MEGLIO GLI EUROCATTIVI, di Teodoro Klitsche de la Grange

MEGLIO GLI EUROCATTIVI

È confermativa dell’andazzo (e delle “costanti”) del governo giallorosso e della sua componente piddina ciò che la stampa ha riportato come affermato da Gentiloni (e confermato da Conte), che la U.E. non gradisce che gli aiuti europei del c.d. “recovery fund” vadano in riduzioni fiscali. Lo è per due motivi principali: il primo è che Gentiloni è esponente di un partito il quale, da sempre, ha come programma elettorale credere, obbedire (ma soprattutto) pagare e ciò (anche e soprattutto) allo scopo di accrescere il potere di chi poi dovrà spendere quei quattrini.

La seconda, a sentire questi statolatri (non solo piddini, dato che – tra i tanti – lo disse, rapito, Padoa Schioppa “pagare le tasse è bellissimo”) perché gli aiuti dell’U.E. saranno usati per le cause più condivise e commoventi: per far del bene, perché il modello di società fiscobulimica è il migliore dei mondi possibili, i tecnici (o simili) sanno più del popolo, per realizzare la “giustizia sociale” (quale?) e via affabulando.

Senza chiarire perché – negli ultimi venticinque anni – alla stagnazione dell’economia italiana sia corrisposto un aumento della pressione fiscale. Per cui la percezione del volgo ignorante è che stagnazione e tassazione sono due gemelli siamesi: non possono vivere lontani.

La spiegazione che sempre più, anche il popolo, tende a darne è che da decenni gli statolatri non abbiano in testa un modello produttivo, bensì un modello distributivo. e che questo sia in funzione degli interessi di chi governa. Il quale ha il vantaggio di distribuire le carte (bonus, esenzioni, agevolazioni, ecc.) in funzione del proprio interesse di governante: durare. O andreottianamente tirare a campare.

Ma c’è un terzo motivo, meno evidente, delle parole di Gentiloni: che tutte le élite decadenti – e quella cui appartiene Gentiloni lo è da decenni – tendono a celarsi dietro un entità “terza” o anche “neutra”. In particolare, in questo frangente, la U.E. Quante volte abbiamo ascoltato il grave e solenne richiamo “ce lo chiede l’Europa?”. E invece, più che l’Europa, ce lo impongono le élite burocratico-governative nostrane. Un caso eclatante, tra i tanti, fu il chiarimento di Bolkestein, il quale, giustamente, alcuni anni fa fece notare (ma fu subito dimenticato) come la normativa che aveva generato in Italia tante agitazioni non c’era nella direttiva europea la quale dallo stesso prendeva il nome, ma era stata introdotta nella “attuazione” nazionale da qualche misteriosa “manina” ministeriale.

E questa volta un aiuto ce lo può dare (perfino) sua cattiveria la signora Merkel. All’inizio di luglio Frau Merkel disse che tra le misure per la ripresa tedesca dopo il Covid, avrebbe ridotto temporaneamente di tre punti l’IVA tedesca, la quale è già di tre punti inferiore a quella italiana. Così che per circa un anno i tedeschi pagheranno sei punti di imposta in meno degli italiani: uno stimolo enorme all’aumento della domanda interna, crollata – con la produzione – a seguito del lock down. A fronte del quale green economy, monopattini e bici elettriche fanno sorridere.

E che somiglia, anche se più “avanzata” alla proposta di tregua fiscale fatta, al momento, più di rinvii di scadenze che di riduzioni d’imposte, caldeggiata dai capi dell’opposizione di centrodestra, i cattivissimi Salvini, Meloni e Berlusconi. I quali così sono dei merkeliani nei fatti, almeno quanto gli statolatri nostrani dicono di esserlo a parole.

Gli è che, a guardare i comportamenti, i cattivissimi governanti europei da Juncker alla Merkel (ed altri) hanno badato sempre agli interessi dei loro paesi (e cittadini): sono stati i mediocri governanti nostrani, soprattutto quelli della seconda repubblica, a non sapere e voler fare i nostri, perché troppo indaffarati a curare i propri.

Teodoro Klitsche de la Grange

Per una nuova Costituente, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Carlo Lottieri, Per una nuova Costituente, Liberilibri, Macerata 2020, pp. XV+86, € 12,00.

Questo saggio di Lottieri, preceduto dall’introduzione di Luigi Marco Bassani, si domanda se l’attuale sistema politico italiano potrà reggere all’impatto della crisi da Coronavirus. E risponde no. Già, come scrive Bassani nell’introduzione, l’Italia era un calabrone economico: come l’insetto, malgrado la forma non aerodinamica e le ali piccole riesce a volare, così il paese “andava, seppur lentamente, avanti”. Non è credibile che prosegua perché in autunno verranno al pettine i nodi irrisolti.

Contrariamente a una parte dei critici dell’attuale “sistema”, di chi pensa sia “colpa della finanza, del Bildelberg o della cattivissima Merkel” il tutto è dovuto alle prebende pubbliche e alle rendite parassitarie organizzate (spesso) e dovute (sempre) al potere politico. Per cui “è del tutto chiaro che o si riforma profondamente la struttura politica e istituzionale, oppure nessuno riuscirà a metter mano a nulla: spesa pubblica, debito e rapina fiscale (ai danni dei singoli, delle imprese e di alcuni territori)”. Il prelievo fiscale tra il 1974 ad oggi è, in rapporto al reddito nazionale, più che raddoppiato; fino a quando (cioè all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso) il PIL aumentava, l’incremento del prelievo era “compensato” – almeno in parte – dall’aumento del reddito. Ma dalla crisi del Covid-19 – che si aggiunge a quella del 2008, ancora gravante sull’Italia la quale, dal governo Monti in poi è “cresciuta” con percentuale annua da prefisso telefonico – e al relativo crollo del reddito, non si esce, sostengono Bottieri e Bassani se non cambiando il sistema radicalmente.

Mentre per l’analisi si può concordare anche se il ruolo dei poteri forti e/od occulti (quelli in crociera sul “Britannia”) non è sottovalutabile, ma sicuramente non è la sola causa dei guai nazionali, diverso è per la soluzione che propone il seggio.

Lottieri parte dall’Unità d’Italia, realizzata secondo un modello centralistico e statalista, accompagnato dalla voluta rappresentazione propagandistica volta a trasformare il Risorgimento in fiaba, mentre “la costruzione dell’Italia unita sia stata l’opera di una minoranza che s’è imposta anche a costo di sacrificare le aspirazioni dei più”. Data tale premessa ne è conseguente che “per proteggere un ordine politico artificioso e un’unità decisa dagli eserciti le classi di governo hanno dovuto a più riprese iniettare quantità massicce di veleno ideologico nelle vene degli italiani…Il controllo materiale sulle esistenze ha dovuto presto essere accompagnato da una progressiva manipolazione delle coscienze. Ma se le cose stanno così, deve essere chiaro che per salvare gli italiani bisogna affrancarli dall’Italia”.

Ora che lo Stato nazionale è fallito, occorre ricostruirlo dalle comunità territoriali con un procedimento federalistico-consensuale. Le comunità che non aderiranno alla federazione saranno libere di starne fuori, scrive Lottieri.

È qui che la tesi presta il fianco a critica. Funzione (dell’istituzione e) dell’autorità è offrire protezione politica. Il che vuol dire in primo luogo, difendere l’esistenza della comunità e dei cittadini. Anche se è assai importante, assicurare la certezza dei rapporti giuridici, attraverso un apparato di coazione è comunque l’aspetto secondario. In ogni fase storica (o anche geo-storica) per dare protezione all’esistenza comunitaria occorreva una massa critica idonea. Se le polis antiche, fino ad Alessandro Magno, riuscivano ad assicurarla, già dopo il macedone il mondo mediterraneo si organizzò progressivamente in sintesi politiche regionali (Roma, Cartagine, i regni dei diadochi) cui succedette un impero unico.

Secoli dopo il declino del feudalesimo – con i suoi poteri locali non (o poco) subordinati al Papa e all’Imperatore, succedettero i più piccoli, ma più centralizzati Stati moderni, I quali esercitavano realmente e pienamente, cioè di fatto, la sovranità ove raggiungessero certe dimensioni. Che nessuno degli Stati pre-unitari sia italiani che tedeschi (a parte la Prussia e fino a un certo tempo, Venezia) avevano. Il risultato fu che le guerre europee si facevano soprattutto in Germania ed Italia perché erano, politicamente, degli open space. L’indipendenza politica esterna degli italiani e dei tedeschi arriva solo con l’unificazione nazionale .

Se pure la formula proposta da Lottieri come soluzione al populismo, ossia “mercati globali, governi locali” è seducente, non è detto che, di fatto, sia capace di conservare l’esistenza delle comunità locali, in una fase storica in cui il potere è concentrato in entità, statali e non, di enormi dimensioni, capaci di far valere con successo le proprie volontà.

Le quali possono essere contenute solo se costrette a confrontarsi con soggetti di pari forza – o di forza non dissimile. Par in parem non habet jurisdictionem, non è solo un principio giuridico; è anche la conseguenza di una parità (o di una non eccessiva disparità) di fatto.

Teodoro Klitsche de la Grange

La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Benjamin Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, Liberilibri, Macerata 2020, pp. XLI + 66, € 8,00.

È opportuna e tempestiva l’iniziativa di una nuova edizione di questi saggi di Constant (la prima è del 2001) con introduzione di Luca Arnaudo.

Questo perché in tempi di cambiamenti radicali, di democrazie liberali e illiberali, i saggi inclusi nel volume, soprattutto il primo, famoso, danno un contributo decisivo, tanto alla risposta a cosa sia la libertà politica e, in certa misura, anche la democrazia.

Com’è noto Constant distingue la concezione della libertà degli antichi da quella dei moderni, distinzione poco o punto chiara a molti teorici e politici del XVIII secolo e della rivoluzione francese. Quella degli antichi “consisteva nell’esercizio, in maniera collettiva ma diretta, di molteplici funzioni della sovranità presa nella sua interezza, funzioni quali la deliberazione sulla pubblica piazza della guerra e della pace… ma se tutto ciò gli antichi chiamavano libertà, al tempo stesso ammettevano come compatibile con questa libertà collettiva l’assoggettamento completo dell’individuo all’autorità dell’insieme… In tal modo, presso gli antichi, l’individuo, praticamente sovrano negli affari pubblici, è schiavo all’interno dei rapporti privati”. Al contrario “tra i moderni, al contrario l’individuo, indipendente nella vita privata, anche negli Stati più democratici non è sovrano che in apparenza”; “Scopo degli antichi era la divisione del potere sociale tra tutti i cittadini di una medesima patria; questo essi consideravano la libertà. Scopo dei moderni è la sicurezza nelle gioie private, ed essi chiamano libertà la garanzie accordate da parte delle istituzioni a tali gioie”.

Il crollo delle istituzioni rivoluzionarie, che nella concezione della libertà degli antichi trovano il pilastro, è stato causato proprio dalla diversità dalla libertà come condivisa dai moderni.

La distinzione tra diritti-libertà di partecipazione al potere politico, e diritti-libertà dal potere politico è stata tra le più fortunate. Riecheggia in tanti teorici successivi del diritto pubblico e della politica: ricordiamo, tra i tanti, quella di M. Hauriou tra Droit statutaire e Droit commun; di I. Berlin tra libertà di e libertà da, di C. Schmitt tra principi di forma politica, (democrazia) e principi dello Stato borghese (uno dei quali è quello di separazione tra Stato e società civile).

Su come coniugare la libertà degli antichi a quella dei moderni Constant propone la soluzione, debitrice di quella esposta da Sieyés nel discorso all’Assemblea costituente sul “veto reale”. Alla libertà dei moderni conviene “un’altra organizzazione rispetto a quella che poteva andar bene alla libertà antica…all’interno del tipo di libertà di cui noi siamo gelosi, più l’esercizio dei nostri diritti politici ci lascerà tempo per dedicarci ai nostri interessi privati, più la libertà ci diverrà preziosa. Da ciò deriva, Signori, la necessità del sistema rappresentativo. Il sistema rappresentativo altro non è che un’organizzazione per mezzo della quale una nazione scarica su alcuni individui ciò che non può e non vuole fare da sé”. L’acume di Constant vede anche il pericolo di tale organizzazione del potere “il rischio della libertà moderna è che, assorbiti dal piacere della nostra indipendenza privata e dall’inseguimento dei nostri interessi particolari, noi rinunciamo troppo facilmente al nostro diritto di partecipare al potere politico”; trascurare questo può compromettere quello.

Non è vero che i cittadini non sanno decidere sulle questioni politiche “Guardate i nostri concittadini, di tutte le classi e professioni, che staccandosi dalla sfera dei loro lavori abituali e delle loro faccende private si trovano improvvisamente a occuparsi delle importanti funzioni che la Costituzione demanda loro: decidono con discernimento, resistono con energia, sconcertano l’astuzia, sfidano il pericolo, resistono nobilmente alla seduzione”. Per cui Constant conclude “Ben lungi, Signori, dal rinunciare ad alcuna delle due specie di libertà di cui vi ho parlato, occorre piuttosto, come ho dimostrato, imparare a combinarle tra loro…Occorre che le istituzioni si occupino dell’educazione morale dei cittadini. Nel rispetto dei loro diritti, avendo riguardo della loro indipendenza, senza ostacolare le loro occupazioni, esse devono comunque consacrare l’influenza di cui dispongono alla cosa pubblica, chiamare i cittadini a concorrere con le loro decisioni e i loro suffragi all’esercizio del potere; esse devono garantire loro un diritto di controllo e di sorveglianza con la manifestazione delle loro opinioni, e formandoli in tal modo, per mezzo della pratica, a queste elevate funzioni, donar loro al contempo il desiderio e la possibilità di adempierle”. Altro che tecnocrazia e “ce lo chiede l’Europa”. Il secondo saggio (Note sulla sovranità del popolo e i suoi limiti) verte su un argomento quanto mai difficile dato che, come scriveva (tra i molti) V. E. Orlando la sovranità è per sua essenza assoluta; a farla relativa la si distrugge. E per risolvere tale antinomia Constant sostiene che garante ne è l’opinione pubblica (che intendeva come il common sense di T. Paine): “La limitazione della sovranità è dunque esatta, ed è possibile: essa sarà garantita inizialmente dalla forza che garantisce tutte le verità riconosciute dall’opinione, in seguito lo sarà in maniera più precisa dalla distribuzione e dal bilancio dei poteri”. Il che significa che il limite, prima che giuridico, è politico e meta-giuridico. Cosa ancora non compresa da tanti.

Teodoro Klitsche de la Grange

RI-FORME DEL PENSARE, Pierluigi Fagan

RI-FORME DEL PENSARE. La torre Einstein di Potsdam in Germania (foto), venne costruita tra il ’17 ed il ’21 a gli inizi della Repubblica di Weimar dall’architetto E. Mendelsohn. Pare che, quando finita venne presentata ad Einstein, questi abbia esclamato “Organico!”. L’architetto costruttore che raccontava l’episodio, chiosava la icastica definizione con la spiega: “organico”, che non gli si può togliere alcunché, né dalla massa, né dal movimento, né, persino, dal suo sviluppo logico, senza distruggere il tutto”. Quando spesso qui ci appelliamo al concetto di “complesso”, ci stiamo riferendo a qualcosa di molto simile all’ “organico”. Del resto, la disciplina madre del concetto di complesso è proprio la biologia, la quale ha di sua costituzione in oggetto l’organico.
Poiché l’uomo fa per ciò che pensa e pensa per ciò che fa, per lungo tempo l’uomo ha pensato prevalentemente con la forma organica. La sua attività principale, che era legata alla sussistenza, che fosse agricoltura o allevamento o ancora raccolta e caccia e pesca, si occupava di un tema organico con oggetti organici. Dell’organico, fa parte il concetto di equilibrio, equilibrio delle parti per formare l’organico ed equilibrio tra organici e tra organici e l’organismo madre che è la Natura. Non a caso, uno dei due grandi filosofi antichi, Aristotele, era non solo un attento proto-studioso di biologia (Diogene Laerzio sosteneva che la maggior parte degli scritti di studio di Aristotele era di biologia, purtroppo non pervenutici), ma anche il filosofo dell’equilibrio compendiato nel concetto de il “giusto mezzo”.
Nel famoso dipinto di Raffaello “La Scuola di Atene”, lo stagirita conversa con l’altro grande filosofo antico, indicando con la mano destra aperta il mezzo con palmo rivolto verso la terra, così come l’altro indica il cielo con l’indice. L’uno imbraccia l’Etica, l’altro il Timeo, l’opera della Creazione secondo Platone che probabilmente aveva tratto spunti e chiare influenze dal contatto con i sacerdoti ebraici in quel d’Egitto, nel viaggio che lo portò dalla Sicilia ad Egina. Due sono le forme del pensiero platonico, entrambe non derivate dall’organico. La prima è il mondo immateriale, delle Idee e della forme pure, mondo mentale tipicamente umano, la seconda è la matrice matematico-geometrica anch’essa figlia del mondo mentale umano sebbene a differenza della prima non sia “inventata” ma dedotta come logica costitutiva della natura stessa, anche se più quella inorganica che quella organica. Per altro, questa forma geometrica che pare fosse celebrata sul frontone dell’Accademia come fondamento del pensare lì svolto, non era platonica ma di eredità pitagorica.
Raffaello dipinge a metà XVI secolo ed il Rinascimento fu l’ultima espressione compiuta del pensiero organico. Una tempesta scettica accompagnò il trapasso al moderno che ha sua prima espressione del pensiero in Descartes che tenta una rifondazione del pensiero accettando la sfida scettica. Ne nasce il razionalismo e la scienza moderna e tutto ciò che poi accompagnerà i quattro secoli del moderno.
Si potrebbe dire che l’intero corso del moderno, coltivi per lo più forme di pensiero inorganico. I due presupposti della scienza seicentesca, la riduzione e la pretesa di determinazione, sono l’esatto contrario di ciò che è l’organico, irriducibile per principio alla parte ma anche ribelle alle pretese di determinazione poiché dinamico, “vivo”, adattativo al contesto, sensibile al tempo, pieno di variabili e loro interrelazioni. Il presupposto invece della metafisica anche cartesiana, Dio, è nell’accezione europeo-moderna sempre meno organico e così lo sviluppo “idealistico” che non avendo vincoli di materia, si libra in un mondo tutto suo che inventa mentre lo pensa. Il moderno tardo, dalla fine del XVIII secolo, si dedicherà sempre più a “fare cose”, macchine per lo più o manufatti, tutte cose morte quindi inorganiche. Esemplificativo di questa lunga e potente dilatazione nel mondo delle cose inorganiche è il pensiero economico che taglia per principio sia il problema dell’origine delle materie ed energie, sia gli effetti della loro trasformazione. Tant’è che quando un economista franco-rumeno, nel Novecento, proverà a reintrodurre tanto il segmento delle origini che quello degli effetti, rinominerà la sua versione di pensiero economico “bio-economia”.
Essendo l’economia attività umana svolta con materie ed energie naturali e con effetti naturali, è abbastanza paradossale si debba qualificare questa forma di pensiero come “bio” per distinguerla da quella dominante che è infatti assai platonica. Si noti che il bio-economista citato, era egli stesso tanto un matematico che uno statistico, la sua forma di pensiero non era quindi opposta alla dominante, solo la integrava in un contesto ed una visione di processo più ampia, includente altri pezzi di realtà che il pensiero economico tende a lasciar fuori dal suo sguardo per tuffarsi con golosa passione nella modellizzazione astratta. Del resto, va da sé che per esser “astratti” si debba rifuggire dal “concreto” e l’organico coincide indissolubilmente col dominio del concreto.
L’espressione plastica di cosa succede quando si affrontano problemi organici con mentalità inorganiche, è dato dal grande volume disordinato del dibattito pubblico sull’epidemia dell’attuale SARS2. Dell’argomento, per esser com-preso, bisognerebbe tener conto di una quindicina di variabili, per altro imprecise. Imprecise sia perché l’organico di norma lo è visto che è vivo, ma anche perché la nostra tecno-scienza sebbene sia noi in grado di sparare razzi morti su Marte, con le cose organiche si trova spesso a mal partito. I biologi non tendono a trattare la loro materia come gli ingegneri, ma nella mentalità pubblica è il paradigma ingegneristico-numerologico a dominare. Aggiungendo tutto il portato dei problemi sociali, psicologici, economici, politici e geopolitici che l’epidemia porta con i suoi impatti, ne viene fuori il gran bordello che vediamo. Lo stesso bordello si replica con le questioni ecologiche, anch’esse del dominio dell’organico.
Alla forma del nostro pensare più adattiva per la nuova epoca in cui siamo capitati, sembrerebbe consigliarsi l’adozione tanto delle più note ed affermate forme del pensiero inorganico, che di quello organico che dal ‘500 in poi ha avuto una sua evoluzione ma i cui principi e fondamenti non sono assunti nell’immagine di mondo collettiva in pari grado ai principi del pensiero sulle cose morte.
E’ cioè terminata l’epoca in cui pensavamo di migliorare la nostra vita solo col pensiero sulle cose morte.

Le guerre segrete della Repubblica di Venezia e dello Stato Pontificio, di Giuseppe Gagliano

Partendo dal saggio di Eric Frattini di taglio storico-giornalistico “L’Entitá” e da quello storico di Paolo Preto “I servizi segreti di Venezia emerge con chiarezza che, al di là delle scelte ideologiche e/ o religiose, le istituzioni politiche hanno fatto ricorso a tutti gli strumenti a loro disposizione per salvaguardare il loro potere o per incrementarlo. In questo contesto i servizi di sicurezza hanno giocato – e giocano come ampiamente dimostrato anche dagli studi storici di Aldo Giannuli un ruolo fondamentale. Infatti l’uso di omicidi politici mirati, la realizzazione o il finanziamento di movimenti volti a destabilizzare politicamente i propri avversari, l’uso della tortura e l‘uso della guerra chimica sono stati strumenti usualmente posti in essere dalle istituzioni politiche e religiose come illustrano ampiamente sia Frattini che Preto. I confini tra cioè che è moralmente lecito o meno saltano in nome degli arcana imperii e della ragion di stato. Ieri come oggi.

Anche se i personaggi e i contesti storici sono necessariamente cangianti e mutevoli numerose sono le continuità e le costanti: l’uso degli omicidi mirati non può che farci pensare anche al Mossad, alla Cia o al KGB; l’uso della tortura ai regimi totalitari ma anche alla Guerra del Vietnam, all’Egitto e all’Iran attuali; l’uso della guerra chimica all’uso dei gas nella Grande Guerra. Infine la realizzazione di movimenti destabilizzanti, come la Fronda, come non può, per analogia, farci pensare ad Otpor o a Solidarnosc?

L’intelligence della Santa Sede

Fra i numerosi nemici della Chiesa di Roma nel 1600 vi era certamente la Francia del cardinale Mazzarino nei confronti della quale il servizio di informazioni Vaticano pose in essere diverse operazioni coordinate della cognata del pontefice Innocenzo X e cioè Olimpia Maidalchini. Il cardinale francese era riuscito a infiltrare nella Santa Sede alcune sue spie che lo informavano dettagliatamente sulle decisioni del Papa contro la Francia. Allo scopo di prevenire e di contrastare queste iniziative Olimpia Maidalchini realizzò un vero e proprio servizio di controspionaggio denominato Ordine Nero il cui compito era individuare gli agenti francesi al soldo di Mazzarino e ucciderli. Il simbolo di questa sezione della Intelligence era una donna vestita con una toga che reggeva la croce in un mana e nell’altra una spada. Tale operazione di grande successo portate avanti dalla intelligence della Santa Sede fu il sostegno al movimento della fronda nato per mettere fuori gioco il cardinale francese; un ‘altra operazione di grande successo fu la eliminazione del genovese Alberto Mercati che era al soldo del cardinale francese e che fu impiccato ad una trave nella sua casa a Roma,omicidio questo che fu attuato dall’Ordine Nero.

Per quanto riguarda l’Ottocento uno dei nemici temibili del Vaticano era certamente la Carboneria. L’Intelligence del Vaticano conosceva perfettamente l’organigramma delle sette segrete come la carboneria e proprio il responsabile dell’intelligence Vaticana Bartolomeo Pacca attuò contromisure efficaci. Nel novembre del 1825 i due principali responsabili della Carboneria, e cioè Targhini e Montanari, furono catturati, processati e decapitati. Un’altra operazione assolutamente spregiudicata fu quella di individuare le persone sospettate di appartenere o appoggiare la Carboneria che vennero sequestrate, interrogate e torturate e nella maggior parte dei casi furono giustiziate in modo sommario. Complessivamente un migliaio di persone sarà costretta all’esilio o sarà rinchiusa nella prigioni papali.

I servizi segreti a Venezia

Passiamo adesso a Venezia. Il 27 ottobre del 1511 il Consiglio dei dieci pattuisce un compenso a Niccolò Catellani per uccidere il re francese Luigi XII con la complicità del suo medico personale.

Allo scopo di sconfiggere il nemico austriaco Venezia decide di porre in essere diversi incendi dolosi nel 1512 in varie località austriache fatte da agenti veneziani e, tra maggio e luglio dello stesso anno, verranno bruciati in Austria circa 200 città. Questa tecnica si rivelò talmente efficace che nell’agosto del 1518 gli storici danno notizia dell’esistenza di una vera e propria organizzazione segreta veneziana specializzata negli incendi dolosi in territorio austriaco. L’artefice di questa operazione fu un nobile veneziano che d’accordo con il Consiglio dei dieci faceva agire gli agenti veneziani incendiari divisi in quattro gruppi vestiti da frati mendicanti.

Un altro temibile nemico di Venezia erano i turchi. Il Consiglio dei dieci progettò l’eliminazione del sultano per ben 12 volte. Più esattamente tra il 1456 e il 1647 furono numerosi i tentativi o i progetti veneziani di attentati alla vita del sultano. Ad esempio nel 1643, i Dieci accettano ben due offerte per assassinare il sultano la prima da parte di un rinnegato di nome Giorgio di Traù mentre la seconda da parte di un frate. Ma sono certamente altrettanto importanti due episodi per comprendere chiaramente l’uso della guerra segreta da parte di Venezia. Il primo episodio risale al luglio del 1652 quando fu avvelenato il turco Cassan Capigì in casa di una prostituta da parte di un certo Francesco Colletti che altro non era che un delinquente; il secondo episodio si colloca nel 1663 quando il nuovo direttore dei servizi segreti in Dalmazia, Nicolò Bollizza, fornisce al turco Ezzestabec veleni per minestra e condimenti destinati a uccidere il padrone Beico Bey .

Anche nei confronti dei prigionieri turchi Venezia mostrò sempre una cinica efficienza: nel luglio del 1505 il conte di Traù è invitato dal Consiglio a uccidere in gran segreto un turco divenuto cristiano; per quanto riguarda i prigionieri delle fuste corsare catturati il Consiglio ordinò al capitano di tagliare a pezzi tutti e di affondare le barche facendo bene attenzione che nessuno di loro rimanesse vivo perché se ciò fosse accaduto avrebbe certamente nuociuto all’immagine di Venezia. Nel 1556 il Duca di Spalato dal Consiglio ricevette l’ordine di uccidere in prigione in modo segreto un turco assassino di frati francescani.

Per quanto riguarda l’uso della guerra chimica, durante la guerra di Cipro, sarà usato il veleno che verrà messo nelle acque e più esattamente il 15 marzo del 1570 l’ingegnere Maggi offre al Consiglio numerosi consigli per la difesa della città di Famagosta fra i quali il lancio contro i nemici di vasi contenenti calce viva mescolata ai veleni e consiglia altresì di avvelenare con sublimato in polvere orzo e biade dei cavalli.E infatti il 18 agosto 1570 lo speziale Dalla Pigna fornisce la materia prima per i veleni e cioè un misto di sublimato, verderame, allume di rocca per avvelenare le acque bevute dai ciprioti.

Agli inizi del 1571 la guerra chimica si intensificherà e infatti il 5 febbraio il Provveditore Generale in Dalmazia riceverà l’ordine segreto di usare senza indugio il veleno.

Uno dei maggiori fautori della guerra chimica fu certamente il Provveditore generale in Dalmazia e Albania Lunardi Foscolo che nel 1646 studierà un piano per mettere fuori uso i turchi chiedendo agli Inquisitori di Stato abbondante veleno capace di operare in poche ore per distruggere il nemico. Sotto il profilo storico insomma l’avvelenamento dei pozzi in Dalmazia fu uno dei mezzi normali della campagna militare dell’estate del 1647.

http://osservatorioglobalizzazione.it/osservatorio/venezia-vaticano-intelligence/

Sui rischi sociali della pandemia da Covid-19, di Andrea Zhok

Mentre continua la battaglia senza esclusione di colpi tra titolisti in cerca di scoop, nella stasi agostana e complottisti in cerca di congiure, per dare un po’ di pepe al vuoto pneumatico di idee, è opportuno cercare di fare chiarezza su alcuni punti relativi alla crisi da Covid-19.

Al netto degli argomenti capziosi e raffazzonati, il problema di fondo dell’estesa area ‘complottista’ che si è manifestata in questo periodo sta nel fatto di prodursi in un (doveroso) esercizio del dubbio omettendo però comodamente qualsivoglia articolata tesi positiva. In sostanza legioni di persone che si esprimono con saccenza e irrisione verso “le verità ufficiali”, concedono a sé stessi un supersconto quando si tratta di proporre “verità alternative”.

Tutto quello che si riesce ad ottenere sono gesti, suggestioni oracolari o insinuazioni che vorrebbero lasciar a intendere chissà quale chiarezza di visione, ma dietro a cui non c’è nient’altro che un sentimento a metà strada tra il disagio personale e la cultura del sospetto. Finché qualcuno non si farà carico di spiegare quale sarebbe (per lui) la “verità alternativa” alle screditate “verità ufficiali” siamo al livello zero della ragione. Questa è la comodissima posizione di chi saltabecca tra contraddizioni e discordanze (vere o immaginarie), senza mai proporre apertis verbis un modo migliore di unire i puntini.

Ora, detto questo, proviamo per un momento a fare un abbozzo del lavoro che i ‘complottisti’, troppo occupati ad applaudirsi a vicenda, si rifiutano di fare, cioè andare a vedere quali sono i rischi effettivi di manipolazione, impliciti nella presente crisi pandemica.

L’opzione più popolare e meno sostenibile la citiamo qui all’inizio, solo per lasciarcela rapidamente alle spalle: l’idea di un complotto mondiale che avrebbe utilizzato un virus prodotto in laboratorio per produrre effetti specifici pro domo sua. Premesso che, per quel che ne sappiamo, può ben darsi che un genio del male abbia creato e diffuso un virus per ragioni sue, è insostenibile che questa operazione possa coinvolgere una pluralità globale di interessi politici ed economici in contraddizione. Stati potenti e settori economici enormi sono stati messi in grave difficoltà dal Covid, che ha messo in moto processi fuori controllo. Che, nonostante la divergenza degli interessi, vi sia una discreta concordia globale nelle modalità di riconoscere e affrontare la pandemia toglie di mezzo ogni teoria del complotto ‘ex ante’, come progetto a tavolino.

Se ci rivolgiamo invece alle tendenze che si possono sviluppare in forma non pianificata, ma opportunistica, data l’occorrenza casuale del Covid, qui troviamo questioni molto più interessanti e plausibili.

1) Una prima possibilità è data dalla tentazione degli stati di usare il Covid e l’emergenza sanitaria come occasione di tipo securitario e repressivo, come modo per stabilizzare il potere e tacitare le proteste.

Non c’è nessun dubbio che i ceti politici di molti paesi possono di volta in volta giocare la carta della sicurezza pubblica per far passare strategie di controllo. In Italia ne abbiamo buona memoria con la “strategia della tensione”. Interventi come il lockdown di due settimane imposto dal governo libanese in questi giorni è, abbastanza trasparentemente, un tentativo di quietare le folle in tumulto, evitando pericolose proteste. E’ parimenti evidente che la crisi sanitaria francese ha messo momentaneamente fine alle proteste dei gilet jaunes, e questo è sicuramente di conforto per Macron, che ne può trarre vantaggio.

Il rischio di questi utilizzi opportunistici da parte del potere politico c’è senza dubbio, tuttavia bisogna collocarlo nella dimensione che gli compete. Le stesse operazioni che congelano le proteste congelano anche l’economia, e nessun paese può permettersi di esagerare con il rallentamento economico, perché è ovvio che ad un certo punto il rischio sanitario diviene per troppa gente secondario rispetto al rischio economico personale, e dunque anche il rispetto per norme securitarie giustificate dal Covid finirebbe per dissolversi, creando una situazione sociale esplosiva.

Dunque, quanto a questo primo punto, un rischio c’è, ma nessuno stato può abusarne e dunque si tratta di un rischio moderato e temporaneo.

2) Un secondo orizzonte di possibilità realistiche è dato dalla tentazione di accelerare processi economici favorevoli al grande capitale. Questo orizzonte può essere scomposto in almeno tre sottocasi, di plausibilità (e gravità) crescente.

2.1) Esistono da tempo (in verità dalle origini della civiltà industriale) tendenze alla sostituzione della forza lavoro con forza meccanica. I processi di sostituzione sono in corso sin dalla ‘spinning Jenny’ e dai ludditi, ma hanno subito una potente accelerazione negli ultimi trent’anni. Ben prima del Covid questo problema era pressante, e naturalmente, visto che gli uomini si ammalano e le macchine no, il Covid potrebbe fungere da ulteriore accelerante.

E tuttavia anche questa opzione va collocata nello spazio di possibilità storiche che le compete. Se fosse possibile per i singoli produttori procedere senz’altro nella direzione desiderata, l’automazione sarebbe molto più avanzata di quanto già non sia. A frenare questo processo tuttavia, oggi come in passato, c’è un problema di fondo: le macchine sono pessimi acquirenti. Anche se per la singola azienda poter sostituire forza lavoro con macchine può rappresentare un vantaggio competitivo, tuttavia questo processo deve avvenire con un passo che consenta alla produzione complessiva di essere acquistata e consumata. E per quanto la produzione di Yacht e haute couture possa contare su fasce stabili di acquirenti facoltosi, la stragrande parte dell’economia non produce per questi soggetti.

Questo significa che tale tendenza non ha nessun bisogno per imporsi di un’occasione come il Covid. E’ già una tendenza dominante, ed è rallentata solo dalla catastrofica disfunzionalità (per il capitale) di una società dove le masse sono sottratte al loro ruolo di consumatori.

2.2) Un discorso parzialmente diverso può essere fatto per i meccanismi di ‘digitalizzazione’. Anche qui ci troviamo davanti a processi che si stanno dispiegando da lungo tempo. Dalla ‘dematerializzazione’ delle pratiche burocratiche alla scomparsa degli uffici fisici, delle filiali bancarie, allo smart working, ecc. questo processo si sta imponendo ovunque e non da oggi. Il Covid (o una qualunque altra pandemia) rappresenta una significativa pressione alla digitalizzazione, perché riduce la necessità di contatti fisici.

Ma qual è il problema rappresentato dalla digitalizzazione?

Qui la questione è più sfumata. Da un lato un sistema con livelli di digitalizzazione efficiente presenta alcuni vantaggi generalizzati. Poter ricevere una ricetta medica a domicilio, o poter consultare un catalogo bibliotecario in remoto, o poter svolgere attività burocratiche che riducano gli spostamenti fisici sono tutte opzioni che presentano indubbi vantaggi collettivi. D’altro canto non tutte le attività possono svolgersi con pari qualità in forma digitale, e la tentazione di ridurre le sedi fisiche per comprimere i costi è un’evidente tentazione, sia per l’impresa privata che per l’erario pubblico. Mentre poter consultare un catalogo bibliotecario online (e magari ricevere un volume a domicilio) possono contare senz’altro come progressi, svolgere lezioni online rappresenta una (a seconda delle età, più o meno grande) perdita rispetto a svolgere lezioni in presenza. Mentre svolgere pratiche burocratiche online può essere un bel vantaggio rispetto a fare la fila in un ufficio, svolgere attività lavorativa domiciliare senza una chiara regolamentazione può essere una fonte di grande sfruttamento.

Anche qui, dobbiamo renderci conto che la tendenza è presente da tempo e che finora ha visto scarsissima resistenza, dunque non è ben chiaro in che senso la pandemia possa essere considerata un momento decisivo: in Italia (e non solo) abbiamo accreditato università online dieci anni fa, nel silenzio generale, e interi settori, dalle filiali bancarie ai call center sono stati smantellati e/o delocalizzati. Abbiamo mugugnato davanti a un sistema in cui non avevamo più nessun referente fisico con cui interagire, abbiamo mugugnato davanti al call-center pakistano o albanese che aveva imparato quattro risposte meccaniche in un italiano claudicante, lasciandoci con gli stessi dubbi di prima. Abbiamo mugugnato, ma abbiamo lasciato fare.

Ecco, forse oggi, lungi dal pensare che è stata la pandemia a crearli, potremmo cogliere l’occasione della pandemia per porre davvero una buona volta questi problemi, presenti e taciuti da tempo. Una discussione su ciò che viene perduto in questi processi di digitalizzazione, su come sia folle che essi non siano attentamente regolamentati considerando le tecnologie disponibili (la normativa italiana a proposito è del 1973), su come essi si incardinino nella consueta tendenza a ridurre i costi di produzione e aumentare lo sfruttamento.

2.3) Un terzo orizzonte di rischio è quello che personalmente vedo come il più immediatamente insidioso. Per comprendere bene di cosa si tratta, bisogna partire da una considerazione di fondo: la presente pandemia ha posto rilevanti ostacoli a due sole delle tre matrici della globalizzazione economica. I movimenti di persone e quelli di merci ne sono usciti ridotti e affaticati. Ma assolutamente nulla è accaduto ai movimenti di capitale, che sono già compiutamente digitalizzati e possono spaziare senza ostacoli sull’intero pianeta.

Ciò significa che la pandemia 2019-2020 si configura come un’impennata nella divergenza di potere tra ‘economia reale’ ed ‘economia finanziaria’. Sappiamo tutti che da tempo il potere contrattuale dell’economia finanziaria, proprio grazie alla sua perfetta mobilità internazionale, è aumentato rispetto al potere della produzione reale e dei suoi protagonisti (imprenditori e, a maggior ragione, lavoratori). Lo slittamento verso una ‘finanziarizzazione dell’economia’ è già in corso da tempo e ha già prodotto danni gravissimi (a partire dalla crisi del 2007-2008). Ma ora siamo di fronte ad una divergenza travolgente: il potere del capitale finanziario non è mai stato più grande nella storia, neanche alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. Siccome la forza economica è sempre una questione relazionale, ciò che va ben inteso è che la potenza del capitale finanziario è proporzionale all’indebolimento delle sue controparti, ovvero agli indebitamenti privati e pubblici in crescita.

Sentivo proprio l’altro giorno, tra le pubblicità radiofoniche, una pubblicità da parte di un fondo privato che invitava alla vendita di ‘nude proprietà’. La prospettiva è chiarissima: fondi finanziari con capitali infiniti non hanno bisogno di realizzare rapidamente, né tanto meno di ‘abitare’. In una situazione in cui moltissime famiglie, soprattutto in Italia, hanno come unico vero e proprio asset la casa di proprietà, l’ultimo orizzonte di dispossessamento è quello di ‘mangiarsi la casa da vivi’, non lasciando più nulla alle generazioni successive. Non c’è dubbio che per molti questa finirà per essere una inesorabile necessità, in assenza di interventi statali.

Più in generale, a fronte di un sistema di debiti pubblici e privati cresciuti enormemente, il gioco del grande capitale privato diviene sempre più scoperto: si tratta di una grande occasione per acquistare a prezzi di saldo immobili, terreni e strutture produttive.

È un momento decisivo da questo punto di vista. Se di fronte a un sistema di capitali privati che ha ogni libertà, ogni tutela, e accesso ad ogni livello di potere, non si staglia con decisione un sistema di capitalizzazione pubblica, fondato sul controllo della moneta e con un’agenda propria, assisteremo al più grande saccheggio della storia, rispetto a cui la spoliazione degli asset pubblici alla caduta dell’URSS sarà un pallido precedente.

Questa è, a mio avviso, la battaglia decisiva che si giocherà nei prossimi mesi e anni. Gli stati che difenderanno la logica della remunerazione del capitale privato, cioè la logica che concepisce come unica fonte pienamente legittima di capitale il capitale privato prestato a interesse, quegli stati prepareranno il collasso del sistema pubblico e dunque la definitiva subordinazione civile della popolazione non facoltosa.

In questa cornice, va detto, poter contare su una Banca Centrale dotata della potenza di fuoco della BCE potrebbe essere risolutivo. Potrebbe, tecnicamente, esserlo perché il sistema produttivo europeo che sta dietro alla BCE è ancora il più solido al mondo e i margini di movimento di una BCE ispirata da un iorientamento keynesiano sarebbero enormi.

Ma è inutile dire che questo ‘potrebbe’ è una possibilità teorica contro cui rema l’intero apparato dei trattati europei, oltre alle intenzioni politiche esplicite dei maggiori azionisti. Dunque, sarebbe davvero bello poter contare su questa prospettiva (che peraltro verrebbe incontro a tutto quanto gli europeisti hanno gabellato come ovvio per decenni). Sarebbe bello, e per questo mi sentivo in obbligo di menzionarlo, ma qui l’ottimismo della volontà ha esaurito le riserve da tempo.

tratto da http://antropologiafilosofica.altervista.org/sui-rischi-sociali-della-pandemia-di-covid-19/

GIOCHI AGOSTANI

La dinamica di questo periodo tra media e social è spassosissima.

Ciò cui si sta assistendo è una guerra d’opinione tra soggetti che negano la gravità, o addirittura la realtà, del virus (chiamiamoli ‘minimizzatori’, perché ‘negazionisti’ è una reductio ad hitlerum) e soggetti che amplificano gli allarmi per la potenziale gravità e pericolosità del virus (chiamiamoli ‘allarmisti’).

Come criceti in corsa frenetica su ruote parallele, minimizzatori e allarmisti danno il meglio di sé in una competizione senza esclusione di colpi. Senza vedere minimamente la gabbia in cui si affaticano.

I ‘minimizzatori’ temono le conseguenze economiche (spesso per ottime ragioni personali) e tirano la coperta da una parte, cogliendo ogni occasione, ogni frase, filmato, battuta, o titolo di giornale per dire che ‘è tutta una finta’, un costrutto, una bufala, una rappresentazione drammatica strumentale.

Gli ‘allarmisti’ temono che i minimizzatori abbiano la meglio nell’opinione pubblica, incentivando comportamenti irresponsabili, e perciò enfatizzano gli elementi d’allarme per tenere alta la guardia.

Davanti all’accresciuto allarmismo i ‘minimizzatori’ vedono una conferma della loro idea che si tratti di una finzione, e perciò insistono, rincarando la dose ed attaccandosi ad ogni tassello fuori posto, ad ogni contraddizione vera o presunta.

Ciò naturalmente innesca una reazione accresciuta degli allarmisti, che vedono nei minimizzatori un’avanguardia di untori prossimi venturi.

E così avanti sulle loro ruote, in un crescendo esponenziale di incomunicabilità e disprezzo.

E’ un gioco divertentissimo con cui riempire l’usuale carenza di eventi del mese di agosto.

E in autunno, quando i nodi (economici, politici, forse anche sanitari) verranno al pettine, avremo una cittadinanza spappolata e convinta che la colpa di ‘tutto’ sia della controparte, dunque assai maldisposta a fare qualsivoglia sacrificio per ‘gli altri’, visto che tra gli ‘altri’ ci sono i responsabili del male che ci sta capitando.

In attesa della prossima versione dell’esercito di Carlo V con i suoi lanzichenecchi, invocati come liberatori.

Davvero, un gioco bellissimo.

 

Tutte le cose turche del Qatar in Libia, di Giuseppe Gagliano

Riprendiamo qui sotto integralmente un articolo di Giuseppe Gagliano. Il professore fa il punto della presenza turco-qatariota in Libia. Il confronto militare e geopolitico in Libia ormai si sta polarizzando tra questi due paesi e l’Egitto. Un fattore in più che rivela impietosamente il vuoto entro il quale si sta dibattendo la politica estera italiana_Giuseppe Germinario

Tutte le cose turche del Qatar in Libia

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Il ruolo del Qatar in Libia in simbiosi con la Turchia nello scenario che si apre dopo l’accordo tra le fazioni libiche. L’approfondimento di Giuseppe Gagliano

È certamente difficile negare che l’accordo tra le fazioni libiche sia sorto all’interno dell’amministrazione americana sia allo scopo di limitare o contenere la proiezione di potenza russa in Cirenaica sia in vista delle imminenti elezioni americane.

Nello specifico tale accordo sarebbe il risultato sia dei colloqui tra il Segretario di Stato Mike Pompeo e il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry – con la supervisione del generale Corea responsabile per il Medioriente della Nation Security Council americano – sia dei colloqui tra Richard Norland, ambasciatore americano presso Tripoli, e Aguila Saleh, presidente del Parlamento di Tobruk.

Ebbene, alla luce della situazione di elevatissima instabilità politica che si è chiaramente manifestata gli ultimi due anni in Libia ,tale accordo si dimostra scarsamente credibile ma soprattutto assolutamente fragile.

Al di là delle promesse che tale accordo formula e indipendentemente dalle divergenze fra i due contendenti ben sottolineate da Agenzia Nova rimane il fatto che il GNA ha concesso – come avevamo previsto – alla Turchia sia l’infrastruttura portuale di Misurata -come base navale per legittimare de facto la proiezione di potenza turca nel Mediterraneo Orientale – sia l’infrastruttura dell’aeroporto militare di al-Watya sito nella Tripolitania Occidentale.

Al di là del fatto che tale accordo sia stato siglato il 17 agosto a Tripoli, il dato geopolitico di grande rilievo è la presenza di un terzo soggetto – accanto alla Libia e ad Ankara- e cioè il Qatar.

Per quanto concerne i rapporti bilaterali tra Turchia e Qatar occorre ricordare che la Turchia ha sempre supportato sul piano militare il Qatar ricevendone in cambio un ampio sostegno finanziario.

Basti rammentare che, ad esempio, il vicecomandante delle forze di Ankara, Ahmed bin Muhammad, è anche a capo dell’Accademia militare qatarina. Ciò significa che la formazione dei quadri militari è selezionata sulla base di scelte politiche e religiose filo-turche.

Inoltre la presenza delle forze di sicurezza turche in Qatar rappresenta in modo tangibile la rilevanza della influenza politico-militare turca.Si pensi all’infrastruttura militare turca Tariq ibn Ziyad, nella quale è presente il comando della “Qatar-Turkey combined joint Force”.

Le esportazioni di armi del Qatar verso la Turchia sono aumentate in modo vistoso consentendo ad Ankara di arrivare a delle entrate pari a 335 milioni di dollari, mentre l‘operazione militare turca Fonte di pace, posta in essere nel nord-est della Siria, è stata apertamente sostenuta proprio da Doha, anche per ampliare l’influenza della Fratellanza musulmana.

Per quanto concerne gli investimenti, il Qatar ha erogato fin dal 2018 15 miliardi di dollari e ha acquistato una quota del 50% in BMC, un produttore turco di veicoli corazzati, i cui partner turchi sono noti amici di Erdoaan per produrre l’Altay, il principale carro armato di battaglia di nuova generazione.Ma vi è anche il caso di una società di software militare controllata dallo stato ad Ankara, che ha firmato un accordo di partnership con al-Mesned Holdings in Qatar per una joint venture specializzata in soluzioni di cyber-sicurezza.

Tuttavia uno degli accordi certamente più rilevanti per sanare la grave situazione economica presente in Turchia è quello del 20 maggio grazie al quale la Banca centrale turca ha annunciato di aver triplicato il suo accordo di scambio di valuta con il Qatar.

Per quanto concerne i rapporti tra Libia e il Qatar, Doha ha saputo approfittare delle debolezze politiche sia dell’Unione europea che dell’Onu. Inoltre il relativo disimpegno americano dal teatro medio orientale – visto che le priorità della amministrazione trumpiana sono per la Cina, l’Indo-Pacifico e per la Russia-hanno di fatto arrecato un indubbio vantaggio strategico a Doha.

Ora, proprio approfittando di questa situazione di instabilità, il Qatar ha cercato di sfruttare questa propizia occasione per una politica di maggiore peso e significato a livello geopolitico in Libia. Proprio per questa ragione la presenza militare del Qatar nel conflitto del 2011, a fianco della Nato, fu certamente rilevante non solo grazie all’uso del potere aereo ma anche attraverso l’addestramento dei ribelli libici sia sul territorio libico sia a Doha, senza dimenticare naturalmente il ruolo rilevante che le proprie forze speciali ebbero nell’assalto finale contro Gheddafi.

Caduto il regime di Gheddafi, il Qatar riconobbe come legittima istituzione politica il consiglio nazionale di transizione e contribuì in modo determinante, non solo a livello economico, a rifornire i ribelli delle necessarie risorse energetiche.

Un altro strumento di influenza, e insieme di penetrazione in Libia, furono certamente i fratelli Alī e Ismā‘īl al-Šalabī perseguitati dal regime di Gheddafi. In particolare Alī al-Šalabī è certamente uno dei più importanti uomini di religione legato alla fratellanza musulmana.

Un altro uomo chiave per il Qatar è stato certamente Abd al-Ḥakīm Bilḥāğ, considerato sia dalla Cia che dal Dipartimento di Stato americano un pericoloso terrorista in quanto leader del Libyan Islamic Fighting Group. Il suo ruolo politico è stato molto importante sia perché ha coordinato il consiglio militare di Tripoli sia perché è stato uno dei principali responsabili del partito al-Waṯan raggruppamento politico di estremo peso all’interno del congresso nazionale generale.

Ritornando all’accordo siglato il 17 agosto il Qatar investirà in modo rilevante per la ricostruzione delle infrastrutture militari di Tripoli. E infatti non è stata casuale la presenza nella delegazione del Qatar di consiglieri e istruttori militari che hanno tenuto incontri con i loro omologhi libici e turchi.

Altrettanto significativo, sotto il profilo politico, l’incontro tra Haftar e il direttore della Intelligence militare egiziana e cioè il generale Khaled Megawer presso la base di Rajma, sita a Bengasi. Un incontro volto a pianificare un ‘eventuale intervento militate egiziano ?È certamente una eventualità da considerare .

A tale proposito il sostegno da parte dell’Egitto di alcune tribù libiche potrebbe svolgere un ruolo significativo. Secondo il capo del consiglio supremo delle tribù in Libia Saleh al-Fendi, come secondo Abdel Salam Bou Harraga Al-Jarari, membro dei clan Al-Ashraf e Al-Murabitin a Tarhuna,a sud di Tripoli, il sostegno egiziano si rileverebbe indispensabile. Proprio Al-Jarari ha sottolineato come il sostegno egiziano sia l’unico modo per porre fine a una straziante guerra civile.Non a caso il maggiore generale Ahmed Al-Mesmari, portavoce dell’Esercito nazionale libico, ha dichiarato che la Turchia si sta mobilitando proprio come dimostra l’incontro del 17 agosto tra i funzionari turchi e e quello del Qatar ,incontro che ,secondo, Al-Mesmari suggellerà la presenza permanente della Fratellanza mussulmana in Libia.

Anche secondo Abdelsalam Bohraqa al-Jarrari, un membro anziano di una tribù di Tarhuna, a Sud di Tripoli, diventa necessario da parte dell’Egitto un intervento militare a tutto campo. Per quanto concerne proprio la presenza di Doha in Libia, secondo lo sceicco Adel Al-Faidi, membro del Consiglio Supremo delle Tribù Libiche, l’incontro del 17 agosto coincide con il controllo turco-qatariota sul porto di Al-Khums e la sua trasformazione in una infrastruttura militare per le operazioni militari congiunte di Ankara e Doha in Libia.

D’altronde proprio la presenza di due fregate turche giunte al porto di Khums ,a 135 km ad Est di Tripoli, legittima il sospetto che Ankara voglia prendere possesso delle infrastrutture portuali dell’area per trasformarle in infrastrutture militari consentendogli in questo modo di rafforzare la sua proiezione di potenza economica e militare sia nel Mediterraneo orientale che in Nordafrica.

https://www.startmag.it/mondo/tutte-le-cose-turche-del-qatar-in-libia/

Mali: un colpo di stato che potrebbe innescare un processo di pace, di Bernard Lugan

Contrariamente alle analisi superficiali della sottocultura mediatica-africanista, il colpo di stato appena compiuto in Mali potrebbe infatti, se fosse “gestito” bene, avere effetti positivi sulla situazione regionale. In un certo senso, segna il ritorno alla situazione che era all’origine dell’intervento Serval nel gennaio 2013 quando le forze del leader tuareg Iyad ag Ghali hanno marciato su Bamako dove erano attese dai sostenitori dell’imam Fulani. Mahmoud Dicko.
La questione che allora si poneva per François Hollande era semplice: era possibile consentire a una rivendicazione nazionalista Tuareg basata su una corrente islamista di fiorire oltre ai centri regionali di destabilizzazione situati nel nord della Nigeria con Boko Haram, nel regione del Sahara settentrionale occidentale con AQIM e nell’area del confine algerino-marocchino-mauritano con il Polisario ?
L’errore francese fu quindi quello di non condizionare la riconquista di Gao, Timbuktu e del Mali settentrionale da parte di Serval, al riconoscimento da parte di Bamako di una nuova organizzazione costituzionale e territoriale in modo che i Tuareg e i Peul non fossero più automaticamente esclusi dal gioco politico attraverso la democrazia che è diventato una semplice etno-matematica elettorale. La ferita etnica alla base del problema [1] e che era stata superinfettata dagli islamisti di Aqmi-Al-Qaeda non essendo stata curata, la guerra si è poi estesa a tutta la regione, dilagando nel Burkina Faso e il Niger.
Quindi, dal 2018-2019, l’intrusione di DAECH attraverso l’EIGS (Stato islamico nel Grande Sahara) ha portato a un conflitto aperto tra l’EIGS ei gruppi etno-islamisti che affermano di far parte del movimento di Al-Qaeda, gli EIGS li accusano di privilegiare l’etnia a spese del califfato.
Infatti, i due principali leader etno-regionali della nebulosa di Al-Qaeda, vale a dire il Touareg ifora Iyad Ag Ghali e il Peul Ahmadou Koufa, leader della Katiba Macina, più etno-islamista che islamista, avevano deciso di negoziare un uscita dalla crisi. Non volendo una simile politica, Abdelmalek Droukdal, leader di Al-Qaeda per tutto il Nord Africa e per la banda saheliana, ha poi deciso di riprendere il controllo e imporre la sua autorità, entrambi su Ahmadou. Koufa e Iyad ag Ghali. È stato poi “neutralizzato” dalle forze francesi informate dai servizi di Algeri preoccupati nel vedere che lo Stato Islamico si stava avvicinando al confine algerino.
L’Algeria, che considera il nord-ovest del BSS come il suo cortile, ha sempre “sponsorizzato” gli accordi di pace lì. Il suo uomo locale è Iyad ag Ghali, la cui famiglia vive nella regione di Ouargla. Questo ifora tuareg ha una base di popolarità a Bamako con l’Imam Mahmoud Dicko e soprattutto è contro la disgregazione del Mali, una priorità per l’Algeria che non vuole un Azawad indipendente che sia un faro per il suo possedere Tuareg.
Se fosse ben negoziato, il colpo di stato appena avvenuto in Mali potrebbe quindi, contrariamente a quanto scrive la maggior parte degli analisti, segnare l’accelerazione di un processo negoziale volto a sia il conflitto Soum-Macina-Liptako portato avanti dai Fulani, da qui l’importanza di Ahmadou Koufa, sia quello del nord del Mali, che è l’aggiornamento della tradizionale disputa Tuareg, da qui l’importanza di Iyad ag Ghali.
Il ritorno al gioco politico dei Tuareg radunato alla guida di Iyad ag Ghali, e quelli dei Peul al seguito di Ahmadou Koufa, permetterebbero quindi di concentrare tutti i mezzi sull’EIGS, e quindi di prevedere nel medio termine una riduzione di Barkhane, poi il suo slittamento verso la regione peri-ciadica dove gli elementi di futura destabilizzazione in atto eserciteranno pesanti minacce su Ciad e Camerun, il tutto alimentato dall’intrusione turca in Libia.
[1] A questo proposito, fare riferimento al mio libro Les Guerres du Sahel , des origines à nos jours.
Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan .

tre punti di partenza, di Pierluigi Fagan

https://www.facebook.com/pierluigi.fagan/posts/10221964943728277GEOSTORIA FILOSOFICA. Le tre principali tradizioni di pensiero, indiana, cinese, occidentale cioè greca alle origini, potrebbero esser definite dall’atteggiamento nei confronti della realtà,: come è (indiana), come va intesa (cinese), come va agita (greca). Ci riferiamo alla “filosofia prima”, alla prima considerazione che fonda un sistema di pensiero.

Per la tradizione indiana, la molteplicità è apparenza di un’unica sostanza, il Brahman. Per la tradizione cinese, la sostanza è alternarsi di due principi che convivono in diverse proporzioni dinamiche, lo Yin e lo Yang. Per la tradizione greco-occidentale la sostanza o è A o è B, il che crea i presupposti dinamici del divenire e del polemos.

Si potrebbe quindi forse dire che per la tradizione indiana importante era sapere com’è davvero la realtà e questo sapere porta a dire che “questa” realtà è solo un riflesso da noi condizionato di una realtà non esperibile, ma intuibile, altra. Questa realtà vera, per quanto a noi inattingibile, è Una, a-dimensionale, a-temporale. Un com’è davvero.

La tradizione cinese invece, vede dualità ma la ritiene apparente anch’essa, non per una riconducibilità ultima ad un Uno sottostante, ma perché tale dualità è complementarietà, armonia, dinamica di prevalenze momentanee. Un come va intesa.

La tradizione greco-occidentale, da ultima, vede invece dualità in conflitto, o prevale l’una o l’altra e da questo eterno polemos, la dinamica del mondo. Un come va agita.

La tradizione indiana è, cronologicamente, la più antica e la meno definibile storicamente. Sanscrito e Veda, si pensa fossero portati da sacerdoti di popolazioni indoeuropee di cui sappiano poco o nulla. Inoltre, non sappiamo quali fossero i pensieri originari e quanto siano stati ibridati da evoluzioni successive. Tra Bhagavadgītā ed i precedenti Veda più antichi (i Rg Veda) corre un millennio o forse più se il Rg Veda è a sua volta -come sembra- lo scritto di una più lunga ed antica tradizione orale.

La tradizione cinese è la seconda in ordine di tempo. Il suo corpo principale compendiato nell’Yi JIng, è autoctono, mentre il successivo afflusso del taoismo, sembra influito da correnti del buddhismo (Chan). Nell’Yi Jing, a su volta versione scritta di una tradizione orale precedente che potrebbe risalire indietro anche di mille anni (o più), tutto scaturisce da due elementi simbolizzati nella linea continua ed in quella spezzata.

La tradizione greca nasce dalla confluenza tra tradizioni mitologiche locali ed una decisa influenza indiana, diretta o mediata dai popoli intermedi, i persiani. Persiani che, a loro volta, furono pesantemente influiti da un braccio dello stesso flusso di popoli e credenze che era arrivato in India (via valle dell’Indo, oggi Pakistan). Tra l’antica Avesta ed i Rg Veda, ci sono infatti punti di contatto. Essendo la più tarda e la più influita geo-storicamente è la meno definibile unitariamente. Gli influissi iranico-asiatici che arrivano a Mileto danno degli esiti, quelli che arrivano sotto forma di pratiche religiose (i Misteri), altri. Pitagora che molto influì su Platone, ad esempio, essendo di Samo, era di area culturale anatolica visto che distava da Mileto cinque-sei volte meno che da Atene. Nel Platone del Timeo, ci sono forti influssi della religione degli ebrei, la quale a sua volta -nella cattività babilonese- venne decisivamente influita dalla tradizione iranica, cioè zoroastriana (quindi antico indoeuropea). Parmenide era della Magna Grecia, Elea, ma il popolo greco che fondò la città era dell’Anatolia, Focea, poco più a nord di Samo e Mileto.

Ma lasciando a queste rapide tracce originarie l’intricatissimo albero delle discendenze ed influenze, rimane forse l’atteggiamento filosofico come guida del comportamento. Quello di un sostanziale disimpegno dalla realtà concreta degli indiani concentrati nella ricerca interiore, quello cinese molto pragmatico che cerca la relazionalità e l’armonia tra le diverse forme date dall’alternanza dei due principi fondativi, quello di forte ingaggio nella realtà con sforzi per prevalere, quindi di “polemos” per i greci poi occidentali.

Questi, in particolare, sembrano fortemente influiti dalla nativa culla geografica divisa tra Anatolia, Egeo, Attica e Magna Grecia. In particolare dal fatto che sia le forme di costa, che quelle più chiaramente isolane, hanno favorito la nascita di città-Stato che non avevano alcuna facilità ad espandersi per cooptazione dei vicini formando regni o imperi, com’era nella antica tradizione iranico-mesopotamica-levantina-egiziana-ittita. Nacquero città-Stato tra loro polemiche e tali rimasero fino ad Alessandro Magno, la cui “unificazione” politica durò lo spazio di un mattino. Polemici all’esterno, l’una città con l’altra, polemici all’interno di “stasis” in” stasis”, guerra civile, alternanza tra tiranno e demos.

La conformazione geografica dell’Europa con grandi e medie isole, penisole, catene montuose che dividono spazi di una certa omogeneità (alpi scadinave, italiche, Pirenei, Urali), grandi fiumi meridiani o su paralleli come il Danubio, sembra ripetere lo schema non più di piccole città-Stato ma di Stati poi Nazioni, polemici anch’essi, tanto all’interno che all’esterno. Quando gli europei, i portoghesi per primi, cominciarono a cercar fuori di Europa sostanze per alimentare i propri conflitti interni al sub-continente, nacque la verve coloniale (XV secolo) ed il successivo conato a dominare quanto più mondo possibile.

Gli eredi odierni di queste tradizioni, sono molto più ibridati dei loro antenati. Ma il fondo metafisico ha una sua longeva perduranza e nei sistemi di pensiero che sono per lo più forme ad albero, il fondo (o tronco o radici) sono molto influenti nell’arborizzazione successiva. Chissà quindi, nel prossimo futuro e rimanendo allo stretto del continuum euroasiatico, quale tra ciò che promana dalla tradizione del com’è, del come va inteso o del come va agito, risulterà più adattativo.

Sempre che si debba applicare una logica disgiuntiva o congiuntiva, diplomatica o polemica, idealistica o pragmatica …

Schiavismo, la storia rimessa al suo posto_di Bernard Lugan

Presentazione :
Tutti i popoli anno praticato la schiavitù. Ma solo i bianchi l’hanno abolita. Con la conquista coloniale costrinsero poi a rinunciarvi coloro che continuavano a praticarla. Tuttavia, solo il traffico di esseri umani praticato dagli europei è criminalizzato.
Il 10 maggio 2001, votando all’unanimità la “Legge Taubira”, i deputati francesi hanno così imposto una visione ideologica e manichea della tratta degli schiavi. Questa legge denuncia solo il Trattato praticato dagli europei, ignorando la tratta degli schiavi arabo-musulmana che si è conclusa solo con la colonizzazione.
Christiane Taubira ha giustificato questa singolare emiplegia storica in modo che “i giovani arabi (…) non portino sulle spalle tutto il peso dell’eredità dei misfatti arabi ” ( L’Express , 4 maggio 2006).
Con il loro voto, i deputati francesi hanno quindi cancellato dalla memoria collettiva decine di milioni di vittime. A cominciare da queste innumerevoli donne e ragazze berbere che hanno fatto irruzione in quello che i conquistatori arabi chiamavano il “raccolto berbero”. Ibn Khaldun ha evocato su questo argomento i ” bellissimi schiavi berberi, di vello color miele “. E che dire dei milioni di rapimenti di europei effettuati fino all’Ottocento in mare e lungo le sponde del Mediterraneo, a tal punto che si diceva allora che “ ad Algeri piove schiavi cristiani ”?
Questa legge ignora anche il ruolo degli stessi africani. Tuttavia, come gli europei aspettato sulla costa per i prigionieri da consegnare dai loro partner africani, è stato quindi in ultima analisi, spetta a quest’ultimo di accettare o rifiutare di vendere loro i loro “fratelli” neri. La realtà storica è che una parte dell’Africa si è arricchita vendendo l’altra parte. Poiché i prigionieri non apparivano per magia sui siti di scambio, furono effettivamente catturati, trasportati, ammassati e venduti da schiavisti neri. Cosa ha fatto dire ai vescovi africani:
“ Allora iniziamo ammettendo la nostra parte di responsabilità nella vendita e nell’acquisto dell’uomo nero… I nostri padri hanno preso parte alla storia dell’ignominia che era quella della tratta degli schiavi e della schiavitù nera. Vendevano l’ignobile tratta degli schiavi atlantica e transsahariana ”(Dichiarazione dei vescovi africani riuniti a Gorée nell’ottobre 2003).
Tuttavia, per odio verso tutto ciò che è “Bianco”, coloro che si sono battezzati “decoloniali” negano queste realtà storiche a favore di una falsa storia che introducono con il forcipe secondo metodi terroristici e che è vigliaccamente accettata da Le “élite” europee sono entrate nell’imitudine dottrinale. Il 19 giugno 2020, il Parlamento europeo ha votato a favore di una risoluzione surrealista che condanna “l’uso di slogan che mirano a minare o indebolire il movimento Black Lives Matter e ad attenuarne la portata”. Il gruppo LFI ha persino presentato un emendamento volto a riconoscere come “crimine contro l’umanità” solo il Trattato europeo, e non “la tratta degli schiavi” in generale, come previsto nel testo iniziale.
Questa impresa di sovversione sta vivendo sviluppi apparentemente insoliti. Così, lo scorso maggio, in Martinica, due statue di Victor Schoelcher, l’uomo del Decreto del 27 aprile 1848 che abolisce definitivamente la schiavitù, furono rovesciate a Fort de France e… Schoelcher. Tuttavia, non c’è né ignoranza né stupidità in questi crimini iconoclasti, ma al contrario un chiaro atteggiamento politico: un Bianco non può infatti porre fine alla schiavitù poiché è essenzialmente uno schiavo … le statue del padre dell’abolizionismo furono ribaltate, per rimpiazzarle quelle delle personalità nere “schiave” secondo il vocabolario “decoloniale”, che avrebbero combattuto contro la schiavitù.
Ecco quindi i “decoloniali” in mezzo a un complesso esistenziale divenuti “schiavi della schiavitù” per dirla con Franz Fanon, lui che si rifiutava di “lasciarsi imprigionare nel determinismo del passato”.
Questo libro che rivede completamente la storia della schiavitù era quindi una necessità. Lontano dalle nuvole e dalle incessanti manovre che inducono sensi di colpa, quest’opera, arricchita di decine di mappe e illustrazioni, una dettagliata bibliografia e un indice, è il manuale di confutazione di questa storia divenuta ufficiale, il cui scopo è quello di spianare la strada a pentimento per rendere gli europei stranieri nel loro stesso suolo.
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