano ancora limiti che i poteri mediaticamente ed economicamente più influenti (l’establishment) considerano non sorpassabili, o se oramai siamo arrivati al punto in cui si ritiene che valga tutto, assolutamente tutto, pur di abbattere l’avversario.
Già, perché ospitare come voce accreditata una formula che è dimostrabilmente un’idiozia con finalità di lotta politica spicciola ricalca esattamente una delle dinamiche descritte da George Orwell, di confisca concettuale e assoggettamento culturale.
Da un lato le istanze del ‘politicamente corretto’ mettono fuori legge tutte le espressioni che suonano come critiche dell’opinionismo mainstream, e dall’altro vengono accreditate unità concettuali farlocche e strumentali come se fossero descrittori di natura scientifica.
Non basta dunque aver distorto pervicacemente la nozione di ‘sovranismo’, applicata originariamente in contesto francofono per le istanze di rivendicazione autonomiste su base nazionale (Quebec, Irlanda, Palestina, ecc.), trasformandola in un sinonimo di ‘nazifascismo’.
Ora si passa alla fase della patologizzazione del dissenso, che viene ridotto a categoria psichiatrica, a deviazione mentale.
Esaminiamo innanzitutto la definizione che ne viene data:
“Atteggiamento mentale caratterizzato dalla difesa identitaria del proprio presunto spazio vitale.”
La prima cosa da osservare è che se togliamo l’aggettivo ‘presunto’, che insinua la natura illusoria, erronea del giudizio (per il loro ‘presunto’ punto di vista obiettivo), il resto della definizione rappresenta una descrizione che si attaglia a tutte le specie viventi, a tutte le unità culturali, istituzionali e statali di cui abbiamo contezza. Infatti la “difesa identitaria del proprio spazio vitale” è qualcosa che può valere per l’identità di un organismo rispetto a fattori esogeni che ne destabilizzano l’identità, così come per ogni unità politica nota. Anche la multiculturale e multinazionale Svizzera opera in forme che tendono a preservare la difesa identitaria del proprio spazio vitale: ha una Costituzione, dei confini, leggi comuni, regole che ne definiscono l’indipendenza da altre unità politiche entro uno spazio in cui vivono i suoi cittadini.
Salvo che per colonie, protettorati o entità politiche fittizie (come alcuni paradisi fiscali), nel mondo non esistono che unità politiche per cui è ovvio che la propria identità entro uno spazio vitale vada difeso.
Tutto il peso dello stigma nella definizione sta nel carattere di illusorietà (‘presunto’), che farebbe dell’ “atteggiamento mentale” una forma di delirio, di allucinazione malata.
Le citazioni che forniscono la campionatura d’uso dell’espressione sono in questo senso eloquenti.
La prima fa riferimento ad un atteggiamento ‘paranoico’, cioè appunto ad una categoria delirante; niente viene aggiunto al quadro, salvo il giudizio insindacabile del giudicante: si tratta di patologia mentale.
La seconda addirittura, secondo il canone retorico dello ‘strawman’, inventa di sana pianta una tesi che nessuno, neanche qualche ultras neonazi etilista, ha mai sostenuto (“vogliamo metterci alla guida dell’altro 99% affermando che devono fare quello che riteniamo giusto noi?”), per poter procedere alla liquidazione forfettaria di ogni richiesta di sovranità.
Ora, ciò che è particolarmente preoccupante in questo episodio di malcostume culturale è vedere l’abisso di malafede, arroganza e ignoranza in cui sguazzano soddisfatti precisamente quelli che sparacchiano accuse ad alzo zero di malafede, arroganza e ignoranza sui dissenzienti.
Siamo di fronte ad operazioni spudorate, prive di scrupoli, in cui vengono avvelenati i pozzi del dibattito pubblico da coloro i quali sono stati posti a guardia degli stessi.
E’ qualcosa che eravamo abituati a leggere nelle descrizioni sull’atmosfera di falsificazione culturale nella Controriforma tridentina o nella Restaurazione napoleonica, pensando che eravamo fortunati a vivere in un’epoca che li aveva superati. E ci ritroviamo oggi con i sedicenti portatori sani di ‘illuminismo’ a fare le stesse cose, ma con meno scuse.
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replica:
Speriamo di aver chiarito l’equivoco e restiamo a disposizione per ulteriori chiarimenti.
Le armi della guerra economica
La presente sezione sarà dedicata all’analisi dettagliata delle armi utilizzate
dagli Stati nella guerra economica per vincerla e affermare la loro potenza. Le
prime che prenderemo in considerazione sono le armi di tipo indiretto, che
agiscono nelle retrovie e contribuiscono a plasmare il dispositivo di una “guerra
coperta”.
All’interno di questo insieme molto particolare di strumenti di guerra
economica, quello che più agisce a monte di tutti è sicuramente la formazione, che
contraddistingue soprattutto i Paesi sviluppati e ha contribuito in larga misura ai
loro successi economici. Basti pensare, a questo proposito, all’importanza data
dall’Unione Europea a questo fattore, tanto che due degli otto obiettivi della
strategia Europa 2020 per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva
riguardano proprio l’istruzione (riduzione dei tassi di abbandono scolastico
precoce al di sotto del 10% e aumento al 40% dei 30-34enni con un’istruzione
universitaria). Andando poi a verificare la correlazione di formazione e sviluppo
economico, esempi di Paesi come la Germania, il cui sistema di istruzione e
formazione è riconosciuto come uno dei migliori al mondo, o il Giappone, dove il
tasso di conclusione degli studi secondari si aggira intorno al 95%, confermano
quanto finora affermato, soprattutto se si considera le modalità con cui questi due
Paesi sono presenti sui mercati internazionali. Naturalmente qui non si tratta solo
della formazione di base, per quanto questa sia importante nel porre le basi e dare
l’impronta di un certo modo di progredire anche in ambito economico, ma ci si
riferisce in maniera particolare alla formazione continua, che dà a coloro che la
ricevono le necessarie doti di flessibilità e polivalenza che permettono di essere
costantemente aggiornati e mai impreparati ai cambiamenti. A questo proposito,
un altro buon esempio sono le scuole di commercio francesi, delle quali le più
prestigiose si classificano ai primi posti in ambito europeo e il cui successo si deve
in gran parte a un modello nazionale che prevede una formazione biennale di base
ad alto contenuto generalista, quindi non solo scientifico ma anche umanistico,
propedeutico alla successiva specializzazione. Una caratteristica peculiare delle
élite che si formano in questo tipo di scuole moderne è la loro propensione
internazionale, aspetto ben distinto dal carattere marcatamente sciovinista della
preparazione militare dei secoli passati di cui tali scuole, se si segue il filo
conduttore della guerra economica come versione attuale degli antichi scontri
bellici, dovrebbero essere la naturale continuazione.
A complemento del discorso sulla formazione iniziale, è necessario parlare
del ruolo svolto dalla formazione specialistica e dalla ricerca, cruciali ai fini
dell’affermazione della potenza economica. Non è un caso, lo ribadiamo, che
l’Unione Europea abbia affermato fin dall’inizio del millennio di voler diventare la
prima “economia della conoscenza” e che, ad esempio, la sola Francia conti
160.000 ricercatori, un numero più che raddoppiato nel giro di settant’anni. Il
sapere è infatti diventato l’arma suprema della guerra economica e il potenziale
della ricerca risulta essere il motore delle trasformazioni del nostro tempo. È per
questo che Paesi emergenti come la Cina e l’India, che hanno compreso
perfettamente quale sfida cruciale si giochi intorno alla produzione di sapere, sia
esso di base o applicato, non rimangono indietro in questa sorta di “corsa alla
conoscenza”: se da Pechino arrivano forti e chiare le dichiarazioni di uomini di
punta come il Primo Ministro Wen Jiabao, che nel 2005 si spingeva a proclamare il
XXI come “il secolo asiatico delle alte tecnologie”; nel subcontinente indiano ogni
anno prestigiosi istituti tecnologici costruiti negli anni Sessanta sul modello del
MIT sfornano un esercito di 170.000 diplomati. Nell’ambito della ricerca è poi
fondamentale la cooperazione fra università, scuole e settore privato, il quale si
aspetta precisi e puntuali ritorni dal lavoro dei ricercatori; cooperazione che al
giorno d’oggi si presenta sotto forma di “cluster” o “poli di competitività”, spazi
dove convivono luoghi di ricerca, scuole d’ingegneria e imprese di alta tecnologia e
che sono incubatori di una potenza economica straordinariamente innovativa e
all’avanguardia. A questo proposito, lo Stato francese si è fatto promotore, dal
2005, di questo tipo di realtà che rappresentano un elemento fortemente attrattivo
per il territorio in cui sono insediati, realizzando attività di alta formazione
assolutamente all’avanguardia. Ad ogni modo, si registrano ancora divari enormi
nelle politiche effettive in favore della ricerca attuate dai diversi Paesi, anche
all’interno del gruppo delle nazioni leader: è quasi scontato, purtroppo, riferire a
questo proposito il caso dell’Italia dove, pur riconoscendo a parole l’importanza
capitale di una ricerca solida, anche finanziata dal settore privato, per poter dotare
le imprese di tecnologie a elevate prestazioni e consentire loro, di conseguenza, di
essere concorrenziali sui mercati internazionali, il numero di ricercatori impiegati
nelle aziende è cinque volte inferiore a quello di Stati Uniti, Giappone e Svezia. Per
non parlare poi della fuga di cervelli, che decidono di lasciare l’Italia per trovare
migliori opportunità di lavoro e stipendi più alti oltreché la valorizzazione di
merito e competenze a scapito di raccomandazioni, burocrazia e scarso turnover.
Per ogni “cervello che fugge”, però, c’è senz’altro un Paese pronto e ben felice di
accoglierlo e ve ne sono alcuni che fanno dell’attrazione del personale altamente
qualificato e specializzato una vera e propria arma di guerra economica: è il caso
degli Stati Uniti, che a più riprese nel corso del XX secolo sono stati un porto
d’approdo delle menti migliori dei quattro angoli del globo, a cominciare dalle élite
ebraiche in fuga dall’Europa nazifascista, proseguendo con le decine di fisici e
matematici ex sovietici arrivati negli anni Novanta e, infine, arrivando fino ai giorni
nostri, in cui le università statunitensi sono popolate di ingegneri ed economisti
indiani e cinesi. Se si considera il fatto che tre quarti di loro si stabiliscono
definitivamente negli Stati Uniti una volta terminati i loro studi, si può dedurre
facilmente il vantaggio che ne deriva per l’economia americana.
Direttamente collegata con la ricerca è l’innovazione, motore propulsivo di
fondamentale importanza per le imprese e su cui lo Stato ha tutto l’interesse di
investire. L’esempio dei brevetti mostra quanto la collaborazione fra questi due
attori possa rivelarsi fruttuosa. La classifica mondiale delle potenze in termini di
deposito di brevetti certifica il primato cinese, il cui ufficio brevetti dal 2013 è
ormai il primo al mondo con un quarto del totale delle richieste, seguito a ruota
dagli Stati Uniti, mentre il ruolo dell’Europa perde progressivamente di rilevanza a
discapito di una massiccia presenza asiatica, dato che le altre prime posizioni sono
occupate da Giappone, Corea e India. La maggior parte dei brevetti depositati in
tutto il mondo è a opera di imprese del settore privato (Matsushita, Philips,
Siemens, Huawei, Bosch, Toyota, Microsoft, solo per citarne alcune) che però senza
l’azione dello Stato – soprattutto in epoche passate (ci riferiamo qui al ruolo
decisivo in termini di ricerca e sviluppo dei comandi militari americani, o del MITI
giapponese) – non avrebbero mai potuto raggiungere i risultati odierni. È pur
sempre opera dello Stato perfino la predisposizione di un ambiente normativo
favorevole e sufficientemente tutelato in questo settore, per cui la ricerca dei
brevetti può essere considerata a tutti gli effetti un affare nazionale, una garanzia
di produttività, insomma: un’arma decisiva per gli scontri commerciali fra nazioni.
Passando dall’ampio campo della gestione della conoscenza nelle sue
diverse forme quale strumento di guerra economica a quello della competitività,
possiamo affermare che su questo terreno lo Stato può giocare a pieno tutte le sue
carte. È nel suo massimo interesse, d’altronde, far sì che le sue imprese siano
dotate il più possibile della capacità di affrontare la concorrenza sui mercati
esterni e interni. In un momento storico come quello che si sta attraversando, in
cui i travolgimenti nell’ambito delle posizioni di potenza sono di notevole portata,
vediamo come a fronte dell’avanzamento imponente di alcuni Stati sui mercati
internazionali (negli scambi a livello globale, la percentuale cinese è passata dal
2% al 9% nel giro di poco più di vent’anni) altri, storicamente ben piazzati,
indietreggiano (è il caso della Francia, che nello stesso arco di tempo è passata dal
6% a circa il 4%), mentre altri ancora mantengono le proprie posizioni (la
Germania è esempio di notevole continuità, dal momento che mantiene saldamente
il primo posto con una quota che si aggira intorno al 10%). Il ruolo dello Stato è qui
quello di coordinatore, di fornitore di strumenti di lettura, comprensione e
interpretazione del terreno degli scambi internazionali, possibile grazie alle
conoscenze nei più disparati ambiti che almeno una parte dei suoi funzionari
dovrebbe avere degli altri Stati. Prendendo l’esempio della Francia, questo ruolo
viene svolto in gran parte dal Segretariato di Stato per il Commercio estero,
impegnato in questi anni di crisi economica soprattutto a contenere l’erosione
della quota francese sui mercati mondiali la quale, seppur imputabile a
cambiamenti per lo più inevitabili e che coinvolgono tutti i grandi Paesi occidentali,
resta tuttavia preoccupante per la bilancia economica nazionale. A questo scopo, è
stata recentemente riformata l’Agenzia nazionale di promozione dell’esportazione,
Ubifrance, incaricata di promuovere le esportazioni grazie all’apporto delle proprie
competenze ed expertise nei confronti delle imprese francesi. In Italia, l’organismo
con funzioni praticamente sovrapponibili a quelle di Ubifrance è l’Agenzia ICE, che
ha il compito di agevolare, sviluppare e promuovere i rapporti economici e
commerciali italiani con l’estero, in particolare delle piccole e medie imprese, e che
opera per incentivare l’internazionalizzazione delle imprese italiane nonché la
commercializzazione dei beni e servizi nazionali sui mercati internazionali. Anche
il ruolo attivo dello Stato nella negoziazione di grossi contratti di produzione
rientra nella più generale promozione della competitività e concretizza quella
cooperazione con le imprese spesso invocata ma sempre di difficile attuazione: il
partenariato fra gli Stati Uniti e le imprese di armamenti e del settore
dell’aeronautica è un buon esempio di questo aspetto.
La competitività è un indice applicabile alle imprese; l’attrattività invece è
una caratteristica propria dei territori: attirare investimenti esteri diretti significa
produrre occupazione nazionale e beneficiare di un ritorno fiscale. Politica fiscale,
gestione del territorio e cultura ne sono le componenti. Per quanto riguarda la
politica fiscale, abbiamo già visto in precedenza come questo sia un nodo dolente
dell’attrattività italiana, anche se altri Stati europei, in particolare il Belgio e la
Francia, hanno tassi d’imposta sulle società non molto distanti. Al contrario, il caso
dell’Irlanda è esemplificativo del fatto che una politica fiscale “leggera” nei
confronti delle imprese funge fortemente da incentivo agli investimenti diretti
esteri: con una tassazione che si aggira intorno al 15%, peraltro fortemente
osteggiata dall’UE, la “tigre celtica” è riuscita così ad attirare soprattutto imprese
straniere nel settore delle alte tecnologie e informatico (da Adobe a eBay, passando
per Yahoo!), sostenendo in gran parte la propria crescita economica. La Cina
invece, in questo ambito, ha sviluppato una politica di istituzione di aree
economiche speciali nelle province di Guangdong, Fujian e Hainan e di sviluppo di
regimi fiscali particolarmente attraenti da applicare proprio in queste aree alle
imprese straniere che scelgono di insediarvisi. Per quanto riguarda la gestione del
territorio, si intende qui il livello di sviluppo delle infrastrutture necessarie alle
imprese per rifornirsi di materie prime, per portare ai quattro angoli del mondo i
risultati della produzione e per comunicare fra di loro: collegamenti aerei, ferrovie
ad alta velocità, strade e porti, connessioni internet ad alta velocità e copertura per
la telefonia mobile, che ha ormai quasi ovunque soppiantato la rete di telefonia
fissa e in intere parti del mondo, ad esempio nell’Africa subsahariana, dove ne
rende addirittura inutile l’estensione. Per quanto riguarda, infine, la cultura, si
tratta dell’elemento più impalpabile ma non per questo meno sfruttabile del soft
power, come lo definisce Joseph Nye. A differenza di molti altri elementi analizzati,
questo è indubbiamente una caratteristica che l’Italia possiede pienamente e da cui
può trarre profitto, come ripetutamente si è prodigato a ripetere e promuovere il
suo attuale Primo Ministro e come ha saputo dimostrare in occasione di Expo
2015, dove l’“Italian way of life” fondato su un benessere alleato del gusto e della
bellezza non ha mancato di attrarre una vasta platea di potenziali investitori.
L’ultima arma strategica che prendiamo in considerazione qui, nell’ambito
della guerra coperta, è l’intelligence economica, che l’Alto Responsabile presso il
Segretariato Generale della Difesa francese Alain Juillet definisce come una
modalità di governance focalizzata sul controllo dell’informazione strategica e che
mira alla competitività e la sicurezza sia dell’economia che delle imprese. Altri due
grandi esperti di guerra economica, Christian Harbulot ed Éric Delbecque, hanno
proposto le loro definizioni di intelligence economica. Il primo l’ha definita come la
costante ricerca e interpretazione delle informazioni accessibili a tutti, con
l’intento di decifrare le intenzioni degli attori e intuire le capacità. Il secondo
invece l’ha individuata nella cultura di lotta economica, ossia nella competenza –
intesa come l’insieme di metodi e di strumenti di sorveglianza, di sicurezza e di
influenza–enella politica pubblica, che mira ad accrescere la potenza tramite
l’elaborazione e l’attuazione di strategie geo-economiche, oltre che tramite azioni
in favore del controllo collettivo dell’informazione strategica. L’intelligence viene
qui naturalmente intesa nella sua accezione originaria di derivazione
anglosassone, ossia come raccolta di informazioni per sapersi muovere meglio sul
terreno, qualunque esso sia, e non tanto negli aspetti esacerbati dello spionaggio e
degli agenti segreti tipici dell’epoca della Guerra Fredda, in cui ciò che si
privilegiava era una cultura dell’informazione ad appannaggio di pochi, oscuri
esperti e incurante dell’illegalità dei mezzi utilizzati (trasferimenti di tecnologia,
furti di materiale informatico, licenziamenti di quadri strategici, ecc.). Analizzando
più nel dettaglio in cosa consista l’intelligence economica, ossia le applicazioni
concrete di quella che a volte viene definita impropriamente “guerra
dell’informazione”, possiamo distinguere tre campi d’azione: la veglia, la
protezione dell’informazione e la realizzazione di lobby. La prima, in particolare, si
concretizza nella sorveglianza dell’ambiente economico di riferimento in modo da
individuare con una certa prontezza eventuali minacce da cui difendersi o
occasioni da cogliere; si divide nelle sette tipologie di veglia concorrenziale,
commerciale, tecnologica, geografica, geopolitica, legislativa e societaria. Tutto ciò
a favore di una crescita di influenza, e quindi di potenza, di quegli Stati in grado di
mettere in campo un tale dispositivo. Il punto di vista che qui si propone, infatti,
privilegia la capacità dello Stato di usare quest’arma strategica, piuttosto che
quella delle singole imprese che la usano allo scopo di ampliare il proprio giro
d’affari e di aumentare i profitti. Contemporaneamente strumento offensivo e
difensivo, come quando viene usato per prevedere un’alleanza fra concorrenti o
praticare la disinformazione, l’intelligence economica è il fiore all’occhiello delle
politiche di guerra economica, vista l’importanza assunta dall’informazione nelle
economie moderne. È su questo terreno, peraltro, che si rende maggiormente
necessaria una stretta collaborazione fra Stato e imprese, sul modello sviluppato in
Giappone nell’immediato dopoguerra, quando la fondazione della Japan External
Trade Organization si affiancò al lavoro del già citato MITI. L’intensificazione dei
legami commerciali con gli altri Stati veniva perciò supportata dagli ampi poteri
assegnati a quest’ultimo, in una realtà non solo economica ma anche culturale dove
la partecipazione allo sforzo di rendere grande la propria nazione attraverso i
primati in termini di innovazione tecnologica e proiezione commerciale è un
dovere morale di ogni singolo cittadino. Non a caso, dell’intero budget nazionale
destinato a ricerca e sviluppo, una cifra compresa fra il 10 e il 15% viene destinata
in Giappone all’informazione scientifica e tecnica. Qualcosa di analogo avviene
anche negli Stati Uniti, anche se ancora formalmente mascherato da un discorso
ufficiale di competizione leale. L’amministrazione americana ha infatti messo in
piedi un servizio di “contro-intelligence”, derivato da un ampliamento delle
prerogative della CIA che in questo modo svolge un ruolo attivo nello spionaggio
industriale, per fornire alle proprie imprese informazioni segrete relative ai loro
concorrenti stranieri.
Dopo aver analizzato ampiamente le armi utilizzate nella guerra economica
coperta (formazione dei quadri dirigenziali, politiche di competitività e di
attrattività, dispositivi di intelligence economica), conviene ora passare in rassegna
le diverse armi offensive a disposizione degli Stati.
Nel corso del presente contributo si sono già citate le sanzioni quale forma
di guerra economica condotta con finalità politico-strategiche. Una modalità che
risulta ancora più soffocante per l’avversario è quella del boicottaggio, quando non
del blocco alle vendite: ne sono esempi l’arma alimentare usata dal presidente
Carter nel 1979 per bloccare le vendite di cereali all’URSS in occasione
dell’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Armata Rossa, l’attuale minaccia di
chiusura dei rubinetti del gas da parte della Russia nei confronti dell’Europa, o
ancora il boicottaggio a danno dei prodotti francesi in Cina nel 2008 causato dal
sostegno dato da Parigi al Tibet, questione peraltro scoppiata alla vigilia dei giochi
olimpici di Pechino anche in molti altri Paesi occidentali in seguito alla repressione
cinese della ribellione dei monaci tibetani. Un’altra misura che potrebbe essere
interpretata come ritorsione è il contingentamento delle importazioni: vietato
nell’Unione Europea, è invece ampiamente usato dagli Stati Uniti nei settori più
disparati, che vanno dal formaggio alle automobili, misura quest’ultima volta a
tutelare le grandi società produttrici americane a detrimento dei prodotti
giapponesi, con Tokyo che ha preferito negoziare in questo senso piuttosto che
correre il rischio di essere soggetto a restrizioni ancora più sfavorevoli. Vi sono poi
i picchi tariffari, ovvero dazi doganali superiori al 100%, spesso applicati sui
prodotti agricoli provenienti da determinati Paesi (si vedano ad esempio le
condizioni di adesione all’OMC imposte all’Afghanistan nel 2014, alla fine dei
negoziati).
A queste armi dirette si affiancano, come si vede ora, altrettante armi
offensive indirette della guerra economica aperta. Innanzitutto la cosiddetta
“diplomazia degli affari” che, pur essendo una pratica dalla lunga tradizione, è stata
perfezionata dall’amministrazione Clinton: essa consiste in una sorta di assalto
massiccio delle imprese sui mercati esteri, supportata da un’attenta preparazione
del terreno (liberalizzazione degli scambi con il Paese interessato), da
un’approfondita conoscenza del campo dello scontro (informazione industriale e
commerciale) e da una sapiente regia statale (nel caso degli Stati Uniti degli anni
Novanta, l’Advocacy Center informalmente chiamato “War room”, incaricato di
sorvegliare costantemente i mercati industriali mondiali). Se si affronta più nel
dettaglio il primo di questi elementi, la liberalizzazione degli scambi, vediamo
come e quanto sia stato usato soprattutto dagli Stati Uniti come una vera e propria
arma. I trattati di libero scambio da essi conclusi, infatti, hanno sempre rivelato la
loro potenza offensiva in quanto strumenti di relazione diseguale tra uno Stato
forte, da un lato, e uno Stato debole, dall’altro, asimmetria che ha sempre
penalizzato quest’ultima controparte, naturalmente. È il caso, ad esempio, delle
relazioni commerciali mantenute con gli Stati dell’America centrale (la cui quasi
totalità dei Paesi ha concluso simili accordi con Washington): nient’altro che
un’evoluzione post-Guerra Fredda dell’idea di manifest destiny, della dottrina
Monroe e del corollario Roosvelt. Questi accordi sono spesso molto più
intransigenti degli standard dell’OMC ai quali tutti appartengono: la supremazia
statunitense si afferma gioco forza per l’importanza rivestita nella bilancia
commerciale di questi Stati, di cui sono il primo partner commerciale, e permette
di imporre unilateralmente norme sbilanciate in loro favore, ad esempio sui
brevetti (allungamento della durata di protezione dei brevetti, oppure
allargamento delle condizioni di brevettabilità, che permettono di porre dei
brevetti su prodotti già commercializzati) e, di conseguenza, di conservare la
leadership. Gli Stati Uniti, dunque, non schiacciano il loro avversario economico
con la forza, ma si accontentano in qualche modo di definire regole del gioco
favorevoli ai propri interessi.
L’ultima evoluzione in termini di armi offensive nella guerra economica
sono i fondi sovrani che hanno fatto la loro irruzione sullo scenario finanziario
mondiale negli ultimi vent’anni e che, per la portata del loro impatto sull’economia
internazionale, ci si potrebbe arrischiare a paragonare a vere e proprie armi di
distruzione di massa. Si tratta di fondi d’investimento internazionale del risparmio
nazionale che, essendo difficilmente depositabile nei circuiti bancari classici per
l’eccezionalità del loro importo (le stime indicano una cifra di più di 16.000
miliardi di dollari solo per i Paesi dell’Asia orientale), viene direttamente
controllato dagli Stati o dalle banche centrali. Sono stati pensati in origine come
strumenti finanziari destinati a valorizzare un capitale rilevante dello Stato e
destinato alle generazioni future (è questo il caso del fondo sovrano norvegese). La
maggior parte di questi fondi è stata costituita da Stati esportatori di petrolio, da
un lato, e da Paesi dell’Asia orientale la cui bilancia corrente registra saldi
dell’ordine del 6,5% del PIL, dall’altro, per investire le loro ingenti eccedenze
commerciali e si sono configurati come potente mezzo di intervento negli equilibri
economici mondiali soprattutto in seguito alla crisi dei subprime, quando un certo
numero di essi è entrato nel capitale di gruppi prestigiosi (Citigroup, Merrill Lynch,
Morgan Stanley) allo scopo di salvarli con iniezioni di liquidità. Esemplificativo è il
caso di Citigroup: primo gruppo finanziario mondiale fino al 2007, di fronte ai
problemi di liquidità derivati dalle speculazioni dei subprime ha fatto appello a
diversi fondi fra cui quelli di Singapore, del Kuwait e di Abu Dhabi. Il salvataggio c’è
effettivamente stato, ma a condizioni dettate naturalmente dai nuovi investitori:
garanzia di rendimenti elevati delle azioni (dal 9 all’11% annuo), prezzi minimi
garantiti anche in caso di crollo dei valori e decisioni prese non più nella sede della
casa madre negli Stati Uniti, bensì nel palazzo di uno degli emiri proprietari del
fondo sovrano, elemento territoriale puramente simbolico ma molto eloquente di
qual è lo Stato che ora ne detiene il controllo. Risulta quindi evidente come un tale
massiccio intervento non sia affatto neutro e che, di conseguenza, sia a tutti gli
effetti una forma di controllo da parte degli Stati di cui tali fondi sono emanazione.
Il sospetto è che, anche grazie a politiche e gestioni non esattamente trasparenti,
essi servano interessi politici e geopolitici dei Paesi emergenti e vengano perciò
percepiti come una minaccia economica importante dai Paesi occidentali. Basti
pensare che il fondo di Abu Dhabi da solo avrebbe potuto acquisire, prima della
crisi, le prime nove imprese quotate nel più importante indice della piazza parigina
e che la China Investment Company, fondata nel 2007, si posiziona già al 6° posto
mondiale per quantità di capitale. La miglior prova del fatto che sono percepiti
come una minaccia è la recente adozione di misure destinate a ostacolarne la
capacità di acquisizione. Questo dispositivo ha una certa tradizione negli Stati
Uniti, dove il Committee on Foreign Investments può consigliare al Presidente di
rifiutare un investimento straniero che minaccerebbe un’impresa americana
giudicata strategica.
Accanto alle armi, vi sono i dispositivi di protezione e di difesa.
Naturalmente, attacco e difesa sono strumenti che concorrono insieme a definire
una stessa strategia e perciò il loro uso ha pari importanza all’interno della guerra
economica. Libero scambio sì, dunque, ma a patto di poter adeguatamente tutelare
il tessuto industriale interno e le ricadute che la sua tenuta ha in ambito politico e
sociale; se dunque le varie teorie elaborate dagli specialisti non soddisfano questo
principio pragmatico, gli Stati non si fanno alcuna remora a ignorarle e ad agire nel
senso protettivo appena indicato. È il motivo per cui non bisognerà meravigliarsi
che certi mezzi di difesa presentati qui siano già stati annoverati nella categoria
delle armi appena presentate: gli stessi strumenti della guerra economica possono
rivelarsi contemporaneamente armi potenti e scudi resistenti in funzione del
contesto. I dispositivi di protezione e di difesa che vedremo sono: la moneta,
l’unfairtrade, le barriere doganali e tariffarie, le quote d’importazione, le
sovvenzioni alle esportazioni, il patriottismo economico sotto forma di consumo
patriottico e il soft power normativo.
Per quanto riguarda la moneta, la svalutazione è un potente mezzo di
stimolo alle esportazioni in periodo di recessione, come hanno dimostrato le azioni
della Bank of England fra il 2008 e il 2009 in favore della sterlina nei confronti
dell’euro e la svalutazione di yen e yuan. La moneta svolge così il doppio ruolo di
strumento difensivo, poiché diminuisce la competitività dell’avversario, e di arma,
in quanto consente una più facile penetrazione dei mercati esteri.
La questione dell’unfairtrade si richiama a una legge statunitense del 1962,
la cosiddetta “301”, che aveva lo scopo di sanzionare Stati e imprese appartenenti
al proprio blocco che si rendessero colpevoli di comportamento sleale ovvero,
concretamente, commerciassero con l’URSS o con Cuba, e autorizzava il Presidente
in persona a rispondere agli atti “ingiustificabili”, “immotivati” o “discriminatori” di
questo tipo. Se ciò è facile da comprendere in un contesto di Guerra Fredda, in cui
le alleanze politico-strategiche regolavano abbastanza rigidamente le relazioni
internazionali, risulta forse meno accettabile in un contesto di distensione e
multilateralismo come quello odierno, eppure si tratta di atteggiamenti tutt’altro
che desueti. Negli anni Novanta il Presidente Clinton, che in più occasioni si è
dimostrato come un forte sostenitore della logica di guerra economica, ha
rinnovato la cosiddetta “super-301” emanata nel 1984 allo scopo di individuare gli
ostacoli alle importazioni americane e combatterli con misure di ritorsione. Il caso,
citato in precedenza in merito al boicottaggio, delle misure di tutela delle grandi
case automobilistiche a scapito dei prodotti giapponesi, accettate da Tokyo per non
correre il rischio di essere soggetto a restrizioni ancora più sfavorevoli, nacque
proprio a causa della minaccia americana di ricorrere alla “super-301”, con
sovrattasse anche del 100%. L’istituzione dell’OMC e del relativo organismo di
regolazione delle controversie, sorta di arena giuridica dove si affrontano le
potenze per far valere i loro diritti, dovrebbe prevenire il ricorso a questo tipo di
misure. Il funzionamento dell’Organo di Conciliazione si basa su norme precise e su
una serie di scadenze predefinite per l’esame di ciascun caso. La procedura dura in
totale al massimo un anno e tre mesi (solo un anno in assenza di appello): le
decisioni iniziali sono prese da un gruppo speciale, previa consultazione di
entrambe le parti cui viene anche presentato il rapporto finale (entro sei mesi), e
approvate o rifiutate dall’insieme dei membri dell’OMC. Tuttavia l’obiettivo
dell’organismo, più che essere l’emissione di un giudizio, sarebbe di conciliare, per
l’appunto, le controversie e arrivare a una negoziazione consensuale della
risoluzione da parte delle due parti in causa; un’eccezione a questa funzione
particolare, che peraltro normalmente si realizza nei fatti, è stata la cosiddetta
“guerra delle banane” che ha contrapposto i Paesi ACP a quelli dell’America Latina.
Negli ultimi tempi, l’Organo di Conciliazione ha registrato un aumento del numero
di ricorsi, segno per i suoi funzionari della fiducia che gli Stati riporrebbero nelle
sue procedure e decisioni. Tuttavia, in un contesto di competizione sempre
maggiore, esso potrebbe anche essere uno fra i tanti mezzi di cui gli Stati si
servono per vincere le battaglie economiche che li oppongono e, per questo, un
rivelatore particolarmente paradigmatico della situazione di guerra economica al
tempo della globalizzazione.
Per quanto riguarda le barriere doganali o tariffarie, si tratta dei mezzi
difensivi più antichi di cui gli Stati dispongono per tutelarsi contro le strategie
offensive sviluppate dai loro avversari. Sono un tipo di misura attuata soprattutto
dai Paesi in via di sviluppo, che la adottano per proteggersi dalle importazioni
provenienti dalle nazioni industrializzate (l’economista tedesco propone la
definizione, in questo caso, di “protezionismo educativo”). Dal canto loro, i Paesi
occidentali si servono delle tariffe doganali per proteggere l’occupazione
industriale, il che, se da un lato ha costi elevati in termini economici, dall’altro è
politicamente molto favorito in ragione della sua influenza sugli equilibri sociali.
D’altra parte, è doveroso ricordare come dalla fine della Seconda Guerra Mondiale
le tariffe doganali siano costantemente scese, passando dal 44% degli anni Trenta
del Novecento all’attuale valore inferiore al 5%.
Già si è parlato del contingentamento delle importazioni, con cui sono
strettamente imparentate le quote di importazione, la forma più importante di
barriera non tariffaria. Delimitando direttamente la quantità di prodotti di un certo
tipo che possono essere importati, esse vengono usate per proteggere determinati
settori nazionali oppure per equilibrare la bilancia dei pagamenti. Anche in questo
caso, sono gli Stati Uniti a fornirci un buon esempio con la loro quota
d’importazione sulle importazioni di zucchero: a fronte di una limitazione ben
definita della quantità di zucchero importato e di una conseguente maggiorazione
del prezzo sul prodotto finale venduto al consumatore, il settore zuccheriero
statunitense, piccolo in termini di numeri di occupati, non conosce crisi. Le quote
derivano appunto da una scelta politica, quella di conservare l’occupazione in
determinati settori: la razionalità economica liberale imporrebbe la soppressione
delle quote per abbassare il prezzo del prodotto finale e diversificare il consumo,
ma in guerra economica qualunque teoria non funzionale al mantenimento di una
logica di potenza e di indipendenza risulta sostanzialmente inapplicabile.
Questa sorta di “nuovo protezionismo” si manifesta, oltre che nelle
importazioni, anche nelle esportazioni, sotto forma di sovvenzioni pubbliche a una
determinata impresa o settore di produzione. Conosciute anche con il nome di
dumping, sono ufficialmente illegali (si veda ad esempio quanto stabilito dal
regolamento CE n. 1225/2009 del Consiglio dell’UE), ma spesso vengono attuate in
maniera indiretta. In questo senso, rivestono particolare importanza le
sovvenzioni agricole: sia l’Unione Europea che gli Stati Uniti erogano consistenti
aiuti di Stato ai rispettivi agricoltori, a detrimento di tutti quei Paesi, soprattutto
africani, la cui economia si regge sul settore primario ma che, non detenendo alcun
potere sullo scacchiere economico internazionale, sono fortemente penalizzati e
non riescono neppure ad accedere al mercato mondiale delle derrate alimentari.
C’è da dire che, almeno formalmente, sia l’UE che gli USA si sono impegnati a
rivedere PAC e varie Farm Bill ma, non essendo stati fissati dei tempi per farlo, la
partita non è ancora neppure aperta.
Quando si parla di patriottismo economico si fa riferimento a un famoso
discorso del 2005 dell’allora Primo Ministro francese Dominique de Villepin, nel
quale si affermava la necessità da parte dello Stato di difendere le imprese
nazionali strategiche, soprattutto in settori di punta o comunque considerati parte
del patrimonio industriale nazionale. In realtà, tale concetto sarebbe nato già negli
anni Novanta, sempre in territorio francese, in concomitanza con la fase successiva
alla fine della Guerra Fredda di massima espansione della globalizzazione, che
rappresentava una potenziale minaccia per le imprese dalla capitalizzazione
fragile. La definizione usata da Villepin si rifarebbe invece a un rapporto
presentato nel 2003 dal deputato Bernard Carayon su “Intelligence economica,
competitività e coesione sociale”, dalla fortuna altalenante (condiviso da politici e
imprenditori, ma ritenuto insufficiente nelle sue analisi da molti economisti). In
esso viene ampiamente esposta e dimostrata l’esigenza di dare una connotazione
maggiormente patriottica alla politica economica francese, definendo a tal
proposito tutta una serie di obiettivi da raggiungere: definizione di interessi
comuni fra Stato e settore privato, la tutela di questi interessi come misura di
legittima difesa dall’assunzione di controllo da parte di capitali stranieri, la
successiva conquista di porzioni di mercato mondiale promuovendo l’eccellenza di
determinati settori e aumentandone la competitività. È proprio seguendo le idee
presenti in questo rapporto che è emanato il decreto del 31 dicembre 2005, voluto
da Villepin, sulla protezione della produzione di settori quali la difesa, le tecnologie
dell’informazione, la sicurezza privata e i sistemi di intercettazione delle
informazioni. D’altra parte, la Francia non è la sola a fare ricorso a questo
strumento di difesa nella guerra economica: l’Unione Europea stessa, con
l’istituzione nel 2004 della forma giuridica della “società europea”, persegue
chiaramente l’obiettivo di consolidare la dimensione europea di queste imprese a
discapito di possibili assunzioni di controllo da parte di entità straniere nei loro
confronti. Per non parlare poi degli Stati Uniti, dove il Committee on Foreign
Investment ha diritto di veto sulle operazioni d’acquisto di imprese americane da
parte di società straniere, o ancora della Germania, dove nel 2010 il governo della
cancelliera Merkel ha impedito l’acquisizione di Opel da parte di Fiat-Chrysler.
Per quanto riguarda il soft power normativo, l’esempio principe che merita
di essere preso in considerazione è quello delle negoziazioni commerciali
multilaterali. L’OMC è quindi diventata teatro di scontri contrapposti per
promuovere e ampliare sempre più il libero scambio, da un lato, e proteggere il
vantaggio tecnologico dei Paesi industrializzati, dall’altro. È ovvio che ad esserne
svantaggiati risultano soprattutto i Paesi in via di sviluppo del Sud del mondo,
perché la mancata liberalizzazione di determinati brevetti in campo medico, ad
esempio, impedisce a questi Stati di produrre medicinali a basso costo. Un’OMC
ostaggio dei Paesi occidentali, che ha portato fra le altre cose al fallimento nel 2011
del Doha Round dopo dieci anni di negoziati, non è altro che una misura di difesa
contro quei Paesi emergenti – India in testa con il suo potenziale di produzione
nelle biotecnologie – che potrebbero così aspirare non solo all’indipendenza
economica in determinati settori, ma anche a imporsi come leader sui mercati
internazionali. Altro terreno su cui si disputa un’importante partita intorno al soft
power è senza dubbio il Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli
Investimenti (TTIP): non un semplice accordo commerciale di libero scambio per
la libera circolazione di merci e servizi, ma anche un accordo di tipo normativo,
volto a rimuovere le molte differenze in regolamenti tecnici, norme e procedure di
omologazione, standard applicati ai prodotti e regole di sicurezza e sanitarie
presenti fra Unione Europea e Stati Uniti, che hanno ancora alcune carte da
giocarsi in merito. Questo partenariato, qualora e quando entrasse in vigore,
creerebbe l’area di libero scambio più grande del pianeta, equivalente a circa la
metà del PIL e un terzo degli scambi commerciali globali: tutto il mondo ne
gioverebbe e sarebbe ipotizzabile imboccare nuovamente la strada del
multilateralismo nella liberalizzazione commerciale, che attraversa un momento di
stallo nonostante la volontà di unificare il commercio mondiale. La
frammentazione giuridica attuale, infatti, favorisce la costruzione del teatro della
guerra economica, con la regola del più forte (del più potente) a prevalere su
qualsiasi altra logica razionale.
Infine, fra gli strumenti difensivi citati in apertura di questa sezione vi è il
consumo patriottico, che consiste semplicemente nel privilegiare l’acquisto di
prodotti nazionali, piuttosto che stranieri, nei più disparati settori. Esso può essere
incentivato dallo Stato oppure no, ma in entrambi i casi fornisce una difesa efficace
contro gli attacchi della guerra economica. Il primo caso è rappresentato dagli Stati
Uniti, dove una misura protezionistica adottata in piena Grande Depressione, il
Buy American Act promosso da Roosevelt e approvato nel 1933 come una delle
misure volte a risollevare il Paese dalla recessione economica, è ancora in vigore a
giustificare una politica che accorda ufficialmente la preferenza alle imprese
americane. In questo quadro si inserisce, ad esempio, il conflitto fra Boeing e
Airbus per la fornitura di una commessa all’aviazione statunitense: l’impresa
europea era stata selezionata per le sue migliori prestazioni, ma il Pentagono ha
comunque deliberato di annullare l’offerta e di rimetterla alla decisione della
prima amministrazione Obama all’indomani del suo insediamento, favorendo così
implicitamente Boeing in questa partita. In Giappone, invece, le modalità di
consumo patriottico sono completamente diverse: lo Stato non ne ha alcuna
responsabilità, ma sono di fatto i consumatori a preferire per la stragrande
maggioranza i prodotti nazionali. Ne sono un esempio il mercato dell’automobile,
detenuto per il 95% da marchi nipponici, o il recente blocco della
commercializzazione di prodotti elettronici targati Samsung nel Paese del Sol
Levante, dovuto a una penetrazione difficilissima del mercato giapponese che
lasciava all’azienda coreana un misero 1% dell’intero mercato dell’elettronica.
Conclusioni
Questo contributo era iniziato con gli auspici dei grandi pensatori
dell’Ottocento circa la realizzazione di uno scenario di pace perpetua dove il libero
scambio delle merci e delle idee avrebbe sostituito gli scontri militari fra nazioni
per la supremazia politica ed economica. Nonostante le apparenti promesse del
multilateralismo degli anni Novanta e una globalizzazione che teoricamente
poneva le basi perché questo progetto si avverasse, le lotte a tutto campo per il
controllo dei mercati e delle risorse continuano a infuriare.
Un bell’articolo dell’analista Hajnalka Vincze con il solo limite di enfatizzare un po’ troppo il ruolo autonomo, sia pure di retroguardia, della Francia quando appare evidente il tentativo, soprattutto a partire dalla Presidenza Sarkozy, di assumere la leadership europea di una organizzazione a trazione statunitense. E’ il segno, comunque che almeno in Francia esistono ancora forze strutturate che aspirano al recupero della autonomia politica_Giuseppe Germinariohttps://hajnalka-vincze.com/list/notes_dactualite/573-une_otan_de_plus_en_plus_englobante/ LA NATO STA DIVENTANDO SEMPRE PIÙ INCLUSIVAIVERIS – Nota del 18 ottobre 2019
Per più di venti anni, gli Stati Uniti hanno spinto a “globalizzare” l’Alleanza, sulla base del fatto che deve adattarsi a nuovi rischi e minacce se vuole, presumibilmente, “rimanere rilevante” (in altri parole: dimostrare la sua utilità per gli interessi americani e garantire, in cambio, il mantenimento dell’impegno americano nel vecchio continente). Dopo tutto, il ragionamento è logico. Solo che per gli europei porterebbe meccanicamente ad abbandonare tutte le loro politiche. La sfida è impedire, per quanto possibile, che la portata della giurisdizione dell’organizzazione si estenda ad altre aree (non militari) e altre aree geografiche (oltre l’area dell’euro -Atlantique). L’esperienza dimostra che ciò sta esercitando un’enorme pressione sugli alleati affinché accettino le priorità degli Stati Uniti, ribadendo le loro argomentazioni, il loro approccio, i loro standard e, infine, abbandonando le proprie analisi e il proprio pensiero. Per gli europei, il proseguimento dell’estensione della competenza funzionale e geografica della NATO rischia di mettere definitivamente le loro politiche in settori come il cyber, l’energia, lo spazio e i poteri come la Russia, la Cina o il Medio Oriente su una traiettoria stabilita dagli Stati Uniti. Il loro spazio di manovra si restringerebbe singolarmente, con ripercussioni disastrose sia in materia diplomatica che economica. La Francia ha avvertito il pericolo molto presto. Di fronte alla tentazione di espandere le competenze della NATO all’infinito (e di mordicchiare di conseguenza quelle dell’UE di conseguenza), continua a sostenere la “rifocalizzazione” dell’Alleanza. All’inizio del 2007 il Ministero della Difesa ha spiegato che la NATO fa cenno ai settori civili, o ai paesi partner in Asia e Oceania, e di sostenere quindi “un cambiamento nella natura dell’Alleanza” e “obiettivo, sotto la guida degli Stati Uniti, per trasformare la NATO in un’organizzazione di sicurezza globale, sia geograficamente che funzionalmente “ . Ma per la Francia “la NATO non dovrebbe diventare un’organizzazione che comprenda competenze disparate che non avrebbero alcun legame con il suo core business”[1] Allo stesso modo, il ministro Le Drian, parlando nel 2014 in un seminario della NATO, ha chiesto di “focalizzare l’Alleanza sulla sua area di eccellenza” . [2] Estensione geografica: moltiplicazione di partner e obiettivi Di fronte agli incessanti sforzi della burocrazia della NATO di conformarsi il più strettamente possibile alle ingiunzioni statunitensi (con la discreta acquiescenza della maggior parte dei partner), la posizione dei francesi assume l’aspetto di una battaglia di retroguardia. La perdita della focalizzazione euro-atlantica, vale a dire il fatto che l’istituzione di partenariati e la designazione di avversari sta avvenendo su scala globale, fa parte della grande trasformazione postbellica. Come ha riassunto l’eccellente Jolyon Howorth “di un’organizzazione il cui obiettivo iniziale era quello di garantire un impegno degli Stati Uniti per la sicurezza europea, [la NATO] è stata trasformata, quasi impercettibilmente, in un altro, il cui nuovo obiettivo è garantire un impegno europeo al servizio della strategia globale degli Stati Uniti “.[3] Per gli europei, questa evoluzione amplifica due tipi di rischi: militare e diplomatico. Il generale de Gaulle aveva già messo in guardia dal pericolo di essere trascinato nelle avventure militari degli Stati Uniti. “In primo luogo, abbiamo visto che le possibilità di conflitto, e di conseguenza delle operazioni militari, si estendevano ben oltre l’Europa, e che c’erano tra i loro principali partecipanti all’Alleanza atlantica differenze politiche che potrebbero, se necessario, trasformarsi in divergenze strategiche . “ [4] “I conflitti in cui l’America si impegna in altre parti del mondo, in virtù della famosa escalation, potrebbero essere così estesi che potrebbe emergere una conflagrazione generale. In questo caso, l’Europa, la cui strategia è, nella NATO, quella americana, sarebbe automaticamente coinvolta nella lotta anche se contraria alla sua volontà “ . [5] Con la fine della guerra fredda, le divergenze politiche su entrambe le sponde dell’Atlantico si moltiplicano e si manifestano sempre più apertamente, prima sul fronte diplomatico. Questo è il famoso “gap politico” : gli interessi di europei e americani non coincidono, lungi da ciò, su molte questioni, che si tratti di Russia, Siria, Iran, Vicino Oriente, Artico, Cina o Africa. Accettare di formulare queste politiche all’interno della NATO, quindi sotto la tutela dell’America, significa accettare di bloccare le relazioni dell’Europa con altre potenze e altre regioni del mondo in una posizione di follow-up e allineamento sugli Stati Uniti. Come diceva con straordinario eufemismo, il ministro della difesa francese nel 1999: “È innegabile che l’Alleanza non è necessariamente la migliore entità per garantire all’Europa una voce più forte negli affari mondiali” [6]
In termini di propensione della NATO per i partenariati a tutto campo, il concetto sembra innocente a prima vista – ma ci sono alcuni seri pericoli. La diplomazia francese è sempre stata riservata in relazione ai progetti di “partenariato globale” che è, di fatto, l’associazione al lavoro della NATO di paesi geograficamente distanti dall’area euro-atlantica, ma contraddistinti dalla loro lealtà verso gli Stati Uniti. Oggi ci sono 42 paesi, tra cui Giappone e Australia, 5 con accesso a informazioni riservate dell’Alleanza (tra cui Giordania e Georgia). La riluttanza tradizionale della Francia può essere spiegata innanzitutto dal rifiuto di istituire una sorta di grande “alleanza di democrazie”. Che avrebbe, da un lato, la vocazione appena nascosta di sostituire le Nazioni Unite, e ciò stabilirebbe, d’altra parte, una logica da blocco a blocco tra l’Occidente e il resto del mondo. All’epoca il ministro Michèle Alliot-Marie ha denunciato il rischio “Per affrontare un brutto messaggio politico: quello di una campagna su iniziativa degli occidentali contro coloro che non condividono le nostre opinioni . “ [7] In effetti, la continua espansione della rete di partenariati fa parte di una logica di estensione degli avversari e dei teatri di potenziali operazioni. Non è un caso che firmando un accordo di partenariato rafforzato con l’Australia, il Segretario Generale dell’Alleanza abbia chiarito che l’obiettivo è gestire / contrastare l’ascesa della Cina [8]. Lo scorso gennaio, Foreign Policy ha pubblicato un articolo di Stephen M. Walt, uno dei teorici più rispettati delle relazioni internazionali, in cui ha scritto neo su bianco che per salvare la NATO “gli europei devono diventare il nemico della Cina “[9] O chiunque sia indicato dagli Stati Uniti come principale oppositore del momento. Perché è sempre la stessa logica: per garantire le buone grazie di Washington e con il pretesto di “salvare” l’Alleanza, agli europei viene chiesto di allineare le loro politiche a quelle degli Stati Uniti. Va da sé che la NATO è il forum all-inclusive per svolgere questo lavoro di “coordinamento” tra gli alleati. Estensione funzionale: dalla politica interna allo spazio Su base regolare, i funzionari statunitensi lanciano anche “sfide” tematiche alla NATO per dimostrarne l’utilità e la pertinenza. Come il presidente Trump che lo ha definito “obsoleto” a meno che non diventi più attivo nella lotta al terrorismo. Con lo stesso spirito, dall’inizio degli anni 2000, abbiamo assistito a un’estensione totale delle aree di competenza dell’Alleanza. L’attenzione si è concentrata su energia e cyber, ma l’elenco delle possibili aree è praticamente infinito – come affermava Jaap de Hoop Scheffer, segretario generale dell’Alleanza nel 2006: “Praticamente tutti i problemi della società possono rapidamente trasformarsi in una sfida di sicurezza »[10] E questo è positivo, dal momento che, per Washington, è particolarmente importante ridurre al minimo il numero di argomenti su cui gli europei si consultano (all’interno dell’UE), senza il suo diretto controllo. Uno dei grandi vantaggi per gli Stati Uniti dell’ampliamento dell’ambito di competenza della NATO è il blocco / recupero delle iniziative dell’UE nelle aree di loro interesse. Lo scenario è sempre lo stesso. Un soggetto viene proiettato, su iniziativa degli Stati Uniti, sullo schermo radar dell’Alleanza. Gli europei, i francesi in testa, sostengono che la NATO dovrebbe concentrarsi sul proprio core business e non avventurarsi nell’UE. Tuttavia, poiché è già all’ordine del giorno, gli alleati procedono a consultazioni. Arriveranno ad accettare l’inclusione del nuovo soggetto come una delle competenze dell’Alleanza, inizialmente in un modo attentamente circoscritto. La nuova competenza si limita principalmente alla protezione delle capacità proprie della NATO (infrastrutture, forze operative). Quindi, con il pretesto del “valore aggiunto” dell’Alleanza, l’Alleanza propone di sostenere un determinato Stato membro. L’argomento finirà per insinuarsi nella pianificazione della difesa, dove la definizione di “approccio coordinato” si baserà, ovviamente, sulle priorità degli Stati Uniti. La ciliegina sulla torta, le voci si alzeranno per inserire il nuovo campo tra quelle coperte dall’articolo 5. Così, il segretario generale Stoltenberg è stato in grado di dichiarare, lo scorso agosto, che un attacco informatico contro i computer del sistema sanitario britannico potrebbe innescare la difesa collettiva. [11]
La sicurezza energetica è un altro caso di studio. Nel 2006, al vertice di Riga, il presidente Chirac ha sottolineato chiaramente che “la sicurezza energetica non era all’ordine del giorno e non doveva essere all’ordine del giorno della NATO. Quindi non ne abbiamo parlato . “ [12] Tuttavia, in seguito al vertice, sono state avviate” consultazioni “. La Divisione Sfide per la sicurezza emergente ha una sezione dedicata alla sicurezza energetica già dal 2010 e due anni dopo è stato istituito un Centro di eccellenza per la sicurezza energetica della NATO. [13] Al vertice di Bruxelles del luglio 2018, i leader alleati, ansiosi di placare il presidente Trump, dichiararono che “Gli sviluppi energetici possono avere implicazioni politiche e di sicurezza significative per gli alleati” e per questo motivo “Riteniamo che sia essenziale garantire che l’Alleanza non sia vulnerabile alla manipolazione delle risorse energetiche a fini politici o di coercizione, cosa che rappresenta una potenziale minaccia. Gli alleati continueranno quindi a cercare di diversificare le loro forniture di energia. “ [14]Sarà solo una felice coincidenza che, per molti, ciò equivale ad acquistare gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti. [15] Lo spazio è il prossimo nella lista. L’argomento è affrontato due anni fa in un rapporto dell’Assemblea parlamentare della NATO: “Qualsiasi attacco ai beni spaziali di un alleato avrebbe un impatto sulla sicurezza di tutti gli altri. Deve quindi avere un approccio globale che gli consenta di proteggere i suoi interessi nello spazio. È anche indispensabile, dal punto di vista operativo, integrare lo spazio nelle strutture di pianificazione e comando della NATO. Infine, le esercitazioni della NATO dovrebbero includere scenari di guerra spaziale che comportano il divieto temporaneo o la disattivazione di risorse spaziali alleate.[16] Una delle decisioni attese al vertice di Londra del prossimo dicembre è proprio il riconoscimento ufficiale dello spazio come area di competenza e intervento per la NATO. [17] Se è concepito come “un dono a Trump” (ancora una volta, il famoso appeasement), è comunque gravido di conseguenze. La Francia, in particolare, vuole garanzie di comando (le sue capacità spaziali saranno poste sotto il comando NATO / USA in una situazione di crisi) e articolazione con l’articolo 5 (un attacco al satellite di uno dei paesi membri sarebbe in grado di attivare la difesa collettiva)? Ma, ancora una volta, va oltre l’essenziale: non appena lo spazio sarà riconosciuto come dominio della NATO, sarà un intero ingranaggio che verrà messo in atto. A medio e lungo termine, l’Alleanza atlantica potrebbe essere tentata di avventurarsi ulteriormente nel campo del commercio e dell’economia (il segretario generale della NATO non ha menzionato forse il TTIP come “una NATO economica, sottolineando che queste sono le due parti della ” comunità transatlantica integrata ” da costruire?) e persino quella della politica interna dei suoi stessi Stati membri (tranne la più grande, in modo del tutto naturale) [18-19] . Uno dei migliori specialisti statunitensi nella NATO, Stanley R. Sloan ha dedicato il suo ultimo libro quasi interamente alla sfida posta dall’interrogativo sulla democrazia liberale negli Stati membri. Egli spiega che, fin dall’inizio, “la NATO non era solo militare, ma anche politica ed economica” , con la vocazione “a difendere i sistemi politicamente democratici ed economicamente liberali dei suoi stati membri” [20] Tuttavia, continua, la domanda è come può resistere oggi la NATO, quando questi stessi valori sono minacciati all’interno dell’Alleanza atlantica. Un recente rapporto dell’Assemblea parlamentare della NATO, firmato dal parlamentare Gerald Connolly, presidente della delegazione americana, esamina lo stesso argomento. Osserva: “Le minacce ai valori della NATO non provengono solo dai suoi avversari. I movimenti politici che mancano di rispetto alle istituzioni democratiche o allo stato di diritto stanno guadagnando slancio in molti paesi membri dell’Alleanza. Questi movimenti sostengono la preferenza nazionale per la cooperazione internazionale. Le democrazie liberali sono minacciate da movimenti politici e personalità ostili all’ordine stabilito che sono di destra e di sinistra nello spettro politico “ . Suggerisce quindi che “La NATO deve dotarsi dei mezzi necessari per rafforzare i valori in questione nei paesi membri” istituendo “un centro per il coordinamento della resilienza democratica” . [21] Sarebbe un errore pensare che queste proposte siano motivate unicamente dalle battaglie politiche negli Stati Uniti. L’idea di “supervisione democratica”, pervasiva durante la guerra fredda, è stata ripresa all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica, in un documento confidenziale del Pentagono le cui fughe avevano provocato una protesta pubblica all’epoca: La NATO è descritta come “il canale dell’influenza degli Stati Uniti” , e gli obiettivi statunitensi includono iniziative “Per scoraggiare, nei paesi sviluppati, qualsiasi tentativo di rovesciare l’ordine politico ed economico” . [22] (Hajnalka Vincze, Una NATO sempre più onnicomprensiva , Nota IVERIS, 18 ottobre 2019) ***
[1] Risposta del Ministero della difesa a un’interrogazione scritta all’Assemblea nazionale (Risposta pubblicata nella GU il 13 novembre 2007, pag. 7061) |