UN NUOVO CAPITOLO PER L’OPERA DI PUVIANI, di Teodoro Klitsche de la Grange

UN NUOVO CAPITOLO PER L’OPERA DI PUVIANI

Quando Amilcare Puviani scrisse “L’illusione finanziaria” era, ovviamente, orientato e attento a bilanci e spese dei grandi Stati dell’epoca. Nell’elencare le varie forme assunte dall’illusione ad esempio ritorna quella delle spese militari che all’epoca, assorbivano buona parte dei bilanci pubblici. Scriveva “Si ha l’illusione nell’impiego o nel motivo della spesa se s’ignori in genere l’acquisto di corazzate…; si ha invece illusione nel fine della spesa se s’ignori che la esistenza del nostro naviglio o di certe sue unità vale o valse in una data contingenza ad impedire l’attacco delle nostre coste”; quanto alle entrate sosteneva poi che “Noi possiamo dunque concludere che le specie fondamentali di illusione sulle entrate pubbliche attenuano il costo contributivo mercé…” e continuava ricordando i relativi espedienti: nascondimento di ricchezze prelevate, effetti penosi (sui contribuenti) sia immediati che mediati e così via.

Un nuovo capitolo bisogna aggiungere al lavoro di Puviani, dopo l’ultima legge di bilancio, dato che l’economista non poteva prevedere come, in uno Stato del XXI secolo, si sarebbe giustificato un aumento delle imposte; e le novità non mancano.

La prima giustificazione, ed è il presupposto della manovra, è che l’Europa vuole che non aumenti il debito pubblico. Ossia la colpa (e la responsabilità) non è dei governanti. Ci siamo abituati a tale argomento ormai da (almeno) un decennio. Quello che i nostri governanti – quasi tutti – non dicono è che l’indebitamento può ridursi o contenendo le spese o aumentando le entrate. Che la seconda strada  sia quella perseguita in misura preferenziale dalla classe dominante è altrettanto chiaro. A chi non volesse vedere questa realtà, ricordate che qualche decennio orsono l’IVA era al 19%, ora al 22%; che non c’era l’IMU e, fino al 1992 neppure l’ICI e così via. Per non parlare delle aliquote IRPEF e del loro (mancato) aggiornamento o delle rivalutazioni catastali. Per cui più che volontà della Merkel, la preferenza dei governanti nostrani per la spremitura dei contribuenti è frutto di una libera interpretazione “nazionale” delle direttive europee.

A parte ciò la giustificazione prevalente degli aumenti delle imposte, sparse qua e là, è frutto di due (principali) motivi. Il primo è che i governanti ci vogliono bene e desiderano fare il nostro bene.

Ad esempio la tassa sulle merendine e le bibite gassate (se non si sono perse per strada) è dovuta non dalla propensione degli stessi per i nostri portafogli, ma dalla loro intenzione di avere cura della nostra linea e salute. Per cui dovremmo ringraziarli per cotanto affetto.

L’altro che corrispondono a degli idola diffusi almeno in parte dell’elettorato.

Non sappiamo la fine della questione assorbenti. Anche qua la giustificazione data (da un ministro) era che si poteva evitare lo spreco di carta sostituendoli con quelli di stoffa, riusabili. Salvaguardando così le foreste (Amazzonica e del pianeta in genere) usate, anche, per produrre carta.

Così per gli imballaggi e, in genere, i contenitori di plastica; così nocivi per lo smaltimento, l’inquinamento diffuso, la salute delle tartarughe marine (e pare anche dei delfini). Onde Greta sicuramente li approva.

In sostanza la giustificazione delle imposizioni presenta un carattere eudemonistico associato, spesso, all’andare al seguito di esigenze di rilievo mediatico.

Come il tutto riesca ad occultare il fatto che da decenni con questa politica non si è fatto altro che sfruttare gli italiani (ingessando la società) e che, anche per questo l’Italia è progressivamente arretrata e sorpassata da nazioni in crescita, è cosa che non si può prevedere.

Ma, nel concludere il suo libro, proprio Puviani notava che storicamente, può avvenire che a un certo punto la disillusione finanziaria dei governanti prevalga sulle tecniche prestigiatorie dei governanti: così – ricordava –                                                                                                    fu per la rivoluzione francese. Vedremo.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

SARDINE SOTT’ODIO, di Teodoro Klitsche de la Grange

SARDINE SOTT’ODIO

Dubitiamo molto che i parlamentari che hanno approvato la mozione Segre contro il “no hate speech”, ossia contro i discorsi di odio in politica, avessero letto quello che scriveva negli anni ‘20 Julien Benda: “il nostro secolo sarà stato in senso proprio il secolo de l’organizzazione intellettuale degli odi politici. Sarà uno dei grandi titoli nella storia morale dell’umanità”. Questo perché permetteva alle parti politiche di incrementare a dismisura la loro potenza di passione (puissance passionelle). Di guadagnare consenso indicando dei nemici, anche assoluti, onde consolidare  il proprio potere.

Di lì a poco, l’avvento al potere del nazismo permise di confermare il giudizio dell’intellettuale francese, che nel momento in cui scriveva La trahison des clercs, pensava allo sciovinismo, al pangermanesimo e, in genere, all’atteggiamento di molti politici ed intellettuali durante la prima guerra mondiale.

Il dubbio è legittimo perché Benda condannava l’ “organizzazione intellettuale” dell’odio in generale. Mentre il parlamento italiano (e non solo) lo ha circondato di sostantivi aventi valore (e senso) illustrativo-restrittivo (intolleranza, antisemitismo, razzismo) che ne delimitano il campo d’applicazione. In particolare non è indicato il fattore socio economico come suscitore d’odio. Come sosteneva Duverger “Per i marxisti gli antagonisti politici sono frutto delle strutture socio-economiche… La contesa politica è perciò il riflesso della lotta delle classi“. Fattore ovviamente positivo per i marxisti.

Per cui, al limite, predicare l’odio di classe non è riconducibile alle cure della commissione Segre, al contrario di quello razziale.

Prima e dopo è stato tutto un fiorire – sui media dell’establishment – e altrove – di dichiarazioni – e invettive preoccupate per l’odio che le posizioni dei popul-sovranisti presupponevano e comunque esternavano, nonché contro le relative menzogne (a cominciare dalle fake-news). A giudizio dei benintenzionati si dovrebbe far politica, ma senza coltivare sentimenti di avversione verso l’avversario. Una lotta a base di riverenze e buone maniere. Che il tutto sia, in diversi casi, auspicabile, è condivisibile; che possa esserlo in ogni frangente è impossibile; che sia poi opportuno, lo è a seconda dei casi. Spieghiamo il perché. Benda scriveva dell’organizzazione intellettuale degli odi politici, cioè della sottomissione dei “chierici” alle esigenze della prassi politica (alla conquista e conservazione del potere), con relativo tradimento della loro funzione. Che questo sia un connotato del XX secolo è, in larga parte vero, ma occorre aggiungervi, come, in modo non altrettanto pervasivo ed efficace, lo sia stato sempre. Nel XX secolo sono state la potenza propagandistica dei mezzi di comunicazione di massa da un lato e la democratizzazione della politica (e della guerra) – con la necessità di coinvolgere, convincere e mobilitare le masse popolari – ad implementare il ruolo dell’ “organizzazione intellettuale” delle passioni politiche, in primis dell’odio. Ma che questa sia una componente costante della politica, perfino quando gestita essenzialmente dai gabinetti ministeriali, (in tal caso in ruolo minore) è cosa nota. Scriveva Clausewitz di quello strumento essenziale della politica (da cui mutua presupposti e funzioni) che è la guerra, che consiste di uno “strano  triedro composto:

  1. della violenza originale del suo elemento, l’odio e l’inimicizia, da considerarsi come un cieco istinto;
  2. del giuoco delle probabilità e del caso, che le imprimono il carattere di una libera attività dell’anima;
  3. della sua natura subordinata di strumento politico, ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione.

La prima di queste tre facce corrisponde più specialmente al popolo, la seconda al condottiero ed al suo esercito, la terza al governo. Le passioni che nella guerra saranno messe in giuoco debbono già esistere nelle nazioni”.

E così è per la politica: una politica senza distinzione tra l’amico e il nemico la quale operi senza suscitare un sentimento di avversione per il secondo e solidarietà per il primo è un oggetto sconosciuto. La lotta, anche se non militare, si fa con i presupposti della lotta. Il primo (e più importante dei quali è) l’indicazione del nemico. Se non è tale è necessario crearlo: in mancanza la lotta non ha senso. Il nemico e l’avversione verso il medesimo è la condizione minima (necessaria e sufficiente) per condurre la lotta.

Il che è confermato dal movimento delle sardine, che pare l’ultima (per ora) mascherata in soccorso delle élite decadenti. Non si riesce a strappare dalla bocca dei loro portavoce intervistati in televisione una indicazione su problemi reali, concreti (e divisivi): volete salvare l’ILVA? che ne pensate del MES? o del reddito di cittadinanza? e così via. Nulla: e a ragione. Perché scegliere è dividere: pronunciarsi a favore del MES significa perdere i voti dei contrari e così per il resto. Mentre opporsi a Salvini e al sovranismo unifica gli avversari più disparati: da quelli che rimpiangono Stalin, a coloro che disdegnano il leader leghista perché volgare o perché goloso di Nutella. Così le sardine hanno capito che il nemico serve ad unificare non solo i diversi ma anche gli opposti. Cosa che un poeta tragico come Eschilo aveva capito venticinque secoli fa. Hitler servì a far alleare un conservatore duramente anticomunista come Churchill a un bolscevico rivoluzionario come Stalin.

State sicuri che le sardine e chi le consiglia e le sponsorizza l’hanno capito bene: e quindi se la prendono con l’odio: quello degli altri.

Teodoro Klitsche de la Grange

Il rebus turco in Libia, di Bernard Lugan

Tre eventi di grande importanza rimescolano il gioco geopolitico del Mediterraneo:
1) Il 7 novembre 2019, per controllare il percorso dell’oleodotto EastMed attraverso il quale procederanno le future esportazioni di gas dagli enormi giacimenti nel Mediterraneo orientale verso l’Italia e l’Unione europea, la Turchia ha firmato con la GNU (Governo cittadino libico Union), uno dei due governi libici, un accordo di delimitazione delle zone economiche esclusive (ZEE) di entrambi i paesi. Conclusi in violazione del diritto marittimo internazionale e a spese di Grecia e Cipro, questo accordo traccia anche, artificialmente ed illegalmente, un confine marittimo turco-libico nel bel mezzo del Mediterraneo.
2) La salvaguardia di questo accordo dipende dalla sopravvivenza militare del GUN; il 2 gennaio 2020 il Parlamento turco ha quindi votato l’invio di forze di combattimento in Libia per impedire al Generale Haftar, capo di un altro governo libico, la presa di Tripoli.
3) In risposta, sempre il 2 gennaio, la Grecia, Cipro e Israele hanno firmato un accordo sulla rotta del futuro gasdotto EastMed il cui tracciato è collocato parzialmente  nella zona marittima turca sancita unilateralmente dall’accordo Turchia-GUN del 7 novembre 2019.
Questi eventi meritano una spiegazione:
Perché la Turchia ha deciso di intervenire in Libia?
La Libia era un possedimento ottomano dal 1551 al 1912, quando, sopraffatta militarmente, la Turchia ha firmato il Trattato di Losanna-Ouchy con il quale lei ha ceduto Tripolitania, Cirenaica e il Dodecaneso all’Italia (vedere sulla mia bacheca due libri di storia della Libia   e Storia del Nordafrica dalle origini ai giorni nostri ).
Dalla fine del regime di Gheddafi, la Turchia conduce una politica molto attiva nel suo antico possedimento basandosi sulla città di Misurata. Da quest’ultimo alimenta il terrorismo dei gruppi armati del Sahel ricattando la Francia: “Tu aiuti i curdi, allora noi sosteniamo i combattenti jihadisti” …
A Tripoli, militarmente messo alle strette dalle forze del generale Haftar, GNU ha chiesto alla Turchia di intervenire per salvarlo. Il presidente Erdogan ha accettato in cambio della firma dell’Accordo marittimo del 7 Novembre 2019 che consente, aumentando la estensione della sua zona di sovranità, di tagliare la zona marittima economica esclusiva (ZEE) della Grecia tra Creta e Cipro, dove deve passare il futuro gasdotto EastMed.
Come la questione del gas nel Mediterraneo orientale e l’intervento militare turco in Libia si sono collegati?
Nel Mediterraneo orientale, nelle acque territoriali di Egitto, Gaza, Israele, Libano, Siria e Cipro, si distende un enorme giacimento di gas di 50.000 miliardi di m3, quando le riserve mondiali sono stimate in 200,000 miliardi di m3. Ulteriori riserve di petrolio stimate in 1,7 miliardi di barili di petrolio.
A parte il fatto che occupa illegalmente una parte di Cipro, la Turchia non ha alcun diritto di rivendicazione territoriale su questo gas, ma l’accordo militare firmato permette di tagliare l’asse del gasdotto EastMed proveniente da Cipro per l’Italia in quanto passerà attraverso le acque dichiarate unilateralmente … Il presidente turco Erdogan è stato chiaro nel dire che qualsiasi futuro gasdotto o oleodotto richiedono un accordo turco !!! Comportandosi da “stato pirata” la Turchia è ora condannata a impegnarsi miltarmente, in quanto se le forze del maresciallo Haftar dovessero prendere Tripoli, l’accordo sarebbe stato reso obsoleto.
Come fanno gli stati derubati dalla decisione turca?
Di fronte a questa aggressione, che, in altri tempi, avrebbe inevitabilmente portato ad un conflitto armato, il 2 gennaio la Grecia, Cipro e Israele hanno firmato un accordo ad Atene sul futuro gasdotto EastMed, importante collegamento approvvigionamento energetico d’Europa. Italia, punto terminale del gasdotto dovrebbe aderire all’accordo.
Da parte sua, il maresciallo Sissi ha dichiarato il 17 dicembre 2019 che la crisi libica era parte integrante de “la sicurezza nazionale dell’Egitto” e il 2 gennaio ha incontrato il Consiglio di Sicurezza Nazionale. Per l’Egitto, un intervento militare turco che avrebbe dato la vittoria al GUN sul generale Haftar avrebbe infatti rappresentano un pericolo politico mortale, perché il “Fratelli Musulmani”, i suoi nemici implacabili, sostenuti dalla Turchia, si posizionerebbero ai suoi confini. Inoltre, essendo in acque disastrose economicamente, l’Egitto, che basa le sue speranze sull’avvio della costruzione del gasdotto verso l’Europa non può tollerare questo progetto, di vitale importanza ma rimesso in questione dall’annessione turca delle acque marittime.
Qual è l’atteggiamento della Russia?
La Russia sostiene sicuramente il generale Haftar, ma in che misura? Quattro problemi principali sorgono in effetti per quanto riguarda le priorità geopolitiche russe:
1) La Russia ha l’interesse a litigare con la Turchia opponendosi al suo intervento in Libia, quando Ankara può allontanarsi ulteriormente dalla NATO?
2) Ha interesse alla creazione del gasdotto EastMed, fortemente in concorrenza con le proprie vendite di gas verso l’Europa?
3) Non può essere che la rivendicazione turca geli l’interesse alla realizzazione di Turkstream, trascinando la Russia per anni se non per decenni in un contenzioso giudiziario presso la Corte Internazionale?
4) Ha interesse a indebolire la collaborazione con la Turchia nella realizzazione, ormai prossimo alla messa in esercizio, del gasdotto Turkstream, il quale, attraverso il mar Nero, aggira l’Ucraina? ? Tanto più che il 60% del fabbisogno di gas della Turchia sono forniti dal gas russo; se Ankara potesse, in un modo o in un altro, trarre vantaggio dal Mediterraneo orientale, questo le permetterebbe di essere meno dipendente dalla Russia … il che non sarebbe un grande affare per quest’ultima …
E se alla fine non fosse una costruzione da parte del Presidente Erdogan per imporre una rinegoziazione del Trattato di Losanna del 1923?
La Turchia sa molto bene che l’accordo marittimo con GUN è illegale in termini di diritto internazionale del marittimo in quanto viola la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) che la Turchia non ha firmato per altro. Questo trattato è illegale anche anche riguardo agli accordi sotto di Skrirat del mese di dicembre 2015 firmato sotto l’egida delle Nazioni Unite e che costituivano il GUN in quanto non danno un mandato al suo leader, Fayez el-Sarraj, a concludere tale accordo di confine. Inoltre, con solo il Qatar alleato, la Turchia è completamente isolata diplomaticamente.
Riconoscendo queste realtà, puntando sia sulla solita viltà degli europei che sull’inconsistenza della NATO in realtà in uno stato di “morte cerebrale”, il presidente Erdogan si rivela inconsciente nel giocare con la dinamite o, al contrario, un calcolatore abilissimo ad avanzare le sue pedine sul filo del rasoio.
Se la seconda ipotesi fosse corretta, l’obiettivo della Turchia sarebbe quello di aumentare la pressione per rendere chiaro ai paesi che attendono con ansia l’impatto economico della messa in servizio del futuro gasdotto EastMed, che potrebbe bloccare il progetto . A meno che la zona marittima turca possa essere estesa per permettere che sia parte nello sfruttamento delle ricchezze del sottosuolo marino del Mediterraneo orientale. Ma per questo, si dovrebbero rivedere alcuni articoli del Trattato di Losanna del 1923, una politica che ha già sperimentato una rapida attuazione nel 1974 con l’occupazione militare, anche illegale, ma efficace, della parte settentrionale dell’isola Cipro.
La scommessa è rischiosa, perché la Grecia, un membro della NATO e di UE e Cipro, un membro dell’Unione Europea, non sembrano disposti a cedere al ricatto turco. Per quanto riguarda l’Unione europea, nonostante la sua indecisione congenita, è dubbio che accetterà di lasciare il controllo alla Turchia di due delle principali valvole della fornitura di gas, vale a dire EastMed e Turkstream.
Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan

SOLEIMANI_DEI FATTI E DELLE INTERPRETAZIONI, di Pierluigi Fagan

DEI FATTI E DELLE INTERPRETAZIONI. Al solito, il volume dei commenti, analisi, interpretazioni dell’attentato americano al generale iraniano in Iraq, supera di molti gradi la manciata risicata dei fatti noti. Ieri ho seguito lunghe dirette televisive su i canali -all news-, oltre ovviamente ad aver dragato nel mondo della stampa e dell’on line. I punti più interessanti da qui riportare mi sembrano tre.

1) Si sta formando un consenso interpretativo maggioritario basato soprattutto sulle idee di chi sa più fatti di altri, sul fatto che la posta immediatamente in gioco sia l’Iraq. Non potendo più contare sulla piena agibilità delle basi in Turchia, gli americani avrebbero cominciato a trasferirsi in parte in Iraq. Soluemani, aveva individuato proprio l’Iraq come terreno di contesa. Molti fatti poco seguiti da chi non si occupa di queste cose, ma è sempre pronto a farci sapere la sua opinione quando qualche botto risveglia la sua assopita attenzione, confermerebbero questa lettura. La questione è troppo complicata per esser qui riassunta, indico solo il tema e do due riferimenti, Negri e NYT. Sul M.O. Alberto Negri indubbiamente sa più fatti di chiunque altro in Italia, fatti reperiti in loco e per decenni e non desunti dalla poltrona di casa scorrendo ieri tre articoli a caso. NYT è sempre indicatore del consenso di certe letture americane provenienti da ambienti meglio informati di chiunque altro.

2) C’è chi ha notato l’insistere ieri di Trump ed in parte Pompeo, sul fatto che: a) forse non poi così tanti, nello stesso Iran oltre che in Iraq, sarebbero stati sinceramente dispiaciuti della scomparsa di Soleimani; b) l’Iran sa che militarmente, in un confronto diretto con gli USA, non andrebbe da nessuna parte (tra droni, missili, aerei e satelliti, nelle prime quattro ore di eventuale conflitto diretto, gli USA possono incenerirti facendo danni molto più decisivi di quelli che tu puoi far loro). Perché allora non accettare l’offerta di ridiscutere l’accordo che Trump ha rimesso in discussione perché fatto da Obama? A dire che Soleimani era il capo del deep state iraniano che come ogni deep state a base di “complesso militar-industriale” vive letteralmente di conflitto. Dato il peso che questo deep state ha negli equilibri interni iraniani, far fuori il suo capo è oggettivamente indebolirlo, il che potrebbe avvantaggiare l’ala più aperta all’ipotetica ripresa della trattativa. Non so se è wishful thinking, ho sentito ripetere l’ipotesi da rappresentanti di aree altrettanto ben informate, ma che lo siano davvero o solo pensino di esserlo, non so dire. Quando si tratta di questioni interne all’Iran, non so dire chi effettivamente ha le informazioni complete, incluse CIa e Mossad.

3) Si nota un diffuso limite analitico tipico delle partizioni che le specializzazioni del lavoro producono. Chi segue politica estera non s’intende di politica interna e viceversa. Ma il presidente degli Stati Uniti, ogni giorno, ha sul tavolo problemi dell’uno e dell’altro, oltre a quelli economici e sociali, quindi quando prende una decisione lo fa non con quello che ha testa l’esperto del parziale ma con quello che riguarda la sua funzione, che è generale. Viepiù se deve andare ad elezioni tra pochi mesi e sa di esser stato eletto con meno voti dell’avversario, grazie a stati in cui si era presentato come protettore dell’industria e potenziale investitore pubblico (promesse che ha mantenuto solo in parte, la seconda per niente), dopo quattro anni in cui la sua notorietà e consenso ecumenico non si è certo allargato. In più è sotto impeachment e se non dovesse esser rieletto perdendo l’immunità, oltretutto anche preda di possibili persecuzioni amministrative e fiscali. Sul piano personale poi, certo a nessun presidente piace non esser riconfermato per il secondo mandato (una manciata su i 44 presenti in lista), ma per il profilo psichico di Trump sarebbe una vera e propria catastrofe psicotica. A parte il gruppo di interesse che lo sostiene, poco propenso a farsi da parte. Quindi, quando Trump ha dato l’ordine tocca ricostruire cosa aveva in testa lui, non quello che abbiamo in testa noi.

L’ampio ventaglio del possibile si amplierà geometricamente fintanto che non avremo la reazione iraniana che ieri ha precisato avverrà “a luogo e tempo debito”. Come detto ieri, anche gli iraniani hanno tre punti da considerare: 1) il messaggio da dare internamente alla nazione divisa politicamente e con recenti manifestazioni represse con molta decisione (difficile aver certezza dei numeri ma il numero dei morti ammazzati non sembra del tipo “c’è scappato il colpo”, quindi il problema c’è ed è bello grosso); 2) il messaggio da dare all’intricata rete delle penetrazioni d’influenza iraniane negli ambienti sciiti della regione (Siria, Libano, Yemen, Iraq ma ricordo che gli abitanti del Bahrein sono in maggioranza sciiti sebbene il monarca sia sunnita filo-saudita e anche la zona dei pozzi sauditi è a forte presenza sciita); 3) più forse che l’America in senso generale, cercar di colpire dove posa far più male proprio a Trump perché altri quattro anni di Trump sarebbero una sciagura e poiché Trump va ad elezioni, “tempo e luogo” forse va interpretato in questo senso. Se l’Iran è diviso, lo sono anche gli Stati Uniti, quindi quella che sembra una partita a due, in realtà è a quattro.

Ricordo infine il quadro strategico a più ampia inquadratura spazio-temporale della questione iraniana. Oltre al ruolo geopolitico regionale (sciiti-sunniti, Siria-Russia-Turchia) e mondiale (in riferimento all’Asia, quindi India, Cina e non solo), c’è il problema della continuità territoriale Iran-Iraq-Siria per il famoso piano delle condotte che possano trasportare il gas del più grande giacimento scoperto sino ad oggi, il North Dome/South Pars del Golfo Persico che gli iraniani hanno in condominio amichevole col Qatar -alleato della Turchia nello scacchiere-, nel Mediterraneo. A suo tempo, c’era chi poneva questa questione a base di tutta la storia iniziata con Stato islamico e guerra siriana. Questo confermerebbe l’importanza del primo punto, condizionato dagli sviluppi del secondo, tenuto conto del terzo. Aspettiamo quindi “tempo e luogo” e capiremo meglio l’entità ed il possibile esito del gioco.

[L’immagine fotografava la faccenda citata in chiusura del post all’inizio della guerra siriana. Oggi, il Qatar esporterebbe tramite l’ipotetica pipeline iraniana. Infine, la condotta ipotetica potrebbe anche passare in Libano facendo di Hezbollah il gruppo più influente in loco.La legenda è quindi superata da altri assetti/alleanze. Per gli amanti del cappa e spada a cui sfuggono le contorsioni della realtà, evidenzio che ai russi non farebbe piacere avere una condotta concorrente che sfocia nel Mediterraneo, ovviamente men che meno ad Israele, Arabia Saudita, EAU, Kuwait]

NEGRI: https://www.radioradicale.it/…/iraq-gli-usa-uccidono-il-gen…

NYT: https://www.nytimes.com/…/01/03/wo…/middleeast/us-iraq.html…

i 5 effetti dello strike Usa contro Soleimani in Iran, di Giuseppe Gagliano- Il senso del tragico, di Piero Visani

L’Iraq e la Libia si stanno avviando sulla strada della decomposizione. E’ l’effetto più nefasto e deleterio dell’intervento americano ed occidentale in quei due paesi. Gran parte delle forze politiche, comprese quelle di opposizione a queste intrusioni non stanno operando o si stanno rivelando incapaci di una opera di ricostruzione nazionale. Un gioco di azione e reazione, di provocazioni, incluso quello dello sfoggio di prigionieri, che rende le componenti autoctone in lotta sempre più delle appendici di forze esterne. Tra i paesi in preda al conflitto militare solo la Siria di Assad, almeno nella sostanza, sembra mantenere la caratteristica di una reazione impegnata al mantenimento della propria integrità nazionale_Giuseppe Germinario

Ecco i 5 effetti dello strike Usa contro Soleimani in Iran. Gli scenari di Gagliano

di

Soleimani_

Tutti gli scenari possibili dopo che il generale iraniano Soleimani è stato ucciso il 3 gennaio da un raid ordinato da Trump. L’approfondimento di Giuseppe Gagliano

Il comandante delle Quds Force, unità del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica (IRGC) iraniane, il generale Qassem Soleimani, è stato ucciso venerdì 3 gennaio da un raid ordinato dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, sull’aeroporto internazionale della capitale irachena Baghdad, secondo quanto riferito dal Pentagono e dalla Casa Bianca.

Soleimani, 62 anni, non solo aveva coordinato le operazioni extraterritoriali iraniane in particolare in Iraq, in Siria, in Libano e Yemen ma aveva in particolare contribuito in modo decisivo a sostenere il presidente siriano Assad. Inoltre, durante la guerra in Iraq, Soleimani servendosi abilmente delle Forze di Mobilitazione Popolare, unità paramilitari sciite appoggiate proprio dall’Iran, aveva dato un contributo militare di grande rilievo nel fermarne il radicamento dell’Isis in Iraq.

L’operazione americana, che rappresenta un successo sotto il profilo della Intelligence, è stato realizzata grazie all’uso di un drone MQ-9 Reaper che ha anche eliminato il generale delle milizie irachene Abu Mahdi al-Muhandis, vice comandante delle Forze di Mobilitazione Popolare, il Generale Hussein Jaafari Naya, il Colonnello Shahroud Muzaffari Niya, il Maggiore Hadi Tarmi ed il Capitano Waheed Zamanian.

Sotto il profilo strettamente politico-strategico, l’operazione militare è stato attuata a scopo preventivo – per sventare operazioni offensive iraniane contro funzionari americani, come indicato dal Times sulla base delle informazioni del Pentagono – e dissuasivo.

Vediamo di spiegare a tale proposito cosa significa esattamente dissuasivo. Ora, al di là delle comprensibili e scontate reazioni di condanna da parte del leader supremo dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei e del presidente iraniano, Hassan Rouhani, l’operazione attuata dagli Stati Uniti deve essere contestualizzata sul piano militare in primo luogo all’interno di una più ampia operazione di ritorsione in stile israeliano determinata sia da quella del 27 dicembre in cui un attacco missilistico è stato posto in essere contro una base militare irachena cagionando la morte di un civile americano sia a causa delle violente proteste del 31 dicembre presso l’ambasciata statunitense a Baghdad, situata nella cosiddetta Green Zone, coordinate dalle Brigate di Hezbollah e dalle Forze di Mobilitazione Popolare, proteste volte a chiedere il ritiro delle forze statunitensi dall’Iraq.

Inoltre, sotto il profilo strettamente politico, Mike Pompeo proprio il 13 dicembre aveva avvertito Teheran che qualsiasi azione offensiva sotto il profilo militare nei confronti degli Stati Uniti avrebbe ricevuto una risposta adeguata.

In secondo luogo, sotto il profilo della strategia globale posta in essere da Trump, questa operazione militare risulta essere pienamente coerente con l’obiettivo di contrastare in modo ampio, sistematico e capillare la presenza sciita in Iran, Iraq, Siria, Libano e Yemen.

In terzo luogo, questa operazione militare, può essere inquadrata anche per consolidare il suo consenso interno e per allontanare lo spettro della messa in stato di accusa da parte del Congresso. D’altronde l’uso della politica estera come strumento per rafforzare il consenso al livello di politica interna costituisce non l’eccezione ma una costante a livello storico.

In quarto luogo tutto ciò non farà altro che consolidare la partnership militare degli Usa con l’Arabia Saudita e Israele i cui servizi di sicurezza hanno certamente svolto un ruolo di rilievo nella individuazione di Soleimani.

SCENARI POSSIBILI

Fra gli scenari possibili da escludere vi è certamente l’invasione militare americana determinata dalla natura geografica della Repubblica Islamica. Sebbene gli Usa abbiano infrastrutture militari in 14 Paesi e cioè in Egitto, Israele, Libano, Siria, Turchia, Giordania, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita, Yemen, Oman, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Bahrein, l’Iran oltre ad avere una estensione di 1.684.000 chilometri quadrati, è una fortezza naturale – pensiamo ad esempio all’uso strategico che Teheran farebbe dei Monti Zagros che dividono l’Iran dalla Turchia – e una eventuale operazione terrestre proveniente dall’Afghanistan non solo implicherebbe mesi di pianificazione ma implicherebbe il dispiegamento di una forza terrestre di almeno 300 mila soldati  operazione che andrebbe autorizzata dal Congresso che, allo stato attuale, sta ponendo in essere un procedimento di messa in stato di accusa proprio contro Trump. Inoltre sarebbe necessaria da parte dell’Iran e/o dei suoi alleati una azione terroristica analoga a quella dell’11 settembre per conseguire una coesione politica necessaria per un intervento di queste proporzioni.

Quanto ad un intervento nucleare limitato da parte degli Stati Uniti questo avrebbe delle conseguenze ancora più imprevedibili sul piano internazionale poiché non soltanto determinerebbe una condanna unanime da parte di tutte le istituzioni internazionali ma soprattutto determinerebbe una reazione anche di natura  militare da parte della Russia.

Non c’è dubbio che in primo luogo questa offensiva statunitense porterà in primo luogo a un aumento della conflittualità da parte sia degli alleati dell’Iran nei confronti di Israele – stiamo naturalmente alludendo a Hezbollah – sia ad un ulteriore incremento della instabilità in Iraq.

In secondo luogo il sostegno militare e di intelligence fornito dall’Iran agli Houthi, attori centrali nel conflitto yemenita, potrebbe determinare  una risposta rapida e diretta stando proprio alle dichiarazioni di Mohammed Ali al-Houthi capo del Comitato supremo rivoluzionario Houthi – cioè ad una  ritorsione militare.

In terzo luogo i rapporti tra Cina e Usa potrebbero subire un ulteriore peggioramento dal momento che proprio la Cina sostiene l’Iran nel contesto della Nuova Via della Seta. 

In terzo luogo l’Iran potrebbe mettere in campo il tentativo di utilizzare lo Stretto di Hormuz come strumento di deterrenza militare.

In quarto luogo, l’Iran potrebbe attuare operazione terroristiche ai danni delle basi militari americane in Qatar e Bahrein.

In quinto luogo questa azione militare da un lato aumenterà in modo rilevante la destabilizzazione in Medio Oriente e dall’altro lato certamente rafforzerà il ruolo politico-religioso sciita a livello globale.

https://www.startmag.it/mondo/soleimani-iran-usa-iraq/?fbclid=IwAR3EFUeKAMbE1v6Lr1tfFADWWG0bVbZOb7bAcZyxhyb9EVuLG_RU877WawA

IL SENSO DEL TRAGICO, di Piero Visani

E’ saper morire per ciò in cui si crede. Si colpisce e si è colpiti. Si sviluppano politiche e se ne subiscono le conseguenze. Non si pensa che vivere consista soltanto nel pagare, farsi tassare da ladri patentati e farsi sfruttare da classi dirigenti ignobili, che non hanno nemmeno il coraggio delle loro azioni.
Marcire – da vivi – non è preferibile che farlo da morti.
Molti del centrodestra italiano – nella loro infinita saggezza da servi – diranno che è stato ucciso un terrorista…

“Difficile concentrare tante sciocchezze geopolitiche in una sola frase.
A partire dal fatto che in Medio Oriente l’Iran (con la Russia) ha fatto da argine al terrorismo islamico dell’Isis tollerato, per non dire altro, da Arabia Saudita e Usa. E per finire con il fatto che l’Italia è il principale partner economico europeo dell’Iran: in questo caso delle imprese nazionali e del popolo delle partite Iva ce ne freghiamo?”

UN CRESCENTE MALESSERE FRANCESE NEI CONFRONTI DELL’ALLEANZA, di Hajnalka Vincze

Qui sotto ancora un articolo particolarmente interessante di Hajnalka Vincze sul dibattito e le divergenze, forse il conflitto, che si sta insinuando tra i paesi della NATO. A parere dello scrivente pecca però di un certo ottimismo riguardo l’anelito autonomista di Macron. Le sue parole e i suoi propositi dichiarati stridono con i suoi atti concreti, in primo luogo con la salvaguardia strenua del complesso militare industriale francese. Macron è l’artefice, ma sul solco almeno delle due precedenti presidenze, degli atti più compromettenti riguardanti l’esposizione di AIRBUS alle mire dell’industria aeronautica americana, la liquidazione, dietro pesanti ricatti e pressioni di ogni tipo, di Alstom energia, in particolare la produzione di turbine a General Electric, la cessione ai fondi americani del settore della trasmissione e componentistica interna dell’aereonautica. I risultati cominciano a vedersi rapidamente, a cominciare dalla perdita di controllo del settore della manutenzione delle turbine dei sommergibili e delle centrali nucleari e dallo svuotamento e trasferimento negli States del grande centro ricerche di Parigi. Per non parlare della pesante esposizione militare in Africa, legata malinconicamente alla condiscendenza americana. Una classe dirigente che non vuole e non sa difendere i propri settori strategici, tanto più se legati alla difesa, non può ambire credibilmente ad assumere  la direzione di una linea europea di politica estera e di difesa realmente autonoma dagli Stati Uniti; tanto più che ad essa si accompagna una politica predatoria particolarmente gretta, subalterna alla Germania, ai danni di potenziali ed imprescindibili sostenitori, in primo luogo l’Italia, di questa presunta ambizione. Una politica tesa piuttosto a spingere le vittime verso lidi più scontati e ad acuire i conflitti intraeuropei. Conoscendo la provenienza e il retroterra culturale, il brodo di coltura del personaggio, la sua vanagloria e prosopopea nascondono o conducono ad altri propositi se non suoi, “pauvre homme”, certamente dei suoi mentori. Paragonarlo a de Gaulle mi pare quindi un po’ troppo generoso. Buona lettura_Giuseppe Germinario

OLTRE LE CRITICHE DI MACRON ALLA NATO: UN CRESCENTE MALESSERE FRANCESE NEI CONFRONTI DELL’ALLEANZA

Istituto di ricerca sulla politica estera – Nota del 26 novembre 2019

Parlando, in un’intervista a The Economist , della “morte cerebrale” dell’Alleanza atlantica, il presidente Macron poteva sicuramente essere certo di provocare l’ira dei suoi omologhi europei. Se ha scelto di imbarcarsi in questo, è perché lo vede come una necessità urgente. A un anno dalle prossime elezioni americane e con l’affondamento della Brexit, si sta chiudendo una finestra di opportunità senza precedenti. Questo allineamento unico dei pianeti, che secondo la visione francese avrebbe dovuto finalmente portare i partner dell’UE sulla strada dell’autonomia strategica, non ha davvero dato i suoi frutti.

Peggio ancora, la maggior parte dei governi europei, confrontati senza mezzi termini alla realtà della loro dipendenza dagli Stati Uniti, sembrano preferire gesti di fedeltà discreta ma concreta nei confronti dell’America. Agli occhi di Parigi, è tutt’altro che logico. Ma, come giustamente ha detto l’ex consigliere di Tony Blair, Robert Cooper, a proposito di Europa e di autonomia: “il mondo non segue la logica, procede per scelte politiche” . Il presidente francese ha quindi deciso di esporre la scelta che attende gli europei secondo lui – per quanto “drastica” .

La minaccia che la Francia percepisce

Agli occhi di Parigi, anche se la possibilità di un disimpegno americano menzionata più volte dal presidente Trump avrebbe dovuto provocare uno slancio “autonomista”, la maggior parte dei partner europei preferisce piuttosto una tensione atlantista. L’alternativa era già stata esposta in un acceso scambio di opinioni presso il Centro europeo per le relazioni estere nel 2011, tra il britannico Nick Witney (ex direttore dell’Agenzia europea per la difesa) per il quale vige l’alternativa di avere una difesa europea autonoma oppure “vivere in un mondo guidato da altri “ e dal tedesco Jan Techau (direttore degli affari europei alla Carnegie Endowment), che vede nell’autonomia europea un ” villaggio Potemkin “che dovrebbe essere rimosso a favore di “un’intensa preoccupazione per il legame transatlantico” . Se la retorica europea nell’era di Trump a volte prende in prestito le arie della prima visione, le azioni, d’altra parte, vanno nella seconda direzione. Sulla NATO, in particolare, per placare il presidente Trump, gli europei sono pronti a far evolvere l’organizzazione in una direzione che, per loro, significa più abbandono e confinamento nella dipendenza.

(Credito fotografico: CNN)

Questa inclinazione è stata evidenziata in un esercizio di simulazione di alto livello, le cui conclusioni sono state pubblicate alla fine di settembre. L’ultimo Körber Policy Game , organizzato congiuntamente da un think-tank tedesco (lo stesso in cui il Segretario Generale della NATO ha pronunciato il suo discorso quando è stata pubblicata sulla stampa l’intervista al presidente francese) e il prestigioso IISS ( International Institute for Strategic studi) Britannici, in un consesso di esperti e funzionari di Francia, Germania, Regno Unito, Polonia e Stati Uniti. Divisi in squadre nazionali, si trovarono di fronte a uno scenario fittizio in cui l’America si ritira dalla NATO e alla sua partenza seguono molteplici crisi scoppiate nell’Europa orientale e meridionale. I risultati sono illuminanti. È emerso, tra le altre cose, che invece di raccogliere la sfida della propria sicurezza, “la maggior parte delle squadre” ha cercato piuttosto, inizialmente, di convincere gli Stati Uniti a tornare alla NATO, a spese di essa cedere a “concessioni prima inimmaginabili” . Ciò lascia pochi partner propensi alla visione “autonomista” sostenuta dalla Francia.

L’urgenza che prova Parigi

La scelta del momento non è banale. L’intervista a The Economist ha avuto luogo tre giorni dopo la conferenza stampa in cui Macron ha dichiarato di essere indignato per il modo in cui ha appreso, tramite tweet, del ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria, seguito dall’incursione turca nel Paese: “mette in discussione anche il funzionamento della NATO. Mi dispiace dirlo, ma non si può fingere ”. In realtà, per quanto spettacolare possa essere l’episodio siriano, è solo l’ultimo di una serie di atti, composta da sanzioni extraterritoriali, abbandono del trattato sul controllo degli armamenti, pressioni commerciali e altre decisioni unilaterali percepiti come umilianti dagli altri membri dell’Alleanza – tranne per il fatto che quest’ultimo incidente è avvenuto a malapena un mese prima della prossima riunione dei leader della NATO. Il timore di Parigi è che per convincere il presidente Trump, gli europei cederanno troppo su temi come la designazione della Cina come nuovo nemico comune , l’inclusione dello spazio tra i teatri delle operazioni della NATO o ancora l’accesso degli Stati Uniti ai programmi di armamento finanziati dall’UE con il denaro dei contribuenti europei.

In effetti, la Francia continua a sostenere una “rifocalizzazione” della NATO, in contrapposizione alla sua crescente pressione ai confini dell’UE. sforzi degli Stati Uniti dalla fine della guerra fredda hanno portato a “globalizzare” la NATO , in modo che il maggior numero di settori sono trattati nel quadro della NATO, che, come ha detto Joachim Bitterlich, ex consigliere del cancelliere Kohl: “gli americani si trovano in una situazione conveniente perché hanno l’ultima parola e tutto dipende da loro”. Precisamente, Parigi è preoccupata che su un numero crescente di dossier (oltre la Cina, lo spazio e gli armamenti, si tratta anche di cyber, energia, intelligenza), gli alleati europei – presi dal panico dalle ricorrenti minacce del presidente Trump di “moderare il suo impegno” – acconsentano al trasferimento di competenze nazionali e / o europee alla NATO. E lasciarsi bloccare ancora di più in una situazione di dipendenza.

Il bersaglio scelto da Macron

Non è un caso che al centro delle domande di Macron sull’Alleanza vi sia l’articolo 5 – quello che incarna la difesa collettiva, in altre parole il fatto che un attacco contro un alleato è considerato un attacco contro tutti gli stati membri. Tradizionalmente, è per non compromettere questa garanzia di protezione degli Stati Uniti che gli alleati europei fanno concessioni e testimoniano, come osserva Jeremy Shapiro, ex pianificatore e consigliere del Dipartimento di Stato americano, “di un patologico compiacimento e eccessiva deferenza “ verso gli Stati Uniti. Il paradosso, sotto il presidente Trump, è che evidenzia in maniera cruda e pubblica questa logica transazionale dell’Alleanza, mentre mette in dubbio ,ancora e sempre , le sue fondamenta. Per la Francia, è un vantaggio. Come lo ha dichiarato il ministro degli affari europei Nathalie Loiseau nel 2017: “Mentre le parole del presidente americano potrebbero aver creato una certa confusione riguardo al suo attaccamento all’Alleanza atlantica, l’interesse ad un’autonomia strategica dell’Unione. Europea è apparsa molto più chiaramente di prima a molti dei nostri partner europei. Ne eravamo convinti; altri lo sono molto di più oggi rispetto a ieri . 

Solo che gli atti non seguono. Emmanuel Macron ha quindi deciso di insistere sul fatto che “il garante di ultima istanza non ha più le stesse relazioni con l’Europa. Ecco perché la nostra difesa, la nostra sicurezza, gli elementi della nostra sovranità, devono essere pensati a pieno titolo ” . E il Presidente ha continuato: la NATO “funziona solo se il garante dell’ultima risorsa lavora come tale. Direi che dobbiamo rivalutare la realtà di cosa sia la NATO in termini di impegno degli Stati Uniti d’America ” . Alla domanda se “l’articolo 5 funziona” o no, ha risposto “Non lo so, ma che cosa sarà l’articolo 5 domani?” “ . Fare attenzione a specificarlo“Non è solo l’amministrazione Trump. Devi guardare cosa sta succedendo molto profondamente dalla parte americana . ” In realtà, ciò che dice non è né nuovo né eccezionale. La British Trident Commission , ad esempio, è giunta praticamente alle stesse conclusioni nel 2014. Composta, tra l’altro, da ex ministri della difesa, affari esteri e ex capo dello staff della difesa, fu incaricato di rivedere i meriti del rinnovo dell’arsenale nucleare del Regno Unito. Arrivarono alla spinosa domanda: “Possiamo contare sugli Stati Uniti per avere la capacità e la volontà di fornire  [protezione] indefinitamente, almeno entro la metà del 21 ° secolo?” “ E ha risposto che“Alla fine, è impossibile rispondere” . La differenza con Macron è che gli inglesi si preoccupavano principalmente di “non inviare un messaggio sbagliato sulla credibilità” della protezione americana, mentre il presidente francese desidera, al contrario, avvisare e provocare un soprassalto tra i suoi Partner europei.

La rinnovata visione francese

Nonostante le reazioni indignate di esperti e funzionari , le osservazioni del presidente francese erano tutt’altro che “bizzarre”. Al contrario, sono in linea con la tradizione gaullista-mitterandiana che Macron ha deciso di esporre già, davanti agli ambasciatori, nel suo ultimo discorso annuale . La chiave di volta di questa visione è sempre stata la nozione di sovranità – un termine che Macron pronuncia venti volte in The Economist. Questo ritorno alle basi richiede tre osservazioni. Primo: l’imperativo dell’autonomia non è mai stato diretto contro gli Stati Uniti. Nel pensiero francese, o manteniamo la nostra sovranità su qualsiasi paese terzo, oppure no. Se gli europei decidono di farne a meno in un caso, in particolare nei confronti dell’America, le matrici di soggiogazione che ciò implica (la perdita delle proprie capacità materiali e la mancanza di potere psicologico) le metteranno in balia di qualsiasi altro potere in futuro. In altre parole, non assumendo la sua piena autonomia, l’Europa diventerà, domani, una facile preda per chiunque. Come spiega Macron: “L’Europa, se non si considera una potenza, scomparirà” .

(Credito fotografico: Financial Times)

Secondo: nella visione francese, la sovranità, oltre ad essere un imperativo strategico, è anche una condizione sine qua non della democrazia. Senza indipendenza dalle pressioni esterne, ha poco senso votare per i cittadini. Macron ha chiaramente messo in luce questo legame intrinseco alla vigilia delle ultime elezioni europee: “Se accettiamo che altre grandi potenze, compresi gli alleati, compresi gli amici, si mettano in condizione di decidere per noi, la nostra diplomazia, la nostra sicurezza, allora non siamo più sovrani e non possiamo più guardare in modo credibile alle nostre opinioni pubbliche, ai nostri popoli dicendo loro: decideremo per voi, venite, votate, venite e scegliete. “ È la stessa idea che ha sostenuto davanti agli ambasciatori, ricordando loro: “È un’aporia democratica che consiste nel fatto che il popolo può scegliere sovranamente leader che non avrebbero più il controllo su nulla. E così, la responsabilità dei leader di oggi è di darsi anche le condizioni per avere il controllo sul loro destino . 

Infine: oltre questo ritorno all’essenza stessa del gollismo, l’intervista di Macron a The Economist segna anche il desiderio di riconnettersi con un atteggiamento, con un modo specificamente francese di fare diplomazia. Infatti, dal suo fragoroso rifiuto della guerra in Iraq, la Francia si è comportata come spaventata dalla sua audacia: aveva in parte abbandonato la sua posizione di “cavaliere solitario”, a favore della ricerca di compromessi e del cosiddetto pragmatismo . Senza molto successo. Il punto di forza della diplomazia francese è sempre stata la sua capacità di assumere una posizione chiara, affermare principi ovvi e tradurli in termini pratici con logica implacabile – al punto che i suoi interlocutori si sono trovati esposti, di fronte alle loro incoerenze. . Questo è esattamente ciò che Macron sta cercando di fare ora riguardo alla NATO. Di fronte alla palese umiliazione da parte dell’amministrazione Trump, deplorare pubblicamente la loro situazione di dipendenza. Il presidente francese li chiama quindi, semplicemente, a “trarne le conseguenze” .

Il testo è la versione originale dell’articolo originale: Hajnalka Vincze, Beyond Macron’s Sovversive NATO Commenti: France’s Growing Unease with the Alliance , Foreign Policy Research Institute ( FPRI ), 26 novembre 2019.

LA MASCHERA E IL VOLTO, di Augusto Sinagra

LA MASCHERA E IL VOLTO

Diceva Luigi Pirandello che nella vita si incontrano molte maschere e pochi volti.
Ora le maschere cominciano a cadere e i volti sono davvero inquietanti.
Non so chi gli ha scritto il discorso di fine anno, ma il figlio di Bernardo Mattarella, tra le tante prevedibili banalità e omissioni, ha detto una cosa inquietante: “Quando perdiamo il diritto di essere differenti, perdiamo il privilegio di essere liberi”. Sembra una bella riflessione, ma non è così.
Viviamo da tempo una situazione in cui non vi è più traccia di diritto ad essere “differenti”.
Il concetto potrebbe essere declinato in molti sensi: in senso democratico e politico, in senso costituzionale con riguardo ai diritti e alle libertà di esser differenti nella manifestazione delle idee, nel diritto di associazione e di manifestazione, nel diritto di professare qualsivoglia fede religiosa (il tutto con l’unico limite dell’ordine pubblico), e in tanti altri sensi ancora. Ma non è così da tempo
La negazione della differenza è stata icasticamente e violentemente proclamata dal Capo-sardine (l’uomo di Prodi e compagni) il quale con riferimento al Sen. Matteo Salvini ha dichiarato in modo impudente che Salvini “ha il diritto di parlare ma non di essere ascoltato”.
Questa situazione di pretesa e violenta adesione al “pensiero unico”, negatrice di ogni differenza, è nota a tutti a cominciare dal figlio di Bernardo Mattarella. Stampa e TV non parlano più di sbarchi illegali di sedicenti “profughi” per impedire, appunto, un giudizio differente.
Allora i casi sono due: o il Capo dello Stato è in malafede e non denuncia, come sarebbe suo dovere, la situazione di diffusa violenza morale e cioè di negazione del “diritto alla differenza”, oppure non si rende conto di quello che dice o di quello che altri scrivono per lui. Non mi stupirei: non gli riconosco particolare acume né adeguata preparazione giuspubblicistica. Lo considero poco “attrezzato”.
A fronte delle violenze fisiche, morali e politiche volte a conculcare il “diritto alla differenza” il “Nostro” ha aggiunto che perdendo il diritto alla differenza, si perde “il privilegio della libertà”.
No! Qui reagisco con maggiore decisione e fermezza: la libertà non è privilegio, la libertà è conquista (anche a costo della vita), la libertà di ognuno, ma prima ancora la libertà collettiva del Popolo, dovrebbe essere condizione di normalità e mai privilegio. La libertà è diritto costituzionale che affonda le sue radici nella filosofia della politica che costruisce l’ordine democratico.
L’altra maschera che è caduta, mostrando un volto peraltro già noto, è quella del pampero argentino.
Mi riferisco allo strattonamento da lui subito in Piazza San Pietro e alla sua reazione di bacchettamento delle mani di una signora asiatica che trattenevano la sua.
Umanamente lo capisco, ma lui dovrebbe essere il Vicario di Cristo, e Cristo è bontà e misericordia come attesta l’Evangelista Matteo (se non mi sbaglio) a proposito della donna che voleva in tutti i modi toccare la Sua tonaca per guarire dalla malattia.
Come Vicario di Cristo il gesto del pampero è stato ingiustificabile. Ricordo quando nel 2009 Papa Benedetto XVI dentro la Basilica di San Pietro ruzzolò per terra per l’entusiasmo di una fedele. Egli si rialzò, le rivolse un sorriso e accennò una carezza. Quel che colpisce nell’episodio del pampero è stata l’espressione del suo viso iracondo.
Gli occhi sono lo specchio dell’anima e quegli occhi non hanno riflesso un’anima buona.
Così anche il pampero argentino ha confermato quale sia il suo vero volto, togliendosi la maschera.
Ancora buon anno a tutti e che Dio ci protegga.
AUGUSTO SINAGRA

P.S. Il discorso di Capodanno del figlio di Bernardo Mattarella nel 2018 ha avuto 5.133.000 ascolti; 4.905.000 nel 2019. Dunque, in netto calo. In ogni caso, calcolando una presenza in Italia di circa 50.000.000 televisori su una popolazione di circa 60.000.000 di persone, si può ben dire che il consueto discorso di fine anno non è stato seguito da nessuno, nonostante le bugie e le mistificazioni della stampa asservita.

La constatazione del multipolarismo, con Piero Visani

La gran parte dei paesi emergenti e degli stati egemoni stanno constatando l’affermazione del multipolarismo. Alcuni, in primo luogo gli Stati Uniti, sembrano ancora incerti se prenderne atto o tentare il ripristino di una condizione unipolare. Parlare di incertezza è però un eufemismo. Da quelle parti lo scontro politico sta assumendo toni sempre più feroci, destinati ad assumere forme drammatiche in caso di vittoria di Trump. Una vittoria della componente conservatrice, per meglio dire demo-conservatrice, rischia di ricacciare la politica estera americana nell’avventurismo più bieco. Altri paesi al contrario sono fautori sempre più convinti della condizione multipolare. Nel mezzo alcune potenze regionali cercano di approfittare con spregiudicatezza degli spazi offerti dalla competizione sempre più accesa. Solo l’Europa, in essa in particolare la Germania e soprattutto l’Italia, appare riottosa a prendere atto della svolta. I paesi europei, dibattuti tra velleità di potenza e remissività supina, sempre però all’ombra dell’egemone d’oltreatlantico, sembrano vivere in un limbo di nostalgia destinato ad essere loro fatale. I tempi stringono. Qui sotto le considerazioni amare e realistiche di Piero Visani, uno studioso e un commis che come pochi conosce molto bene limiti, tanti e virtù, poche, della nostra classe dirigente. Buon Anno e buon ascolto_Giuseppe Germinario 

Sardine e sfera pubblica, di Vincenzo Costa

Sardine e sfera pubblica
Un’analisi filosofica

Il fenomeno “Sardine” ha suscitato una vasta discussione e tornare su di esso potrebbe essere ozioso. E tuttavia, vi è un’angolatura che non ho visto emergere, e che forse vale la pena di sorvegliare, a partire dalla domanda: se a minare la democrazia è lo svuotamento della sfera pubblica, il fenomeno sardine rappresenta qualcosa che rivitalizza la sfera pubblica o è, invece, un suo ulteriore momento di tracollo? Rappresenta un elemento di ripresa democratica o solo un momento dell’irreversibile crisi della democrazia?

Questioni non filosofiche
Prima di affrontare la questione filosofica è bene circoscriverla, e a questo fine è necessario escludere le altre domande, tutte pertinenti e necessarie, ma non di carattere filosofico, e su cui del resto esistono molti resoconti e riflessioni interessanti facilmente rintracciabili su FB. Le sardine sono state “progettate”? Scadono con le elezioni emiliane? Esisterebbero senza i media che le fanno esistere? Servono a drenare voti dal M5s verso il PD? Sono funzionali al PD o, sfuggendo di mano a chi le ha inventate, potrebbero essere il becchino del vecchio PD?

Tutte questioni serie, che qui lasciamo da parte, poiché implicano un’analisi empirica che non è il nostro tema. Il nostro tema è appunto se esse sono un segno di vitalità democratica o un segno di decadenza irreversibile della democrazia e se rappresentano un avanzamento o una regressione culturale. Le sardine sono un elemento che, se non certamente di matrice socialista, è almeno di radice liberale? O rappresentano una rottura con lo stesso pensiero liberale, almeno nei suoi momenti più alti? Per rispondere a queste domande cercherò di indicare alcune caratteristiche che secondo alcuni pensatori fondamentali del pensiero liberale sono essenziali alla sfera pubblica democratica.

Alcuni problemi filosofici posti dal movimento delle sardine

1) Secondo la Arendt, «agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono, rivelano attivamente l’unicità della loro identità personale, e fanno così la loro apparizione nel mondo umano» (Vita activa). Dunque, un movimento rende viva la sfera pubblica in quanto prende posizione, genera magari conflitto, perché nel conflitto e nel dissenso le identità prendono forma. Se il dissenso viene demonizzato, si sterilizza la sfera pubblica, la si svuota, e se un movimento assume come proprio programma questa demonizzazione, chiamandola “odio”, allora mira a sterilizzare la sfera pubblica.

2) Secondo Amartya Sen la sfera pubblica è decisiva perché svolge una funzione protettiva, «perché dà voce alle persone svantaggiate o trascurate» (L’idea di giustizia). In questo modo si rivitalizza la democrazia, perché questa diviene un luogo dove pretese di giustizia possono essere fatte valere, ed è chiaro che avanzare pretese di giustizia significa anche sviluppare sentimenti di odio verso privilegi, prebende e familismi: l’odio contro l’ingiustizia è un cardine della democrazia. Ora, se un movimento si rifiuta sistematicamente di dire qualcosa, di dare voce a qualcosa, e se si presenta come autoreferenziale, esso mira a creare una sfera pubblica che ha perso la propria funzione protettiva. Non da voce a niente e criminalizza chi cerca di dare voce e chi, sentendosi vittima di ingiustizia, esige un riconoscimento e un mutamento delle regole che presiedono all’ingiustizia reale.

3) Indipendentemente dalle intenzioni – e io non ho dubbi che le persone che partecipano a quelle adunate siano persone perbene e di buoni sentimenti – se guardiamo il fenomeno delle sardine dal punto di vista dei suoi effetti, dunque sistemico e indipendentemente dalle intenzioni delle singole persone e anche degli organizzatori, un dato emerge con chiarezza: esso ha imposto a tutti noi (me compreso in questo istante) di parlare di loro. Determinano l’agenda di ciò che può essere discusso, e poiché non veicolano altri contenuti, essi non permettono che si parli di problemi: impongono se stessi alla discussione. Così facendo, tuttavia, saturano la discussione pubblica e RIMUOVONO tutti gli altri problemi, che non trovano più spazio nella sfera pubblica (mediatica): i temi della disoccupazione giovanile, della deindustrializzazione, dell’immigrazione etc., cioè tutti i problemi dotati di contenuto spariscono dalla visibilità. In questo modo, la ragione critica non può più esercitarsi, gira a vuoto, non ha oggetti e temi su cui agire, per cui è la nozione stessa di ragione ad essere rimossa ed emarginata. Per così dire, il “sapere aude” del buon Kant, il suo abbi il coraggio di pensare viene rimosso, poiché pensare significa criticare, e la differenza tra criticare e avere sentimenti di “odio” (l’uso delle parole conta, e basterebbe dire “di indignazione” per cambiare tutto) diviene colpa: gli indignati non esprimono indignazione verso il sorpruso, il privilegio e l’ingiustizia, ma solo odio.

4) Edmund Husserl ha caratterizzato il discorso come una funzione che è all’opera se e solo se si parla di qualcosa, su qualcosa e in vista di qualcosa. Vietandosi e vietando un discorso su contenuti il fenomeno sardine modifica (forse irreversibilmente) la modalità discorsiva nella sfera pubblica e della ragione democratica: viene imposto un metadiscorso, cioè non si dice qualcosa, ma si opera un’interdizione. Il fenomeno delle sardine mi pare cerchi di imporre un discorso che non fa vedere il reale ma, ponendo condizioni di “forma espressiva”, interdice un discorso che deve necessariamente vertere su contenuti, e dunque su interessi: si impone il silenzio, e non appena si parla si rischia di essere tacciati di propagatore di odio.

In questo modo viene rimossa la vitalità stessa dei sistemi democratici, poiché, per dirla con Lyotard, «parlare è combattere, nel senso di giocare, e gli atti linguistici dipendono da un’agonistica generale» (La condizione postmoderna). La sfera pubblica non può somigliare al salotto borghese e a un luogo di buone maniere senza menomare la sua vitalità e svuotare di significato la democrazia.

Equiparare violenza verbale a violenza fisica significa esercitare una violenza enorme, imporre un modello di discorso che appartiene solo a un ristretto gruppo e imporlo a tutti. In questo senso, il fenomeno delle sardine opera una torsione della sfera pubblica, poiché genera la colpa: chiunque nutra sentimenti di ostilità, maturati a partire dalla sua condizione svantaggiata e dal fatto di subire privilegi, deve sentirsi colpevole, deve interpretare se stesso come invidioso.

ESIGENZE DI GIUSTIZIA VENGONO INTERPRETATE E DIFFUSE COME ESPRESSIONI DI ODIO.

5) Tutto questo è solidale con l’idea secondo cui non si deve prendere posizione su niente, perché a questo fine ci sono “i competenti”, questa entità un poco mitica che ha preso il posto di Dio e rappresenta il nuovo dio nell’epoca della secolarizzazione. Ed in questo modo si sviluppa un performativo potente: si prefigura la soppressione della democrazia, dell’idea secondo cui le decisioni che riguardano tutti devono essere prese da pochi, e di fatto, nel suo apparente non prender partito, il fenomeno delle sardine prende partito su una questione epocale e fondamentale, che implica la fine della democrazia: propone l’idea secondo cui i problemi politici sono in realtà problemi amministrativi, per cui la politica perde di senso e la partecipazione rappresenta un limite alla razionalità delle decisioni prese. Una prospettiva temuta da un liberale come Habermas (si veda Scientifizzazione della politica e opinione pubblica) e tristemente prevista da Lyotard.

6) Infine, se compariamo il liberalismo di Locke con quello di John Stuart Mill emerge come il fenomeno delle sardine rappresenti, da un punto di vista culturale, un FENOMENO REGRESSIVO, poiché dalla prospettiva di Mill regredisce a quella di Locke. Per Locke, infatti, la sfera pubblica non ha funzioni politiche, poiché il potere dell’opinione pubblica è un mero potere di “privata censura”: la sfera pubblica non deve servire a formare una volontà politica, e in questo senso non vi è spazio per una sfera pubblica democratica. Il potere di decidere non appartiene al popolo e l’idea fondamentale della nostra carta costituzionale non sarebbe stata recepita. Al contrario, Per Stuart Mill «le classi lavoratrici diverranno anche meno disposte di quanto non siano attualmente a lasciarsi guidare e governare, e dirigere nella via che dovrebbero seguire, dalla semplice autorità e prestigio dei loro superiori».

Prefigurando un liberalismo democratico, Mill notava che «i poveri sono sfuggiti alle redini dei loro educatori e non si possono più governare o trattare come bambini. È alle loro stesse qualità che si deve ora affidare la cura del loro destino». E’ così evidente che, dal punto di vista filosofico, siamo di fronte a un regressione dal liberalismo avanzato di Mill a quello di Locke. O, se volete, ad un abbandono del liberalismo di Mill, di Tocqueville e di Schumpeter, a favore di quello di von Hayek, secondo cui bisogna sottrarsi alla “tirannide” democratica, sostituendo alla democrazia una demarchia, al cui interno al popolo non è concesso di governare, perché, appunto come indica Sartori, si tratta, insomma, di affidare le decisioni importanti concernenti la libertà e il mercato a istituzioni diverse da quelle democratico-rappresentative (Hayek, legge legislazione giustizia), cioè ai competenti.

In questo senso, il fenomeno Sardine non rappresenta solo una rottura con tutta la tradizione socialista, ma anche una rottura con il liberalismo democratico: un’involuzione del pensiero liberale. Non è il terreno di resistenza contro le tendenze illiberali della destra, ma un altro aspetto di un medesimo processo di decomposizione delle società democratiche. Con il movimento delle sardine il processo di sterilizzazione e svuotamento della sfera pubblica ha raggiunto una soglia critica.

 

storia e ricordi, di Gianfranco la Grassa

UN PO’ DI STORIA RECENTE PER GLI IGNARI

 

  1. Da qualche punto debbo cominciare questa mia breve (e fin troppo succinta) memoria della storia che abbiamo attraversato da molti decenni a questa parte. Intanto partirò da una premessa di tipo personale. Ho aderito al comunismo nel 1953. Mi trovai subito immerso nei dubbi e perplessità, direi perfino in opposizione, quando uscì l’articolo di Togliatti su “Nuovi Argomenti” nel 1956 con la “trovata” della “via italiana al socialismo”. In quell’anno fui contrario al XX Congresso del PCUS (tenutosi a febbraio) e poi ammirai l’intervento di Concetto Marchesi all’VIII Congresso del Pci (verso la fine del ‘56), in cui svillaneggiò Krusciov, il meschino ricostruttore delle vicende dello stalinismo in chiave puramente personalistica e come si trattasse del frutto di una psiche “disturbata” e tendenzialmente criminale; con metodo insomma del tutto simile a quello, criticato dai comunisti (almeno da quelli che conoscevano un po’ il marxismo), quando si parla di Hitler folle e “mostro”, ricostruendo la storia in base a simili fatue categorie interpretative. Ricordo che Togliatti andò a stringere la mano a Marchesi dopo l’intervento e ciò rinsaldò il mio atteggiamento critico di fronte a quello che ho sempre considerato l’opportunismo dell’allora segretario piciista. Nell’ottobre del ’56 fui senza esitazioni per l’intervento in Ungheria, non approvando però l’atteggiamento incerto dei sovietici (una prima mossa aggressiva frettolosa e poco giustificata, poi l’arresto dell’operazione, infine la repressione troppo brutale).

Accettai inoltre quel fatto per ragioni che oggi si direbbero “geopolitiche”. Ritenevo un disastro che si sbriciolasse il campo avverso a quello atlantico (guidato e comandato dagli Usa). Cominciai tuttavia a chiedermi quale “coincidenza” ci fosse tra il “socialismo” imparato sui testi marxisti e quello in atto. Si ammette sempre una discrepanza tra teoria e realizzazioni pratiche, tuttavia mi sembrava che fosse venuta in evidenza una distanza “leggermente” eccessiva. Fui poi disturbato dal comportamento dei vertici del PCI (della “via italiana al socialismo”) nei confronti di chi traballò e fu preso da naturali dubbi, come ad es. Di Vittorio, di cui si dice che fu perquisito a casa e intimidito da parte di una sorta di “polizia interna” (che a mio avviso era giusto esistesse, ma non per agire con somma rozzezza e brutalità) mossa da quello che si riteneva allora una specie di “ministro dell’interno” del partito (lo stesso che nel 1978, in costanza di rapimento Moro, fece il viaggio, detto ridicolmente “culturale”, negli USA). E’, però, soltanto un “si dice”, mi raccomando, non prendetelo per sicuramente vero.

L’anno successivo (’57), fui comunque sostanzialmente dalla parte del “gruppo antipartito” nel PCUS (Malenkov-Molotov-Scepilov-Kaganovič), perché Krusciov mi appariva un opportunista rozzo e furbastro. I quattro furono espulsi dal partito, dopo alterne vicende: iniziale maggioranza nella Direzione del partito e poi in minoranza nel successivo Comitato Centrale, convocato d’urgenza dal segretario e che, come sempre accade quando si passa ad un numero piuttosto consistente di “esseri umani”, era zeppo di tirapiedi silenziosi e conformisti. Ciò mi allontanò ancor di più dalle posizioni del PCI, sempre allineato con Mosca e dunque ormai con la mediocrità del krusciovismo.

Da allora accentuai la mia critica al partito in quanto “revisionista” (pensavo ad una riedizione, “riveduta e s-corretta”, del kautskismo) e mi avvicinai sempre più ai comunisti cinesi (allora non ancora divisi in “linea nera” di Liu-sciao-chi e “rossa” di Mao, divisione che avvenne nel ’66 con la “rivoluzione culturale”; è ovvio che le definizioni di “nera” e “rossa” erano di marca maoista). Quando nel ’60 si svolse a Mosca il Congresso degli 81 partiti comunisti (di tutto il mondo), si precisò la lontananza fra cinesi e russi e mi sentii viepiù consenziente con i primi. Infine vi fu la “crisi di Cuba” (ottobre 1962), su cui occorre un racconto a parte, data la somma di bugie raccontate. Nel 1963, si precisò con nettezza il dissidio ormai inconciliabile tra PCUS e PCC (in cui era ancora in auge Liu-sciao-chi) con il violento scambio di accuse contenute nelle lettere che si scambiarono i comitati centrali dei due partiti. Alle critiche al PCUS, i cinesi aggiunsero due importanti interventi (in specie il secondo) contro Togliatti e il PCI. Da allora ruppi in modo definitivo con il partito; per un bel po’ di tempo mi aggirai nella gruppistica (quella di tendenza m-l), da cui però mi allontanai nel corso degli anni ’70 (in specie dopo la morte di Mao nel settembre 1976).

Poiché ero però allievo del maggiore economista di tale partito (fra l’altro, l’unico citato assieme a Togliatti nel secondo degli interventi cinesi contro i comunisti italiani), in definitiva mantenni aperti i canali con esso e quindi ebbi modo di sapere molte “cosette”. In fondo ho avuto contatti amichevoli con membri dei vertici del PCI (sorprenderebbe sapere qualche “grosso” nome, che non posso fare), senza mai chiedere alcun favore ma solo notizie (assai interessanti e sovente non di dominio pubblico). Frequentai anche molto “Critica marxista”, fui pubblicato dagli Editori Riuniti, ecc. ecc. Tuttavia, ero nel contempo impegnato in tutto quell’ambaradan che fu detto “extraparlamentare”; vedevo come fumo negli occhi, perché ne rilevavo le ascendenze fondamentalmente anticomuniste (non solo antipiciiste), le correnti poi dette “operaiste” (e più tardi dell’“autonomia”) e fui più vicino ai cosiddetti emme-elle, ma certo con tanto sconcerto per la sclerosi e dogmatismo delle loro posizioni, salvo rarissimi casi.

  1. Passarono gli anni, morì nel giugno ‘63 il “Papa buono” (il primo della “S.S. Trinità” costituita da Giovanni XXIII, Kennedy e Krusciov), a novembre fu assassinato il presidente americano, nell’agosto ’64 morì Togliatti e in ottobre fu rimosso il leader sovietico. Si arrivò al fatidico ’68 (preceduto in Italia da un ’67 già turbolento) e anni successivi che, come ben si sa, furono definiti “anni di piombo” (quelli ’70 soprattutto) o del “terrorismo rosso”, mentre invece sono stati anni in cui quest’ultimo (indubbiamente messosi in moto dissennatamente) fu ampiamente infiltrato e sfruttato (insieme a quello, “secondario”, detto nero) per una serie di “giochi delittuosi” posti invece in atto dai vari Servizi dei paesi dei “due campi”. Venni a conoscenza abbastanza presto di quanto fosse falso il “racconto” che si stava facendo (e che continua ancor oggi!) di quel “terrorismo”. Ricordo intanto l’importante evento della repressione sovietica in Cecoslovacchia nel 1968, che questa volta condannai, ma più che altro per critica al cosiddetto “socialimperialismo” Urss e senza aderire minimamente alle idee, anzi aborrite, di Dubcek e soci; idee invece condivise da assai deboli “antirevisionisti”, in particolare dai “manifestaioli” in Italia che mostrarono fin da allora di non essere migliori dei piciisti. Alla fine degli anni ’60 iniziarono “discreti” contatti tra PCI e “ambienti statunitensi”; prese insomma avvio il lento e molto coperto trasferimento del PCI verso “ovest”. In un certo senso, se si vuol fissare una data, si deve indicare il 1969; detto “per inciso”, in quell’anno Berlinguer divenne vicesegretario.

Sembravano allora maggioritari nel partito gli “amendoliani” (il cui n. 2 era Napolitano), corrente (pur se non riconosciuta formalmente in nome dell’unità del partito, che si pretendeva ancora leninista) cui apparteneva anche il mio Maestro, corrente cui si deve l’espulsione di quelli de “Il Manifesto”. Il gruppo amendoliano era considerato appunto l’avversario principale (quello più “revisionista”) nell’ambito del piciismo. In effetti, detto gruppo era sostanzialmente socialdemocratico, critico del socialismo di tipo sovietico; peraltro con critiche non del tutto errate a quello che era un semplice statalismo esasperato, ormai incapace di promuovere un vero sviluppo. Vi era in esso una propensione ormai piuttosto evidente verso il capitalismo; solo moderata da più che fumosi e mai seriamente attuati propositi di sedicenti “riforme di struttura” e di “programmazione democratica” al posto della pianificazione statalista, con idee poco chiare circa la pretesa superiorità delle imprese “pubbliche” rispetto alle “private”. Insomma, fu evidente la debolezza teorica (del “marxismo all’italiana”) e anche l’ambiguità della loro linea politica. Gli “amendoliani” (almeno nella maggior parte) erano comunque contrari all’atlantismo (Usa) e quindi considerati tutto sommato filosovietici nell’ambito del PCI; furono dunque i più radicali avversari dei gruppuscoli extraparlamentari, che oscillavano tra il filo-maoismo (e la rivoluzione culturale) e il dubcekismo opportunista e filo-occidentale (soprattutto apprezzato da quelli del “Manifesto”).

Nel 1972 venne eletto segretario Berlinguer con l’appoggio di un composito assembramento di cui fece parte l’ormai “fu” (almeno per me) amendoliano Napolitano e la sedicente sinistra ingraiana, che aveva fili di collegamento con la gruppistica tramite i “manifestaioli”. Da allora, il cambio di casacca piciista procedette con più sicurezza e, nel contempo, prudenza; venne via via in evidenza l’“eurocomunismo”, l’ideologia che mascherava tale processo e cercava di dare dignità allo spostamento di campo nello schieramento internazionale.

  1. Nel 1967 vi fu il colpo di Stato dei colonnelli in Grecia (e venne ucciso in Bolivia il Che Guevara, altro argomento su cui occorrerebbe un discorso a parte). Tale colpo di mano militare fu chiaramente appoggiato dagli USA (nella sua politica “ufficiale”), mentre vide ovviamente contrario lo schieramento sovietico e l’insieme dei partiti comunisti occidentali. Quel regime non fu mai ben saldo, pur se si parlò di contatti con ambienti “destri” in Italia e qualcuno ebbe paura di eventi simili pure da noi (il cui unico risultato in definitiva fu il gustoso film di Monicelli “Vogliamo i colonnelli”). Nel 1973 il regime militare greco entrò in piena crisi e l’anno successivo ebbe termine; con l’instaurazione, però, di una “democrazia” apertamente filo-occidentale, di fatto filo-atlantica e pro-Usa, quindi avversaria del campo detto socialista. E questo era comunque il reale scopo perseguito dagli Usa con il colpo di Stato.

Le posizioni tra il 1967 e il ’74 nel nostro campo capitalistico sembravano molto chiare e nette: gli Usa per i colonnelli, l’Europa tiepida, in certi casi perfino antipatizzante ma senza troppo irritare il perno del campo stesso; i comunisti, orientati “ad est”, decisamente avversari dei militari. La politica è però sempre assai meno limpida delle sue apparenze e delle declamazioni “in pubblico”. Dati “ambienti statunitensi” (diciamo così, la qual cosa è in fondo sufficientemente corretta) si rendevano conto della debolezza del regime greco e quindi tramavano sotto traccia pure con l’opposizione “democratica” greca per preparare l’eventuale cambio di regime come poi avvenne. In queste trattative entrava pure una parte dei comunisti greci, la minoranza, mentre la maggioranza restava ostile e vicina all’Urss. La parte minoritaria costituì il “partito comunista dell’interno”, che si collegò con il nascente “eurocomunismo”, il cui centro direttivo si trovava nella parte ormai maggioritaria del PCI. Fu durante quel periodo che si accentuarono (almeno così si può arguire) i contatti tra i suddetti “ambienti statunitensi” e date correnti del PCI e, tramite queste, con il partito comunista greco dell’interno; colloqui non irrilevanti per quanto avvenne poi in Grecia nel 1974: caduta del regime, vittoria elettorale di “Nuova Democrazia”, partito appena fondato da Konstantinos Karamanlis, governo “democratico” (conservatore) che iniziò il suo iter filo-Nato.

In quegli anni, fra l’altro, ebbi modo di venire coinvolto di striscio nella vicenda. Nel 1971 avrei dovuto andare proprio in quel paese e incontrare qualcuno che apparteneva ai “comunisti dell’interno” (i futuri “eurocomunisti” con il PCI). Purtroppo, ho come soli testimoni le mie orecchie e la mia vista; non posso provare per conto di chi ci dovevo andare e chi dovevo incontrare. Da questa vicenda trassi però in seguito idee piuttosto precise su ciò che stava accadendo con i cambiamenti di campo in atto. Alla fine rifiutai di recarmi in Grecia perché mi sembrava troppo pericoloso, ma tutto sommato – come appunto capii meglio un po’ dopo – sarei stato protetto abbastanza (e proprio da certi “ambienti” USA) anche se certamente i colonnelli avrebbero masticato amaro e potevano quindi farmi qualche scherzo tipo “incidente” o qualcosa del genere.

In ogni caso, per quanto all’inizio assai sorpreso della proposta fattami di andare “laggiù” (io ero ben conosciuto come comunista e quindi certo non favorevole a quel regime), pian piano afferrai poi cosa stava avvenendo in certi ambienti dell’“opposizione” in Italia. Di più non posso chiarire, ma ebbi prove discrete di quanto sto raccontando circa gli spostamenti di “campo” in quel periodo. Non compresi comunque subito che aveva preso avvio, tra fine anni ’60 e inizio ’70, lo spostamento di almeno alcune frange della “destra” (amendoliana), che permisero l’ascesa a posizioni di comando nel PCI di coloro che furono fondamentali per il suo lento orientarsi verso l’atlantismo, sempre però assai ambiguo almeno fino all’accettazione della Nato, anche questa iniziata fin dal 1972, ma molto ambigua e “mascherata” per alcuni anni.

General Augusto Pinochet (L) poses with Chilean president Salvador Allende, 23 August 1973 in Santiago.
ANSA

  1. Ancora più rilevanti per comprendere dati fatti riguardanti il “comunismo” italiano (ma anche più in generale) – accaduti in quegli anni, che sono pure fondamentali per meglio valutare il nostro presente, a partire dal periodo susseguente al crollo dell’Urss, alla truffaldina operazione “mani pulite”, ecc. ecc. – furono gli eventi svoltisi nello stesso periodo in Cile. Cerchiamo di essere ordinati, cosa non tanto facile data la somma di eventi, tra cui si deve trascegliere tacendone una buona parte. Se non vado errato – ma certamente ricerche storiche finalmente oneste sarebbero necessarie – nella seconda metà degli anni ’60 vi fu notevole corresponsione di interessi tra settori Dc (con Moro in testa) e il presidente democristiano cileno Eduardo Frei. Gli accordi portarono fra l’altro alla nascita di un’agenzia stampa (con sede a Roma), che si espanse a tutto il Sud America, poi ai tre continenti del Terzo Mondo ed infine su scala globale, autonomizzandosi rispetto all’originario contesto (oggi non esiste più già da tempo). Ciò introdusse anche correnti imprenditoriali italiane in Cile e altri paesi sudamericani, ma non penso proprio che questo abbia infastidito più che tanto gli USA.

Nel 1970, Allende vince le presidenziali in Cile. Frei, da allora, si sposta nettamente verso gli Stati Uniti e certamente non si oppose (penso proprio il contrario) alla preparazione del colpo di Stato di Pinochet dell’11 settembre 1973. Credo non debba esservi nemmeno dubbio che la scelta di Frei abbia determinato frizioni con settori non irrilevanti della Dc italiana e con Moro in particolare. Nello stesso tempo, come già era avvenuto in Grecia, vi furono sicuramente “ambienti statunitensi” che non parteciparono alla preparazione del colpo di Stato, sempre per il principio che è sempre necessario esistano soluzioni di ricambio per l’eventualità della non riuscita di determinati progetti più “radicali”. Indubbiamente, la storia successiva dimostrò che il colpo di Stato di Pinochet fu più solido di quelli dei colonnelli greci, durò sedici e non sette anni. Tuttavia, non credo proprio che abbiano mai cessato di sussistere i suddetti ambigui ambienti negli USA; sempre pronti all’eventuale sostituzione di determinati progetti con altri di tipo detto (ridicolmente) “democratico”.

Il PCI – o meglio certi settori dello stesso, ormai a noi ben noti, già in azione con i comunisti greci (dell’interno) durante il regime dei colonnelli – si mosse in questa situazione che ancora una volta si presentò chiara nella sua “ufficialità”: condanna del colpo di stato da parte del partito italiano (assieme a tutti gli altri partiti comunisti), contrarietà anche di altre forze politiche nostrane (ed europee, contrarietà molto ben contenuta), appoggio smaccato a Pinochet da parte degli Stati Uniti, apparentemente in tutti i loro ambienti poiché è ovvio che le “forze di riserva” si tengano sempre ben coperte e tramino in gran segreto per l’eventualità di diverse soluzioni future. Subito dopo il colpo di Stato, esce in tre puntate (su “Rinascita”) un lungo articolo di Berlinguer (ricordo: segretario dal 1972 per la convergenza dei settori ex amendoliani, di cui già detto, e anche della sedicente corrente di sinistra, ecc. sul suo nome), in cui si condanna ufficialmente il colpo di Stato, si accusano dello stesso gli USA; però…..

Il però era un’apparentemente togliattiana valutazione intrisa di “realpolitik”, che taluni vollero assimilare alla scelta di Palmiro nella famosa “svolta di Salerno” del 1944, necessitata dai patti di Yalta e dal voler evitare la stessa sorte che toccò ai comunisti greci; sorte, lo si scorda sempre, che si compì per essi nel 1949 dopo aver avuto perfino il sopravvento in dati periodi, almeno fino al 1947. Anno in cui si ebbe la rottura tra Jugoslavia e URSS e l’uscita della prima dal Cominform; evento da cui conseguì l’impossibilità di adeguati aiuti (soprattutto dell’URSS) ai compagni greci poiché gli jugoslavi (geograficamente vicini a quel paese) li impedirono. Ci fu poi la sostituzione di Markos (notevole capo militare) con il molle Zachariadis al comando delle truppe comuniste greche con risultati complessivamente catastrofici: annientamento di vasti settori di queste ultime e uccisione di decine di migliaia di militanti.

Berlinguer, con “buon senso” (appunto tra virgolette), ricordò che comunque l’Italia era parte del campo capitalistico (l’“occidente”) strutturato attorno ad un’alleanza militare, la Nato, controllata dagli Stati Uniti. Per evitare che anche l’Italia corresse pericoli di tipo cileno, bisognava secondo il suo parere almeno in parte “abbozzare” e accettare realisticamente la nostra posizione atlantica. In un certo senso, si può dire che da qui parte, o almeno si rinforza, l’idea del cosiddetto “eurocomunismo”, da ritenersi in qualche modo il successore, riveduto e (s)corretto, dell’invenzione togliattiana denominata “via italiana al socialismo”. Qui si pensa meno in termini italiani, nazionali, e invece più europei. Sembrò un allargamento di visione prospettica; in realtà, significò che il Pci, sfruttando la sua posizione di maggiore partito comunista d’occidente (e il più “radicato tra le masse popolari” del proprio paese, chiara impostazione ideologica del problema), si candidò a far da organo di collegamento e traino di tutte le frazioni interne ai partiti comunisti occidentali – primi fra tutti quelli francese e spagnolo, ma con ramificazioni minori pure verso i partiti comunisti orientali (dunque pure in Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, paesi “socialisti” in genere) – frazioni ormai preoccupate dell’evidente (salvo che per alcuni “frastornati”) indebolimento dell’Unione Sovietica (soprattutto dovuto alla struttura sociale interna, non tanto quale potenza militare) e che dunque si prepararono cautamente al cambio di campo.

S’intensificarono, tramite alcuni “ambasciatori”, i rapporti tra Pci e i suddetti ambienti statunitensi (quelli delle “soluzioni alternative”), che culmineranno nel 1978, chiudendo solo la prima fase, con il viaggio dell’alto esponente del Pci negli Usa; un viaggio ridicolmente e inutilmente presentato (salvo forse che per la “base”, costituita dai soliti credenti) come culturale, mentre si ebbero molti riservati incontri ben più significativi e coinvolgenti. Riparleremo più avanti di questo viaggio, avvenuto in fortuita coincidenza con il rapimento Moro; fortuita in quanto coincidenza temporale, non ne sono invece sicuro quale rapporto causa/effetto. Le mene “atlantiche” del Pci non avrebbero avuto senso senza l’avvio di quello che fu il “compromesso storico” con la Dc, un compromesso tutt’altro che scevro di antagonismo e di insinuante tentativo piciista di arrivare un giorno a sostituirla come bastione di un regime solidamente pro-occidentale (cioè pro-Usa), nella sostanza meno ambiguo di Dc e Psi verso l’est europeo, gli arabi, ecc. (pur se, ufficialmente, il Pci restò a lungo vicino a personaggi come Arafat, ecc.). Comunque, è tutto da ricostruire storicamente, non come fatto da storici “di sinistra” cui deve andare tutto il nostro disprezzo.

In ogni caso, non mi sembra che la Dc sia rimasta complessivamente tranquilla. Credo che i settori più favorevoli all’avvicinamento del PCI agli statunitensi (e dunque al “compromesso storico”) fossero in sostanza guidati da Cossiga (comunque questi ne fu un esponente assai importante). Costui, dopo “mani pulite”, sembrò prendere negli anni ‘90 posizioni di contrasto con gli USA. Lui stesso rivelò che, quando nella stampa americana s’iniziò a fare troppo spesso il suo nome in merito a quell’operazione giudiziaria, ottenne infine il silenzio minacciando di fare cenno ai contatti tra Stati Uniti e mafia siciliana per favorire la costruzione della base a Comiso con una “opportuna” azione tesa a mitigare la contrarietà dei partiti del cosiddetto arco costituzionale. Non credo siano serviti tanto questi ricatti quanto i rapporti con “amici” statunitensi che zittirono quelli che lo importunavano. Non a caso, ben dopo “mani pulite”, nel ’99, Cossiga (per sua stessa ammissione) fu al centro delle operazioni trasformistiche che portarono al governo D’Alema, giudicato il migliore per un “corretto” comportamento italiano di appoggio incondizionato all’aggressione clintoniana alla Jugoslavia.

  1. Tornando indietro agli anni ‘70, credo che Moro avesse una buona conoscenza dei fatti e fosse molto sospettoso e prudente nei confronti dell’avvicinamento (conflittuale, e non lo si prenda per bisticcio di parole) tra PCI e certi ambienti democristiani, pure loro pronti a notevoli mutamenti di prospettiva su pressione di certi “ambienti” statunitensi. Per quanto posso capire, il dirigente diccì – poi rapito e ucciso; e la si smetta di dire dalle BR – fosse in ciò seguito da Fanfani, mentre Andreotti come al solito si “destreggiò”; pagò più tardi, ma anche da “mani pulite” in poi sopportò in silenzio e con pazienza che passasse la buriana, garantendo una segretezza (di quanto avvenuto negli anni ’70) che infine lo premiò, cosa non accaduta ad altri (ad es. a Craxi, che era stato a suo tempo favorevole a contatti tali da almeno cercare di salvare Moro). All’inizio degli anni ’70, il PSI faceva già da lungo tempo parte del cosiddetto centro-sinistra al governo, ma fu solo dopo il ’76 (ascesa di Craxi, ecc.) che si mise in più accesa competizione con il PCI; e anche la direzione del partito socialista prese atto, secondo la mia opinione, delle pericolose manovre del “nuovo” PCI di avvicinamento agli USA.

Nel ’76 vi fu però (sempre fortuita coincidenza?) la vittoria decisiva dell’“antifascismo del tradimento”, che falsa tutto il significato della Resistenza, divenuta “lotta di liberazione” in pieno appoggio agli “Alleati”, i nostri “liberatori”. Balle mostruose, se si pensa che, come ammise Cossiga (anche se poi ritrattò e negò), l’80% di quell’evento storico – limitato di fatto, nella sua vera rilevanza, al nord Italia (o poco più) quale autentica lotta partigiana e non chiacchiere dei savoiardi e badogliani, poi di fatto avallate almeno parzialmente dall’eccessiva “prudenza” togliattiana – fu guidato dai comunisti. Naturalmente, ci sono molti misteri da spiegare, a partire dalla frettolosa fucilazione di Mussolini con sparizione, almeno così si continua a dire, di importanti carteggi. La scusa fu che, altrimenti, gli Alleati lo avrebbero salvato. Proprio così? Soprattutto gli inglesi e Churchill lo volevano salvo? Non è che certi “comunisti”, magari, eseguendo gli ordini del comando del CLN (con aperta tendenza al compromesso togliattiano dei dirigenti comunisti in quel comando) fecero un favore agli “Alleati”, ma soprattutto agli inglesi, consegnando carteggi tra Mussolini e il premier inglese? Mah!

Resta il fatto che né Moro né Craxi si opposero (c’è da dire: “et pour cause”?) al totale travisamento della Resistenza; non lo potevano, d’altronde, giacché ridimensionava il ruolo dei comunisti, fatto che pensavano ad essi favorevole (sbagliando di grosso!). Furono fin troppo morbidi anche quando ci si prodigò nel dileggio del “fanfascismo”, nelle vignette di Craxi in camicia nera e orbace, ecc. E si trattava di un chiaro sintomo di come il nuovo (falso) antifascismo volesse sfruttare i meriti passati, approfittando di un ceto intellettuale infame che obnubilò ogni effettiva memoria storica, per accusare di fascismo chiunque intralciasse il “compromesso storico”, cioè la “riabilitazione atlantica” del PCI. L’“antifascismo del tradimento” – lanciato fra l’altro con “Repubblica”, giornale non a caso uscito proprio nel 1976 – fece dimenticare l’infamia di badogliani e savoiardi, fu patrocinato anzi da ambienti repubblicani, dichiaratisi semmai eredi di “Giustizia e Libertà” (che ebbe uomini insigni, sia chiaro, non i miserabili allignanti in quel giornalaccio), ben foraggiati dai “cotonieri” italiani, in particolare dalla Fiat e dagli eredi degli ambienti industriali italiani fascistoni fino al 25 luglio ’43 – effettiva caduta del “fascismo” al “Gran Consiglio” diretto da Achille Grandi con arresto di Mussolini e sua “custodia” al Gran Sasso, da cui fu liberato dai tedeschi scesi in Italia dopo il voltafaccia settembrino del Re e di Badoglio – per poi voltare rapidamente gabbana e innamorarsi dei “liberatori” (si dice che alcuni ambienti “industriali” abbiano iniziato segrete trattative con i già chiari vincitori della guerra già a fine ’42).

Quell’“antifascismo del tradimento” attaccò appunto i settori che più sospettavano e temevano il “compromesso storico”, ma che commisero l’errore di non prenderlo di petto con molta energia, cosa che alla fine li perdette. E li attaccò esattamente come fa oggi; chiunque si oppone alle sue losche trame, all’asservimento totale del paese agli Usa, è immediatamente tacciato di fascismo. Va dichiarato senza mezzi termini che questo “antifascismo” è da quarant’anni il veleno responsabile dello sbriciolamento politico, sociale e culturale d’Italia. Ha apportato danni, putrefazione, viltà estrema, servilismo. E’ veramente il più grande pericolo degenerativo che sta correndo il nostro paese dall’Unità ad oggi. O lo si ferma o si è perduti per molti e molti anni. Non lo si ferma, però, con l’altrettanto meschino e antistorico anticomunismo dell’attuale “destra”, né con il liberismo d’accatto; non ci siamo proprio. Occorre ben altra forza politica, che ancora non appare minimamente in formazione; soprattutto perché tre quarti di secolo di “democrazia” (del tutto falsa e imbelle) hanno istupidito anche gran parte della popolazione, perfino le masse più popolari.

 

  1. Dobbiamo fermarci un momento a pensare e analizzare, sempre via ipotesi, quanto stava avvenendo nel campo “socialista” centrato sull’Urss. Devo tralasciare tutta la questione del decisivo dissidio sovietico-cinese in cui s’inserì, nei primi anni ’70, l’azione Kissinger-Nixon, non raggiungendo grandi successi per gli ostacoli frapposti a quello che, io penso, verrà infine rivalutato come un non banale presidente americano, fatto fuori dall’FBI con il “Watergate” (su indicazione di ben precisi centri statunitensi portatori di altra strategia). Qui mi limito a considerare brevemente le difficoltà interne dell’Urss, che non potevano non riverberarsi sui paesi dell’area ad essa sottomessa.

Con la liquidazione di Krusciov (1964) si mise termine ad una serie di operazioni sconnesse e contraddittorie, che rappresentavano un grosso pericolo per la seconda superpotenza mondiale; sia per quanto concerne la coesione all’interno sia per il possibile sgretolamento della sua sfera d’influenza esterna. Tuttavia, si congelò la situazione sociale e politica, si dichiarò una soltanto formale e decrepita ortodossia ideologica, ormai priva di presa. Si cercò di tenere saldo un blocco sociale (ed è già tanto forse definirlo così) formato dai vertici del partito – con gli alti dirigenti dei grandi “Kombinat”, nominati da detti vertici politici per meriti di fedeltà, non certo per capacità direttive manageriali – e dagli strati inferiori, esecutivi, dei lavoratori salariati trattati ancora, del tutto stancamente, da Classe Operaia, il presunto soggetto operativo nella “costruzione” del socialismo (primo stadio) e poi comunismo. Il famoso principio marxista del socialismo, “a ciascuno secondo il suo lavoro”, venne interpretato in senso meramente quantitativo, in quanto durata e pesantezza del lavoro; non per la qualità, così come intendeva Marx che – oltre al fatto di pensare tale classe formata, insieme, “dal primo dirigente all’ultimo giornaliero” – aveva fatto distinzione tra lavoro “semplice” e “complesso”, un’ora del quale valeva quale multiplo dell’ora del primo. Vi erano operai delle mansioni inferiori che prendevano un salario (pur sempre basso) non inferiore a quello di molti quadri intermedi (o anche medio-alti, salvo i “boss” legati al partito) e perfino a quello di ricercatori in importanti centri di elaborazione scientifica e tecnica.

In un sistema industriale in crescita, è ormai dimostrato che gli operai, se si considerano tali solo quelli svolgenti mansioni prevalentemente esecutive o addirittura manuali (non l’“associazione dei produttori” di cui parlava Marx), diminuiscono di peso perfino numericamente, per non parlare del loro contributo ad una industrializzazione sempre più sofisticata. Crescono invece rapidamente gli strati intermedi (i “ceti medi”), e non soltanto in ambito strettamente produttivo. Ed infine, dato l’evidente fallimento totale di una cogente pianificazione – dall’alto e dall’esterno delle diverse unità produttive, che non vengono affatto a formare un tutto unico, compatto, omogeneo – diventa fondamentale lo strato manageriale: e non semplicemente tecnico, bensì specificamente dotato in senso “strategico”. L’Urss, durante il ventennio brezneviano, cristallizzò la pratica legata alla vecchia ideologia “rivoluzionaria” e andò incontro a “rendimenti decrescenti” con accelerazione esponenziale, mascherata solo dalla forza (in specie militare) raggiunta in passato e da una solo apparente unità del PCUS.

Fu infine l’insieme, sempre più ampio e massiccio pur se frastagliato, degli strati sociali intermedi – ignorati per sclerosi ideologica e politica, pure responsabile del forte indebolimento economico e dunque di una effettiva stagnazione, ecc. – a scardinare l’ordinamento sovietico e a creare nel contempo lo sfacelo sociale che distrusse l’Urss. Basta con la favola del “grande” presidente Reagan (attore scadente pur se interprete in film niente male, in specie western), che avrebbe stroncato il bastione del “socialismo” (chiamato, dagli ignoranti di tutti gli schieramenti, comunismo), obbligandolo ad un surplus di spese militari. Il crollo, una vera e propria implosione, fu dovuto invece al collasso del sistema complessivo, con una direzione politica legata a impostazioni superate e incapace di comprendere i processi di trasformazione di quella “formazione sociale”, definita del tutto impropriamente socialista. Alla morte di Breznev (1982), vi fu già un primo sussulto pre-distruttivo con l’elezione a segretario del partito di Jurij Andropov, che però morì nel 1984. Il pendolo tornò a segnare l’ora di uno stretto collaboratore di Breznev, Černenko, che si spense dopo sei mesi di segretariato (marzo 1985). Venne in auge allora Gorbaciov che restò fino alla dissoluzione dell’Urss (1991), liquidò l’intero campo “socialista” euro-orientale, organizzando fra l’altro il colpo di Stato (passato per rivolta popolare) di Iliescu in Romania. Questo più che mediocre personaggio, assurto indegnamente alla direzione dell’URSS, cercò perfino di creare zizzania in Cina, dove le sue mene (con alcuni ambienti interni al PCC e al segretario del partito, subito destituito) furono assai velocemente stroncate. Dopo, la situazione precipitò in URSS con Eltsin che dissolse l’Unione sovietica alla fine del 1991. Formatasi la Russia, assai più debole e con la perdita di alcune “Repubbliche”, le sorti cominciarono a risalire molto lentamente con Primakov, ma ormai da posizioni compromesse. Infine, la ripresa di quel paese si rinsaldò con Putin. Questa è già storia dei nostri giorni e dunque tornerò adesso indietro.

  1. Dopo la cacciata di Krusciov nel 1964, l’Urss tornò solo apparentemente compatta e unitaria. In essa, per i motivi sociali sopra accennati, permanevano correnti sotterranee di opposizione, anche dentro lo stesso PCUS. Correnti che, in qualche modo, erano perfino in buon rapporto con l’“eurocomunismo” o erano comunque interessate a compromessi con l’occidente, anche a “prezzi” molto bassi, talvolta di svendita. Esse furono a lungo strettamente controllate, ma la loro opera corrosiva cresceva lentamente ed in modo coperto e cauto; soprattutto tenevano contatti con le corrispondenti frazioni dei partiti comunisti euro-orientali, infarcite dei soliti opportunisti che annusavano i mutamenti di atmosfera (pur tenuti molto segreti) e si preparavano ad ogni evenienza. Le frazioni maggioritarie – e solo apparentemente padrone assolute dei partiti: dal PCUS a quelli dei “satelliti” – non avevano capacità manovriere di grande rilievo per le carenze politico-ideologiche già accennate; esse usavano la forza e conducevano – tramite la parte più fedele dei Servizi e di altri apparati addetti ad operazioni varie anche all’estero – manovre segrete e deformate in guisa da non farne afferrare con facilità gli scopi realmente perseguiti.

Dette manovre miravano certamente a colpire e mettere in difficoltà le trame degli interessati a cedimenti compromissori più o meno gravi con l’occidente capitalistico. Lo facevano, tuttavia, in modo assai contorto, giungendo perfino a promuovere esse stesse pericolosi compromessi con gli USA e i paesi del campo capitalistico mediante mosse morbide e prudenti, alternate a scelte improntate ad estrema durezza (anche militare). Inoltre, cercavano prioritariamente di scompaginare le correnti compromissorie interne all’Urss e al “suo campo”, ma si rivolgevano pure all’esterno di quest’ultimo, imbastendo più o meno cauti e coperti rapporti con frazioni interne di alcuni partiti comunisti euro-occidentali ormai schierati in senso “atlantico”; frazioni rimaste fedeli al presunto socialismo e quindi nettamente contrarie all’eurocomunismo, ma soprattutto a chi aveva preso il sopravvento nel Pci, il principale di questi partiti, conducendolo a sempre più invischianti (e conosciuti dai Servizi dell’est) rapporti con gli USA e trasformandolo perciò nei fatti in una vera centrale di cospirazione antisovietica. In tale opera da voltagabbana, le frazioni ormai nettamente maggioritarie nel PCI sfruttarono pure il dissidio russo-cinese e, solo parzialmente, la fronda “gruppuscolare” fintasi quasi maoista; ad es. quella del “Manifesto”, che salvo lodevoli ma rare eccezioni, era la più “corrotta” fra coloro che si richiamavano, impudicamente e senza arrossire, al comunismo. Da qui gli eventi italiani degli anni ’70, degli anni detti “di piombo”.

 

  1. Nel ’68, il gruppo – composto in prevalenza, se ricordo bene, da cattolici divenuti comunisti (ma pure da comunisti “laici”), comunque tutti “ragazzi” in gamba – facente capo ad una rivista di orientamento marxista-leninista, “Lavoro politico” (una delle pubblicazioni apprezzabili di quell’area), entrò nel Pcd’I (m-l), quello che pubblicava “Nuova Unità” e che di fatto era in stretto collegamento con le “Edizioni Oriente”, nate a Milano nel ’63 con il principale compito, almeno per quanto io abbia potuto constatare, di diffondere le pubblicazioni della “Guozi Shudian”, casa editrice cinese in lingue estere, dalla quale provenivano le più importanti pubblicazioni dei comunisti di quel paese, appunto tradotte in italiano. Tralascio i rapporti da me intrattenuti con quest’area, conclusisi con una discussione (pubblica), polemica, tenutasi a Padova alla fine del maggio ’68 (proprio il 31), subito dopo la quale (ma non a causa della quale, sia chiaro) me ne andai a passare piacevolmente circa quattro mesi a Londra.

Quando tornai in autunno, trovai il Pcd’I (m-l) in scissione, con formazione della cosiddetta “linea rossa”, l’imbarazzante (perché un po’ ridicola) nascita di una “Nuova nuova Unità”, di “Nuove Edizioni Oriente”, e via dicendo. Il gruppo di “Lavoro politico” fu attivo nella scissione e nella nascita di questa “linea rossa”; va però affermato con la massima nettezza che tale gruppo si attenne, nel suo complesso, alla più assoluta legalità senza sfizi di lotte d’altro genere. E’ però vero che una parte minoritaria d’esso (con nomi poi divenuti noti) uscì sia dalla rivista sia soprattutto dal Pcd’I (anzi dai due Pcd’I ormai); e, per quanto ne so, andò a Milano dove nel ’69 fondò, immagino assieme ad altri, il “Collettivo politico metropolitano”, che gettò fuori un opuscolo programmatico non irrilevante. Da tale organismo, mi sembra proprio chiaro, nacquero le future BR. Mi dispiace di non trovare più quell’opuscolo (qualcuno certamente lo avrà) e la risposta che ne diedi, certo a circolazione assai più ridotta e totalmente ignorata, che purtroppo non trovo più. Tuttavia, la mia risposta conteneva una serie di obiezioni a quel “programma”, che a me sembra si siano rivelate con il tempo sensate.

Ricordo bene, ricordo male? Quel che ricordo di quello scritto da me criticato è la formulazione di due previsioni fondamentali, entrambe errate e foriere di sviluppi molto negativi. Innanzitutto, quella di un non troppo lontano scoppio della guerra tra “imperialismo” (USA) e “socialimperialismo” (URSS); per cui bisognava, “leninisticamente”, giocare sulle contraddizioni tra i due nemici, confidando nella tenuta della Cina maoista, di cui per la verità nessuno (per quanto ne so) immaginava la brusca svolta subito dopo la morte del “grande timoniere”. Ovviamente, mi sembra chiaro, l’idea centrale era un recondito riferimento alla “Rivoluzione d’ottobre”, avvenuta appunto verso la fine della prima guerra mondiale e nel da Lenin definito “anello debole della catena imperialistica”, in cui crollò il regime zarista; l’Italia sarebbe stata il nuovo “anello debole” in questa prevista terza guerra mondiale. La seconda previsione, su cui però ho ricordi più imprecisi, è quella di un probabile o almeno possibile colpo di Stato in Italia; il che, credo, scontasse l’impressione ricevuta da quello verificatosi nel 1967 in Grecia. Devo dire che, ancora nei primi anni ’70, in molti “giocavamo” un po’ troppo con questo timore.

In ogni caso, fui subito comunque molto contrario e critico dell’idea di entrare in clandestinità prima ancora che l’evento si producesse. Ricordo bene che ero addirittura stupefatto di simili intenzioni. Si poteva capire l’attuazione di preparativi per l’eventualità, preparativi di vario tipo e soprattutto organizzativi; e, se volete, anche in riferimento alla creazione di alcuni “depositi d’armi”. Tuttavia, che si proponesse l’entrata in clandestinità anticipando le mosse “dell’avversario” mi sembrava una trovata balzana, per non dire di più. Dove la mia contrarietà si espresse ancora più netta e senza esitazioni fu sulla previsione di una guerra tra le due superpotenze (con i loro alleati/subordinati al seguito) con il ripetersi di un quadro simile a quello che permise l’“ottobre bolscevico”.

Non ero ancora stato a Parigi da Bettelheim (lo feci nel 1970-71). Tuttavia, ero già ben convinto dell’ingrippamento dell’Unione Sovietica, messo in luce a partire dal XX Congresso (1956) e aggravatosi negli anni successivi. Ricordo vivaci polemiche con coloro che insistevano addirittura sulla superiorità del “socialimperialismo” in quanto “capitalismo di Stato”, pensato quale gradino superiore (e ultimo o supremo) della società capitalistica, con riferimento un po’ scolastico ad una vecchia impostazione del marxismo “d’antan”. Ho succintamente accennato sopra ai motivi dell’indebolimento dell’Urss (per non parlare dei paesi “socialisti” euro-orientali, in netta difficoltà); li avrei approfonditi ben di più a Parigi, con anche una qualche informazione sulla solo apparente coesione di quei paesi, percorsi dalle correnti che condussero al crollo dell’89 (“campo socialista” europeo) e del ’91 con dissoluzione dell’URSS dopo qualche anno di “agonia” gorbacioviana, scambiata (non da me!) per ripresa del “socialismo”. Nel ’69-’70 non avevo quelle informazioni né avevo approfondito con Bettelheim la corrosa struttura sociale sovietica. Tuttavia ero già convinto della stasi di quel paese e dunque dell’improbabilità, per me pressoché assoluta, di uno scontro mondiale tra le due superpotenze; in realtà, ne esisteva ormai una sola di effettiva, gli USA.

  1. Arriviamo quindi al punto cruciale per quanto concerne la storia italiana di quell’epoca infelice e con il quale interromperò, almeno per adesso, questo racconto. Le direzioni dei partiti comunisti dei paesi euro-orientali avevano la sensazione di pericolo per opposizioni interne, ma soprattutto perché consapevoli di un’Unione Sovietica meno forte di quanto sembrava a prima vista. La rottura con la Cina – in continuo aggravamento, che non terminò nemmeno con la svolta post-maoista del 1976, subito dopo la morte di Mao con arresto della cosiddetta “banda dei quattro (fra cui la moglie di Mao) – rendeva i pericoli ancora maggiori. E bisogna ben dire che la politica Kissinger-Nixon di “apertura” ai cinesi e a una possibile pace in Vietnam – politica non certo fiorita all’improvviso nel 1972 con il viaggio nixoniano a Pechino, poiché occorreva prepararla, senza pubblicità, prima che apparisse alla luce del giorno – rendeva il pericolo ancora più grave. Diciamo pure che gli ostacoli frapposti dall’interno al presidente statunitense, e poi la sua eliminazione tramite il “Watergate”, diedero al “campo socialista” un periodo di respiro, consentendo fra l’altro all’Urss una stretta alleanza con il Vietnam, dove esisteva una minoritaria, ma forte, corrente filo-cinese nel partito comunista, sconfitta appunto dopo gli approcci tra Cina e Usa, che diedero un loro contributo a possibili sbocchi della guerra in Vietnam con gli accordi di pace di Parigi (gennaio 1973), finiti però male anche (e direi soprattutto) a causa delle difficoltà di Nixon. Quegli accordi condussero comunque al ritiro di buona parte delle truppe statunitensi dal Vietnam del sud; il che alla fine favorì la vittoria dei nordvietnamiti e la loro conquista di Saigon nell’aprile 1975. Il Vietnam riunito si schierò infine apertamente con l’Urss ed entrò in conflitto (perfino una breve guerra di un mese nel 1979) con i cinesi.

Ripeto che tali avvenimenti diedero solo una boccata d’ossigeno al “campo socialista” europeo centrato sull’Urss; e proprio grazie alla miopia di quegli ambienti statunitensi che misero in moto la manovra contro Nixon (con l’azione del Fbi, ecc.). In ogni caso, non si può pensare che i partiti comunisti euro-orientali non avvertissero che cosa stava avvenendo. Immagino che anche importanti settori del partito comunista sovietico (anzi maggioritari nel periodo brezneviano) stessero in allerta ben conoscendo l’azione corrosiva di quelle correnti più tardi (1985) responsabili della nomina di Gorbaciov a segretario del partito. E’ ovvio che la storia avrebbe avuto ben altro andamento se in Urss si fosse compresa la necessità di smantellare quella struttura politica che cristallizzava una situazione non più confacente alla “composizione sociale” ormai in formazione nel paese.

Fra l’altro, si sarebbero dovuti regolare, in qualche modo, i conti con la Jugoslavia (avamposto più importante di quanto non si creda, anche durante la direzione titoista, di varie manovre di “infiltrazione” nel blocco sovietico provenienti da “occidente”), accomodare i rapporti pure con la Romania (costretta a rapporti amichevoli con la Cina proprio dall’atteggiamento ostile dell’Urss, sfociato poi apertamente nell’aiuto fornito al colpo di Stato di Iliescu contro Ceausescu durante la “gestione” gorbacioviana). Meno importante l’attrito con l’Albania, comunque anch’essa schierata con la Cina, pur essendo invece critica nei confronti del maoismo; e ne fanno prova gli aiuti dati da Enver Hoxha alle frazioni di cosiddetta “linea nera” nei vari, pur irrilevanti, gruppuscoli m-l, soprattutto nei paesi euro-occidentali, Italia compresa.

La posizione di debolezza dell’Urss, accompagnata dalla presenza di correnti filo-occidentali nei paesi europei “socialisti”, rendeva in ogni caso più fastidiosa la presenza nei paesi europei della NATO di partiti comunisti (rilevanti comunque solo in Francia e ancor più in Italia) con tendenza a “sbandare” (ma così nettamente soltanto nel nostro paese) in senso dichiarato riformista, in realtà di sostanziale accettazione della formazione sociale esistente in occidente, quella che veniva ritenuta “il capitalismo” in aperto antagonismo con “il socialismo”; non mi soffermo sulla questione di detta schematica contrapposizione, a tutt’oggi non risolta da politici (e storici) incompetenti e faziosi.

Una Unione Sovietica forte – con il suo “campo” (sfera d’influenza) ben controllato, con un migliore sistema di alleanze (o di non inimicizia) con Cina, Jugoslavia, ecc. – avrebbe determinato un diverso andamento degli eventi storici; per quanto ci riguarda, sarebbero stati meno forti, e immagino meno determinanti, quegli influssi che invece si produssero negli anni ’70, i cosiddetti “anni di piombo”, in cui si è posto in forte risalto il dichiarato “terrorismo rosso” (e anche nero in certi casi) per coprire le mene internazionali condotte in varia guisa in quegli anni.

La situazione era invece quella appena delineata: l’Urss apparentemente molto forte, ma in posizione di sostanziale stallo rispetto agli anni della grande ascesa (soprattutto gli anni ’30), della vittoria nella seconda guerra mondiale, dell’allargamento del “campo socialista”, ecc. Nei paesi euro-orientali, i partiti comunisti (i loro vertici ovviamente) erano consapevoli delle difficoltà esistenti soprattutto al loro interno, ma comunque aggravate da quanto avveniva, sia pure in modo poco appariscente, nel paese centrale del sistema. Vi fu la succitata boccata d’ossigeno quando si pose in mora la politica nixoniana verso la Cina (e anche il Vietnam), si verificò la creduta grande vittoria dei nordvietnamiti contro il gigante statunitense e l’altrettanto sopravvalutata crisi interna statunitense a causa di quella guerra, ecc.

Un conto sono i “movimenti” che si credono sulla cresta dell’onda e blaterano di vittorie sull’imperialismo, in via di presunto indebolimento. Un altro sono i vertici politici delle varie organizzazioni che conoscono la POLITICA (le strategie del conflitto), sanno come questa deve essere condotta, sono ben informati circa le mosse segrete di cui quella vera si sostanzia; e di cui, invece, i poveri “giovinotti” di detti “movimenti” nemmeno avevano il più blando sentore. O forse sarebbe meglio dire che alcuni ne avevano un qualche sentore, ma secondo quanto avevano deciso di far sapere (e far credere) loro i vari “Servizi”, che sono una delle nervature cruciali di detta POLITICA, quella seria e non fatta di dissennate valutazioni degli effettivi rapporti di forza esistenti.

In nessun momento degli anni ’70, i partiti comunisti, sia all’est che all’ovest, crederono a ciò che magari sostenevano ufficialmente. All’est è probabile che si comprendessero le proprie debolezze e i pericoli che si correvano. E all’ovest forse pure. L’eurocomunismo, cioè in definitiva il suo nucleo centrale, il PCI (con i vertici in mano alla nuova maggioranza), non defletté certamente mai dal suo cauto, coperto, spostamento verso l’atlantismo. Tuttavia, credo che sia rimasta molto in ombra – per il solito motivo che la storia la raccontano i vincitori – l’esistenza, soprattutto proprio in Italia, di frazioni del tutto minoritarie, ma non proprio inconsistenti, in opposizione (anche all’interno di quel partito) a simili approcci verso gli Usa e l’occidente in genere. Non credo però ci fosse una effettiva consapevolezza delle manovre “eurocomuniste”. Purtroppo, la visione ideologica del tempo faceva credere che la lotta nell’ambito del movimento comunista fosse una sorta di ripresa dello scontro tra “neokautskismo” (neorevisionismo) e neoleninismo (in buona parte identificato con il maoismo); un errore non decisivo ma comunque rilevante per far prevalere gli ambienti più opportunisti e miserabili del PCI e dei partiti consimili in altri paesi europei.

Fu in ogni caso del tutto impossibile formare un fronte in qualche misura comune – al di là delle divergenze, non solo ideologiche ma pure politiche – tra tutti quelli che si opponevano ai piciisti degli anni ’70 e seguenti: chi perché appunto neoleninista, chi invece sostanzialmente socialdemocratico (ad es. gli “amendoliani”) ma comunque relativamente favorevole ad una “ostpolitik” e chi, come fu un po’ più tardi Craxi, semplicemente antagonista della supremazia del PCI sulla “sinistra” e sospettoso del “compromesso storico”, una buona leva per l’avanzata di tale partito, ormai degenerato, lungo la via di una politica filo-occidentale con tutto ciò che comportò più tardi. Tale divisione fra gli oppositori a quel PCI favorì, infatti, quel che accadde in seguito con il viaggio “culturale” di Napolitano negli USA nel 1978; e soprattutto dopo la fine del “socialismo reale” e dell’Urss. Quanto appena ricordato può forse in parte spiegare anche l’azione di certi Servizi orientali (io penso soprattutto a quelli della  DDR e della Cecoslovacchia) per mettere comunque delle “zeppe” tra i piedi del PCI nel suo spostamento a ovest. E tra queste, almeno a mio avviso, ci fu anche un almeno iniziale appoggio alla poco assennata “lotta clandestina” (non solo delle BR), poi ampiamente sfruttata, come già detto, nell’ambito di una conflittualità tra est e ovest, ecc. ecc.

  1. Mi fermerei per il momento a questo punto per non allungare eccessivamente il mio “racconto”. Tuttavia sia chiaro che bisognerà riflettere a lungo su quanto è poi accaduto dopo la “caduta del muro” e la dissoluzione dell’URSS. In particolare in Italia, dove si è verificato un vero rovesciamento dei precedenti assetti politici tramite quella viscida manovra giudiziaria (“mani pulite”), che si prolunga ancor oggi in una continua invasione della politica da parte della sedicente “giustizia” e della “Legge”. Di questo abbiamo parlato comunque più volte nei nostri interventi; così come stiamo seguendo i netti mutamenti della politica internazionale, in cui cresce il “multipolarismo” e si accentua un dissidio politico all’interno degli USA forse più acuto che in passato e che mi sembra delineare un certo declino di quel paese, pur ancora il più potente economicamente, militarmente e anche in termini di avanzamento tecnologico.

Siamo tuttavia a mio avviso in un’epoca di “transizione” ad altra, cui dovremo faticosamente riadattarci abbandonando vecchie convinzioni senza lasciarci trasportare in visioni avveniristiche, che nemmeno la fantascienza ha avuto il coraggio di predire con tanta improntitudine e “falsa coscienza”. Lancio un ultimo avvertimento: la storia di tutto il ‘900 è stata gravemente falsificata e distorta da politicanti e storici attivi soprattutto negli ultimi decenni e che si qualificano come “sinistra”. Le nostre popolazioni non sanno un bel nulla di ciò che è stato il nostro passato. Per “risaperlo” e valutarlo adeguatamente dobbiamo rovesciare il predominio di questi falsificatori, che stanno provocando una vera crisi di cultura, di tradizioni di cui non dobbiamo per nulla vergognarci; insomma ci stanno conducendo ad una crisi della nostra civiltà. Reagiamo.

tratto da facebook

 

 

 

 

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