intellettuali e popolo, di Andrea Zhok

SU INTELLETTUALI E POPOLO – (PRIMA PARTE)

Il tema del rapporto tra ‘élite’ e ‘popolo’ e quello del rapporto tra ‘intellettuali’ e ‘popolo’ si è spesso intrecciato nell’ultimo secolo e mezzo, da quando due intellettuali borghesi rispondenti ai nomi di Karl Marx e Friedrich Engles hanno prodotto la più radicale critica sistemica del nuovo “modo di produzione delle élite”, il Capitalismo.

Leggendo recentemente il “Diario di uno scrittore” di Dostoevsky mi sono sorpreso della straordinaria similitudine tra i problemi che in quel testo il grande scrittore si poneva e quelli con cui ci troviamo a trattare oggi. Il testo risale agli anni ’80 del ‘800 e discute insistentemente, quasi ossessivamente, del problema dell’identità del popolo (russo); dei rischi di abbrutimento del popolo medesimo; del contrasto tra dimensione cosmopolita delle élite e radicamento del popolo alla terra; della difficile collocazione degli intellettuali, socialmente spesso prossimi alle élite, ma altrettanto spesso critici delle stesse e delle loro forme di vita inautentiche; del rapporto tra la normatività della tradizione, talvolta ottusa e talaltra saggia, e le pretese emancipative delle élite liberali, talvolta illuminate e talatra nichiliste.

Come osservato più volte, lo sviluppo europeo tra il 1870 e il 1914 presenta davvero analogie fortissime con lo sviluppo innescatosi a partire dagli anni ’80 del ‘900. (Ciò, incidentalmente, non lascia presagire niente di buono.) Ma soprattutto ciò ci dovrebbe mettere all’erta rispetto a quella rilevante massa di intellettuali che, siccome ora smanettano su di uno smartphone e fanno il check-in in aeroporto, pensano di essere di fronte a chissà quale straordinario, inedito, rinnovamento dell’umanità, che ne rende la natura e i problemi incommensurabili con tutto quanto c’era prima.

In quest’ottica il problema annoso del rapporto tra ‘intellettuali’ e ‘popolo’, quel problema su cui litigavano Vittorini e Togliatti, dovrebbe essere rimesso al centro della riflessione.
Questo per una ragione tanto semplice quanto radicale: le speranze di un popolo, qualunque popolo, dipendono in modo cruciale dal ruolo giocato dai suoi intellettuali.
Questa frase può suonare come ‘presunzione intellettualistica’ o magari come ‘compiacimento inopportuno’, tuttavia esprime un punto forse frustrante, ma ineludibile. Se l’opposizione ‘popolo’-‘élite’ viene sovrapposta all’opposizione ‘popolo’-‘ceto intellettuale’ – tentazione non rara – l’esito non può che essere catastrofico, e specificamente catastrofico per il popolo.

Tutto questo discorso è oggi rischiosamente avvelenato dalla presunzione con cui una ristretta selezione di rappresentanti ortodossi della ‘ragione liberal-liberista’ sono stati imposti mediaticamente come il ceto ‘competente’ per definizione.
Questa sovrapposizione di tutela ideologica di interessi costituiti e di dichiarazione di ‘competenza’, anche quando non viene accolta nel senso di chi la propone, finisce però spesso per creare davvero una cesura percepita, un sospetto che ‘intellighentsia’ e ‘popolo’ siano in qualche modo destinati a muoversi su binari paralleli e incomunicanti (o difficilmente comunicanti). Questo sospetto, questo pregiudizio serpeggia in molte discussioni, in molte contrapposizioni, in molti argomenti che fanno opinione pubblica, dove la stizza nei confronti di criteri epistemici e di solide pezze d’appoggio argomentative è palese.

Come precisamente siano da configurarsi i rapporti tra ‘intellettuali’ e ‘popolo’ dovrebbe essere oggetto di un’analisi separata, ma una cosa dovrebbe essere tenuta ferma: nessun popolo è in grado di emanciparsi ‘contro’ la ‘cultura dei libri’, ‘contro’ la riflessione economico-sociale, ‘contro’ il sapere storico, ‘contro’ la scienza.
L’idea di sostituire una proficua sintesi tra lavoro intellettuale e lavoro non intellettuale con una qualche idea di ‘popolo’, ‘collettività’, ‘movimento’ o ‘partito’ inteso come un’intelligenza collettiva è un errore fatale, un errore che semplicemente sostituisce, secondo forme note da due millenni e mezzo, la retorica e l’autorità alla ragione e alla ricerca del vero. E ‘ragione’ e ‘ricerca del vero’ non sono qualcosa da plaudire in omaggio a qualche desueta tradizione, ma semplicemente perché restano le armi migliori che abbiamo per far funzionare le cose, che si tratti di processi tecnici e locali o macroscopici e spirituali.

Miserie del neoliberismo, di Teodoro Klitsche de la Grange_ Una recensione

articolo apparso in contemporanea su https://civiumlibertas.blogspot.com/

Alberto Mingardi, La verità, vi prego, sul neoliberismo, Marsilio editori, Venezia 2019, pp. 398, € 20,00.

Di questo libro si sentiva la necessità. Da quando morde la crisi è diventato un ritornello – ripetuto da tanti – affermare che il tutto è dovuto al “neoliberismo” che, tra le tante streghe create dalla fantasia è la più attuale.

Nella realtà azioni, comportamenti, decisioni sono fatti umani e non frutto di astrazioni: il rasoio di Ockham va applicato qui come altrove. Anzi in materia di attività umane è più necessario.

Soprattutto in Italia. È scelta arguta dell’autore aver premesso al testo un passo di Pareto che riportiamo e che da un senso preciso al libro: “Quando qualche storico imprenderà, nel futuro, di narrare la miseria degli anni presenti, è pregato di non darne colpa alla libera concorrenza, perché, quella libera concorrenza, gli italiani non sanno nemmeno dove stia di casa. Sarà, se si vuole, cosa pessima e malvagia, ma infine non si può a essa dar colpa di quei mali che eseguono dove essa non esiste”.

Ora che gli italiani non sappiano “dove stia di casa” la concorrenza (e così  anche il neoliberismo) non è del tutto vero (ma in gran parte lo è): sicuramente vero è che lo sanno meno di altri popoli europei (e non) che non hanno (fortunatamente per loro) avuto governi così stataldirigisti come i nostri, e soprattutto meno voraci e più efficienti.

Mingardi, giustamente, richiama la necessità di una chiarificazione lessicale “Ci sono parole che vengono usate quasi esclusivamente a sproposito: se un tempo avevano un significato chiaro, lo hanno perduto. «Neoliberismo» è una di queste. Che cosa sia di preciso, non lo sappiamo: ma dev’essere una cosa molto brutta”. Per cui a tale termine sono attribuiti i disastri più grandi (tipo il ponte Morandi o il virus Ebola).

La trimurti del neoliberismo, esercitante l’oscura egemonia sul pianeta è composta da FMI, UE, OCSE (nessuno dei quali è – a ben vedere – un paladino della libertà economica). Dietro i quali, le varie consorterie e gli altri poteri forti. La crisi del 2018 ha “alimentato una profonda insoddisfazione nei confronti dello status quo. Questo status quo viene avvicinato a politiche di liberazione dei mercati e di deregulation: le quali in alcuni paesi hanno più o meno avuto luogo, in altri proprio no, e in un caso e nell’altro è improbabile che abbiano smantellato lo Stato sociale. L’insoddisfazione per lo status quo viene comunque indirizzata contro la «mano invisibile»”. In Italia non è proprio così: la mano pubblica ha una larga prevalenza “la spesa pubblica sfiora la metà del PIL, sono in vigore oltre duecentocinquantamila leggi, esistono almeno ottomila società a partecipazione pubblica” onde “alla domanda «chi ha imposto un liberismo sfrenato all’Italia?», spesa pubblica e pressione fiscale (rispettivamente 48,9% e 43% del PIL) suggerirebbero una sola risposta: nessuno, in tutta evidenza”. I problemi che ne derivano (sul piano globale) sono due: quanto neoliberismo vi sia nella globalizzazione e se la situazione possa essere affrontata con “più Stato”.

Quanto alla prima questione l’autore risponde che ce n’è ma non tanto. La spesa pubblica è sempre elevata – e quindi la presenza dello Stato nell’economia. Alla seconda domanda, ovviamente, Mingardi risponde negativamente.

Un libro demistificante, ricco di notizie e di giudizi “fuori dal coro”, che non possiamo riportare per i limiti della recensione.

A questo punto due note del recensore. La prima: i guasti dell’eccessiva presenza dello Stato nell’economia, in Italia in ispecie, non sono provocati solo dalla percentuale di spesa e prelievo pubblico, né dalla notevole presenza di imprese pubbliche, ma, in gran parte, dalle “zone grigie” in cui il privato si confonde col pubblico. Cioè nell’ “amministrativizzazione” delle attività private con permessi, licenze, concessioni, autorizzazioni. Usati dal potere pubblico per il controllo della società (agli amici si da tutto, ai nemici poco o nulla); ma a costo di diminuire efficienza e libertà. Sotto tale profilo, nel periodo della seconda Repubblica, si è fatto poco o niente, e spesso si sono fatti passi indietro nella tutela dei diritti nei confronti dei poteri pubblici.

La seconda: in una classe dirigente in decadenza, tendono a prevalere quelli che Einaudi chiamava andazzieri, che fiutano il vento e fanno mostra di seguirlo. La moda “neoliberista” in Italia ha generato delle privatizzazioni presentate come modernizzazione e conversione della sinistra al mercato. Ma in realtà le suddette erano per lo più realizzate in modo da favorire gli acquirenti (per ovvi motivi) con condizioni generose. In occasione del crollo del ponte Morandi la questione è venuta all’attenzione. Tuttavia, già da prima era sufficiente leggere i bilanci delle imprese che avevano acquisito attività pubbliche per notarne la floridezza; in contrasto con il fatto che quelle dismesse erano – o erano considerate – poco redditizie per lo Stato. Merito dell’imprenditoria privata o delle generose condizioni praticate? Forse un po’ dell’una e dell’altra. Per cui più che a un modello neoliberista ci troviamo di fronte ad uno colbertista (e nel peggiore dei casi ad una svendita di asset pubblici). Di un colbertismo introverso, mirante non alla potenza e ricchezza della nazione, ma agli interessi spicci dei governanti (e di qualche “governato”).

Teodoro Klitsche de la Grange

Libia! Sul palcoscenico e dietro le quinte_di Giuseppe Germinario

L’intervento militare in Libia del 2011 è stato un’onta, una macchia tra le più ignobili nella politica estera solitamente non brillante condotta dalla nostra classe dirigente. Un atto paragonabile ad altre rese che hanno caratterizzato la nostra storia del ‘900 ma con una aggravante: l’essere un atto proditorio, di puro servilismo e platealmente contrario agli interessi del paese. Gli artefici di quella scelta cercarono di minimizzare ipocritamente il ruolo svolto nell’intervento bellico di fatto paragonabile a quello di Francia e Gran Bretagna. Il prezzo che l’Italia ha rischiato di pagare avrebbe potuto essere enorme dal punto di vista della compromissione della credibilità acquisita in decenni nel mondo arabo e nell’Africa Mediterranea. L’eventuale successo di quella impresa, coronata con la tragica e infamante uccisione del colonnello Gheddafi, avrebbe dovuto sancire il cambio di consegne dall’Italia alla Francia  della tessitura delle relazioni in quell’area e della gestione degli interessi geoeconomici per conto del dominus atlantista.

Al prezzo tragico di una destabilizzazione e di una frammentazione del paese quel disegno è clamorosamente e fortunatamente in fase di stallo se non fallito. Ha provocato, con la migrazione di truppe una volta fedeli al colonnello, la destabilizzazione di paesi vicini, in particolare il Mali e il Ciad. Nuovi e vecchi attori, una volta attivi dietro le quinte, si sono nel frattempo ostentatamente inseriti nelle rivalità, una volta controllate dal colonnello secondo le modalità di una confederazione tra tribù e clan e diventate poi ingovernabili con la sua morte. Dalla Turchia, inizialmente ostile all’intervento, ai regimi della penisola araba equamente impegnati nelle varie fazioni, all’Egitto dei militari, alla Russia. L’unico risultato politico evidente è stato la formazione di un Governo di transizione a Tripoli, sostenuto dalla coalizione militare occidentale e inizialmente tollerato dalle varie fazioni, impegnate alternativamente ad acquisire il ruolo di garanti e patrocinatori, ma con l’eccezione determinante del colonnello Haftar, in Cirenaica, sostenuto da Egiziani, Emirati Arabi e Russi e avallato dalla Francia degli ultimi tre presidenti. Poco alla volta il colonnello Haftar è riuscito a ripulire quasi completamente la Cirenaica dai movimenti islamisti, ad impadronirsi dei pozzi petroliferi prossimi alla costa ed ora ad acquisire il controllo del Fezzan, nell’area desertica a sud ricca di giacimenti. Il clan di Misurata, sostenuto dalla Turchia, è ormai indebolito e prossimo ad un compromesso con Haftar. Il Governo di Al Serraji ha perso il sostegno delle tribù filo-Gheddafi, le più numerose di quel paese; è ostaggio ormai delle milizie islamiche insediatesi a Tripoli. Ormai praticamente circondato dal colonnello Haftar. Tanto è bastato per far urlare alla fine della influenza italiana in Libia e al trionfo della Francia di Macron. Il sostegno militare del Presidente Francese, grazie all’intervento dell’aviazione, è stato in effetti importante anche per la conquista del Fezzan.

Ma non è la prima volta, però, che ad un intervento militare impegnativo e massiccio della Francia e ad una azione diplomatica ostentata sia seguito un bottino decisamente magro in termini di vantaggi geopolitici ed economici. Lo si è visto in Siria, in Arabia Saudita e nella stessa Libia. Con esso, tra l’altro, la Francia ha compromesso pesantemente la possibilità di un ruolo di mediazione tra le fazioni. I veri artefici del successo di Haftar sono i Russi e gli egiziani con gli Stati Uniti, nella componente trumpiana, i quali vigilano sornioni.

È il contesto che può consentire all’Italia di riassumere un ruolo di mediazione efficace, in buona parte legittimato dalla recente conferenza di Palermo e di salvaguardare sotto mutate spoglie il nocciolo dei propri interessi strategici in quell’area. I detrattori dalla pesante coda di paglia, come sempre interessati a piegare gli interessi strategici a quelli di bottega, come sempre non mancano all’interno del Belpaese. Li si è visti all’opera anche nel pieno della conferenza di Palermo. Non mancano nemmeno i pessimisti a prescindere i quali vedono un destino irrimediabilmente segnato. Le ostentate scenografie e la frenesia interventista transalpine riescono ad ingannare facilmente questi adepti. In realtà i circa quattromila militari francesi presenti in Africa subsahariana riescono a tamponare i sommovimenti, ma non riescono a costruire alternative politiche in quell’area. Logisticamente sono fragili e poco dinamici; risultano sempre più invisi alle popolazioni. Devono confrontarsi con circa diecimila militari statunitensi, con una capacità logistica e strategica incomparabilmente superiore e con una presenza cinese, civilmente ed economicamente, massiccia, tesa a costruire reti infrastrutturali imponenti; un dato ormai riconosciuto. Ma anche ormai con una presenza militare, di base a Dgjbuti, suscettibile di raggiungere rapidamente le diecimila unità. L’erosione definitiva dell’area francofona appare ormai una possibilità sempre meno remota; il recente patto franco-tedesco, impegnativo anche per quell’area, appare tardivo ed inadeguato a sostenere il confronto geopolitico. Tanto più che le recenti sparate dell’enfant Macron in terra d’Africa, indirizzate ai giovani di quell’area, rappresentano la classica destrezza di un elefante in una cristalleria; hanno solo messo in allarme le stesse élites rimaste a lui fedeli. Si tratta di dinamiche che stanno coinvolgendo ormai altri paesi sino ad ora al riparo, come l’Algeria e la Tunisia, scarsamente controllabili da un paese in declino come la Francia. La prosopopea Jupiteriana che accompagna il velleitarismo di quella classe dirigente non farà che esporla al pubblico ludibrio a differenza dei compagni di avventura più discreti e meno rumorosi di Oltremanica. Le congiunzioni astrali favorevoli, legate all’avvento di Trump e all’insorgenza cinese e russa, non saranno certo eterne. Non per questo sarà possibile un mero ritorno allo statu quo ante agognato dall’enfant prodige e dai suoi mentori statunitensi di sponda avversa a Trump. Il nostro presuntuoso ed arrogante, eletto dai progressisti nostrani addirittura a leader europeista nel continente, in realtà sta offrendo più o meno consapevolmente le risorse e i residui punti di forza del proprio paese come merce di scambio utilizzata dai maggiordomi teutonici ben più gretti e astuti. Abbiamo conosciuto il servilismo ossequioso e dimesso delle vecchie classi dirigenti italiche; ci toccherà adesso assaporare il fiele di quello transalpino, ammantato di vanagloria. A meno che, qualcosa di serio stia maturando dietro le quinte dell’esagono. L’ostinazione e la persistenza del movimento dei gilet gialli lascia presagire sommovimenti dietro le quinte più strutturati che in Italia.

Mentre le élite democratiche si avvicinano ai neoconservatori, gli elettori del partito diventano molto più militaristi e favorevoli alla guerra dei repubblicani. Di Glenn Greenwald

La vulgata corrente e ricorrente vede nei democratici americani la formazione politica meno interventista. Come abbiamo sottolineato in numerosi articoli e podcast la realtà è ben diversa. Questo articolo non fa che confermare quanto sostenuto_Giuseppe Germinario

Fonte: The Intercept, Glenn Greenwald , 11-01-2019

Glenn Greenwald

11 gennaio 2019

L’annuncio del presidente Donald Trump del 18 dicembre sulla sua intenzione di ritirare tutte le truppe americane dalla Siria ha prodotto un sostegno isolato nelle ali anti-guerra di entrambe le parti , ma ha in gran parte provocato indignazione bipartisan all’interno l’establishment riflessivo a favore della guerra a Washington.

Il senatore GOP, Lindsey Graham , uno dei sostenitori della guerra più fidati del paese, e Hillary Clinton , che ha ripetutamente criticato l’ex presidente Barack Obama per la sua mancanza di guerrafondaia, hanno condannato la decisione di Trump in termini molto simili, citando il classico gergo della guerra al terrore.

Ma mentre i vertici di Washington si riuniscono in opposizione, i nuovi dati di Morning Consult / Politico mostrano che una grande maggioranza di americani sostiene l’annuncio del ritiro di Trump dalla Siria: il 49% è a favore contro opposizione del 33%.

Questo non è sorprendente dato che gli americani, per una maggioranza ugualmente importante, concordano con la proposta che “gli Stati Uniti sono stati troppo a lungo impegnati in troppi conflitti militari in luoghi come la Siria, L’Iraq e l’Afghanistan dovrebbero dare la priorità a mettere gli americani fuori dal pericolo “molto più di quanto concordino con l’opinione favorevole alla guerra secondo cui” gli Stati Uniti devono mantenere truppe nei paesi come la Siria, l’Iraq e l’Afghanistan per aiutare i nostri alleati nella loro lotta contro il terrorismo e preservare gli interessi della loro politica estera in questa regione. “

Ma ciò che è notevole nei dati del nuovo sondaggio sulla Siria è che la maggior parte del sostegno per il mantenimento delle truppe in questo paese proviene dagli elettori del Partito Democratico, mentre i Repubblicani e gli indipendenti sono molto favorendo in modo schiacciante il loro ritiro. Le cifre stanno colpendo: tra coloro che hanno votato per Clinton nel 2016, solo il 26% sostiene il ritiro delle truppe siriane, mentre il 59% si oppone. Gli elettori di Trump sostengono in modo schiacciante il ritiro dal 76% contro il 14%.

Un divario simile è stato osservato tra coloro che hanno votato democratici nelle elezioni a medio termine del 2018 (il 28% è favorevole al ritiro e il 54% si oppone), a differenza del sostegno generale al ritiro tra gli elettori del GOP. del 2018: 74% contro il 18%.

Tendenze simili possono essere osservate sulla questione dell’intenzione annunciata da Trump di ritirare metà delle truppe americane attualmente in Afghanistan, dove i democratici sono molto più favorevoli al mantenimento delle truppe rispetto ai repubblicani e agli indipendenti.

Ciò è tanto più sorprendente in quanto nel 2008 Obama si è impegnato a porre fine alla guerra in Afghanistan e riportare tutte le truppe nel paese. Nel corso degli anni di Obama, i dati dell’indagine hanno indicato costantemente che la stragrande maggioranza dei democratici ha favorito il ritiro di tutte le truppe dall’Afghanistan:

Con Trump piuttosto che con Obama, che ora sta sostenendo il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, tutto è cambiato. I nuovi dati del sondaggio mostrano che i repubblicani e gli indipendenti sono molto più favorevoli ai ritiri delle truppe, mentre i democratici sono ora divisi o addirittura contrari. Tra gli elettori di Trump nel 2016 c’è un enorme consenso per il ritiro: tuttavia, gli elettori di Clinton si oppongono al ritiro delle truppe dall’Afghanistan in una proporzione del 37% a favore contro il 47% dell’opposizione.

Quest’ultimo sondaggio è tutt’altro che aberrante. Come Ariel Edwards-Levy di The Huffington Post ha dimostrato all’inizio di questa settimana , sondaggi separati mostrano un cambiamento simile da parte dei democratici su questioni di guerra e militarismo nell’era di Trump.

Mentre i democratici sono stati più o meno equamente diviso all’inizio dello scorso anno sulla questione se gli Stati membri dovrebbero continuare a intervenire in Siria, tutto è cambiato quando Trump ha annunciato la sua intenzione di ritirarsi, che ha causato un enorme aumento del sostegno dei democratici alla permanenza. “Coloro che hanno votato per il democratico Clinton ha detto oggi in una proporzione del 42%, che gli Stati Uniti avevano la responsabilità di fare qualcosa per i combattimenti in Siria che coinvolgono lo stato islamico, ha scritto Edwards-Levy, mentre Gli elettori di Trump hanno dichiarato con un margine di 16 punti che la nazione non ha avuto questa responsabilità. (Tendenze simili possono essere osservate tra gli elettori repubblicani,escalation di bombardamenti in Siria e in Iraq e l’uccisione di più civili , come ha più volte sollecitato durante la campagna – per tornare alla sua altra promessa elettorale di ritirare le truppe dalla regione).

Ovviamente non è la prima volta che gli elettori democratici hanno cambiato radicalmente le loro “credenze” basate sull’appartenenza politica della persona che occupa l’Ufficio Ovale. La base del partito passò Bush-Cheney anni per denunciare la guerra contro le politiche di terrorismo, come l’omicidio, droni e Guantanamo come atrocità morali e crimini di guerra, poi improvvisamente sostenere queste politiche quando sono sono diventati il ​​segno distintivo della presidenza di Obama .

Ma quello che sta succedendo qui è molto più insidioso. Uno dei valori fondamentali di anti-Trump #Resistance è diventato militarismo, sciovinismo e neoconservatorismo. Trump viene spesso attaccato dai democratici che usano scenari di guerra fredda da lungo tempo, usati per decenni contro di loro dall’estrema destra: Trump non è sufficientemente bellicoso con i nemici americani; è pronto a permettere ai paesi cattivi di prendere il potere rimpatriati dai soldati americani; i suoi sforzi per stabilire relazioni meno ostili con i paesi avversari sono un segno di debolezza, persino di tradimento.

Allo stesso tempo, le élite politiche democratiche di Washington si stanno riorganizzando formalmente con i neoconservatori , fino al punto di creare gruppi di politica estera congiunti (un incontro che ha preceduto la conferenza di Trump ). Il principale gruppo di esperti del Partito Democratico, il Centro per il Progresso Americano, donò $ 200.000 al neoconservatore American Enterprise Institute e stipulò alleanze multilivello con le istituzioni guerrafondai. MSNBC, di gran lunga il più influente canale di stampa liberale, è pieno di ex funzionari di Bush-Cheney, funzionari e agenti della sicurezza dello statoMentre persino le stelle liberali sono particolarmente aggressive (dieci anni fa, molto prima che affondasse così lontano nella tana bellicosa e pro-fredda, Rachel Maddow si autoproclamò “liberale in sicurezza nazionale” che era tutti contro l’antiterrorismo “).

Tutto questo ha portato ad una nuova generazione di democratici politicamente attiva per la prima volta, per paura di Trump, sono stati permeata di valori militaristi e imperialiste, addestrato a prendere in considerazione una volta neocons screditati come Bill Kristol, Max Boot e David Frum e gli ex leader della CIA e dell’FBI, come eccellenti specialisti, persone di fiducia che riecheggiano le loro idee. E ‘inevitabile che queste tendenze generano un partito sempre più militarista fredda a favore della guerra, e dati dei sondaggi ora lascia pochi dubbi sul fatto che questa trasformazione – che indugiare a lungo dopo la scomparsa di Trump – è sulla buona strada .

Fonte: The Intercept, Glenn Greenwald , 11-01-2019

La guerra tecnologica e le sanzioni americane finiranno con la bipolarizzazione dell’economia globale. Di Alastair Crooke

Un importante saggio di Alastair Crooke tratto da https://www.strategic-culture.org/news/2018/12/18/america-technology-sanctions-war-will-end-by-bifurcating-global-economy.html e ripreso anche da https://www.les-crises.fr/ che analizza le implicazioni non solo economiche, ma più ampiamente geopolitiche della guerra sui big data intrapresa dai centri di potere statunitensi_Giuseppe Germinario

Fonte: Cultura strategica, Alastair Crooke , 18-12-018

ALASTAIR CROOKE | 18/12/2018

La guerra tecnologica e le sanzioni americane finiranno con la bipolarizzazione dell’economia globale

“La vera ragione della guerra” commerciale “tra Stati Uniti e Cina ha poco a che fare con il commercio attuale … Ciò che è veramente alla base dell’attuale conflitto civile tra gli Stati Uniti e la Cina … sono le ambizioni cinesi di diventare leader nella tecnologia di prossima generazione, come l’intelligenza artificiale, che si affida alla sua capacità o meno di progettare e produrre chip avanzati, ed è per questo che Xi ha promesso 150 miliardi di dollari per rafforzare il settore “, ha affermato Zerohedge .

Niente di nuovo qui, ma dietro questa ambizione c’è un’altra ambizione, e ancora un’altra ambizione e un “problema che ci rifiutiamo di vedere” poco menzionato: che la “guerra commerciale” è anche il primo passo di una nuova corsa agli armamenti tra Stati Uniti e Cina – anche se di un tipo diverso. Questa corsa agli armamenti “di nuova generazione” mira a raggiungere la superiorità tecnologica nazionale a lungo termine attraverso il calcolo quantistico, i big data, l’intelligenza artificiale (AI), i velivoli ipersonici, i veicoli elettronici, la robotica e sicurezza informatica.

In Cina, il piano generale è di dominio pubblico. È “Made in China 2025” (ormai banale , ma tutt’altro che dimenticato). E l’impegno di spesa cinese (150 miliardi di dollari) per prendere l’iniziativa tecnologica – sarà assunto di petto (come dice Zerohedge), “Come una strategia [competitiva] per America First”: ecco perché la “corsa agli armamenti” nella spesa tecnologica … è intimamente legata alla spesa per la difesa. Nota: il FMI prevede che la spesa militare di Stati Uniti e Cina aumenterà in modo significativo nei prossimi decenni, ma il dato più sorprendente è che entro il 2050, la Cina dovrebbe superare gli Stati Uniti, essendo la sua spesa di 4 trilioni [trilione = $ 1000 miliardi] per le sue forze armate, mentre gli Stati Uniti spenderanno $ 1 trilione in meno, ovvero $ 3 trilioni … Ciò significa che entro il 2030, entro circa due decenni, la spesa militare della Cina supererà quelli degli Stati Uniti “.

Questa intimità tra la tecnologia e la difesa nel futuro pensando alla difesa degli Stati Uniti è ovvia: si tratta di dati, mega-data e AI: un articolo di Difesa Uno dice molto chiaramente,

“I domini della battaglia dello spazio e della cibernetica sono ampiamente separati dalla dura realtà fisica della guerra. Per Hyten [generale John E. Hyten, che dirige il Comando spaziale US Air Force], questi due spazi disabitati sono confusi in un altro modo: sono campi di dati e informazioni e questo è ciò che alimenta la guerra moderna. “Quali sono le missioni che stiamo facendo nello spazio oggi? Fornire informazioni; fornire percorsi di informazione; in caso di conflitto, neghiamo agli avversari l’accesso a queste informazioni “, ha detto al pubblico mercoledì alla conferenza annuale della Air Force Association al di fuori di Washington, DC … lo stesso per il cyberspazio.

Gli Stati Uniti fanno la guerra con strumenti che richiedono molte informazioni … Inevitabilmente, sempre più avversari finiranno per usare i propri droni ed elicotteri da combattimento collegati ai dati. Anche la componente di informazione pesante delle armi moderne, in particolare quelle gestite dall’aeronautica, crea vulnerabilità. Questa settimana, i leader dell’aeronautica hanno discusso di come stanno cercando di ridurre la vulnerabilità degli Stati Uniti aumentandola per i loro avversari. “

Quindi, la “prima linea” di questa guerra di commercio, tecnologia e difesa è in realtà focalizzata su chi può progettare e produrre semiconduttori avanzati (dal momento che la Cina è già leader in big data, calcolo quantistico e intelligenza artificiale). E, in questo contesto, il commento del generale Hyten sulla riduzione della vulnerabilità degli Stati Uniti, aumentandolo allo stesso tempo per gli avversari, è di grande importanza: per Washington, si prevede di intensificare i controlli negli Stati Uniti. Esportazione (cioè, per vietare l’esportazione delle cosiddette tecnologie “core” – tecnologie che possono consentire lo sviluppo in una vasta gamma di settori.

E l’apparecchiatura per la produzione di chip, o semiconduttori – che non è sorprendente – è una delle “aree target” chiave in fase di studio.

I controlli sulle esportazioni, tuttavia, sono solo parte di questa strategia di “guerra” di “non divulgazione di informazioni” ai propri avversari. Ma i semiconduttori sono un’area in cui la Cina è davvero vulnerabile: poiché l’industria globale dei semiconduttori poggia sulle spalle di soli sei produttori di apparecchiature, tre delle quali hanno sede negli Stati Uniti. Insieme, queste sei aziende producono quasi tutti gli strumenti hardware e software essenziali per la produzione di chip. Ciò implica che un divieto di esportazione degli Stati Uniti impedirebbe alla Cina di accedere agli strumenti di base necessari per produrre i suoi ultimi modelli di chip (anche se la Cina può rispondere sopprimendo l’offerta di terre rare, da cui dipende questa tecnologia sofisticata).

“Non è possibile costruire una struttura a semiconduttori senza utilizzare le grandi aziende di attrezzature, nessuna delle quali è cinese”, afferma Brett Simpson , fondatore di Arete Research , un gruppo di ricerca azionario. E, come ha osservato il FT [ Financial Times , NdT], “il vero problema non è [come] di progettare chip che producono chip altamente specializzati.”

Ecco la constatazione: gli Stati Uniti sono in competizione sia per le conoscenze tecnologiche “pure” che per l’esperienza e le competenze pratiche della filiera della tecnologia, al fine di respingere la Cina dalla sfera tecnologica occidentale.

Allo stesso tempo, un’altra parte della strategia statunitense – come abbiamo visto con Huawei, leader mondiale nella tecnologia delle infrastrutture 5G (in cui gli Stati Uniti stanno perdendo terreno) – è spaventare tutti se integrano il 5G cinese nelle loro infrastrutture nazionali – con l’arresto di Meng Wanzhou (per violazione delle sanzioni statunitensi).

Anche prima dei suoi “arresti domiciliari”, l’America aveva sistematicamente escluso l’implementazione globale del 5G di Huawei, invocando le parole magiche “problemi di sicurezza” (così come si cerca di impedire che la Russia riesca nella vendita di armi al Medio Est, per ragioni analoghe di protezione tecnica, vale a dire che gli stati non dovrebbero acquistare la difesa aerea russa, poiché ciò gli concederebbe una “finestra” sulle capacità tecniche della NATO).

E, come ha chiarito il generale Hyten, non si tratta solo di aumentare l’interdizione alla tecnologia e il divieto di accesso e promuovere la vulnerabilità degli avversari sui chip, ma gli Stati Uniti prevedono anche di estendere questo divieto alla tecnologia e all’accesso allo spazio, al computer, all’avionica e alle attrezzature militari.

È un’altra guerra fredda, ma questa volta si tratta di tecnologia e “rifiuto dei dati”.

Bene, la Cina, con la sua economia centralizzata, investirà denaro e materia grigia per creare la propria “sfera non monetaria”, linee di fornitura: per semiconduttori, per componenti – per uso civile e militare. Ci vorrà del tempo, ma la soluzione verrà.

Chiaramente, una delle conseguenze di questa nuova corsa agli armamenti tra gli Stati Uniti – e Cina e Russia – è che sarà necessario disfare e riorganizzare linee specializzate e poco sfruttate, ciascuna nella propria sfera: da un lato, i dollari della NATO e, dall’altro, i paesi non-dollari, guidati da Cina e Russia.

E non solo ci sarà questa separazione e l’intrico dis-fisico dalla linea di rifornimento, ma se gli Stati Uniti persisteranno con la loro tattica di “estradizione” in stile Huawei, degna della “guerra al terrore” di Uomini d’affari stranieri, o donne d’affari, accusati di aver violato una qualsiasi sanzione tecnica americana ad ampio spettro, ci sarà bisogno di una riorganizzazione delle sale conferenze miste per impedire che i rappresentanti delle compagnie vengano arrestati e tradotti individualmente. Le restrizioni al movimento dei dirigenti aziendali, le cui attività spaziano su più sfere, sono già in corso (in seguito al tentativo di estradizione di Meng Wahzhou) e al fine di evitare di essere intrappolati nella vendetta, punizione).

Il bipolarismo dell’economia mondiale era già in corso. Ciò può essere spiegato in primo luogo dal regime di sanzioni finanziarie geopolitiche degli Stati Uniti (vale a dire le guerre del Tesoro) – e dai coerenti tentativi degli Stati mirati di dissociarsi dal dollaro. I “falchi della guerra” che circondano il presidente stanno ora inventando una nuova categoria di “crimini tecnologici” da punire – apparentemente per dare a Trump ancora più “influenza” nei suoi tanto desiderati negoziati. Chiaramente, i falchi usano la pretesa di “leva” per schierarsi contro la Cina, la Russia e i loro alleati – per ambizioni molto più ampie del semplice dare al presidente più “carte in mano”: forse piuttosto per riequilibrare l’insieme dei rapporti di forza tra Stati Uniti e Russia e Cina.

L’ovvia e inevitabile conseguenza è stata l’accelerazione della separazione finanziaria della sfera del dollaro e lo sviluppo di una zona non dollaro. In una parola, de-dollarizzazione.

In effetti, gli Stati Uniti sembrano pronti a bruciare il loro status di valuta di riserva, a “salvarsi” – a “rendere l’America di nuovo ricca” (MARA) e a ostacolare l’ascesa della Cina. E mentre brucia l’egemonia del dollaro, l’Amministrazione brucia anche il suo “ordine mondiale”: riducendolo dal “globale” a una sfera ridotta di alleati tecnologici e di sicurezza americani, di fronte alla Cina e alla sfera non occidentale. Le conseguenze domestiche per l’America saranno avvertite dalla nuova frustrazione (per gli americani) di avere maggiori difficoltà a finanziarsi con le stesse modalità degli ultimi 70 anni circa.

Peter Schiff, CEO e Global Strategy Director presso Euro Pacific Capital [Connecticut Brokerage], dice questo :

“Il dollaro – [gli Stati Uniti] hanno la valuta di riserva, [mettono questo stato] … a rischio. E non penso che al mondo piaccia dare all’America quel tipo di capacità di imporre le nostre regole e pretendere che tutto il mondo viva con esso. Quindi, penso che abbia ramificazioni molto più grandi e più ampie di quello che sta accadendo oggi sul mercato azionario. Penso che a lungo termine indebolirà il dollaro e il suo ruolo di valuta di riserva. E quando ciò accadrà, anche il tenore di vita americano subirà la stessa sorte: perché collasserà. “

“La gente pensa che abbiamo il vantaggio perché abbiamo un enorme deficit commerciale con la Cina. Ma penso che sia il contrario. Penso che il fatto che ci forniscano tutti i beni di cui la nostra economia ha bisogno  e il fatto che essi detengano gran parte dei nostri obblighi [debito], e che continuino a prestarci un sacco di soldi per possiamo vivere oltre i nostri mezzi – sono loro, penso, a condurre la danza, e dobbiamo ballare come loro. “

Questa nuova guerra fredda di tecnologia e dati polarizzerà l’economia mondiale in sfere, e sta già polarizzandola politicamente in un nuovo paradigma americano “con noi o contro di noi”. Note politiche :

“La campagna globale dell’amministrazione Trump contro il gigante delle telecomunicazioni  Huawei dirige l’Europa contro se stessa – attraverso la Cina. Nel mezzo di una disputa commerciale tra gli Stati Uniti e la Cina in piena espansione, Washington ha trascorso l’ultimo mese a premere i suoi alleati europei attraverso i suoi ambasciatori per adottare una posizione di chiusura  contro i fornitori di telecomunicazioni cinesi, come Huawei e ZTE.

La spinta americana […] espone le linee di frattura tra gli alleati degli Stati Uniti in Europa e [tra] la comunità di intelligence conosciuta come “Five Eyes” [alleanza di intelligence di Australia, Canada, Nuova La Zelanda, il Regno Unito e gli Stati Uniti – che ha ampiamente seguito l’esempio americano – e altri che resistono alla pressione degli Stati Uniti, senza ricorrere al ricorso alla tecnologia cinese.

Dall’altra parte, c’è la Germania, che vuole la prova dagli Stati Uniti che Huawei rappresenta un rischio per la sicurezza, così come la Francia, il Portogallo e un gran numero di paesi dell’Europa centrale e orientale. .

Gli atteggiamenti sempre più divergenti mostrano come Donald Trump forza gli alleati a prendere le parti in un conflitto globale e misurano i loro interessi economici – spesso profondamente radicati con i fornitori cinesi – rispetto al valore di un’alleanza di sicurezza con Washington. “

La possibilità di una deprezzamento accelerato è un aspetto, ma esiste un altro potenziale difetto inerente al rimpatrio in massa delle linee di rifornimento. Negli ultimi vent’anni i profitti delle società statunitensi sono aumentati. Parte di questo aumento di profitti derivava dalla liquidità “facile” e dal credito “facile”, ma un elemento importante era dovuto alla riduzione dei costi, vale a dire il trasferimento di elementi della produzione statunitense. Costi più elevati (a causa dei livelli salariali, dei costi regolatori e dei diritti dei dipendenti) rispetto a stati meno regolamentati e con salari più bassi.

Potrebbe essere una buona cosa, ma certamente significa che i costi e i prezzi aumenteranno negli Stati Uniti e in America, e i modelli di business saranno compromessi quando questi si trasferiranno. Il tenore di vita degli americani continuerà a diminuire (come previsto da Peter Schiff).

L’alienazione e il malcontento dei “gialli” americani “deplorevoli” ed europei sono ovviamente un problema profondo, che non sarà risolto da una nuova guerra fredda. Le radici del nostro attuale malcontento stanno proprio nella liquidità “facile” e nel paradigma del credito “facile”, che dividono le società tra il 10% della popolazione di asset-asset e il 90% tra i non-asset holder e che ha degradato il senso di benessere sociale e sicurezza.

Ovviamente, questo malcontento può essere risolto solo affrontando la questione del nostro paradigma economico iper-finanziato: ciò che le élite non vogliono o non vogliono “toccare”.

Fonte: Cultura strategica, Alastair Crooke , 18-12-018

Algeria: dietro le enormi manifestazioni di rigetto della candidatura di Abdelaziz Bouteflika a un quinto mandato, il salto verso l’ignoto è assicurato …, di Bernard Lugan

Qui sotto la traduzione di un bollettino informativo di Bernard Lugan riservato agli abbonati. La situazione in Algeria ormai si sta incancrenendo a dispetto o forse a causa delle enormi riserve di idrocarburi alcune delle quali in via di esaurimento altre immobilizzate dalla situazione di paralisi politica e sociale. La maledizione delle economie monoculturali sta per colpire una nazione dal passato glorioso,in prima linea nei movimenti anticolonialisti, ma incapace di completare il processo di emancipazione. L’Italia dipende in buona parte dalle forniture di petrolio e soprattutto di gas del paese. La gestione delle condotte è in condominio con l’azienda di stato algerina SONATRAC, la quale detiene le partecipazioni azionarie maggioritarie sia dei pozzi che dei dotti_Giuseppe Germinario

L’offerta di un quinto mandato al presidente Abdelaziz Bouteflika, morto-vivente silenziato e paralizzato nelle uscite, legato ad una sedia a rotelle, caduto nel patetico, è molto mal vista in Algeria.

La portata delle manifestazioni di rigetto di questa candidatura e con essa di tutti i profittatori del regime, FLN in testa è tale che, senza svolta, il tempo di sopravvivenza del clan Bouteflika sembra contato. Tanto più che le forze di sicurezza appaiono vinte dal dubbio e che l’esercito non è più monolitico.

In ogni caso, si tratta di  un’Algeria in rovina e divisa che erediteranno coloro che hanno il compito molto difficile di cercare di evitare l’affondamento di un Paese fratturato tra arabismo e berberismo con sullo sfondo gli islamisti in agguato. Come faranno a raddrizzare un paese colpito al cuore dall’esaurimento delle sue riserve di petrolio quando il 60% delle entrate di bilancio e il 95% delle entrate in valuta estera dipendono dagli idrocarburi? Secondo l’Ufficio nazionale di statistica del 12 gennaio 2019, nel corso del 3 ° trimestre 2018, il settore degli idrocarburi nel suo complesso è sceso del 7,8%, petrolio greggio e produzione di gas naturale è diminuito del 3% e la raffinazione del petrolio greggio del 12%.

Il calo di produzione e del corso dei prezzi degli idrocarburi comporta una caduta delle rimesse e la necessità che lo stato attinga alle sue riserve in valuta estera per finanziare le importazioni. L’Algeria non produce nulla o in quantità insufficiente, deve infatti comprare tutto sui mercati esterni, sia per l’alimentazione, che semplicemente l’abbigliamento, gli equipaggiamenti e la cura della popolazione.

Le riserve valutarie dell’Algeria che erano di 170 miliardi di euro nel 2014, prima del crollo del prezzo del petrolio, sono poco più di 62 miliardi nei primi mesi del 2019, secondo le proiezioni, si raggiungeranno 34 miliardi entro il 2021.

In queste condizioni, come può  comprare la pace sociale con la crescita della popolazione che cancella ogni possibilità di sviluppo? Come affrontare un Algeria sul punto di deflagrare con un tasso di disoccupazione giovanile pari ad almeno il 40%, un enorme miseria sociale, un settore industriale inesistente, un’agricoltura in rovina, il sistema bancario d’altri tempi e una amministrazione apoplettica?

Come riavviare l’Algeria saccheggiata dai satrapi della nomenklatura incistata intorno al clan Bouteflika e che tra il 2000 e il 2015, quindi prima del crollo dei prezzi, ha “sperperato”  600 miliardi di $ provenienti dalla vendita di idrocarburi, in ” deflussi “di diverse centinaia di miliardi di dollari più oltre 100 miliardi di dollari spesi” a discrezione dei governi “(El Watan 31 Gennaio 2016), eufemismo delicata che maschera l’opacità della loro destinazione …?

Nessuno vorrà rivendicare una tale eredità, nessuno vuole associare il suo nome con decenni di implementazione delle risorse pubbliche a servizio di un clan familiare; la rottura è quindi annunciata. A beneficio di chi? Il futuro ormai prossimo lo dirà.

Bernard Lugan

DRAGHI E SPINOZA, di Teodoro Klitsche de la Grange

DRAGHI E SPINOZA

Nella prolusione in occasione del conferimento della laurea honoris causa dell’Università di Bologna Draghi ha espresso un concetto che, nella sua semplicità, è da qualche secolo oggetto di riflessione di tanti pensatori. Ha detto il governatore della BCE che l’indipendenza degli Stati non ne assicura la sovranità. In particolare Stati (giuridicamente) indipendenti che di fatto non lo siano, ad esempio, per insufficienza alimentare, godrebbero di “sovranità limitata” (e non dai carri armati del patto di Varsavia).

In effetti Draghi, quanto alla non equivalenza di diritto o indipendenza di fatto ha ripetuto quanto affermato più volte. Santi Romano (tra i tanti) scriveva che «essendo la comunità internazionale, di regola, paritaria, nel senso che i suoi membri non dipendono l’uno dall’altro, ciascuno di essi… si dice che ha una sovranità perché non è in una posizione subordinata verso altri soggetti». Tuttavia, proseguiva, tale regola non è assoluta; ma derogarne è sicuramente un’eccezione. Ed occorre distinguere «l’appartenenza ad un’unione amministrativa o alla Società delle nazioni, tanto meno una semplice alleanza, non significa da per sé perdita della sovranità», a differenza dei protettorati.

La distinzione tra l’una e l’altra categoria di Stati per così dire «a sovranità limitata» (o a indipendenza relativa) consiste sotto il profilo giuridico, dalla assenza, nel primo caso (protettorati, colonie) di una (completa) capacità internazionale, e sul piano interno dalla presenza di organi di «controllo» nominati dallo Stato protettore (ovvero dominante).

Bodin, il quale del concetto moderno di sovranità è il creatore, sosteneva che un principe che sia tributario o feudatario di altri non è sovrano «Abbiamo detto poc’anzi che si può dire sovrano solamente chi non dipende, eccezione fatta per Dio, altro che dalla sua spada. Se uno dipende da altri non è più sovrano». Così la sovranità equivale o almeno presuppone l’indipendenza. Anche quando Bodin elenca le varie Marques de la Souveraineté (fare leggi, nominare funzionari, ecc.) aggiunge sempre “senza il bisogno del consenso di nessuno”.

Nella specie è sicuramente vero che la sovranità – intoccabile in diritto – è comunque condizionata dai rapporti di forza (cioè di fatto): rapporti che possono essere di natura politica, ma anche economica, religiosa od altro. Tuttavia se l’indipendenza non garantisce la sovranità (di fatto), ne è comunque il presupposto necessario (nel senso di condizione necessaria ma non sufficiente). Occorre altro. Infatti non dipendere da altri Stati o “poteri forti“ non significa avere il potere di (esistere e di) agire ma semplicemente di non essere soggetto a quello altrui.

Onde il concetto di sovranità comprende un altro – e più decisivo – aspetto, evidenziato da Spinoza. Scriveva il filosofo olandese che – nello stato di natura, in cui si trovano gli Stati – vale la regola tantum juris, quantum potentiae. Nel senso che se il diritto non condiziona il potere è questa a limitare quello “Se, dunque, la potenza per cui le cose naturali esistono e operano è la medesima potenza di Dio, è facile capire che cosa sia il diritto naturale… ciascuna cosa naturale ha da natura tanto diritto quanta potenza a esistere e a operare… perciò il diritto naturale dell’intera natura, e conseguentemente di ciascun individuo, si estende tanto quanto la sua potenza” onde, per gli Stati “risulta evidente che il diritto di sovranità o dei sommi poteri non è altro che il medesimo diritto naturale determinato dalla potenza… quel composto di corpo e di mente che è lo Stato ha altrettanto diritto quanta è la potenza che sviluppa”. Ne deriva anche che dove non c’è potentia (o ce n’è poca) non c’è neppure jus: nulla potentia, nullum jus (aggiungendo il nostro latinorum).

Per cui se è vero che la sovranità è un assoluto che non tollera limiti giuridici è anche vero che sopporta quelli di fatto, a cominciare da quelli ontologici (non possono compiersi né comandare comportamenti impossibili) fino a quelli dati dal limite della potenza propria o imposti dal potere altrui. Dato che “due Stati si trovano tra loro come due uomini allo stato di natura”, “Lo Stato dunque, in tanto è autonomo in quanto è in grado di provvedere alla propria sussistenza e alla propria difesa dall’aggressione di un altro; e intanto è soggetto ad altri, in quanto teme la potenza di un altro Stato o in quanto ne è impedito dal conseguire ciò che vuole o, infine, in quanto ha bisogno del suo aiuto per la propria conservazione o per il proprio incremento”.

Per cui anche se il Presidente del Sao Tomé (o di tanti altri Stati e staterelli del mondo) è un dittatore onnipotente, un sovrano assoluto, il suo comando può regolare illimitatamente la curvatura delle banane e la pesca delle ostriche, ossia quanto rientra nella sua potentia; ma, nella comunità internazionale è un peso-mosca.

Quindi anche se appartenere ad istituzioni internazionali è un limite giuridico (all’indipendenza) può talvolta diventare un moltiplicatore di sovranità (nel senso di Spinoza). Tornando a Draghi, anche se è vero quanto pensava Spinoza, lo è anche che l’indipendenza è condizione  necessaria della sovranità, e che rinunciare a parte di quella per ottenere un po’ più di questa è una scelta appartenente al sovrano, popolo o monarca che sia; e questo ha il diritto di farlo in piena indipendenza (di diritto) come pensano (oggi) i sovran-populisti.

Teodoro Klitsche de la Grange

SALVATE IL SOLDATO ESPOSITO di Marco Bertolini

Non tutti se ne sono accorti, ma con la fine della leva che proiettava le nuove Forze Armate in una dimensione nuova, è scomparso il Soldato. E’ scomparso realmente, materialmente, anche e prima di tutto da un punto di vista semantico, terminologico. Ed è scomparso anche come “grado”, seppellito da un ammasso di “caporali” “caporal maggiori”, “caporal maggiori scelti”, “caporal maggiori capi scelti” e “caporal maggiori capi scelti con qualifica speciale”, promossi indipendentemente dalla funzione, che relegano il vecchio “soldato semplice” ad una specie transeunte in via d’estinzione, riservata a poche reclute nei primi mesetti di servizio.

Al suo posto, è comparso il “Volontario”, titolare di un termine ambiguo che lo doveva rendere meno sospetto per la classe politica, non solo in questo periodo infastidita da tutto quello che sa di militare; termine che – a orecchio – lo confonde coi molti benemeriti volenterosi della nostra realtà nazionale, quelli delle Misericordie, delle Croci Rosse e dei Vigili del Fuoco, ma anche con quegli operatori normalmente ben remunerati delle ONG che si occupano di traghettare in Italia i clandestini in afflusso dalle coste libiche.

La scelta di questa definizione civettuola nascondeva un’avvilente pulsione al “travestimento”, una presa di distanza dal passato, come se il titolo di Soldato fosse andato stretto alla nostra realtà tecnologica, come se ce ne dovessimo vergognare! Forse, un motivo tra i tanti di questa scelta è da ricercare nel fatto che Volontario si declina meglio al femminile (Volontaria) del termine Soldato (Soldata? Soldatessa?); e questo non è un dettaglio per un’istituzione che si è dovuta aprire all’arruolamento femminile sulla spinta di istanze politiche che non puntavano a sfruttare l’indubbio valore aggiunto della femminilità in selezionati settori dell’orbe militare, quanto piuttosto a mettere la sordina a quel complesso di sgradevoli e politicamente scorrettissimi valori “virili” che lo caratterizzavano. Da questo rinnegamento sono poi scaturiti altri “frutti” tutt’altro che gustosi, come il venir meno di standard fisici che erano normali, oltre che ovvi, ai tempi della leva e che ora avrebbero il sapore di ingiusti ostacoli per le “pari opportunità” da assicurare a tutti, alti e bassi, belli e brutti, maschi e femmine, omo ed etero.

Contemporaneamente, è entrato di gran voga il termine “professionista”, per dare una asettica connotazione “lavorativa” al mestiere delle armi. I recenti provvedimenti volti a consentire l’associazionismo sindacale nell’ambito della Difesa derivano, in fin dei conti, da questa nuova prospettiva, mettendola alla mercé di frotte di faccendieri autoproclamatisi esperti di misteri militari e di stuoli di azzeccagarbugli specializzati nella “tutela dei diritti”, anche i più turpi, che fino ad ora sarebbero stati trascurati o addirittura conculcati da Comandanti col monocolo chiusi nelle torri eburnee dei propri Circoli Ufficiali. Cosa c’è di meglio, insomma, di una catena di comando parallela a quella tradizionale, che misuri i passi dei Comandanti, ne registri le parole, gli sguardi imbronciati, ne vagli gli ordini, gli atteggiamenti e ne stronchi i cazziatoni? Una catena di occhiuti inquisitori, non trasferibili e intoccabili, magari al riparo dagli obblighi dell’indice di massa corporea, che ci sbarazzi una volta per tutte del precetto della subordinazione militare, fastidioso caposaldo della militarità “vera”. Ha gettato una luce sinistra, ma chiara, sulle motivazioni di quest’ultimo provvedimento un recente “post” su FaceBook di un attuale sottosegretario alla difesa, con il quale lo stesso si è permesso di utilizzare uno spezzone di un noto film sulle ultime ore di Hitler per irridere con una serie di luoghi comuni le “vecchie” Forze Armate, quelle pre-sindacali e pre-antinfortunistica che per un paio di guerre mondiali, con tutto quello che c’è stato in mezzo, e tre quarti di secolo hanno servito l’Italia. Il Ministro ha preso le distanze da un’iniziativa certamente non adeguata da parte di un componente del vertice della Difesa; ma a tutt’ora il sottosegretario è ancora lì, adeguatezza o meno.

Tornando a noi, questi “professionisti” hanno portato all’eclisse del soldato, termine al quale si ricorre raramente, per lo più quando lo si può aggettivare con l’espressione “…di pace”. Non c’è dubbio che la pace sia un bene al quale teniamo tutti (anche se a ben vedere qualche pazzo scatenato che soffia continuamente sul fuoco delle guerre – anche civili – c’è sempre), ma l’imbarazzo che deriva dalla constatazione che non esiste ancora nessuna risorsa migliore dell’uomo col fucile per tutelarla ha portato a inventare l’ossimoro del “soldato di pace”, chiara contraddizione in termini, vuota affermazione retorica priva di significato. Un po’ come “paese denuclearizzato” o “città della pace” che campeggia sui risibili cartelli stradali di tanti nostri borghi più o meno di provincia.

Inoltre, tale aggettivazione lascerebbe intendere che in essa risiede la vera nobiltà del militare di oggi, quasi fosse una giusta presa di distanza da chi non poteva fregiarsene, i nostri vecchi: quelli che abbiamo ricordato l’anno scorso in occasione del centenario della Vittoria; quelli che erano i destinatari di antichi monumenti nelle nostre piazze, inaugurati alla presenza di vedove ed orfani commossi ed oggi spesso oltraggiati da imbrattamuri senza fantasia consapevoli della propria impunità; quelli che tra di loro si consideravano camerati, o commilitoni per usare un nobilissimo termine coniato da Cesare stesso, e non colleghi, come con civetteria è in voga oggi anche a livello truppa; quelli che non avevano bisogno di travestirsi da “soldier of fortune de noantri” con tutti gli ammennicoli del caso: berrettino da baseball e pecetta nera ad occultarne gli occhi nelle foto, come si trattasse di agenti dei Servizi in missione speciale e non di spavaldi rappresentanti di un paese grande e pulito.

La negatività di questo approccio culturale diventa, se possibile, ancora più odiosa quando applicata alla categoria dei “Caduti”, quando il soldato che perde la vita in operazioni viene commemorato e onorato soprattutto perché “Caduto per la pace”, quasi che non bastasse il fatto che abbia sacrificato tutto “solo” per il Dovere. Ne consegue un’indotta graduatoria morale, per la quale il soldato caduto semplicemente in guerra ottanta o cent’anni fa sarebbe meno meritevole del nostro affetto e della nostra riconoscenza di quello che ha perso la vita distribuendo aiuti umanitari o prendendosi a fucilate col talebano di turno.

Per concludere queste riflessioni nelle quali ho voluto parlare solo di parole – dalle quali peraltro derivano deviazioni, e malattie, che intaccano la realtà – vorrei soffermarmi su un’altra idea falsata, per la quale le Forze Armate sarebbero semplici strumenti per fronteggiare ogni (ogni!) situazione di emergenza, ovunque si manifesti. E’ il precetto del “doppio uso”, termine utilizzato come una clava per convincerci che altro non sarebbero che una specie di Protezione Civile più o meno “militarizzata”, pronta ad intervenire dopo la prima scossa di terremoto e solo in ultima istanza in contesti bellici, dai quali il dettato costituzionale ci metterebbe al riparo, con un semplice artifizio retorico. Un ribaltamento di prospettiva incredibile, se si tiene conto che è solo grazie all’addestramento all’impiego in contesti bellici che le Forze Armate, soprattutto l’Esercito, furono in grado in passato di prestare la propria entusiastica e meritoria opera di soccorso alle popolazioni vittime di calamità e di proporsi quale esempio per chi sentì finalmente il bisogno di dotare l’Italia di una Protezione Civile efficiente. Si è, così, persa l’occasione di affermare semplicemente che le Forze Armate sono uno dei principali strumenti di Politica Estera del nostro paese, con il quale l’Italia può affermare i suoi interessi, funzione essenziale e non delegabile ad altri nel momento storico attuale. E chi conosce il rispetto e anche l’ammirazione che i nostri militari si sono guadagnati in tutto il mondo, sa di cosa parlo. Dovrebbero saperlo anche coloro che per motivi banalmente politici hanno l’onore di esserne al vertice, seppur temporaneamente; ma questa è un’altra triste storia.

Lungi dall’aver la pretesa di rappresentare, in tale contesto, lo strumento risolutivo per ogni situazione, i nostri uomini dovrebbero essere quindi considerati, in Afghanistan come in Libano, Somalia, Iraq, Niger o Libia, degli ottimi “alzatori di palla” che altri potrebbero e dovrebbero “schiacciare” nell’interesse di tutti, e l’osservazione di quello che fanno al proposito altri Paesi a noi molto vicini potrebbe essere illuminante.
Insomma, per quel che ci riguarda, per sostenere questa realtà e quella nella quale i nostri soldati vivono ogni giorno, pericolosamente, il primo dovere che dobbiamo rispettare è quello di coltivare una freschezza e chiarezza di idee che non può essere disgiunta da un corretto uso delle parole.
Che non sono solo fiato al vento, ma pietre, come sanno anche i sassi (appunto!).

Marco Bertolini

North Stream 2: il conflitto si sposta nell’Ue, di Piergiorgio Rosso

tratto da http://www.conflittiestrategie.it/north-stream-2-il-conflitto-si-sposta-nellue-di-piergiorgio-rosso

La saga del gasdotto North Stream 2 (NS2) continua e potremmo dire con una certa vivacità. Nel precedente articoloconcludevamo l’analisi con queste parole: “ … Si rinforza a nostro parere l’ipotesi secondo cui la via d’uscita che i tedeschi stanno esaminando prevede la costruzione del NS2 ma con una diversa regolazione dei gasdotti transnazionali, affidata ad organismi dell’UE” E’ quello che hanno concordato a livello UE Francia e Germania ma non senza colpi di scena significativi.

Mentre la costruzione del gasdotto procede con la posa di qualche kilometro di tubazione ogni giorno che passa, la cronaca recente ci racconta che è stata discussa tra i ministri dell’energia della UE una nuova proposta di legge (Direttiva) europea – sponsorizzata dall’UE, dalle nazioni di Visegrad e soprattutto … dagli USAche prevedeva l’estensione dell’applicazione dei principi di separazione societaria/proprietaria fra rete, operatore e venditore del gas naturale anche ai gasdotti internazionali che connettono l’UE a paesi terzi. Questa versione avrebbe affossato del tutto l’operatività del NS2 – forse la sua stessa costruzione – che saràutilizzato da Gazprom per vendere il suo gas, detenendone la quota maggioritaria. Gazprom mantiene a tutt’oggi il monopolio per l’esportazione di gas russo, garantito da una legge del Cremlino.

La Germania si è sempre opposta a tale versione rigida della proposta di Direttiva. La Francia aveva pochi giorni fa fatto sapere che l’avrebbe appoggiata, garantendone pertanto una prima approvazione nel complicato processo approvativo europeo. Un vero e proprio attacco frontale agli interessi strategici tedeschi. Sono bastate 24 ore affinché si addivenisse ad un compromesso, fra Francia e Germania, che prevede che sia lo Stato membro con il quale il gasdotto internazionale si connette per primo a “gestire la supervisionedell’applicazione della Direttiva sul suo territorio e nelle sue acque territoriali. Cosa abbia ottenuto la Francia in cambio non è dato sapere, ma trattandosi di questione di primaria importanza per la Germania – che ha annunciato di recente di voler dismettere tutte le centrali a carbone entro il 2038, mentre quelle nucleari saranno spente entro il 20122 – sicuramente non si tratta di quisquilie.

La Direttiva dovrà essere discussa nel Parlamento europeo nei prossimi mesi. La sua applicazione nella versione di compromesso non impedirà certo la costruzione del NS2, ma ne complicherà l’operatività dovendo questa essere vagliata dai burocrati di Bruxelles cui ovviamente la Germania si dedicherà con sapiente e generosa “solerzia”.

Inseriamo nel quadro politico-energetico la notizia secondo cui martedì scorso il ministro dell’economia tedesco Altmeier ha affermato davanti ad una platea di lobbisti industriali tedeschi ed americani, di sentirsi molto ottimista rispetto alla possibilità che la Germania si doti di due se non tre rigassificatori di GNL che potrebbe arrivare dagli Stati Uniti.

Per completare il quadro infine leggiamo la notizia del blocco della costruzione del gasdotto South Transit East Pyrenees(STEP) tra Francia e Spagna (vedi figura). In un’ottica di “unione energetica” questo gasdotto avrebbe permesso il collegamento dei terminali di rigassificazione del GNL spagnoli – oggi largamente sottoutilizzati – con il cuore della rete di gasdotti dell’Europa Centrale, un’iniziativa che avrebbe molto senso nell’ottica della diversificazione delle fonti e della sicurezza degli approvvigionamenti per le nazioni europee affamate di energia ed in crisi di produzione autoctona. Ma i regolatori spagnoli e francesi hanno decretato che il gasdotto non serve, è troppo costoso e non supera l’analisi costi-benefici! Più realisticamente si potrebbe pensare che la sua realizzazione avrebbe danneggiato il monopolista francese Engie da una parte e portato intollerabili vantaggi alla ribelle Catalogna dall’altra.

Possiamo concludere questa sintetica analisi notando che una effettiva unione energetica europea rimane una prospettiva irrealistica e solo retorica, mentre le principali e più assertive nazioni europee pensano – meglio sarebbe dire si illudono – che la propria sicurezza energetica possa essere raggiunta in modo più efficace e vantaggioso decidendo individualmente. Con l’effetto per nulla secondario che ognuna di esse si ritrova a dipendere ancora di più dell’egemone al di là dell’Atlantico, gli USA, che si impongono come vettori energetici di riferimento nell’Europa orientale – a costi superiori per i cittadini –  aprono nuove teste di ponte in Germania, alimentano a spot altri Paesi come Spagna e Italia e si impadroniscono di una rete chiave in Ucraina.

Italia, amaramente, non pervenuta.

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SOVRANISMO EUROPEISTA O “INTER-NAZIONALISMO” EUROPEO? UNA BREVE REPLICA A FRANCO CARDINI, di Fabio Falchi

SOVRANISMO EUROPEISTA O “INTER-NAZIONALISMO” EUROPEO? UNA BREVE REPLICA A FRANCO CARDINI

il link di riferimento http://italiaeilmondo.com/2019/02/18/per-un-sovranismo-europeista-di-franco-cardini-tratto-da-https-www-vision-gt-eu-wp-content-uploads-2019-02-ad_6_2019-pdf/
“Per un sovranismo europeista”* di Franco Cardini (uno degli intellettuali italiani più lucidi e capaci)  è certo un articolo che merita di essere letto, giacché, oltre ad evidenziare i gravi limiti di un “sovranismo” che rischia di configurarsi come una forma di nazionalismo “incapacitante” nell’attuale fase multipolare**, offre l’occasione per una riflessione critica sulla questione della costruzione di un autentico polo geopolitico europeo. Infatti, pure a Cardini si possono – e si devono – rivolgere diverse critiche. Vediamone brevemente alcune1) Cardini (ma non è il solo) pare non tener conto che civiltà e cultura si collocano su un piano distinto (benché non irrelato) da quello geopolitico. Ad esempio, la civiltà e la cultura greca erano imperniate sulle poleis che continuarono a farsi la guerra pure dopo la guerra del Peloponneso, finché le poleis dovettero riconoscere la supremazia del regno macedone.
Insomma, civiltà e cultura (europea) non bastano per dar vita ad un soggetto geopolitico (europeo).2) Cardini difende un sovranismo europeo, ma nulla dice del debito sovrano dei singoli Stati europei. Dovrebbe allora esserci un unico debito pubblico europeo? E la Germania che non ha voluto nemmeno gli eurobond accetterebbe? Quello che le banche tedesche e francesi hanno fatto alla Grecia non ha nulla da insegnare? Inoltre, è davvero possibile che un generale greco o italiano possa comandare la difesa europea, inclusa la force de frappe? E quale dovrebbe essere la politica estera dell’Europa? In altri termini chi deciderebbe? La Germania vuole un seggio all’Onu (e non ne vuole sapere di un seggio europeo) e la Francia non è certo disposta a rinunciare al suo. Come la mettiamo allora con il sovranismo europeo?
3) Cardini da un lato sostiene che l’Europa dovrebbe smarcarsi dai potentati economici e finanziari, che ritiene dei poteri “transnazionali”, dall’altro però pensa che per riuscirvi l’Europa si dovrebbe sganciare dall’America, ossia da uno Stato nazionale. La contraddizione è palese, perché in pratica questo equivale a riconoscere che i potentati economici e finanziari sono e non sono “transnazionali” in quanto di necessità “agganciati” a precisi centri di potenza (geo)politici, ossia in quanto non possono non agire in sinergia con uno Stato nazionale egemone o con più Stati nazionali (anti-egemonici o sub-dominanti), che del resto sono ancora i principali attori geopolitici sulla scacchiera globale. Difatti, solo gli Stati possiedono i mezzi di coercizione (satelliti, missili, aerei, navi da guerra, forze corazzate, servizi, polizia, tribunali, prigioni, ecc.) per “regolare” i rapporti internazionali. D’altronde, è forse possibile spiegare la guerra in Siria o il conflitto israelo-palestinese o lo scontro tra Israele e l’Iran o la questione dell’Ucraina o la guerra dell’Arabia Saudita nello Yemen o il terrorismo islamista e via dicendo “solo” con il potere della finanza o la geoeconomia? Ovviamente no. Qualunque riflessione sulla questione di uno spazio geopolitico europeo e della “sovranità nazionale” quindi dovrebbe perlomeno tener presente che per comprendere la realtà geopolitica occorrono non solo categorie economiche o “ideologiche” ma anche e soprattutto categorie politico-strategiche.D’altronde è noto che terminata la Seconda guerra mondale gli americani erano disposti ad appoggiare i vari movimenti nazionalisti del Terzo Mondo. Tuttavia dovettero riconoscere che pure i comunisti erano nazionalisti. Come allora giustificare la lotta contro il comunismo? Il problema lo risolsero sostenendo che i comunisti non erano veri nazionalisti.
In realtà, era vero l’opposto. Ho Chi Minh, ad esempio, era comunista ma pure nazionalista dalla punta dei piedi fino alla punta dei capelli, per così dire. Il fatto che i vietnamiti comunisti fossero nazionalisti  rappresentava la regola non l’eccezione per quanto concerne le varie lotte di liberazione dopo la Seconda guerra mondiale.
In questa prospettiva, si dovrebbe allora comprendere che oggi più che di un sovranismo europeista vi sarebbe bisogno di una lotta di liberazione nazionale dei popoli europei, ossia di una “Internazionale” dei popoli europei. In definitiva oggi essere “inter-nazionalisti” significa sia difendere il “senso di appartenenza” che opporsi al capitalismo predatore neoliberale ovvero opporsi tanto all’euro-atlantismo (mascherato da europeismo) degli eurocrati quanto all’imperialismo neoatlantista di Trump e Bannon.
*Vedi https://www.vision-gt.eu/platform-europe/per-un-sovranismo-europeista/?fbclid=IwAR3IuoODDScZH4zjsiWOZQ_P-Z5TEQBngxxQvY9hW4-rkPDEmVocx2lQD6g
** Tuttavia, si deve distinguere tra diverse forme di nazionalismo. Un conto è lo sciovinismo, che genera intolleranza e xenofobia, un altro il patriottismo, ovverosia la difesa del “senso di appartenenza” ad una terra, ad una cultura, ad un popolo. In quest’ultimo caso non si può certo parlare di nazionalismo ottuso, basti pensare alle lotte di liberazione nazionale.
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