Politica estera americana e John Wayne, di Giuseppe Gagliano

Politica estera americana e John Wayne

Sconsigliamo in primo luogo vivamente la lettura di questo articolo ai lettori filoamericani e filo atlantici che abbondano nel nostro paese a sovranità limitata ( o nulla).

In seconda battuta-non senza una certa provocatorietà-non possiamo fare a meno di osservare come il tanto sbandierato multilateralismo del presidente Biden e del segretario di Stato Blinken si sia rivelato-come era d’altra parte prevedibile-un bluff di carattere diplomatico: il multilateralismo inteso dagli Stati Uniti significa stringere alleanze sempre più strette di carattere economico e militare con i propri alleati per perseguire meglio gli obiettivi egemonici americani a livello globale.Ma certo non significa contrattare -su un piano di parità in ambito politico e diplomatico -con la Cina e con la Russia.Questo pseudo- multilateralismo sta gettando le premesse per un conflitto per la questione ucraina tra Russia e USA. Conflitto questo che coinvolgerebbe direttamente l’Europa e che avrebbe conseguenze incalcolabili, imprevedibili ma certamente gravissime ed insieme drammatiche. Un conflitto questo che deve essere assolutamente scongiurato.A tutti i costi .

Al di là della irrilevanza-consueta quanto prevedibile-sia dell’Unione Europea che dell’ONU ciò che Putin ha sostanzialmente chiesto agli Stati Uniti e alla Nato è di fermare l’allargamento dell’Alleanza ai paesi dell’est e soprattutto di smettere di continuare ad armare l’Ucraina in funzione antirussa.Si tratta di rispettare la sovranità territoriale della Russia.Ma si tratta anche di abbandonare la consueta politica unilaterale americana secondo la quale sarebbero Stati Uniti-come nei film western americani- gli unici sceriffi che possono legiferare sul mondo decidendo cosa è giusto e cosa non lo è. La politica estera americana è stata troppo spesso ispirata al modus operandi dei film interpretati dall’attore John Wayne. Non sei d’accordo con me? Ti sparo addosso!

Ci domandiamo con quale credibilità gli Stati Uniti possono pretendere di affrontare un conflitto con la Russia dopo il fallimento sia in relazione alla situazione della Crimea sia in relazione all’Afghanistan. Ancora una volta le lezioni del passato non hanno insegnato nulla agli Stati Uniti. Per quanto riguarda l’Ucraina l’attuale presidente invece di continuare ad acquistare armi dagli Stati Uniti farebbe bene a cercare di risolvere la gravissima situazione nella quale versa il suo paese: la situazione economica infatti è catastrofica nonostante sia stato dato un prestito di 5 miliardi di dollari dal FMI nel 2000 a cui poi se ne è aggiunto un secondo 750 milioni di dollari per evitare che l’Ucraina vada in default .Inoltre il calo di popolarità del presidente americano potrebbe portarlo a fare scelte molto pericolose per non apparire debole agli occhi degli elettori e dei repubblicani .Se Putin dovesse spuntarla questo certamente equivarrebbe alla fine ingloriosa della politica neo conservatrice e delle sue nefaste conseguenze a livello di equilibrio internazionale.

https://centrostudistrategicicarlodecristoforis.wordpress.com/2021/12/25/politica-estera-americana-e-john-wayne/?fbclid=IwAR2U_maLWgIq1J9YZyCODnooOT-mYfJ2ipXhYp-VDpkwyEoeSa0v6YKCb9I

Le cause del fallimento politico della Francia nel Sahel, di Bernard Lugan

Interessante, anche se l’autore sembra dimenticare che l’approccio dogmatico ed astratto all’avventura militare nel Sahel è il corollario di una politica egemonica imperialistica, per quanto in declino; vittima non solo dei rivolgimenti interni a quei paesi ma anche dell’arrivo e del ritorno di nuovi attori esterni_Giuseppe Germinario

Nel Sahel, a dieci anni dalla trionfale accoglienza riservata alle forze francesi, e dopo che 52 dei migliori figli di Francia sono caduti per difendere i maliani che preferiscono emigrare in Francia piuttosto che combattere per il proprio paese, si susseguono manifestazioni antifrancesi . Convogli militari ora circolano sotto insulti, sputi e sassi. Sulla strada dalla Costa d’Avorio, la situazione diventa così difficile che inizia a sorgere la questione dell’approvvigionamento di Barkhane. A fine novembre 2021, in Niger, dopo la morte di diversi manifestanti che avevano bloccato un convoglio militare francese, il governo nigeriano ha incriminato Barkhane… La strategia francese di ridispiegare in Niger le forze precedentemente di stanza in Mali passerà quindi sotto la responsabilità di ‘atto di bilanciamento…

La situazione regionale è così degradata che, per paura di manifestazioni, il presidente Macron ha appena rinunciato ad andarci per incontrare i funzionari regionali. Forse andrà in una base militare solo per festeggiare il Natale con un’unità francese.

Perché un tale disastro politico? Dopo esserci cacciati dalla Repubblica Centrafricana accumulando i nostri errori, sperimenteremo un nuovo e umiliante fallimento, ma questa volta nella BSS?

Come continuo a dire e scrivere da anni, e come dimostro nel mio libro Le guerre del Sahel dall’inizio ai giorni nostri , i decisori francesi fin dall’inizio hanno fatto una falsa analisi vedendo il conflitto regionale attraverso il prisma dell’islamismo. La realtà, però, è diversa perché l’islamismo è prima di tutto la superinfezione di ferite etno-razziali millenarie che nessun intervento militare riesce a chiudere.

Al nord, è il risorgere di una frattura inscritta nella notte dei tempi, di una guerra etno-storica-economica-politica condotta dal 1963 dai Tuareg. Qui la soluzione del problema è tenuta da Iyad Ag Ghali, storico leader delle precedenti ribellioni tuareg. Dal 2012 ho continuato a dire che dovevamo trovare un’intesa con questo leader Ifora con cui avevamo contatti, interessi comuni e la cui lotta è prima di tutto per l’identità. Tuttavia, per ideologia, rifiutandosi di prendere in considerazione le costanti etniche secolari, coloro che definiscono la politica franco-africana consideravano al contrario che fosse lui l’uomo da massacrare… Il presidente Macron ha persino ordinato più volte alle forze di Barkhane di eliminarlo e che , fino a poco tempo fa, quando le autorità di Bamako stavano negoziando una pace regionale direttamente con lui… Già, il 10 novembre 2020, Bag Ag Moussa, il suo luogotenente, era stato ucciso da un attacco aereo.

Il conflitto nel sud (Macina, Liptako, regione conosciuta come i “Tre Confini” a nord e ad est del Burkina Faso), ha anche radici etno-storiche derivanti dal secolare scontro tra i Peul e varie popolazioni sedentarie. A differenza del nord, qui si svolgono due guerre molto diverse. Uno è l’emanazione di grandi fazioni Fulani raggruppate sotto la bandiera di AQIM ( Al-Quaïda per il Maghreb islamico ). L’altro infatti è prima di tutto religioso ed è guidato dallo Stato Islamico l’EIGS ( Stato Islamico nel Grande Sahara ). L’EIGS mira a creare in tutta la BSS (Sahelo-Saharan Band), un vasto califfato transetnico che sostituisca e includa gli attuali Stati. Al contrario, i leader regionali di AQIM, che sono etno-islamisti, hanno obiettivi principalmente locali e non sostengono la distruzione degli stati del Sahel.

Con un minimo di intelligenza tattica, giocando sugli equilibri di potere regionali ed etnici, si poteva rapidamente risolvere la questione del nord del Mali, che avrebbe consentito un rapido disimpegno consentendo di operare la concentrazione delle nostre risorse sulla regione di” 3 frontiere”, quindi contro l’EIGS [1] . Tuttavia, contrariamente a quanto sostenuto dai capi militari di Barkhane, Parigi ha persistito in una strategia “americana”, “colpisce” indiscriminatamente i GAT (Gruppi armati terroristici) e rifiutando qualsiasi approccio “buono” … “À la Française” … come i nostri anziani avevano fatto così bene in Indocina e Algeria. La linea di fondo è che, per i leader francesi, la questione etnica è secondaria o addirittura artificiale, quando non è, secondo loro, romanticismo coloniale…

L’ultimo e caricaturale esempio di cecità ideologica è stata la reazione di Parigi al colpo di Stato del colonnello Assimi Goïta, avvenuto in Mali nell’agosto 2020. In nome della democrazia, del buon governo e dello stato di diritto, nozioni che qui rientrano nel surrealismo politico, La Francia ha tagliato i legami con l’ex comandante delle forze speciali maliane, la cui acquisizione è stata comunque un’opportunità per la pace. Avendo per le sue funzioni un giusto apprezzamento delle realtà sul terreno, questo Minianka, ramo minoritario del grande ensemble Senufo, non ebbe infatti alcun contenzioso storico-etnico, né con i Tuareg, né con i Peul, i due popoli in origine. i due conflitti in Mali. Ha quindi aperto trattative con Iyad Ag Ghali, che hanno ulcerato i decisori parigini. Bloccati nel loro a priori ideologico, questi ultimi non hanno preso la misura del cambiamento di contesto appena avvenuto, e hanno continuato a parlare di rifiuto di “trattare con il terrorismo”. Prendendo come pretesto questo colpo di stato, Emmanuel Macron ha deciso di ritirare Barkhane, che è stato inteso come un abbandono. E, per completare il tutto, avendo Bamako chiesto l’aiuto della Russia, la Francia ha minacciato, che è stata denunciata come neocolonialismo….

Sulla base di un ostinato rifiuto di prendere in considerazione le realtà sul campo, questo accumulo di errori ha quindi portato a un vicolo cieco. La domanda ora è come uscirne senza mettere in pericolo le nostre forze. E senza che la nostra partenza aprisse la porta a un genocidio di cui saremmo accusati. Come ricordo, in Ruanda, è stato perché l’esercito francese si era ritirato che c’è stato un genocidio, perché, se le forze del generale Kagame non avessero chiesto la loro partenza, questo genocidio di fatto non si sarebbe verificato.

Quattro lezioni principali devono essere tratte da questo nuovo e amaro fallimento politico africano:

1) L’urgente priorità è sapere cosa stiamo facendo nel BSS, dobbiamo quindi definire finalmente, e molto rapidamente, i nostri interessi strategici attuali e a lungo termine per sapere se dobbiamo disimpegnarci o meno, e in caso affermativo, a che livello, e senza perdere la faccia.

2) In futuro, non dovremo più intervenire sistematicamente e direttamente a vantaggio degli eserciti locali che abbiamo instancabilmente e senza successo addestrato dagli anni ’60 e che, ad eccezione di quello del Senegal e della guardia presidenziale ciadiana, sono incompetente. E se lo sono, è per un semplice motivo che è che gli Stati, essendo artificiali, non esiste un vero sentimento patriottico.

3) Sarà necessario favorire interventi indiretti o azioni rapide e puntuali da parte delle navi, che eliminerebbero il disagio dei passaggi a terra percepiti localmente come un’insopportabile presenza neocoloniale. Sarebbe quindi necessaria una ridefinizione e un aumento di potenza delle nostre risorse marittime proiettabili.

4) Infine e prima, dovremo lasciare che l’ordine naturale africano si dispieghi. Ciò implica che i nostri intellettuali capiscano finalmente che i vecchi governanti non accetteranno mai che, attraverso il gioco dell’etnomatematica elettorale, e solo perché sono più numerosi di loro, i loro ex sudditi o tributari ora sono i loro padroni. . Ciò sconvolge le concezioni eteree della filosofia politica occidentale, eppure questa è la realtà africana.

Per più di mezzo secolo in Africa, l’ossessione occidentale per i diritti umani ha portato a massacri, l’imperativo democratico ha provocato la guerra e le elezioni hanno portato al caos.

Più che mai è quindi importante riflettere su questa profonda riflessione che fece nel 1953 il Governatore Generale dell’AOF: “Meno elezioni e più etnografia, e tutti troveranno ciò che cercano”… In una parola, il ritorno alla realtà e alla rinuncia alle nuvole.

[1] A tal proposito si rimanda al mio comunicato stampa del 24 ottobre 2020 dal titolo “Mali: fondamentale il cambio di paradigma”.

Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan .

Un ultimatum russo a sorpresa: nuove bozze di trattati per il rollback della NATO, di gilbertdoctorow

Continuiamo ad offrire alcuni punti di vista sulla questione cruciale che regolerà in qualche maniera le dinamiche geopolitiche e la vita quotidiana interna ai paesi. E’ la volta di una puntuale sintesi dell’approccio russo alle relazioni estere, in particolare con gli Stati Uniti, edita da uno dei maggiori esperti americani in materia. Cerchiamo di sopperire alla vacua superficialità con la quale si affronta, con rare eccezioni, la tematica. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Un ultimatum russo a sorpresa: nuove bozze di trattati per il rollback della NATO

La pubblicazione di un paio di giorni fa sul sito web del Ministero degli Affari Esteri RF delle sue bozze di trattato per la revisione totale dell’architettura di sicurezza europea¹ è stata ripresa dai nostri principali media mainstream. Il New York Times non ha perso tempo a pubblicare un articolo dei suoi giornalisti più esperti sulla Russia, Andrew Kramer e Steven Erlanger: “La Russia presenta le richieste per un nuovo accordo di sicurezza con la NATO”. Da parte sua, il Financial Times ha riunito i suoi principali esperti Max Seddon a Mosca, Henry Foy a Bruxelles e Aime Williams a Washington per inventare “la Russia pubblica le richieste di sicurezza della ‘linea rossa’ per la Nato e gli Stati Uniti”.

Entrambe le ammiraglie della carta stampata in lingua inglese hanno identificato correttamente la principale novità dell’iniziativa russa, racchiusa nella parola “richieste”. Tuttavia, non hanno esplorato la domanda “e se”, come e perché queste “richieste” vengono presentate di fatto, se non di nome, come un “ultimatum”, come le considero.

Gli stessi articoli di giornale sono tè debole. Riassumono i punti esposti nei progetti di trattati russi. Ma non sono in grado di fornire un’interpretazione di ciò che l’iniziativa russa significa per l’immediato futuro di tutti noi.

Normalmente sarebbero stati alimentati manualmente da tali analisi dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti e dal Pentagono. Tuttavia, questa volta Washington ha rifiutato di commentare, dicendo che ora sta studiando i trattati russi e avrà la sua risposta tra una settimana circa. Nel frattempo, l’affidabile cagnolino americano Jens Stoltenberg, segretario generale della NATO, non ha ritenuto necessario riflettere e ha respinto categoricamente le richieste russe in quanto inaccettabili. Anche gli stati membri della NATO “in prima linea” nei paesi baltici hanno posto il veto di riflesso a qualsiasi colloquio con i russi su queste questioni.

Tuttavia, anche il FT e il NYT capiscono quanto valga l’opinione del signor Stoltenberg o l’opinione dell’Estonia e si sono trattenuti a dare il proprio pollice in su o in giù. Entrambi analizzano le bozze di trattati principalmente in relazione all’attuale ammassamento di truppe russe al confine con l’Ucraina. Presumono che se i russi non riceveranno alcuna soddisfazione per le loro richieste, lo useranno per giustificare un’invasione. Ci viene detto che in un’eventualità del genere scoppierà una nuova Guerra Fredda nel Vecchio Continente, come se quella fosse la fine di tutto il clamore.

In parte, il problema con questi media è che i loro giornalisti e le loro redazioni sono stonate per quanto riguarda le cose russe. Sono insensibili alle sfumature e incapaci di vedere cosa c’è di nuovo qui nel contenuto e ancor più nella presentazione dei testi russi. La debolezza è in parte imputabile al problema comune dei giornalisti: il loro orizzonte temporale risale a quanto accaduto la scorsa settimana. Mancano di prospettiva.

In quello che presenterò di seguito, cercherò di affrontare queste carenze. Non invocherò il tempo storico, che potrebbe riportarci indietro di settant’anni all’inizio della prima guerra fredda o addirittura di trent’anni alla fine di quella guerra fredda, ma limiterò il mio commento al tempo che circonda l’ultimo tale appello russo per trattati per regolare l’ambiente di sicurezza nel continente europeo, 2008 – 2009 sotto l’allora presidente Dmitry Medvedev. Questo rientra nell’orizzonte temporale della scienza politica.

Presterò particolare attenzione al tono di questa iniziativa russa e cercherò di spiegare perché i russi hanno tracciato le loro “linee rosse” sulla sabbia proprio adesso. Tutto ciò porterà alla conclusione che non è solo il presidente Volodymyr Zelensky a Kiev che dovrebbe preoccuparsi delle condizioni dei rifugi antiaerei locali, ma anche tutti noi a Bruxelles, Varsavia, Bucarest, ecc., da questa parte dell’Atlantico, e a Washington, DC, New York e in altri importanti centri del continente americano. Stiamo osservando quello che potrebbe essere chiamato Cuban Missile Crisis Redux.

* * * *

Ognuno di noi commentatori ha le proprie date di inizio per le narrazioni che offriamo al pubblico dei lettori. Nel mio caso, scelgo di iniziare con il discorso del presidente Putin alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco nel febbraio 2007. Quel discorso in sé era molto insolito, come ha spiegato Putin dai suoi primi momenti al leggio:

“La struttura di questa conferenza mi permette di evitare un’eccessiva cortesia e la necessità di parlare in termini diplomatici tondi, piacevoli ma vuoti. Il formato di questa conferenza mi permetterà di dire cosa penso veramente dei problemi di sicurezza internazionale. E se i miei commenti sembrano eccessivamente polemici, pungenti o inesatti ai nostri colleghi, allora ti chiederei di non arrabbiarti con me. Dopotutto, questa è solo una conferenza. E spero che dopo i primi due o tre minuti del mio discorso [l’ospite della conferenza] non accenda la luce rossa laggiù”.

Ciò lo ha portato a fornire la seguente affermazione audace:

“Sono convinto che siamo arrivati ​​a quel momento decisivo in cui dobbiamo pensare seriamente all’architettura della sicurezza globale. E dobbiamo procedere cercando un ragionevole equilibrio tra gli interessi di tutti i partecipanti al dialogo internazionale».

In una parola, le preoccupazioni e il processo di soluzione proposto attraverso il rinnovamento dell’architettura della sicurezza che vediamo oggi nelle ultime bozze di trattati della Russia risalgono al 2007, quando Vladimir Putin si è espresso pubblicamente sull’argomento in quello che potrebbe essere descritto come il covo dell’establishment della sicurezza mondiale.

Con il senatore John McCain e altri campioni dell’egemonia globale americana che lo fissavano increduli dalle prime file, in quel discorso Vladimir Putin ha esposto in dettaglio il rifiuto della Russia del mondo unipolare guidato dagli Stati Uniti come fonte di tensioni internazionali, il ricorso a soluzioni militari, una corsa agli armamenti e la proliferazione nucleare. L’egemonia statunitense era antidemocratica e impraticabile, ha affermato.

Il discorso è stato anche degno di nota per la menzione di Putin del meschino trattamento che il suo paese ha ricevuto da parte degli americani in seguito alla disgregazione dell’URSS negli anni ’90 fino al nuovo millennio. La questione chiave è stata l’espansione della NATO verso est, includendo i paesi dell’ex Patto di Varsavia e, infine, le ex repubbliche dell’URSS, gli Stati baltici.

Quoto:

“Si scopre che la NATO ha messo le sue forze in prima linea sui nostri confini e continuiamo a rispettare rigorosamente gli obblighi del trattato e non reagiamo affatto a queste azioni. Penso sia ovvio che l’espansione della NATO non ha alcuna relazione con la modernizzazione dell’Alleanza stessa o con la garanzia della sicurezza in Europa. Al contrario, rappresenta una seria provocazione che riduce il livello di fiducia reciproca. E abbiamo il diritto di chiederci: contro chi è destinata questa espansione? E che fine hanno fatto le assicurazioni fatte dai nostri partner occidentali dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia? Dove sono queste dichiarazioni oggi? Nessuno li ricorda nemmeno».

Il discorso di Putin del 2007 è stato espresso come una denuncia. Veniva da un paese che si era ancora solo parzialmente ripreso dalla devastazione economica che aveva subito negli anni ’90 durante una transizione mal gestita dall’economia di comando sovietica a un’economia di mercato. Più precisamente, il suo era un paese con capacità militari notevolmente diminuite rispetto alla superpotenza sovietica da cui è emerso indipendente. In una certa misura, l’incredulità tra il contingente americano e alleato a Monaco di Baviera è nata proprio dall’audacia della Russia ancora gracile di sfidare i poteri costituiti.

Nelle settimane e nei mesi successivi al discorso di Putin a Monaco, gli Stati Uniti si sono ripresi dallo shock per la sua denuncia pubblica e sono passati rapidamente al contrattacco, lanciando una guerra dell’informazione sulla Russia che è con noi oggi. Dai giorni conclusivi dell’amministrazione Bush, attraverso l’intera amministrazione Obama, tranne quando il nuovo accordo sul controllo degli armamenti START veniva negoziato e firmato entro il breve periodo chiamato “ripristino”, gli Stati Uniti hanno usato ogni mezzo giusto e cattivo per screditare la Russia prima la comunità globale nella speranza di isolare il Paese e relegarlo allo status di paria. Le sanzioni commerciali contro la Russia sono state imposte per la prima volta dagli Stati Uniti nel 2012 con il Magnitsky Act. Gli Stati Uniti hanno notevolmente ampliato la loro politica di sanzioni contro la Russia in seguito all’annessione della Crimea nel marzo 2014.Grazie alla catastrofe aerea dell’MH17 di quell’estate, un evento ‘false flag’ di prima grandezza, tutta l’Europa è stata portata a bordo. La politica delle sanzioni è stata rinnovata ancora una volta dall’UE proprio venerdì scorso.

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Guardando indietro al 2008, quando Vladimir Putin ha passato la presidenza al suo sostituto, Dmitry Medvedev, vediamo che la revisione dell’architettura di sicurezza europea era uno degli obiettivi politici chiave della presidenza Medvedev. Ne ha parlato in un discorso pronunciato a Berlino nel giugno 2008. La cancelliera tedesca Angela Merkel è stata tra le prime a respingere la proposta, affermando che gli accordi di sicurezza dell’Europa avevano già preso forma concreta.

Nel novembre 2009 ha finalmente pubblicato sul suo sito web una bozza di trattato sulla sicurezza europea. Contestualmente, il ministro degli Esteri Lavrov ha presentato ufficialmente il documento al Consiglio dei ministri dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) allora riunitosi ad Atene.

Il mio libro di saggi intitolato Stepping Out of Line , pubblicato nel 2013, ha un paio di capitoli dedicati all’iniziativa di Medvedev, che ho concluso fosse ostacolata da un concetto povero ulteriormente indebolito da una cattiva esecuzione.²

La bozza di accordo era prima di tutto un patto di non aggressione tra e tra tutti gli Stati interessati nello spazio atlantico-euroasiatico. Stabilirebbe un quadro di riunioni deliberative in cui tutti gli Stati membri ascolterebbero casi di minacce di uso della forza o uso effettivo della forza contro qualsiasi Stato membro. Tuttavia, la non aggressione era solo una vetrina, descrivendo qualcosa che tutti potevano capire e a cui dire “amen”. Il secondo obiettivo dichiarato era garantire la sicurezza collettiva dei suoi membri in base al principio che nessuno Stato o gruppo di Stati potrebbe promuovere la propria sicurezza a spese di altri Stati membri.

Quello che mancava al progetto di trattato sulla sicurezza europea era proprio la definizione di cosa costituisse il rafforzamento della propria sicurezza a spese dell’altro. Per gli europei il trattato potrebbe servire solo allo scopo di tributo alla Russia, stabilendo un nuovo importante forum per esprimere eventuali rimostranze che potrebbe avere sull’espansione della NATO, il sistema di difesa missilistico e altre misure sponsorizzate dagli Stati Uniti che migliorano la sicurezza occidentale a spese dello stato russo. sicurezza.

Il vuoto del progetto di trattato è stato un fallimento di Medvedev e dei suoi immediati assistenti che lo hanno redatto. Nel febbraio 2010, durante la regolare Conferenza sulla sicurezza di Monaco, Sergei Lavrov ha compiuto un coraggioso sforzo per salvare l’iniziativa Medvedev proponendo che l’attuale OSCE fosse riprogettata come veicolo per garantire la sicurezza collettiva. La Russia stava dicendo che la NATO doveva rinunciare al suo predominio in Europa e cedere il posto a un’OSCE rinvigorita. Molto poco del discorso di Lavrov è stato riportato dai media occidentali.

Il fatto che sia stato tranquillamente sepolto da tutte le parti riceventi può essere attribuito alla posizione molto debole della stessa Russia in quel momento. La vittoriosa campagna russa contro la Georgia nel 2008 è stata vista dai professionisti della difesa in Occidente in modo molto diverso da ciò che il pubblico in generale capiva. Per i professionisti, l’esercito russo ha dimostrato di non aver fatto molti progressi rispetto alle forze mal equipaggiate e guidate che l’URSS ha dispiegato in Afghanistan o che la Federazione russa ha dispiegato in Cecenia negli anni ’90. Il fatto è che la postura di Medvedev era quella di un supplicante , che tratta da una mano debole. Si noti, tuttavia, che le preoccupazioni russe erano esattamente le stesse evocate dal Cremlino oggi mentre promuove i suoi nuovi progetti di trattati.

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Fino ai giorni scorsi non abbiamo più sentito parlare di progetti di trattati russi per alterare l’architettura di sicurezza dell’Europa. Invece negli anni successivi ci sono stati ripetuti casi di lamentele pubbliche russe sulle attività degli Stati Uniti e della NATO che considera minacciose. Una di queste forti lamentele è arrivata nel gennaio 2016 con l’uscita di un film documentario intitolato World Order . Questa è stata una critica devastante dell’egemonia globale degli Stati Uniti giustificata in nome della “promozione della democrazia” e dei “diritti umani” sin dalla caduta dell’Unione Sovietica. nel 1992.

Seguendo i punti espressi nel discorso di Vladimir Putin a Monaco del 2007, World Order illustra attraverso filmati grafici e la testimonianza di autorità mondiali indipendenti le tragiche conseguenze, la diffusione del caos e della miseria, risultanti dal “cambio di regime” e dalle “rivoluzioni colorate” progettati dagli Stati Uniti. ‘, di cui il violento rovesciamento del regime di Yanukovich in Ucraina nel febbraio 2014 è stato solo l’ultimo esempio.

Il titolo del film è seguito al discorso di Putin alla riunione del 70 ° anniversario dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel settembre 2015 che aveva come messaggio centrale che l’ordine mondiale si basa sul diritto internazionale, che a sua volta ha come fondamento la Carta delle Nazioni Unite. Infrangendo la Carta e facendo la guerra senza l’approvazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, a partire dall’attacco della NATO alla Serbia nel 1999 e continuando con l’invasione dell’Iraq nel 2003 fino ai suoi bombardamenti illegali in Siria, gli Stati Uniti e i suoi alleati della NATO hanno scosso i fondamenti del diritto internazionale.

Gli intervistati stranieri in World Order comprendevano una selezione impressionante e diversificata di leader in vari settori, tra cui il regista americano Oliver Stone; Thomas Graham, ex direttore del Consiglio di sicurezza nazionale per la Russia sotto George W. Bush; l’ex direttore dell’FMI Dominique Strauss-Kahn; l’ex presidente del Pakistan Perwez Musharraf; l’ex ministro degli esteri francese Dominique Villepin; l’ex presidente israeliano Shimon Peres; il fondatore di Wikileaks Julian Assange; e vice leader del partito Die Linke nel Bundestag tedesco, Sahra Wagenknecht.

Strauss-Kahn, Musharraf e altri hanno accusato gli Stati Uniti di complottare e distruggere i leader stranieri che osano opporsi al controllo totale dell’America sui flussi globali di denaro, merci e persone. Wagenknecht ha affrontato la questione della sottomissione della Germania ai Diktat americani e della sua sovranità de facto circoscritta. Le dichiarazioni hanno sostenuto la tesi di lunga data di Putin, reiterata nel film, che gli alleati dell’Europa occidentale degli Stati Uniti non sono altro che vassalli.

Il messaggio chiaro del film era che la “promozione della democrazia” guidata dagli Stati Uniti e la sua diffusione di “valori universali” non saranno tollerati e che la Russia ha stabilito alcune linee rosse, come contro l’espansione della NATO in Ucraina o Georgia, su cui combattere fino alla morte utilizzando tutte le sue risorse.

Tuttavia, per quanto forte e pungente fosse questo film documentario nell’esporre il punto di vista del Cremlino sulla sicurezza globale ed europea, era solo una denuncia , niente di più. Lo menziono in dettaglio sopra per dimostrare la continuità delle preoccupazioni russe che questa settimana sono arrivate al culmine con l’uscita dei progetti di trattati all’esame della NATO e degli Stati Uniti.

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Cosa c’è di nuovo oggi nell’iniziativa russa sulla sicurezza europea? Sia il contenuto che la presentazione sono nuovi.

Contrariamente ai trattati di Dmitry Medvedev del 2008-2009, le ultime bozze di testi russi sono tutti contenuti esposti in modo metodico ed esauriente. Si riferiscono direttamente alle attività degli Stati Uniti e della NATO negli ultimi anni che la Russia considera le più minacciose per la sua sicurezza e quindi le più discutibili.

È chiaro che il trattato principale è con gli Stati Uniti e che il trattato con la NATO è un trattato sussidiario. Ciò riflette l’insistente visione del Cremlino che la verbosità della NATO sul suo essere un’alleanza guidata dal consenso è spazzatura e che la realtà è il dominio americano e la direzione della NATO. Questo punto di vista spazza via qualsiasi obiezione da parte di uno qualsiasi degli Stati membri della NATO, come ad esempio le obiezioni immediate che provenivano dagli Stati baltici e dalla Polonia, secondo cui è necessario il loro consenso alle modifiche proposte, per non parlare della necessità di consultare altre parti interessate , vale a dire l’Ucraina. Il Cremlino intende chiaramente isolare Washington nel processo negoziale per questi trattati, prima di fare passi da gigante con gli altri membri della NATO.

Nello spirito dei Dieci Comandamenti, quasi tutto il contenuto è in negativo, in divieti.

Rispetto alla proposta di trattato con gli Stati Uniti, troviamo quanto segue:

“[Le Parti] non attueranno misure di sicurezza adottate da ciascuna Parte individualmente o nel quadro di un’organizzazione internazionale, un’alleanza militare o una coalizione che potrebbero minare gli interessi di sicurezza fondamentali dell’altra Parte.

“Le Parti non utilizzeranno i territori di altri Stati al fine di preparare o eseguire un attacco armato contro l’altra Parte o altre azioni che influiscano sui principali interessi di sicurezza dell’altra Parte.

“Gli Stati Uniti d’America si impegnano a prevenire un’ulteriore espansione verso est dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico ea negare l’adesione all’Alleanza degli Stati dell’ex Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.

“Gli Stati Uniti d’America non stabiliranno basi militari nel territorio degli Stati dell’ex Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche che non siano membri dell’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico, utilizzeranno le loro infrastrutture per attività militari o svilupperanno con loro una cooperazione militare bilaterale .

“Le Parti si asterranno dal pilotare bombardieri pesanti equipaggiati per armamenti nucleari o non nucleari o dal dispiegare navi da guerra di superficie di qualsiasi tipo, anche nell’ambito di organizzazioni internazionali, alleanze o coalizioni militari, nelle aree rispettivamente al di fuori dello spazio aereo nazionale e delle acque territoriali nazionali, da dove possono attaccare obiettivi nel territorio dell’altra Parte.

“Le Parti si impegnano a non dispiegare missili a raggio intermedio e a corto raggio lanciati da terra al di fuori dei loro territori nazionali, nonché nelle aree dei loro territori nazionali, da cui tali armi possono attaccare obiettivi nel territorio nazionale dell’altra Parte .

“Le Parti si asterranno dal dispiegare armi nucleari al di fuori dei loro territori nazionali e restituiranno tali armi già dispiegate al di fuori dei loro territori nazionali al momento dell’entrata in vigore del Trattato nei loro territori nazionali. Le Parti elimineranno tutte le infrastrutture esistenti per il dispiegamento di armi nucleari al di fuori dei loro territori nazionali”.

Per quanto riguarda il progetto di trattato con la NATO, richiamo particolare attenzione alle seguenti disposizioni:

“Le Parti devono esercitare moderazione nella pianificazione militare e nello svolgimento di esercitazioni per ridurre i rischi di eventuali situazioni pericolose in conformità con i loro obblighi ai sensi del diritto internazionale, compresi quelli stabiliti negli accordi intergovernativi sulla prevenzione di incidenti in mare al di fuori delle acque territoriali e nello spazio aereo sopra , nonché negli accordi intergovernativi sulla prevenzione di attività militari pericolose.

“Per affrontare le questioni e risolvere i problemi, le Parti utilizzeranno i meccanismi delle consultazioni urgenti bilaterali o multilaterali, compreso il Consiglio NATO-Russia.

“Le Parti ribadiscono di non considerarsi avversarie.

“Le Parti manterranno il dialogo e l’interazione sul miglioramento dei meccanismi per prevenire gli incidenti in alto mare (principalmente nei Paesi baltici e nella regione del Mar Nero).

“La Federazione Russa e tutte le Parti che erano Stati membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico rispettivamente dal 27 maggio 1997, non dispiegheranno forze militari e armi sul territorio di nessuno degli altri Stati in Europa oltre alle forze di stanza su tale territorio a partire dal 27 maggio 1997. ….

“Le Parti non dispiegheranno missili terrestri a medio e corto raggio in aree che consentano loro di raggiungere il territorio delle altre Parti.

“Tutti gli Stati membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico si impegnano ad astenersi da qualsiasi ulteriore allargamento della NATO, inclusa l’adesione dell’Ucraina e di altri Stati.

“Le Parti che sono Stati membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico non condurranno alcuna attività militare sul territorio dell’Ucraina e di altri Stati dell’Europa orientale, del Caucaso meridionale e dell’Asia centrale”.

I progetti di trattati non creano una nuova architettura di sicurezza quanto smantellano l’architettura esistente aggiunta dalla metà degli anni ’90 dagli Stati Uniti e dai suoi alleati attraverso l’espansione della NATO a est, esercitazioni militari vicino ai confini e allo spazio aereo russi, “temporanee” stazionamento di personale e attrezzature in posizioni avanzate in avvicinamento ai confini russi.

Se accettati nella loro forma attuale, questi trattati rappresenterebbero una capitolazione totale da parte degli Stati Uniti su tutto ciò che quattro amministrazioni successive hanno cercato di ottenere per contenere la Russia e metterla in una piccola gabbia alla periferia dell’Europa.

Le richieste hanno una portata così sorprendente che dobbiamo chiederci perché la Russia sta correndo il rischio apparentemente enorme di avanzarle, e lo fa pubblicamente. Inoltre, perché adesso?

Ho due spiegazioni da avanzare: la prima è l’incrollabile fiducia che Vladimir Putin e i suoi colleghi hanno nel loro attuale vantaggio tattico sugli Stati Uniti nel teatro delle operazioni europeo e vantaggio strategico sugli Stati Uniti sul territorio americano se arriva la spinta spingere.

Tre anni fa Putin ha usato il suo discorso annuale sullo stato dell’Unione per mostrare i nuovi sistemi d’arma che la Russia aveva testato con successo e che stava ora mettendo in produzione in serie, in particolare i missili ipersonici che possono eludere tutti i sistemi ABM conosciuti. Ha poi affermato che per la prima volta nella sua storia moderna la Russia ha superato gli Stati Uniti nello sviluppo e nell’impiego di sistemi di armi strategiche. Mentre gli Stati potrebbero svilupparsi allo stesso modo con il tempo, i russi andrebbero ancora più avanti.

Putin ha inoltre affermato che mentre in passato gli Stati Uniti avevano considerato gli oceani la loro difesa naturale contro le conquiste militari dall’estero, gli ultimi missili russi, abbastanza piccoli da essere trasportati in container su navi mercantili, su fregate o su sottomarini, hanno trasformato il oceani adiacenti nel punto debole del paese. I russi potrebbero posizionare le loro armi appena fuori dalla zona economica di 200 miglia e raggiungere comunque obiettivi militari chiave sul territorio degli Stati Uniti in pochi minuti. Vale a dire che la Russia potrebbe ora fare ciò che a Krusciov era stato negato il diritto di fare nel 1962 posizionando missili sovietici a Cuba.

Durante il suo discorso di presentazione, Putin ha sperato che gli Stati Uniti e i suoi partner occidentali se ne accorgessero, facessero i calcoli e alterassero il loro comportamento minaccioso. Invece, i media occidentali tendevano a trattare le armi russe come un bluff, o come uno stratagemma elettorale per fare appello ai suoi elettori nella campagna presidenziale allora in corso, o come qualcosa al di là della capacità dei russi di produrre in quantità sufficienti e con velocità per rappresentare un minaccia prima che gli USA possedessero lo stesso.

Un anno fa, il presidente russo ha nuovamente richiamato l’attenzione sullo spiegamento dei nuovi sistemi d’arma e ha esortato gli Stati Uniti a reagire in modo appropriato. Naturalmente, ancora una volta Washington non ha fatto nulla. Invece l’amministrazione statunitense ha continuato ad aumentare il livello di minaccia della Cina e a liquidare la Russia come nient’altro che spoiler che guidano un paese in declino.

Infine, possiamo concludere che Vladimir Vladimirovich e la sua squadra hanno deciso di agire, e di agire ora, in forza della superiorità strategica di cui credono di godere. Dato il modo molto cauto con cui Putin ha sempre condotto gli affari di governo negli ultimi vent’anni, chiunque pensi che il Cremlino stia bluffando o calcolando male farebbe meglio a ricredersi.

Ora c’è anche un secondo fattore di supporto per spiegare la decisione dei russi di pubblicizzare quello che è essenzialmente un ultimatum agli USA. Quel fattore è la Cina. Non per niente Putin e Xi hanno avuto una videoconferenza ampiamente pubblicizzata questa settimana durante la quale il presidente cinese ha dato il suo pieno sostegno alle richieste russe di risoluzione della crisi di sicurezza in Europa e ha detto esplicitamente che il rapporto tra Cina e Russia è superiore a un’alleanza.

Ora cosa potrebbe esserci di più alto di un’alleanza? Sicuramente questo suggerisce un patto di mutua difesa, nel senso che ciascuna parte verrà in aiuto dell’altra secondo necessità se minacciata o attaccata.

Possiamo presumere che ci sia qualcosa di scritto tra russi e cinesi per dare a Putin la fiducia di avere la Cina alle spalle mentre si avventura in uno scontro diplomatico e forse militare con gli Stati Uniti e i suoi alleati della NATO.

Eppure, quale sarebbe il valore di un simile pezzo di carta? Dove cercheresti riparazione se i cinesi non riuscissero a consegnare e la NATO marciasse a Mosca? No, il valore della videoconferenza con Xi è altrove. Come i loro 100.000 soldati ammassati al confine ucraino, i russi stanno usando il sostegno cinese per spaventare a morte Washington, il che potrebbe ben presumere che i cinesi coordineranno le proprie azioni militari contro Taiwan, contro le forze navali statunitensi nel sud della Cina Mare e oltre per presentare agli Stati Uniti una guerra su due fronti invincibile, servendo i propri interessi cinesi.

Se la situazione politica a Washington impedisse un pensiero così lucido, credo che i russi ricorreranno alla loro capacità del tutto indipendente di puntare una pistola alla testa dell’establishment americano, attraverso lo stazionamento delle sue forze missilistiche appena al largo, che non ha ancora stato fatto.

Il modo in cui andrà a finire dipenderà dalla natura della risposta degli Stati Uniti alla prossima mossa della Russia, che potrebbe, nelle circostanze dell’ostruzionismo di Washington, essere quell’invasione dell’Ucraina di cui si è tanto parlato nelle ultime settimane. Sarebbe avventato, a questo punto, abbozzare tutti gli scenari possibili. Ma siamo sicuramente nel momento in cui ‘il tarlo gira’.

*****

In conclusione, richiamo l’attenzione del lettore su un ulteriore dettaglio della presentazione: chi è stato il messaggero per conto del Cremlino.

Negli ultimi anni, le persone intorno a Vladimir Putin hanno scherzato riguardo alle potenze straniere, “se non possono trattare con Lavrov [ministro degli affari esteri della RF], allora dovranno trattare con Shoigu [ministro della difesa della RF]”. A giudicare dalle ultime due settimane, inserirei un’altra personalità in questa equazione: Sergei Alekseevich Ryabkov, viceministro degli affari esteri.

Ryabkov è in giro da molto tempo, ma fino ad ora non abbiamo avuto sue notizie. Si è diplomato alla prestigiosa MGIMO, la scuola superiore che tradizionalmente formava i candidati accelerati del corpo diplomatico sovietico-russo. Ha servito diversi anni presso l’ambasciata russa a Washington e parla correntemente l’inglese. Nel nuovo millennio ha avuto responsabilità relative alla non proliferazione e alla gestione dei rapporti con l’Europa. Il suo titolo attuale è viceministro.

Poiché le relazioni con gli Stati Uniti e l’UE si sono infiammate nelle ultime settimane a causa dell’accumulo di forze russe al confine con l’Ucraina, Ryabkov ha parlato con la stampa e lo ha fatto in modo poco diplomatico e sfacciato . Quando una settimana fa un giornalista gli ha chiesto come avrebbero reagito a qualcosa alcuni dei “partner occidentali” della Russia, ha risposto di scatto: “Non abbiamo partner in Occidente, solo nemici. Ho smesso di usare la parola “partner” qualche tempo fa”.

La messa in mostra del bulldog Ryabkov al Cremlino fa parte del cambio di tono, della nuova assertività di Putin e della sua squadra a cui mi riferisco sopra.

E per non perdere il punto, un altro portavoce intransigente del Cremlino, Dmitry Kiselyov, direttore di tutti i servizi di informazione della televisione di stato russa, ha aperto stasera il suo programma settimanale di notizie “Vesti Nedeli” con l’osservazione: “La Russia ha fatto un’offerta agli Stati Uniti Stati che non può rifiutare. Il momento della verità [момент истины] è arrivato”.

©Gilbert Doctorow, 2021

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¹https://mid.ru/ru/foreign_policy/rso/nato/1790818/?lang=en

²”Il progetto di trattato di Medvedev sulla sicurezza europea: morto all’arrivo” e “Il progetto di trattato della Russia sulla sicurezza europea: Sergei Lavrov in soccorso”

³”https://consortiumnews.com/2016/01/02/hearing-the-russian-perspective/

https://gilbertdoctorow-com.translate.goog/2021/12/19/a-surprise-russian-ultimatum-new-draft-treaties-to-roll-back-nato/?fbclid=IwAR0Ml8uVwuNHyN1Z99EwVdoR_3WrPgJpeAiwQdoi5sYv88I4t7rtliHRth4&_x_tr_sl=auto&_x_tr_tl=it&_x_tr_hl=it

Quello che non capiamo di questa pandemia, di Fabrizio Mottironi

Quello che non capiamo di questa pandemia. My 2 cents.
1. Non capiamo che le scelte del governo sono per lo più le scelte dell’ISS mediate con le necessità dell’economia e le valutazioni sulle reazioni dei cittadini. Che le scelte dell’ISS sono per lo più le scelte dell’ESA mediate con il caso italiano. Che le scelte dell’ESA sono le scelte dell’OMS mediate con le situazioni in Europa.
2. Non capiamo che governo, ISS, ESA e OMS non rispondono mai a casi “singoli” ma sempre e solo a tendenze e quindi a statistiche mediate con le più recenti e attestate conoscenze scientifiche del problema. Di converso replicare con un caso singolo di nostra conoscenza confrontandolo a tendenze e statistiche è scemo.
3. Non capiamo che i virus NON sono esseri viventi (come i batteri, quindi non sono cellule ma involucri di proteine che racchiudono materiale genetico) quindi la loro variabilità e il loro ‘comportamento’ è infinitamente più complesso e complicato.
4. Non capiamo che il virus Covid-19 non è, per l’essere umano, un virus qualsiasi ma molto più pericoloso di un virus influenzale. Vero è che con il tempo può trasformarsi in meno pericoloso, ma può accadere anche il contrario, anche se questo è senza dubbio più difficile che accada.
5. Non capiamo che gli interventi in televisione o sui social di medici, epidemiologi, virologi, etc.etc. sono pura “comunicazione” personale, mediata dalle caratteristiche personologiche e dalle nevrosi e dagli eventuali narcisismi del soggetto intervenuto. Quello che conta è sempre e solo ciò che viene mediato all’interno della comunità scientifica tutta, ossia da OMS, ESA e ISS. Inutile sostenere “ma quello ha detto che…”, “ho sentito dire che quello ha detto che…”.
6. Non capiamo che la virologia NON è una branca della medicina, ma della biologia. I virologi possono NON essere dei medici, anzi i virologi più considerati a livello internazionale NON sono dei medici.
7. Non capiamo che la epidemiologia NON è una scienza medica ma una disciplina biomedica e una sottodisciplina della statistica. Essa si compone e incrocia: medicina, medicina veterinaria, statistica, biologia, sociologia, psicologia e informatica.
8. Non capiamo che siamo in una democrazia e lo sport di prendersela con il “sistema” è gratuito e come sempre a disposizione di tutti. Ma è solo uno sport se non incrocia delle approfondite e meditate conoscenze scientifiche varate con un confronto “peer review”.
9. Non capiamo che non siamo giunti alla perfetta conoscenza di tutto. No. Stiamo, per esempio, ancora cercando di capire come combattere i virus. Certamente abbiamo fatto passi da gigante rispetto a una generazione fa. Ma siamo lontani dall’aver capito tutto. È indubbio che coloro che studiano le scienze mediche, la virologia e la epidemiologia segnatamente riguardo al Covid-19, ne sanno infinitamente di più degli scemi che commentano a ruota libera per ogni dove.
10. Non capiamo che dove non c’è certezza scientifica ci si muove necessariamente dove indica il “mainstream” scientifico, lasciando alle obiezioni dei singoli scienziati la doverosa critica, ma non la scelta.
10. Non capiamo che tutte le scelte che riguardano la sicurezza e il condizionamento sociale sul Covid-19 sono forme di controllo sociale infinitamente più primitive e deboli rispetto a quelle messe in atto da anni e di cui siamo vittime, e artefici, più o meno consapevoli. Coloro che gridano oggi allo scandalo impediscono solo un’accurata denuncia di ciò che sta accadendo veramente e da anni. Il fatto che costoro si coprano quotidianamente di ridicolo, impedisce di promuovere in merito un qualsivoglia discorso serio.
NB_tratto da facebook

La proposta di trattato russo Di: George Friedman

Qui sotto un importante articolo di George Friedman per tema la proposta di trattato russo offerta agli Stati Uniti e alla NATO e i due testi inviati il 15 dicembre dal Ministro degli Esteri Russo.

La proposta, apparentemente e semplicisticamente, può essere interpretata come un atto propagandistico, pur di rilievo; destinato in fondo nel peggiore dei casi a rimanere un episodio di quel confronto mediatico e propagandistico con scarse implicazioni dirette nella dinamica dei rapporti diplomatici e del confronto multipolare. Una impressione suffragata dall’accoglienza distratta offerta dai media italiani, dalla sufficienza che traspare dalle penne più o meno illustri, comunque scontatamente ossequiose e dall’assenza al momento di valutazioni da parte delle maggiori riviste di approfondimento di geopolitica del mondo occidentale; probabilmente un tentativo di lasciar scivolare nell’indifferenza il passo diplomatico.

In realtà è insolito, di fatto irrituale, il fatto che il testo di una proposta di trattato, specie di questa importanza strategica, sia pubblicizzato dalla parte proponente prima di essere quantomeno valutato e discusso, sondato nei normali canali diplomatici.

Rappresenta piuttosto l’indizio della drammaticità crescente dello stato delle relazioni diplomatiche tra due dei tre principali attori geopolitici, gli Stati Uniti e la Russia, in un contesto internazionale sempre più inquieto ed affollato di nuovi protagonisti. Un modo, probabilmente, di far uscire allo scoperto la controparte da una tattica strisciante di avvolgimento o di gettare il cuore oltre l’ostacolo.

Colpisce, pertanto, il diverso atteggiamento delle due parti in causa.

I primi impegnati da oltre trent’anni in una politica di accerchiamento e pericoloso avvicinamento al cuore della nazione russa una volta fallito il tentativo di destabilizzazione, disgregazione e predazione interna di quel paese, ma con una opinione pubblica ancora del tutto impreparata a sostenere i costi ed i rischi di una politica così espansiva ed aggressiva. Una condotta che ha fatto strame degli impegni e delle garanzie di neutralità dei paesi sganciatisi dal Patto di Varsavia concordate con Gorbaciov, del principio di integrità degli stati scaturiti dalla dissoluzione del blocco sovietico nel momento stesso in cui se ne chiede il rispetto per alcuni di essi, in particolare la Georgia e soprattutto l’Ucraina; un indirizzo, una condotta stridente con i proclami di rispetto dei diritti delle minoranze, tanto cari alla UE e agli Stati Uniti, tranne quando, nella fattispecie, queste siano costituite dalle popolazioni russe rimaste prigioniere, senza praticamente diritto di cittadinanza, degli stati sorti dalla divisione amministrativa della Unione Sovietica, disegnata per altri fini politici. Una condotta portata alle estreme conseguenze con il colpo di stato in Ucraina del 2014, lo smacco più cocente della presidenza di Putin. Un processo niente affatto lineare con diversi sgradevoli imprevisti nel carniere: lo smacco in Georgia, la relativa autonomia ed indipendenza acquisita dalla Turchia nei confronti della NATO ed il suo inedito rapporto di collaborazione conflittuale con la Russia, sancito dal recente avvicinamento con l’Armenia, sostitutivo di quello apertamente ostile del secolo passato. Un atteggiamento e una inerzia che impedisce, al momento, di giocare la carta dell’Ucraina per sganciare la Russia dalla Cina, ma con grave smacco dei centri euroorientali ed in parte tedeschi e scandinavi in grado di lucrare notevolmente sulla postura russofoba.

I secondi impegnati con maggior successo in una politica, comunque, ancora di contenimento, una volta superata definitivamente l’illusione della possibilità di integrazione nell’area occidentale su basi più paritarie e non di mera resa.

Difficile però interpretarne le motivazioni determinanti.

Potrebbe essere un gesto obbligato, al limite della disperazione, teso ad interrompere in qualche maniera il processo di logoramento e arretramento e a portare allo scontro in una situazione meno sfavorevole.

Potrebbe al contrario essere un gesto calcolato in un contesto molto più aperto ed incerto. Gli ultimi otto mesi sono stati ricchi di episodi salienti:

  • l’assemblea primaverile della NATO che ha sancito un dualismo di indirizzi, con i paesi dell’Europa Orientale impegnati sul fronte russo e quelli dell’Europa Centro-Occidentale adibiti a retrovia e dirottati verso il Pacifico e l’Africa Mediterranea
  • l’avvento di un governo tedesco più filoamericano che renderà più stridente la contradizione tra l’allineamento geopolitico e la relativa autonomia geoeconomica di quel paese; in trepidante attesa di quello che potrà avvenire l’anno prossimo in Francia. Non a caso l’acceso confronto elettorale  transalpino sia già finito sotto il mirino delle due fazioni americane
  • lo stallo diplomatico evidenziato dal colloquio tra Biden e Putin
  • il crescente sodalizio tra Russia e Cina, sancito dall’ultimo colloquio tra Putin e Xi Jin Ping, tenutosi appena prima della proposta russa di trattato e sempre più sostenuto dall’incapacità americana di scegliersi coerentemente l’avversario principale, pur avendolo individuato
  • l’emergere definitivo nello scacchiere asiatico di stati in grado non solo di partecipare a sistemi di alleanze preconfezionate, ma di condizionare pesantemente le azioni e gli indirizzi dei tre paesi più importanti dal punto di vista economico e militare
  • soprattutto l’esito dell’intervento americano in Afghanistan e in particolare le modalità di gestione del ritiro e del dopo-intervento in quell’area, con il corollario della crescente e profonda avversione all’interventismo nella popolazione, ma anche tra gli stessi militari statunitensi

Non sarà semplice affogare da parte americana l’iniziativa nelle tattiche dilatorie tese a procrastinare i comportamenti di questi ultimi trenta anni.

Il passo diplomatico russo è destinato dunque a mettere a nudo la reale consistenza di queste dinamiche. Ad evidenziare in particolare che la carta più importante in mano alla attuale gruppo dirigente di avventurieri statunitensi rimane la possibilità di fomentare conflitti con truppe di terzi sul terreno, in questo caso europee. Non solo! Potrebbe dare una grande spinta ad un chiarimento definitivo nello scontro politico in corso da anni negli Stati Uniti che ha per oggetto la natura dei rapporti con la Russia e le modalità di scontro e conflitto con la Cina. L’esito delle presidenziali americane di un anno fa parevano aver segnato l’epilogo definitivo di una guerra. Si è rivelato l’esito mal riuscito di una battaglia di un gruppo dirigente incapace di dare coerenza politica ai propri proclami e di creare la coesione interna necessaria e indispensabile all’esercizio di potenza e di influenza esterna, dibattuto com’è nel suo proposito insopprimibile di egemonia mondiale e di guida predestinata. Il terreno di coltura di colpi di mano incontrollati e dall’esito catastrofico del quale l’Ucraina è senz’altro uno dei focolai più pericolosi. Putin conta su una sola certezza: sa benissimo chi è l’interlocutore con il quale trattare dei problemi del continente europeo. Il rumore dei grandi assenti tra i destinatari del documento è nelle orecchie di chi vuol sentire. Dalla sua gioca il fatto che due punti caldi nel mondo (Taiwan e Ucraina) sono troppi anche per la più grande potenza militare, al netto di giochi di corridoio_Buona lettura, Giuseppe Germinario

La proposta di trattato russo

Di: George Friedman

Abbiamo operato con un modello della Russia. Avendo perso i suoi territori non russi con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, alla Russia mancano i cuscinetti che la proteggevano. Il suo imperativo nazionale è recuperare quegli stati di confine, formalmente o informalmente. Potrebbero essere occupati dalle forze russe o, per lo meno, governati da governi nativi che escludono la presenza delle potenze occidentali e si coordinano con Mosca. I russi hanno raggiunto questo obiettivo nel Caucaso meridionale attraverso la diplomazia e lo stazionamento di forze di pace russe nella regione. Hanno aumentato il loro potere in Asia centrale. Ma la regione critica per la Russia è a ovest, di fronte all’Europa occidentale, agli Stati Uniti e alla NATO. Lì, la perdita della Bielorussia e dell’Ucraina ha posto un problema critico. Il confine orientale dell’Ucraina è solo a circa 300 miglia (480 chilometri) da Mosca e l’Ucraina è alleata con gli Stati Uniti e le potenze europee, informalmente se non come parte della NATO.

La strategia della Russia fino a questo punto era stata quella di evitare l’intervento militare diretto contro le forze ostili e utilizzare misure ibride per costruire influenza e ottenere il controllo. Questo è quello che è successo nel Caucaso. Questo è anche quello che è successo in Bielorussia, dove un’elezione contestata ha lasciato il presidente Alexander Lukashenko in una posizione debole, e Mosca ha usato il suo potere per assicurare la posizione di Lukashenko e controllare gli eventi a Minsk. L’ ondata di rifugiati verso il confine polacco ha messo la Polonia sulla difensiva e ha creato un senso di crisi in Polonia. Per quanto riguarda la Bielorussia, è stata semplicemente l’arena scelta dalla Russia, un satellite preso a bassa voce.

Mentre la Russia stava reclamando i suoi cuscinetti, abbiamo rivolto la nostra attenzione all’Ucraina, che, come ho detto, è il cuscinetto chiave. È vasto, minaccia direttamente la Russia e dall’Ucraina la Russia potrebbe minacciare anche l’Occidente. In effetti, tra la Bielorussia nella pianura nordeuropea e il controllo dell’Ucraina sui Carpazi, la Russia non solo poteva difendersi, ma anche minacciare un attacco all’Europa dal Mar Baltico al Mar Nero.

I russi hanno mobilitato le forze lungo i confini dell’Ucraina – da est, nord e sud – e, senza fare minacce palesi, hanno creato una situazione in cui sembrava possibile un’invasione dell’Ucraina. Ho scritto la scorsa settimana dubitando che i russi avrebbero tentato una complessa occupazione di un paese ostile perché le possibilità di fallimento, anche contro una resistenza minima, erano reali e perché i russi non potevano prevedere le azioni americane. Se intervenisse, gli Stati Uniti probabilmente interverrebbero a terra, ma possiedono anche arsenali di missili anticarro lanciati da aerei o navi nel Mar Baltico e nel Mar Nero. Come si evolverebbe questo conflitto non è noto e gli Stati Uniti potrebbero non scegliere una controparte militare. Ma la Russia non poteva saperlo, né poteva rischiare di agire sull’intelligence, che spesso si sbaglia.

Per completare la ricostruzione dell’Unione Sovietica, i russi devono prima neutralizzare gli Stati Uniti senza un’azione militare. La migliore strategia per questo è neutralizzare la NATO, le cui forze militari sono limitate ma comunque significative. Ancora più importante, una risposta americana alla Russia senza la disponibilità del territorio della NATO e senza il sostegno politico degli alleati della NATO complicherebbe la dinamica militare e politica dell’azione degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti avevano già indicato la loro cautela minacciando il sistema bancario russo se ci fosse stata una guerra in Ucraina, piuttosto che minacciare un’azione militare.

Pertanto, prima ancora che la Russia prendesse in considerazione un’azione militare in Ucraina, doveva neutralizzare politicamente i (già cauti) Stati Uniti, e la chiave era paralizzare la NATO e in particolare la Germania. La Germania vede la Russia come una fonte cruciale di energia, un partner commerciale che potrebbe crescere di importanza e un problema da evitare. Ancora più importante per esso è l’Europa, di cui la NATO è un elemento cruciale, non tanto come forza militare, ma come un’altra forza che tiene insieme l’Europa. Come potenza dominante in Europa (al di fuori della Gran Bretagna), la Germania ha l’imperativo nazionale di mantenere la sua posizione economica dominante, che le conferisce una grande influenza sul comportamento degli europei in materia militare.

Per la Germania, quindi, una guerra non sarebbe adatta alle sue esigenze. Rischierebbe un conflitto che potrebbe indebolire gravemente l’economia europea in un momento delicato. La Germania vede la Polonia come un problema difficile poiché è nella NATO, ma la posizione della Polonia nei confronti della Russia non soddisfa gli interessi della Germania. La Germania vorrebbe ovviamente un cuscinetto contro la Russia in Bielorussia e Ucraina, ma non se ciò significa enormi costi economici e aumento del potere americano in Europa. Gli Stati Uniti dominano la NATO e un conflitto esteso massimizzerebbe le considerazioni militari americane e minimizzerebbe le preoccupazioni economiche tedesche. In breve, mentre potrebbe esserci una serie di posizioni sulle mosse della Russia in Europa, la Germania, la potenza leader, deve evitare la guerra e pagherà un prezzo per questo. La neutralizzazione degli Stati Uniti da parte della Russia passa attraverso la NATO, l’Europa e in particolare la Germania. Se hanno punti di vista divergenti, una difesa americana unilaterale contro la Russia diventa molto rischiosa.

Arriviamo così allo straordinario documento che la Russia ha consegnato la scorsa settimana. Il documento è mirato alla NATO. La clausola chiave è l’articolo 5: “Le Parti si astengono dallo schierare le proprie forze armate e armamenti, anche nel quadro di organizzazioni internazionali, alleanze o coalizioni militari, nelle aree in cui tale dispiegamento potrebbe essere percepito dall’altra Parte come una minaccia per sua sicurezza nazionale, ad eccezione di tale spiegamento all’interno dei territori nazionali delle Parti”.

In altre parole, la Russia chiede il diritto di limitare il dispiegamento delle truppe statunitensi nei paesi della NATO se i russi si sentono minacciati da tale dispiegamento. L’effetto immediato sarebbe che, mentre la Polonia potrebbe rafforzare la propria forza, gli Stati Uniti dovrebbero ritirarsi dalla Polonia se la Russia si sentisse minacciata, cosa che dice di fare. Naturalmente, se la Federazione Russa reintegrasse gli ex territori sovietici nel suo sistema politico, cosa che penso sia una possibilità, allora la Russia sarebbe liberata dall’articolo 5.

Ci sono altre clausole che garantiscono che gli Stati Uniti rifiuteranno il documento. È quindi una domanda interessante perché i russi l’abbiano creato. Potrebbe essere concepito come una piattaforma negoziale, ma è troppo distorta dall’interesse russo per essere una piattaforma praticabile per Washington. Un’altra possibilità è che sia per il consumo interno russo, a dimostrazione del fatto che la Russia parla agli Stati Uniti come un potente pari da rispettare. Oppure potrebbe essere che dopo la risposta iniziale degli americani alle minacce russe – che il loro sistema bancario sarebbe stato danneggiato – i russi leggessero gli Stati Uniti come riluttanti a rispondere in Ucraina.

La chiave dal mio punto di vista è che nessuno vuole una guerra in Ucraina perché sarebbe lunga e sanguinosa, e il vantaggio geografico andrebbe alla Russia. Una proposta sul tavolo, per quanto assurda, può dare alle nazioni caute l’opportunità di capitolare mentre sembrano preferire un corso diplomatico a risposte militari irrazionali. Gran parte dell’Europa non è disposta a combattere per l’indipendenza dell’Ucraina. Gli Stati Uniti, preoccupati per la libera diffusione del potere russo attraverso la forza militare, potrebbero scegliere un intervento. Questa proposta potrebbe essere vista in Europa come una “base di discussione”, limitando le opzioni americane.

Un’invasione dell’Ucraina sarebbe piena di rischi per la Russia. Il fallimento o la resistenza prolungata trasformerebbero la Russia da una potenza riemergente in una nazione da scartare. Il presidente russo Vladimir Putin ovviamente sa che questo documento sarà respinto, ma nel suo contesto, il rifiuto tornerà alle controproposte, ed è possibile che la NATO e gli Stati Uniti diano un po’ di terreno in cambio dell’eliminazione di alcune delle clamorose richieste russe. Oppure Putin vuole che tutti lo vedano in termini non menzionati – come un ultimatum – e nel panico.

In ogni caso, il pezzo chiave della ricostruzione russa – l’Ucraina – è sul tavolo, e il documento confonde così completamente le questioni, chiedendo cambiamenti fondamentali nel modo in cui operano gli Stati Uniti, che qualcosa può essere concesso sotto la pressione europea. Putin non ha nulla da perdere da questo documento e qualcosa da guadagnare. Presumo che la risposta americana sarà quella di rifiutare i colloqui basati sul documento.

https://geopoliticalfutures.com/the-russian-treaty-proposal/?tpa=YTIwZWNmYjhiYWU4M2YyZWY4M2VjMzE2NDA4Nzg0MzdiZjI1ZjY&utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_term=https://geopoliticalfutures.com/the-russian-treaty-proposal/?tpa=YTIwZWNmYjhiYWU4M2YyZWY4M2VjMzE2NDA4Nzg0MzdiZjI1ZjY&utm_content&utm_campaign=PAID%20-%20Everything%20as%20it%27s%20published

IL TESTO DEI DUE DOCUMENTI

17/12/2021 13:30

ACCORDO TRA LA FEDERAZIONE RUSSA E GLI STATI UNITI D’AMERICA SULLE GARANZIE DI SICUREZZA

 

 La Federazione Russa e gli Stati Uniti d’America, di seguito denominati le Parti,

Guidati dai principi contenuti nella Carta delle Nazioni Unite, nella Dichiarazione sui principi di diritto internazionale concernenti le relazioni amichevoli e la cooperazione tra gli Stati in conformità con la Carta delle Nazioni Unite 1970 anno, l’Atto finale di Helsinki del 1975 della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, nonché le disposizioni della Dichiarazione di Manila del 1982 sulla risoluzione pacifica delle controversie internazionali, la Carta per la sicurezza europea del 1999, l’Atto fondatore del 1997 sulle relazioni reciproche, la cooperazione e sicurezza tra la Russia e l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico;

Ricordando l’inammissibilità nelle loro reciproche, nonché in generale nelle relazioni internazionali, dell’uso della forza o della minaccia della forza in qualsiasi altro modo incompatibile con le finalità ei principi della Carta delle Nazioni Unite;

sostenere il ruolo del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che ha la responsabilità primaria del mantenimento della pace e della sicurezza internazionali;

Riconoscendo la necessità di unire gli sforzi per rispondere efficacemente alle sfide e alle minacce contemporanee alla sicurezza in un mondo globalizzato e interdipendente;

procedendo dalla stretta osservanza del principio di non ingerenza negli affari interni, compreso il rifiuto di sostenere organizzazioni, gruppi e individui che propugnano un cambio di governo incostituzionale, nonché qualsiasi azione volta a modificare il sistema politico o sociale di uno dei contraenti feste;

nel senso di migliorare l’esistente o creare ulteriori meccanismi di interazione efficaci e prontamente avviati per risolvere problemi e disaccordi problematici emergenti attraverso un dialogo costruttivo basato sul rispetto reciproco e sul riconoscimento degli interessi e delle preoccupazioni reciproche in materia di sicurezza, nonché per sviluppare una risposta adeguata alle sfide e minacce nel campo della sicurezza;

sforzandosi di evitare qualsiasi scontro militare e conflitto armato tra le Parti e rendendosi conto che uno scontro militare diretto tra di esse può portare all’uso di armi nucleari, che avrebbe conseguenze di vasta portata;

Riaffermando che non ci possono essere vincitori in una guerra nucleare e che non dovrebbe mai essere scatenata, oltre a riconoscere la necessità di compiere ogni sforzo per prevenire il pericolo di una tale guerra tra Stati nucleari;

Riaffermando i propri obblighi ai sensi dell’Accordo sulle misure per ridurre il rischio di una guerra nucleare tra l’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche e gli Stati Uniti d’America del 30 settembre 1971, l’Accordo tra il governo dell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche e il governo degli Stati Uniti d’America sulla prevenzione degli incidenti in alto mare e nello spazio aereo sovrastante del 25 maggio 1972, l’Accordo tra l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e gli Stati Uniti d’America sull’istituzione di centri di riduzione del rischio nucleare di 15 settembre 1987 e l’Accordo tra l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e gli Stati Uniti d’America sulla prevenzione delle attività militari pericolose del 12 giugno 1989 anno;

hanno convenuto quanto segue:

 

Articolo 1.

Le parti interagiscono sulla base dei principi di indivisibile ed eguale sicurezza, fatta salva la reciproca sicurezza, e per tali finalità:

non intraprendere azioni e non svolgere attività che incidono sulla sicurezza dell’altra Parte, non parteciparvi e non supportarla;

non attuare misure di sicurezza adottate da ciascuna Parte individualmente o nell’ambito di un’organizzazione internazionale, un’alleanza militare o una coalizione, che pregiudicherebbero gli interessi di sicurezza fondamentali dell’altra Parte.

 

Articolo 2.

Le Parti si adoperano per garantire che qualsiasi organizzazione internazionale, alleanza militare o coalizione a cui partecipa almeno una delle Parti, rispetti i principi contenuti nella Carta delle Nazioni Unite.

 

 

Articolo 3.

Le Parti non utilizzeranno il territorio di altri Stati allo scopo di preparare o eseguire un attacco armato contro l’altra Parte, o altre azioni che ledano gli interessi fondamentali di sicurezza dell’altra Parte.

 

Articolo 4.

Gli Stati Uniti d’America si impegnano a escludere un’ulteriore espansione dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico in direzione orientale, a rifiutare di ammettere all’alleanza Stati che in precedenza facevano parte dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.

Gli Stati Uniti d’America non stabiliranno basi militari sul territorio di stati che erano precedentemente membri dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e non sono membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico, non utilizzeranno le loro infrastrutture per alcuna attività militare o svilupperanno una cooperazione militare bilaterale con loro.

 

Articolo 5.

Le Parti si astengono dal dispiegare le proprie forze armate e armi, anche nell’ambito di organizzazioni internazionali, alleanze o coalizioni militari, in aree in cui tale dispiegamento sarebbe percepito dall’altra Parte come una minaccia alla propria sicurezza nazionale, ad eccezione di tali dispiegamento nei territori nazionali delle Parti.

Le parti si astengono dal pilotare bombardieri pesanti equipaggiati per armi nucleari o non nucleari e dal trovare navi da guerra di superficie di tutte le classi, anche all’interno di alleanze, coalizioni e organizzazioni, in aree, rispettivamente, al di fuori dello spazio aereo nazionale e al di fuori delle acque territoriali nazionali, da dove possono impegnare obiettivi nel territorio dell’altra Parte.

Le parti mantengono il dialogo e interagiscono per migliorare i meccanismi per prevenire pericolose attività militari in mare aperto e nello spazio aereo sopra di esso, compreso l’accordo sulla distanza massima di rendez-vous tra navi da guerra e aerei.

 

Articolo 6

Le Parti si impegnano a non dispiegare missili terrestri a medio e corto raggio al di fuori del proprio territorio nazionale, nonché in quelle aree del proprio territorio nazionale da cui tali armi sono in grado di colpire obiettivi sul territorio nazionale dell’altra Parte.

 

Articolo 7.

Le Parti escludono il dispiegamento di armi nucleari al di fuori del territorio nazionale e restituiscono tali armi già dispiegate al di fuori del territorio nazionale al momento dell’entrata in vigore del presente Trattato nel territorio nazionale. Le parti elimineranno tutte le infrastrutture esistenti per il dispiegamento di armi nucleari al di fuori del territorio nazionale.

Le Parti non addestreranno personale militare e civile di paesi non dotati di armi nucleari all’uso di tali armi. Le parti non conducono esercitazioni e addestramento di forze polivalenti, compreso lo sviluppo di scenari con l’uso di armi nucleari.

 

Articolo 8.

Il presente Accordo entra in vigore dalla data di ricezione dell’ultima notifica scritta dell’attuazione delle necessarie procedure nazionali da parte delle Parti.

Fatto in duplice esemplare, ciascuno in lingua russa e inglese, entrambi i testi facenti ugualmente fede.

 

 

Per la Federazione Russa

Per gli Stati Uniti d’America

17/12/2021 13:26

ACCORDO SULLE MISURE DI SICUREZZA DELLA FEDERAZIONE RUSSA E DEGLI STATI MEMBRI DELL’ORGANIZZAZIONE DEL TRATTATO DELL’ATLANTICO DEL NORD

Progetto

La Federazione Russa e gli Stati membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), di seguito denominati i Partecipanti,

riaffermando la volontà di migliorare le relazioni e approfondire la comprensione reciproca;

Riconoscendo che per rispondere efficacemente alle sfide moderne e alle minacce alla sicurezza in un mondo interdipendente, è necessario unire gli sforzi di tutti i Partecipanti;

Convinti della necessità di prevenire attività militari pericolose e ridurre così la probabilità che si verifichino incidenti tra le proprie forze armate;

rilevando che gli interessi di sicurezza di ciascun Partecipante richiedono di aumentare l’efficacia della cooperazione multilaterale, rafforzare la stabilità, la prevedibilità e la trasparenza in campo politico-militare;

riaffermando il loro impegno nei confronti degli scopi e dei principi della Carta delle Nazioni Unite, dell’Atto finale di Helsinki del 1975 della Conferenza sulla sicurezza e della cooperazione in Europa, dell’Atto istitutivo sulle relazioni reciproche, sulla cooperazione e sulla sicurezza tra la Federazione Russa e il Trattato Nord Atlantico Organizzazione del 1997, il Codice di condotta relativo agli aspetti di sicurezza politico-militare del 1994, la Carta per la sicurezza europea del 1999 e la Dichiarazione di Roma “Relazioni NATO-Russia: una nuova qualità” dei Capi di Stato e di governo della Federazione Russa del 2002 e Stati membri della NATO;

hanno convenuto quanto segue:

Articolo 1.

I partecipanti alle loro relazioni sono guidati dai principi di cooperazione, eguale e indivisibile sicurezza. Non rafforzano la loro sicurezza individualmente, nel quadro di un’organizzazione internazionale, un’alleanza militare o una coalizione a scapito della sicurezza degli altri.

I partecipanti alle reciproche relazioni si impegnano a risolvere pacificamente tutte le controversie internazionali, nonché ad astenersi da qualsiasi uso della forza o dalla minaccia di un suo uso in qualsiasi modo incompatibile con gli scopi delle Nazioni Unite.

I Partecipanti si impegnano a non creare condizioni o situazioni che possano rappresentare o essere considerate come una minaccia alla sicurezza nazionale degli altri Partecipanti.

I partecipanti eserciteranno moderazione nella pianificazione militare e durante le esercitazioni per ridurre i rischi di possibili situazioni pericolose, aderendo agli obblighi previsti dal diritto internazionale, compresi quelli contenuti negli accordi intergovernativi sulla prevenzione degli incidenti in mare al di fuori delle acque territoriali e nello spazio aereo sovrastante , nonché negli accordi intergovernativi sulla prevenzione di attività militari pericolose.

Articolo 2.

Per risolvere problemi e risolvere situazioni problematiche, i Partecipanti utilizzano meccanismi di consultazioni urgenti su base bilaterale e multilaterale, compreso il Consiglio Russia-NATO.

I partecipanti su base regolare e volontaria si scambiano valutazioni delle minacce moderne e delle sfide alla sicurezza, forniscono informazioni reciproche su esercitazioni e manovre militari, le principali disposizioni della dottrina militare. Al fine di garantire la trasparenza e la prevedibilità delle attività militari, vengono utilizzati tutti i meccanismi e gli strumenti esistenti di misure volte a rafforzare la fiducia.

Per mantenere i contatti di emergenza tra i Partecipanti, sono organizzate linee telefoniche “calde”.

Articolo 3.

I partecipanti confermano di non vedersi l’un l’altro come avversari.

I partecipanti mantengono un dialogo e interagiscono per migliorare i meccanismi di prevenzione degli incidenti in alto mare e nello spazio aereo sopra di esso (principalmente nel Baltico e nella regione del Mar Nero).

Articolo 4.

La Federazione Russa e tutti i partecipanti che dal 27 maggio 1997 erano stati membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico, di conseguenza, non dispiegano le loro forze armate e armi sul territorio di tutti gli altri stati europei, oltre alle forze di stanza in questo territorio dal 27 maggio 1997 anno. In casi eccezionali, quando si verificano situazioni legate alla necessità di neutralizzare la minaccia alla sicurezza di uno o più Partecipanti, tali collocamenti possono essere effettuati con il consenso di tutti i Partecipanti.

Articolo 5.

I Partecipanti escludono il dispiegamento di missili a terra a medio e corto raggio in aree da cui sono in grado di colpire bersagli sul territorio di altri Partecipanti.

Articolo 6

I partecipanti, che sono stati membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico, accettano obblighi che precludono un ulteriore allargamento della NATO, inclusa l’adesione dell’Ucraina, così come di altri stati.

Articolo 7.

I partecipanti, che sono stati membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico, si rifiutano di condurre qualsiasi attività militare sul territorio dell’Ucraina, così come in altri stati dell’Europa orientale, della Transcaucasia e dell’Asia centrale.

Al fine di escludere il verificarsi di incidenti, la Federazione Russa e i partecipanti che sono stati membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico non condurranno esercitazioni militari e altre attività militari al di sopra del livello di brigata in una striscia di larghezza e configurazione concordate su ciascun lato del la linea di confine della Federazione Russa e gli stati che sono con essa in un’alleanza militare, nonché i membri che sono stati membri dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico.

Articolo 8.

Il presente Accordo non pregiudica e non sarà interpretato come lesivo della responsabilità primaria del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali, nonché i diritti e gli obblighi dei membri derivanti dalla Carta delle Nazioni Unite.

Articolo 9.

Il presente Accordo entra in vigore dalla data in cui le notifiche di consenso ad essere vincolati da più della metà degli Stati firmatari sono depositate presso il depositario. Per quanto riguarda uno Stato che ha dato tale notifica in una data successiva, il presente Accordo entrerà in vigore alla data della sua trasmissione.

Ciascuna Parte del presente Accordo può recedere dallo stesso inviando l’apposita notifica al depositario. Il presente Accordo termina per tale Partecipante [30] giorni dopo il ricevimento di detta notifica da parte del depositario.

Il presente Accordo è stato redatto in russo, inglese e francese, i cui testi fanno ugualmente fede, ed è conservato negli archivi del depositario, che è il governo…

Fatto in [città …] [XX] giorno [XXX] mese [20XX].

Inerzia e punti di svolta_ di Giacomo Gabellini

Nell’ottica statunitense, l’Ucraina continua a rappresentare una pedina preziosa, sistematicamente impiegata per mettere alle corde la Russia nell’attuale fase ma potenzialmente riciclabile, in un’ottica di medio-lungo periodo, come merce di scambio in nome di un riavvicinamento tra Washington e Mosca funzionale al contenimento della Cina. Prospettiva apparentemente inconcepibile, alla luce del fervore anti-russo che anima gli ambienti neoconservatori fortemente sovrarappresentati all’interno dello “Stato profondo”, ma pur sempre presente nel novero delle opzioni strategiche e proprio per questo pro-fondamente temuta dai leader russofobi e ultra-atlantisti della “nuova Europa”. I quali non perdono occasione per trascinare l’imbelle Unione Europea verso una posizione di crescente ostilità nei confronti della Russia – dai risultati catastrofici dal punto di vista sia economico che strategico – proprio perché persuasi che il rango dei loro Paesi, e i relativi dividendi di natura economica e (geo)politica che ne derivano, risulti direttamente subordinato al grado di rilevanza che gli Stati Uniti attribuiscono all’accerchiamento della Russia.
Osservata dal punto di vista strettamente geopolitico, infatti, la dottrina del rollback applicata da Washington nei confronti della Federazione Russa denota una smaccata illogicità di fondo. Prima d’ora, gli Stati Uniti non si sono mai trovati nelle condizioni di affrontare un avversario come la Repubblica Popolare Cinese, che va ogni giorno di più attrezzandosi per soverchiare gli Usa sotto il profilo economico, tecnologico e militare. Attualmente, gli sforzi della Casa Bianca e del Congresso si concentrano sulla rottura del legame di dipendenza sviluppato dalle imprese multinazionali statunitensi nei confronti della manifattura cinese, attraverso la riorganizzazione delle catene di approvvigionamento, la rinazionalizzazione delle industrie strategiche e l’imposizione di nuovi standard produttivi concepiti appositamente per colpire l’ex Celeste Impero.
Ammesso – e non concesso – che l’ambiziosissimo progetto giunga effettivamente a realizzazione, occorreranno comunque decenni per riconfigurare le filiere, rimpatriare gli impianti delocalizzati a partire dai primi anni ’80 e rimodellare la globalizzazione in base ai propri interessi specifici. I numeri, d’altra parte, sono largamente favorevoli alla Cina, dal punto di vista sia demografico che economico. Per cui, insistono i più illustri esponenti della corrente di pensiero realista, è tempo di abbandonare le velleità di dominio maturate durante il breve periodo unipolare e prendere atto che gli Stati Uniti non dispongono più dei mezzi né dell’autorità sufficiente per piegare il resto del mondo alle proprie direttive. All’inizio degli anni ’70, quando gli Stati Uniti erano alle prese con la dispendiosissima e fallimentare Guerra del Vietnam, fu una constatazione di questo genere a spingere Nixon e Kissinger a superare le barriere di carattere ideologico consustanziali alla Guerra Fredda per aprire alla Repubblica Popolare Cinese e condannare l’Unione Sovietica a un fatale isolamento politico ed economico.
All’epoca, Washington conseguì il risultato capitalizzando politicamente i timori e le questioni aperte tra Mosca e Pechino, a coronamento di un meticoloso lavoro preparatorio che denotava una profonda consapevolezza circa le opportunità potenzialmente costruttive offerte dallo scenario multipolare in via di costituzione. Oggi, la logica della strategia imporrebbe ai decisori statunitensi l’adozione di un approccio altrettanto pragmatico, implicante cioè la predisposizione di una manovra di avvicinamento verso il Cremlino basata sul riconoscimento degli interessi nazionali russi e la strumentalizzazione delle non inesistenti divergenze tra Mosca e Pechino. In primo luogo perché la Russia «non ha la taglia per scalare la vetta del potere planetario. Ma è la quantità marginale che gettando il suo peso sull’uno o sull’altro piatto della bilancia può decidere della partita fra Stati Uniti e Cina»; un’alleanza tra Federazione Russa e Repubblica Popolare Cinese raggiungerebbe la massa critica per «squilibrare il parallelogramma delle forze a danno di Washington». Un’intesa con il Cremlino, viceversa, permetterebbe a Washington di riposizionare nell’area dell’Indo-Pacifico le risorse attualmente dedicate all’accerchiamento della Federazione Russa in Europa orientale, Caucaso e Medio Oriente, e focalizzare così l’attenzione sulla questione di gran lunga più cogente, costituita dall’ascesa della Cina e dalla rapidità con cui Pechino continua implacabilmente ad erodere i residui vantaggi di cui godono ancora gli Usa.
Non è un caso che il più convinto sostenitore della linea della normalizzazione dei rapporti con Mosca sia proprio Henry Kissinger, il principale architetto dell’intesa sino-statunitense del 1972. In un’intervista rilasciata a «The Atlantic» nel 2016, l’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale e segretario di Stato di Nixon raccomandava di guardare alla Russia «non come a un avversario, ma come a un partner con cui trovare una soluzione».
Sulla strada che conduce all’attuazione delle direttive kissingeriane si ergono una serie di ostacoli formidabili, a partire dall’impellente necessità dell’apparato dirigenziale Usa di preservare un “nemico perfetto” attraverso cui (tentare) tenere insieme i pezzi di una società domestica frustrata, impoverita e pericolosamente avviata verso la disgregazione, e legittimare allo stesso la sopravvivenza di un’organizzazione obsoleta e sempre più contestata come la Nato. La quale costituisce a sua volta la migliore garanzia per la perpetuazione dell’occupazione militar-strategica statunitense di un teatro di primaria importanza come l’Europa, che nella visione profondamente influenzata dalle teorizzazioni di Mackinder e Brzezinski tuttora imperante nel mondo degli “apparati” di Washington risulta imprescindibile per prevenire qualsiasi forma di collaborazione tra Russia ed Europa (leggi: Germania) in grado di ridimensionare la supremazia Usa. Di qui la decisione statunitense di pianificare la sovversione degli equilibri politici interni all’Ucraina per trasformarla in un cuneo da frapporre tra Mitteleuropa e Russia votato all’isolamento dell’Heartland, e intensificare al contempo la pressione militare (espansione della Nato, moltiplicazione delle esercitazioni dell’Alleanza Atlantica in Europa orientale), economica (inasprimento delle sanzioni) e politica (strumentalizzazione del caso Naval’nyj e delle proteste in Bielorussia) sulla Russia.
Kissinger è stato tra i pochissimi – nell’intervista a «The Atlantic», è egli stesso a definire minoritaria” la sua scuola di pensiero – a cogliere la natura spiccatamente difensiva delle mosse compiute da Vladimir Putin a partire dal 2014, e a rendersi conto che nessun leader russo avrebbe mai potuto accettare la prospettiva, resa particolarmente concreta dal colpo di Stato di “Euro-Majdan”, di ritrovarsi la Nato saldamente impiantata in Crimea e alle porte dello stesso bassopiano sarmatico attraversato dalle armate di Napoleone ed Hitler. L’annessione della penisola, attuata con il consenso schiacciante della popolazione locale, ha preservato il controllo russo sull’importantissimo porto di Sebastopoli, mentre l’appoggio garantito alle repubbliche secessioniste di Luhans’k e Donec’k ha permesso alla Federazione Russa di frapporre un imprescindibile cuscinetto fra sé e la Nato. Le cui porte rimangono aperte non solo per l’Ucraina, ma anche per la Georgia, come dichiarato sia dal segretario di Stato Blinken che dal segretario generale dell’Alleanza Stoltenberg. Ai due Paesi, la possibilità era già stata prospettata durante il vertice della Nato di Bucarest dell’aprile 2008, pochi mesi prima che Saakashvili ordinasse l’attacco contro Abkhazia e Ossezia del Sud innescando l’escalation culminata con la sconfitta militare della Georgia ad opera della Russia. A dispetto di quanto prospettato da alcuni6, le intenzioni del Cremlino non vertono sull’annessione del Donbass sulla falsariga del precedente della Crimea, ma sulla stretta osservanza degli Accordi di Minsk, implicanti la concessione di uno statuto speciale alle regioni di Luhans’k e Donec’k (dove i russi etnici sono in maggioranza) che assicuri alla Russia una “quinta colonna” interna allo Stato ucraino di cui avvalersi per influenzare il processo decisionale di Kiev – per lo stesso, identico motivo, la leadership ucraina ostacola l’applicazione dell’intesa raggiunta in Bielorussia e ne invoca la revisione.
A ennesima riprova del fatto che, ristabilito l’equilibrio strategico grazie alla messa a punto di un formidabile arsenale nucleare, la priorità odierna della Russia consiste nel sigillare i propri confini occidentali, consolidando la propria influenza entro gli ex satelliti al fine di ricostituire legami politico-economico-commerciali con il proprio “estero vicino” confluito sotto l’ombrello militar-strategico statunitense e impedire un’ulteriore espansione della Nato verso est. Una logica pressoché analoga si riscontra nella sempre più spiccata propensione del Cremlino a raggiungere compromessi tattici con la Turchia dell’ambiguo e inaffidabile Erdoğan, e ad attingere alla vasta gamma di strumenti di guerra ibrida per intervenire in scenari critici quali quello libico e, soprattutto, siriano. Dove «sul campo i proiettili russi colpiscono i nemici di Assad, ma simbolicamente sono una sorta di “fuoco di interdizione” a un intervento occidentale, per evitare uno scontro diretto tra grandi potenze. In qualche modo, i russi stanno “segnando” il proprio spazio di influenza» nel tentativo di ricavarsi aree strategiche in cui operare per far fronte alla crescente aggressività degli Stati Uniti e della Nato. La cui ostinata renitenza a riconoscere a Mosca qualsiasi legittimità nell’esercizio di influenza nel proprio “estero vicino” ha portato alla formazione di una sorta di “vallo eurasiatico” che, nelle intenzioni di Washington, dovrebbe «interrompere arterie secolari, in grado di assicurare la circolazione di beni materiali, culture, costumi, tradizioni, religioni, dialogo interetnico che si era sviluppata dall’antichità all’età di mezzo, dall’era moderna a quella contemporanea fino ai nostri giorni».
differenza di quella originaria, per di più, la nuova “cortina di ferro” appare strutturalmente votata a produrre frizioni anziché (relativa) stabilità, soprattutto perché priva di una collocazione geografica fissa. Essa non corre più “da Stettino a Trieste”, ma da Murmansk a Sebastopoli, sfiorando la direttrice San Pietroburgo-Rostov. La “linea del fronte” si è quindi spostata 1.200 km più a est, a una distanza dal cuore storico, demografico ed economico della Russia mai così pericolosamente ridotta dai tempi di Ivan in Grande. La presenza della Nato a ridosso dei confini russi priva il Cremlino dello spazio necessario a qualsiasi forma di arretramento, costringendo Mosca a reagire a ogni iniziativa dello schieramento nemico con la durezza e l’imprevedibilità ravvisabili in qualsiasi soggetto che si ritrovi nelle condizioni di dover fronteggiare minacce di tipo esistenziale. Di qui l’inequivocabilità con cui Putin ha indicato nel mantenimento dell’Ucraina in uno stato di neutralità geopolitica e nella permanenza della Bielorussia entro la sfera d’influenza russa – con o senza Lukašenko – le due “linee rosse” di cui non verrà d’ora in poi tollerata in alcun modo la violazione.
Come ha osservato Stephen Cohen, eminente russologo statunitense recentemente scomparso, «l’epicentro politico della “nuova Guerra Fredda” non si trova più nella lontana Berlino, come accadeva nei tardi anni ’40, ma direttamente ai confini della Russia, all’altezza dei Paesi baltici, dell’Ucraina e di un’altra ex repubblica sovietica, la Georgia. Da ciascuno di questi fronti potrebbe scaturire la scintilla in grado di scatenare una guerra […], perché il blocco sovietico che un tempo fungeva da cuscinetto tra la Nato e la Russia non esiste più», grazie all’espansione dell’Alleanza Atlantica verso est avviata nella seconda metà degli anni ’90 per iniziativa di Washington. Un processo che George Kennan, massimo architetto della dottrina del containment, aveva caldamente sconsigliato di innescare già nel 1997; a suo avviso, l’allargamento della Nato avrebbe infatti «infiammato le tendenze nazionalistiche, anti-occidentali e militariste in seno all’opinione pubblica russa; prodotto un effetto negativo sullo sviluppo della democrazia russa; rigettato le relazioni tra est e ovest nel clima della Guerra Fredda e indirizzato la politica estera di Mosca verso direzioni a noi sfavorevoli».
I decisori di Washington hanno puntualmente ignorato il monito di Kennan, in nome di una hybris imperiale che continua ancora oggi a definire le direttrici strategiche statunitensi nonostante il palese declino politico, economico e sociale che attanaglia il Paese. Lo si evince dall’ostinazione con cui l’apparato dirigenziale Usa si prodiga per impedire che gli equilibri geopolitici mondiali assumano una configurazione multipolare, nell’ambito di una “fatica di Sisifo” intrapresa in base all’illusoria convinzione di poter invertire un processo storico ineluttabile. Anche a costo di spingere il pianeta sull’orlo del disastro.Tratto da facebook

COSTITUZIONE MATERIALE E ANTIFASCISMO LEGALE, di Teodoro Klitsche de la Grange

COSTITUZIONE MATERIALE E ANTIFASCISMO LEGALE

Una dozzina d’anni fa Berlusconi – o meglio i suoi seguaci – contrapposero alla Costituzione formale la Costituzione materiale, suscitando la consueta raffica di anatemi ed esorcismi degli intellos di sinistra, che della costituzionale formale, o meglio della loro interpretazione del testo normativo, avevano fatto il proprio shibboleth. E avvertivano che il richiamo a quella materiale rischiava di rovinargli il giocattolo.

È appena il caso di ricordare che il termine (non il concetto) di costituzione materiale era opera di un acuto giurista come Costantino Mortati, membro dell’assemblea costituente della Repubblica, in buona parte sviluppando quanto espresso quasi un secolo prima da Ferdinand Lasalle nella nota conferenza “Über Verfassungswesen”, ove il rivoluzionario riconduceva la costituzione agli “effettivi rapporti di potere che sussistono in una data società”, alla forza attiva “che determina le leggi e le istituzioni giuridiche”. Scriveva Lassalle che “Gli effettivi rapporti di potere che sussistono in ogni società sono quella forza effettivamente in vigore che determina tutte le leggi e le istituzioni giuridiche di questa società, cosicché queste ultime essenzialmente non possono essere diverse da come sono” (il corsivo è mio); ed elencava i relativi “pezzi di costituzione”: il potere del re, quello dell’aristocrazia, della borghesia che comunque assicuravano un ordine, effettivo e concreto, e con ciò la coesione sociale. Così la costituzione è l’insieme – dei rapporti di forza reali – ed organizzati – di una comunità politica. E cos’è la Costituzione formale? Rispondeva Lassalle “Questi effettivi rapporti di forza li si butta su un foglio di carta, si dà loro un’espressione scritta, e, se ora sono stati buttati giù, essi non solo sono rapporti di forza effettivi, ma sono anche diventati, ora, diritto, istituzioni giuridiche, e chi vi oppone resistenza viene punito”.

Riprendendo e sviluppando la concezione di Lassalle, Mortati scriveva “Rimanendo nell’ordine di idee per ultimo esposte di una raffigurazione della costituzione che colleghi strettamente in sé la società e lo stato, è da ribadire quanto si è detto sull’esigenza che la prima sia intesa come entità già in sé dotata di una propria struttura, in quanto ordinata secondo un particolare assetto in cui confluiscano, accanto ad un sistema di rapporti economici, fattori vari di rafforzamento, di indole culturale, religioso ecc., che trova espressione in una particolare visione politica, cioè in un certo modo d’intendere e di avvertire il bene comune e risulti sostenuta da un insieme di forze collettive che siano portatrici della visione stessa e riescano a farla prevalere dando vita a rapporti di sopra e sotto-ordinazione, cioè ad un vero assetto fondamentale che si può chiamare «costituzione materiale» per distinguerla da quella cui si dà nome di «formale»”. A questo è affidata una “funzione di rafforzamento delle garanzie di conservazione della sottostante compagine sociale, non è tuttavia da dimenticare che è in quest’ultima, nell’effettivo rapporto delle forze da cui è sostenuta che deve trovarsi il vero supporto dell’ordine legale”1 (il corsivo è mio).

La Costituzione materiale consiste essenzialmente nelle forze politiche e sociali che hanno voluto e sostengono l’assetto fondamentale di poteri delineato da quella formale in norme collocate “al sommo della gerarchia delle fonti”.

Ma cosa succede se l’assetto delle forze politiche e sociali (cioè la costituzione materiale) cambia (com’è naturale) e quella formale (cioè la regolamentazione normativa) rimane la stessa? Il problema è ricorrente, dato che, come scriveva Hauriou, un ordinamento giuridico è un agmen, un esercito in marcia che adatta sempre la propria formazione alla situazione storica, pur conservando un assetto ordinato. Se però il divario tra regole e assetto delle forze diverge, si apre un dualismo che, nei casi estremi, conduce alla guerra civile, cioè all’“appello a Dio” di Locke. Il quale così significava che non c’è potere (superiore) sulla terra in grado di decidere un tale conflitto. Nella tarda modernità, nostra contemporanea, è stato notato più volte – in tutt’altro contesto da quello giuridico – che il divario tra élite e popolo si è allargato (da Lasch a Laclau, a tanti altri). Così si costituisce una situazione che prelude ad un nuovo insieme di rapporti di potere, che riarmonizzi le due costituzioni: sostanziale e formale.

Qualcuno dirà che non è vero che lo iato si sta allargando, che tutti vogliono la costituzione più bella del mondo, e via salmodiando. Ma ad un pensiero realista occorre riscontrare non tanto se quello iato è frutto di manipolazione (potrebbe esserlo, almeno in parte) ma se esiste realmente un modo più sicuro o se preferite, meno insicuro per accertare se esiste in una democrazia il consenso soprattutto elettorale che aveva il sistema nel complesso e ancor più le “forze politiche e sociali” che sostenevano il vecchio ordine e quello che hanno coloro che sostengono il nuovo.

Applicando questo criterio occorre ricordare che la Costituzione formale fu approvata dei partiti del CLN, che avevano circa il 90% dei seggi alla costituente. Le successive elezioni politiche del 18/04/1948 diedero al complesso dei partiti ciellenisti oltre il 90% dei suffragi popolari. Con ciò la costituzione – e quello che sarebbe stato poi l’arco costituzionale – otteneva un consenso “bulgaro”. Bella o brutta che fosse il consenso c’era e non lo si può negare.

Fino agli anni 80 la situazione, pur nella divaricazione tra comunisti e non comunisti, confermava un consenso ampio ai partiti dell’“arco costituzionale”. Ma il crollo del comunismo incrinava prima e dissolveva poi il sistema dei partiti della “prima Repubblica” e con esso il maggior sostegno della costituzione formale. Uscivano dal Parlamento tutti i partiti laici, la DC si riduceva ad un quarto di quel che era e si spezzava in (almeno) due tronconi, i comunisti perdevano buona parte del loro elettorato ed erano costretti a cambiare nome. Diventavano forze maggioritarie partiti che non facevano parte del CLN o ne erano stati esclusi. Dal 1994 in poi quelli eredi dell’arco costituzionale ottengono suffragi di una minoranza, ma la Costituzione formale è rimasta sostanzialmente la stessa (tranne per le modifiche al titolo V e qualche altro ritocco, apparente).

Negli ultimi dieci anni poi, il divario si è allargato: crescita dei partiti anti-establishment ma che ha prima raggiunto e poi passato regolarmente la maggioranza dei suffragi (v. elezioni dal 2018 in poi).

La novità degli ultimi mesi è che i tre maggiori partiti italiani (Lega, FdI e PD, a leggere i sondaggi) sono in un testa a testa intorno al 20%, e pochi decimi di percentuale (al massimo un punto pieno), indicano quale primo partito FdI, ossia il partito erede degli esclusi dall’arco costituzionale, mentre il PD, il partito (residuo) dell’arco, è più o meno sullo stesso livello di consensi.

Quasi tutti i suffragi non attribuiti ai due partiti epigoni (dell’arco e non dell’arco) sono espressi a partiti che ne stavano fuori per l’ovvia ragione che non esistevano (Lega, 5Stelle, FI e vari minori); né sono credibili le dichiarazioni ad usum delphini di lealismo alla costituzione formale di qualche dirigente, e dall’altro perché spesso i partiti suddetti caldeggiano riforme costituzionali incisive, un po’ perché quelle professioni d’intenti sono strumentali ad obiettivi tattici (di lotta tra, ma ancor più, nei partiti).

Resta il fatto che da un consenso al 90%, l’ “arco costituzionale” è attualmente tra il 20 e, tutt’al più (con minori vari) il 30% dell’elettorato.

Oltretutto tra le forze non riconducibili all’arco/non arco, sono prevalenti quelle che includono nella futura maggioranza (a quanto risulta dai sondaggi) proprio gli eredi del ventennio; altri sono critici verso la Costituzione formale, al punto di aver proposto vasti rimaneggiamenti della medesima.

Da questo deriva che l’ “antifascismo” in particolare inteso come conventio ad excludendum dalla maggioranza elettorale ha un consenso di una minoranza, ragguardevole ma pur sempre minoranza. In conclusione abbiamo un dato reale (la Costituzione materiale) che non corrisponde da tempo a quella formale. Resta da capire quanto possa durare una Costituzione formale non sostenuta da “forze politiche e sociali” coerenti alla stessa.

Emerge così un conflitto tra legittimità e legalità che è la principale causa della debolezza, interna e ancor più internazionale, della Repubblica.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 E proseguiva sottolineando l’intrinseca giuridicità, onde realizzare “un sistema di rapporti gerarchizzati secondo criteri di dominio e di soggezione”, v. Istituzioni di diritto pubblico, Tomo I, Milano 1976, pp. 30-31

PROBLEMI DI SOCIOLOGIA POLITICA, di Pierluigi Fagan

PROBLEMI DI SOCIOLOGIA POLITICA. [Post di studio relativo a questioni di fotografia sociale per basi di teorie politiche. Non perdete tempo se non vi interessa, saltatelo] Qui riprendiamo i ragionamenti portati avanti nel post del 14.12 del nostro “ragionar con Gramsci”. Si faceva accenno al fatto che rispetto al panorama ideologico del suo tempo, a noi oggi mancano tre presupposti: 1) una chiara e conosciuta fotografia delle partizioni sociali, ma forse dovremmo dire le forme stesse della partizione sociale; 2) una ben confusa situazione nei concetti di partito e democrazia; 3) la mancanza di una teoria generale politica, una teoria mondo quale quella che al suo tempo rappresentava l’alternativa allo stato di cose ovvero il pensiero di Marx/marxismo. Vorrei riprendere ed approfondire un po’ il primo punto.
Sebbene centrale in quell’impianto di pensiero, il concetto di “classe sociale” e sue partizioni, non sono mai chiaramente espresse da Marx. Di base, l’intende come una classificazione in base alle condizioni economiche. Altresì, queste sezioni della piramide sociale, produrrebbero una loro precipua ideologia che ne riflette condizione ed aspettative. Gramsci aggiungerà che questo “riflettere” è però condizionato da egemonie per le quali non sempre vi è allineamento tra condizione sociale e condizione ideologica. Tant’è che, in effetti, sia Marx che Engels, che Lenin, non erano proletari, né avevano origini in tal senso. Quali sono dunque i rapporti tra condizione sociale ed ideologia?
Dieci anni fa, uno spontaneo movimento di opposizione sociale, negli Stati Uniti d’America, comincia l’occupazione del distretto finanziario di Wall Street, rivendicando il conflitto tra un presunto 99% della società ed un 1% che condenserebbe in sé una scandalosa concentrazione di ricchezza, quindi potere. Tale teoria non si sa bene dove nasca di preciso, chi indica la redazione del giornale di critica pubblicitaria canadese Adbusters, chi l’antropologo David Graeber, chi l’economista Joseph Stiglitz, chi un anonimo articolista sul web. Il concetto che, come tutti i concetti, presuppone una teoria di cui è sintesi, punta alla critica del risultato sociale della svolta finanziaria che inizia tra anni ’80 e ’90 ed ha un sapore più comunicativo (slogan) che analitico (analisi). Dato questo presupposto semplificante ed indignante, ha molto successo e diventa una sorta di nuovo consenso socio-politico, ci si convince davvero che si tratta di una questione tra una percentuale infinitesima ed una massa enorme. È possibile le cose stiano così?
Decisamente no, non è assolutamente credibile in termini di “fisica dei sistemi sociali” che qualcosa di così piccolo, domini del tutto un così grande, è una semplificazione. Del resto, tra pubblicitari (Adbusters) ed americani (Graeber-Stiglitz), che la semplificazione sia privilegiata rispetto alla complessità del reale, è fatto noto e proprio di quei tipi di immagini di mondo. Di contro, che ci sia un 1% che effettivamente condensa in sé una porzione scandalosamente asimmetrica di ricchezza e quindi potere, è un fatto. Fatto riverificato da decine di statistiche quantificanti e pure peggiorato in questi dieci anni.
Questa versione semplificatoria dell’indagine sociale (mai basarsi su principi di analisi sociale americani espressi dopo gli anni ’60, quindi da dopo C. W. Mills) però ha successo e la ritroviamo in background in una sorta di rinnovata “teoria delle élite”, teoria tra l’altro di origine italiana dei primi Novecento. Le nostre società quindi si sono semplificate quanto a partizioni sociali? Davvero è tutto così semplice per cui l’1% conduce il restante 99% dove vuole lui? Pare di no, ci sono almeno due problemi oltre la logica della fisica sociale, che complicano parecchio la faccenda.
Il primo problema deriva dal fatto che quel 1% beneficiato dall’imporsi del paradigma finanziario, non è solo. Né lui come composizione sociale, né in quanto paradigma. Come paradigma è assieme ad una costruzione paradigmatica fatta altresì di globalizzazione e informatizzazione dentro un più ampio paradigma di teoria economica detto “neo-liberista”. A sua volta questo costrutto non è di origine occidentale ma prettamente americana. Il tutto corrisponde ad una più ampia partizione sociale rispetto alla numerica dell’1%. Ha più a che fare con il concetto di “classe agiata” di T. Veblen, categoria sociologica del primo Novecento. La “classe agiata” è fatta da coloro che hanno tornaconti e benefici, primariamente dal fatto che le nostre società sono ordinate dai fatti economici e non politici, quindi dal mercato e non dalla democrazia, dall’assetto atlantista che struttura l’occidentalismo e dalla teoria neo-liberista che per quanto ritenuta di origine economica è in realtà di origine socio-economica, quindi politica ed infine più ampiamente “culturale”. La loro agiatezza è data dall’appartenere al cluster che beneficia direttamente della finanziarizzazione e/o della globalizzazione e/o dell’informatizzazione e se di origine europea, della funzionale connessione col centro motore del sistema che è in US o UK. Direttamente o indirettamente.
Per fare un esempio stupido dell’indirettamente, anche un ristorantino fast-lunch nei pressi di un distretto finanziario beneficia di quel flusso di ricchezza, anche il suo cameriere, piuttosto che il portuale di uno snodo di traffico merci, la segretaria di una azienda che produce container, il programmatore di algoritmo, se assunti e retribuiti di conseguenza. Certo, direttamente il beneficio è più intenso che indirettamente, ma è pur sempre una rete di cointeressenze formata da nodi (hub) di innovazione, logistica, scambio internazionale, favore del mercato quanto più libero ed incondizionato, lavoro sul denaro altrui. In più, non è che sparisca una classe agiata tale sorretta da redditi da attività più “tradizionali”, anche qui direttamente o indirettamente. Quanto si può quantificare questa classe che sta bene dentro lo stato di cose, lo sorregge, lo difende, lo amplia, lo promuove positivamente nel giudizio condiviso?
Prendendo la quantificazione a grana grossa, quindi senza formalizzarsi sulla sua precisione esatta, sociologi stimano in circa un 40% questa che non è “una” classe, ma una alleanza di classi o di tipi sociali, che ruotano intorno agli interessi di un certo funzionamento economico che poi si riflette nel politico e nel culturale sebbene divisi tra trainanti e trainati, classi attive o di servizio a queste. A me pare un po’ alta, forse. Con i benefici del potere economico, politico, sociale e soprattutto culturale, appare però più credibile questa fotografia in cui una minoranza coarta una maggioranza, piuttosto che quella semplificata dell’1% maligno e totalitario. Certo, questo ipotetico 40% ha gradi diversi di beneficio e quindi convinzione, nonché di potere, però ad “alone”, conta e pesa almeno per un terzo sociale. Se pure fosse un più prudente 30% la cosa cambierebbe non di molto e comunque è proprio queste sotto-analisi a grana meno grossa che andrebbero fatte. Questi beneficiati, li possiamo definire gli “integrati” ricorrendo ad una partizione data da Eco in una sua analisi culturale anni ’60. Essi sono sia oggetto che soggetti attivi di promozione dell’egemonia di una immagine di mondo, tanto quanto i più tradizionali soggetti attivi come i fatidici “media mainstream”.
Sin qui, quanto a definizioni di classe diciamo “tradizionale” ovvero reddito + ricchezza + prospettive su aspettative = stato sociale. Ma davvero l’ideologia individuale e di gruppo corrisponde sempre allo stato sociale? Decisamente direi di no. Non v’è un intellettuale che si esprima in libri, articoli, pamphlet o quant’altro anti-capitalistici o anti-neoliberalistici o anti-atlantisti o anti-economicisti che non sia in fondo e per lo più (quindi salvo eccezioni che ci sono sempre) socio-economicamente parte di quel 40% o lì vicino nei fatti, mentre guarda al 60% nel campo dei sistemi di idee politiche. E viceversa, una grande parte di quel 60% non si sogna minimamente di rifiutare l’attrazione verso il mondo degli integrati, vorrebbe solo esserne invitato o poter coltivare la speranza di poterlo essere. E non si tratta solo di mancanza di coscienza di classe, sono proprio tipi sociali le cui radici di immagine di mondo è del tutto integrata in quel sistema di valori e modi, convintamente.
Ci sono dunque defezioni di allineamento tra classe sociale ed ideologia, da una parte e dall’altra, che consiglierebbero indagini ed analisi più complesse per capire meglio, a grandi linee, la composizione del fatidico “blocco storico” che potrebbe sfidare lo stato di cose. Noto che gli schemi semplificati sono talmente egemonici che ad esempio, il problema politico Italia oggi è condensato in Draghi. Non sulle forze politiche che lo sorreggono. Ma soprattutto non su tutti coloro che quelle forze politiche le votano. Quindi ci si convince che il 65% di gradimento a Draghi censito da un sondaggio ancora a novembre è ovviamente falso, quando forse non lo è o non lo è del tutto. Capita quando la fotografia sociale è fatta “sentendo” le opinioni di qualche centinaio al massimo di contatti sui social media. Fa scandalo quando qualcuno ci ricorda che il 50% degli italiani ha dalla licenza media in giù, forse perché si pensa che questi siano tutti contro lo stato di cose quando forse, invece, è proprio l’esatto contrario, è proprio la mancanza di struttura mentale che ha socio-politicamente sorretto decenni e decenni di Democrazia Cristiana in Italia.
Infine, sfidare lo stato di cose può avere molte motivazioni. Si possono sommare in fase critica e di sfida, ma raggiunto eventualmente l’obiettivo di aprire ad un nuovo stato di cose, si dovranno dividere per tante quali sono le loro variate origini e ragioni. Un nazionalista non è un europeista per quanto critico verso l’attuale forma presa da questa istanza ed entrambi non sono degli euro-asiatisti. Un keynesiano non è un decrescista. Un tradizionalista non è un progressista. Un marxista non è un socio-destrista. Un perplesso verso la politica sanitaria in atto non è un no vax, che non è un no pass, che non è un no-covid-è-tutta-una-montatura-del-grande-reset, per quanto, scendendo assieme in piazza finiscono con l’esserlo. Se una alleanza tattica va pensata per ripristinare il valore dei pesi percentuali effettivi del sociale totale, occorre chiarirsi su cosa e questa cosa non potrà essere una forma di mondo che è obiettivamente pensata in modi assai diversi, ma forse solo sul modo con cui i pesi dei vari tipi sociali si riflettono nei processi decisionali politici. Qui, “tipi sociali” che sommano condizione sociale e condizione ideologica, sostituiscono il concetto di “classe”.
In fondo, il panorama sociale in cui pensava Marx, era effettivamente molto simile alla stilizzazione dell’1% degli Occupy Wall Street, ma oggi le cose, ahinoi, sono più complesse e se vogliamo politicamente chiarirci realisticamente le idee, con questa complessità tocca farci i conti. Se non miglioriamo la risoluzione delle nostre fotografie sociali, non sapremo mai in cosa dovremmo metter le mani.

Roberto Buffagni

Ottimo lavoro Pierluigi, grazie. Aggiungerei che non solo manca una teoria sociale dello stesso ordine di perspicuità del marxismo, manca una teoria filosofica dello stesso ordine di perspicuità dell’illuminismo (anche perché la critica anche sociale si deve rivolgere contro la forma attuale che ha preso l’illuminismo). Dovendo buttar lì qualche briciolina di pane, direi questo: come l’illuminismo storico ha revisionato e rieditato per via di astrazione e secolarizzazione i concetti socialmente più rilevanti del cristianesimo, così dovrebbe fare la teoria critica attuale per la forma odierna di questi concetti illuministi, revisionandoli e rieditandoli e “sostanziandoli”, ossia facendo il percorso inverso a quello di astrazione illuminista.

Filosofia e scienza, di Vincenzo Costa

Filosofia e scienza (tratto da Facebook)
La pandemia ha fatto emergere un enorme problema nel rapporto tra i saperi, e in particolare tra filosofia e scienza. Da un lato sembra esservi una filosofia che pretende di saperne più degli scienziati, dall’altro una scienza che tende a considerare la filosofia come mero discorso ideologico, da usare (quando conviene, tipo ciliegina che abbellisce la torta) o da irridere, quando non conviene, quando dice qualcosa che stona. I meccanismi mediatici diventano poi terribili, stritolano, diventano violenti verso le persone, le idee e verso un intero settore disciplinare. C’è un grosso rischio, che riguarda la razionalità, e bisogna iniziare ad affontarlo in maniera razionale e pacata.
Ora, senza entrare in un’analisi precisa della questione (che andrà fatta, ma non su FB) a me pare che si stiano confondendo molte cose. In particolare, la filosofia ha (deve avere) una funzione critica nei confronti della scienza, ma il termine “critica” va ben compreso.
“Critica” (Critica della ragione pura, per Kant, Critica dell’economia politica, per Marx) non significa che la filosofia critica asserzioni specifiche della scienza. Questo tipo di critica, per essere razionale, è interna alla scienza, è la scienza stessa che la sviluppa: Einstein critica Newton, Bohr critica Thomson. Ma Kant non critica Newton nello stesso senso in cui lo fa uno scienziato. Kant “critica” Newton nel senso che cerca di portare alla luce i presupposti (filosofici) che stanno alla base della fisica newtoniana. Hume critica la matematica nel senso di cercare di portare alla luce i presupposti della matematica, e quando invece prova a criticare la matematica in termini matematici un suo caro amico, a cui sottopone il manoscritto, gli consiglia di non pubblicarlo. E credo che quel manoscritto non ci sia neanche pervenuto, ma potrei sbagliarmi. Husserl critica la geometria, ma nel senso che si chiede: da dove derivano e che consistenza hanno i suoi concetti elementari. E pur essendo un matematico di professione non confonde mai la ricerca matematica con la filosofia della matematica.
Nel mio piccolo mi è capitato di occuparmi di filosofia della medicina, ci ho scritto un libro ed è uno dei miei ambiti di ricerca, ma filosofia della medicina significa chiedersi quali sono i presupposti ontologici della medicina moderna (lo fanno Foucault e Canguilhem tra molti altri, e gli altri sono molto meglio per la verità), quali sono le sue procedure di validificazione (per esempio la struttura dell’EBM, che cosa porta alla luce e che cosa oscura, oppure quale è la struttura epistemologica di una diagnosi, che tipo di causalità viene usata in medicina).
E tuttavia, se vi può essere una critica fenomenologica della medicina non vi può essere una medicina filosofica, che sarebbe altrettanto aberrante di una chimica fenomenologica. Né il fatto di effettuare una critica ontologica ed epistemologica della medicina abilita il filosofo a dire alcunchè sulla medicina, cioè a passare da una critica filosofica dei fondamenti a una critica interna, per esempio a dire che una certa teoria del glioblastoma è giusta o sbagliata. Occorrono due competenze del tutto differenti.
La medicina la devono fare i medici, e il filosofo deve solo (e non credo sia poco) produrre un surplus di consapevolezza relativo all’ambito concettuale entro cui lo scienziato si muove. Ma guai se il filosofo intendesse parlare di medicina. Per farlo deve avere una competenza medica, e magari un dottorato, e magari un dottorato specifico su quel campo specifico, altrimenti si espone a critiche giustificate.
SI DEVE APPOGGIARE SU DATI RACCOLTI IN GIRO MA CHE NON è IN GRADO DI VALUTARE.
Paradossalmente, in questo modo accetta proprio il principio di autorità, solo che si appella a una diversa autorità. Quale? Non all’autorità della comunità scientifica, ma all’autorità di singoli scienziati che scartano e deviano dalle linee seguite dalla comunità scientifica. E perché mai QUESTA autorità dovrebbe essere più attendibile di quella della comunità scientifica in quanto tale, che si esprime poi in istituti regolatori e di vigilanza? Alla fine ognuno si cerca gli scienziati che dicono quello che desidera sentire. E questo è irrazionalismo puro e semplice.
Un filosofo non può correggere un virologo e un epidemiologo sul suo terreno. La discussione tra punti di vista diversi deve avvenire entro un ambito di competenze determinate: due virologi che la pensano diversamente possono esporre i loro punti di vista alternativi, ed esporli non su FB, ma in primo luogo davanti alla comunità scientifica e poi di fronte all’opinione pubblica.
La scienza è democratica, è pubblica, ma questo non significa che ognuno può dire la sua: vuol dire che è basata sul dibattito, il quale presuppone conoscenze e competenze riconosciute (non la laurea su FB), e avviene in pubblico, davanti a tutti.
Questo è essenziale per ripristinare un rapporto di fiducia con la scienza, un rapporto dialettico ma di rispetto tra filosofia e scienza. Ho scritto un libro di filosofia della medicina, ma non mi curo da me, mi fido di più del mio semplice medico di base, a maggior ragione di uno specialista se c’è un problema. Mi guardo bene dal dare consigli ad altri su come curarsi, e sarebbe criminale se lo facessi: consiglio loro di recarsi da uno specialista.
Questo non è scientismo, e non è neanche mero buon senso: è il nucleo stesso del pensiero filosofico, è il modo in cui la filosofia si ritaglia un ambito di rigore, un suo campo specifico, che ha una sua dignità, una sua importanza, per me fondamentale. E’ il modo in cui dialoga con il sapere scientifico, senza confondersi con esso e senza pretendere di saperne più degli scienziati nel loro specifico campo di competenza.
Con alcuni neuroscienziati che mi onoro di avere tra i miei amici è capitato di dissentire, di fare lunghe discussioni, ma il mio dissenso era sui concetti filosofici che assumevano (per esempio, nel caso dei neuroni specchio, se adottare la nozione di empatia tratta da Lipps, da Scheler o da Husserl), ma quando parlavano del cervello, di quello che accade in esso, di come fanno i loro esperimenti, mi limitavo e mi limito ad ascoltare, ad imparare, a volte sono strabiliato dalla precisione o dall’inventività dei loro esperimenti. Sarebbe un errore se la filosofia pretendesse di insegnare loro qualcosa sulla struttura del cervello e sui nessi neurali. La filosofia si renderebbe ridicola.
Ecco, ultimamente abbiamo fatto tutti un po’ di confusione, e una discussione aperta e autocritica credo sia necessaria, in primo luogo per il bene della filosofia, e poi per la credibilità della scienza, e – perché no? – per non avvelenare la nostra sfera pubblica e la nostra vita democratica.
Comunque, domani c’è lo sciopero generale, e anche la filosofia scende in piazza con i lavoratori. Questa è un’evidenza apodittica, la roccia contro cui la vanga si piega, il punto in cui scienza e filosofia si danno la mano e convergono la dove il mondo del lavoro si mobilita
PS. Il post è il modo in cui vedo le cose, magari sbagliando. Si può non essere d’accordo, e ci sta. Non voglio essere trascinato in una di quella discussioni demenziali in cui tutti mi devono insegnare a pensare. E’ un punto di vista, se non vi piace pazienza. Nu ne famo un drama

LA MODIFICA DEL PANORAMA IDEOLOGICO DI UN’EPOCA, di Pierluigi Fagan

LA MODIFICA DEL PANORAMA IDEOLOGICO DI UN’EPOCA. [Post di teoria politica, quindi di interesse per pochi] In questo post ragioneremo con Gramsci, useremo cioè una struttura del suo pensato per pensare a nostra volta.
Questa fruttifera relazione tra strutture del pensiero venne resa immagine immortale da Giovanni di Salisbury (XII secolo), il quale però la riferiva come detto del suo maestro ovvero Bernardo di Chartres: “siamo come nani montati sulle spalle di giganti”.
L’immagine ha un implicito di “vedere più lontano” o “vedere da più in alto”. Ma al di là della formulazione che ne diede Bernardo, cattura una dinamica delle relazioni tra strutture del pensiero, una dinamica che, sempre in analogia, assomiglia a quella che in chimica si chiama “funzione catalitica”. La funzione catalica opera nelle trasformazioni chimiche (crea del nuovo dal vecchio) ed è svolta da una sostanza o complesso di sostanze che partecipano al processo, con ruolo necessario, senza però venire incluse nell’esito finale. Così, strutture di pensiero che aspirano al nuovo, usano quelle consolidate e più strutturate del vecchio, vi si appoggiano, le usano, per sottrazione o addizione o riformulazione. Il processo serve a produrre tentativi di nuovo pensato sotto due aspetti: quello della struttura del pensiero (riformulazione), quello della modifica della ricetta (addizione di nuovi elementi o sottrazione di vecchi elementi). Per addizione e/o sottrazione e/o riformulazione, si usa in modo catalitico la struttura di un pensiero consolidata, per produrne di nuove o comunque portare il processo cognitivo su altre strade da successivamente sviluppare. Chiaritaci la relazione di pensiero sottesa alla frase “ragioneremo con Gramsci”, accenniamo al suo contenuto.
Ci troviamo in quella area di pensiero dei Quaderni che somma diverse riflessioni sugli intellettuali, l’egemonia, la funzione del partito, l’ideologia, la filosofia della prassi, rapporti tra filosofia e senso comune che pare influenzò anche il Wittgenstein via Sraffa.
Far entrare questi argomenti in un post ha del temerario, ma forse ci serve come appunto del pensiero.
In forma scandalosamente ridotta, Gramsci pensa che alcune forme del pensiero di Marx vadano riformulate (al modo del nano che sale sulle spalle del gigante diventando a sua volta gigante che attrae nuovi nani scalatori), il tutto in un processo sociale dialettico ma anche gnoseologico tra “intellettuali e semplici”, seguendo partizioni di classe sociale, dentro una formazione sistemica che è il partito, al fine di promuovere l’affermazione di un nuovo panorama ideologico, che faccia da premessa ad una nuova affermazione politica.
Abbiamo qui alcuni assunti da precisare: 1) per quanto da modificare, Gramsci ha una “concezione del mondo” (IdM) di profondo riferimento, quella di Marx (non del marxismo, G. anticipa la distinzione “marxiano-marxista” usata variamente da dopo gli anni ’90 qui in Occidente); 2) G. non rinuncia alla partizione sociale di classe stante che quando pensava e scriveva, l’Italia degli anni ’20-’30 del secolo scorso, le classi erano nitide e consistenti (contadini, operai, classe media, classe alta, religiosi, industriali etc.); 3) presuppone come finalità perseguibile, il gioco politico delle democrazie occidentali, attraverso un sistema ritenuto potente quale il “partito”. L’intera storia del PCI ne discende. Dentro questi assunti perimetrali, organizza un pensiero davvero importante e dalle molteplici ricadute, relativamente ai fini che si dava con la sua filosofia della prassi, sostanzialmente la XI Tesi su Feuerbach (mai pubblicate fintanto Marx in vita).
Va notata la stranezza per la quale il G è attivamente studiato nell’accademia anglosassone (soprattutto gli USA), l’intero concetto di “soft power” vi deriva, mentre qui da noi è dimenticato nei polverosi archivi del pensato. Del resto, qui da noi, da almeno trenta anni, non si frequentano più gli archivi del pensato in quanto non si pensa, almeno a quel livello.
Prima di procedere oltre, una breve nota di commento su questo ultimo punto. Nel Q.XI il G. analizza i processi di formazione ed affermazione delle “concezioni del mondo” ovvero quelle che noi chiamiamo qui “immagini di mondo” (tutte riformulazioni del concetto di Weltanschauung che Dilthey trae in implicito dal Kant della KdRV). Come conclusioni brevi della sua analisi segna due punti. Il primo è “non stancarsi mai di ripetere i propri argomenti perché la ripetizione è il mezzo didattico più efficace” consiglio assunto da Goebbels ai pubblicitari fino alla politica da televisione recente e più in generale dalle forme egemoniche liberali-anglosassoni dominanti negli ultimi trenta anni. Il secondo era “lavorare incessantemente per elevare intellettualmente sempre più vasti strati popolari …”. In Italia, negli ultimi trenta anni, l’egemonia più importante l’ha esercitata un personaggio-fenomeno (ovvero un fenomeno che ha avuto vaste ragioni incarnato da un personaggio catalizzatore) che ha operato in osservanza del primo punto e nel ribaltamento simmetrico del secondo: “lavorare incessantemente per degradare intellettualmente sempre più vasti strati popolari, etc.”. Sicuramente, questa idea è stata formalizzata da quell’oscuro consigliere del Principe, palermitano, oggi in carcere e le cui vicende giudiziarie hanno oscurato la sua levatura intellettuale comunque presente e sottovalutata. Questo non spiega tutto della deprimente condizione del pensiero italiano, ma ne è comunque parte consistente.
Tornando al corso principale del nostro pensare con Gramsci, rileviamo alcuni punti critici, non critici del Gramsci ma dell’usabilità della sua ricetta. Il primo punto è il problema delle classi. Al di là del liquidismo baumaniano, abbiamo oggi una teoria sociologica chiara sullo stato delle partizioni e dinamiche sociali nelle nostre società contemporanee? No. Non avendola ci troviamo in un primo pasticcio, non riusciamo ad avere una idea chiara dell’oggetto sul quale vorremmo intervenire. Impossibile modificare il “panorama ideologico” di un’epoca se non si ha conoscenza chiara dell’oggetto sociale (e quindi sul soggetto e/o soggetti promotori di un nuovo programma ideologico).
Il secondo problema è che non abbiamo possibile ricorso all’idea del partito perché l’intero sistema che chiamiamo “democrazia occidentale” si basa su un disguido concettuale: noi continuiamo a chiamare “democrazia” un sistema che non vi corrisponde. Attenzione, chi scrive, non dice che “non vi corrisponde più” come dicono alcuni “risvegliati” recenti, non vi ha mai corrisposto, è un chiaro, longevo e doloroso caso di schizofrenia tra parola e cosa. Pochi o nessuno ha posto attenzione a questo “doloroso caso” per tempo perché il “panorama ideologico” delle teorie politiche era ingombrato da una tesi che usa apposta questa falsa nominazione per confondere ed una antitesi che invece che contestargli l’abuso, farfugliava di elementi misti confusi nell’espressione “dittatura del proletariato”, accluse romanticherie rivoluzionarie, che aveva statuto teorico inconsistente, almeno qui in Occidente.
Il terzo problema chiude e riassume anche gli altri due. Al di là dei mille-ed-uno problemi inerenti la “modifica del panorama ideologico di un’epoca” (sempre Q XI) da analizzare a parte oltre quelli appena accennati, abbiamo noi una “teoria mondo” di riferimento, quale Gramsci l’aveva rispetto a Marx? No. Noi abbiamo molte tesi contro ma nessuna tesi alternativa, quantomeno non in forma di “teoria mondo”. Possiamo avere vaghe immagini di mondo critiche ma nessuna tesi sul mondo che dia alternativa egemonica a quella dominante.
Il post non conclude, è “appunto per il pensiero”. Personalmente, ho la convinzione che i tre punti siano collegati e che risolvendo il secondo (una teoria politica forte della democrazia), applicato al primo (il paesaggio sociale delle società europee occidentali al XXI secolo, a partire dalla nostra), si avrebbe soluzione del terzo. Ma è solo un’ipotesi, un appunto per i “compiti del pensiero” che però volevo condividere con chi è interessato, per provare a “pensare assieme”.
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