FIN(e)CANTIERI, a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto il testo apparso sulla rivista “Difesa Online”  con una valutazione molto critica dei contenuti dell’accordo che si va profilando tra l’italiana Fincantieri e la francese STX riguardo al settore della cantieristica navale. Già quattro anni fa in un paio di articoli avevo trattato di un “misterioso documento”, redatto da una inesistente Lisa Jeanne, riguardante le problematiche e il futuro di Finmeccanica, compresa la divisione cantieristica navale. ( http://italiaeilmondo.com/2017/09/13/astri-nascenti-stelle-cadenti-mine-vaganti-2a-parte-di-giuseppe-germinario-gia-pubblicato-sul-sito-conflittiestrategie-it-il-28112013/  in particolare il paragrafo “LE ASPIRAZIONI NASCOSTE DI LISA JEANNE”). Già da allora si paventava il declino inesorabile e il rischio della perdita di controllo della gestione di una azienda strategica; una delle poche capaci di sviluppare tecnologia, di garantire un minimo di autonomia produttiva nel sistema della difesa e di trasferire nel produzione civile le competenze acquisite. Da allora sono stati compiuti ulteriori decisivi passi indietro nella cessione di queste competenze tecniche e nel controllo delle produzioni del complesso militare. Una scelta colpevole già anni fa, addirittura masochistica e criminale in una fase di incipiente multipolarismo nella quale l’ambito della produzione militare strategica, compreso quello navale, non solo viene sempre più tutelato dagli stati decisi a salvaguardare in qualche maniera la propria autonomia decisionale, ma risulta decisivo, grazie alle crescenti commesse e ai maggiori margini economici, al mantenimento della stessa cantieristica civile e delle stesse produzioni civili ad alto contenuto tecnologico. L’Italia, al contrario, con la cessione della Avio, del Nuovo Pignone, con l’assorbimento di Selenia era già sulla strada di un inesorabile declino e una inevitabile sudditanza. Altri settori apparentemente estranei a questi ambiti, come quello della ceramica e della siderurgia specializzata, seguivano la stessa strada. Da allora il cammino è apparso inarrestabile. Ad esso si aggiunge, in conclusione, l’intenzione di Leonardo di concentrarsi sulla sola elicotteristica civile ed ora di Fincantieri nella costruzione di navi commerciali, settori i quali consentono produzioni dai margini ben più ridotti, poco compatibili con livelli elevati di ricerca. Con il rischio sempre più tangibile di vedere ridimensionati, nel medio termine, anche questi settori. Questo dovrebbe essere uno dei temi fondamentali da trattare per chi volesse realmente costruire una forza politica di interesse nazionale, contrapposta alla palude crescente del nostro scenario politico. Altri temi, come quello dell’immigrazione, pur importanti, dovrebbero fungere da corollario. Sarebbe finalmente il discrimine qualificante tra una forza politica in grado di formare una classe dirigente seria, capace di governare e indirizzare un paese ed una invece esposta e vittima di facili demagogie. Qui sotto il testo e il link di riferimento:

 

FINCANTIERI: THE FRENCH CONNECTION E L’ITALIAN JOB

( http://www.difesaonline.it/evidenza/lettere-al-direttore/fincantieri-french-connection-e-litalian-job )di Damiano Trieste)
11/09/17

L’accordo è ormai cosa fatta. I titoli Fincantieri sono infatti in salita da alcuni giorni ed è ricominciato il mantra celebrativo della nascita del polo franco-italiano della cantieristica militare. Il compito è convincere gli italiani che quella che promette di essere una sonora sconfitta in realtà sarà una luminosa vittoria del nostro capitalismo di Stato. I dettagli non sono ancora noti. Ci avventuriamo però in un’ipotesi (sperando di essere in errore), basata sul pessimismo che la storia recente del nostro Paese e dei suoi centri di potere impone. La nostra sfera di cristallo dice che la soluzione adottata, dopo i proclami indignati dei nostri governanti come reazione per la rimessa in discussione da parte di Macron degli accordi già sottoscritti, privilegerà la Francia a scapito l’Italia, nel senso, per essere concreti, del nostro Pil, dei livelli occupazionali, etc..

Ecco quindi la mossa del cavallo con cui Macron farà scacco matto all’Italia (magari con lo zampino di qualche “fraterno” amico italiano): dare vita a un Polo europeo della cantieristica, suddiviso in due rami. A Fincantieri la gestione, ancorché sotto tutela del governo francese (che non cede la maggioranza della proprietà), del nuovo gruppo industriale Saint Nazaire-Fincantieri per il mercantile; alla francese Naval Groups il controllo del ramo militare di Fincantieri (quello redditizio).

L’impresa che tanto ci aveva inorgogliti, finalizzata alla conquista di un pericoloso concorrente francese, si sta trasformando nel soccorso, con fondi pubblici, ai cantieri di Saint Nazaire per non farli fallire e nella cessione al gruppo francese Naval Groups del controllo della nostra Industria Navalmeccanica militare, con conseguenze pesanti anche per Leonardo. Un bel colpo di scena, non c’è che dire.

Considerato il rapporto di forza fra Naval Groups e Fincantieri militare, la prima capacità a essere anemizzata (come sempre è accaduto nei casi precedenti di merger fra aziende italiane e gruppi francesi) sarà quella progettuale, per ridurci al ruolo di semplici subfornitori. Poi seguirà la dismissione di alcuni cantieri italiani destinati a costruire navi militari, considerati esuberanti rispetto a quelli del nuovo gruppo franco-italiano. Il primo a cadere sarà lo storico cantiere di Castellammare di Stabia, su cui peraltro Fincantieri non ha investito da tempo, seguiranno gli altri. Con buona pace dei Sindacati e dell’indotto industriale italiano, Fincantieri non solo continuerà a trasferire ai cantieri Vaard in Romania carichi di lavoro da Riva Trigoso e dal Muggiano, ma si avvarrà anche dei cantieri francesi, a scapito di quelli italiani, per onorare gli impegni sottoscritti per il mantenimento dei livelli occupazionali di Saint Nazaire. Si prepari quindi Monfalcone, Ancona e poi Palermo (che possiede il più grande bacino in muratura del Mediterraneo in grado di ospitare navi da 350.000 tonnellate – foto).

Sul fronte militare, oltre alle conseguenze negative per l’occupazione nella cantieristica e dell’indotto, fra i danni collaterali ci saranno anche i livelli occupazionali delle aziende di Leonardo. Visto che Thales, il suo principale concorrente possiede il 15% di Naval Groups, è evidente che come conseguenza della leadership francese sul ramo militare, i sistemi d’arma e di comando e controllo di Thales saranno privilegiati sulle nuove navi, rispetto a quelli di Leonardo. Considerato che quasi il 50% del valore economico di una nave militare è rappresentato dai suoi equipaggiamenti, il danno in termini di Pil e di occupazione per l’Italia è evidente. Ancora peggiore potrebbe essere lo scenario se il Governo avesse offerto anche Finmeccanica nel pacco dono ai francesi. In questo caso anche Leonardo verrebbe ridotta progressivamente al ruolo di sub-fornitrice dell’Industria francese.

Il Governo italiano riducendo sempre più il bilancio della Difesa ha demolito non solo le potenzialità operative delle Forze Armate, ma con loro ha impoverito la capacità d’innovazione e più in generale la forza dell’industria ad alta tecnologia della Difesa, rendendola sempre più vulnerabile e meno competitiva sui mercati esteri. Esattamente l’opposto di quello che ha fatto la Francia, che ora si appresta ad assorbire anche le nostre ultime capacità autonome nel settore della Difesa.

È inoltre opportuno chiarire che nonostante i proclami per la creazione di un nuovo Airbus Navale, in grado di accelerare l’integrazione della Difesa Europea, Macron non metterà a sistema Europa tutti i suoi cantieri, ma solo quelli in difficoltà di Saint Nazaire, tenendo per la Francia i cantieri navali a più alto contenuto tecnologico, ovvero quelli in grado di costruire le unità militari più sofisticate fra cui i sottomarini, esattamente come già accaduto con l’Airbus Aeronautico. Anche in il quel caso la Francia tenne separati da Airbus, in mani esclusivamente francesi, gli stabilimenti della Dassault, da cui provengono gli ottimi caccia multiruolo Rafale (foto), con cui la Francia ha fatto, spesso con successo, concorrenza al consorzio europeo Eurofighter.

Una volta di più la Francia accorperà sotto la sua leadership un fastidioso concorrente europeo, mantenendo tuttavia nelle sue mani i gioielli di famiglia. Quindi Europa si, ma a guida francese.

Per il settore mercantile, la mancanza della maggioranza della proprietà non consentirà a Fincantieri, probabilmente con suo grande sollievo, di adottare piani industriali aggressivi per rilanciare Saint Nazaire, potendo scaricare sul suo maggior azionista (lo Stato Italiano) i debiti del cantiere francese, che devono essere davvero poderosi, considerato il prezzo irrisorio di 80 milioni di euro a cui sono stati acquistati. Un prezzo fantastico per un affare convenientissimo. Strano che all’asta si sia presentata, unica fra tutti i grandi gruppi cantieristici del mondo, fra cui il colosso tedesco ThyssenKrupp, solo Fincantieri. Possibile che Bono sia stato l’unico a fiutare l’affare?

Ai meno ingenui tutta l’operazione appariva sin dall’inizio come il salvataggio di Saint Nazaire e non un’acquisizione per eliminare un pericoloso concorrente nel segmento delle grandi navi passeggeri, come veniva raccontato al pubblico italiano. Sarebbe stato assai più vantaggioso per Fincantieri lasciare che i cantieri di Saint Nazaire fallissero, senza accollare alla nostra finanza pubblica anche questo fardello. Anche la giustificazione addotta in merito alla mancanza di spazi per costruire navi passeggeri da 200.000 tonnellate non ha senso, visto che Fincantieri possiede a Palermo (foto) un bacino in muratura in grado di contenere navi di grandissimo tonnellaggio (300.000 tons.) molto superiore a quello richiesto per le nuove pur grandi navi passeggeri. Sarebbe bastato investire risorse nel cantiere siciliano invece che all’estero, per disporre di uno stabilimento in grado di reggere la concorrenza sulle navi passeggeri di grande taglia , sempre più richieste dagli armatori internazionali.

Del resto anche la proposta fatta dal ministro dell’economia francese La Maire di dare vita a un Airbus nel settore navale, per vincere le resistenze del governo italiano, è farina del sacco di Bono (facile la verifica sul web), sinora non decollata per le conseguenze negative sull’insieme delle aziende della Difesa italiana. Perché allora è la Francia a proporla e non il nostro Governo, se l’idea era dell’amministratore delegato del gruppo italiano? Un fatto è sicuro, dopo che La Maire ha garantito che l’amministratore delegato e il presidente del nuovo gruppo Franco Italiano nel settore passeggeri sarebbero stati espressione di Fincantieri, anche senza la maggioranza della proprietà, l’atteggiamento di Fincantieri è tornato estremamente collaborativo. Dopo tale annuncio si sono ritrovati Francia e Fincantieri alleati a spingere per far accettare la proposta francese e dall’altra, il Ministro Calenda e Padoan che cercavano di resistere per ottenere maggiori tutele per l’interesse italiano. Ma Fincantieri non era di proprietà di Cassa Depositi e Prestiti, cioè dello Stato Italiano?

Che le conseguenze dell’accordo possano essere nefaste per l’interesse dei cittadini italiani, qualora dovesse essere configurato come anticipato da noi (nella speranza di aver sbagliato), lo dimostrano i precedenti delle fusioni industriali con i francesi, nello spazio e nella missilistica. La Selenia Spazio ad esempio era un’eccellenza mondiale nella costruzione dei satelliti. Da quando è entrata in gioco Thales come sua partner di maggioranza, l’azienda italiana è scomparsa dai radar.

Alla fine dei conti, per la politica italiana la scelta sarà combattere il blocco Francia/Fincantieri o piegarsi, evitando il conflitto con avversari potenti, cercando di salvare la faccia con il racconto dell’Airbus Navale. Si tratta in fondo di arrivare all’elezioni d’Aprile. Si potrà comunque raccontare la favola della vittoria Italiana, perché avremmo ottenuto dai francesi (anche se su proposta francese, ma questa è una sottigliezza) di dare vita al polo industriale europeo per la difesa comune. Diremo anche che non conta chi comanda, ma è lo spirito europeo che miriamo a rafforzare. E poi meglio avere Fincantieri come amica in tempi di elezioni che come nemica. D’altra parte i danni li subiranno gli italiani, ma non subito, fra qualche tempo, a elezioni passate. Un altro settore produttivo strategico sembra quindi destinato a cadere in mani straniere, nell’indifferenza complice dell’opposizione e dei Sindacati.

Se dovesse finire così, Macron avrebbe vinto alla grande. Sarebbe riuscito a non dare agli italiani la proprietà di Saint Nazaire e a prendere il controllo tramite Naval Groups del comparto industriale italiano dedicato alla costruzione di navi militari. Se ciò non fosse già abbastanza, tramite Thales potrebbe assorbire in un abbraccio mortale anche le aziende di Leonardo. In sintesi tutto il settore dell’industria della difesa italiana passerebbe sotto leadership francese. Macron avrebbe fatto il suo dovere nei confronti del popolo che l’ha eletto, quello di difendere gli interessi nazionali francesi. Ma anche noi italiani abbiamo un vincitore: il Dott. Giuseppe Bono. Invece di andare in pensione, dopo 12 anni di regno su Fincantieri, a cui era approdato dopo un periodo a Finmeccanica e prima ancora in Efim, a 73 anni conquisterà un’altra prestigiosa poltrona che gli consentirà di rimanere in sella, con tutti gli annessi e connessi del caso, almeno sino a 77 anni. Vassallo del Re di Francia e non più monarca assoluto di Fincantieri, è vero, ma a 73 anni, quando la maggioranza dei coetanei è in pensione da tempo, si può senz’altro accontentare.

E all’interesse nazionale? Ci penserà qualcun altro.

Oppure no.

(foto: Présidence de la République française / Fincantieri / U.S. Air Force)

ASTRI NASCENTI, STELLE CADENTI, MINE VAGANTI (2A PARTE), di Giuseppe Germinario (già pubblicato sul sito conflittiestrategie.it il 28/11/2013)

ASTRI NASCENTI, STELLE CADENTI, MINE VAGANTI (2A PARTE)

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IL FERVORE DEL BUON PASTORE

Sono vessilli che trovano nella compagine di Cuperlo i campioni più accorati.

Tutti i documenti a sostegno del candidato esaminati, da quelli di Alfredo Reichlin ( http://italianieuropei.it/it/la-rivista/archivio-della-rivista/item/3159-il-partito-democratico-e-il-coraggio-delle-riforme.html , http://www.unita.it/polopoly_fs/1.508015.1372315872!/menu/standard/file/notecongresso19giugno.pdf ) a quello del gruppo di Bersani (http://www.fareilpd.it/fare-il-pd-idee-proposte-verso-il-congresso/ ), a D’Alema (http://italianieuropei.it/it/italianieuropei-7-8-2013/item/3100-la-politica-in-europa-e-leuropa-nella-politica.html), al documento ufficiale di Cuperlo stesso (https://docs.google.com/gview?url=https://s3.amazonaws.com/PDS3/allegati/Documento+congressuale+Cuperlo.pdf&chrome=true ) ne sono impregnati.

Tutti costoro riconoscono che la globalizzazione del mercato ha sancito la rottura dell’equilibrio tra la politica, ridotta alla capacità democratica di redistribuzione della ricchezza e acquisizione di diritti e l’economia, intesa come capacità di drenaggio, produzione e collocazione di risorse. Il dominio dell’economia sulla politica sarebbe legato alla diversa dimensione spaziale della azione rispettiva; la prima mondiale, la seconda ancorata ancora a logiche e ambiti nazionali. Il “grande nodo che sta mettendo nell’angolo perfino il presidente degli Stati Uniti: la debolezza della politica”. L’economia è ridotta, quindi, a “una branca della matematica e una tecnica per l’accumulo di ricchezze in gran parte fittizie”. Una “svolta “mercatista” che ha affidato a una ristretta oligarchia il diritto di manovrare liberamente i capitali e di inondare il mondo di debiti, creando così una colossale rendita finanziaria” manipolando a piacimento i mercati fuori da ogni controllo. D’Alema non vuol essere da meno rispetto a Reichlin “Oggi viviamo il tempo della globalizzazione e i processi di cui Antonio Gramsci aveva intuito la portata hanno ormai dispiegato la loro potenza ben oltre l’egemonia del fordismo e del modello americano. Nel tempo del capitalismo finanziario globale la crisi democratica legata alla perdita di sovranità degli Stati sembra essere giunta a un punto al limite di rottura” Un mondo, quindi, dominato da oligarchie parassitarie fonte di enormi diseguaglianze tra un gruppo sempre più ristretto di privilegiati ed una massa sempre più larga di poveri in grado di attrarre nel baratro settori sempre più larghi di ceti medi.

A voler essere maliziosi, ma paternamente comprensivi, si comprende umanamente da quale profondità di analisi sia scaturito il motivo per il quale questi reduci togliattiani abbiano provveduto a collocare tanta parte della progenie in quegli ambienti perversi e da quelli a loro volta selezionare i propri successori politici. Sarebbe sufficiente esaminare il curriculum di buona parte delle nuove leve, per far risaltare la stridente contraddizione.

Meritano invece decisamente minore tolleranza per le conseguenze nefaste di questa interpretazione dualista sulla fondatezza e completezza delle analisi e sulle scelte politiche che ne derivano ormai da lungo tempo.

Un dualismo dalle prospettive promettenti quando, con Marx, si è cercato di spiegare un aspetto essenziale dei rapporti sociali di produzione e di sfruttamento (estrazione di plusvalore) attraverso il conflitto e la cooperazione tra capitalisti e salariati nel corrispondente modo di produzione; ma che ha visto sbiadire sempre più la connotazione di queste due figure man mano che si pretendeva di spiegare i conflitti e le vicende politiche del mondo sulla base di questo dualismo e di profetizzare che una parte del polo, il capitalista, si sarebbe ridotta a pochi percettori di rendite e l’altra estesa alla quasi totalità della popolazione. Man mano che la complessità delle formazioni sociali e dei rapporti tra di esse cresceva e scalpitava dentro quelle gabbie interpretative, negli ambienti “progressisti” pur di mantenere la comoda visione dualistica, si preferiva sfocare le figure polari, piuttosto che aggiungere e cambiare chiavi di lettura.

Dalla contrapposizione salariati/capitalisti si è passati, via via nei decenni, a quella tra sfruttati e sfruttatori, padroni e lavoratori, redditieri e produttori, poveri e ricchi sino alla riproposizione evangelica, riproposta dall’ultimo Reichlin, tra ultimi e privilegiati, anche se ancora con il fragile paravento di valore rievocativo.

Le implicazioni negative di questa semplificazione sono numerose e sempre più pesanti.

Impediscono di cogliere la natura dei conflitti e delle relazioni tra gli stati, i paesi, le formazioni sociali e i centri strategici all’interno di essi e tendono a rimuovere i retaggi storici, culturali e le strategie politiche che vanno oltre i meri interessi economici. Per costoro, infatti, il campo di azione politico e istituzionale ottimale dovrebbe coincidere con il campo di azione economico, il mercato; essendo questo ormai globale, anche il governo dovrà essere mondiale. D’Alema infatti chiosa “Eppure l’Europa ha rappresentato e rappresenterebbe ancora il tentativo più ambizioso di costruire una unione politica in grado di dare una risposta democratica alla crisi della sovranità degli Stati; in grado cioè di produrre (per riprendere un’espressione gramsciana) l’esperimento più avanzato di “cosmopolitismo della politica” che sino ad oggi sia stato tentato nella storia umana”. L’ambizione diventa, quindi, quella di creare una forza politica mondiale capace di perseguire l’obbiettivo e contrapporsi e regolare questi poteri oligarchici; la conseguenza immediata consiste nell’individuare nelle forze politiche mondialiste del paese dominante, in questo caso il Partito Democratico di Obama, il punto di riferimento e nelle forze politiche e negli stati che cercano di riaffermare la propria sovranità e indipendenza, quantomeno una maggiore autonomia, le componenti inconsapevoli se non retrograde, antistoriche.

Con ciò si evidenziano due limiti interpretativi fondamentali che stanno imprigionando l’attività politica dei progressisti: il mercato, quindi l’economico, come ambito sovradeterminato e prioritario dell’azione degli stati; lo stato come regolatore e garante del bene e delle relazioni pubbliche. Il mercato come campo prioritario e tendenzialmente esclusivo di azione; lo stato come arbitro e giudice. Le conclusioni seguono conseguentemente una precisa direzione; si riduce il conflitto politico tra centri ad esclusiva tendenziale competizione economica, quando è lo stesso ambito economico ad essere sempre più pervaso di competizione politica e strategica; si tende a ridurre ad unico i vari mercati, con regole diverse, che si sovrappongono secondo le congiunture; lo stato passerebbe da allenatore in campo di una squadra a giudice arbitro sovrano su un unico campo; le istituzioni statali passerebbero dallo stato di strutture dotate di logiche ed interessi propri frutto dei conflitti di centri in competizione politica a quelle di organismi neutri sovra determinati in base al consenso democratico. La conclusione probabile di tanta astrazione sarà il ritorno probabile della “fine della politica”. Ci sta arrivando Habermas nelle sue congetture sempre più spinte, lo seguiranno gli scopritori del nuovo mondo man mano che identificheranno sempre più il bene comune con gli interessi del dominante di turno.

La sindrome idolatrica da cui è colto l’intero gruppo dirigente del PD ha infatti raggiunto livelli patologici (http://www.conflittiestrategie.it/gli-idolatri). Un approccio del tutto complementare ai ricorrenti movimenti globalisti impegnati a ingaggiare duelli contro i mulini a vento, spesso con la bonaria comprensione e il sostegno delle varie fondazioni filantropiche.

Ad una interpretazione piatta del contesto internazionale corrisponde un progressivo appiattimento e semplicismo di quella nazionale. Il problema di fondo è la contrapposizione tra il 10% di popolazione ricca ed il 90% di quella povera. Il nodo di fondo diventa quindi la povertà, l’obbiettivo una mera redistribuzione della ricchezza. Siamo lontani ormai dall’alleanza dei produttori e dall’ambizione di costruire una parvenza di società alternativa; siamo alla contrapposizione, nel migliore dei casi, tra ricchi e poveri. Reichlin, forte delle sue reminiscenze togliattiane, tende a riproporre la costruzione di un blocco nazionale, di una identità contrapposta al blocco parassitario dominante sulla falsa riga della via nazionale al socialismo. La ripetizione dello stesso errore commesso a partire dagli anni ’50 dal PCI il quale vedeva nella rendita fondiaria e nella stagnazione l’assillo di un paese che stava avviando invece il miracolo economico sulla base di uno sviluppo industriale complementare e di un allineamento geopolitico scaturito da una sconfitta militare. Altri, privi di quel bagaglio culturale, si limitano a centellinare la distribuzione delle risorse su basi sempre più filantropiche.

Il risultato è, comunque, identico; poiché il bersaglio grosso delle grandi rendite è evanescente o irraggiungibile, alla fine la redistribuzione avviene secondo criteri prevalentemente assistenziali a scapito dei percettori medi di reddito, in particolare di quelli professionali e produttivi;di conseguenza, si alimentano le contrapposizioni e le rivalità tra i vari frammenti della società piuttosto che la costruzione di una prospettiva per il paese. Anche la stratificazione sociale viene definita quasi esclusivamente sulla base del reddito, piuttosto che sulla funzione e sul ruolo. In mancanza di un progetto in grado di definire il ruolo politico del paese, l’organizzazione statale necessaria, i settori necessari a creare le risorse per queste politiche non ci si pone nemmeno il compito di individuare e costruire il blocco sociale su cui costruire l’identità del paese. Da qui l’atavica incapacità di penetrazione in gran parte dei ceti medi professionali. (http://www.conflittiestrategie.it/il-groviglio-dei-ceti-medi-di-giuseppe-g ). Paradossalmente da una parte si contribuisce ad allargare la base della piramide distributiva del reddito, dall’altra si favorisce la difesa corporativa e di ceto degli strati intermedi abbarbicati comunque alla loro funzione e ruolo. In tempi di precarietà e di livellamento al ribasso dei redditi, il mantenimento del proprio status e della propria collocazione professionale, specie tra i lavoratori indipendenti, dipende dai circuiti familiari, dall’adesione a lobby associative piuttosto che dal dinamismo individuale. Nelle stesse grandi aziende, specie di servizio, e nei centri amministrativi, la prevalenza sempre più marcata dell’obbiettivo immediato rispetto alla strategia di lungo termine, determinata dalla composizione proprietaria delle aziende, dalla subalternità strategica, dall’adozione di modelli di gestione aziendali antiquati sta sempre più dissociando la competenza professionale dal riconoscimento economico di esso, tutelando, tutt’al più quegli strati intermedi sempre più ridotti legati all’esercizio del potere e dell’autorità. Sono temi completamente avulsi dal dibattito di un partito sempre più lontano dai nuclei sociali portanti della formazione e per questo destinato, nel migliore dei casi, ad un ruolo di compartecipante.

Nei documenti non mancano certo le affermazioni riguardanti la priorità del lavoro, in particolare di un lavoro stabile e dignitoso; qua e là si riafferma la necessità di una politica industriale. Sono, però, dichiarazioni retoriche, avulse dal contesto. Nel paese occidentale del trionfo del lavoro nero, il problema si riduce alla determinazione giuridica del rapporto di lavoro; pur di non rimettere in discussione la regolazione comunitaria dei mercati, i criteri di utilizzo ed erogazione dei fondi europei, si spacciano per politica industriale semplici e generiche agevolazioni fiscali e incentivazioni, appelli allo sviluppo della ricerca, della scuola e così via. Nessuna parola sulla creazione di grandi piattaforme industriali, sulla salvaguardia delle grandi industrie strategiche in funzione della politica estera, della forza del paese e dei suoi standard di vita, sullo scempio di risorse avvenuto nell’energia solare ed eolica, su una pur minima distinzione seria tra settori strategici, settori complementari vitali alla coesione del paese e allo sviluppo della domanda e delle attività; tutt’al più tristi lai ipocriti ad ogni dipartita annunciata, ma sempre corroborati dalla venerazione delle virtù del mercato.

L’unico metro dichiarato di valutazione è la salvaguardia dell’occupazione delle aziende; un po’ poco per un gruppo dirigente con qualche ambizione per il proprio paese.

In proposito risulta particolarmente illuminante un documento ufficioso scaturito probabilmente dalle file interne di Finmeccanica in quota PD, già commentato tempo fa da Gianni Petrosillo sulla nostra testata.

LE ASPIRAZIONI NASCOSTE DI LISA JEANNE

http://www.nens.it/zone/pagina.php?ID=8&ID_pgn=808&ctg1=Analisi&ctg2=Nessuna

http://www.nens.it/zone/pagina.php?ID=8&ID_pgn=809&ctg1=Analisi&ctg2=Nessuna

http://www.nens.it/zone/pagina.php?ID=8&ID_pgn=810&ctg1=Analisi&ctg2=Nessuna

Non voglio deludere le aspettative e la curiosità dei lettori, ma dietro quel cognome così rievocativo non si celano le grazie di alcuna studiosa di Sciences Po.

Con le chiavi interpretative adatte, delle quali l’estensore non appare per altro dotato, quel documento rivela che le aziende strategiche agiscono in funzione delle strategie e delle potenzialità politiche di un paese e della relativa collocazione gerarchica nel contesto internazionale; che aziende di queste dimensioni, in particolare attive in settori strategici, sono esse stesse veicolo di politica; che all’interno stesso delle aziende assume un ruolo essenziale la gestione politica dei gruppi, dei sistemi operativi e delle relazioni tese al conseguimento anche dei risultati economici; che in particolari forme di subordinazione, essa stessa diventa una particolare forma di finanziamento del paese dominante e di integrazione produttiva subordinata del paese di rango inferiore; che un gruppo manageriale lasciato a se stesso tende altrimenti a ricercare autonomamente il sostegno politico e l’inserimento in determinate strategie, specie del paese dominante (contatti diretti con il Pentagono); in subordine o contestualmente, nel caso riesca a mantenere i legami con i centri strategici originari, specie se di un paese politicamente periferico e subordinato, tende invece a presentare come strategici e meritevoli di sviluppo settori in realtà secondari. È esattamente quello che auspica il “pulzello” di Finmeccanica sotto mentite spoglie, probabilmente per assecondare le proprie ambizioni personali.

Le modalità legate ai settori operativi, agli assetti proprietari e alle dimensioni cambiano, ma le dinamiche purtroppo sono identiche in altre aziende rilevanti, in particolare l’ENI.

L’unica dialettica che investe il partito riguarda la divergenza tra i totalmente indifferenti al regime di controllo delle grandi attività industriali (Renzi) e coloro che vogliono salvaguardare almeno la gestione e il controllo delle reti interne del paese e di settori collaterali emergenti (trasporti, energie alternative e poco altro), rappresentati da esponenti come Fassina, ma pronti a sacrificare anch’essi il resto. Si tratta, comunque, di battaglie difensive, senza alcuna capacità di coagulare attorno a queste realtà un’adesione politica più ampia e di innescare cicli economici positivi, senza la forza per avviare collaborazioni internazionali paritetiche.

Una dialettica, quindi, poco interessante dove la componente più dinamica, quella liberale di Renzi, sembra ben attrezzata a distruggere, ma con poche possibilità di costruzione. Come già avvenuto tra i socialisti francesi e soprattutto nella SPD tedesca, la componente similsocialdemocratica italiana ha perduto larga parte dei legami amministrativi e politici con settori produttivi e gestionali; quegli stessi settori, tra l’altro, sono stati ampiamente ridimensionati e indeboliti dalla colonizzazione della rete distributiva commerciale italiana e dalla collusione con gli avversari politici interni ed esteri di un tempo; ha conservato soprattutto i legami con le strutture associative e assistenziali, dal potere contrattuale quindi largamente indebolito. Da qui il carattere prevalentemente redistributivo ed esortativo, quindi prevalentemente contrattuale e subordinato, del proprio programma. Una caratteristica distante dalla connotazione del sindacato e del militante PCI degli anni ’60 e ’70.

Vedremo gli sviluppi sino a dicembre di questa campagna delle primarie.

La convenzione nazionale del 24 agosto ha intanto evidenziato lo spessore dell’intero gruppo dirigente uscito sconfitto dalle ultime e penultime elezioni politiche; tutti rumorosamente defilati, assenti. Per non danneggiare Cuperlo, la loro priezione, per confidare in un ingresso dalla porta di servizio, dopo qualche mese di logoramento.

Il conflitto più violento e più sordo in realtà si sta svolgendo in maniera apparentemente estemporanea sotto traccia tra Renzi e D’Alema, un personaggio da tempo fuori da ogni incarico ufficiale di partito, ma che detiene ancora, attraverso soprattutto la sua fondazione, le redini fondamentali dei contatti con la socialdemocrazia tedesca e soprattutto con le componenti clintoniane del partito democratico americano; una relazione esclusiva che Renzi è andato a insidiare evidentemente con qualche successo, vista la qualità e l’intensità degli incontri propedeutici da lui ottenuti con altri ambienti democratici americani nelle estati scorse.

Si sa che a tanta confusione, nel nostro paese corrisponde altrettanta possibilità di scelta di opzioni politiche da parte dei nostri supervisori d’oltreatlantico. Il problema è che sono opzioni ancora fragili e provvisorie le quali, purtroppo, lasciano spazio a vere e proprie azioni destabilizzanti nel caso dovessero sorgere forze organizzate autenticamente sovraniste. La frammentazione attuale del paese e delle sue istituzioni, purtroppo, sono un ottimo viatico e offrono un campo aperto a tali iniziative.

Di queste altre opzioni parlerò nella terza parte dell’articolo con un convitato di lusso a cui è stato ormai sottratto, come prevedibile, il posto di riguardo a tavola ma che pare disposto ancora a banchettare nelle sale laterali sempre più prossime all’uscita del retrobottega almeno sino all’epilogo drammatico per lui, assolutamente tragico per il paese.

A proposito de “la fortezza assediata di Gianfranco Campa”, di Massimo Morigi

Considerazioni di Massimo Morigi sul recente podcast di Gianfranco Campa http://italiaeilmondo.com/2017/09/02/11-podcast_la-fortezza-assediata-di-gianfranco-campa/

«lo spazio esteriore – svuotato – della sovranità territoriale rimane intatto, mentre il contenuto reale di questa sovranità viene modificato in quanto vincolato alla protezione del grande spazio economico della potenza esercente il controllo. Il controllo e il dominio politico si fondano qui sull’intervento, mentre lo status quo territoriale rimane garantito. […] la sovranità territoriale si trasforma in un vuoto spazio di eventi economico-sociali. Viene garantita l’integrità territoriale esteriore, con i suoi confini lineari, non già il contenuto sociale ed economico della stessa integrità, ovvero la sua sostanza. Lo spazio del potere economico determina l’ambito giuridico internazionale. » (Schmitt, 2003, pp.324-325)
La guerra dell’establishment politico americano contro Trump (repubblicani e democratici indifferentemente, grandi mezzi di comunicazione, complesso militare-industriale) descritta e analizzata con acutezza da Gianfranco Campa nei suoi podcast ed in particolare nell’ultimo “La fortezza assediata”, l’undicesimo, dove viene freddamente rappresentata quella che sembra essere la resa finale dei conti contro coloro che hanno costruito l’ascesa alla presidenza dell’erratico e manovriero (purtroppo solo pro domo sua) nuovo presidente statunitense, al di là delle peculiarità caratteriali e politiche (ripetiamo, totalmente negative) del neoeletto presidente ed al di là anche degli errori segnalati da Campa che possono (o meglio, che sicuramente hanno) commesso gli “ingegneri” della costruzione di questa singolare presidenza (Sebastian Gorka, Roger Stone, Steve Bannon), certamente abili, per non dire geniali, nell’ avere compreso il malessere profondo dell’America contro un’ establishment dirittoumanista e pro globalizzazione e del tutto insensibile verso gli interessi dei ceti medio-bassi dei lavoratori statunitensi ma anche ingenui nello scegliere un burattino, Donald Trump, che pensavano di poter dirigere a piacimento ma che alla fine si è dimostrato una sorta di maligno e stregato simulacro dotato di vita propria e a tutto disposto per protrarre ad ogni costo e con ogni compromesso non solo la sua vita politica ma, soprattutto, anche la sua incolumità personale, una cosa dimostra e ci consegna pure un insegnamento per coloro che in Italia puntano ad un rivoluzionamento concreto ed integrale del nostro paese. E quello che la vicenda Trump dimostra è che il vero arcanum imperii della politica internazionale emerso dopo il secondo conflitto mondiale è che le potenze vincitrici mentre si ergono più o meno custodi dell’integrità territoriale degli stati sono al medesimo tempo le più occhiute sorveglianti a che questi confini territoriali delimitano sì un territorio ma un territorio privato di ogni autonomia politica ed economica. Stiamo parlando, in altre termini, della morte sostanziale della sovranità statale, o, meglio, della morte della sovranità di quegli stati che hanno perso la seconda guerra mondiale o, pur avendola vinta militarmente, l’hanno persa politicamente. Per rimanere alla vicenda Trump, accanto al fatto che questa nuova amministrazione intende de facto proseguire nella strategia del caos di obamiana memoria, semmai con qualche retorica correzione anti ideologia dei diritti umani e di esportazione della democrazia, è ancora più chiaro che strategia del caos o no oppure, in via ipotetica, la faticosa ricerca di una sua sostituzione attraverso strategie alternative (faticosa ed in via ipotetica perché i revirement trumpiani tarpano le ali a qualsiasi alternativa all’impostazione caotica e dirittoumanistica obamiana ), è ancor più chiaro che quello che in alcun modo non potrà essere cambiato è la politica statunitense volta a mantenere del tutto vuota ed insignificante la sovranità statale degli stati appartenenti alla sua sfera d’influenza. E non solo di questi ma anche di quelli che mai appartenuti al perimetro dell’alleanza occidentale, si ostinano a volere mantenere ben salda ed efficace la propria sovranità. Come dimostra la vicenda nord coreana in cui, al di là del giudizio che si possa dare di quel regime politico, la volontà di voler costruire una propria “force de frappe” nucleare altro non segnala che la sua volontà di tener cara e ben vitale la propria sovranità statale. Trump parla della Corea del nord come di uno stato terrorista: in realtà il suo rapporto col terrore è da invertire perché se questo stato terrorizza è per il semplice motivo che rifiuta di farsi terrorizzare e conseguentemente, e su questo possiamo anche convenire con l’establishment politico-militare statunitense, colui che rifiuta pervicacemente di farsi terrorizzare può suscitare profonde inquietudini ed apprensioni. L’insegnamento che consegna per l’Italia la vicenda Trump. Si tratta di un insegnamento molto semplice che deve partire dalla comprensione ed accettazione del dato di fatto da parte dell’opinione pubblica e da parte di quelle forze politiche che dall’attuale establishment vengono definite antisistema e populiste (qualità per noi positive ma che, purtroppo, allo stato attuale sono tutte da dimostrare: un ribaltone alla Trump da parte di queste forze una volta che abbiano eventualmente assunto il potere è quasi, allo stato attuale dell’arte, una matematica certezza) che un cambiamento reale della nostra vita politica ed economica non può che venire dal consapevole sovvertimento dell’annullamento della nostra sovranità consegnataci dall’esito disastroso del secondo conflitto mondiale ma protratto per più di settant’anni non da ineluttabili leggi storiche ma dalla consapevole e costante azione politica internazionale degli Stati uniti (e per rovesciare non questa “legge di natura” dell’annullamento della sovranità statale italiana ma, invece, il preciso risultato della precisa e conseguente volontà politica della potenza egemone, valgono i percorsi che già su “L’Italia e il Mondo” si sono indicati: processo di progressiva neutralità dell’Italia – con, mi permetto di aggiungere, un occhio a quanto sta facendo la Corea del nord: per dirla tutta, un’Italia neutrale non può non dotarsi di un suo arsenale nucleare – , completo cambiamento della prospettiva politico-culturale, un vero e proprio riorientamento gestaltico della mentalità comune e politica dove vengano spodestati i fantomatici diritti umani e le retoriche democraticistiche per sostituirli con una decisa e spietata difesa e rafforzamento della cultura italiana, intesa questa come l’inestricabile e dialettico portato storico di tutti quegli elementi politici, culturali, economici, religiosi e linguistici che hanno formato l’identità italiana (e qui mi fermo perché, come già detto, è urgente iniziare il dibattito e vi debbono essere anche altri contributi, l’importante è la consapevolezza della direzione da assumere). Insomma, se sapremo contribuire alla formazione di una pubblica consapevolezza politica lungo l’interpretazione espressa dalle parole di Carl Schmitt poste ad incipit di queste brevi considerazioni sarà molto difficile, per non dire impossibile, che si ripetano sul suolo italico le deludenti vicende che stanno oggi accadendo negli USA. Se invece si permetterà alle c.d. forze antisistema di continuare a praticare la loro interessata somaraggine politico-culturale (tanto per fare un esempio: se permetteremo che queste c.d. forze antisistema continuino a blaterare il loro loffio slogan “aiutiamo gli immigrati a casa loro” anziché, come in osservanza ad un elementare buon senso di realismo politico deve essere pubblicamente affermato, comincino ad impegnarsi con un ben più sostanzioso e vincolante: «pur mantenendo intatte e rispettando rigorosamente le disposizioni e consuetudini di civiltà e del diritto internazionale che impongono di soccorrere in terra ed in mare chi si trova in pericolo di vita, noi permettiamo di circolare e lavorare sul nostro territorio solo a chi economicamente e culturalmente – cioè chi è funzionale alla nostra Kultur, come avrebbe detto l’infamata geopolitica tedesca del secolo scorso ma infamata perché gli sconfitti non potessero più praticarla contro i vincitori della guerra – fa i nostri interessi e dei rimanenti che non soddisfano questi requisiti, per dirla in tutta franchezza, nun ce ne pò fregà de meno» … ), il cambiamento sarà solo quello del personale che governerà il paese. E tutto rimarrà come prima, come puntualmente è accaduto negli Stati uniti con la nuova – ma vecchissima nella sostanza – presidenza di Donald Trump. Massimo Morigi – 3 settembre 2017

LA DEMOCRAZIA VALE SE SI VOTA GIUSTO; Intervista ad un veterano della Repubblica Popolare di Donetsk, a cura di Max Bonelli

Questa volta ci troviamo in Donbass (Ucraina), grazie al prezioso contributo di Max Bonelli. Il Donbass è uno dei tanti focolai di guerra pronti a riesplodere in funzione delle strategie conflittuali ai danni della Russia. Ha la peculiarità di essere a poche centinaia di chilometri da Mosca. L’occasione del conflitto scatta con il colpo di mano in Ucraina di quattro anni fa con il quale si è voluto spostare quel paese da una condizione di neutralità e di forte legame con la Russia ad una di vera e propria sudditanza occidentale e nel contempo si è proceduto ad una politica di forte discriminazione della popolazione russa e russofona, ancora più accentuata e violenta di quella dei paesi baltici. Sull’Ucraina si sono concentrate, oltre a quelle strategiche e più prosaiche americane, anche le ambizioni egemoniche dei paesi europei centrali e nordorientali sino a creare un guazzabuglio dal quale è scaturito un regime fantoccio nemmeno in grado di attingere dal proprio paese i componenti del governo. Su tutto ha brillato l’Unione Europea, pronta ad accettare nel proprio seno, un paese in piena guerra civile contrariamente alla prassi ultradecennale. La massima aspirazione possibile, al momento, risulta un congelamento delle posizioni acquisite_ Germinario Giuseppe

Intervista ad un veterano della Repubblica Popolare di Donetsk.

 

Mi trovo al museo della Grande Guerra Patriottica di Donetsk, appena di fianco all’enorme stadio dello Shakhtar Donetsk, che doveva ospitare i successi della squadra del miliardario Rinat Akhmetov. L’uomo che più di tutti in Donbass aveva saputo sfruttare la rottamazione dell’URSS e che in venti anni aveva costruito un impero finanziario con capitale Donetsk. Accanto a questo simbolo oggi nazionalizzato dalla Repubblica, lavora Vladimir Vladimirovic Savelov veterano dell’Afganistan e dell’ultima guerra in Est ucraina. Un età indefinita tra i 50 ed i 60 bruno dal volto affilato, la tradizionale maglietta a righe dei fanti di marina, si intona con un busto sorprendentemente atletico per la sua età.

Un uomo simbolo che aveva  perduto una patria, ideali in quella rottamazione ma che nella ribellione del 2014 ha ridato corpo ad una speranza di un ritorno alla Russia ed ad una società più giusta.

 

D: Prima della guerra in Donbass, che attività lavorativa svolgevi?

 

R:Ho iniziato a servire il mio paese in Afganistan, ho ancora in ricordo parecchie schegge in entrambe le gambe, ero giovane al ritorno ho fatto tanti lavori. Minatore, metalmeccanico, prima della fine dell’Urss ero responsabile dell’educazione ideologica dei giovani di un grande quartiere Kievski di Donetsk. Poi dopo la caduta dell’Unione Sovietica è caduto tutto un mondo ed anche qui a Donetsk i dollari hanno comprato l’anima della gente.

 

D:Quindi la sua collocazione politica era ben chiara prima della guerra?

 

R: Si certo, ero membro del partito.

 

D: L’unione delle repubbliche sovietiche è caduta con uno strano voto democratico, possiamo dire che la prima votazione veramente democratica in Unione sovietica (il referendum del 1991), vede la volontà popolare della maggioranza dei cittadini esprimersi a favore dell’unione ed invece i vertici politici (Eltsin, Kravciuk) decidono di non rispettare questa volontà popolare e lo stato si divide in tante repubbliche, il Donbass a maggioranza russa finisce sotto l’Ucraina. Come ha vissuto personalmente questi 20 anni di indipendenza ucraina?

 

R:

Vorrei fare una premessa partendo dalla fine della guerra patriottica. L’Urss con tutti i paesi con cui collaborava od aveva alleanze non si comportava come un alleato che depredava le nazioni ma anzi le aiutava in maniera tangibile. Faccio l’esempio di Cuba e del Vietnam che hanno avuto più volte i loro debiti condonati. A differenza degli Usa che  ha saccheggiato con le sue multinazionali ed i governi fantoccio l’Africa ed il Medio Oriente. Questa e’ stata una delle concause della cattiva situazione economica dell’URSS negli anni anni 80. Inoltre sono stati sempre fomentati e foraggiati i nazionalismi all’interno dell’Urss dai servizi segreti occidentali per mettere in atto un processo di disgregazione.

Nonostante questo  votammo a favore per tenere l’URSS unita oltre il 60% complessivo della popolazione, ma i dirigenti politici se ne fregarono ed preferirono seguire i desideri delle minoranze nazionalistiche dividendo la Russia dalla Ucraina. Riscontrammo con i fatti che proprio le persone che sventolavano la bandiera della democrazia erano i primi ad ignorarla quando non gli faceva comodo.

Una manovra che ebbe sicuramente come regia la CIA e l’ambasciata americana. Io come  tutto l’Est ucraina da Karkov ad Odessa che aveva votato per rimanere uniti mi ritrovai in uno stato non mio sotto una bandiera che non mi apparteneva.

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D: Trovo molto interessante questa tua riflessione. Nello specifico il Donbass vede la sua volontà democratica violentata non solo in quella occasione, ma anche con il golpe a Maidan. Yanukovych era stato eletto nel 2012 con la stragrande maggioranza dei voti della Crimea e del Donbass. Cosi come non venne rispettato il voto  dei Crimeani per annettersi alla Russia e quello interno dell’11 maggio 2014 a Donetsk e Lugansk con lo stesso proposito.

Concorda con questa mia analisi?

 

R: Certo la volontà del popolo di Donetsk è stata calpestata sistematicamente, con il golpe di maidan dove un legittimo governo è stato rovesciato e l’11 maggio 2014 quando  volevamo rispondere con un atto democratico al golpe pagato dagli americani.  Ma la SBU i servizi speciali ucraini fecero male i loro calcoli quando attuarono il massacro del 2 maggio 2014 ad  Odessa e quello del 9 maggio a Mariupoli dove nel giorno della vittoria spararono alla gente che manifestava pacificamente. Cinquanta morti ad Odessa e venti a Mariupoli. La faccia della democrazia americana venne allo scoperto per tutti e l’11 maggio l’80% voto per l’annessione alla Russia.

Eravamo gente che non aveva votato giusto, da reprimere con la violenza più brutale esattamente come facevano i nazisti tedeschi. Per questo in questo museo abbiamo aperto una sezione dedicata agli eroi morti nella guerra in Donbass Givi, Motorola e tanti altra gente nata qui, russi da tutte le Russie ma anche ucraini che non si riconoscevano nel nazismo di Kiev. In tanti sono morti in questa ribellione. Non potevamo fare altro che ribellarci al sistematico sopruso della nostra volontà.

 

D:Parliamo dell’inizio della guerra civile, possiamo dire che è partita da Slaviansk?

 

R: No,tutto è partito dalla strage di Odessa e Mariupoli, intendo la mobilitazione generale. Io penso che questi processi storici avvengono come una reazione a catena. Il golpe a maidan è stato preparato con un lavoro di anni, sia  e livello di addestramento che sul piano della propaganda antirussa. Poi i servizi Nato-ucraini preparano le stragi Odessa e Mariupoli, stragi che soprattutto ad Odessa possono essere sfuggite di mano anche a loro e che si sono presentate in una brutalità imbarazzante.

Tutto ciò ha portato ad una reazione ancora più forte e da li la guerra civile.

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D: Nel mio libro Antimaidan riporto un video apparso su You

Tube dove cittadini di Donetsk che vivevano al confine con l’aeroporto vedevano arrivare un centinaio di soldati con uniformi ed equipaggiamento non ucraino. Parliamo di marzo, aprile 2014

Cosa ricordi dei combattimenti a cui hai partecipato nel 2014?

Hai avuto la sensazione che l’aeroporto a Donetsk fosse

tenuto da militari non ucraini, intendo uomini di paesi Nato nella primavera di quell’anno?

 

R: Ho partecipato al primo attacco all’aeroporto il 26 maggio eravamo divisi in tre gruppi. Due coprivano dai grandi magazzini Metro e dall’edificio Volvo ed il terzo penetrò nel nuovo terminale. Li e sul perimetro trovammo una resistenza ben organizzata, erano professionisti non sembravano ucraini, certo la sicurezza al 100% non la ho.

Erano ben vestiti ed addestrati, interagivano bene con gli elicotteri di attacco che fecero il grosso delle nostre vittime.

Noi invece eravamo armati di AK con tre  caricatori a testa una autonomia di cinque minuti di fuoco, qualche mitragliatrice e qualche RPG7. Nulla avevamo contro gli elicotteri, abbiamo avuto molti morti al nuovo terminale, una settantina almeno. Mi ricordo che arrivò un cittadino, un camionista, che aveva sentito dei combattimenti con tanti morti e feriti e venne in pantofole con il suo camion ad evacuare i feriti ed i corpi dei morti, sotto il fuoco degli elicotteri. Noi che coprivamo provammo ad attirare il fuoco degli avversari su di noi. Ma alla fine anche dopo l’evacuazione del nuovo terminale la situazione era difficile anche per i gruppi di copertura. Arrivò un anziano, forse accompagnato con la macchina non so, gli mancava una parte di gamba era un veterano della Guerra Patriottica. Ci disse “andate, vi copro io con la mitragliatrice”, non ci fu verso di levargli la mitragliatrice e noi andammo. Fu trovato il giorno dopo morto accanto alla mitragliatrice. Ecco questo ho visto dei combattimenti a maggio. Eravamo quasi tutti di Donetsk, qualche volontario russo ma non erano professionisti, gente normale.

 

Il momento è umanamente pesante, cade il silenzio, mi viene in mente che alla prima tregua quella fatta per le feste natalizie del dicembre 2014, si affrettarono gli ucraini ad avvicendare gli uomini. Ufficialmente il motivo era che non avevano equipaggiamento adatto all’inverno ma tanti osservatori ritenevano che l’avvicendamento riguardava mercenari stranieri sostituiti da reparti scelti ucraini, quelli che persero l’aeroporto nel febbraio del 2015. Chiudo l’intervista con una domanda più leggera.

 

D: Come vedi da cittadino della Repubblica, lo sviluppo economico dell’ultimo anno? La gente ritorna , si riaprono attività produttive, le strade vengono riparate, qual’è la tua opinione?

 

R: Tutto sta andando per il meglio, Zakarchenko il nostro presidente, lavora bene, incomincia la gente a tornare. A fine 2014 questa era una città fantasma abitata da 200.000 persone ma adesso stanno tornando, si parla di 600.000 che risiedono stabilmente, si arriva a 900.000 compresi quelli che  fanno lavori negli altri paesi. I cannoni sparano raramente e la gente  torna alle proprie attività, non possiamo condannare la paura della gente. In guerra tutti hanno paura, non credere a chi dice il contrario.

 

Saluto Vladimir con una stretta di mano ed il dono del mio libro Antimaidan al museo con una piccola dedica. Capisce che il libro è stato scritto per amore di verità, ed oggi in questo momento storico basta raccontare i semplici fatti per essere considerato un amico della Repubblica Popolare di Donetsk.

 

 

Max Bonelli

 

GLI IDOLATRI, di Giuseppe Germinario – tratto al sito www.conflittiestrategie del 02/02/2013

Un intero partito in adorazione. Siamo a quei rari momenti epocali di “una storia ed insieme una profezia che si auto adempie”. “La riprova, insomma, di quell’astuzia della storia che talora dà compimento all’impossibile, che, al di là di interpretazioni eroistiche, accetta di veder condizionati i propri sviluppi dalla presenza e dall’azione di un singolo, comunque espressione di un movimento profondo, di cambiamenti tellurici, qual è, appunto, BARACK Hussein Obama”. Così recita l’articolo iniziale del giornalista deputato Paolo Corsini su “Tam Tam Democratico”, la rivista mensile on line del PD, interamente dedicata a “Gli USA di Obama Secondo”http://www.tamtamdemocratico.it/doc/247734/barack-hussein-obama-la-biografia-come-programma.htm; così il tenore di tutti gli articoli successivi. Una orgia osannante che, se ancora in vita, sconvolgerebbe addirittura il buon Durkheim. Si potrebbe attribuire all’ingenuità dei neofiti tanto accaloramento; a ben vedere le firme degli autori, si tratta di personaggi ben inseriti e da tempo sulla cresta dell’onda; il neofitismo è evidentemente di altra natura.

Obama è insieme tradizione e innovazione, ripresa di una continuità e assunzione del moderno, sintesi del passato e speranza del nuovo, oltre la politica praticata e conosciuta all’interno dello stesso filone democratico, sino a Bill Clinton”

Obama diventa la figura determinante, il profeta e la guida destinata ad aprire le chiuse e indirizzare una corrente che percorre l’intero pianeta. Ha chiesto ed ottenuto altri quattro anni per completare la propria opera. Non è il capo di stato, tanto più di quello più potente; guai a parlare di stato in epoca di globalismo. È il messia che guida una corrente di pensiero cosmica che ha prevalso, finalmente, sulla iattura del liberismo conservatore e che sta dando fiato e speranza ai discepoli nel mondo. Ça va sans dire chi siano gli eletti nel Bel Paese. Ha sancito innanzitutto “la conclusione, sul piano della politica internazionale, dell’unilateralismo e la ripresa del dialogo in nome di un multipolarismo rinnovato. Come a dire una dichiarazione di dipendenza degli Stati Uniti d’America dalla realtà e dal mondo”. Prosegue Giorgio Tonini, importante senatore di area liberal, sancendo “l’esaurirsi della lunga stagione di egemonia del pensiero neo-conservatore, fondato sulla convinzione che fosse la disuguaglianza sociale, insieme allo squilibrio macroeconomico globale, l’unico vero motore dello sviluppo”. In alternativa “La dottrina Obama è pertanto una specie evoluta, adattatasi con successo all’ambiente del nuovo secolo, del più ampio genere di pensiero, progressista e riformista, che va sotto il nome generico di “Terza Via” la cui paternità risale a Clinton e Blair, Schröder e Prodi. Obama è, quindi, investito dell’immane compito di far crescere un paese in declino relativo “fino ad esercitare il ruolo di “presidente democratico” di una comunità internazionale che ha ancora e forse più che mai bisogno di un“egemone responsabile”. Il suo è “Un pensiero che considera semplicemente insensata la distinzione e ancor più la divisione del lavoro, tra sinistra e centro, tra progressisti e moderati”; un buon quarto di Monti ben insediato nel PD, con un quarto restante in attesa di collocarsi tra le eventuali spoglie del PDL.

Ci pensa Laura Pennacchi a rimettere i puntini sulle i; con Obama “Il discrimine destra/sinistra sarà praticato più intensamente e non solo perché” nel “l’America “generosa”, “aperta”, “tollerante” che è nel cuore di Obama, rispetto all’America gretta, intollerante, chiusa evocata dai repubblicani”. “Concentrando tutte le sue energie sul rilancio della “piena e buona occupazione, l’innovazione più interessante che Obama metterà in atto riguarderà, anche sotto il profilo delle politiche di welfare, la stessa concezione della politica economica e il suo rapporto con le politiche sociali” Siamo al nuovo modello di sviluppo con il quale i democratici “sanno che bisogna affrontare quattro sfide immani: 1) procedere a una salutare definanziarizzazione (il che rende necessaria una radicale riforma della finanza), 2) dare più valore ai consumi collettivi (tra cui spiccano quelli connessi al welfare state) rispetto ai consumi individuali, 3) sostenere maggiormente la domanda interna rispetto alla domanda estera ma intervenire anche dal lato dell’offerta, 4) creare lavoro e combattere le diseguaglianze”. Arriviamo al clou, al dilemma della guerra e della pace con la destra su un verso e la sinistra sull’altro. La Pennacchi merita una attenzione particolare; la sua analisi è un insulto a decenni di ricerca storica: “il “mercantilismo” emblematicamente impersonato dalla Germania della Merkel, con cui non a caso Obama è in polemica, non è modernità ma regressione all’Ottocento, a un’epoca in cui l’adozione generalizzata di strategie mercantilistiche (privilegianti in modo ossessivo le esportazioni) generò la spinta al colonialismo, le guerre, la diffusione di pratiche commerciali scorrette, in ossequio al principio che l’obiettivo dei governi non fosse l’elevamento del benessere e della qualità della vita dei cittadini, ma incrementare le esportazioni per aumentare la potenza economica dei paesi. È stato, viceversa, proprio attraverso il travaglio della crisi degli anni ’30 che le culture riformiste maturarono – grazie a Roosevelt, Keynes e Beveridge, la socialdemocrazia scandinava – un’idea alternativa. L’idea, cioè, che il fine della crescita economica dovesse essere non più la potenza economica del Paese ma il benessere dei suoi cittadini e il compito della politica economica dovesse essere la piena utilizzazione delle sue risorse, prima di tutto il lavoro. Quest’idea si incarna oggi nel modello dello “sviluppo umano” di straordinaria modernità innovatività, a cui solo un big push finalizzato alla creazione di lavoro e veicolato da un rinnovato motore pubblico può dare vita.” “da parte di Obama e dei democratici americani il richiamo al New Deal di Roosevelt svela anche il significato più profondo, attinente proprio agli alternativi obiettivi attribuiti all’economia e alla politica economica: dare la priorità non alla potenza e alla forza ma al benessere dei cittadini e alla qualità delle loro vite.” Ormai quella di Obama è una marcia Trionfale. Pietro Marcenaro, altro Senatore ex sindacalista, ci lascia con il fiato sospeso; “Non dico che siamo lì”, ma “Dopo le primavere arabe è realistico pensare che democrazia, stato di diritto, diritti umani possano camminare sulle gambe dei popoli e che ci siano le condizioni perché l’idea della loro esportazione con la forza possa essere accantonata” “Lo sviluppo di questo confronto, che ha attraversato l’Islam sunnita come quello sciita, è stato fortemente favorito dal cambiamento avvenuto alla guida dell’amministrazione americana” “Mai in passato era stato così forte ed era risultato così chiaro il legame tra una prospettiva di pace e di stabilizzazione in Medio Oriente e il progresso di un processo di democratizzazione”. Gli orizzonti, come l’esaltazione si ampliano: “L’altro grande tema sul quale la politica estera americana durante il secondo mandato di Obama sarà chiamata alla prova è quella del multilateralismo”; “Obama aveva presieduto la riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che aveva adottato all’unanimità la risoluzione su disarmo e non proliferazione nucleare”; le ombre dei responsabili che possano offuscare tanto slancio si stagliano evidenti: “La tragica spirale nella quale è precipitata la crisi siriana – lo spettacolo del veto di russi e cinesi al Consiglio di sicurezza, il fallimento delle missioni di Kofi Annan e di Brahimi, l’incapacità di fermare i massacri e di imporre un negoziato – è l’esempio più drammatico di questa crisi.”, con l’Europa malinconico assente. L’incoronazione finale non può spettare che a Lapo Pistelli, il responsabile esteri del PD. “Barack Obama è stato la gioia di ogni internazionalista democratico; affiancato da uno straordinario Segretario di Stato come Hillary Clinton, il giovane Presidente è stato la prima personalità del mondo politico a guadagnarsi un Premio Nobel per la Pace “preventivo””. Quell’elenco di impegni, indulge Pistelli, era troppo ambizioso perché “proprio grazie alla inedita offerta di responsabilizzazione e coinvolgimento di alleati e avversari – dipendeva in misura equivalente dalla volontà americana e dalla risposta altrui. Il caso russo e quello iraniano testimoniano di una mano tesa cui si è risposto più volentieri con un pugno chiuso.” Vedremo, purtroppo, il profeta dileguarsi dai lidi europei e dal Medio Oriente, sollevandolo, bontà sua, dalla lacerazione morale di “un faticoso percorso di contenimento delle incoerenze fra principi e interessi, fra la retorica politica sul valore della democrazia e il sostegno alle petro-monarchie sunnite del Golfo”; “ridotta in quantità, l’America nel mondo orienterà comunque anche le proprie priorità in direzioni diverse” verso l’Asia e il Pacifico; l’attenzione, comunque, sarà rivolta maggiormente al proprio interno anche se “potrebbe essere comunque richiamata dal disordine che regna in ogni fase di transizione multipolare. Se, ad esempio, la Russia proseguisse nella propria traiettoria involutiva, qualche altra transizione araba degenerasse in conflitto aperto, lo scontro fra Israele e Iran passasse dalle parole ai fatti” Termino il pot pourri con Umberto Ranieri cui spetta trarre un bilancio. “Nel complesso si è consolidata l’immagine di Obama come leader pronto ad ascoltare la voce altrui e ad agire nel solco di una radicata tradizione di liberalismo multilaterale”, “In politica estera ha messo da parte gli approcci nazionalisti e unilaterali che producevano rigetto e ostilità di gran parte del mondo”. Il realismo comincia a farsi strada: “un ripensamento della politica americana verso il mondo arabo investito da trasformazioni e cambiamenti spesso drammatici; scongiurare che a prevalere nel sommovimento nel mondo arabo siano forze che si ispirano al fondamentalismo, aggressive verso l’Occidente. Il punto drammatico è la Siria”. Uno spiraglio di luce si apre anche per gli europei: “Nel contesto di un mondo multipolare le relazioni transatlantiche possono ritrovare il proprio originario carattere strategico”.

GLI ADEPTI

Due pagine di citazioni possono abusare della pazienza dei lettori, ma offrono un quadro dell’appiattimento critico dell’intero quadro dirigente, dalla vecchia guardia sino alle nuove leve. Una vera e propria mutazione antropologica, avviatasi negli anni ’70 e ormai compiutasi. Verrebbe da pensare cosa il Profeta potrebbe farsene di automi così rudimentali i quali più che di aggiornamenti saltuari di software sembrano aver bisogno di un telecomando continuamente in funzione. Dovrebbero operare nei loro spazi con margini operativi e di giudizio relativamente autonomi, dovrebbero essere espressioni di realtà comunque complesse, impossibili da gestire altrimenti direttamente da parte dei centri dominanti; in realtà somigliano sempre più a spettri che appaiono di luce riflessa.

Riprendo il discorso dalla Pennacchi, dalla tesi secondo la quale lo scontro politico nascerebbe dal conflitto e dall’interazione tra due grandi correnti di pensiero; quella di destra, “mercantilista”, creatrice di squilibri, diseguaglianze, di conflitti e guerre, di potenza; quella di sinistra, neokeynesiana, creatrice di benessere, di uguaglianza, di sviluppo, di pace e dialogo, attenta alla costruzione di ceti intermedi con la funzione di modello e collante dell’intera società. La prima trova la sua massima espressione nella Germania di Merkel, la seconda in Obama, a sua volta legata al new deal roosveltiano.

Il new deal non fu solo un movimento americano, né fu un movimento di per sé pacifico e propedeutico alla pace. Tra i tanti paesi, conobbe analoghi processi nella Germania nazista e nell’Italia fascista. Negli Stati Uniti fu una formidabile fase di ristrutturazione e riorganizzazione, portata avanti per tentativi e conflitti con i settori tradizionali dell’establishement, basata su nuovi sistemi gestionali e manageriali, forte di un consenso popolare ma soprattutto di nuovi ceti; costruì una struttura e una nuova classe dirigente le quali furono perfettamente in grado di sostenere lo sforzo bellico, organizzare il nuovo sistema di dominio e innescare la fase di sviluppo del secondo novecento. Gli anni ’30 non ebbero nemmeno l’esclusiva di quelle politiche. Nella Germania guglielmina di fine ottocento, il militarismo, parallelo a quello delle altre potenze europee, procedette di pari passo con l’affermazione di uno stato sociale all’avanguardia per quell’epoca; così come l’America di Lyndon Johnson nel mentre si impelagava nella guerra in Vietnam, ampliò ulteriormente il welfare e favorì la crescita dei ceti intermedi. Come faccia la Pennacchi ad attribuire una corrispondenza diretta tra politiche keynesiane di eguaglianza e politiche pacifiche del tutto agnostiche rispetto alla ricerca di potenza dei paesi e degli stati è un mistero degno di un atto di fede, piuttosto che di una ricerca accurata. La stessa Germania, portatrice di quelle politiche mercantiliste, sta operando per difendere con le unghie e con i denti il proprio sistema economico-sociale, compreso quel welfare che, secondo la logica demo progressista, dovrebbe invece liquidare a spron battuto. Ha ragione Giorgio Tonini, quindi, a riconoscere una funzione dinamica e creatrice anche al pensiero “neocon”. Gli anni di Thatcher e di Reagan, più che un periodo di tagli generalizzati della spesa pubblica, comportarono la rapida destrutturazione di settori ed apparati obsoleti mantenuti in piedi dalle inerzie burocratiche e dagli apparati concertativi privi di basi economiche valide. Fu il periodo della crisi di grandi aziende e multinazionali decotte (Xerox, minatori), ma anche quello degli sviluppi della ricerca scientifica, dei settori dell’elettronica, dell’aereonautica, delle biotecnologie e dell’informatica; lo stato sociale non fu significativamente ridimensionato se non per i suoi aspetti più parassitari; si cercò di costruire su basi diverse il ceto medio; lo stesso sistema finanziario fu riorganizzato in funzione di quelle esigenze e della concentrazione delle risorse necessarie. Su quest’ultimo aspetto destra e sinistra addirittura si contesero il primato alimentando la politica del credito facile sostenuta dalla liberalizzazione finanziaria; il democratico Clinton, negli Stati Uniti, fu appunto il maggior artefice e l’epigono di queste politiche liberalizzatrici. L’esaurirsi di una fase, secondo Tonini, pone le premesse per l’affermarsi su basi nuove di un nuovo ciclo basato su una nuova corrente di pensiero, all’interno dei filoni storici, ma con tratti fortemente originali. Per questo è contrario ad una riproposizione delle tesi socialdemocratiche care, si fa per dire, alla componente d’alemiana, di Fassina e quant’altri.

LE LUCCIOLE

Per tutta l’intelligentjia democratica, però, queste correnti sono appunto flussi che percorrono il pianeta, attraversano una struttura reticolare senza gerarchie; è, in pratica, la cosiddetta globalizzazione. Sta ai soggetti avere la capacità di coglierli e valorizzarli. Per Tonini le comunità sono i soggetti, le cerniere in grado di catturare e valorizzare le proprietà dei flussi; per il resto dei pensatori, altri tipi di cellule se non proprio gli individui, mai gli stati. Le relazioni, comprese quelle conflittuali, assumono l’aspetto di legami multilenticolari. Non esistono gerarchie, livelli di potenza, strutture in grado di coagulare, sedimentare ed esprimere la forza. Se esistono sono solo l’espressione residuale di resistenze conservatrici, forze oscurantiste autocratiche di vecchio stampo (l’Iran, la Cina, La Russia, la Siria). Alle forze statuali classiche in declino, si contrappongono sino ad eroderle, i movimenti di emancipazione; se proprio le prime dovessero ostinarsi a resistere, tutt’al più, se dovesse occorrere una spallata, subentrerebbe la comunità internazionale cosiddetta, di solito un manipolo di prepotenti che si identificano con il bene comune se non addirittura con quello dell’umanità. Sostenere una simile rappresentazione comporta, però, una rimozione degli eventi a dir poco sconvolgente. Si parla di multilateralismo, quindi di una molteplicità di stati nominalmente di pari dignità; appena, però, traspare questa ambizione, si rischia di diventare dei paria. Quando nei contenziosi tra dirittoumanitaristi e stati diventati canaglia, appaiono gruppi di stati intenzionati ( i BRICS) a porsi come mediatori, sono semplicemente ignorati e rimossi, pena il rischio di equiparare la diversa dignità dei contendenti. È stata sufficiente la rivendicazione primaverile di libertà di particolari gruppi in gran parte isolati dal resto del paese, avulsi da ogni discorso di salvaguardia di sovranità di quegli stati e di quelle comunità, per consentire inopinatamente l’infiltrazione, l’intromissione determinante e l’impantanamento secondo le convenienze geopolitiche, sino al sostegno diretto, all’investitura e all’utilizzo delle peggiori marmaglie di predoni che affliggono le zone di conflitto endemico. Il Kosovo, la Libia, la Siria sono solo gli esempi più drammatici dello sfoggio di ipocrisia dei benpensanti a danno dei loro “beneficiati”. Si arriva così al paradosso che una potenza economica di medio/alto rango economico, ma di basso rango politico come la Germania, solo perché portatrice del pensiero mercantilista neocon, diventi la responsabile principale delle nequizie e l’avversario politico da battere, mentre il peggior mestatore dei tempi recenti, arrivato ormai a condurre contemporaneamente ben tre guerre dichiarate, sia stato investito, ancor prima di cominciare, dell’aura sacra del riformatore, dell’umanista, del pacifista, del difensore dei diritti umani, del giustiziere sociale keynesiano. Una fama, del resto, del tutto immeritata compreso in quest’ultimo aspetto, se è vero che i risultati sono così magri e il livello di consenso interno così lontano da quello riaffermato per ben tre volte dal suo antesignano Roosvelt. Devono ammetterlo tra le righe, a denti stretti, gli stessi apologeti.

LE LANTERNE

Ancora una volta, prima o poi, i nostri invasati dovranno ammettere che non esistono politiche di per sé giuste, come anche una politica, per essere tale, ha bisogno di una gerarchia, di una geografia (uno spazio) e di una cadenza temporale. Una politica keynesiana non è giusta, praticabile e conveniente di per sé. È certamente una opzione, probabilmente adesso la migliore, per un paese in piena sovranità, in grado di continuare a drenare sotto varie forme risorse dal suo circondario e di esprimere la forza necessaria a realizzare i propositi. Gli Stati Uniti rientrano in questo paradigma; un massiccio intervento keynesiano potrebbe addirittura servire a rinforzare la coesione interna attualmente un po’ scricchiolante. Di sicuro quelle politiche non renderanno automaticamente quel paese un fautore di pace e di democrazia, come vorrebbero far credere i nostri della sinistra. Per un paese intermedio come la Germania, impegnato a lucrare in maniera predatoria ai danni dei suoi vicini più sciocchi e deboli, senza però mettere minimamente in discussione le gerarchie geopolitiche fondamentali e l’attuale liberalizzazione finanziaria, una politica di apertura indistinta al mercato occidentale, una politica finanziaria più disposta alla spesa e alla condivisione di garanzie comuni esporrebbe il paese alle stesse fibrillazioni e ricatti dei vicini e si vedrebbe minacciato nella propria precaria situazione.

Il discorso si potrebbe porre diversamente solo se preliminarmente singoli stati, o gruppi (ad esempio quelli europei) si ponessero il problema del livello di sovranità e di forza e delle conseguenti politiche necessarie a preservarle.

IL DIBATTITO SERIO

Negli Stati Uniti, come di solito nei paesi storicamente centrali, le modalità di dibattito sono molto più trasparenti che nella periferia, specie quella sottomessa e prona come la nostra italica; è anche meno ovattato di quel pathos ideologico e retorico tipico di quei paesi impegnati a conquistarsi una condizione più autonoma, come ad esempio la Russia di Putin, tanto più se appena sfuggiti alle fauci fameliche dell’America dei Clinton.

Nelle scuole di economia americane da anni le teorie liberiste non hanno più il monopolio culturale. Accanto ad esse hanno piena cittadinanza, compreso negli organismi finanziari internazionali, altre teorie tese a riconoscere al contesto culturale, agli influssi naturali e ultimamente alle stesse scelte politiche un peso sempre più importante nelle teorie e nelle scelte economiche stesse. Per non parlare dei centri di elaborazione strategica, laddove l’economia stessa è uno dei campi, dei fattori e degli elementi del gioco politico. Sono scuole e correnti di pensiero che offrono argomenti, motivazioni e costruzioni ideologiche e culturali ai vari centri di potere in lotta e collusione tra di loro per l’affermazione.

Lo stesso predominio americano del secondo novecento è nato su un presupposto diverso da quello delle potenze coloniali precedenti. Se i rapporti tra le colonie in precedenza dovevano passare necessariamente, spesso per norma, tramite il paese dominante, uno dei capisaldi stabiliti dagli Stati Uniti fu la possibilità di rapporti reticolari tra gli stati dell’impero con il ruolo di mediatore, arbitro e parte in causa della potenza dominante. Un modo più dinamico di concepire le gerarchie che consentisse comunque la formazione ed il consolidamento degli stati nazionali e che in qualche maniera mantenesse un equilibrio economico generale con politiche nazionali dotate tendenzialmente di una certa autonomia operativa. Questo equilibrio fu incrinato più volte nei decenni precedenti e fu rotto nella situazione di relativo unipolarismo negli anni ’90 e giustificato con l’affermazione piena delle teorie neoliberiste. Con l’emergere di paesi più autonomi le teorie delle opzioni politiche e della sussunzione a queste delle scelte economiche hanno ritrovato piena legittimità non solo in quei paesi ma sono riapparse apertamente anche nel paese ancora dominante, non solo come riflesso ma come argomento esplicito di battaglia politica in mano ai vari centri. La stessa teoria della MTT, certamente non la più importante e ancora limitata al ristretto ambito economico finanziario, è nata negli Stati Uniti. Sta di fatto che il dibattito sulle condizioni politiche di creazione ed accesso ai mercati regionali, con l’esclusione esplicita di paesi rivali, è sempre più aperto anche negli Stati Uniti e corroborata da scelte politiche come il TPP nell’area del Pacifico; come è sempre più esplicita la negoziazione politica della difesa del proprio mercato interno e dei propri processi di reindustrializzazione in controtendenza con le delocalizzazioni avvenute negli ultimi trent’anni verso la Cina.

Un po’ per provincialismo, un po’ per inettitudine, un po’ per servilismo congenito, in Italia faticano ad arrivare gli echi di questo dibattito. Nel PD pare siano riusciti a sintetizzare particolarmente bene le due ultime qualità e a rivestire di cosmopolitismo senza radici la prima.

Hanno sposato con entusiasmo una delle due opzioni in campo nel centro dominante, confidando nella definitiva prevalenza nei prossimi anni e nella possibilità di salvaguardare per qualche tempo ancora la propria base sociale e politica, quella tra l’altro meno adatta, da sola, a salvaguardare un minimo di autonomia del paese. Non hanno compreso che quell’opzione assume compatibilità, dimensioni e connotati diversi a seconda del paese che ne sarà portatore e fautore; è probabile che si siano messi felicemente nelle mani della componente più predatoria di quel paese.

goldencalfMALINCONICHE ILLUSIONI

Certamente si sono preclusi ogni chiave realistica di interpretazione della situazione politica e garantiti la cecità che li sta facendo annaspare nei momenti critici, compresa l’attuale campagna elettorale.

Parlano di prosecuzione delle primavere arabe, di un movimento di massa maggioritario in quei paesi, con il rischio, tutt’al più di un colpo di mano dei fondamentalismi, ma non vedono il carattere elitario e l’isolamento di quasi tutti quei movimenti, compreso quello islamico. Le recenti elezioni in Egitto, compreso il tentativo di colpo di stato, sono emblematiche di questa cecità. Si è spacciata, nel peggiore stile degli ascari, una vera e propria guerra di aggressione tesa al risultato minimo dello smembramento di un paese una rivolta tribale, settaria in Libia e poi in Siria. In quest’ultimo caso rientrata inizialmente dalle sue caratteristiche popolari appena iniziata l’opera di infiltrazione e provocazione dei servizi occidentali, della Turchia e delle monarchie della penisola araba e trasformatasi progressivamente in lotta tra fazioni etniche. Non vedono, quindi, o fingono di non vedere il sostegno aperto o surrettizio offerto dal dirittoumanitarista di Washington alle componenti più retrive e mercenarie. L’esempio più eclatante arriva sicuramente dalla Turchia dove le forze più apertamente europeiste, più aperte formalmente ai diritti civili sono diventate sorprendentemente quelle forze islamiche le quali, pur di sconfiggere la componente politica maggioritaria dell’esercito, li hanno scavalcati nelle velleità comunitarie e hanno trasformato repentinamente la loro politica di buon vicinato con i paesi vicini, in una politica aggressiva e destabilizzante, molto più compatibile con i disegni occidentali ma che rischia di destabilizzare il loro stesso paese.

Come non vedono quello che succede nel circondario, non vogliono vedere ancor meno quello che succede nel cortile, soprattutto nella soggezione e nell’insulsaggine di questo processo unitario europeo a beneficio di terzi. I più audaci, come Ranieri, arrivano ad auspicare un rinnovato afflato strategico dell’alleanza euro atlantica. I più, tra i nostri pdiini, paventano malinconicamente e con rassegnazione un proposito di affievolimento dell’interesse se non proprio di abbandono dello scacchiere europeo e mediorientale da parte dell’alleato americano; una interpretazione manichea esattamente speculare alla denuncia altrettanto manichea dell’unilateralismo guerrafondaio di Bush tutt’altro che cieco e scevro, allora, da compromessi. Quell’unilateralismo presupponeva una sorta di residuo riconoscimento di ruolo bipolare alla Russia di Putin, del resto ricambiato con alcuni favori tra i quali il transito sul territorio russo di truppe e materiale americani diretto in Afghanistan e l’insediamento “provvisorio” di alcune basi nelle ex repubbliche sovietiche confinanti con esso; nonché l’annichilimento di ogni velleità europeista autonoma di Francia e Germania. Una politica che lasciò spazi di manovra a Berlusconi sia di rottura di alcune scelte europee, sia di avvicinamento alla Russia, alla Libia e alla Turchia di allora, paese ben diverso dall’attuale. Il momento di evidente contraddizione e svolta di quella politica avvenne con la guerra in Georgia, con Berlusconi e dietro di lui Bush impegnati a contenere i danni con Putin e Gates e il profeta annunciato Obama a proseguire nella politica di provocazione antirussa.

Una illusione, quella del defilamento americano verso il Pacifico e verso la politica interna, pericolosa se non ipocrita la quale maschera il ben accetto ruolo ancillare predestinato ai nostri prematuri orfanelli. La linea calda dei conflitti dal Sahel africano al Pakistan lascia intravvedere ancora quali saranno ancora per tanti anni le linee di conflitto caldo, pericolosamente vicine all’Europa.

NOTARELLA

Vi è un altro argomento forte che angustia le prefiche del neoisolazionismo americano, espresso in un articolo della rivista apparentemente avulso dal contesto redazionale (http://www.tamtamdemocratico.it/doc/247710/la-rivoluzione-energetica.htm ). La prossima acquisizione dell’indipendenza energetica ad opera degli Stati Uniti e la possibilità che il paese diventi esportatore di materie prime energetiche. Per i nostri orfanelli un ulteriore segno dell’incipiente isolazionismo. Nell’articolo c’è però una notiziola cruciale, del tutto anodina, destinata a sconvolgere la già debole costruzione di questa tesi: il petrolio ed il gas destinato attualmente in Europa è gravato da un prezzo di almeno il 20% superiore ai prezzi correnti, del tutto ingiustificato rispetto agli stessi costi trasporto delle materie prime. Probabilmente uno scotto alle rendite dei paesi produttori; sicuramente una cedola necessaria a garantire la prosecuzione delle primavere arabe. È sicuramente il margine che consente agli Stati Uniti di sfruttare convenientemente le proprie riserve non convenzionali e di proporre una alternativa agli europei alla propria “dipendenza” dai paesi arabi, dal Nord-Africa, sui quali per altro gli americani sono ben impiantati a fungere da controllori, ma soprattutto dalla Russia; è sicuramente quell’autonomia, quell’assicurazione che consente loro di operare in maniera più spregiudicata e con minor nocumento personale in quelle aeree, compreso un parziale defilamento che possa attirare su quei posti nuovi protagonisti diretti e nuove occasioni di conflitto da alimentare e/o arbitrare. Un po’ come successo tra Cina e Russia dopo l’abbandono dell’Indocina da parte degli States negli anni ’70.

Discorsi che potrebbero provocare l’agorafobia, l’opposto della claustrofobia, a un ceto abituato a rifugiarsi sotto le gonne pur di evitare scelte autonome ma rischiose e a rimuovere più o meno coscientemente ogni discorso legato alla autorevolezza e alla potenza di un paese dietro magari propositi ecumenici di cooperazione internazionale, di sovranazionalità, di diritto internazionale senza sovranità che mascherano avventure sempre più squallide e balorde; come anche prefigurare una sorta di interventismo per conto terzi, ulteriormente affinato rispetto allo spettacolo offerto in Libia. La fine tragica di Gheddafi, purtroppo, è stata prontamente rimossa; rimane il ghigno mostruoso, gioviale e terribile di “quel formidabile Segretario di Stato” di nome Hillary così invidiato dai nostri buonisti oltranzisti da salotto. Più la situazione si incancrenisce, più facilmente si trovano volontari a fornire giustificazioni teoriche a questo arbitrio. Habermas è l’ultimo arrivato, ma ce ne saranno ancora e di più lucidi.

Il Messia di Washington ha compreso che una potenza militare soverchiante, oltre il doppio di quella dei restanti paesi messa insieme oltre ad essere, probabilmente, ormai economicamente insostenibile serve a catalizzare gli avversari contro l’unico avversario. Da qui il ridimensionamento e la ridislocazione delle forze.

Certamente, il Profeta di Washington ha di che temere nello Stivale, più che la fedeltà, pressoché gratuita, la lucidità e l’utilità di queste schiere adoranti. Sarà per questo timore, oltre che per il giusto riconoscimento, che ha invitato a metà febbraio, nello Studio Ovale, il più fedele nel tempo, da lungo tempo, ma anche il più lucido dei servitori. Ha dimostrato di saper operare sotto mentite spoglie e allo scoperto; merita, a fine carriera, l’onore delle armi e non si sa quale altro riconoscimento. Potrà dispensare sicuramente ancora qualche buon consiglio ed eseguire un’ultima direttiva in tempi così incerti e con persone così inaffidabili.

RAPPORTO CONFIDENZIALE, di Gianfranco Campa

Gianfranco Campa, dalla sua postazione particolare, ci introduce amabilmente ormai da alcuni anni tra i retroscena e nei meandri della politica americana attraverso affreschi ( http://italiaeilmondo.com/2016/11/03/crepe-nellimpero-di-gianfranco-campa-gia-pubblicato-il-19-marzo-2012-sul-sito-www-conflittiestrategie-it/ ) e rapidi flash ( http://italiaeilmondo.com/2016/11/03/la-rivolta-degli-sceriffi-di-gianfranco-campa-gia-pubblicato-su-www-conflittiestrategie-it-il-18-giugno-2016/ ). Adesso tocca ad uno dei dinosauri di quello scenario, pur pesantemente acciaccato ormai, ad essere oggetto di attenzioni: Hillary Clinton. Se la rappresentazione offerta dalla CNN dovesse essere corretta, c’è da rimanere esterrefatti. Possibile che un politico di quel livello, dal curriculum così impressionante, sia capace di una analisi ed una interpretazione così rozza e squinternata dell’esito delle recenti elezioni presidenziali? Ad un politico ancora in attività, seppure sulla via del tramonto, non è possibile pretendere un giudizio obbiettivo, indipendente dalle conseguenze politiche. Colpisce, però, la rozza strumentalità delle accuse e l’incapacità di cogliere la novità e l’efficacia della conduzione della campagna elettorale del suo acerrimo avversario; il mix di raccolta di dati, gestione, intervento mirato sul territorio, uso combinato di tecniche tradizionali e innovative. Un errore imperdonabile , per una professionista della politica. Ci sarebbe da prendere atto di un fallimento quasi esistenziale di questa classe dirigente formatasi negli anni ’90 e successivi in un agone senza veri competitori e avversari politici, se avversari possono chiamarsi i vari Boris Eltsin, Scalfaro, Letta, D’Alema, Ciampi, Merkel, Sarkozy. Una classe dirigente abituata evidentemente a vincere facile e poco avvezza allo scontro duro con competitori reali. Una classe dirigente che ha infatti dilapidato in pochissimi anni un potenziale egemonico apparentemente superiore a quello dell’Inghilterra del secolo XIX. Lascio al più autorevole Campa il compito di discettare in futuro della condizione del suo paese. Preme sottolineare, piuttosto, la conferma della condizione peregrina della nostra classe dirigente, in particolare della cosiddetta sinistra. Abbiamo visto, in questi anni recenti, dirigenti qualificati, come Massimo d’Alema, gonfiare talmente di compiacimento il proprio gracile corpo da insufflare persino le proprie gote al cospetto e nelle grazie ostentate di Hillary Clinton; abbiamo visto i suoi numerosi epigoni, in particolare di genere femminile, tra questi la Dassù, la Pinotti, la Mogherini, accorrere affannosamente e senza ritegno, al momento dell’assegnazione del loro incarico istituzionale, nemmeno dai diretti referenti istituzionali americani, ma attraverso i sensali, capaci di aprire loro almeno le porte di servizio ( http://italiaeilmondo.com/category/dossier/autori-dossier/giuseppe-germinario/.  ) Una progenie politica che, evidentemente, ha evitato di analizzare seriamente gli errori e i meriti del proprio passato;  ha semplicemente rimosso gli antefatti e, con questo, pronto a assorbire dai più potenti il peggio, trascinando il paese lentamente nella attuale disastrosa condizione, pur di sopravvivere a se stessi. Sembrano ormai destinati a soccombere; ma non è detto che il paese, pur liberatosi dal fardello, riesca ugualmente ad emergere. Germinario Giuseppe

Il libro di Hillary Clinton sulla campagna presidenziale dell’anno scorso, uscirà nelle librerie degli Stati Uniti il 12 Settembre, ma già si conoscono importanti passaggi dei suoi contenuti del testo  dal titolo “What Happened” (Cosa e` Successo). Potrei spiegare tranquillamente io alla Signora Clinton cose è successo; ma la Clinton nel libro si ostina ad elaborare una serie di teorie che hanno contribuito secondo lei alla sconfitta della sua campagna elettorale e di conseguenza alla vittoria del presidente Donald Trump.

Il libro è stato acquistato in Florida dalla CNN una settimana prima del previsto lancio. Grazie alla sua tempestività si possono apprezzare alcuni passaggi dell’opera.

Puoi biasimare i dati, incolpare il messaggio, incolpare tutto quello che vuoi – ma io ero il candidato” scrive.Era la mia campagna, quelle sono le mie decisioni“. La Clinton ammette di aver anche sottovalutato Trump.

Penso che sia giusto dire che non ho capito quanto velocemente il terreno si stava spostando sotto i nostri piedi“, scrive. “Stavo correndo una tradizionale campagna presidenziale con politiche accuratamente pensate e coalizioni costruite minuziosamente, mentre Trump stava gestendo un reality show televisivo che ha saputo coltivare in modo irresistibile facendo leva sulla rabbia degli americani“.

Poi la Clinton punta il dito contro il direttore dell’FBI James Comey quando ha riaperto l’inchiesta sullo scandalo delle emails classificate.”La lettera di Comey ha sconvolto la campagna presidenziale” scrive Clinton.

Nel libro, Clinton parla anche del suo matrimonio con l’ex presidente Bill Clinton e osserva che  “Ci sono stati momenti in cui ero profondamente incerta se il nostro matrimonio doveva continuare o meno, ma in quei giorni mi sono fatta le domande importanti: lo amo ancora? Posso rimanere in questo matrimonio senza diventare irriconoscibile a me stessa- contorta dalla rabbia, dal risentimento o dalla solitudine? Le risposte erano sempre affermative”.

Ha anche affrontato l’intromissione della Russia nelle elezioni del 2016 e si chiede se una risposta più forte da parte del presidente Barack Obama avrebbe aiutato. Su Vladimir Putin, Clinton sostiene di aver meditato una vendetta; “non avrei mai immaginato che Putin avesse l’audacia di lanciare un massiccio attacco contro la nostra democrazia, proprio sotto i nostri nasi – e di averla fatta anche franca”. Personalmente su questo passaggio non saprei se ridere o piangere talmente ridicola risalta la affermazione di Clinton. HC si rammarica per non avere potuto fargliela pagare, a Putin. “Non aspettavo altro che mostrare a Putin come i suoi sforzi per influenzare le nostre elezione, installando un amichevole burattino (Trump), erano falliti”, scrive. “So che Putin gode di tutto quello che è successo, ma ride bene chi ride ultimo…“.

Inoltre Clinton afferma che “Ci sono  molte persone che speravano che anche io scomparissi, ma sono ancora qui.”

Apparentemente la Clinton nel libro attribuisce anche molte colpe della perdita delle elezioni anche  a Bernie Sanders, Joe Biden, Barack Obama e altri.

L’uscita del libro di Clinton avviene nel momento in cui il libro della sua guida spirituale, il pastore Metodista; Bill Shillady è stato ritirato dagli scaffali delle Librerie con l’accusa di Plagio. Il libro intitolato: “The Daily Devotions of Hillary Rodham Clinton” (Le devozioni quotidiane di Hillary Rodham Clinton),  è una raccolta delle e-mails che lui e altri ministri hanno inviato all’ex Segretario di Stato ogni quotidianamente durante la campagna presidenziale del 2016. Ogni e-mails devotamente composta ogni mattina alle 4 in punto, conteneva un brano della Scrittura, un breve sermone e una preghiera per lei da recitare quel giorno.

Alla fine sulla domanda della Clinton; Cosa e Successo? La risposta è più semplice di quello che sembra: E` successo che Trump ha vinto e la Clinton ha perso. Quello che invece continuiamo a non sapere e che fine hanno fatto le 33.000 emails che la signora Clinton ha eliminato dal suo server…Quello si richiede una risposta che ancora non è arrivata e forse mai arriverà…

Penso che ogni analisi sia superflua. Ogni volta che sento la Clinton parlare, scrivere o semplicemente respirare, mi rendo conto che con tutte le sue debolezze, le sue incertezze, la sua approssimazione, Trump a suo modo e` stata una salvezza.

LETTERA DAL PROFESSORE, a cura di Giuseppe Germinario

Pubblichiamo, autorizzati, la lettera di un professore italo-americano, insegnante di liceo a San Francisco. Dal testo si comprende come il dibattito ormai del tutto distorto sull’antifascismo, sui diritti umani, sul politicamente corretto non sia una prerogativa italiana. Si può affermare con certezza, al contrario, che le campagne orchestrate dai grandi organi di informazione siano solo un aspetto di una pratica certosina pluridecennale che ha messo le prime radici negli Stati Uniti sino alle sue ultime degenerazioni moralistiche ed inquisitorie pervasive dei diversi ambiti della società, a cominciare dal settore dell’istruzione, denunciate dalla lettera. In Italia, quello che ci appare una novità, a cominciare dall’impegno messianico e ottuso della nostra Presidente della Camera, Laura Boldrini, non è altro che il rimasuglio ripetitivo, nemmeno troppo convinto, di una violenta battaglia politica il cui epicentro è localizzato di là dell’Atlantico

«Fino a pochi giorni fa i neo-nazisti in America erano quattro gatti,
psicopatici, buoni al massimo ad essere messi alla berlina dai Blues
Brothers. Qualche settimana fa, sono andati a Charlottesville in cerca
di attenzione. La Cnn si è occupata di loro con una diretta non stop. La
presenza delle telecamere ha galvanizzato la protesta e la
contro-protesta, così ora i nazisti, da quella caccola che erano, si
sentono importanti. La diretta televisiva a Charlottesville ha aperto
una lattina piena di vermi e ora non c’è più modo di rimettere i vermi
nella lattina.

Tutto questo è il risultato di una mentalità che nasce nelle high
schools, forse anche middle schools, dove tutti i temi politicamente
corretti costituiscono una specie di dogma e dove si sviluppa la
retorica del “safe space”, lo “spazio sicuro”. Gli insegnanti sono
invitati a mettere sulla porta della loro aula un adesivo che dice
“questo spazio è sicuro”, cioè è uno spazio dove non si mette in
discussione la teoria gender, non si parla di diritto alla vita dei
nascituri, nessun comportamento sessuale è criticato. Sono incluse in
questa retorica anche tutte le teorie pseudo scientifiche su come
l’apprendimento, e perciò la conoscenza, dipenda dal soggetto e non
dall’oggetto che viene studiato. Non è un caso che l’oggettività del
metodo di conoscenza è sotto attacco.

Un altro grande dogma indimostrato che comincia dai livelli scolastici
inferiori è quello di tutta una serie di “disordini”, il più famoso dei
quali è l’Add, Attention Deficit Disorder, o il suo fratellino Adhd,
Attention Deficit and Hyperactivity Disorder. Ce ne sono molti altri e,
anche se la definizione di disordine enuncia chiaramente che non sono
patologie, vengono di fatto trattate come tali, in molti casi con
psicofarmaci. La conseguenza è che un numero sempre crescente di
ragazzini è considerato non responsabile delle proprie azioni (il ché
potrebbe essere vero nel caso di una patologia), in quanto ha un
“disordine”.

*Il cestino dei deplorevoli
*Qualunque tentativo di discutere seriamente “dogmi”, è presentato ai
ragazzini come una forma di attacco a loro stessi. Questo li educa a
considerare qualunque sfida alla versione corrente del politicamente
corretto come un’offesa inaccettabile, un attacco che provoca loro una
sorta di dolore mentale. Da qui si capisce come, arrivati
all’università, questi ragazzi considerino non solo un loro diritto, ma
quasi un dovere impedire di parlare a chiunque dica una cosa diversa dal
sistema di pensiero dello “spazio sicuro”.

Si potrebbero citare molti episodi, mi limiterò a quanto accaduto al
Middlebury College a fine febbraio. Alison Stanger, una professoressa di
sinistra, aveva invitato Charles Murray, un sociologo conservatore, a un
dibattito pubblico. Gli studenti erano così infuriati che li hanno
attaccati fisicamente e la professoressa ha subìto una contusione. La
presenza di un conservatore nel campus non li faceva sentire sicuri, in
quanto i conservatori sono tutti per definizione intolleranti. Questione
di “feeling”.

Qualunque pensatore non in linea con l’ultima versione del politicamente
corretto è automaticamente immesso in quello che Hillary Clinton ha
definito “il cestino dei deplorevoli”. Nella mente dei ragazzi educati
alla retorica dello spazio sicuro, tutti quelli che sono al di fuori di
tale spazio sono i mostri che popolano il buio dei bambini: odiano i
gay, le donne, i neri e le minoranze; sono fascisti e nazisti. Neanche
essere gay li salva, infatti Milo Yiannopoulos ha ricevuto gli stessi
trattamenti. Questo dimostra che quelli che difendono non sono i gay
reali, ma solo quelli politicamente corretti; non i neri reali, ma solo
quelli politicamente corretti. Se un afro-americano esprime un punto di
vista “conservatore” diventa subito una legittima preda degli attacchi
verbali più feroci, senza tema di razzismo.

Allora si capisce l’enorme pubblicità data al fenomeno, fino a ieri
marginale, dei neo-nazisti. Infatti consente di dire alla generazione
dello “spazio sicuro”, cioè il terreno di coltura degli elettori liberal
del presente e del futuro: “Avete visto che avevamo ragione? Tutti
quelli che non sono d’accordo con noi sono in realtà dei mostri, dei
nazisti. Non esiste complessità di temi o di posizioni, il mondo si
divide in noi e loro. Noi siamo i buoni e loro i cattivi”. I cliché di
Hollywood avevano già preparato il terreno da tempo».

 

 

DEUTSCHLAND ÜBER ALLES?, di Giuseppe Germinario (3a ed ultima parte)

1a parte http://italiaeilmondo.com/2017/08/07/deutschland-uber-alles-di-giuseppe-germinario-1a-parte/

2a    parte     http://italiaeilmondo.com/2017/08/12/deutschland-uber-alles-di-giuseppe-germinario-2a-parte/

Così si conclude la seconda parte dell’articolo:

La chiave di lettura determinante per individuare il peso reale della Germania e la sua collocazione nelle dinamiche geopolitiche riguarda però il ruolo dell’economia nello stabilire il peso strategico e la condizione conflittuale di un paese.

Chi attribuisce alla Germania un ruolo di protagonista assoluto, di competitore e di antagonista di prim’ordine tende ad attribuire più o meno esplicitamente all’economia, nel migliore dei casi ai rapporti sociali economici, il ruolo preponderante e sovradeterminante gli altri ambiti delle attività umane, compresa quella politica, solitamente assumendo il seguente canovaccio.

UNO SCHEMA INTERPRETATIVO LIMITANTE E FUORVIANTE

La capacità di potenza si esprimerebbe soprattutto attraverso il peso economico; il campo preponderante di esercizio della competizione sarebbe il mercato; l’esercizio della potenza si realizzerebbe soprattutto attraverso la capacità commerciale; la sua misura si pondererebbe attraverso i dati macroeconomici del PIL, del saldo commerciale, degli attivi finanziari, nel migliore dei casi anche della presenza preponderante nel settore dei beni di consumo di massa più evoluti e durevoli. Scelte politiche non corrispondenti alla condizione economica sono considerate illogiche, sbagliate o semplicemente degli accidenti della storia destinati a rientrare o a determinare la sconfitta dei soggetti promotori.

Uno schema fuorviante sia in termini generali che affrontando una analisi della condizione della particolare economia tedesca.

Si può partire dalla constatazione che i mercati tengono conto e tendono a conformarsi progressivamente alle sfere di influenza politiche in via di formazione proprio perché gli attori economici privilegiano le condizioni di maggiore stabilità; le stesse grandi aziende, ormai da alcuni anni, tendono a riassumere il controllo diretto della verticale delle filiere produttive seguendo le condizioni di sicurezza politica. In una fase nella quale la leva economica, sotto forma di condizioni di finanziamento ed investimento e di apertura del mercato, di controllo tecnologico, addirittura dei prezzi in numerosi settori specie strategici, viene utilizzata non solo per condizionare, ma come strumento diretto di sanzione e conflitto, la funzione della politica emerge dalla maschera della competizione puramente economica tra gli attori.

Ma il politico, nella sua accezione di essenza, di caratteristica intrinseca, trova il modo di agire in maniera ancora più “subdola” nell’ambito economico; un esempio può essere l’invenzione, l’adozione, l’applicazione su base industriale e la padronanza delle tecnologie.

In Cina, ad esempio, il tentativo imponente di assumere la creazione e la padronanza delle tecnologie, uno dei fondamenti utili a garantire l’autonomia, l’autorevolezza e l’indipendenza delle decisioni della classe dirigente di un paese, passa anche attraverso lo scontro tra i sostenitori dei grandi colossi industriali, eredi delle imprese statali del periodo “socialista”, di fatto ancora sotto controllo politico diretto, e l’ampio settore di medie e piccole aziende, presenti nel sudest del paese molto più dipendenti dalle tecnologie e dai moduli organizzativi occidentali. Nel recente passato è sufficiente rispolverare alcuni casi, l’Olivetti in Italia e il sistema di motore a reazione Arrow in Canada tra i tanti, per constatare che la capacità tecnologica ed organizzativa di una azienda possono determinare gli standard di un mercato solo all’interno di contesti conformati politicamente.

Il mercato, infatti, rappresenta un’area, un campo di azione governato da un insieme di regole di natura politica, frutto di imposizioni e mediazioni, entro il quale agiscono gli attori economici; la rottura e la modifica di queste ultime comporta inevitabilmente ed intrinsecamente atti politici.

L’immagine che ancora si offre del mercato è invece troppo spesso fuorviante e semplicistica.

Il mercato globale viene rappresentato come una rete con un centro regolatorio indefinito e indefinibile; il suo innegabile sviluppo è però artificiosamente amplificato dalla frammentazione politica degli stati che ha trasformato in commercio estero gran parte degli scambi interni degli stati nazionali antecedenti il crollo del blocco sovietico; la sua rappresentazione glissa sull’esistenza e il rafforzamento al suo interno di aree, settori e blocchi attraverso i quali, tra l’altro si veicolano le influenze politiche.

La stessa raffigurazione degli organismi internazionali preposti alla regolazione di esso nasconde il fatto che tali regole non sono affatto neutrali e soddisfacenti in egual misura i vari attori, ma anche, più prosaicamente, che ammettono innumerevoli deroghe, omissioni, clausole particolari e comportamenti discriminatori che lasciano sospettare il peso politico differente dei paesi nella conduzione.

Gli esempi più clamorosi riguardano probabilmente il diverso trattamento riservato a Russia e Cina nei tempi di adesione agli organismi nonché nelle modalità e nella qualità dei trasferimenti di tecnologia occidentale; come pure il diverso trattamento riservato alle cosiddette Tigri Asiatiche e alla Corea del Sud rispetto ad alcuni paesi del Sud-America.

UNA RAPPRESENTAZIONE PIU’ ESAUSTIVA

Questo schema consente, probabilmente, una valutazione più realistica e meno enfatica del peso economico sia intrinseco che rispetto agli altri ambiti dell’azione politica nel determinare la forza geopolitica della Germania e, soprattutto, nel determinare i passi e le condizioni necessari a garantire la sua emersione come attore politico più autonomo.

 hermannsdenkmalLa Germania, a partire dalla fine degli anni ‘80, al pari di tutti i paesi, ha avviato un processo di profonda trasformazione economica concomitante e favorito dalla sua nuova collocazione geopolitica determinata dall’unificazione seguendo però proprie peculiarità.

Ha salvaguardato ed accentuato il carattere dualistico del suo sistema finanziario trasformando, dopo l’uccisione di Herrhausen, la Deutschbank nella quinta banca di investimento al mondo dedita a servizi di consulenza e alla gestione dei nuovi e più speculativi prodotti finanziari e tutelando dalle intromissioni comunitarie il sistema di banche territoriali a tutela dei sistemi locali economici e sociali.

La difesa ostinata della sua politica restrittiva in ambito europeo non serve soltanto a indebolire i suoi concorrenti economici prossimi, l’Italia e la Francia, ma a difenderla dalle loro debolezze e, sinché possibile, dalle implicazioni più rischiose della sua esposizione nei circuiti finanziari dominati dal sistema angloamericano.

Ha governato con lungimiranza il processo di precarizzazione di larghi settori dell’economia industriale e dei servizi, analogo a quello di altri paesi, compensando parzialmente con il welfare pubblico la regressione socioeconomica di vaste aree sociali.

Ha saputo tutelare e sviluppare alcuni settori di produzione di beni di consumi di massa tradizionali ma relativamente più complessi (automobile, agroalimentare, meccanica) mantenendo il pieno controllo della catena produttiva e di valore e decentrando sapientemente la componentistica nei paesi dell’hinterland più affine non garantendo più la quasi esclusiva del settore all’Italia.

germania_economia_apL’attivo commerciale imponente che ne deriva è il frutto non solo di queste politiche, ma anche di un misconosciuto basso livello di investimenti sia pubblici, in particolare delle infrastrutture del paese, che, con sorpresa, privati rispetto ai più importanti paesi dello scacchiere mondiale. Un livello, specie in quelli pubblici che, protrattosi nel tempo analogamente alla condizione dell’Italia, rischia di pregiudicare le stesse capacità tecniche e tecnologiche di ricostruzione. Un attento esame del campione di immagine tedesco, la Volkswagen, rivela sorprendentemente i punti deboli, sopperiti sino ad ora da una indubbia capacità commerciale, del suo settore privato.

L’economia tedesca, tra l’altro, è pervasa, più degli altri paesi europei dagli investimenti statunitensi in importanti settori così come dipende maggiormente dalle esportazioni in America.

La Germania è senz’altro presente in maniera significativa in alcuni settori importanti come quello dei beni industriali, della meccatronica, della chimica, del software applicato; ma è quasi del tutto assente, al pari degli altri paesi europei, nel settore del controllo e della gestione on line dei dati, fondamentale per il controllo dei flussi e dei comandi operativi nell’industria 4.0.

E’ in difficoltà in altri ambiti strategici, tra i quali l’avionica, l’aeronautica, il gps (Galileo) oggetto di ingenti investimenti soprattutto pubblici, frutto soprattutto di ricerche nell’ambito militare francese, ma pregiudicati dai dissidi di gestione tra i paesi cooperanti o dalle limitazioni nell’uso in ambito militare, frutto a loro volta delle imposizioni e delle premure americane.

Il progetto AIRBUS, gestito da Germania, Francia e Spagna, conosce così una fase di crisi acuta ed improvvisa, alimentata anche dai dissidi di gestione, la quale sta rinfocolando le ambizioni di una direzione avulsa dal controllo azionario e le voci di una possibile acquisizione da parte dell’americana General Electric; il progetto Galileo, invece, dopo anni di faticosa gestazione, avversato dalla stessa Commissione Europea al pari di Airbus, vede intaccato il proprio primato tecnologico dalla inibizione della possibilità di applicazione nell’ambito militare.

Sono solo due degli episodi, questi ultimi, rivelatori della dipendenza politica di quel paese in tutti gli ambiti, a partire ancora una volta da quelli prioritari istituzionali e mediatici.

Ci sarebbe anche da aggiungere le considerazioni sugli effetti della politica comunitaria tesa ad impedire sistematicamente la formazione di colossi industriali paragonabili con quelli americani e ultimamente cinesi, ma solo per constatare che la stessa Unione Europea è propedeutica al mantenimento di questa subordinazione dei paesi dell’intero continente.

LE INTENZIONI E LE POSSIBILITA’ DI AFFRANCAMENTO

Ogni atto politico, compresi quelli di politica economica, della classe dirigente germanica va valutato, quindi, secondo l’intenzione e la capacità di affrancamento da tale situazione.

A tutt’oggi non risultano passi decisivi in questa direzione.

Intanto l’aspirazione ad ottenere un vero e proprio trattato di pace apertamente riconosciuto dagli Stati Uniti e da Francia e Gran Bretagna risulta ancora inevasa a distanza di settant’anni, con tutto quello che implica nei diritti e nella discrezionalità di forze militari ancora di occupazione; dal punto di vista istituzionale del ripristino del controllo effettivo su settori chiave dell’apparato statale lo sforzo appare più di immagine che effettivo; da quello invece del sistema di informazione e di formazione dell’opinione pubblica la situazione risulta ancora peggiorata visto il progressivo declino e l’incapacità persuasiva della residua classe dirigente ancora legata alla Oestpolitik.

La stessa crisi del Partito Socialdemocratico non fa che accentuare questa parabola; le lamentele e le rimostranze recenti della classe imprenditoriale tedesca riguardante l’esposizione eccessiva della Merkel contro la Presidenza di Trump sono per di più legate ai rischi di sanzioni commerciali legate al surplus commerciale.

Le tentazioni per una politica più autonoma ed indipendente certamente non mancano. Più che per forza propria potranno trovare ulteriore alimento dalle evidenti forzature che la politica estera americana, attualmente in fibrillazione, sta operando. Queste ultime, in particolare, ultimamente si stanno esercitando sugli ostacoli alla costruzione vitale del secondo gasdotto Northstream tra Russia e Germania in grado di rafforzare il ruolo di hub europeo e di controllore essenziale delle forniture nel continente e sulle pressioni per un aumento dei bilanci di spesa militare. Un loro significativo incremento potrebbe indurre al rafforzamento di un proprio complesso industriale militare propedeutico alla nascita di una struttura di difesa autonoma; una eventualità, però, in controtendenza con le attuali pulsioni autodistruttive operanti sia in Germania che nella stessa Francia.

Lo stesso progetto di cooperazione militare rafforzata portato avanti ultimamente e strombazzato dalla Germania presenta numerosi aspetti di ambiguità:

  • nasce sulle ceneri dell’ipotesi di integrazione delle forze armate tedesche e francesi fallita ad inizio secolo;

  • punta all’integrazione di paesi (Olanda, Romania, Rep. Ceka) appartenenti all’area di influenza tedesca ma particolarmente legati, in funzione antirussa, all’establishment statunitense;

  • si tratta ancora di forze limitate tese, probabilmente, più a compensare la debolezza delle forze operative tedesche e il timore di affrontare le conseguenze esterne di un più pesante riarmo diretto;

  • il debole coinvolgimento della Francia e l’assenza dell’Italia lascia intravedere una funzione di contenimento di questi paesi piuttosto che di affrancamento dalla tutela americana;

  • negli ultimi anni, il carattere antirusso della politica estera tedesca si è ulteriormente accentuato e rischia di diventare irreversibile, non ostante le relazioni economiche non corrispondano esattamente ai proclami sanzionatori; questo comporta dei riflessi diretti nelle opzioni militari.

hermannsdenkmalCONSUNTIVO

In realtà l’attuale classe dirigente tedesca, rispetto al quale non risultano emergere forze alternative credibili, tende inesorabilmente a cacciarsi in una situazione analoga a quella che la hanno trascinata nelle due ultime rovinose guerre mondiali.

Non ha la forza e le caratteristiche per diventare, da sola, l’artefice di un polo politico comparabile con quelli in via di formazione, in competizione con gli Stati Uniti; per ambire a tale condizione dovrebbe puntare razionalmente a stringere un sodalizio meno squilibrato e su basi più paritarie in via prioritaria con la Francia e l’Italia e su questo costruire un rapporto costruttivo con la Russia. Questo implica una ridefinizione dei rapporti e un’azione verso la maggior parte dei paesi dell’Europa Orientale e quelli scandinavi che agevoli un ricambio di quelle classi dirigenti così oltranziste, impegnate ad affermare la propria identità e rafforzare la loro circoscritta influenza regionale a scapito della Russia, scegliendo la via apparentemente più comoda ed immediata: una alleanza politica sempre più stretta con gli Stati Uniti attualmente praticabile soprattutto grazie alla garanzia del retroterra tedesco, ma resa certamente più fragile da una sua defezione. Non si può dire certo che gli ingombranti vicini, Italia e Francia, concedano più di tanto qualche chance a questa eventualità. Una svolta quindi tanto più improbabile per l’azione ricorrente di Francia e Italia di “utilizzo” del potente d’oltreatlantico per regolare le controversie di vicinato in un processo di integrazione atlantista che sta coinvolgendo pesantemente, ormai anche la Francia, anche se non ancora, probabilmente, in maniera irreversibile. Si tratterebbe di rimettere in discussione le modalità di costruzione di un sistema di relazioni costruito negli ultimi trenta anni, laddove la posizione di vassallo privilegiato ha consentito di costruire una formazione sociale sufficientemente solida da garantire un largo consenso e discreti margini di azione.

Più che una subordinazione riottosa sembra per tanto, quello della Germania, un sodalizio consenziente per quanto prono. Una condizione che difficilmente può essere superata senza la formazione di poli alternativi che impediscano di continuare a lucrare sui saldi commerciali e senza un significativo indebolimento della potenza egemone ancora in gran parte da compiersi. L’alternativa, in mancanza di un recupero del controllo pieno delle leve di potere, potrebbe essere una fuga velleitaria in avanti, magari vellicata dalla stessa potenza egemone, propedeutica ad una terza pesante lezione storica.

E L’ITALIA?

In tale contesto inquadrare la collocazione dell’Italia come un paese dibattuto nella scelta tra il contendente tedesco e quello americano con una propensione iniziale per quella teutonica, appare una indicazione fuorviante; del tutto fuori luogo se, come statuisce la redazione di Limes, a questo dilemma corrisponde la formazione sul suolo italico di due blocchi in tenzone tra loro; quello economico sensibile alle sirene germaniche, quello istituzionale, degli apparati di sicurezza legato a quelle americane. Una contrapposizione che non offre una sintesi credibile semplicemente perché uno dei pilastri e ambiti del contenzioso, quello economico, non è assolutamente una prerogativa assoluta e nemmeno prevalente della Germania. La struttura economica italiana, negli ultimi trenta anni ha subito una drammatica perdita di controllo dei propri assetti strategici più importanti, superiore alla stesa distruzione dell’apparato produttivo. La gran parte di quelle attività sono finite in mano americana e poi francese, più che tedesca. È sufficiente scorrere i destini dell’industria aeronautica, dei generatori, della ceramica, della siderurgia specializzata, della meccanica, oltre che dei marchi alimentari, della moda e soprattutto della rete di telecomunicazioni per rivelare una penetrazione ben più articolata e preoccupante. I commensali del banchetto sono numerosi. È sufficiente orientare i propri padiglioni verso la voce dei corifei, tra i tanti Calenda, tutti impegnati ad identificare la globalizzazione con il mercato americano, per individuare le priorità stabilite dalla maggior parte della classe dirigente. L’impegno tedesco si è concentrato, piuttosto, sulla gestione del drenaggio del risparmio, sull’acquisizione di alcuni poli logistici necessari ai flussi dell’industria tedesca, sul controllo parziale ma indiretto della componentistica e sul ridimensionamento della capacità produttiva di un importante competitore.

DIFFICILMENTE

In realtà, sino a quando l’attuale classe dirigente tedesca riuscirà a mantenere in qualche maniera il controllo della costruzione europea per conto terzi, difficilmente la propensione tutta italica a costituire fazioni autodistruttive per conto di podestà stranieri potrà essere soddisfatta e la disputa occuperà inevitabilmente temi più rarefatti, come difficilmente il sodalizio tedesco-americano potrà incrinarsi significativamente, specie in una fase di restaurazione della politica americana ormai vincente.

Difficilmente, però, l’approccio offerto dalla redazione potrà offrire un contributo ad uno sforzo consapevole e proficuo di individuazione di un interesse nazionale capace di raccogliere il consenso delle parti più dinamiche e dignitose della comunità; come pure diventa alquanto arduo individuare, in Europa, nei vari paesi, le forze suscettibili di essere coinvolte.

Quanto alla Germania, se resurrezione dovrà essere, richiederà la realizzazione di numerose condizioni; i timidi vagiti richiederanno tempo per arrivare ad espressioni più articolate e razionali. La stessa formazione sociale tedesca inizia a conoscere importanti crepe nella sua proverbiale coesione con la erosione dei punti di garanzia e stabilità, ma anche di immobilismo. Si sta cominciando dal ruolo dei sindacati; ben presto toccherà anche il sistema periferico di promozione ed assistenza sociale. Bisognerà vedere se gli eventi, ormai incalzanti, concederanno il tempo necessario a compiere le svolte.

11° Podcast_LA FORTEZZA ASSEDIATA, di Gianfranco Campa

Gianfranco Campa conferma con cognizione di causa ciò che lui stesso e questo sito avevano analizzato e previsto in tutti questi mesi. Il vecchio establishment è riuscito a riprendere il controllo integrale degli strumenti di governo. Gli strumenti di potere no, quelli li ha sempre detenuti, anche se profondamente intaccati nella loro efficacia e nella loro credibilità. Hanno ripreso il fortino, ma hanno dovuto scoprire gran parte dei loro sistemi di difesa e di attacco Lo scotto pagato per conseguire la vittoria è stato pesante. Hanno dovuto a malincuore includere Trump, il portabandiera e allontanato, ma non annientato i veri artefici dell’incursione alla Casa Bianca i quali intendono riprendere piena libertà di azione, forti degli strumenti e del consenso del nocciolo duro e compatto sul quale Trump ha basato la propria campagna elettorale. Hanno però messo a nudo l’artificiosità del gioco democratico di questi ultimi decenni evidenziando la sotterranea connivenza tra i vertici dei due partiti contendenti;  infatti sia buona parte della dirigenza del Partito Democratico che la quasi totalità di quello Repubblicano ne escono screditati sino a veder minacciata, quest’ultima, la propria stessa sopravvivenza. Hanno compromesso in maniera duratura la credibilità e l’efficacia del sistema di informazione. Hanno dovuto vellicare i peggiori istinti del repertorio dirittoumanitarista e del politicamente corretto sino a legittimare la furia iconoclasta che sta alimentando a dismisura le profonde divisioni nel paese e provocare reazioni altrettanto retrograde, utili però a strumentalizzare e demonizzare il profondo movimento di dissenso che cova sotto le ceneri. Hanno dovuto mettere in campo, nella gestione dell’esecutivo, soprattutto un intero staff militare. Le implicazioni circa la credibilità di questa fondamentale istituzione dello Stato e le particolari modalità di conduzione del gioco politico non tarderanno a manifestarsi pesantemente. In sostanza, lo scontro politico nel merito non si è concluso, ma spostato su un altro terreno in modo altrettanto radicale. Se i vincitori attuali riusciranno a riportare nell’ombra i meccanismi veri del potere potranno vincere definitivamente; in caso contrario lo scontro si annuncerà ancora più duro e pesante. Buon ascolto, con tanta attenzione_ Giuseppe Germinario

Qui sotto il link

11https://soundcloud.com/user-159708855/podcast-episode-11

Meno due, meno uno……, a cura di Giuseppe Germinario

bannonsteve_trumpdonald_gorkasebastian_gnCon le dimissioni di Sebastian Gorka dallo staff presidenziale americano, la presenza del nucleo originario di sostegno che ha portato all’elezione e all’insediamento di Trump si riduce al solo Peter Navarro, rimasto per altro al di fuori del Consiglio Nazionale. Una funzione, praticamente, di mera testimonianza. La lettera ha evidenziato chiaramente i termini del dissenso, in aggiunta e in maniera più secca rispetto alla lettera di dimissioni di Bannon. La lotta all’islamismo radicale avrebbe dovuto essere la base su cui costruire un accordo di vicinato con l’attuale leadership russa. Una ambizione resa però chimerica dall’inclusione di Hamas, tra le organizzazioni terroristiche, in buona compagnia dei Fratelli Musulmani, sostenuti dalla Turchia; dall’elezione dell’Iran a principale avversario dichiarato nello scacchiere mediorientale. La revisione dell’accordo con l’Iran avrebbe dovuto riguardare soprattutto, nelle intenzioni iniziali, la parte economica, giudicata poco favorevole agli interessi americani; con il passare del tempo, grazie anche alla sommatoria di opzioni scaturite dal conflitto interno alla dirigenza americana, ha assunto sempre più un peso geopolitico. Una dinamica la cui inerzia sta risucchiando la politica estera americana verso il classico sodalizio israelo-saudita indebolito però dalla crisi della dinastia dei Saud. Una impostazione che sta ricacciando progressivamente gli Stati Uniti dalla posizione di arbitro-giocatore a quella di compartecipe pur essenziale. In questo il pragmatismo dichiarato di Trump e del nuovo staff di cui si è circondato, o per meglio dire che lo ha circondato e messo sotto tutela, sembra avere decisamente la meglio con il risultato di riportare in auge, su scala più ampia e coinvolgendo direttamente gli stati nazionali, l’interventismo “caotico” privo però, almeno al momento, della copertura ideologica dirittoumanitarista. Il coinvolgimento esplicito dell’India, l’inclusione possibile dei Talebani, di parte di essi, nella riorganizzazione dell’Afghanistan successiva al nuovo intervento americano, esplicitato per la prima volta in forma ufficiale, lasciano intravedere nuove articolazioni per altro già tracciate sul finire della Presidenza di Obama, ma anche nuovi spazi ai disegni geopolitici concorrenti. Non a caso, tra le varie cose, l’attuale Governo Afghano ha offerto proditoriamente ai russi il ruolo di mediatori e di forza di intermediazione. Una impostazione che sta riportando rapidamente la politica americana dall’intenzione di ridimensionare direttamente la Cina attraverso soprattutto l’induzione di una sua crisi finanziaria, come teorizzato dal gruppo ormai sconfitto all’interno della Casa Bianca al classico canovaccio che vede nella Russia l’avversario da battere e la Cina la potenza da contenere e da inglobare in qualche maniera. Con il tramontare, pur anche agli albori, di questa nuova strategia rimane comunque un ruolo più diretto ma più circoscritto degli Stati Uniti e della sua stessa diplomazia. Quest’ultima, spesso e volentieri, vedi anche l’Ucraina, rimaneva defilata salvo agire per vie traverse sabotando o reinterpretando accordi sottoscritti da altri. Fallisce, probabilmente, l’obbiettivo prioritario di ridare coesione alla formazione sociale americana attraverso una politica di massiccio reinsediamento industriale e produttivo a scapito dei tanti paesi economicamente emergenti sulla base del deficit commerciale americano da perseguire attraverso un rivoluzionamento del sistema di accordi commerciali e finanziari. Il punto di compromesso tra le forze originarie residue sostenitrici di Trump e la parte del vecchio establishment disponibile, almeno all’apparenza, ad un accordo sarà probabilmente un parziale riequilibrio delle compensazioni commerciali che non metta in discussione l’impianto delle relazioni economiche e finanziare e del sistema delle relazioni internazionali. Un compromesso che, probabilmente, risulterà insufficiente a ricomporre le divisioni e la disgregazione che sta colpendo quel paese, al pari di tanti altri soprattutto del blocco occidentale. Da qui la considerazione che la battaglia politica non sia affatto conclusa nei termini così aspri e cruenti manifestatisi ultimamente. Il rientro di Gorka a Breibart e il programma di rifondazione del sito sono lì a testimoniare la determinazione. Resta da vedere quanta parte delle élites dissidenti sono disposte a seguirli. Da lì si vedrà se lo scontro assumerà le forme di una riproposizione o assumerà tutt’altre conformazioni e chiamerà nuovi leader alla ribalta. Giuseppe Germinario

Sebastian Gorka • Trump Comrade

Sebastian Gorka • Trump Comrade

Le intenzioni e le dichiarazioni di Bannon e Gorka sono tutte lì a testimoniare, pur nel residuo ossequio formale al Presidente, come pure però le grandi contraddizioni irrisolte di quel movimento che meriteranno una riflessione a parte, soprattutto alla luce delle possibilità di azione politica nel nostro paese che si potranno creare.

Qui il link con il testo integrale delle dimissioni di Sebastian Gorka

http://www.breitbart.com/big-government/2017/08/28/in-full-dr-sebastian-gorkas-explosive-white-house-resignation-letter/

 

tf78gy9uhoijpQui sotto la traduzione (utilizzando un traduttore)

Il dottor Sebastian Gorka, che da gennaio ha servito come vice assistente del presidente Donald Trump, si è dimesso dall’amministrazione della Casa Bianca venerdì sera, dicendo: “è chiaro a me che le forze che non sostengono la promessa di MAGA (Make America Great Again)sono – per ora – ascendenti all’interno della Casa Bianca. “

Breitbart News ha ora ottenuto una copia completa della sua lettera di dimissioni:

Caro Signor Presidente, 

È stato un mio grande onore servire nella Casa Bianca come uno dei tuoi Vice Assistenti e Strategisti.

Negli ultimi trent’anni la nostra grande nazione, e soprattutto le nostre élite politiche, mediatiche ed educative, si sono allontanate così lontano dai principi della Fondazione della nostra Repubblica, che abbiamo affrontato un futuro triste e ingiusto.

La tua vittoria dello scorso novembre era veramente un “passaggio di Ave Maria” sulla via per ristabilire l’America sui valori eterni sanciti dalla nostra Costituzione e dalla Dichiarazione di Indipendenza.

Per me è dunque più difficile sostenere le mie dimissioni con questa lettera.

La tua presidenza si dimostrerà uno degli eventi più significativi della politica moderna americana. L’8 novembre è il risultato di decenni durante i quali le élite politiche e mediatiche hanno ritenuto di sapere meglio di quelle che li hanno eletti in carica. Non lo fanno, e la piattaforma MAGA ha permesso di ascoltare finalmente le loro voci.

Purtroppo, al di fuori di te, gli individui che hanno più incarnato e rappresentato le politiche che “faranno di nuovo grande l’America” sono state contrastate internamente, rimosse sistematicamente o minacciate negli ultimi mesi. Questo è stato fatto chiaramente ovviamente mentre leggevo il testo del tuo discorso su Afghanistan questa settimana.

Il fatto che chi ha formulato e approvato il discorso abbia rimosso qualsiasi menzione di “islam radicale” o “terrorismo islamico radicale” dimostra che un elemento cruciale della vostra campagna presidenziale è stato perso. 

Semplicemente preoccupante, quando discuteva le nostre azioni future nella regione, il discorso ha elencato gli obiettivi operativi senza definire mai le condizioni di vittoria strategiche per le quali stiamo lottando. Questa omissione dovrebbe disturbare seriamente ogni professionista della sicurezza nazionale e qualsiasi americano insoddisfatto degli ultimi 16 anni di decisioni politiche disastrose che hanno portato a migliaia di americani uccisi e trilioni di dollari dei contribuenti spesi in modi che non hanno portato sicurezza o vittoria.

L’America è una nazione incredibilmente resiliente, la più grande sulla Terra di Dio. Se non fosse così, non avremmo potuto sopravvivere attraverso gli anni incredibilmente divisivi dell’amministrazione Obama, né assistere al tuo messaggio per sconfiggere in modo sconfitto un candidato che ti ha spedito in modo significativo con il suo complesso industriale di Fakenews è al 100%.

Tuttavia, dato gli avvenimenti recenti, è chiaro a me che le forze che non sostengono la promessa MAGA sono – per ora – ascendenti all’interno della Casa Bianca.

Di conseguenza, il modo migliore e più efficace per poterti sostenere, signor Presidente, è al di fuori della Casa del Popolo.

Milioni di americani credono nella visione di rendere l’America ancora grande. Essi contribuiranno a riequilibrare questa sfortunata realtà temporanea.

Nonostante il trattamento storicamente senza precedenti e scandaloso che hai ricevuto da parte di coloro che sono all’interno dell’istituzione e dei principali media che vedono perenne l’America come il problema e che vogliono re-ingegnerizzare la nostra nazione nella loro stessa immagine ideologica, so che tu resterai sicuramente per il bene di tutti i cittadini americani.

Quando ci siamo incontrati per la prima volta nei tuoi uffici a New York, nell’estate del 2015, è stato immediatamente chiaro che amate la Repubblica e a questo non dovrai mai rinunciare una volta che ti sei impegnato nella vittoria.

Quando si tratta dei nostri interessi vitali della sicurezza nazionale, la tua leadership garantisce che il terrorismo islamico radicale sarà eliminato, che la minaccia di un Iran nucleare sarà neutralizzata e che le ambizioni egemoniche della Cina comunista saranno contrastate in modo robusto.

I compatrioti ei stessi lavoreranno all’esterno per sostenere te e il tuo team ufficiale quando torniamo l’America al suo luogo giusto e glorioso come la splendida “città su una collina”.

Dio benedica l’America.

In gratitudine,

Sebastian Gorka

Qui sotto l’estratto di un interessante documento sulla possibile evoluzione del conflitto politico-sociale negli Stati Uniti (dovete però tradurvelo):

Extracts from Defense & Foreign Affairs Special Analysis 1 August 18, 2017 GIS Confidential © 2017 Global Information System, ISSA

Founded in 1972. Formerly Defense & Foreign Affairs Daily Volume XXXV, No. 42 Friday, August 18, 2017 © 2017 Global Information System/ISSA.
Early Warning The Impulse in the US Toward Civil War Analysis. By Gregory R. Copley, Editor, GIS/Defense & Foreign Affairs. Yes, there is a civil war looming in the United States. But it will look little like the orderly pattern of descent which spiraled into the conflict of 1861-65. It will appear more like the Yugoslavia break-up, or the Russian and Chinese civil wars of the 20th Century. It will appear as an evolving chaos. And the next US civil war, though it yet may be arrested to a degree by the formal hand of centralized government, will destabilize many other nation-states, including the People’s Republic of China (PRC). It may, in other words, be short-lived simply because the uprising will probably not be based upon the decisions of constituent states (which, in the US Civil War, created a break-away confederacy), acting within their own perception of a legal process. It is more probable that the 21st Century event would contage as a gradual breakdown of law and order. The outcome, to a degree dependent on how rapidly order is restored, would likely be the end, or constraint, of the present view of democracy in the US. It would see a massive dislocation of the economy and currency. It would, then, become a global-level issue. Humans mock what they see as an impulse toward species suicide among the beautiful lemming clan of Lemmus lemmus.1 In fact, these tiny creatures have a societal survival pattern which seems more consistent than that of their human detractors. The pattern of human history shows that civilizations usually end through internal illness rather than at the hand of external powers. It is significant that the gathering crisis in the United States was not precipitated by the November 7, 2016, election of Pres. Donald Trump, and neither was the growing polarization of the United Kingdom’s society caused by the Brexit vote of 2016. In both instances, the election of Mr Trump and the decision by UK voters for Britain to exit the European Union were late reactions — perhaps too late — by the regional populations of both countries to what they perceived as the destruction of their nationstates by “urban super-oligarchies”.
Extracts from Defense & Foreign Affairs Special Analysis 2 August 18, 2017 GIS Confidential © 2017 Global Information System, ISSA

The last-ditch reactions by those who voted in the US for Donald Trump and those who voted in the UK for Brexit were against an urban-based globalism which has been building for some seven decades, with the deliberate or accidental intent of destroying nations and nationalism. It is now crystallizing into this: urban globalism sees nations and nationalism as the enemy, and vice-versa. The battle lines have been drawn. The urban globalists — the conscious and unconscious — have thrown their resources behind efforts to avert a return to nationalism, particularly in the US and UK, but also in Europe, Canada, Australia, and the like. Urban globalists control most of the means of communications [is this new “means of production”; the 21st Century marxian dialectic?] and therefore control “information” and the perception of events. “Nationalists”, then, are operating instinctively, and in darkness. There is little doubt that the US, despite the evidence that economic recovery is at hand, could spiral into a self-destructive descent of dysfunction, dystopia, and anomie. The path toward a “second civil war” has significant parallels with the causes of the first US Civil War (1861-65). Both events — the 19th Century event and a possible 21st Century one — saw the polarization of a fundamentally urban, abstract society against a fundamentally regional, traditional society. In some respects, it is a conflict between people with long memories (even if those memories are flawed and selective) and people to whom memories and history are irrelevant. Equally, it is a conflict between identity and materialism, with the abstract social groups (the urban populations) the most preoccupied with short-term material gain. I have covered the US for 50 years, and my earliest view of it was, a half century ago, that its populations would inevitably polarize into protective islands of self-interest, surrounded by seas of unthinking locusts. What is ironic is that the present islands of wealth and power — the cities — have come to represent short-term materialism, as cities have throughout history. But what is interesting is that, despite the global attention on the political/geographic polarizations occurring in the US and other parts of the Western world, there has been a reversion in other parts of the world to a sense of Westphalian or pre-Westphalian nationalism. The fact that “the West” may have ring-fenced Iran, Russia, and so on, with sanctions and other forms of isolation may well be what ensures their enduring status. They have avoided the contagion of globalism. Russia, indeed, recovered from the Soviet form of globalism in 1991. An urban globalist “victory” over Trump and Brexit would trigger that meltdown toward a form of civil societal collapse — civil war in some form or other — as the regions disavow the diktats of the cities. That would, in turn, bring about the global economic uncertainty which could impact the PRC and then the entire world.
Extracts from Defense & Foreign Affairs Special Analysis 3 August 18, 2017 GIS Confidential © 2017 Global Information System, ISSA

But such a conflict — physical or political — could, equally, lead to a victory for nationalism over globalism, and to the protection of currencies and values. We have seen this cycle repeated for millennia. It is the eternal battle. Footnotes: 1. See, Copley, Gregory R.: “The Lemming Syndrome and Modern Human Society”, in UnCivilization: Urban Geopolitics in a Time of Chaos. Alexandria, Virginia, USA, 2012: the International Strategic Studies Association.

 

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