IL CICLO DEI VINTI – 9 maggio 1945. [cap. 5-7], di Daniele Lanza

IL CICLO DEI VINTI – 9 maggio 1945. [cap. 5 di 7]
Identità, ieri e oggi (riflessioni sparse sul caso tedesco e non solo. Da leggere senza impegno)
Dunque, ora andiamo avanti – coi piedi di piombo – e cerchiamo di riordinare il discorso originario tornando ai due interrogativi lasciati in sospeso dal CAP. 2 :
1) “In che misura il nazional-socialismo coincideva col corpo del paese in generale” – Soluzione in 2 punti (A – B)
[- A ] SOSTEGNO DIRETTO.
L’NSDAP al momento dell’avvento al potere nel 1933, contava 2 milioni di membri*(dato confermato).
Lo stesso partito alla data dello scioglimento legale (che avviene 5 mesi dopo la fine della guerra per essere precisi, il 10 ottobre 1945, per iniziativa dell’amministrazione alleata e non spontanea) conta 8 milioni di iscritti*(dat.c.) : una proporzione pari a 1/10 della popolazione complessiva del reich. Comparativamente sottolineerei che in Unione Sovietica il PCUS arrivò a contare la medesima proporzione rispetto ai propri abitanti a circa una generazione dopo la fine della guerra (10% della pop. adulta nel 1986, sebbene – ricordiamo – modalità di accesso partito comunista sovietico variano, nei decenni d’esordio erano più selettive e per l’appunto occorrerà un addolcimento della “griglia selettiva” nella tarda Cccp per raggiungere il livello riportato. Chi è più esperto mi corregga prontamente).
In altre parole il nazional-socialismo demoltiplica le dimensioni della propria membership a ritmo assai sostenuto e questo anche nonostante una guerra che investe direttamente il paese : non un remoto conflitto coloniale che al massimo drena le tasche, ma un conflitto TOTALE che vede sirene della contraerea che vanno in azione a giorni alterni quasi, sia di notte che di giorno e -nella fase finale – combattimenti terrestri (dalla Renania a Berlino) fin letteralmente nell’anello urbano, sotto la soglia di case ed appartamenti. Ebbene anche dopo tutto questo….la membership nazional socialista è SEMPRE di 8 milioni (…8’400’000 pare, per essere più zelanti).
A spiegazione di questo fatto, altro non vi è se non una vittoria totale del nazional socialismo sul piano dell’autoidentificazione : il partito era oramai identificato/confuso con il concetto di patria (ad esso anteriore) per giunta in pericolo. Seguendo quindi un semplice percorso psicologico si può intuire come il cittadino medio del reich non imputasse la colpa del conflitto ad un attore interno (l’Nsdap ed Hitler), bensì riversasse rancore e incomprensione verso l’esterno….ovvero il nemico straniero che bombarda con accanimento. La distinzione tra dimensione “interna” ed “esterna” è essenziale : il tedesco, politicizzato e non, localizza il nemico nella dimensione “esterna” e MAI in quella “interna”. Non ci si può scagliare contro il partito nazional socialista perchè quest’ultimo non è più un partito, ma l’intera patria al tempo medesimo (importante per mobilitare anche chi non fosse politicizzato, il che ci porta al punto B qui di sotto)
[-B] SOSTEGNO INDIRETTO
(avvertenza : tediosa analisi politologica).
…..secondo la forma mentis democratica che costituisce lo schema ragionativo della maggior parte di noi, un partito altro non è che sé medesimo ossia un mezzo finalizzato al perseguire di determinati interessi. Un partito è l’opinione di chi lo vota, nulla di più : è una rappresentazione della realtà, l’interfaccia formale traverso la quale una frazione di utenza (la società) si esprime. Un mero strumento dell’azione, se vogliamo spogliarlo di tutto il suo apparato scenografico atto ad impreziosirlo ed ampliarne la base.
Tale schema di fondo NON si applica a un partito come quello nazional-socialista : il partito nazional-socialista non concepiva sé stesso come rappresentanza di una frazione di elettorato nella compagine del sistema vigente (democratico), bensì aveva l’ambizione di diventare esso stesso sistema vigente : FARSI SISTEMA e sostituire quello in carica. L’NSDAP non aveva l’ambizione di diventare il primo partito dello stato, ma di diventare LO stato…uno stato alternativo a quello esistente.
Bene, una forza politica di questo stampo non è pertanto un “partito” nel senso in cui convenzionalmente lo si concepisce (malgrado paradossalmente si presenti all’elettorato con tale appellativo), quanto una forza la cui aspettativa è letteralmente in antitesi : superare, porsi al di sopra del vile limite del “partito” e del suo inconcludente ciarlare in aula e espandersi fino a inglobarli tutti, dall’alto (…). configurandosi quindi come sistema completo e autonomo che non si mescola ad altri partiti……..bensì li contiene (!). Il nazional socialismo aspira ad un differente ordine di grandezza – nella sua filosofia esistenziale – che non la semplice rappresentazione dei desideri dell’elettore : esso pretende di interpretare anche e soprattutto ciò che l’elettore nella sua limitata visione NON può vedere (per il proprio bene !), assumendo quindi un ruolo doppio : rappresentativo da un lato (usuale), e propositivo(/-divino) dall’altra. Il nazismo non intende servire il sistema, non intende mantenere ordine nel sistema, non intende primeggiare nel sistema, non intende governarlo o esserne permanentemente al governo (come una dittatura standard farebbe)……intende ESSERE il sistema : un ruolo sovra-ordinario la cui eccezionalità ripristina in veste aggiornata il fondamento divino, oltre-umano, delle monarchie premoderne (…). L’ampiezza del disegno è chiaramente tale da far catalogare l’Nsdap nella sezione “rivoluzionari” delle forze politiche del XX° sec. : si propone come via alternativa allo status quo della democrazia occidentale tanto quanto il marxismo-leninismo nella coeva Russia rivoluzionaria.
Parliamo quindi di un fondamento divino (senza Dio, ossia secolarizzato).
Assiomatico che ad obiettivi in questa unità di misura (si ambisce ad un ruolo “divino”) non si può ambire se non con dottrine e parole d’ordine estreme, rivoluzionarie, mistici idealismi e immense visioni da offrire all’umanità in ascolto (vale tanto per il reich quanto per la Cccp). Qualsiasi forza che voglia trasformarsi in sistema deve per forza di cose avere un’identità la cui natura profonda è messianica e che punti a un assoluto.
Morale : il nazismo NON è un partito (anche se ne porta nome e sembianze), ma è un SISTEMA. Il nazismo è (era) lo stato stesso – tanto da donargli inno e bandiera – per la generazione di tedeschi che lo attraversò. Di conseguenza sul piano della percezione individuale e collettiva è completamente confuso ciò che sia del “partito” e ciò che sia dello “stato” in quanto le due cose erano diventate una cosa sola, un sinonimo. Non si vuole affermare con questo che la società tedesca fosse integralmente nazista (erroneo) o che seguisse ciecamente e passivamente le direttive del partito (non vero) , ma è dato di fatto che lo stato in cui vivevano e che servivano era diventato sinonimo di quella forza politica. Di amalgama ontologica parliamo (mi esprimo correttamente ?), su un piano politologico : che poi su un piano umano e psicologico – individuale o collettivo – la cittadinanza del III° reich non si ritrovasse in tutto e per tutto con le direttive dei suoi gerarchi, con la sub-cultura nazista fatta di antropologia fisica e crani vari (!), con i messaggi del ministro della propaganda o con i sermoni dello stesso leader supremo…….è un altro discorso. Un italiano può anche non ritenersi soddisfatto dell’organizzazione dello stato italiano o trovare stucchevole il discorso del presidente della repubblica a Capodanno, ma con tutto ciò sul piano dell’identificazione rimangono sempre il SUO stato e il SUO presidente, che in caso di emergenza (guerre) vanno protetti.
Ergo, anche in assenza di un’adesione diretta al partito (tesseramento), la maggioranza della popolazione vi era comunque a sostegno in forma indiretta, nella misura in cui rimaneva fedele alle istituzioni statali e alla macchina amministrativa (con le quali il nazismo è diventato tutt’uno) cui ci si appoggiava normalmente per la vita quotidiana. Non si parla di “colpa”, ma semplicemente di struttura della realtà in cui si vive, anche senza accorgersene. Questo punto [A ] Sarà banale per molti….ma la tragedia sta spesso nella banalità.
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MORALE : insomma, assommando la fedeltà indiretta ossia quella de facto (fisiologica) del cittadino tedesco, anche apolitico, alle istituzioni del proprio stato [A] con quella diretta dei sostenitori di partito (che comunque ha dimensioni da statistica demografica) [B]…allora sì, se assommiamo A eB purtroppo la coincidenza tra il tedesco e il proprio stato c’è.
NO, non ci sono santi : il nazionalsocialismo NON si presenta all’analisi come una tirannide mal sopportata, un semplice sistema gerarchico e autoritario. Se così fosse stato…..se fosse stata una fredda dittatura militare da parte di una elite dispotica, reazionaria e insensibile (Ludendorff e il Kaiser, tanto per semplificare), allora atti di resistenza attiva e passiva sarebbero divampati su larga scala, tanto più in circostanze di estrema crisi come si verificarono. In un contesto che vede fronti aperti a ogni punto cardinale con perdite per milioni di giovani vite e le proprie città rase al suolo (!)…..qualsiasi regime autoritario (da “colonnelli”) collasserebbe in pochi mesi. La vecchia Germania kaiseriana resse a malapena (anzi, non lo resse) un conflitto mondiale come il primo…..mai e poi mai ne avrebbe retto uno come il secondo : nemmeno lo strumento militare sarebbe rimasto stabile di fronte a un distruzione su questa scala e si sarebbero aperte le porte a diserzioni di massa che di fatto sono l’anticamera di una RIVOLUZIONE (…). Questo nel III° reich non avvenne. Nessuna rivolta, nessuna rivoluzione. Sapete perché ? ……..perchè una “rivoluzione socialista” vi era GIA’ stata. L’ NSDAP era stato questa rivoluzione, molto tempo prima.
L’Nsdap è la sembianza fisica con cui il socialismo si afferma nell’areale germanico d’Europa : certo il “socialismo” di cui parliamo non è certo socialismo storico ossia non nasce dall’alveo canonico del marxismo-leninismo, ma è piuttosto una creatura chimerica il cui Dna fonde il più feroce etno-nazionalismo Volkish con una dottrina e uno stile di stampo sociale…diverge, fuoriesce dal socialismo canonico assai più di quanto un’eresia medievale fuoruscisse dalla cristianità, eppure il ruolo che svolse fu il medesimo (questo è fondamentale). L’Nsdap svolse in Germania un ruolo analogo a quello che il Pcus ebbe in Russia (ciascuno con tempi e modalità proprie si intende). Goebbels stesso (o chi altro) inclini ad avvicinamenti ed alleanze con la CCCP non esitarono ad affermare che il bolscevismo in Russia in fondo non era che la versione locale di quanto fosse il nazionalsocialismo nel reich. I nazionalsocialisti hanno represso i comunisti, ma NON tanto per reprimerli e basta (come un regime reazionario avrebbe fatto) : li hanno repressi con l’intento di SOSTITUIRSI a loro (!). Il nazional-socialismo non poteva cedere il proprio ruolo “rivoluzionario” ad altri…per i popoli di lingua tedesca dovevano avere l’esclusiva (…).
(CONTINUA…)
IL CICLO DEI VINTI – 9 maggio 1945. [cap. 6 di 7]
Identità, ieri e oggi (riflessioni sparse sul caso tedesco e non solo. Da leggere senza impegno)
Ricapitolando il tutto : SI’, la vecchia patria kaiseriana era morta ad analisi onesta e morta ben prima della fatidica firma di Keitel davanti agli alleati il 9 maggio.
Era morta con la deposizione dell’imperatore, sopravvivendo tuttavia di fatto nel costume e nella cultura, costituendo quello strato vetero conservatore che caratterizzava lo stato tedesco anche se ora era repubblicano. Uno spirito “tradizionalista” per dire, relativizzato dalla democratizzazione della statalità tedesca dopo il 1918 e destinato ad pervadere parte dell’atmosfera politica, senza tuttavia aver reali possibilità di alterare lo status quo (il “Dnvp” principale partito nazional-conservatore della compagine weimariana con epicentro in Prussia, nonostante una discreta affermazione elettorale – nel 1924 il massimo – non ebbe mai il potenziale per varcare una determinata soglia : in particolare irraggiungibili gli strati più popolari della società o aree a forte tradizione socialista).
A questo punto si verifica un fenomeno imprevisto che complica il quadro : non avviene la temuta rivoluzione marxista-leninista del KPD, ma piuttosto la più atipica rivoluzione del Nsdap (…). Il successo nazista ingarbuglia le carte : quest’ultimo si era fisicamente sostituito nell’identificazione collettiva allo spirito repubblicano di Weimar, colmandone il vuoto con uno spirito imperiale che tuttavia non era esattamente quello prussiano, ma gli somigliava : lo MIMAVA, ne prendeva a prestito l’estetica tradizionale ed elegante, se ne serviva per veicolare con efficacia determinati messaggi….ma non erano gli stessi di prima. Siamo alla confusione di forma e sostanza (che è fatale ancora oggi alla prussianità).
L’Nsdap a differenza di altri partiti monarchici e nazionalisti come il Dnvp (lo utilizzo come termine di paragone) non soltanto non intendeva servire lo status quo di allora (democrazia repubblicana), ma in realtà non intendeva nemmeno ripristinare il sistema anteriore : non voleva indietro il Kaiser !
C’è persino da dubitare che la base “quasi-socialista” del nazional socialismo volesse indietro il ciarpame targato Hohenzollern (!) : nello sterminato repertorio propagandistico nazista non esiste traccia alcuna di sostegno alla tradizione monarchica (ipotesi di eventuale restaurazione poi sono pura utopia). Malgrado tutto questo i nazisti adorano indossare la perfetta uniforme JUNKER (da ora in avanti userò solo questo termine per indicare lo strato vetero-conservatore, filomonarchico, e “prussiano”).
Dunque, siamo di nuovo di fronte ad un nodo intrigante fondato su un sottile intreccio di fattori psico-sociologici, politici e territoriali. Alla base di questo intreccio vi è un potente collante che è il nazional socialismo stesso : la proprietà più esplosiva che questo movimento abbia mai avuto è stato quello di superare la canonica e convenzionale demarcazione destra/sinistra nella percezione dell’elettorato con cui aveva a che fare….raggiungendo le frange più violentemente conservatrici quanto quelle più ferreamente rosse e rivoluzionarie. Non si vede spesso in effetti un partito appoggiato dagli Junker, ma dove al tempo stesso il 70% degli iscritti nei dintorni di Berlino sono ex-comunisti (dati della polizia di Prussia). Il nazionalsocialismo – mia opinione – è il vero antesignano di tutti i rossobruni che verranno.
Junker e nazisti si somigliavano ? Erano la medesima cosa in sembianze differenti ? Che rapporto c’è tra loro ?
Le risposte sono più di una e molto dipende dall’osservatore (dal punto di vista di chi sia molto a sinistra politicamente e non specificamente interessato all’argomento in questione, si tratta di un gioco di sfumature : “junker” e “nazista” sono due volti della stessa medaglia e non serve ulteriore analisi. Io personalmente non sono d’accordo invece e proseguo).
Sia lo Junker che il nazista (facciamo siano due persone), condividono una visione NON occidentale dell’esistenza : sono figli di una cultura continentale europea – di stampo germanico – che si sviluppa in modo divergente rispetto alle grandi correnti liberali dell’universo anglosassone che prendono rapidamente piede in tutto l’occidente (il comunismo sovietico non è differente su questo).
Lo junker ha dei limiti ad affermarsi in un’arena dove debba conquistarsi accoliti, per ragioni di ordine a) geografico – b) sociale. I
In parole altre lo spirito junker è troppo dipendente da un’identità (a) TERRITORIALE : la “Prussia ideologica” ultraconservatrice degli junker non corrispondeva – in termini di geografia elettorale del tempo – a tutta la Prussia tedesca che vediamo sulle carte del 1919, ma ad un nebuloso e frastagliato estendersi di “ridotte” elettorali, a ridosso del Baltico fino alla Prussia orientale. Cassaforte solida di voto, ma lontana dai nodi nevralgici della società tedesca, dalle masse, assumendo involontariamente una connotazione meramente territoriale senza il potenziale di imporsi sull’intera galassia di regionalità tedesche. In ed in secondo luogo troppo dipendente da un’identità di (b) CLASSE : l’elite del “partito” Junker è fatta da gente ferreamente legata ad una visione anacronistica (reazionaria) della vita – aristocrazia latifondista, medi-alti ufficiali e medi-alti funzionari – col risultato di alienarsi qualsiasi simpatia che non sia per ragioni diverse rispetto ad un attaccamento territoriale (punto precedente).
Come detto sin dal principio, questi Junker pur dall’identità così caratteristica, NON avevano reali possibilità di imporsi : le ragioni sono quasi fisiologiche, diciamo.
Per i nazisti al contrario questi due limiti NON esistevano : il nazional socialismo, sebbene molto forte proprio in Prussia inizialmente, non ha in teoria alcuna connotazione geografica di suo…è trasversale (bavaresi, austriaci e renani saranno suoi sostenitori). In secondo luogo, l’elite riflette una base elettorale assai più “terrena”, fondamentalmente popolare, in grado di penetrare in aree tanto rurali quanto metropolitane sfidando socialisti e comunisti sul medesimo terreno, strada per strada, “pugno contro pugno” (cosa impensabile per il più signorile junker, per intendersi).
A scanso di queste differenze, per tornare alle affinità, entrambi condividono una predilizione per la simbologia di tradizione e potenza – anche se ognuno a modo suo – e questo è fondamentale.
Il nazionalismo junker è più tradizionale, ingessato, di sapore aristocratico, flemmatico mentre quello nazista comparativamente una palla di fuoco (!) senza sosta : di massa, sociale, rivoluzionario e violento. Mentre i primi tendenzialmente cercano di conservare staticamente un primato (sociale) che già hanno da sempre…..i secondi (in maggioranza di estrazione piccolo borghese e anche proletaria) sognano un primato che NON hanno mai avuto. Semplificando criminalmente un densissimo discorso sul rapporto psicologico tra queste due “destre” (non uso il termine “destra/sinistra” in genere, ma faccio uno strappo), lo “junker” ha la potenza (economica/sociale) e se la conserva gelosamente…..il “nazista” non ce l’ha ma la vorrebbe molto, finendo con l’emulare il primo in tanti aspetti esteriori : e qui siamo alla famosa uniforme di taglio prussiano, mostrine e tutto il resto (…)
Sorvolando queste soggettive interpretazioni (che invito chiunque a sfidare prontamente correggendomi dove vado errato) sulla natura antropologica del rapporto Junker/nazismo e della demarcazione che io traccio………va detto che secondo molti altri il prussianesimo è comunque, in ogni caso, l’antesignano, il precursore del nazionalsocialismo : la base popolare nazista si impossessa dei simboli prussiani (vestigia), li fa suoi, infondendovi tuttavia il proprio spirito. Ne viene fuori una “popolarizzazione” una socializzazione della prestigiosa e austera cultura junker/prussiana, facendone un fenomeno di massa assai più di quanto non fosse riuscito a fare lo stato kaiseriano a suo tempo (…)
Un’interpretazione non felice per il prussianesimo potrebbe essere che il nazionalsocialismo altro non è che il medesimo concetto, semplicemente migrato dalla dimensione aristocratica del XIX° sec. per passare a quella di massa del XX°. La prussianità (volendo conferirgli un’unica mente…) potrebbe aver pensato che non aveva più bisogno di un kaiser e che l’Nsdap e il suo leader supremo assolveva analogamente il compito “imperiale” in modo più moderno (…).
Su questa linea abbiamo un nome che spicca tra tutti : OSWALD SPENGLER.
Per lo studioso il nome non ha bisogno di presentazioni. Pur mai stato nazista formalmente, ne è considerato intellettualmente uno dei precursori. Il suo Preussentum und Sozialismus, del 1919, non si sofferma affatto sulla componente aristocratica della Prussia, ma al contrario ne sottolinea una ancestrale e naturale tendenza ad un socialismo autoctono, alternativo a quello marxista quanto opposto al liberalismo occidentale : una terza via in tutto e per tutto, di matrice nazionale. Tutto ciò che il nazionalsocialismo fu……….
(CONTINUA…)
 
IL CICLO DEI VINTI – 9 maggio 1945. [cap. 7 di 7]
Identità, ieri e oggi
– andiamo verso l’epilogo (K. Adenauer in copertina)
1945 – 1945 – 1945
Ci siamo finalmente…..partendo dal lontano 1918 con una fiumana di considerazione psicologiche politiche e sociali, ritorniamo al nostro 9 maggio del 1945.
Non è una sconfitta qualsiasi, non un armistizio ordinario come se ne contano nella storia dei conflitti : è una resa totale, nemmeno firmata dalle superstiti autorità del reich (che gli alleati han già chiarito, NON riconoscono come soggetto di dialogo). “Resa senza condizioni” nel linguaggio del diritto internazionale ha un significato forte, assoluto….sta a dire che l’entità perdente è completamente alla mercè di quella vincitrice che può anche deciderne la continuazione dell’esistenza o meno (e così sarà).
Lo stato tedesco il 9 maggio 1945 cessa giuridicamente di esistere.
Ne nascerà un altro pochi anni dopo che non ha alcuna attinenza col primo.
Molte considerazioni è obbligatorio fare su questo. Come premessa a scanso di equivoci (che i miei interventi non diano l’idea di un nostalgia per il III° reich) : Il reich hitleriano nei 6/7 anni passati aveva dato inizio ad una politica di aggressione e quindi conquista armata ai danni degli stati vicini, degenerata in un conflitto globale che coinvolse i 5 continenti. Il conflitto , da parte tedesca, fu condotto senza esclusione di colpi : attacchi a sorpresa, mancato rispetto delle leggi di guerra, aggressione ai danni di paesi NEUTRALI (Olanda) e anche ai danni di paesi con cui vigevano accordi o quasi alleati, come l’Urss. Nei confronti di quest’ultimo soggetto, la guerra non ebbe carattere convenzionale, bensì di annientamento : una crociata messianica al di fuori (al di sopra) di qualsiasi legge terrena, ma solo al verbo del leader supremo del reich, che porta alla scomparsa del 10-12% della popolazione sovietica (25 milioni di caduti tra militari e civili).
Ovunque si pretendevano rese incondizionate, seguivano diktat e deportazioni….questo l’ultimo reich fece ai propri nemici (reali o presunti).
I capi del III° reich per primi diedero vita ad una guerra TOTALE : quando è così allora bisogna spettarsi altrettanto dai propri avversari. La resa incondizionata che gli alleati impongono alla Germania è la conseguenza naturale ed inevitabile di come Hitler per primo impostò il conflitto : il reich nel 1945 semplicemente subisce la stessa cosa che ha spietatamente dispensato ai propri vicini per i 6 anni precedenti. Come ho già detto tante altre volte, a scanso di qualsiasi considerazione morale (che riempie volumi), chi al casinò punta TUTTO sul tavolo……….può vincere moltissimo come può rimetterci tutto, per l’appunto. Hitler si è giocato un intero paese.
Hitler è il principale responsabile dell’annullamento dello stato tedesco.
Con questa premessa obbligata io andrei al punto sostanziale di tutta la serie, oramai stanco di scrivere tanti capitoli da bacheca di un social (…)
Il dramma di chi fa pazzie nell’alpinismo – analogia efficace – è che non finisce solo LUI nel precipizio, ma tira giù con sé tutti coloro che sono in cordata con lui. Questo è quanto accaduto nella Germania del 1945 : Adolf Hitler e il suo partito non hanno solo distrutto sé stessi, ma hanno tirato giù con loro l’intero paese, la sua identità che ancora oggi è oggetto di dibattito, contestazioni, problematiche irrisolte.
Gli alleati infatti (ed è anche comprensibile fino ad un certo punto) NON si limitano a mettere fuorilegge l’NSDAP e i suoi rami, SS in primo luogo. No, attuano una misura enormemente più drastica che è la scomparsa della PRUSSIA come regione storica dello stato tedesco.
Attuano un intervento chirurgico geo-culturale, per esprimersi così, decostruendo lo stato tedesco e la sua identità così come erano concepite sino a quel momento. Qualcosa che è arduo da immaginare per le generazioni successive che vedono lo stato tedesco per quel che è oggi sulle carte e nell’immaginario : io dubito che la maggior parte (anche di chi mi legge) riesca a realizzare sino in fondo l’entità del cambiamento.
Massima parte della storiografia sull’immediato dopoguerra tedesco si concentra comprensibilmente su nazionalsocialismo e denazificazione tra 1945 e 1949, facendo sì che in tal mondo passi inosservato un ALTRO processo , assai più indiretto e silenzioso, che è quello della de-prussianizzazione dell’identità germanica. Questo passaggio vitale nella palingenesi dell’odierna identità tedesca viene quasi completamente obliato, saltato o dato per scontato…..non merita l’onore della cronaca.
La mia opinione di storico della cultura è la seguente : con l’alibi (di per sé del tutto comprensibile in quel momento) di eradicare il nazionalsocialismo dalla Germania sconfitta, si è parallelamente e silenziosamente messo in atto qualcosa di assai più importante. Bandendo il prussianesimo (non ufficialmente poiché non è di un partito che parliamo ma di una sub-cultura) si è andati ad operare sul piano più profondo della psiche collettiva e dei processi di identificazione coinvolti sin dalla genesi dello stato unitario tedesco di un secolo prima.
Per usare un’analogia della medicina futuristica, si opera a livello di DNA (culturale), modificandone la trascrizione in modo da far regredire il soggetto a uno stadio embrionale e da lì in poi direzionarne lo sviluppo in una nuova forma. La Società tedesca “azzerata” moralmente dalla guerra mondiale sarebbe il soggetto regredito…..mentre il chirurgo è l’autorità alleata che sottrae dal Dna il prussianesimo, senza sostituirlo, ma piuttosto bilanciandolo con un aggiunta in altro settore (ossia il liberalismo anglosassone veicolato da Konrad Adenauer, primo presidente della Germania federale).
Il procedimento di politogenesi è praticamente riformulato dalle sua fondamenta, come se fino a quel momento uno stato tedesco non fosse esistito (si mise in effetti in dubbio se dovesse o meno esistere dopo la guerra, uno stato unitario tedesco, con varie ipotesi di Renania indipendente ed altro ancora). L’unica ragione che impedisce una parcellizzazione politica dell’areale tedesco è il bisogno (soprattutto angloamericano) di avere un baluardo contro l’est-Europa.
Come si procede dunque ? Beh, è dominio pubblico : le 3 aree di amministrazione alleata occidentale (Gb, Francia e Usa) si fondono per creare la repubblica federale tedesca nel 1949. Il primo presidente e co-fondatore culturale – K. Adenauer – è un esponente di primissimo piano del liberalismo (in chiave “bianca” e cattolica) per tutta la prima metà del XX° sec. , sin da prima del primo conflitto mondiale : acerrimo nemico del prussianesimo che egli da cattolico di Renania, pianifica di escludere dal plasma dell’identità tedesca (già molto prima del nazionalsocialismo, alla conferenza di Versailles del 1919, Adenauer – allora consigliere – pregò i vincitori inglesi e francesi di fare in modo di dissolvere la Prussia tra la clausole della resa tedesca). Adenauer più che in termini di “destra-sinistra” ragionava in termini di “occidente-oriente” facendosi campione in tale polarizzazione, dell’OCCIDENTE : tanto prussianesimo germanico quanto comunismo sovietico sono veleno (in quest’ottica), figli dell’oriente contrapposto al “positivo” liberalismo occidentale.
Su queste fondamenta nasce la Germania occidentale del 1949 : una Germania “bianca” (regnerà per decenni la CDU, analoga della nostra democrazia cristiana, sintetizzo molto scusate), liberale, saldamente schierata con la NATO e quindi al tempo stesso fortemente antinazista e ferocemente anticomunista e………del tutto antiprussiana (non viene espressamente detto, viene lasciato implicito).
E’ la concretizzazione della visione che Adenauer ha inseguito per mezzo secolo. Questa creatura dopo il 1989 ingloba anche i lander della defunta Germania orientale e abbiamo lo stato che vediamo oggi. Uno stato che ripudia la guerra e il possesso di armi nucleari, ma che al tempo medesimo accetta e giustifica apertamente la presenza di missili atomici statunitensi collocati sul proprio territorio assieme ad altre della Nato (de facto comunque controllate da Washington).
Uno stato talmente pacifista che per effetto collaterale crea problemi alla stessa Nato (!) , quando rifiuta di alzare le spese militari a sostegno della difesa comune (Washington ha voluto una società tedesca pacifista e dall’identità nazionale NON marcata : ebbene adesso li dovranno proteggere a spese del contribuente americano…..ben gli sta).
Fermo qui il mio sproloquio per ora, che evidentemente mescola fatti storici oggettivi alla mia opinione personale sugli stessi (in questo caso lo sto ammettendo apertamente tuttavia : indicatemi uno storico che NON lo faccia. Attendo, prego).
Come storico della cultura tuttavia affermo (mi ne assumo la responsabilità) : l’eliminazione del “prussianesimo” durante la palingensi dello stato tedesco post secondo conflitto mondiale ha pesato assai di più che non la denazificazione, sul lungo termine.
Il processo di denazificazione si libera di una cultura politica totalitaria e pervasiva…ma che aveva regnato in fondo solo 12 anni : eliminare il prussianesimo……ha significato metter fine a una cultura nazionale che durava da quasi un secolo, quella fondativa dell’unità pan-tedesca del XIX° sec.
Forse esagero ? Forse interpreto male ? Forse gli alleati l’hanno fatto involontariamente ? o forse era un male necessario ? (tutte queste ipotesi sono valide), perché ho come l’impressione che assieme ad Hitler…abbiano gettato via una frazione di Bismarck.

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Unità fragile: Perché gli europei si stanno unendo sull’Ucraina (e cosa potrebbe allontanarli), di Ivan Krastev e Mark Leonard

Sintesi
Un recente sondaggio multinazionale condotto dall’ECFR suggerisce che gli europei si sono avvicinati nel sostegno all’Ucraina.
Gli europei ora concordano sul fatto che la Russia è un loro avversario o rivale.
Tre fattori hanno favorito questo notevole avvicinamento: I successi ucraini nel primo anno di guerra; il modo in cui la guerra ha unito la destra e la sinistra politica; la percezione del ritorno di un Occidente forte guidato dagli Stati Uniti.
Ma questi fattori sono fragili e i leader europei dovrebbero essere cauti nel loro ottimismo.
I politici europei dovrebbero approfittare di questa unità per equipaggiare l’Ucraina, facendo al contempo tutto il possibile per mitigare le divisioni causate dal cambiamento delle circostanze all’interno e all’estero.
Introduzione
La saggezza convenzionale vuole che le guerre finiscano con i negoziati. Ma la loro fine è più spesso determinata dalle urne – o addirittura dai sondaggi di opinione. La mancanza di sostegno pubblico ha posto fine alla guerra americana in Vietnam, alla guerra francese in Algeria e, con la sconfitta di Slobodan Milosevic alle urne nel 2000, alle guerre nell’ex Jugoslavia. Gli alleati occidentali dell’Ucraina sono stati finora sorprendentemente uniti nel loro sostegno a Kiev. Ma Vladimir Putin spera sicuramente che l’opinione pubblica occidentale si rivolti, lasciando l’Ucraina a bocca asciutta.

Nel suo discorso sullo stato della nazione, pronunciato pochi giorni prima dell’anniversario dell’invasione dell’Ucraina, il presidente russo ha detto chiaramente che si sta preparando a una lunga guerra, sperando che la logica della politica democratica esaurisca il sostegno occidentale a Kiev e permetta a Mosca di prevalere.

Ma a 12 mesi dall’inizio dei combattimenti, le crepe nella coalizione occidentale sono diventate più piccole che grandi. Un sondaggio multinazionale dell’ECFR condotto nel gennaio 2023 in dieci Paesi europei (Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Polonia, Portogallo, Romania e Spagna) mostra che gli europei sono sorprendentemente uniti nella loro determinazione a sostenere l’indipendenza di Kiev. L’unità dell’opinione pubblica europea potrebbe sorprendere Putin, così come ha fatto lo spirito combattivo degli ucraini? Cosa ci dice la dinamica dell’opinione pubblica negli ultimi 12 mesi sulla prossima fase della guerra?

Questo documento documenta il sorprendente avvicinamento dell’Europa, esplora i tre principali fattori di questa unità e spiega come i leader europei possono posizionarsi per le sfide future.

Un’unità sorprendente: la mobilitazione delle opinioni pubbliche europee
Nel maggio 2022, un importante sondaggio dell’ECFR ha rivelato che gli europei, pur essendo uniti nella condanna della guerra e nel desiderio di rompere le relazioni con la Russia, erano profondamente divisi su come vedevano la fine della guerra.

Un gruppo riteneva che fosse molto importante che la guerra finisse il prima possibile, anche se ciò significava che l’Ucraina avrebbe fatto concessioni alla Russia (lo abbiamo definito il “campo della pace”), mentre l’altro gruppo credeva che solo una chiara sconfitta della Russia avrebbe potuto portare la pace, anche se ciò significava una guerra più lunga (il “campo della giustizia”). Nel 2022 la nostra analisi ha indicato che il “campo della pace” era più numeroso del “campo della giustizia”, con la preferenza per la fine della guerra il prima possibile che prevaleva nella maggior parte dei Paesi europei che abbiamo intervistato. La preferenza per questa opzione è particolarmente forte in Italia, Germania, Romania e Francia. La Polonia è stato l’unico Paese in cui il maggior numero di persone voleva che la Russia fosse punita per la sua aggressione, anche se ciò significava una guerra più lunga. Il nostro timore allora era che la divisione tra questi due campi potesse minare l’impressionante dimostrazione di unità che l’Unione Europea aveva raccolto dopo l’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia il 24 febbraio 2022.

Ma nove mesi dopo, sebbene permangano importanti divisioni tra i Paesi europei e al loro interno, il quadro è cambiato.

Dato che la “reazione” all’aggressione russa riguarda sempre più la riconquista di tutto il territorio da parte dell’Ucraina, piuttosto che la semplice punizione della Russia, nel sondaggio del 2023 abbiamo formulato l’opzione “guerra lunga” in modo diverso. Abbiamo anche aggiunto una terza possibile risposta – che il dominio occidentale del mondo dovrebbe essere respinto, anche se ciò significa accettare l’aggressione territoriale russa contro l’Ucraina – poiché il sondaggio 2023 è stato condotto anche in Cina, India, Turchia, Russia e Stati Uniti.

Nonostante queste differenze, i risultati indicano che il desiderio che la guerra tra Russia e Ucraina finisca il prima possibile non è più così popolare tra gli europei. In diversi Paesi – Estonia, Polonia, Danimarca e Gran Bretagna – è ormai evidente la preferenza per la riconquista da parte dell’Ucraina di tutto il suo territorio, anche se ciò significa una guerra più lunga o un maggior numero di morti e sfollati ucraini. In Germania e in Francia, il numero di coloro che vorrebbero che la guerra finisse il prima possibile è diminuito significativamente. In Germania, il numero di persone che desiderano che l’Ucraina riconquisti tutto il suo territorio è quasi uguale a quello che desidera che la guerra finisca il prima possibile. In Francia, l’opzione della guerra lunga è in leggero vantaggio rispetto a quella della fine della guerra il prima possibile. Solo in Italia e in Romania sono molti di più quelli che pensano che la guerra debba finire il prima possibile.

2023: Quale delle seguenti affermazioni si avvicina di più alla sua opinione? In percentuale

I risultati di questo sondaggio confermano anche la nostra affermazione del maggio dello scorso anno, secondo cui – contrariamente al cliché giornalistico secondo cui la guerra ha diviso l’UE in un est falco e un ovest dovish – sono emersi almeno tre blocchi diversi. In primo luogo, ci sono i falchi del nord e dell’est (Estonia, Polonia, Danimarca e Gran Bretagna), dove la maggior parte dei cittadini sostiene fortemente gli obiettivi di Kyiv nella guerra. In secondo luogo, c’è l’occidente ambiguo (Francia, Germania, Spagna e Portogallo), dove le opinioni sono divise su come dovrebbe finire la guerra. Infine, ci sono gli anelli deboli del sud (Italia e Romania), dove la preferenza per una fine della guerra il più presto possibile ha il sopravvento.

La convergenza sul modo in cui gli europei percepiscono la Russia è ancora più sorprendente di quanto non lo sia la convergenza sull’idea di combattere la guerra. In tutti i Paesi intervistati, l’opinione prevalente è che la Russia sia un avversario (da un minimo del 32% in Romania al 77% in Estonia). Nei nove Stati membri dell’UE intervistati, solo il 2% degli intervistati vede la Russia come un alleato e il 12% la considera un partner necessario per il proprio Paese. Il 66% degli intervistati vede invece la Russia come un avversario o un rivale.

Si tratta di un risultato completamente diverso rispetto ai risultati di un sondaggio dell’ECFR condotto nella primavera del 2021. In quell’occasione, abbiamo chiesto ai cittadini la loro percezione del rapporto della Russia con l’Europa, piuttosto che con il loro Paese, il che rende difficile un confronto diretto tra i risultati. Nel complesso, però, il modo in cui gli europei percepiscono la Russia è cambiato notevolmente. Due anni fa, un numero molto inferiore di intervistati (dal 5% in Bulgaria al 38% in Polonia) vedeva la Russia come un avversario. La percezione più diffusa è che la Russia sia un partner necessario per l’Europa: un’opinione condivisa da oltre il 30% degli intervistati in Germania, Francia e Spagna e dalla metà di quelli in Italia.

2023: Quale delle due rispecchia meglio la sua visione di ciò che la Russia rappresenta per il suo Paese? In percentuale
2021 2023
Un alleato – che condivide i nostri interessi e valoriUn partner necessario – con cui dobbiamo cooperare strategicamenteUn rivale – con cui dobbiamo competereUn avversario – con cui siamo in conflittoNon lo so

I motori dell’unità
Perché l’opinione pubblica è cambiata in questo modo? E, soprattutto, quanto durerà questa unità?

Probabilmente non esiste un’unica spiegazione per queste dinamiche. Ma i nostri dati suggeriscono che tre fattori principali, che si rafforzano a vicenda, hanno portato a questo cambiamento: Il successo dell’Ucraina sul campo di battaglia, il modo in cui la guerra ha unito entrambe le parti dello spettro politico e il ruolo degli Stati Uniti.

Lo slancio ucraino
Nel maggio 2022, la grande maggioranza degli intervistati nel nostro sondaggio era unita nel condannare la Russia per la sua aggressione e nel voler sostenere l’Ucraina. In tutti i Paesi intervistati allora, oltre il 50% (dal 56% in Italia al 90% in Finlandia) riteneva la Russia la principale responsabile dello scoppio della guerra, piuttosto che l’Ucraina, l’UE o gli Stati Uniti. Analogamente, in ciascuno dei dieci Paesi intervistati, la maggioranza si è espressa a favore di una maggiore assistenza economica all’Ucraina, dal 51% in Italia al 76% in Svezia. Quasi ovunque (tranne che in Italia e Romania), la maggioranza si è espressa a favore dell’invio di ulteriori armi ed equipaggiamenti militari all’Ucraina.

Nel frattempo, l’esercito ucraino è riuscito a riconquistare oltre il 50% dei territori occupati dalla Russia dal 24 febbraio. I successi ottenuti in estate e in autunno hanno reso più realistica una vittoria ucraina. I risultati di un altro recente sondaggio indicano che la maggioranza degli europei ritiene che l’Ucraina vincerà la guerra. Anche se il nostro sondaggio di quest’anno non comprendeva domande sugli obiettivi di guerra di Putin o sulle possibilità di Kyiv di riconquistare i territori occupati, i risultati indicano comunque che la percezione degli europei sulla condotta della guerra è cambiata.

In primo luogo, i cittadini segnalano un cambiamento nella loro percezione del potere della Russia e dell’UE. Una pluralità di europei ritiene che la Russia sia più debole oggi rispetto a quanto pensavano prima della guerra. Nei nove Paesi dell’UE intervistati, una media del 46% vede la Russia ugualmente debole o più debole di prima, mentre il 33% la considera forte o più forte. Le risposte non presentano un quadro uniforme. Per i cittadini di Gran Bretagna, Danimarca, Polonia, Estonia e Germania è chiaro che la guerra ha dimostrato la debolezza della Russia. Altrove, gli intervistati hanno una visione più equilibrata. Questa percezione di indebolimento della Russia può far credere a un maggior numero di persone che gli ucraini abbiano una reale possibilità di vincere la guerra.

L’attuale conflitto tra Russia e Ucraina le fa pensare che la Russia sia più forte o più debole di quanto pensasse in precedenza? In percentuale
Molto o un po’ più forteEra e resta forteNon lo soEra e resta deboleMolto o un po’ più debole

Gli europei condividono ora anche l’ampia percezione che l’UE sia forte come la vedevano prima, o addirittura più forte di quanto pensassero in precedenza. A un anno dall’inizio della guerra, il numero di persone che considerano l’UE più forte di quanto la percepissero prima della guerra è superiore al numero di persone che la considerano più debole. Nei nove Paesi dell’UE intervistati, una media del 49% ritiene che l’UE sia più forte, o almeno altrettanto forte, rispetto a come la percepivano prima della guerra. Il 32% ritiene invece che sia più debole, o almeno altrettanto debole, rispetto a prima. In quasi tutti i Paesi europei intervistati – con la sola eccezione dell’Italia – l’opinione prevalente è che l’UE sia forte o più forte piuttosto che debole o più debole.

L’attuale conflitto tra Russia e Ucraina le fa pensare che l’UE sia più forte o più debole di quanto pensasse in precedenza? In percentuale
Molto o un po’ più forteEra e resta forteNon lo soEra e resta deboleMolto o un po’ più debole

E, cosa ancora più importante, questa percezione della forza dell’UE è correlata al sostegno all’Ucraina per la riconquista di tutto il suo territorio. Nei nove Paesi dell’UE intervistati, la maggioranza (in media il 54%) di coloro che considerano l’UE più forte vuole che l’Ucraina riconquisti tutto il suo territorio, mentre solo il 25% vuole che la guerra cessi il prima possibile. Nel frattempo, coloro che considerano l’UE più debole sono più divisi su questo punto, con una preferenza per una rapida cessazione della guerra (38%) piuttosto che per una resistenza dell’Ucraina alla Russia (32%).

Questo cambiamento di percezione potrebbe anche essere legato al fatto che alcuni degli scenari catastrofici che si temevano all’inizio della guerra non si sono materializzati, soprattutto in termini di escalation nucleare. L’ultimo sondaggio dimostra che, rispetto a un anno fa, il numero di europei che temono la guerra nucleare è diminuito, soprattutto in Francia. Allo stesso modo, in Romania, la percezione che l’azione militare russa contro il Paese sia la principale minaccia è diminuita dal 21 al 16%.

Pensando all’attuale conflitto tra la Russia e l’Ucraina, quale dei seguenti aspetti la preoccupa maggiormente? In percentuale
Minaccia dell’uso di armi nucleari da parte della Russia

Mentre la minaccia dell’uso di armi nucleari era considerata la principale minaccia in tutti gli otto Paesi inclusi nei sondaggi del 2022 e del 2023, oggi il quadro è diverso: il costo della vita è ora considerato la principale minaccia nelle tre maggiori economie dell’UE, Germania, Francia e Italia (anche se la minaccia nucleare rimane la principale preoccupazione altrove). Questo leggero cambiamento potrebbe essere spiegato non solo dalla crescente ansia economica, ma anche dal calo della preoccupazione per un attacco nucleare.

Fondere nazionalisti e cosmopoliti
Un altro fattore dell’attuale unità è il modo in cui la guerra della Russia in Ucraina ha unito diversi settori dell’opinione pubblica europea. Anche questo non era scontato all’inizio della guerra. La guerra di Putin non sfida solo la sicurezza e l’economia europea, ma anche la cultura europea. Ciò ha provocato un ripensamento radicale sia a sinistra che a destra dello spettro politico.

La vittoria pacifica dell’Occidente nella guerra fredda ha portato sia le élite che i cittadini europei a dare per scontata la pace. Gli europei hanno sempre più guardato alla sicurezza con gli occhi delle compagnie di assicurazione piuttosto che con quelli dei pianificatori militari. Come ha avvertito l’ex segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Robert Gates, in un discorso tenuto nel febbraio 2011 alla National Defense University, la “smilitarizzazione dell’Europa – dove ampie fasce dell’opinione pubblica e della classe politica sono avverse alla forza militare e ai rischi che ne derivano – è passata da una benedizione nel XX secolo a un ostacolo al raggiungimento di una vera sicurezza e di una pace duratura nel XXI”. Il sacrificio non faceva più parte del contratto sociale europeo.

In questo contesto, non è stata solo l’aggressione imperiale di Putin, ma anche la mobilitazione nazionalista dell’Ucraina a mettere in discussione il modo in cui gli europei liberali vedevano il mondo. Mentre la paura di un attacco russo li ha costretti a ripensare al valore del potere duro, l’ammirazione per la resilienza ucraina li ha costretti a rivalutare il valore di una società post-eroica.

E mentre i liberali e gli europeisti hanno messo in discussione le loro opinioni sul ruolo del nazionalismo, la destra nazionalista è stata costretta a modificare ancora una volta le sue opinioni sul ruolo dell’UE. Questo processo era già iniziato dopo la pandemia di covidio-19. Dopo la crisi finanziaria globale e la crisi dei rifugiati, che hanno catapultato i partiti di estrema destra al centro dei dibattiti politici dell’ultimo decennio, il fallimento della Brexit e l’ascesa del covid-19 hanno visto l’euroscetticismo iniziare a svanire, mentre i partiti tradizionali hanno beneficiato del desiderio del pubblico di protezione dal caos. I sondaggi dell’ECFR hanno mostrato che durante questi eventi, molti elettori di destra hanno capito che la sovranità poteva essere recuperata solo attraverso un’azione congiunta, e molti partiti precedentemente euroscettici hanno abbandonato le loro promesse di lasciare l’UE o l’euro.

La risposta all’invasione russa in Ucraina può essere vista sia come un abbraccio alla sovranità da parte dei liberali, sia come un ulteriore mainstreaming di alcuni partiti della destra nazionalista. Il risultato è un’attenuazione del divario tra destra e sinistra in Europa sulle questioni geopolitiche e un’evoluzione verso la fusione di nazionalismo e cosmopolitismo. Ciò è stato particolarmente evidente nella decisione di offrire all’Ucraina lo status di Paese candidato all’UE: un’organizzazione post-nazionale incentrata sul diritto piuttosto che sulla guerra si è radunata dietro il sostegno militare a una causa nazionalista.

I risultati del nostro sondaggio d’opinione 2023 mostrano come i liberali e i nazionalisti, sia all’interno dei Paesi che tra di essi, si siano avvicinati nelle loro opinioni sull’Ucraina. Ad esempio, gli elettori del partito liberale La République en Marche (LREM) di Emmanuel Macron sono uniti a quelli del partito nazionalista polacco Diritto e Giustizia (PiS). Gli elettori del LREM (il più falco dei partiti francesi) preferiscono questa opzione a quella di fermare la guerra il prima possibile con una proporzione di 61 a 25 per cento; e quelli del PiS (che è unito a tutti gli altri principali partiti polacchi su questo punto) con 62 a 18 per cento. Le persone che hanno votato per il partito tedesco dei Verdi (il più falco dei principali partiti tedeschi) hanno una preferenza simile, con una proporzione di 48 a 23 per cento.

Quale dei seguenti rispecchia meglio la sua opinione?
Partiti selezionati, per intenzione di voto. In percentuale
Il conflitto tra Russia e Ucraina deve cessare al più presto, anche se ciò significa che l’Ucraina cede il controllo di alcune aree alla RussiaL’Ucraina deve riconquistare tutto il suo territorio, anche se ciò significa una guerra più lunga o un maggior numero di morti e sfollati ucraini

Gli elettori dei partiti europei euroscettici o di estrema destra hanno opinioni più varie di quanto ci si aspetterebbe. A differenza dei partiti di cui sopra, gli elettori del partito nazionalista Fratelli d’Italia hanno una preferenza per l’interruzione della guerra il prima possibile rispetto allo scenario di guerra lunga, con una proporzione di 42 a 32 per cento. Ma rispetto agli altri rivali radicali nazionali, sono chiaramente meno prudenti degli elettori della Lega (che hanno optato per questa opzione con una percentuale del 68% sull’11%) o del Movimento Cinque Stelle (che l’hanno preferita con una percentuale del 50-22%). Gli elettori del partito Fratelli d’Italia hanno espresso una preferenza per l’interruzione della guerra simile a quella degli elettori del partito National Rally di Marine Le Pen in Francia (39 a 30 per cento, che è meno radicale di quanto si potrebbe supporre data la posizione precedentemente favorevole alla Russia del partito e gli stretti legami di Le Pen con Putin); e a quelli di Vox in Spagna (35 a 31 per cento) o Chega in Portogallo (42 a 28 per cento).

Ciò rende l’Alternativa per la Germania (AfD) e la Lega e il Movimento Cinque Stelle in Italia degli outlier europei, piuttosto che la norma tra i radicali europei. Gli elettori dell’AfD non solo hanno una forte preferenza per l’interruzione della guerra il prima possibile (59 a 17 per cento), ma sono anche quasi equamente divisi sul fatto che la Russia sia un alleato o un partner (42 per cento), o un rivale o un avversario (48 per cento). Tuttavia, l’opinione prevalente tra gli elettori dell’AfD è ancora che la Russia sia un avversario (37%). Questi risultati sono in linea con quelli degli elettori della maggior parte degli altri partiti di estrema destra, che vedono anch’essi la Russia principalmente come un avversario – una risposta data dal 42% degli elettori di National Rally, dal 41% degli elettori di Fratelli d’Italia, dal 53% degli elettori della Confederazione polacca e dal 41% degli elettori di Chega. Sembra che Putin sia riuscito a inimicarsi gli elettori di molti dei partiti europei più filo-russi.

Quale rispecchia meglio il suo punto di vista su chi è la Russia per il suo Paese?
Partiti selezionati, per intenzione degli elettori. In percentuale
Un alleato – che condivide i nostri interessi e valoriUn partner necessario – con cui dobbiamo cooperare strategicamenteUn rivale – con cui dobbiamo competereUn avversario – con cui siamo in conflittoNon lo so

Il ritorno dell’Occidente
Infine, il ruolo degli Stati Uniti durante tutta la guerra è stato un fattore importante nel determinare questa unità. Molto è stato scritto sull’enorme importanza del sostegno americano allo sforzo militare dell’Ucraina. Ma anche il perno del Presidente Biden verso l’Europa ha avuto un effetto significativo sull’opinione pubblica del continente. Durante la guerra in Iraq del 2003, Washington ha diviso gli europei in parti nuove e vecchie. In Ucraina, invece, l’amministrazione Biden ha contribuito a promuovere una nuova unità tra i tradizionali euro-atlantici e i sovranisti europei.

In un precedente sondaggio dell’ECFR, condotto nell’aprile 2021, la maggioranza degli europei vedeva gli Stati Uniti come “partner necessario” dell’Europa, piuttosto che come “alleato”. Sebbene quest’anno abbiamo chiesto la percezione di ciò che gli Stati Uniti rappresentano per i loro Paesi e non per l’Europa, i risultati possono essere interpretati come una leggera ma significativa differenza. Negli otto Paesi inclusi nei sondaggi del 2021 e del 2023, la maggior parte delle persone continua a considerare gli Stati Uniti come un “partner necessario”, ma in Danimarca e in Gran Bretagna l’opinione prevalente è che gli Stati Uniti siano un “alleato”, mentre in Germania e in Polonia le opinioni sono equamente divise tra queste due opzioni. La differenza è più evidente in Germania e Danimarca. Nel 2021, gli europei erano meno propensi a considerare gli americani come alleati, e questa non era la risposta più ampia in nessun Paese intervistato.

2023: Quale delle due opzioni riflette meglio la sua opinione su ciò che gli Stati Uniti rappresentano per il suo Paese? In percentuale

Ciò che forse colpisce ancora di più è la rinascita dell’idea della forza americana in Europa. I risultati del sondaggio del 2021 rivelavano una crisi del potere americano, con molti europei che temevano che gli Stati Uniti sarebbero stati eclissati dalla Cina entro un decennio. Ma nel 2023, in tutti i Paesi europei oggetto del sondaggio, gli europei vedono chiaramente gli Stati Uniti più forti o almeno altrettanto forti di quanto pensassero in precedenza. La percentuale varia dal 58% della Francia al 76% dell’Estonia. La guerra in Ucraina ha ricordato agli europei la potenza militare americana, il che li ha apparentemente rassicurati.

Inoltre, la percezione di un rafforzamento degli Stati Uniti va di pari passo con quella di un’Unione europea più forte. Nei nove Paesi dell’UE intervistati, il 63% di coloro che considerano l’UE più forte ritiene che anche gli Stati Uniti siano più forti, mentre questa opinione è condivisa solo dal 22% di coloro che ritengono l’UE più debole di quanto pensassero in precedenza. Il 45% degli intervistati nei nove Paesi dell’UE vede sia l’UE che gli USA più forti di quanto pensassero in precedenza o almeno altrettanto forti di prima, mentre solo il 9% li considera entrambi deboli o più deboli. Questi risultati suggeriscono che molti europei si sentono parte di un Occidente rinnovato e forte, guidato dagli Stati Uniti.

L’attuale conflitto tra Russia e Ucraina le fa pensare che gli Stati Uniti siano più forti o più deboli di quanto pensasse in precedenza? In percentuale
Molto o un po’ più forti Erano e sono ancora forti Non soErano e sono ancora deboli Molto o un po’ più deboli

Ciò è confermato anche da un altro dato sorprendente. Contrariamente alle speranze di alcuni leader europei, come Emmanuel Macron, gli europei non si aspettano necessariamente che l’Europa diventi uno dei centri di potere in un mondo multipolare. Alla domanda sulla forma dell’ordine globale tra un decennio, una pluralità di intervistati nei nove Paesi dell’UE si aspetta un mondo bipolare, con campi rivali guidati da Stati Uniti e Cina, piuttosto che uno multipolare.

In quasi tutti i Paesi, ad eccezione dell’Estonia, la risposta sostanziale prevalente (che va dal 24% della Romania al 32% della Spagna e dell’Italia, e al 28% in media nei nove Paesi dell’UE intervistati) è che il mondo sarà diviso in due blocchi. La seconda risposta sostanziale più frequente tende ad essere un mondo multipolare (ma con solo il 19 percento in media nei nove Paesi dell’UE intervistati). C’è anche un ampio gruppo di persone che non conosce la risposta a questa domanda (25 percento in media nei nove Paesi dell’UE intervistati, e la risposta principale in Gran Bretagna, Danimarca, Francia, Polonia e Romania), il che potrebbe indicare un notevole livello di confusione, incertezza o semplicemente mancanza di conoscenza su questo tema tra i cittadini europei.

Tra dieci anni, quale delle seguenti ipotesi ritiene più probabile? In percentuale

L’ambizione dell’UE come attore globale autonomo sembra essere stata almeno temporaneamente ritirata a seguito della guerra. Di fronte alla prospettiva di una rottura generazionale delle relazioni con la Russia, ci si potrebbe aspettare che gli europei siano più desiderosi che mai di concentrarsi sulle loro relazioni con il resto del mondo. Invece, gli europei guardano al loro interno e si affidano ancora di più agli Stati Uniti.

Conclusione: Una fragile unità
A un anno dall’inizio della guerra russa in Ucraina, l’unità europea si è approfondita ed è cresciuta, sorprendendo non solo Mosca e Washington, ma anche gli stessi europei.

I leader europei possono sentirsi incoraggiati e rassicurati da questi risultati, ma dovrebbero essere cauti nel loro ottimismo. Ognuna delle tre forze che abbiamo descritto è contingente – e potrebbe cambiare nel corso del prossimo anno – con un grande impatto sull’unità europea.

Se la possibilità di una vittoria ucraina ha contribuito al sostegno degli europei per la riconquista di tutto il territorio ucraino, è molto probabile che il cambiamento sia morbido piuttosto che duraturo. Le battute d’arresto militari potrebbero erodere il sostegno all’Ucraina e portare a un aumento della preferenza per la fine della guerra il prima possibile.

Anche la convergenza tra liberali e nazionalisti potrebbe essere fragile. Come dimostrato, i timori economici sono in cima all’agenda dei cittadini europei – e la loro importanza è aumentata ovunque dal maggio 2022. Se l’inflazione e il costo della vita rimarranno elevati, il sostegno pubblico all’Ucraina potrebbe quindi diminuire. Di fronte ai problemi interni, è probabile che i liberali e i nazionalisti prendano ancora una volta direzioni diverse. Anche altre questioni legate alla guerra hanno il potenziale per far saltare la fragile unione tra destra e sinistra. Ad esempio, se la questione dei rifugiati tornasse al centro della politica europea, potrebbe dare forza agli estremisti, polarizzare le società e mettere in difficoltà i partiti centristi, come è successo nel 2015. Il calo del sostegno ai rifugiati dopo l’enorme compassione dimostrata nei primi anni della guerra siriana fa temere che la migrazione possa essere un tema critico nelle prossime elezioni europee, che dividerebbe ancora una volta la sinistra dalla destra e i liberali dai nazionalisti.

Pensando all’attuale conflitto tra la Russia e l’Ucraina, quale dei seguenti aspetti la preoccupa maggiormente? In percentuale
Costo della vita e aumento dei prezzi dell’energia

Ma forse il pericolo maggiore per questa unità è un cambiamento a Washington. Biden è stato quasi altrettanto importante per costruire l’unità europea da una direzione positiva quanto Putin da una negativa. Se Donald Trump – o un altro repubblicano America First – tornerà alla Casa Bianca nel 2024, il sostegno degli Stati Uniti all’Ucraina e all’unità con l’Europa sembrerà molto meno certo. Qualsiasi cambiamento nella politica americana renderebbe l’unità europea particolarmente vulnerabile.

Piuttosto che dare per scontata l’attuale notevole unità, i leader europei dovrebbero sfruttare lo spazio che si crea per rafforzare la propria resistenza alla luce di questi fattori. Dovrebbero fare il possibile per attrezzare l’Ucraina e metterla in condizione di affrontare i negoziati che saranno necessari per porre fine alla guerra. Dovrebbero mettere in atto politiche per mitigare l’aumento del costo della vita e per condividere l’onere della gestione dei rifugiati. E soprattutto dovrebbero sfruttare al meglio i prossimi 18 mesi per diventare immuni ai cambiamenti politici oltreoceano, sviluppando capacità europee e strategie comuni per diversi scenari. Se gli europei riusciranno a fare queste cose, potrebbero scoprire che la loro opinione pubblica sorprende davvero l’uomo del Cremlino.

Metodologia
Il presente rapporto si basa su un sondaggio di opinione condotto all’inizio di gennaio 2023 in dieci Paesi europei (Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Polonia, Portogallo, Romania e Spagna). Il numero totale di intervistati è stato di 14.439.

I sondaggi sono stati realizzati per ECFR come indagine online attraverso Datapraxis e YouGov in Danimarca (1.064 intervistati; 3-11 gennaio), Francia (2.051; 3-12 gennaio), Germania (2.017; 4-11 gennaio), Gran Bretagna (2.200; 4-10 gennaio), Italia (1.599; 4-12 gennaio), Polonia (1.413; 3-20 gennaio), Portogallo (1.057; 4-12 gennaio), Romania (1.003; 4-11 gennaio) e Spagna (1.013; 4-11 gennaio); e attraverso Datapraxis e Norstat in Estonia (1.022; 18-24 gennaio). In tutti questi Paesi il campione era rappresentativo a livello nazionale dei dati demografici di base e delle votazioni precedenti. Nel Regno Unito, il sondaggio non ha riguardato l’Irlanda del Nord, motivo per cui il documento si riferisce alla Gran Bretagna.

Gli autori
Ivan Krastev è presidente del Centro per le Strategie Liberali di Sofia e borsista permanente presso l’Istituto per le Scienze Umane di Vienna. È autore di Is It Tomorrow Yet? Paradoxes of the Pandemic, oltre a numerose altre pubblicazioni.

Mark Leonard è cofondatore e direttore dell’European Council on Foreign Relations. Il suo nuovo libro, The Age of Unpeace: How Connectivity Causes Conflict, è stato pubblicato da Penguin in brossura il 2 giugno 2022. Presenta inoltre il podcast settimanale “World in 30 Minutes” dell’ECFR.

Ringraziamenti
Questa pubblicazione non sarebbe stata possibile senza lo straordinario lavoro del team Unlock dell’ECFR. Gli autori desiderano ringraziare in particolare Pawel Zerka e Gosia Piaskowska, che hanno svolto un lavoro minuzioso sui dati alla base di questo rapporto e che hanno individuato alcune delle tendenze più interessanti, nonché Nastassia Zenovich, che ha lavorato alla visualizzazione dei dati. Flora Bell è stata un’ammirevole redattrice, mentre Andreas Bock ha guidato il lavoro strategico di sensibilizzazione dei media. Susi Dennison e Anand Sundar hanno dato suggerimenti sensibili e utili sulla sostanza. Gli autori desiderano inoltre ringraziare Paul Hilder e il suo team di Datapraxis per la paziente collaborazione con noi nello sviluppo e nell’analisi dei sondaggi a cui si fa riferimento nel rapporto. Nonostante i numerosi e variegati contributi, gli eventuali errori restano a carico degli autori.

Questi sondaggi e analisi sono il risultato di una collaborazione tra l’ECFR e il progetto “Europe in a Changing World” del Programma Dahrendorf del St Antony’s College, Università di Oxford. L’ECFR ha collaborato a questo progetto con la Fondazione Calouste Gulbenkian, il Think Tank Europa e l’International Center for Defence and Security.

L’European Council on Foreign Relations non prende posizioni collettive. Le pubblicazioni dell’ECFR rappresentano solo le opinioni dei singoli autori.

https://ecfr.eu/publication/fragile-unity-why-europeans-are-coming-together-on-ukraine/?fbclid=IwAR2QgVl18MLcVDiPrGnAGwMd5XKOjJeKuG0Tpf0qfraPzF17VBJetLV4xeA

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Il ritorno del re, di WOLFGANG STREECK

Il ritorno del re
WOLFGANG STREECK
04 MAGGIO 2022POLITICA
Se mai ci fosse stata una domanda su chi comanda in Europa, la NATO o l’Unione Europea, la guerra in Ucraina l’ha risolta, almeno per il prossimo futuro. Una volta, Henry Kissinger si lamentava che non c’era un numero di telefono unico a cui chiamare l’Europa, troppe chiamate da fare per ottenere qualcosa, una catena di comando troppo scomoda e bisognosa di semplificazione. Poi, dopo la fine di Franco e Salazar, è arrivata l’estensione a sud dell’UE, con l’ingresso della Spagna nella NATO nel 1982 (il Portogallo ne faceva parte dal 1949), rassicurando Kissinger e gli Stati Uniti sia contro l’eurocomunismo sia contro una presa di potere militare non da parte della NATO. Più tardi, nell’emergente Nuovo Ordine Mondiale dopo il 1990, l’UE avrebbe dovuto assorbire la maggior parte degli Stati membri del defunto Patto di Varsavia, in quanto questi erano in rapida successione per l’adesione alla NATO. Stabilizzando economicamente e politicamente i nuovi arrivati nel blocco capitalista e guidando la loro costruzione nazionale e la formazione dello Stato, il compito dell’UE, accettato più o meno con entusiasmo, sarebbe stato quello di consentire loro di diventare parte dell'”Occidente”, guidato dagli Stati Uniti in un mondo ormai unipolare.

Negli anni successivi il numero di Paesi dell’Europa orientale in attesa di essere ammessi nell’UE aumentò, con gli Stati Uniti che facevano pressioni per la loro ammissione. Con il tempo, Albania, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia hanno ottenuto lo status di candidati ufficiali, mentre Kosovo, Bosnia-Erzegovina e Moldavia sono ancora in attesa. Nel frattempo, l’entusiasmo degli Stati membri dell’UE per l’allargamento è diminuito, soprattutto in Francia, che ha preferito e preferisce l'”approfondimento” all'”allargamento”. Ciò era in linea con la peculiare finalité francese dell'”unione sempre più stretta dei popoli europei”: un insieme politicamente e socialmente relativamente omogeneo di Stati in grado di svolgere collettivamente un ruolo indipendente, autodeterminato, “sovrano”, soprattutto a guida francese nella politica mondiale (“una Francia più indipendente in un’Europa più forte”, come ama dire il presidente francese appena rieletto).

I costi economici per portare i nuovi Stati membri agli standard europei, e la quantità necessaria di costruzione di istituzioni dall’esterno, dovevano essere mantenuti gestibili, dato che l’UE stava già lottando con le persistenti disparità economiche tra i suoi Paesi membri mediterranei e quelli nord-occidentali, per non parlare del profondo attaccamento di alcuni dei nuovi membri dell’Est agli Stati Uniti. Così, la Francia ha bloccato l’ingresso nell’UE della Turchia, membro di lunga data della NATO (che rimarrà anche se ha appena mandato in prigione l’attivista Osman Kavala, per una vita in isolamento senza possibilità di libertà vigilata). Lo stesso vale per diversi Stati dei Balcani occidentali, come l’Albania e la Macedonia settentrionale, che non sono riusciti a impedire l’adesione, nella prima ondata di Osterweiterung del 2004, di Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria. Quattro anni dopo, Sarkozy e Merkel hanno impedito (per il momento) agli Stati Uniti di George Bush il Giovane di ammettere la Georgia e l’Ucraina nella NATO, prevedendo che ciò sarebbe stato seguito dalla loro inclusione nell’Unione Europea.

Con l’invasione russa dell’Ucraina il gioco è cambiato. Il discorso televisivo di Zelensky ai capi di governo dell’UE riuniti ha provocato un’eccitazione molto desiderata ma raramente vissuta a Bruxelles, e la sua richiesta di piena adesione all’UE, tutto e subito, ha suscitato applausi a non finire. Come al solito, la von der Leyen si è recata a Kiev per consegnare a Zelensky il lungo questionario necessario per avviare le procedure di ammissione. Mentre di solito i governi nazionali impiegano mesi, se non anni, per mettere insieme i complessi dettagli richiesti dal questionario, Zelensky, nonostante lo stato di assedio di Kiev, ha promesso di finire il lavoro in poche settimane, e così ha fatto. Non si sa ancora quali siano le risposte a domande come il trattamento delle minoranze etniche e linguistiche, soprattutto russe, o il grado di corruzione e lo stato della democrazia, ad esempio il ruolo degli oligarchi nazionali nei partiti politici e in parlamento.

Se l’Ucraina sarà ammessa rapidamente come promesso, e come si aspettano il suo governo e quello degli Stati Uniti, non ci sarà più motivo di rifiutare l’adesione non solo agli Stati dei Balcani occidentali, ma anche alla Georgia e alla Moldavia, che si sono candidate insieme all’Ucraina. In ogni caso, tutti questi Paesi rafforzeranno l’ala anti-russa e filo-americana all’interno dell’UE, oggi guidata dalla Polonia, che all’epoca, come l’Ucraina, partecipava volentieri alla “coalizione dei volenterosi” messa insieme dagli Stati Uniti allo scopo di costruire attivamente una nazione in Iraq. Per quanto riguarda l’UE in generale, l’adesione dell’Ucraina la trasformerà ancora di più in una scuola di preparazione o in un recinto per i futuri membri della NATO. Questo è vero anche se, come parte di un potenziale accordo di guerra, l’Ucraina potrebbe dover essere dichiarata ufficialmente neutrale, impedendole di entrare direttamente nella NATO. (In effetti, dal 2014 l’esercito ucraino è stato ricostruito da zero sotto la direzione americana, al punto che nel 2021 ha effettivamente raggiunto la cosiddetta “interoperabilità” nel gergo della NATO).

Oltre all’addomesticamento dei membri neofiti, un altro compito dell’UE come ausiliario civile della NATO è quello di elaborare sanzioni economiche che colpiscano il nemico russo risparmiando amici e alleati, per quanto necessario. La NATO controlla le armi, l’UE è incaricata di controllare i porti. La Von der Leyen, entusiasta come sempre, alla fine di febbraio aveva fatto sapere al mondo che le sanzioni dell’UE sarebbero state le più efficaci di sempre e che avrebbero “cancellato a poco a poco la base industriale della Russia” (Stück für Stück die industrielle Basis Russlands abtragen). Forse, da tedesca, aveva in mente qualcosa di simile al Piano Morgenthau, proposto dai consiglieri di Franklin D. Roosevelt per ridurre per sempre la Germania sconfitta a una società agricola. Quel progetto fu presto abbandonato, al più tardi quando gli Stati Uniti si resero conto che avrebbero potuto avere bisogno della Germania (occidentale) per il “contenimento” dell’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda.

Non è chiaro chi disse a von der Leyen di non esagerare, ma la metafora dell’abtragen non fu più sentita, forse perché ciò che implicava poteva equivalere a una partecipazione attiva alla guerra. In ogni caso, ben presto si scoprì che la Commissione, nonostante le sue pretese di fama tecnocratica, aveva fallito nella pianificazione delle sanzioni così come aveva fallito nella pianificazione della convergenza macroeconomica. In modo straordinariamente eurocentrico, la Commissione sembrava aver dimenticato che ci sono parti del mondo che non vedono alcun motivo per aderire a un boicottaggio della Russia imposto dall’Occidente; per loro, gli interventi militari non sono nulla di insolito, compresi gli interventi dell’Occidente per l’Occidente. Inoltre, a livello interno, quando si è arrivati al dunque, l’UE ha avuto difficoltà a ordinare ai suoi Stati membri cosa non comprare o vendere; gli appelli alla Germania e all’Italia di interrompere immediatamente l’importazione di gas russo sono stati ignorati, con entrambi i governi che hanno insistito sulla necessità di prendere in considerazione i posti di lavoro e la prosperità nazionali. Gli errori di calcolo abbondano anche nella sfera finanziaria dove, nonostante le sanzioni sempre più sofisticate contro le banche russe, compresa la banca centrale di Mosca, il rublo è recentemente salito, di circa il 30% tra il 6 e il 30 aprile.

Quando i re tornano, iniziano un’epurazione, per correggere le anomalie accumulate durante la loro assenza. Vengono ripresentati e riscossi i vecchi conti, viene punita la mancanza di lealtà rivelata durante l’assenza del re, vengono estirpate le idee disobbedienti e le memorie improprie, e gli angoli e le fessure del corpo politico vengono ripuliti dai devianti politici che nel frattempo li hanno popolati. L’azione simbolica di tipo maccartista è utile perché diffonde la paura tra i potenziali dissidenti. Oggi, in tutto l’Occidente, i suonatori di pianoforte o di tennis o di teoria della relatività che provengono dalla Russia e che vogliono continuare a suonare qualsiasi cosa facciano, sono costretti a fare dichiarazioni pubbliche che renderebbero la loro vita e quella delle loro famiglie in patria difficile, nel migliore dei casi. I giornalisti investigativi scoprono un abisso di donazioni filantropiche da parte di oligarchi russi a festival musicali e di altro tipo, donazioni che sono state ben accette in passato ma che ora si scopre che sovvertono la libertà artistica, a differenza ovviamente delle donazioni filantropiche dei loro colleghi oligarchi occidentali. ecc.

Sullo sfondo del proliferare dei giuramenti di fedeltà, il discorso pubblico si riduce a diffondere la verità del Re, e nient’altro. Putin verstehen – cercare di scoprire i motivi e le ragioni, cercare un indizio su come si potrebbe, forse, negoziare la fine dello spargimento di sangue – è equiparato a Putin verzeihen, o perdonare; “relativizza”, come dicono i tedeschi, le atrocità dell’esercito russo cercando di porvi fine con mezzi diversi da quelli militari. Secondo la nuova saggezza, c’è un solo modo di affrontare un pazzo; pensare ad altri modi fa avanzare i suoi interessi e quindi equivale al tradimento. (Ricordo gli insegnanti degli anni ’50 che facevano sapere alle giovani generazioni che “l’unica lingua che il russo capisce è quella del pugno”). La gestione della memoria è centrale: non nominare mai gli accordi di Minsk (2014 e 2015) tra Ucraina, Russia, Francia e Germania, non chiedere che fine hanno fatto e perché, non ricordare la piattaforma di risoluzione negoziata del conflitto su cui Zelensky è stato eletto nel 2019 da quasi tre quarti degli elettori ucraini, e dimenticare la risposta americana con la diplomazia del megafono alle proposte russe, già nel 2022, di un sistema di sicurezza europeo comune. Soprattutto, non si tirino mai in ballo le varie “operazioni speciali” americane del recente passato, come ad esempio in Iraq, e a Fallujah all’interno dell’Iraq (800 vittime civili solo in pochi giorni); così facendo si commette il reato di “whataboutism”, che alla luce delle “immagini da Bucha e Mariupol” è moralmente fuori luogo.

In tutto l’Occidente, la politica di ricostruzione imperiale prende di mira tutto e tutti coloro che si discostano, o si sono discostati in passato, dalla posizione americana sulla Russia e sull’Unione Sovietica e sull’Europa nel suo complesso. È qui che oggi si traccia la linea di demarcazione tra la società occidentale e i suoi nemici, tra il bene e il male, una linea lungo la quale non solo il presente ma anche il passato deve essere epurato. Particolare attenzione è rivolta alla Germania, il Paese che è stato oggetto di sospetti americani (kissingeriani) fin dalla Ostpolitik di Willy Brandt e dal riconoscimento tedesco del confine occidentale della Polonia nel dopoguerra. Da allora, la Germania è sospettata agli occhi americani di voler avere voce in capitolo in materia di sicurezza nazionale ed europea, per il momento all’interno della NATO e della Comunità europea, ma in futuro possibilmente da sola.

Il fatto che tre decenni dopo Schröder, come Blair, Obama e tanti altri, abbia monetizzato il suo passato politico dopo aver lasciato l’incarico non è mai stato un problema. Diverso è stato il caso dello storico rifiuto di Schröder, insieme a Chirac, di unirsi alle truppe americane per invadere l’Iraq e, nell’atto, violare esattamente lo stesso diritto internazionale che ora viene violato da Putin. (Il fatto che la Merkel, all’epoca leader dell’opposizione, abbia detto al mondo, parlando da Washington DC pochi giorni prima dell’invasione, che Schröder non rappresentava la vera volontà del popolo tedesco può essere una delle ragioni per cui finora è stata risparmiata dagli attacchi americani per quella che si sostiene essere una delle principali cause della guerra ucraina, ovvero la sua politica energetica che ha reso la Germania dipendente dal gas naturale russo).

Oggi, in ogni caso, non è Schröder, troppo evidentemente inebriato dai milioni con cui gli oligarchi russi lo stanno riempiendo, il principale bersaglio dell’epurazione tedesca. È invece la SPD come partito – che, secondo la BILD e il nuovo leader della CDU, Friedrich Merz, un uomo d’affari con ottime conoscenze americane, ha sempre avuto un problema con la Russia. Il ruolo di Grande Inquisitore è svolto con forza dall’ambasciatore ucraino in Germania, Andrij Melnyk, autoproclamatosi nemesi in particolare di Frank-Walter Steinmeier, ora presidente della Repubblica Federale, che viene individuato per personificare la “connessione russa” della SPD. Steinmeier è stato dal 1999 al 2005 capo dello staff di Schröder alla Cancelleria, è stato per due volte (2005-2009 e 2013-2017) ministro degli Esteri sotto la Merkel ed è stato per quattro anni (2009-2013) leader dell’opposizione al Bundestag.

Secondo Melnyk, instancabile twittatore e intervistatore, Steinmeier “ha intessuto per anni una ragnatela di contatti con la Russia”, in cui “sono impigliate molte persone che ora comandano nel governo tedesco”. Per Steinmeier, secondo Melnyk, “il rapporto con la Russia era ed è qualcosa di fondamentale, qualcosa di sacro, indipendentemente da ciò che accade. Persino la guerra di aggressione della Russia non ha molta importanza per lui”. Così informato, il governo ucraino ha dichiarato Steinmeier persona non grata all’ultimo minuto, proprio mentre stava per salire su un treno da Varsavia a Kiev, in compagnia del ministro degli Esteri polacco e dei capi di governo degli Stati baltici. Mentre gli altri sono stati autorizzati a entrare in Ucraina, Steinmeier ha dovuto informare i giornalisti che lo accompagnavano che non era il benvenuto e tornare in Germania.

Il caso di Steinmeier è interessante perché mostra come vengono selezionati gli obiettivi dell’epurazione. A prima vista, le credenziali neoliberali-atlantiche di Steinmeier sembrano impeccabili. Autore dell’Agenda 2010, in qualità di capo della Cancelleria e coordinatore dei servizi segreti tedeschi, ha permesso agli Stati Uniti di utilizzare le loro basi militari tedesche per raccogliere e interrogare prigionieri prelevati da tutto il mondo durante la “guerra al terrorismo” – si può presumere come compensazione per il rifiuto di Schröder di unirsi all’avventura americana in Iraq. Inoltre, non ha fatto molto rumore, anzi non ne ha fatto affatto, quando gli Stati Uniti hanno tenuto prigionieri a Guantanamo cittadini tedeschi di origine libanese e turca, ognuno dei quali è stato arrestato, rapito e torturato dopo essere stato scambiato per qualcun altro. Le accuse di non aver fornito assistenza, come avrebbe dovuto fare secondo la legge tedesca, lo hanno seguito fino ad oggi.

Ciò che è vero è che Steinmeier ha contribuito a rendere la Germania dipendente dall’energia russa, anche se non proprio come accusato. È stato lui a negoziare, nel 1999, l’uscita della Germania dall’energia nucleare, per conto del governo rosso-verde di Schröder e come richiesto non dalla SPD, ma dai Verdi. In seguito, come leader dell’opposizione, ha accettato quando, dopo il disastro di Fukushima nel 2011, la Merkel, dopo aver fatto marcia indietro sull’uscita dal nucleare I, ha fatto di nuovo marcia indietro per far passare l’uscita dal nucleare II, sperando astutamente che questo avrebbe aperto la porta a una coalizione con i Verdi. Qualche anno dopo, quando per lo stesso motivo ha messo fine al carbone, in particolare al carbone dolce, per entrare in vigore all’incirca al momento della chiusura degli ultimi reattori nucleari rimasti, anche Steinmeier ha accettato. Tuttavia, è lui, e non la Merkel, a essere incolpato per la dipendenza energetica della Germania dalla Russia e per la sua collaborazione con essa, forse per la duratura gratitudine americana per l’assistenza fornita dalla Merkel nella crisi dei rifugiati siriani, in seguito al fallimentare (mezzo) intervento americano in Siria. Nel frattempo i Verdi, la forza trainante della politica energetica tedesca dai tempi di Schröder, come la CDU riescono a sfuggire all’ira americana facendo perno sull’attacco alla SPD e a Scholz per aver esitato a consegnare “armi pesanti” all’Ucraina.

E il Nord Stream 2? Anche in questo caso, la Merkel è sempre stata al posto di comando, non da ultimo perché la parte tedesca del gasdotto doveva trovarsi nel suo Paese, addirittura nella sua circoscrizione elettorale. Si noti che il gasdotto non è mai entrato in funzione, poiché buona parte del gas russo destinato alla Germania viene pompato attraverso un sistema di condotte che attraversa in parte l’Ucraina. Ciò che ha reso necessario il Nord Stream 2, agli occhi della Merkel, è stata la caotica situazione giuridica e politica in Ucraina dopo il 2014, che ha sollevato la questione di come garantire un transito affidabile di gas per la Germania e l’Europa occidentale – una questione che il Nord Stream 2 avrebbe elegantemente risolto. Non bisogna essere un ucraino per capire che questo deve aver infastidito gli ucraini. È interessante notare che, dopo più di due mesi di guerra, il gas russo viene ancora trasportato attraverso i gasdotti ucraini. Il governo ucraino potrebbe chiuderli in qualsiasi momento, ma non lo fa, probabilmente per consentire a se stesso e agli oligarchi associati di continuare a riscuotere le tariffe di transito. Ciò non impedisce all’Ucraina di chiedere alla Germania e ad altri Paesi di interrompere immediatamente l’utilizzo del gas russo, per non finanziare più la “guerra di Putin”.

Ancora una volta, perché Steinmeier e la SPD, piuttosto che la Merkel e la CDU o i Verdi? La ragione più importante potrebbe essere che in Ucraina, soprattutto nella destra radicale dello spettro politico, il nome di Steinmeier è conosciuto e odiato soprattutto in relazione alla cosiddetta “formula Steinmeier” – essenzialmente una sorta di tabella di marcia, o lista di cose da fare, per l’attuazione degli accordi di Minsk redatta da Steinmeier come Ministro degli Esteri sotto la Merkel. Se Nord Stream 2 era imperdonabile dal punto di vista ucraino, Minsk era un peccato mortale agli occhi non solo della destra ucraina (tra l’altro, avrebbe concesso l’autonomia alle parti russofone dell’Ucraina) ma anche degli Stati Uniti, che erano stati scavalcati da questo accordo proprio come l’Ucraina sarebbe stata scavalcata da Nord Stream 2. Se quest’ultimo è stato un atto ostile tra partner commerciali, il primo è stato un atto di alto tradimento contro un re temporaneamente assente, ora tornato per fare piazza pulita e vendicarsi.

Poiché l’UE è diventata una filiale della NATO, si può presumere che i suoi funzionari sappiano poco, come chiunque altro, degli obiettivi bellici finali degli Stati Uniti. Con la recente visita a Kiev dei segretari di Stato e della Difesa statunitensi, sembra che gli americani abbiano spostato in avanti l’obiettivo, dalla difesa dell’Ucraina dall’invasione russa all’indebolimento permanente dell’esercito russo. Fino a che punto gli Stati Uniti abbiano preso il controllo è stato dimostrato con forza quando, durante il loro viaggio di ritorno negli Stati Uniti, i due segretari si sono fermati alla base aerea americana di Ramstein, in Germania, la stessa che gli Stati Uniti hanno utilizzato per la guerra al terrorismo e per operazioni simili. Lì hanno incontrato i ministri della Difesa di non meno di quaranta Paesi, ai quali avevano ordinato di presentarsi per promettere il loro sostegno all’Ucraina e, naturalmente, agli Stati Uniti. È significativo che l’incontro non sia stato convocato presso il quartier generale della NATO a Bruxelles, una sede multinazionale almeno formalmente, ma in una struttura militare che gli Stati Uniti sostengono essere sotto la loro e unica sovranità, con l’occasionale e sommesso disaccordo del governo tedesco. È stato qui, con gli Stati Uniti che presiedevano sotto due enormi bandiere, americana e ucraina, che il governo Scholz ha infine accettato di consegnare all’Ucraina le “armi pesanti” a lungo richieste, senza apparentemente avere voce in capitolo sull’esatto scopo per cui i carri armati e gli obici sarebbero stati utilizzati. (Le quaranta nazioni hanno concordato di riunirsi una volta al mese per capire quale ulteriore equipaggiamento militare sia necessario all’Ucraina). In questo contesto non si può non ricordare l’osservazione di un diplomatico americano in pensione, in una fase iniziale della guerra, secondo cui gli Stati Uniti avrebbero combattuto i russi “fino all’ultimo ucraino”.

Come è noto, la soglia di attenzione non solo dell’opinione pubblica americana, ma anche dell’establishment della politica estera americana è breve. Eventi drammatici all’interno o all’esterno degli Stati Uniti possono diminuire in modo critico l’interesse nazionale in un luogo lontano come l’Ucraina – per non parlare delle prossime elezioni di midterm e dell’imminente campagna di Donald Trump per riconquistare la presidenza nel 2024. Dal punto di vista americano questo non è un gran problema, perché i rischi associati alle avventure estere degli Stati Uniti ricadono quasi esclusivamente sulla popolazione locale; si veda l’Afghanistan. A maggior ragione, è importante che i Paesi europei sappiano quali sono esattamente gli obiettivi di guerra degli Stati Uniti in Ucraina e come verranno aggiornati man mano che la guerra prosegue.

Dopo l’incontro di Ramstein, si è parlato non solo di un “indebolimento permanente” della potenza militare russa, per non parlare di un accordo di pace, ma di una vera e propria vittoria dell’Ucraina e dei suoi alleati. Ciò metterà alla prova la saggezza della Guerra Fredda secondo cui una guerra convenzionale contro una potenza nucleare non può essere vinta. Per gli europei il risultato sarà una questione di vita o di morte – il che potrebbe spiegare perché il governo tedesco ha esitato per qualche settimana a fornire all’Ucraina armi che potrebbero essere usate, ad esempio, per spostarsi in territorio russo, prima forse per colpire le linee di rifornimento russe, poi per ottenere di più. (Quando l’autore di queste righe ha letto della nuova aspirazione americana alla “vittoria” è stato colpito per un breve ma indimenticabile momento da un profondo senso di paura). Se la Germania ha avuto il coraggio di chiedere voce in capitolo sulla strategia americano-ucraina, nulla di simile sembra essere stato offerto: i carri armati tedeschi, a quanto pare, saranno consegnati a carta bianca. Si dice che i numerosi wargames commissionati negli ultimi anni dal governo americano a thinktanks militari che hanno coinvolto l’Ucraina, la NATO e la Russia siano finiti, in un modo o nell’altro, tutti in un Armageddon nucleare, almeno in Europa.

Certamente, un finale nucleare non è quello che viene pubblicizzato pubblicamente. Si sente invece dire che gli Stati Uniti presumono che per sconfiggere la Russia ci vorranno molti anni, con uno stallo prolungato, un lungo stallo nel fango di una guerra di terra, senza che nessuna delle due parti sia in grado di muoversi: i russi perché gli ucraini saranno incessantemente alimentati con più denaro e più materiale, se non con manodopera, da un “Occidente” recentemente americanizzato, gli ucraini perché sono troppo deboli per entrare in Russia e minacciare la sua capitale. Per gli Stati Uniti questo potrebbe sembrare abbastanza comodo: una guerra per procura, con il suo equilibrio di forze regolato e riaggiustato da loro in linea con le loro mutevoli esigenze strategiche. Infatti, quando negli ultimi giorni di aprile Biden ha chiesto altri 33 miliardi di dollari di aiuti all’Ucraina per il solo 2022, ha lasciato intendere che questo sarà solo l’inizio di un impegno a lungo termine, costoso come l’Afghanistan, ma, ha detto, ne vale la pena. A meno che, naturalmente, i russi non inizino a lanciare altri missili miracolosi, a disfare le armi chimiche e, infine, a mettere a frutto il loro arsenale nucleare, con piccole testate da campo.

C’è, nonostante tutto questo, una prospettiva di pace dopo la guerra, o meno ambiziosa: un’architettura di sicurezza regionale, magari dopo che gli americani avranno perso interesse o la Russia riterrà di non poter o dover continuare la guerra? Una soluzione eurasiatica, se così vogliamo chiamarla, presupporrà probabilmente una sorta di cambio di regime a Mosca. Dopo quello che è successo, è difficile immaginare che i leader dell’Europa occidentale esprimano pubblicamente fiducia in Putin o in un suo successore putiniano. Allo stesso tempo, non ci sono ragioni per credere che le sanzioni economiche imposte dall’Occidente alla Russia provocheranno una rivolta pubblica per rovesciare il regime di Putin. Anzi, sulla scorta dell’esperienza degli Alleati nella Seconda Guerra Mondiale con i bombardamenti a tappeto sulle città tedesche, le sanzioni potrebbero avere l’effetto opposto, facendo sì che la popolazione si stringa attorno al proprio governo.

La deindustrializzazione della Russia, secondo la von der Leyen, non sarà comunque possibile perché la Cina non lo permetterà, anche perché ha bisogno di uno Stato russo funzionante per il suo progetto della Nuova Via della Seta. Le richieste popolari in Occidente di processare Putin e la sua camarilla presso la Corte penale internazionale dell’Aia rimarranno, già solo per queste ragioni, insoddisfatte. Si noti in ogni caso che la Russia, come gli Stati Uniti, non ha firmato il trattato che istituisce il tribunale, assicurando così ai suoi cittadini l’immunità dai processi. Come Kissinger e Bush Jr. e altri negli Stati Uniti, Putin rimarrà quindi in libertà fino alla fine dei suoi giorni, qualunque sia questa fine. I Paesi europei che storicamente non sono esattamente inclini alla russofilia, come i Paesi baltici e la Polonia, e certamente anche l’Ucraina, hanno buone possibilità di convincere l’opinione pubblica di luoghi come la Germania o la Scandinavia che fidarsi della Russia può essere pericoloso per la salute nazionale.

Un cambio di regime potrebbe tuttavia essere necessario anche in Ucraina. Negli ultimi anni la parte ultranazionalista della politica ucraina, con profonde radici nel passato fascista e addirittura filonazista dell’Ucraina, sembra aver guadagnato forza in una nuova alleanza con le forze ultra-interventiste degli Stati Uniti. Una conseguenza, tra le altre, è stata la scomparsa di Minsk dall’agenda politica ucraina. Un esponente di spicco dell’ultradestra ucraina è il già citato ambasciatore ucraino in Germania, che in un’intervista alla Frankfurter Allgemeine ha fatto sapere che per lui uno come Navalny è esattamente uguale a Putin quando si tratta del diritto dell’Ucraina di esistere come Stato nazionale sovrano. Alla domanda su cosa direbbe ai suoi amici russi, ha negato di averne, anzi di averne mai avuti in vita sua, perché i russi sono per natura pronti a estinguere il popolo ucraino.

La famiglia politica di Melnyk risale all’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini (OUN) negli anni tra le due guerre e sotto l’occupazione tedesca, con cui i suoi leader collaborarono fino a quando non scoprirono che i nazisti non facevano distinzione tra russi e ucraini quando si trattava di uccidere e schiavizzare le persone. L’OUN era guidata da due uomini, Andrij Melnyk (lo stesso nome dell’ambasciatore) e Stepan Bandera, quest’ultimo, per quanto possibile, un po’ più a destra del primo. Entrambi avrebbero commesso crimini di guerra su licenza tedesca, Bandera come capo della polizia, nominato dai nazisti, a Leopoli (Lemberg). In seguito Bandera fu messo da parte dai tedeschi e messo agli arresti domiciliari, come altri fascisti locali altrove. (Dopo la guerra, restaurata l’Unione Sovietica, Bandera si trasferì a Monaco, capitale postbellica di una schiera di collaborazionisti dell’Europa orientale, tra cui gli Ustasha croati. Lì fu assassinato nel 1959 da un agente sovietico, dopo essere stato condannato a morte da un tribunale sovietico. Melnyk finì anche in Germania e morì negli anni ’70 in un ospedale di Colonia.

Il Melnyk di oggi definisce Bandera il suo “eroe”. Nel 2015, poco dopo essere stato nominato ambasciatore, ha visitato la sua tomba a Monaco di Baviera dove ha deposto dei fiori, raccontando la visita su Twitter. Ciò ha attirato un rimprovero formale da parte del ministero degli Esteri tedesco, all’epoca guidato nientemeno che da Steinmeier. Melnyk è anche intervenuto pubblicamente a sostegno del cosiddetto Battaglione Azov, un gruppo paramilitare armato ucraino, fondato nel 2014, che è generalmente considerato il ramo militare dei vari movimenti neofascisti del Paese. Non è chiaro ai non addetti ai lavori quanta influenza abbia oggi la corrente politica di Melnyk nel governo dell’Ucraina. Sicuramente ci sono anche altre correnti nella coalizione di governo; se la loro influenza diminuirà ulteriormente o, al contrario, aumenterà con il protrarsi della guerra sembra difficile da prevedere a questo punto. I movimenti nazionalisti a volte sognano una nazione che sorga dalla morte sul campo di battaglia dei suoi figli migliori, una nazione nuova o risorta saldata dal sacrificio eroico. Nella misura in cui l’Ucraina è governata da forze politiche di questo tipo, sostenute dall’esterno da Stati Uniti desiderosi di far durare la guerra ucraina, è difficile capire come e quando lo spargimento di sangue dovrebbe terminare, se non con la capitolazione del nemico o con l’uso della sua arma nucleare.

A parte la politica ucraina, una guerra per procura americana per l’Ucraina potrebbe costringere la Russia a uno stretto rapporto di dipendenza da Pechino, assicurando alla Cina un alleato eurasiatico prigioniero e dandole accesso assicurato alle risorse russe, a prezzi stracciati, dato che l’Occidente non sarebbe più in competizione per ottenerle. La Russia, a sua volta, potrebbe beneficiare della tecnologia cinese, nella misura in cui sarà resa disponibile. A prima vista, un’alleanza di questo tipo potrebbe sembrare contraria agli interessi geostrategici degli Stati Uniti. Tuttavia, sarebbe accompagnata da un’alleanza altrettanto stretta e asimmetrica, dominata dall’America, tra gli Stati Uniti e l’Europa occidentale, che terrebbe sotto controllo la Germania e reprimerebbe le aspirazioni francesi alla “sovranità europea”. Molto probabilmente, ciò che l’Europa può fornire agli Stati Uniti sarebbe superiore a ciò che la Russia può fornire alla Cina, così che una perdita della Russia a favore della Cina sarebbe più che compensata dai guadagni derivanti da un rafforzamento dell’egemonia americana sull’Europa occidentale. Una guerra per procura in Ucraina potrebbe quindi essere attraente per gli Stati Uniti che cercano di costruire un’alleanza globale per la loro imminente battaglia con la Cina per il prossimo Nuovo Ordine Mondiale, monopolare o bipolare in modi vecchi o nuovi, da combattere nei prossimi anni, dopo la fine della storia.

Leggi anche: Tony Wood, “Matrice di guerra”, NLR 133

https://newleftreview.org/sidecar/posts/return-of-the-king

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PACE MULTIPOLARE, di Pierluigi Fagan

Dopo quaranta anni di frizioni e conflitti per procura, Iran ed Arabia Saudita firmano un accordo per aprire una nuova stagione di rispettose e reciproche relazioni, si riapriranno le rispettive sedi diplomatiche, si firmerà un nuovo accordo di sicurezza, dalla pulsione di prevalenza si passerà all’equilibrio di convivenza. Difficile sottovalutare l’evento, è l’intero Middle East, inferno permanente di guerre tragiche, che passa ad una modalità potenzialmente pacifica.
L’accordo è stato firmato, non a caso, a Beijing ed è stato sicuramente benedetto dalla Russia, ma farà piacere anche all’India e non dispiacerà anche a Turchia ed Egitto. Pare piaccia addirittura a gli Houthi yemeniti ed in Libano, molto meno ad Israele. Va però aggiunto che sono almeno tre anni che si svolgono appartati colloqui diretti tra i due attori regionali, mediati anche da Iraq ed Oman, iniziativa condotta per altro parallelamente al cauto riavvicinamento del Qatar, che ha più che buone relazioni con l’Iran, all’Arabia Saudita. Da quelle parti le questioni sono sempre molto complicate, ci sarebbe da scrivere per ore raccontando chi è contro chi e perché, ma dopo decenni sembra che questa trama conflittuale possa transitare ad un nuovo esito. Come mai?
Sostanzialmente per tre ragioni. La prima è che, com’è ormai finalmente accettato in gran parte del discorso pubblico, s’è capito che il mondo avrà ordini molteplici, non c’è altro modo di ordinare un insieme così naturalmente disordinato e complesso. L’Iran è da tempo interno all’asse russo-indo-cinese che, pur con le dovute differenze interne, concorda sull’idea di un futuro di scambi e rispetto delle reciproche sovranità. L’Arabia Saudita, sta transitando da un allineamento esclusivo all’asse americo-occidentale ad una forma di molteplici relazioni con i BRICS, il mondo asiatico, Russia con cui ha anche comuni interessi di politica dei prezzi energetici, la stessa rissosa banda arabo-mediorientale. Molti poli, molte relazioni, nuovo sistema-mondo.
La seconda è che negli ultimi anni, dall’inizio della presidenza Biden, gli americani hanno sostanzialmente abbandonato il Medio Oriente non ritenendolo più un fronte primario della propria strategia geopolitica. Avendo raggiunto l’autonomia energetica e puntando alla sostituzioni delle fonti energetiche fossili, consci di quanto costi occuparsi di un quadrante così rissoso e complicato e soprattutto riorientata la bussola strategica contro Russia e Cina (quindi rapporti con l’Europa e l’Asia), hanno deciso di togliersi di mezzo. Non c’è dubbio che, in questi quattro decenni, la naturale complessità dell’area sia stata sistematicamente eccitata dagli americani per portare le contraddizioni al conflitto aperto.
La terza è che la fine del conflitto in Siria ha mostrato a tutti gli attori dell’area dell’inutilità del conflitto stesso. Dieci anni di guerra, quasi 600.000 morti, quasi 3 milioni di feriti, 12.000.000 sfollati, enorme distruzione materiale, costi enormi, risultato sul campo praticamente nullo. Ma tale esito, ha probabilmente colpito più di tutti proprio l’Arabia Saudita.
L’AS è in una lunga transizione di potere tra le vecchie e nuove generazioni degli al Saud. I “giovani” pensano il presente in funzione del futuro ed il futuro dell’AS è problematico, sia perché una buona parte del mondo sta andando verso energie non fossili, sia soprattutto perché pare che le riserve saudite hanno davanti ancora poco tempo di capienza. Inoltre, i sauditi hanno più petrolio che gas, la forma peggiore di energia fossile in termini d’impatto. Il nuovo vertice saudita, sta cercando di attrarre investimenti per fare un salto tecnologico che apra ad un nuovo posizionamento, strategia difficile ma forse l’unica possibile per quella che è una “scatola di sabbia” con una piccola popolazione viziata da decenni di abbondante rendita petrolifera. Nel 2018, i sauditi avevano annunciato la volontà di costruire 16 impianti per il nucleare, impossibile farlo con stato di frizione con l’Iran. Qui, come altrove, il nucleare serve a risparmiare petrolio o gas da poter vendere all’estero.
Questo riorientamento saudita sta facendo di colpo scomparire un fenomeno che pochi anni fa ha distrutto interni boschi per ricavarne la carta su cui scrivere puntute e plumbee analisi di sociologia politica: il terrorismo. Scomparso in Europa, sospeso in Asia, ancora presente in Africa, il terrorismo versione ISIS ed al Qaida, è stato un chiaro strumento geopolitico della vecchia strategia saudito-emiratina.
L’intera questione mostra con chiarezza com’è un mondo in cui gli americani manipolano le contraddizioni locali (che si sono) a proprio vantaggio ed un mondo che libero di auto-organizzarsi nella composizione degli interessi dei diversi attori locali alla fine trova una quadra regredendo il conflitto a competizione, l’aggressione all’equilibrio di reciprocità, il disordine fisso all’ordine variabile.
Così oggi la notizia di questo accordo che non è esagerato definire storico va di spalla sulla stampa occidentale, anche per lasciare spazio alle nuove puntate della serie “noi contro il resto del mondo” animate dalla gloriosa democrazia ucraina.
Ma tanto le opinioni pubbliche occidentali sono fatte di pesci rossi intrappolati nella bolla di vetro, pesci rossi che, come si sa, non hanno memoria e non riescono a guardarsi dall’esterno. È stata la stagione delle Fallaci e dei tribalismi sciiti contro sunniti, dagli Assad, dei feroci saladini tagliateste islamisti e dei dolci curdi, dello scontro di civiltà, una bella sceneggiatura, anche con interessanti squarci storico-culturali, andata. Ora c’è la serie “democrazie vs autocrazie” di cui aspettiamo il scoppiettante finale da Terza guerra mondiale, francamente un plot narrativo che pare poco consistente, stiracchiato, poco palpitate nonostante il profluvio di energia mediatica. Mi sa che questa volta tentare di riempire il vuoto strutturale col pieno narrativo non avrà molto futuro.
Già, il “futuro”. Ma tanto qui in Europa stiamo diventando tutti molto vecchi, “futuro” qui da noi evoca solo una grande scatola di frassino. Quindi “pace e futuro” non fa notizia, meglio occuparsi dei morti di Bakhmut. Ad una certa età la lettura che tira di più sono i necrologi.
[Per chi fosse interessato, un condensato del quarantennale conflitto a variabile intensità tra sauditi ed iraniani di MEE, testata di think tank qatariota che tra Iran ed AS ha posizione quasi-terza]
Iran and Saudi Arabia: Over four decades of tension

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TORNANDO ALL’ORIGINE DELLE DISEGUAGLIANZE, di Pierluigi Fagan

Andando dritti alla domanda: “perché le società umane ad un certo punto della storia sono diventate socialmente gerarchiche ovvero diseguali?”, dopo decenni di scavi e miglioramento delle tecniche per trarne informazioni e conoscenze, abbiamo oggi la possibilità di rispondere meglio che in passato. Nel suo recente “Un frammento alla volta” il Mulino (2013) l’archeologa M. Frangipane, ci riporta fatti e principali interpretazioni di tutti gli scavi effettuati nell’arco che va dalla Mezzaluna fertile all’Egitto in questi ultimi decenni. È l’occasione per verificare molti nostri assunti teorici con le concrete prove della vita di quei tempi.
Da un certo punto in poi l’orizzontalità sociale si rompe e cominciano processi che porteranno alle società gerarchiche e stratificate, lo Stato (regni, imperi), le guerre. L’inizio del tempo di questa rottura di orizzontalità sociale è all’interno di quella nota come “cultura Ubaid”, lungo all’incirca millecinquecento anni, tra 5000 e 3500 a.C., ma il se il fenomeno sembra sortire all’improvviso in realtà sono di medio-lungo periodo i processi che lo compongono. Siamo nella Mesopotamia centro-meridionale, da qui i processi di stratificazione sociale passeranno alla Mesopotamia centro-settentrionale, il Levante, l’Anatolia e l’Egitto, sebbene in tempi e forme diverse, dinamiche e cause seconde diverse. La cultura Ubaid dove si nota l’inizio di processi di diseguaglianza sociale è precedente l’avvento della prima città (Uruk) e dello Stato.
A seconda che lo studioso che analizza questa storia provenga da studi economici o sociali o antropologici o urbanistici o culturali o da ultimo eco-climatici, troverà negli oggetti della sua disciplina la causa prima del fenomeno. Ma cause rivenute in questi campi specifici di studio, a ben vedere, risultano sempre tutte cause seconde e tra l’altro correlate le une alle altre in maniera sistemica. La causa prima invece, risulta essere quello che la stessa archeologa cita a pagina 95: “gestire una complessità crescente”. Da dove viene e come si compose questa “complessità crescente”? E perché ritenerla causa prima?
Come accennato, dobbiamo partire dal considerare le società umane come dei sistemi dinamici ambientati in vari contesti dinamici anch’essi e pensabili a loro volta come sistemi. Nei sistemi, non si verifica mai che una parte o componente o funzione sia la causa unica della natura dinamica e per altro non è neanche vero che tali sistemi possano esser letti al netto delle relazioni che hanno con altri sistemi e con il contesto. La grande difficoltà a condividere spiegazioni sistemiche è che le altre sono semplici, una causa (classicamente “l’agricoltura”) un effetto (la diseguaglianza). Le spiegazioni sistemiche debbono invece descrivere più variabili e loro interrelazioni non lineari. Le società umane, come ogni forma “sociale” del vivente (vale nell’animale ma anche nel vegetale), vanno pensante come sistemi adattivi. Gli individui si rifugiano nei sistemi poiché questi esprimono potenzialità e capacità adattative maggiori della somma delle parti. Nei più casi, conviene quindi rifugiarsi in un sistema se si vuole vincere la sfida perenne del vivente che è l’adattamento al contesto.
Nel caso in questione, abbiamo fenomeni di lunga durata (nell’ordine delle migliaia di anni) che aumentano la complessità interna alle società in risposta all’aumento di complessità esterna di contesto, fino a che la precedente facoltà sociale di autorganizzazione si trasforma in un sistema che delega ad un suo centro la facoltà organizzatrice. L’inizio dei processi di diseguaglianza sociale nelle società umane avvenne con questa riduzione della complessità decisionale, delegando a pochi la funzione di decidere per tutti. Non si verificò alcuna imposizione o violenza iniziale in questo processo, fu un processo delegato spontaneamente per ragioni di mera funzionalità. Questo esito non era obbligato, semplicemente fu il più semplice che si poteva adottare e venne inizialmente adottato ignorando del tutto le catene delle conseguenze e la sua, ancor oggi, difficile reversibilità.
I citati processi di lunga durata di questo scenario ad incremento di complessità riguardano composizione e struttura delle singole società, nonché fatti di contesto. Quanto alle singole società, queste incrementano la loro dimensione, c’è un fondo di constante incremento demografico dovuto alle migliori condizioni ambientali. Le società si stanzializzano progressivamente e cominciano ad affiancare prodotto agricolo (orticultura, silvicultura) inizialmente dalla cura del selvatico poi dalla domesticazione, alla caccia e raccolta che permane l’attività principale di reperimento della sussistenza. Abbiamo prove locali di agricoltura attiva di seimila anni precedenti l’inizio dei processi di stratificazione sociale, quelle indirette risalgono addirittura a più di diecimila anni prima. Lo sviluppo agricolo sarà seguito da quello dell’allevamento. Società più massive e stanziali chiamano a nuove attività produttive necessarie ed a segmentare le singole attività in crescenti divisioni specializzate del lavoro, accompagnate da sviluppo tecno-strumentale, nella sussistenza come nell’artigianato.
Per esser più chiari rispetto alle diffuse convinzioni sia stata l’agricoltura da sola a generare i processi di stratificazione sociale, va ricordato che abbiamo intere civiltà come quella della valle dell’Indo che pur avendo agricoltura ed allevamento non mostra segni pronunciati di stratificazione sociale ed altresì sappiamo che le società dei primi indoeuropei erano pienamente e pronunciatamene gerarchiche pur non ricorrendo per niente all’attività agricola.
Quanto al contesto naturale, i fatti nuovi sono le eccezionali condizioni eco-climatiche portate dall’Olocene (da circa 10.000 a.C.). La grande disponibilità d’acqua dolce alimenta la crescita di tutti i sistemi dei viventi, vegetali e animali, che portano all’incremento demografico di fondo, prima di quello agricolo. Quanto al contesto umano, aumenta la densità territoriale. Questa forma “culture” cioè areali in cui diverse società collegate informalmente, condividono modi di vivere, produzioni tecno-strumentali, sistemi di idee e forse credenze, prodotti e persone. Quando si amplierà l’attività agricola, sorgeranno nuovi problemi di spazio e convivenza.
I due ambiti interagiscono tra loro. L’aumento e la sicurezza alimentare non sono dati solo dalla ricchezza naturale spinta dal clima o dallo sviluppo tecnico e neanche solo dal ricorso all’agricoltura prima ed allevamento poi, con conseguenti tecniche e modalità di stoccaggio, ma anche da queste reti di scambio. La complessità sociale trainata dall’incremento demografico non diversifica solo le società all’interno, ma anche le società di un certo areale tra loro. Già tutto questo aumenta la complessità da gestire.
Ad un certo punto su questi processi di aumento di complessità si abbatte un fenomeno. Tali società sviluppatesi perché sempre più adatte ed apparentemente resilienti, diventano però sempre più dipendenti dal contesto. Quando cambiamenti climatici repentini in favore di climi più secchi ridurranno in poco tempo il prodotto di caccia e raccolta nonché quello agricolo (8,2 kyloyear event, a cavallo del 6000 a.C.), la complessità da gestire aumenterà ancora. Più o meno improvvisamente, società con richieste standard di un certo livello, fissate territorialmente e non più mobili (ad eccezione dei cacciatori-allevatori), si trovano a dover gestire risultati di produzione (naturale e domestica) inferiori. Cresce quindi la dipendenza di queste società dall’agricoltura, quindi dall’acqua dolce dei fiumi, Tigri ed Eufrate in Mesopotamia, Nilo in Egitto. Di conseguenza cresce di molto anche la necessaria organizzazione sociale per gestire tutto ciò.
Correlati ai primi accenni di stratificazione sociale, compaiono i primi templi. Questi assumono una posizione urbanisticamente centrale nell’abitato, mostrano funzioni non solo di culto ma anche di riunione collettiva e di ridistribuzione di prodotto agricolo, poi stoccaggio, poi addirittura mostrano produzione artigiana centralizzata. Come funzionò esattamente l’organizzazione sociale in questo primo stadio della complessità urbana in realtà non lo sappiamo. Può darsi che in alcuni casi la produzione alimentare rimase libera o in capo alle famiglie e solo una piccola parte fosse portata al centro per esser ridistribuita a coloro che non producevano direttamente. Si può anche ipotizzare uno status diverso tra famiglie storiche di quella società e quelle affluenti dall’intorno. Può darsi che i magazzini dei templi funzionassero anche da banca con “depositi” personali. Vediamo comparire sistemi di cretulae, sigilli, grandi contenitori che fanno pensare alla crescita di una complessità gestionale e amministrativa da cui proverrà poi la scrittura e la prima matematica. Vediamo grandi numeri di ciotole usate nella ridistribuzione ma a chi ed in qual misura non lo sappiamo. Non sappiamo quanto fosse formalizzato il possesso esclusivo della terra, come si formassero i sistemi di lavoro di bene comune rispetto l’irrigazione sempre più necessaria, quando la terra divenne proprietà delle divinità di cui il sacerdote era l’amministratore delegato.
Ma sembra mostrarsi il fatto che questo dover passare per un centro equilibratore la nuova complessità sociale, una sorta di modello “hub&spoke”, scelse come centro medio la funzione religiosa. La prima cosa che venne formalizzata in queste società crescenti fu la messa in comune dell’immagine di mondo e la credenza condivisa. Qui c’è lo snodo principale del processo che porterà a livelli crescenti di complessità sociale interna e quindi di stratificazione sociale che poi divenne di potere e diseguaglianza economica.
Nel tempo, il sistema centrale crebbe una sua burocrazia funzionale, il sacerdote “primus inter pares” divenne il primo re. In un secondo tempo, lo spostamento della funzione di comando dal religioso al laico-politico avvenne prima forse con sistemi di convivenza binari poi con una piena presa di potere laico che usò quello sacerdotale come supporto. I re stessi divennero rappresentanti del dio, delega la cui legittimità però era certificata dagli stessi sacerdoti che ottenevano dal potere politico i benefici di rango. Dopo, diventeranno i re-guerrieri. Era la natura stessa dei processi di crescita e volume delle funzioni amministrative e burocratiche a spostare il potere dal sacro al profano. Ma se dal punto di vista funzionale ormai dovevano essere i laici a comporre i centri di comando, rimase fondamentale la legittimità del loro potere garantita dai sacerdoti. Frangipane segnala che proprio nelle prime città anatoliche (Arslantepe, circa 3500 a.C.) dove sembra mancare questo radicamento sociale e nell’immagine di mondo, i poteri, nati e rimasti laici, per quanto addirittura in possesso delle prime armi, mostrano fragilità e incapacità di tenere compatta la società.
La questione centrale del problema ovvero “gestire una complessità crescente” poneva in primis il problema di chi doveva decidere come gestire questa complessità crescente. Era in queste società che ormai mostravano una certa massa e che si trovarono in condizioni di contesto problematiche che si pose inizialmente in problema. Erano ragioni logistiche quelle che impedivano alle società di continuare a funzionare per auto-organizzazione com’era lungamente avvenuto lungo tutto il Paleolitico, Mesolitico e parte dello stesso Neolitico. L’addensamento progressivo del potere di decidere sul tutto e per tutti fu una riduzione di complessità, più aumentò la complessità esterna e interna più si operò questa riduzione di complessità dell’intenzionalità sociale. L’attribuzione della facoltà organizzativa al centro fu un processo di delega progressiva spontanea inizialmente, solo in un secondo tempo questo centro se ne approfittò stante che l’aumento di complessità rese l’assetto irreversibile.
La nostra attuale fase storica, in termini di incremento di complessità, è solo seconda ai tempi che abbiamo descritto. Speriamo che questa regola dell’accentrare sempre più potere in mano dei Pochi non diventi legge. Leggo sempre con diletto i vari dipinti di società ideali secondo questo o quello, ritengo però queste discussioni, a volte, secondarie. Forse dovremmo prima chiarirci come cambiare società gerarchiche tali da cinque-seimila anni. “Come” significa: con quale modello politico (non economico, quello viene necessariamente dopo) e con quali facoltà di farlo funzionare.
[M. Frangipane è la più illustre archeologa italiana, responsabile da decenni degli scavi di Arslantepe in Turchia, membro di accademie tedesche ed americane. Dirige la più importante rivista italiana del campo che s’intitola, non a caso “Origini”]

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Il viaggio del presidente Xi a Mosca rafforza l’intesa sino-russa, di Andrew Korybko

Il viaggio del presidente Xi a Mosca rafforza l’intesa sino-russa

Andrew Korybko
20 marzo
23

Proprio come queste due Grandi Potenze hanno sincronizzato in precedenza la Greater Eurasian Partnership della Russia e la Belt & Road Initiative della Cina, così ora sono pronte a sincronizzare il Manifesto Rivoluzionario Globale della prima con le iniziative globali della seconda in materia di sviluppo, sicurezza e civiltà, il che solidificherà la loro nascente alleanza e quindi accelererà senza precedenti la transizione sistemica globale verso il multipolarismo.

L’imminente triforcazione delle relazioni internazionali porterà alla formazione di tre blocchi di fatto della nuova guerra fredda: il miliardo d’oro dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti, l’intesa sino-russa e il Sud globale guidato informalmente dall’India. I lettori più attenti possono consultare le precedenti analisi ipertestuali per saperne di più sulle grandi dinamiche strategiche alla base di quest’ultima fase della transizione sistemica globale, mentre la presente elaborerà in particolare quelle legate al partenariato strategico russo-cinese.

Queste due grandi potenze eurasiatiche avevano già allineato strettamente le loro politiche estere ed economiche molto prima che la Russia fosse costretta ad avviare la sua operazione speciale in Ucraina l’anno scorso, dopo che la NATO vi aveva clandestinamente oltrepassato le sue linee rosse, rifiutandosi di risolvere diplomaticamente il dilemma della sicurezza. Ciò è dovuto alla loro visione multipolare condivisa, che a sua volta ha portato Mosca a sincronizzare la sua Greater Eurasian Partnership (GEP) con la Belt & Road Initiative (BRI) di Pechino.

L’obiettivo era quello di potenziare i processi multipolari in tutto il supercontinente, al fine di rendere le relazioni internazionali più democratiche, eque, giuste e prevedibili, molto prima di quanto anche gli osservatori più ottimisti potessero aspettarsi. Né tutto ciò è stato dettato da astio anti-occidentale, poiché entrambi prevedevano che l’UE e gli USA avrebbero svolto un ruolo pragmatico in questo ordine mondiale emergente, come dimostrato dal loro impegno proattivo nei confronti di ciascuno di essi nel corso degli anni.

La Russia si aspettava di poter risolvere diplomaticamente il suo dilemma di sicurezza con gli Stati Uniti sull’espansione della NATO, incoraggiando al contempo l’UE e gli Stati Uniti a far sì che Kiev attuasse gli accordi di Minsk, ponendo così fine all’allora guerra civile ucraina e ottimizzando il commercio trans-eurasiatico. Nel frattempo, molti Paesi dell’UE hanno aderito alla BRI e la Cina ha persino stretto un patto di investimento con il blocco, il tutto mentre cercava di risolvere diplomaticamente il proprio dilemma sulla sicurezza con gli Stati Uniti e di elaborare un nuovo accordo commerciale con essi.

Se gli Stati Uniti avessero formulato la loro grande strategia pensando a risultati economicamente vantaggiosi per entrambe le parti, invece di rimanere sotto l’influenza degli insegnamenti “divide et impera” di Brzezinski, tutto avrebbe potuto essere molto diverso. Quell’egemone unipolare in declino avrebbe potuto responsabilmente ritagliarsi una nicchia confortevole nella nuova era della globalizzazione che la Russia e la Cina stavano cercando di aprire congiuntamente, assicurando così che la transizione sistemica globale si muovesse senza problemi verso il multipolarismo.

Purtroppo, i membri liberal-globalisti delle burocrazie militari, di intelligence e diplomatiche statunitensi (“Stato profondo”) hanno continuato a credere che gli schemi geostrategici di Brzezinski potessero invertire con successo la suddetta transizione e quindi mantenere indefinitamente la posizione dominante del loro Paese nelle relazioni internazionali. Questo spiega perché in seguito hanno cercato di “contenere” contemporaneamente la Russia e la Cina, aggravando le dispute regionali invece di ricambiare gli sforzi di queste due nazioni per risolverle pacificamente.

Alla fine si è deciso di dare priorità al “contenimento” della Russia rispetto a quello della Cina, con l’aspettativa che la prima avrebbe capitolato strategicamente alla campagna di ricatto della NATO o sarebbe rapidamente crollata a causa delle sanzioni se fosse ricorsa alla forza militare per difendere le sue linee rosse in Ucraina, rendendo così il successo del “contenimento” della Cina un fatto compiuto in quello scenario e preservando quindi l’egemonia degli Stati Uniti. Dove tutto è andato storto è che l’Occidente non si è mai preparato a un conflitto prolungato in Ucraina.

La Russia si è dimostrata molto più resistente sotto tutti i punti di vista di quanto il Miliardo d’oro si aspettasse, ergo perché sono nel panico per il fatto che gli oltre 100 miliardi di dollari che hanno già dato ai loro proxy a Kiev non sono neanche lontanamente sufficienti per sconfiggere la Grande Potenza eurasiatica. Il mese scorso il New York Times ha ammesso che le sanzioni hanno fallito proprio come la loro campagna di “isolamento”, mentre il capo della NATO ha recentemente dichiarato una “corsa alla logistica” e il Washington Post ha finalmente detto la verità su quanto siano scarse le forze di Kiev.

Nell’ultimo anno di ostilità internazionali per procura provocate dall’Occidente stesso, il sistema globalizzato da cui dipendeva la grande strategia della Cina è stato destabilizzato senza precedenti dal suo regime di sanzioni unilaterali, responsabile delle crisi alimentari e del carburante in tutto il Sud globale. Ciò ha influenzato il Presidente Xi a prendere seriamente in considerazione una “Nuova distensione” con gli Stati Uniti, che ha avviato durante il vertice del G20 dello scorso novembre a Bali, dopo aver incontrato Biden e un gruppo di altri leader occidentali.

Per essere assolutamente chiari, questo sforzo ben intenzionato non mirava a invertire i progressi multipolari di cui la Cina è stata responsabile nell’ultimo decennio, ma solo a perseguire una serie di compromessi reciproci volti a stabilire una “nuova normalità” nei loro legami, in modo da ripristinare la stabilità della globalizzazione. In altre parole, si trattava di guadagnare tempo affinché le due principali economie mondiali ricalibrassero le loro grandi strategie, idealmente nella direzione di una più stretta collaborazione per il bene di tutti.

I colloqui si sono però inaspettatamente interrotti all’inizio di febbraio, dopo l’evento del cigno nero noto come incidente del palloncino. Questo evento ha visto gli integralisti anticinesi negli Stati Uniti salire improvvisamente alla ribalta politica, condannando così la “Nuova distensione”, che ha portato la Cina a ricalibrare il suo approccio alla guerra per procura tra NATO e Russia, al punto che il Presidente Xi, il Ministro degli Esteri Qin e l’Ambasciatore presso l’UE Fu hanno tutti concluso che essa fa parte della strategia di “contenimento” anticinese degli Stati Uniti.

In queste nuove circostanze, gli Stati Uniti hanno consolidato la loro egemonia sull’UE, riaffermata con successo, convincendo la Germania ad assecondare le minacce molto implicite di Washington, secondo cui il Miliardo d’oro sanzionerà la Cina se deciderà di armare la Russia nel caso in cui Mosca richieda tale aiuto come ultima risorsa. In risposta, la Cina si è sentita obbligata a consolidare la sua partnership strategica con la Russia fino a trasformarla in un’alleanza, da cui lo scopo del viaggio del Presidente Xi per definire i dettagli più fini di questa operazione.

Come queste due Grandi Potenze hanno sincronizzato in precedenza la GEP della Russia e la BRI della Cina, così sono ora pronte a sincronizzare il Manifesto rivoluzionario globale della prima con le iniziative globali della seconda in materia di sviluppo, sicurezza e civiltà. Questa previsione si basa sugli articoli che i Presidenti Putin e Xi hanno pubblicato sui rispettivi media nazionali alla vigilia del viaggio di quest’ultimo a Mosca, a conferma dell’intenzione di cooperare più strettamente che mai.

Gli osservatori possono quindi aspettarsi che l’intesa sino-russa si solidifichi in uno dei tre principali poli di influenza del mondo come risultato della visita del leader cinese, rendendola così una pietra miliare nella nuova guerra fredda sulla direzione della transizione sistemica globale. La lotta mondiale tra questo polo e il Miliardo d’oro si intensificherà, soprattutto nel Sud globale, il che rafforzerà l’importanza dell’India nell’aiutare i Paesi in via di sviluppo a trovare un equilibrio tra i due e a realizzare così una vera tripolarità.

https://korybko.substack.com/p/president-xis-trip-to-moscow-solidifies

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Apocalisse: Operazione Barbarossa, di BigSerge_a cura di Roberto Buffagni

Raccomando caldamente la lettura di questo bel saggio sull’Operazione Barbarossa, perché non ha un interesse puramente storico, ed anzi ci aiuta a comprendere la dinamica della guerra in Ucraina.

Come scrivevo l’1 febbraio scorso[1], l’errore strategico commesso dall’Alto Comando tedesco con l’Operazione Barbarossa è analogo – toute proportion gardée – all’errore commesso dagli Alti Comandi occidentali con la loro strategia contro la Russia in Ucraina:

“…Esemplari dei successi dello stile germanico le magistrali Blitzkrieg contro Polonia e Francia nella IIGM.  Esemplare, però, anche il fallimento dell’Operazione Barbarossa. La Germania invade l’URSS, ottiene per sei mesi schiaccianti vittorie ma non riesce a provocare il collasso politico e sociale del nemico, e tocca il limite delle proprie capacità logistiche. L’URSS non capitola, si riorganizza, e comincia a generare forze umane e materiali in misura via via crescente e superiore rispetto alle forze che è in grado di generare la Germania.  Saranno necessari quattro anni di durissimo conflitto, ma il destino della Germania è segnato.

Si noti bene che al tempo dell’Operazione Barbarossa tutti gli Stati Maggiori del mondo, abbagliati dai precedenti, splendidi successi tedeschi, davano per scontata la vittoria della Wehrmacht. Essa però avrebbe potuto verificarsi soltanto se l’URSS fosse collassata in seguito ai primi mesi di devastanti sconfitte. L’Operazione Barbarossa è dunque stata un’azzardata scommessa strategica, in cui la vittoria finale dipendeva interamente dal crollo della coesione politica, militare e sociale del nemico. L’Alto Comando tedesco non ha invece tenuto nella dovuta considerazione sia le risorse strategiche attuali dell’URSS, sia, e soprattutto, la sua capacità di generare nuove forze, maggiori delle proprie, per tutto il tempo necessario a concludere vittoriosamente la guerra.

È lo stesso tipo di errore che hanno commesso gli Alti Comandi occidentali in questo conflitto ucraino.

Essi hanno gravemente sottovalutato le risorse attuali della Russia: da questo errore dell’intelligence militare i continui proclami che la Russia starebbe per terminare le sue scorte di missili, proietti d’artiglieria, etc., rivelatisi via via sempre più grotteschi e difformi dalla realtà; hanno gravemente sottovalutato la sua capacità di generare nuove forze umane e materiali nel breve, e nel medio-lungo periodo: di qui l’errata valutazione dell’impatto delle sanzioni economiche sulla Russia, a torto creduto rapidamente incapacitante; hanno gravemente sottovalutato la coesione politica e sociale della compagine russa, la sua volontà di combattere e di stringersi intorno alla bandiera: di qui gli annunci, via via più ridicoli, di un prossimo rovesciamento del governo russo in seguito al dissenso della popolazione e di decisivi settori della classe dirigente.”

A chi desidera approfondire lo studio della guerra sul fronte orientale nella IIGM, suggerisco le opere del grande storico militare statunitense David Glantz.[2] Buona lettura. Roberto Buffagni

 

https://bigserge.substack.com/p/apocalypse-operation-barbarossa?utm_source=post-email-title&publication_id=1068853&post_id=107082041&isFreemail=true&utm_medium=email

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Apocalisse: Operazione Barbarossa

La storia della battaglia: Manovra, parte 11

di BigSerge, 22 marzo 2023

30

L’inizio della guerra nazi-sovietica, il 22 giugno 1941, fu un cataclisma di dimensioni inimmaginabili. Il conflitto che ne seguì si sarebbe svolto in un teatro enorme e sarebbe stato combattuto da eserciti di dimensioni mai viste prima. Le operazioni più importanti furono condotte da Berlino al Volga, dal Baltico al Caucaso: milioni di uomini si uccisero l’un l’altro in un’arena dal diametro di molto superiore ai mille chilometri. Fu anche qui, a est, che la brutalità del regime nazista fu finalmente scatenata nella sua totalità. Mentre la Wehrmacht si faceva strada nell’interno dell’Unione Sovietica, era seguita da unità speciali delle SS incaricate di giustiziare sommariamente determinate categorie di nemici, come i funzionari del Partito Comunista e gli ebrei. Centinaia di migliaia di persone sarebbero state fucilate in fosse mortuarie a cielo aperto.

 

Così, per scala geografica, per le dimensioni degli eserciti e per la disinibita brutalità della violenza, la guerra nazi-sovietica è unica. È la guerra: l’archetipo dell’apocalisse creata dall’uomo; senza rivali come singola massima espressione di violenza organizzata.

Questa guerra iniziò nelle prime ore del mattino del 22 giugno 1941, quando la Wehrmacht tedesca si mise in marcia per attuare l’Operazione Barbarossa. Questa operazione, come la guerra più ampia che inaugurò, fu di portata senza precedenti. Le forze tedesche ammontavano a ben oltre tre milioni di uomini, una cifra che non aveva nulla a che vedere con le forze coinvolte nell’invasione della Polonia o della Francia. Ancor più singolare, tuttavia, Barbarossa fu un tentativo di condurre una campagna di manovra e di annientamento su scala autenticamente continentale. Le aree di operazione previste andavano dagli Stati baltici e da Leningrado a nord fino alla Crimea a sud. L’intero spazio di battaglia era dell’ordine di mezzo milione di chilometri quadrati. È un fatto del tutto unico. Né prima né dopo nessun esercito avrebbe tentato un’operazione su scala continentale, e per una buona ragione.

 

Barbarossa e l’operazione immediatamente successiva (Operazione Tifone) sono molto mitizzati e spesso travisati nelle storie popolari. La storia più semplicistica che viene solitamente raccontata è incentrata sull’inverno russo. Si dice che i tedeschi fossero sul punto di catturare Mosca quando furono colti di sorpresa dal sopraggiungere del clima invernale, che congelò la loro avanzata e permise all’URSS di riprendersi (di solito, si dice, con il generoso aiuto del lend-lease americano). Una storia un po’ più sofisticata, ma comunque scorretta, indica come momento critico la decisione, all’inizio dell’autunno, di riorientare le forze verso Kiev – presumibilmente, ciò rifletteva il fatto che Hitler fosse distratto da obiettivi secondari, causando un ritardo fatale che non permise ai tedeschi di raggiungere Mosca in tempo.

 

Il fallimento di Barbarossa era in realtà radicato nelle concezioni più elevate dell’operazione, piuttosto che nei dettagli della sua attuazione. Barbarossa fallì perché era semplicemente impossibile condurre con successo una campagna di manovra su scala continentale in Unione Sovietica con le risorse a disposizione della Wehrmacht tedesca nel 1941. È interessante notare che Barbarossa raggiunse tutti i suoi obiettivi, ma questi successi non si tradussero in una vittoria strategica.

 

Si è sentito dire che la capacità dell’uomo supera la sua portata. Nel caso della Wehrmacht nel 1941, né la portata né la capacità di afferrare furono in difetto. Hitler aveva raggiunto e afferrato qualcosa di troppo grande per lui e si trovò alle prese con un potere che non aveva capito e che non poteva dominare. L’enorme potenza militare latente dell’Unione Sovietica era stata invisibile ai pianificatori tedeschi, che avevano scioccamente ignorato l’abilità di combattimento degli slavi, la sofisticazione dei sistemi d’arma sovietici e soprattutto l’impareggiabile potere organizzativo del Partito Comunista, che poteva mobilitare con calma ed efficienza decine di milioni di uomini per combattere.

 

E così, accecata dall’arroganza e dai presupposti nazisti sull’incompetenza sovietica e sull’inferiorità slava, la Wehrmacht si trovò intrappolata in una guerra che non poteva vincere, contro un esercito che non aveva capito, bloccata in un vasto Paese che la derideva con crudele distanza. Soprattutto, il regime nazista scoprì che il suo avversario sovietico aveva un’ideologia totalizzante e poteri di mobilitazione e coercizione superiori ai suoi. L’impero di Stalin, che Hitler aveva liquidato come un gigante dai piedi d’argilla, era molto più potente di quanto si sapesse. Hitler, che desiderava portare a est una guerra apocalittica di annientamento, avrebbe dovuto fare attenzione a ciò che desiderava.

La peggiore sorpresa di sempre

A prima vista, l’Operazione Barbarossa sembrerebbe caratterizzata da due aspetti apparentemente contraddittori: la forza tedesca era il più grande accumulo di potenza di combattimento nella storia dell’Europa, ma riuscì anche ad ottenere una sorpresa quasi totale. Questo sembra impossibile: come poteva l’Unione Sovietica non accorgersi dell’accumulo di una tale forza sul proprio confine – milioni di uomini, migliaia e migliaia di pezzi d’artiglieria, carri armati e veicoli, e con essi gli enormi depositi di rifornimento, i campi d’aviazione e le infrastrutture delle retrovie?

 

La risposta risiedeva in una singolare miscela di supposizioni dello stesso Stalin sulle intenzioni tedesche, nel ballo dell’intelligence e del controspionaggio e in una grave mancanza di comprensione da parte dei vertici della leadership sovietica su come si sarebbe presentato sul terreno quando i tedeschi avrebbero scatenato il loro pacchetto di attacco meccanizzato. Permettetemi l’indulgenza di un’elaborazione.

 

Nel 1941, la Germania nazista e l’Unione Sovietica operavano ancora tecnicamente nell’ambito di una serie di accordi che comprendevano un patto di non aggressione, un accordo commerciale (che scambiava in larga misura macchine utensili e tecnologia tedesche con materie prime sovietiche) e un accordo sui confini e sulle sfere di influenza che la storia conosce come patto Molotov – Ribbentrop. Nonostante l’allineamento nominalmente amichevole dei due Paesi, c’era la sensazione condivisa che l’alleanza stesse rapidamente esaurendo la sua utilità e che i due Paesi sarebbero presto entrati in guerra.

 

La disintegrazione delle relazioni nazi-sovietiche ebbe molteplici cause. L’accordo era piuttosto sgradevole per Hitler, in quanto rendeva la Germania dipendente dal grano, dal petrolio e da altri materiali sovietici. Dati i presupposti ideologici di Hitler sulla necessità di autosufficienza economica, la continua dipendenza da Stalin per i materiali era un boccone amaro da ingoiare. Inoltre, i termini specifici del commercio nazi-sovietico erano strategicamente svantaggiosi per la Germania, perché essa inviava all’Unione Sovietica strumenti industriali e tecnologia che la rendevano più potente nel lungo periodo, ricevendo in cambio solo materiali di consumo. Su tutto questo incombeva l’ossessione generale di Hitler per il “giudeo-bolscevismo” e l’impero orientale.

 

Senza entrare troppo nello specifico della visione del mondo di Hitler (forse sarà per un’altra volta), sarebbe opportuno dire che l’URSS era il luogo specifico in cui le sue molte ambizioni si univano. Era nelle terre dell’Unione Sovietica che Hitler avrebbe costruito un impero tedesco autosufficiente e ricco di risorse, oltre a forzare finalmente il confronto finale con “gli ebrei”. Questo proponeva una soluzione archetipicamente hitleriana. Hitler era soprattutto un giocatore d’azzardo geopolitico compulsivo che amava l’idea di poter risolvere tutti i suoi problemi con un unico colpo decisivo, e questo era l’esempio perfetto. Poteva acquisire grano, petrolio e spazio vitale, porre fine alla sua dipendenza da una nemesi ideologica e uccidere un numero enorme di ebrei e comunisti con una sola mossa.

 

La tregua nazi-sovietica, quindi, non sarebbe mai durata. La sua fine, nel 1941, fu specificamente innescata dalle dispute sulle relative sfere di influenza nei Balcani. Nel novembre 1940, Molotov visitò Berlino e si discusse dell’idea di far entrare l’Unione Sovietica nell’Asse con Germania, Giappone e Italia, ma i colloqui si interruppero per il desiderio sovietico di avere una presenza in Bulgaria. Ad avvelenare i rapporti non furono tanto le questioni in gioco, quanto il fatto che Hitler andò su tutte le furie quando fu informato delle proposte sovietiche, e la sua successiva decisione di dare a Molotov il trattamento del silenzio. La proposta sovietica non ricevette mai una risposta formale – un silenzio che innervosì profondamente Stalin e confermò più o meno che la tregua si stava disintegrando.

Molotov in Berlin, 1940

Come è possibile, quindi, che i sovietici siano stati colti di sorpresa dal lancio di Barbarossa? Ebbene, Stalin non si faceva certo illusioni sull’arrivo di una guerra. All’inizio del 1941, tenne un discorso ai diplomati dell’Accademia Militare Principale dell’Armata Rossa in cui prevedeva espressamente che la guerra si stava avvicinando e che l’Armata Rossa avrebbe infranto il mito dell’invincibilità della Wehrmacht. I preparativi per la guerra erano già in corso in Unione Sovietica quando l’attacco arrivò il 22 giugno.

 

Tuttavia, sapere che una guerra ci sarà è diverso dal sapere il giorno in cui inizierà. Stalin godeva di molti flussi di informazioni che lo avvertivano dell’imminenza di un’invasione tedesca (compreso un avvertimento di Winston Churchill), ma non riuscivano a mettersi d’accordo sulle date. Stalin sapeva che la Wehrmacht si stava ammassando ai suoi confini, ma non poteva accertarne le intenzioni. Soprattutto, Stalin aveva osservato uno schema nel comportamento di Hitler. Tutte le precedenti espansioni tedesche – Austria, Cecoslovacchia, Polonia, Danimarca e così via – erano avvenute dopo che il Führer aveva fatto un’ultima scandalosa richiesta di concessioni. In altre parole, Hitler sembrava preferire minacciare le sue vittime sotto la minaccia delle armi prima di scaricargli addosso la Wehrmacht. Stalin nel 1941 sembra essere stato abbastanza sicuro che Hitler avrebbe minacciato e fatto richieste prima di attaccare. L’idea che la Wehrmacht avrebbe semplicemente… attaccato… non sembra avergli sfiorato la mente.

 

Soprattutto, l’errore più grande di Stalin fu relativamente semplice. Credeva di essere pronto per la guerra. Stalin aveva mosso cielo e terra per industrializzare l’URSS e armarla fino ai denti con armi moderne. L’Armata Rossa era la più grande del mondo e aveva un parco carri armati significativamente più grande di quello della Wehrmacht. Nel giugno 1941, Stalin aveva mobilitato 220 divisioni e un numero significativo di esse era schierato in avanti sul confine.

 

Il 19 giugno, il capo del Partito ucraino – Nikita Krusciov – si incontrò con Stalin al Cremlino. Quando il cielo si fece scuro, Kruscev disse: “Devo proprio andare. La guerra scoppierà da un momento all’altro e potrebbe trovarmi qui a Mosca o sulla strada”. Stalin rispose: “Sì, hai ragione”. Pochi giorni dopo, all’una di notte del 22 giugno, Stalin – su incessante sollecitazione di Zhukov – permise alle unità dell’Armata Rossa sul confine di raggiungere la prontezza di combattimento di base, ma sottolineò che “il compito delle nostre forze è di astenersi da qualsiasi tipo di azione provocatoria”.

 

Il nocciolo della questione è che Stalin – che non era un militare – semplicemente non capiva quanto fosse veloce e violento il pacchetto d’attacco tedesco. Presumeva che le enormi forze sovietiche al confine avrebbero gestito qualsiasi cosa si fosse presentata. Potremmo dire che Stalin era astrattamente preparato all’idea di una guerra con la Germania nazista, ma non capiva cosa avrebbe significato sul campo, o come sarebbe stato quando i tedeschi avrebbero scatenato tutto ciò che avevano sull’Armata Rossa.

 

Era pronto per la guerra, ma non per la Wehrmacht.

 

Apertura: Il miraggio

L’Operazione Barbarossa fu un paradosso per eccellenza. Molto semplicemente, fu il più grande successo operativo della Wehrmacht fino ad allora, eppure fece perdere la guerra alla Germania. Come è possibile? Esaminiamolo.

 

La guerra iniziò più o meno come altri iconici attacchi tedeschi, e le unità dell’Armata Rossa alla frontiera ora godevano dello stesso trattamento riservato ai francesi nel 1940 o ai polacchi nel 1939: nuvole di Stukas stridenti, carri armati che sferravano il fuoco in avvicinamento, artiglieria che si concentrava sui punti di breccia e fanteria ben addestrata che riversava il fuoco di mortai, mitragliatrici e fucili. L’Armata Rossa se la cavò come i precedenti avversari della Wehrmacht. In quel momento, semplicemente, non c’era nessun esercito al mondo che avesse un’integrazione di armi all’altezza del kit di strumenti meccanizzati tedeschi, e la pura violenza, la velocità e la potenza di fuoco maniacalmente concentrata sulla breccia era troppo per chiunque da gestire.

German troops cross the Soviet border

La concezione generale dell’Operazione Barbarossa consisteva essenzialmente nel prendere le campagne precedenti della Germania e ingrandirle di molte volte. Mentre la Polonia e la Francia erano state colpite da due gruppi di armate tedesche, l’operazione Barbarossa ne prevedeva tre, tutti di dimensioni enormi. La Polonia aveva affrontato una manciata di Panzer Division; la Francia un “Panzer Group” di otto divisioni. L’URSS avrebbe avuto a disposizione ben quattro gruppi di panzer, per un totale di diciassette divisioni panzer e una serie di formazioni motorizzate.

Il piano tedesco prevedeva che tre gruppi d’armate si spingessero in profondità nell’Unione Sovietica con l’intenzione di accerchiare e distruggere le forze dell’Armata Rossa alla frontiera. I tedeschi sapevano bene che nel 1812 l’esercito russo aveva sconfitto Napoleone semplicemente ritirandosi in profondità nell’interno della Russia e negandogli una battaglia decisiva. Nel 1941 la Wehrmacht era determinata a distruggere l’Armata Rossa mentre si trovava ancora nelle zone di confine e a impedire una ritirata nei vasti dintorni del cuore sovietico.

Ci riuscirono.

Quando la Wehrmacht invase l’Unione Sovietica nel giugno 1941, dispiegò una delle più sorprendenti concentrazioni di potenza di combattimento mai viste. Hitler aveva messo insieme l’equivalente di 152 divisioni, composte da oltre 3 milioni di uomini, a cui si aggiunsero più di 650.000 soldati mobilitati dagli Stati satelliti tedeschi e dagli alleati come Ungheria, Finlandia, Romania e Italia. Le forze tedesche erano equipaggiate con circa 3.350 carri armati, 600.000 veicoli, 600.000 cavalli, decine di migliaia di pezzi di artiglieria e più di 3.000 aerei. Anche di fronte a una forza così colossale, Stalin aveva motivi legittimi per sentirsi fiducioso. Nonostante l’enorme accumulo tedesco, allo scoppio della guerra non c’era nessun settore principale – carri armati, fanteria, aerei o artiglieria – in cui la Wehrmacht avesse un vantaggio numerico significativo sull’Armata Rossa. Stalin aveva trascorso la maggior parte del suo tempo al potere perseguendo un’industrializzazione a rotta di collo per trasformare l’URSS in una superpotenza militare, e di conseguenza l’Armata Rossa alla vigilia della guerra era la più grande e la più equipaggiata del mondo. I tedeschi non superarono in numero l’esercito sovietico schierato di fronte a loro: semplicemente lo schiacciarono.

La preparazione sovietica alla guerra si era concentrata su fattori materiali – le dimensioni delle scorte di carri armati, artiglieria e aerei – trascurando gli aspetti professionali del comando, delle comunicazioni e del coordinamento. Di conseguenza, nonostante l’equipaggiamento e gli armamenti adeguati, l’Armata Rossa fu, molto semplicemente, superata dalla Wehrmacht, più agile e reattiva.

In primo luogo, le prestazioni dell’Armata Rossa non possono essere separate dal fatto che Stalin aveva condotto una vasta epurazione del proprio corpo ufficiali solo pochi anni prima dello scoppio della guerra. Questo spaventoso avvicendamento nella gerarchia di comando era avvenuto nello stesso momento in cui l’Armata Rossa si stava espandendo; di conseguenza, gli ufficiali sovietici tendevano a essere promossi rapidamente e all’inizio della guerra si trovavano per la maggior parte a combattere contro un corpo di ufficiali tedeschi altamente addestrato, esperto e freddamente competente, che aveva ormai intrapreso con successo due grandi campagne in Francia e Polonia, oltre a una serie di altre operazioni specializzate dalla Norvegia alla Grecia. I fattori fondamentali dell’esperienza e dell’addestramento erano quindi clamorosamente a favore della Germania.

Allo stesso tempo, l’Armata Rossa non disponeva di un sistema di comunicazione dedicato e si affidava alle linee telefoniche e telegrafiche civili, molte delle quali furono rapidamente tagliate dai tedeschi. Durante le prime fasi della guerra non era raro che gli ufficiali sovietici dovessero informarsi presso i funzionari locali del partito comunista (che aveva accesso alle comunicazioni radio) su dove si trovassero i tedeschi e su quanto fossero avanzati.

The Red Army fought bravely but was unprepared for war at Germany’s pace

Questi due fattori – un corpo di ufficiali sovraccarico e un sistema di comunicazione difettoso – ebbero una sinergia particolarmente letale. I diversi livelli della gerarchia di comando erano tagliati fuori l’uno dall’altro e ciechi, mentre a livello di unità i comandanti erano semplicemente incapaci o non disposti a prendere iniziative. Inoltre, le… diciamo così peculiarità del sistema staliniano lasciavano il corpo degli ufficiali con istinti orientati alla sopravvivenza politica, piuttosto che all’esigenza militare, e questo significava non prendere drastiche decisioni unilaterali.

 

Si trattava di un aspetto assolutamente centrale della costruzione di una guerra che Stalin e i comunisti semplicemente non avevano compreso; si erano concentrati sulla produzione di carri armati, cannoni e granate, trascurando le funzioni di comando e controllo dell’esercito. I tedeschi, semplicemente, erano preparati a combattere la guerra a un ritmo diverso da quello dei sovietici: I comandanti tedeschi erano più esperti, più decisi, più precisi, più disposti ad agire in modo indipendente e più lucidi. L’Armata Rossa, di conseguenza, assomigliava a un enorme combattente muscoloso, ma con un sistema nervoso malato e una pessima vista.

Queste vulnerabilità rendevano l’Armata Rossa particolarmente suscettibile all’approccio bellico della Wehrmacht, che portava una potenza di fuoco e una violenza schiaccianti nel punto di attacco per consentire una rapida penetrazione e un rapido movimento, creando una sacca accerchiata, o ciò che i tedeschi chiamavano kessel, cioè calderone, che poteva poi essere liquidata. Combattendo molteplici kesselschlacht, o battaglie di accerchiamento, la Wehrmacht pianificò di annientare l’Armata Rossa e distruggere la capacità di resistenza dell’Unione Sovietica entro l’autunno del 1941. L’obiettivo era molto chiaro: distruggere la potenza combattiva sovietica. L’annientamento dell’Armata Rossa aveva la priorità assoluta sulla cattura di qualsiasi punto geografico specifico. Hitler stesso aveva osservato che persino Mosca non era “di grande importanza”. L’obiettivo di Barbarossa era piuttosto quello di distruggere la forza lavoro sovietica: “La massa dell’esercito”, si leggeva nella direttiva del Barbarossa, “deve essere distrutta in operazioni audaci che comportino profonde penetrazioni da parte di punte corazzate, e deve essere impedito il ritiro di elementi in grado di combattere negli ampi spazi terrestri russi”.

 

Quest’ultima parte è la chiave del concetto di Barbarossa, ma ci torneremo più avanti.

I primi colpi della catastrofica guerra nazi-sovietica arrivarono sotto forma di bombardamento aereo da parte della Luftwaffe, che attaccò oltre 60 basi aeree sovietiche di prima linea all’inizio del 22 giugno. L’aviazione rossa perse oltre 1.200 aerei nella prima mattina di guerra, assicurando il controllo tedesco dell’aria lungo tutta la linea di contatto. Il 24 giugno, letteralmente due giorni dopo l’inizio della guerra, il quartier generale sovietico del fronte occidentale informò Mosca che “l’aviazione nemica ha il completo dominio aereo”. La distruzione totale delle unità di prima linea dell’aviazione rossa fu uno degli eventi più straordinari nella storia della guerra, eppure si verificò così rapidamente da essere scarsamente menzionato in gran parte della storiografia della guerra; è come se la forza aerea sovietica fosse semplicemente svanita nel nulla. Nel frattempo, le squadre tedesche in avanscoperta riuscirono a tagliare molte linee telefoniche e telegrafiche civili, mandando in tilt il sistema di comando e controllo dell’Armata Rossa e costringendo l’NKVD (che gestiva un sistema di comunicazione radio senza fili) a fare da intermediario per trasmettere gli ordini all’esercito. Con l’Armata Rossa gravemente disorientata e priva di supporto aereo, arrivò il temibile pacchetto meccanizzato tedesco.

 

La risposta sovietica fu tristemente inadeguata. Il 1941 sarebbe stato un anno di terribili errori, ma soprattutto ciò che i vertici sovietici, incluso soprattutto Stalin, non capirono, era quanto si potesse vincere o perdere nei momenti iniziali della guerra. Trascurando di mettere l’Armata Rossa in stato di massima allerta, il regime permise alla Wehrmacht di ottenere una sorpresa tattica, ma non strategica. Anni dopo un maresciallo sovietico, Andrei Grechko, avrebbe commentato con ironia che il governo e gli alti comandi erano pienamente preparati allo scoppio della guerra e che gli unici ad essere sorpresi dall’attacco tedesco furono i soldati dell’Armata Rossa in prima linea. Quello che la squadra di Stalin non capiva era che la sorpresa tattica, unita all’approccio particolarmente aggressivo e mobile della Germania alla guerra e al sistema di comando sclerotico dell’Unione Sovietica, avrebbe potuto produrre una catastrofe totale.

 

La risposta immediata della leadership del partito servì solo a sottolineare le pericolose dinamiche del regime sovietico, nonché la sua cecità rispetto a come gli eventi si sarebbero svolti sul terreno. Quando l’attacco tedesco iniziò, intorno alle 3 del mattino, i comandanti di prima linea ebbero grandi difficoltà a mettersi in contatto con le autorità di Mosca. Un ammiraglio, che finalmente riuscì a contattare al telefono un Georgy Malenkov molto assonnato, riferì di essere stato bombardato dalla Luftwaffe – Malenkov rispose chiedendo: “Capisce cosa sta riferendo?”. A molti comandanti dell’Armata Rossa, che cercavano freneticamente di spiegare che era scoppiata una guerra, fu detto di presentare i loro rapporti per iscritto. Il maresciallo Timoshenko, in particolare, ordinò ad alcuni cannoni antiaerei di non rispondere al fuoco dei tedeschi, perché non era chiaro se avessero i permessi necessari per farlo. Nel frattempo, a Mosca, i sottoposti di Stalin discutevano su chi dovesse svegliare il capo e dargli la cattiva notizia. Alla fine, dopo aver fatto pressione su Stalin e avergli illustrato la situazione, il Segretario Generale rispose con fermezza che i tedeschi sarebbero stati semplicemente “battuti lungo tutta la linea”. Quello che nessuno aveva capito era che, sebbene la guerra fosse iniziata da poche ore, i tedeschi avevano già preso una tale iniziativa in aria e sul terreno che le unità di frontiera dell’Armata Rossa erano più o meno condannate. L’Unione Sovietica era semplicemente impreparata al ritmo di questa guerra.

L’Operazione Barbarossa organizzò le forze tedesche in tre enormi gruppi di armate. Il Gruppo d’armate Nord doveva attraversare gli Stati baltici e catturare Leningrado; il Gruppo d’armate Sud aveva il compito di penetrare in Ucraina per assicurarsi le risorse industriali e agricole. La formazione di gran lunga più numerosa, tuttavia, era il Gruppo d’armate Centro, che doveva farsi strada lungo una linea molto simile alla rotta d’invasione di Napoleone, catturando Minsk e Smolensk lungo il percorso verso Mosca. Gli obiettivi geografici erano secondari: il punto principale era annientare le forze dell’Armata Rossa lungo il percorso. L’obiettivo non era tanto quello di raggiungere Mosca il più velocemente possibile, ma che percorrendo l’autostrada verso la capitale i sovietici sarebbero stati costretti a frapporre una grande massa combattente che avrebbe potuto essere distrutta.

 

La loro avanzata iniziale fu sorprendente. Nelle fasi iniziali di Barbarossa, la Wehrmacht divorò i chilometri e punì l’Armata Rossa disorientata. Una formazione di panzer del Gruppo d’armate Nord coprì metà della distanza da Leningrado in soli cinque giorni. Erich von Manstein avanzò di 185 miglia con il suo Panzer Korps in quattro giorni. Una profondità così sorprendente non era nemmeno particolarmente insolita; nel Gruppo d’armate Centro, Heinz Guderian guidò il suo gruppo di Panzer per 270 km. nella prima settimana. Ma non si trattava di un viaggio tranquillo attraverso il Paese: la Wehrmacht riuscì a penetrare in profondità superando la resistenza sovietica, eseguendo ripetutamente le classiche manovre a tenaglia per accerchiare le massicce formazioni dell’Armata Rossa. Queste battaglie di accerchiamento portarono a un numero incredibile di prigionieri. Ad agosto, la Wehrmacht aveva preso quasi 900.000 prigionieri di guerra; una serie di ulteriori accerchiamenti di massa nei mesi autunnali fece salire il numero dei prigionieri a quasi due milioni. Le perdite sovietiche furono davvero sorprendenti. A ottobre, l’Armata Rossa aveva perso quasi 3 milioni di uomini, oltre 15.000 carri armati e cannoni semoventi, 65.000 pezzi di artiglieria e 7.000 aerei. Si trattava di un livello di perdite incredibile e sconcertante, che nessun esercito al mondo avrebbe potuto assorbire. Franz Halder, il capo dell’alto comando dell’esercito tedesco, scrisse nel suo diario all’inizio di luglio: “Probabilmente non è esagerato dire che la campagna di Russia è stata vinta nel giro di due settimane”.

Halder’s diary offers a barometer of the German mood through the war

Naturalmente, non tutto fu perfetto. I sovietici contrattaccarono senza sosta, con azioni isolate che venivano affrontate facilmente, ma ogni attacco costava ai tedeschi tempo, uomini ed equipaggiamento. Le agili formazioni tedesche furono in grado, più volte, di accerchiare enormi sacche di forze sovietiche, ma anche quando erano accerchiate l’Armata Rossa combatteva ostinatamente, e la Wehrmacht scoprì che liquidare le sacche era un brutto affare e molte truppe sovietiche riuscirono a fuggire – alcune scivolarono dietro le linee tedesche e si unirono a gruppi partigiani che conducevano la guerriglia nel territorio occupato. Questi accerchiamenti erano così vasti e avvenivano così in profondità nell’Unione Sovietica che anche gli enormi gruppi di panzer (che comprendevano diverse divisioni di panzer e divisioni di fanteria motorizzata) non erano in grado di “sigillare” le sacche – dovevano aspettare che le divisioni di fanteria a piedi recuperassero e riempissero i vuoti. Nel frattempo, i tedeschi scoprirono che l’equipaggiamento sovietico era sorprendentemente formidabile. I più recenti modelli di carri armati sovietici – i KV1 e i T-34 – si rivelarono particolarmente difficili, e la maggior parte delle armi anticarro tedesche non riuscì a penetrare la loro corazza.

 

Tuttavia, le perdite inflitte all’Armata Rossa furono incredibilmente alte, dell’ordine di milioni. La guerra era sicuramente finita.

Torniamo ora alla concezione operativa di Barbarossa. La preoccupazione era quella di accerchiare e distruggere le formidabili forze sovietiche schierate vicino al confine. Non si trattava certo di un compito da poco. L’Armata Rossa in prima linea conteneva più di 150 divisioni di fucilieri (fanteria) e decine di divisioni di carri armati. La pianificazione bellica tedesca, tuttavia, si era gravemente sbagliata sulla percentuale di forze militari dell’Unione Sovietica schierate in avanti. Si presumeva che questa forza di circa 3 milioni di uomini rappresentasse la maggior parte della capacità militare di Stalin e che la sua distruzione avrebbe lasciato l’URSS prostrata. La preoccupazione, quindi, era quella di muoversi con grande decisione e distruggere le armate sovietiche di prima linea prima che potessero ritirarsi nell’interno dell’Unione Sovietica.

 

L’obiettivo fu raggiunto, con perdite sovietiche a sette cifre nella fase iniziale della guerra. Solo nella battaglia di Minsk, i tedeschi uccisero o catturarono più di 400.000 soldati sovietici in una grande sacca. Halder valutò che “l’obiettivo di frantumare il grosso dell’esercito russo al di qua dei fiumi Dvina e Dnepr è stato raggiunto”. Riteneva che a est di questi fiumi la Wehrmacht “avrebbe incontrato solo forze parziali”.

 

Il ritmo dell’avanzata iniziale della Germania e l’entità delle perdite inflitte all’Armata Rossa furono di portata veramente storica. Non ci si poteva aspettare che cinque gruppi d’armate si frantumassero allo sparo iniziale e sopravvivessero.

 

Ma qualcosa non andava.

 

L’Armata Rossa non era distrutta. Le perdite ammontavano a milioni, eppure i sovietici erano ancora in campo e combattevano duramente in ogni punto. Che cosa stava succedendo? Dove prendevano questi uomini? Che tipo di esercito poteva assorbire tre milioni di perdite nella campagna iniziale e non crollare? Che tipo di forza poteva perdere decine di armate e tuttavia rimanere in campo ovunque?

L’Unione Sovietica aveva un potere che era in gran parte invisibile ai pianificatori di Barbarossa: l’Armata Rossa aveva un’incredibile capacità di mobilitare forze fresche e di rigenerare la propria potenza di combattimento. La dottrina prebellica dell’Armata Rossa, infatti, aveva specificamente enfatizzato il potere di mobilitazione e le riserve. I pianificatori sovietici si aspettavano di dover sostituire tutte le loro formazioni ogni quattro-otto mesi in una guerra ad alta intensità, e avevano addestrato un numero enorme di riservisti a questo scopo.

 

Nel 1940, durante i preparativi per Barbarossa, lo stato maggiore dell’esercito tedesco aveva ipotizzato uno scenario in cui i sovietici avrebbero potuto mobilitare 40 divisioni fresche. Questo scenario non era assolutamente in linea con le capacità sovietiche. Invece di 40 divisioni, nel dicembre 1941 l’Armata Rossa riuscì a mobilitare ben 800 divisioni e unità di dimensioni equivalenti, schierando oltre 14 milioni di uomini. Solo alla fine di giugno i sovietici erano già riusciti a richiamare cinque milioni di riservisti. Ciò significa che in meno di due settimane, l’Armata Rossa fu in grado di fare appello a una forza lavoro superiore di circa il 60% rispetto all’intera forza d’invasione tedesca. Naturalmente, questi uomini non erano immediatamente disponibili per il combattimento; dovevano essere equipaggiati e organizzati, e le nuove formazioni dovevano essere assemblate nelle retrovie prima del dispiegamento. Ma c’erano, e questo dava all’Unione Sovietica una profondità difensiva che nessun altro Paese al mondo poteva eguagliare.

 

Arriviamo così al paradosso di base dell’Operazione Barbarossa. Dal punto di vista operativo, fu una delle più grandi vittorie della storia. La Wehrmacht ha completamente distrutto le forze armate sovietiche in prima linea e ha conquistato il territorio occidentale dell’Unione Sovietica in poche settimane. Tuttavia, questo successo operativo fu abbinato a uno dei più grandi errori di intelligence militare di tutti i tempi, con i tedeschi che ignoravano la capacità di mobilitazione dell’URSS. Di conseguenza, l’Operazione Barbarossa, in senso stretto, raggiunse i suoi obiettivi: distrusse le formazioni dell’Armata Rossa alla frontiera prima che potessero ritirarsi nell’interno dell’Unione Sovietica – e tuttavia il completamento di questo audace obiettivo non vinse la guerra.

Naturalmente, la mobilitazione delle riserve non risolse immediatamente nessuno dei problemi dell’Armata Rossa. Queste truppe appena richiamate non erano ben equipaggiate come le unità di prima linea che i tedeschi stavano distruggendo, e i problemi con il corpo degli ufficiali sovietici persistevano. Un sistema di comando e controllo macchinoso avrebbe afflitto l’Armata Rossa per anni. Tuttavia, il 1941 si preannunciava come un anno di terribili rivelazioni per entrambe le parti. I sovietici stavano imparando che avevano catastroficamente sottovalutato l’abilità operativa della Wehrmacht, mentre i tedeschi scoprirono di essere stati totalmente ciechi di fronte agli impressionanti poteri di mobilitazione dello Stato sovietico. Alla fine, la guerra nazi-sovietica fu un’apocalisse a cui nessuna delle due parti era pronta.

 

Smolensk: I primi dubbi

I primi segnali che qualcosa potesse andare storto nella guerra arrivarono in un luogo che né il comando tedesco né quello sovietico avevano mai previsto come importante campo di battaglia. Smolensk si trovava nella zona interstiziale operativa, nel primo strato dell’interno russo. I tedeschi presumevano che l’Armata Rossa sarebbe stata sconfitta prima che l’avanzata arrivasse a Smolensk, mentre i sovietici non credevano affatto che la Wehrmacht avrebbe raggiunto Smolensk. Così, entrambi gli eserciti furono sorpresi dai drammatici eventi che si svolsero in quel luogo.

 

I tedeschi si avvicinarono a Smolensk nella prima settimana di luglio, mentre Halder faceva la sua fantasiosa previsione che sarebbero rimaste solo unità sovietiche “parziali” a contrastarli. Furono quindi piuttosto sorpresi di trovare cinque intere armate sovietiche schierate intorno a Smolensk.

 

Questo era sconcertante, nel senso che non ci si aspettava che queste armate esistessero. Ma c’erano faccende da sbrigare. La Wehrmacht tornò al suo manuale di base: violente spinte concentrate intorno alla città, per arrotolare le forze sovietiche in un ennesimo promettente accerchiamento. Tutto molto bene: avrebbero liquidato la sacca, fatto altre centinaia di migliaia di prigionieri e sarebbero andati avanti. Heinz Guderian dedicò persino uno dei suoi tre corpi Panzer a spingersi più a est e a conquistare una testa di ponte sul fiume Desna presso la città di Yelnya, in modo da poterla usare come piattaforma di lancio per la fase successiva.

Guderian and his staff stop to check the map

Invece di schiacciare rapidamente i sovietici accerchiati a Smolensk e proseguire, i tedeschi si trovarono impegnati in una lotta feroce. Stalin chiese all’Armata Rossa di smettere di attaccare con unità frammentarie e di “iniziare a creare pugni di sette o otto divisioni”. In risposta, i sovietici portarono altre sette armate nel settore di Smolensk e lanciarono una serie di contrattacchi che, sebbene sconfitti, impantanarono i tedeschi e inflissero loro gravi perdite. La testa di ponte di Guderian a Yelnya fu martellata senza pietà e la Wehrmacht fu infine costretta ad abbandonarla dopo aver subito pesanti perdite. Un generale sovietico ha commentato che “la nostra attività apparentemente ha sconcertato anche il comando nemico, che ha incontrato resistenza dove non se l’aspettava; ha visto che le nostre truppe non solo hanno reagito, ma hanno anche attaccato (anche se non sempre con successo)”.

 

In effetti, l’intero corso della battaglia di Smolensk sembrò sconcertare i tedeschi. In particolare, un aggressivo attacco sovietico contro l’ala meridionale della Wehrmacht fu inizialmente liquidato dal feldmaresciallo von Bock (comandante del Gruppo d’armate Centro) come composto da “elementi di scarto”. Pochi giorni dopo, quegli elementi si rivelarono essere tre intere armate sovietiche che minacciavano di far crollare un intero Corpo Panzer, e Bock fu costretto a far intervenire altri due corpi d’armata per ripristinare la posizione. Si trattò, ammise nel suo diario, di “un successo piuttosto notevole per un avversario malconcio”.

Field Marshal Fedor von Bock – Commander of Army Group Center

La condotta dell’operazione di Smolensk rifletteva ampiamente una forza tedesca che credeva davvero alle proprie affermazioni, secondo cui l’Armata Rossa era stata degradata a forze solo parziali. In particolare, le decisioni di Guderian riguardo alla sua sfortunata testa di ponte di Yelnya dimostrarono la crisi emergente. Nel momento in cui Guderian scelse di spingere il 46° Corpo Panzer a est verso Yelnya, in realtà aveva l’ordine di Bock di chiudere l’anello intorno a Smolensk. Guderian, dobbiamo ricordarlo, era un comandante prussiano della vecchia scuola, che aveva capito che un certo tipo di autonomia e di indipendenza era concessa al comandante sul campo, quando si trattava di intraprendere un’azione aggressiva. Dopotutto, era stato questo stesso tipo di insubordinazione a portare al grande accerchiamento in Francia. Spingersi più a est per preparare la mossa su Mosca era perfettamente in linea con questo spirito, ma non fu una notizia gradita a Bock, che vide le unità sovietiche fuoriuscire dalla sacca attraverso il buco che Guderian aveva lasciato aperto. Quando Guderian finalmente spostò le forze per chiudere il varco, l’unica unità che poté risparmiare per il lavoro fu la 18ª Divisione Panzer, gravemente sotto organico, che a quel punto aveva perso tre quarti dei suoi carri armati e metà dei suoi cannoni anticarro.

 

La sorprendente mancanza di prudenza di Guderian, dato l’esaurimento generale del suo gruppo di panzer, esemplificava il fallimento della guerra tedesca. Una forza di panzer al limite delle sue linee di rifornimento, che operava con perdite crescenti di carri armati e solo un modesto supporto di fanteria, tentava bizzarramente di affrontare obiettivi multipli e difficili – cercando non solo di completare l’accerchiamento intorno a Smolensk, ma anche di controllare una testa di ponte più a est. Alcuni dei comandanti di divisione di Guderian riferirono chiaramente che solo un obiettivo poteva essere raggiunto. Nel frattempo, al comando del Gruppo d’Armate, Bock scrisse con incredula esasperazione: “C’è solo una sacca sul fronte del gruppo d’armate! E ha un buco!”.

I tedeschi vinsero la battaglia di Smolensk nel 1941. L’intera operazione costò ai sovietici altre 350.000 vittime totali e la città fu infine conquistata. Ma dal punto di vista tedesco, l’intera battaglia fu sbagliata. I sovietici dovevano essere al collasso e non dovevano certo essere in grado di lanciare una serie di nuove armate su questo fronte. Inoltre, le perdite tedesche, anche se inferiori a quelle dell’Armata Rossa, erano comunque gravi. La Wehrmacht perse circa 110.000 uomini nell’operazione di Smolensk, oltre a perdere tempo prezioso. La difficoltà di chiudere l’anello, gli incessanti contrattacchi sovietici, la crescente debolezza delle forze corazzate, lo strisciante senso di paralisi e di disaccordo nel comando: tutto indicava una guerra che stava andando terribilmente male, anche se la Wehrmacht non aveva ancora subito una sola sconfitta.

 

La battaglia si concluse il 31 luglio. A questo punto, un senso di disillusione e di orrore si stava insinuando nelle menti tedesche. Il 13 luglio – a soli cinque giorni dall’inizio dell’operazione – Bock aveva già confidato al suo diario:

 

“A causa dell’estremo logoramento del materiale e dell’equipaggiamento, i [due] gruppi di panzer sono efficaci solo se impiegati come un’unica entità”.

 

Poche settimane dopo, avrebbe aggiunto: “Se, dopo tutti i successi, la campagna a est si sta esaurendo… non è colpa mia”.

 

All’inizio di settembre, un ufficiale tedesco osservò succintamente:

 

Nessuna Blitzkrieg vittoriosa, nessuna distruzione dell’esercito russo, nessuna disintegrazione dell’Unione Sovietica”.

 

Il generale Gotthard Heinrici scrisse una lettera alla moglie in cui ammetteva che:

 

“La Russia è molto forte… La guerra qui è senza dubbio molto brutta… Tutte le campagne passate sembrano un gioco da ragazzi in confronto alla guerra attuale. Le nostre perdite sono pesanti…”.

 

Il colpo di grazia, tuttavia, venne dal Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Franz Halder. Dopo essersi vantato in precedenza di aver vinto la guerra in due settimane, le annotazioni del suo diario all’inizio di agosto mostrarono un chiaro cambiamento di tono:

 

“È sempre più chiaro che abbiamo sottovalutato il colosso russo… All’inizio della guerra, contavamo su circa 200 divisioni nemiche. Ora ne abbiamo contate già 360. Queste divisioni non sono sicuramente armate ed equipaggiate nel nostro senso, e tatticamente sono per molti versi mal guidate. Ma ci sono… Se noi ne distruggiamo una dozzina, i russi ne mettono un’altra al loro posto”.

 

Caveat emptor.

 

Kiev: Annientamento e crisi

I paradossi di questa guerra – la vittoria operativa contrapposta alla totale sconfitta strategica – erano solo all’inizio per la Germania. Dopo aver liquidato con successo la sacca di Smolensk, la Wehrmacht si trovò di fronte a un momento decisivo. Era l’inizio di agosto, il che lasciava una finestra adeguata per portare avanti altre operazioni prima che arrivasse la stagione del fango – ma operazioni a quale scopo?

 

A questo punto della guerra, il fronte aveva organicamente creato un enorme saliente intorno a Kiev. L’avanzata tedesca nella Russia centrale ora si protendeva oltre la cima del fronte meridionale. In sostanza, il Gruppo d’armate Centro era avanzato molto più in profondità rispetto al Gruppo d’armate Sud, e l’avanzata di quest’ultimo si era arrestata quando aveva raggiunto il possente fiume Dnieper.

 

Questa era un’opportunità allettante. Un attacco verso sud da parte delle unità del Gruppo d’armate Centro aveva il potenziale per conquistare quasi tutto il fronte sud-occidentale sovietico in quello che prometteva di essere forse il più grande accerchiamento mai realizzato. Ma una tale mossa avrebbe comportato la privazione del Gruppo d’armate Centro delle sue importantissime divisioni panzer, precludendo ulteriori progressi al centro e ritardando necessariamente qualsiasi mossa su Mosca.

Hitler makes a plan

Per alcuni, quindi, la decisione di Hitler di staccare unità critiche di panzer dal Gruppo d’armate Centro e di inviarle a sud verso Kiev è il momento in cui la Germania ha perso la guerra. Distratto dalla prospettiva di un altro grande accerchiamento, il Fuhrer ritardò stupidamente l’avanzata su Mosca e costò alla Germania la sua migliore opportunità di vincere la guerra nel 1941. Questa teoria è ovviamente allettante, soprattutto perché permette di scaricare tutta la colpa su Hitler. Il signor Baffetto è diventato, per ovvie ragioni, un capro espiatorio popolare per la sconfitta tedesca: nel dopoguerra, non poteva difendersi perché era morto, e nessun altro lo avrebbe difeso perché era Hitler. È quindi comune e comodo incolpare Hitler per le particolari decisioni che hanno portato alla sconfitta tedesca. Questo, però, è sbagliato.

 

È giusto accusare Hitler di essere malvagio, o nevrotico, o di qualsiasi altra cosa sgradevole, ma non è stato eccessivamente responsabile di particolari decisioni che hanno portato alla sconfitta tedesca. Si potrebbe dire, naturalmente, che come comandante in capo aveva la responsabilità ultima, e a ragione. Ma era sempre consigliato da ufficiali di stato maggiore e servito da un corpo di ufficiali che eseguiva doverosamente i suoi ordini, e nel 1941 c’erano molti ufficiali tedeschi che esultavano per la decisione del loro Fuhrer di inviare i panzer a sud verso Kiev. Invece di far presagire una sorta di fallimento storico mondiale, salutarono una vittoria titanica. Più precisamente, la decisione di reindirizzare le forze verso l’asse di Kiev era perfettamente in linea con i presupposti di lunga data del modo di fare la guerra prussiano, che dava priorità alla distruzione della massa combattente del nemico sopra ogni altra cosa. Questo era, secondo la saggezza convenzionale, il modo assolutamente corretto di fare la guerra.

 

Inoltre, da un punto di vista operativo, questa non era altro che un’opportunità perfetta per condurre la madre di tutte le battaglie di annientamento. Nessun istruttore delle accademie militari tedesche avrebbe potuto inventare uno scenario più da sogno. La mappa si sviluppava in modo favorevole per la Wehrmacht grazie al flusso naturale del Dnieper, che si piega come un’enorme “S” intorno a Kiev. Il Gruppo d’armate Sud tedesco era avanzato fino alla linea del Dnieper, mentre l’Armata Rossa teneva saldamente l’ansa del fiume con quattro armate (la 5ª, la 21ª, la 26ª e la 37ª). Tuttavia, l’avanzata del Gruppo d’armate Centro a Smolensk in luglio significava che i tedeschi erano già oltre il fiume (cioè a est del Dnieper) a nord di Kiev. Di conseguenza, la posizione sovietica intorno a Kiev era venuta a formare un gigantesco saliente, con le linee tedesche che sporgevano verso le loro retrovie sia a nord che a sud.

Ad aumentare l’attrattiva della posizione (dal punto di vista tedesco) c’era il fatto che le posizioni chiave sulle ali del saliente erano già occupate da forze Panzer – il 2° Gruppo Panzer di Guderian a nord e il 1° Gruppo Panzer di Kleist a sud. Questo rese possibile colpire direttamente il saliente sovietico senza riorganizzare la linea. Il Gruppo Panzer di Guderian doveva fare poco più che girare a destra.

 

Si trattava quindi di un’operazione concettualmente molto semplice. Il 1° e il 2° gruppo Panzer si sarebbero diretti l’uno verso l’altro, avrebbero sigillato l’enorme saliente attorno all’ansa del Dnieper e avrebbero intrappolato quattro armate sovietiche in una sacca.

 

È curioso, quindi, che un’opportunità così sublime e pulita di combattere l’ennesima battaglia di annientamento sia stata trasformata in una sorta di decisione sconsiderata di Hitler che è costata la guerra alla Germania. Questa interpretazione deriva in gran parte dal fatto che due dei più letti memorialisti della Germania nazista – Heinz Guderian e Franz Halder – hanno fatto di tutto per drammatizzarla come un punto di svolta in cui Hitler ignorò i loro consigli.

 

Una breve nota sulle curiosità istituzionali della macchina da guerra nazista. Il termine “alto comando”, in questo caso, è un descrittore inadeguato, poiché la Germania nazista aveva due organismi di spicco che rientravano in questa definizione. Uno era l’OKH – Oberkommando des Heeres, o Alto Comando dell’Esercito. Si trattava dell’organo che conduceva la pianificazione strategica per i gruppi di armate e le armate. Il suo comandante supremo era il generale Walther von Brauchitsch e il capo di stato maggiore era il già citato Franz Halder, che tenne un diario che divenne un materiale primario fondamentale per gli studiosi dopo la guerra. Tuttavia, c’era anche l’OKW – Oberkommando der Wehrmacht, o Alto Comando delle Forze Armate, diretto da Wilhelm Keitel e Alfred Jodl. In teoria, si trattava di un organo al di sopra dell’OKH che coordinava le operazioni dell’Esercito (Heer), della Marina (Kriegsmarine) e dell’Aeronautica (Luftwaffe), ma in pratica operava come centro decisionale rivale dell’OKH.

 

Tutto ciò rientrava nella procedura operativa standard del regime hitleriano. Al Fuhrer piaceva creare centri di potere rivali che competessero per le risorse e l’approvazione, sia perché ciò accresceva il suo potere personale (permettendogli di arbitrare tra tirapiedi in competizione), sia perché generava proposte ambiziose, con i sottoposti costantemente sotto pressione per portargli idee più grandi e audaci.

 

Nel dopoguerra, per i membri dello Stato Maggiore dell’Esercito (OKH) divenne una consuetudine dipingersi come puri professionisti e non propriamente nazisti, in contrasto con gli uomini dell’OKW, che venivano considerati come fanatici yes-men adoratori di Hitler. Ciò è stato apparentemente consolidato dal fatto che le figure di spicco dell’OKW, come Jodl e Keitel, sono state condannate per crimini di guerra a Norimberga e impiccate, mentre gli uomini dell’OKH, come Halder, sono stati ampiamente lasciati andare. Il risultato di tutto ciò è che la Wehrmacht è stata dipinta come composta da una fazione “pulita” (Halder, l’OKH e molti comandanti sul campo) e da una fazione “nazista” (l’OKW e le Waffen SS). In realtà, questa teoria è poco più di una continuazione della lotta di potere tra l’OKW e l’OKH che precede di molto Auschwitz e Norimberga.

 

Nei primi mesi autunnali del 1941, la Wehrmacht si trovò bloccata proprio da una simile lotta di potere. L’OKH (in particolare Halder) era favorevole a un immediato attacco a Mosca, mentre l’OKW era d’accordo con Hitler sul fatto che la priorità dovesse essere la pulizia dei fianchi. Pertanto, quando si leggono le memorie di un personaggio come Guderian, si deve capire che non si trattava semplicemente di un’iniziativa unilaterale di Hitler che ignorava i suoi consigli e sceglieva di andare in un’altra direzione; piuttosto, Guderian e Halder erano dalla parte dei perdenti in una lotta interna ai servizi per la firma di Hitler. A lungo termine, questa bizzarra e sclerotizzante frattura istituzionale fu ricucita quando Hitler si fece direttamente comandante in capo dell’OKH e gestì la guerra a est attraverso questo organismo, mentre l’OKW si assunse la responsabilità degli altri fronti.

Hitler with the staff of the OKH

La verità, naturalmente, è che sia l’OKW che l’OKH erano pieni di ufficiali perfettamente disposti ad eseguire gli ordini del Führer, sia che questi ordini riguardassero la liquidazione dei nemici razziali o la deviazione del 2° Gruppo Panzer verso sud, in direzione di Kiev. In un primo momento Guderian si oppose alla svolta verso sud, ma una volta che fu portato a discutere la questione con Hitler faccia a faccia, mollò prevedibilmente (Guderian tendeva a essere piuttosto intimorito in presenza di Hitler e di solito si trovava d’accordo con il capo) e attuò con entusiasmo l’ordine.

 

Detto questo, la decisione era stata presa. Piuttosto che muoversi direttamente su Mosca, gran parte delle forze del Gruppo d’armate Centro – in particolare i panzer – sarebbero state dirottate a nord e a sud per aiutare altri obiettivi. Le unità del Gruppo Panzer 3 sarebbero andate a nord per contribuire a sigillare il fronte intorno a Leningrado, mentre il Gruppo Panzer 2 di Guderian sarebbe andato a sud per contribuire a insaccare un enorme calderone intorno a Kiev.

 

È una grande tragedia, ma probabilmente Hitler aveva ragione. Contrariamente alle vane proteste dell’OKH, la strada per Mosca non era aperta: c’era un muro di armate sovietiche che si stava dispiegando sulla strada. Il Gruppo d’armate Centro era ancora in fase di consolidamento della propria logistica. Il trasporto su camion era a pezzi, le linee ferroviarie dovevano essere riparate, le discariche di rifornimento dovevano essere create e i veicoli di ricambio dovevano essere trasportati su rotaia. In questa circostanza, ripulire i fianchi prima di avanzare nell’interno della Russia era una linea d’azione del tutto sensata. L’idea che il Gruppo d’Armate Centro potesse semplicemente entrare a Mosca nel settembre 1941 è un’assurda invenzione del dopoguerra.

 

Tutto questo, forse, ignora il vero problema. La battaglia di Kiev del 1941 fu, secondo la tradizionale visione tedesca della guerra, una delle operazioni più spettacolari di tutti i tempi, in quanto distrusse l’equivalente di un intero Gruppo d’armate sovietico in poche settimane.

 

Lo schema funzionò sostanzialmente alla perfezione. Il 2° Gruppo Panzer di Guderian puntò direttamente a sud lungo l’ansa interna del fiume Desna e attaccò alla cerniera tra la 21a e la 40a Armata sovietica. Contemporaneamente, il 1° Gruppo Panzer di Kleist attraversò il Dneiper a sud-est di Kiev e sfondò le linee della 38ª Armata sovietica. I tedeschi disponevano ora di due potenti gruppi di Panzer (con un totale di nove divisioni panzer e divisioni di fanteria motorizzata al seguito) che irrompevano nelle retrovie delle armate sovietiche nell’ansa del Dnieper, con tre armate campali (la 2ª, la 6ª e la 17ª) che bloccavano il resto delle linee sovietiche intorno a Kiev.

In questo momento cruciale, i sovietici dovevano muoversi con decisione per salvare queste armate. Le quattro armate ora intrappolate nella sacca che si stava rapidamente chiudendo avrebbero dovuto immediatamente organizzarsi per un’evasione verso est, aiutate da numerose armate sovietiche che si aggiravano nel teatro. Purtroppo, a questo punto l’Armata Rossa non aveva né l’esperienza necessaria per organizzare rapidamente un’operazione così complessa, né la volontà politica di abbandonare semplicemente una città importante come Kiev. Pertanto, a parte alcune divisioni della 21a Armata che riuscirono a ritirarsi attraverso il varco prima che si chiudesse, le armate sovietiche ridussero le loro posizioni in un fragile guscio dove rimasero intrappolate nell’ampio arco dei fiumi Dnieper e Desna, con due Gruppi Panzer che murarono l’unica uscita.

La fine arrivò in modo straordinariamente rapido. La 21a sovietica si comportò un po’ meglio delle altre, con alcune divisioni che fuggirono verso est e le altre che mantennero almeno per un certo tempo un fronte coeso. Le altre armate nell’ansa – la 37ª, la 5ª e la 26ª – furono rapidamente imbottigliate in sacche incredibilmente piccole, dove furono martellate senza pietà dalla Luftwaffe e dall’artiglieria tedesca. Queste sacche erano anormalmente strette e più di un ufficiale tedesco ha commentato lo shock di guardare attraverso il binocolo e vedere così tanti veicoli e uomini ammassati in spazi così piccoli.

Si pone una questione più ampia. La battaglia di Kiev era costata all’Armata Rossa ben 700.000 perdite totali. Intere armate furono inghiottite in sacche di fuoco per morire o arrendersi. Le perdite di carri armati furono un po’ più lievi (le armate distrutte erano in gran parte di fanteria convenzionale), ma l’Armata Rossa perse ben 28.000 cannoni pesanti di tutti i tipi (contraerea, artiglieria, anticarro). L’entità di questa battaglia e delle perdite dell’Armata Rossa aveva pochi precedenti storici.

 

Una battaglia che infligge così tanti danni al nemico può mai essere definita un errore?

 

Certamente, dal punto di vista della battaglia di annientamento (l’unico punto di vista che l’esercito tedesco avesse mai trovato utile), Kiev fu un colpo da maestro. In un’unica manovra, eliminò un intero gruppo d’armate sovietiche, catturò gran parte dell’Ucraina sovietica e protesse il fianco meridionale del Gruppo d’armate Centro – e l’intera operazione richiese meno di un mese. Per Hitler, la vittoria era un altro successo personale che giustificava il suo istinto militare, e il ministero della propaganda del Reich era pronto a sfruttarla al massimo.

 

La Wehrmacht era ormai entrata da quattro mesi nella sua guerra orientale e aveva già combattuto tre enormi battaglie di annientamento, in Bielorussia, a Smolensk e a Kiev.

 

Allora perché il nemico non era stato annientato?

 

Vyazma: Il punto culminante

Pochi momenti della Seconda Guerra Mondiale sono così fraintesi come la battaglia per Mosca. C’è una versione popolare della storia, nota a tutti i ragazzi occidentali che sono cresciuti con il fascino della guerra, che recita così: dopo una serie di vittorie sbalorditive durante l’estate, la Wehrmacht fece una spinta finale verso Mosca, dove arrivò a pochi chilometri dalla vittoria della guerra – notoriamente, le truppe tedesche potevano vedere le torri del Cremlino con un binocolo – prima di arrivare a un passo dalla sconfitta a causa del terribile clima invernale, dei problemi di approvvigionamento e dell’inopportuna intromissione di Hitler. L’implicazione di questa storia è che i primi di dicembre del 1941, nei sobborghi di Mosca, sono il momento e il luogo specifici in cui la Germania ha perso la guerra.

 

Tutto ciò è sbagliato. In realtà, lo sforzo bellico della Germania era più o meno condannato molte settimane prima del fatidico affondo verso la capitale sovietica. Probabilmente, la guerra era condannata fin dall’inizio, per la matematica bruta della forza lavoro sovietica. Il problema essenziale per la Wehrmacht era che l’Armata Rossa era in grado di assemblare e mettere in campo una linea apparentemente infinita di armate di riserva, che rendeva impossibile per i tedeschi realizzare il progetto originale dell’invasione e distruggere la potenza combattiva sovietica in un’unica grande operazione; in definitiva, questo era un problema irrisolvibile per la Germania che non aveva nulla a che fare con l’inverno russo.

 

La mitologia della lotta per Mosca riflette il tentativo degli ufficiali tedeschi di conciliare un difficile paradosso: come potevano perdere una guerra in cui avevano vinto ogni battaglia? Mosca segnò la prima vera battuta d’arresto operativa per la Germania nei tre anni successivi all’invasione della Polonia: come prima sconfitta, doveva quindi essere anche il luogo in cui la guerra era stata persa. Ancora più convenientemente, Mosca fu un punto della guerra in cui l’interferenza di Hitler divenne più intensa, permettendo agli scrittori tedeschi di memorie di dare la colpa della sconfitta al loro Fuhrer. Ma Mosca non era mai stata di alcuna importanza per gli ufficiali tedeschi: lo scopo di Barbarossa era distruggere l’Armata Rossa. Quando fu chiaro che la Wehrmacht non era riuscita a raggiungere questo obiettivo, l’attenzione si spostò su Mosca.

Dicendo a se stessi – e al mondo – che Hitler aveva perso la guerra in inverno alle porte di Mosca, i generali tedeschi si assolvevano retroattivamente per aver perso la guerra alla fine dell’estate, non riuscendo a uccidere l’Armata Rossa. Memorie come quelle dei generali dei Panzer Heinz Guderian, Franz Halder o Erich Manstein dedicano grande attenzione alla lotta per Mosca e insinuano con forza che fu quel maledetto Hitler a rovinare tutto. Queste affermazioni non vengono contrastate – dopo tutto, chi vuole difendere Hitler? In realtà, nell’inverno del 1941 la Germania avrebbe potuto fare ben poco a livello operativo per vincere la guerra. Sembra strano: la guerra nazi-sovietica durò tre anni, dieci mesi, due settimane e due giorni – poteva davvero la Germania combattere una guerra persa per il 95% di questo tempo? Ma la Wehrmacht fu sconfitta; la sua lama fu smussata dalla feroce resistenza dell’Armata Rossa in ogni punto del campo. La Germania nazista aveva sferrato un pugno a tradimento alla mascella dell’Armata Rossa e aveva una mano rotta da mostrare.

 

L’affondo della Germania su Mosca nell’autunno del 1941 rifletteva la situazione disastrosa della Wehrmacht. Barbarossa, nonostante i suoi brillanti risultati operativi, non era riuscito a piegare l’Armata Rossa. Che fare allora? Cosa fare quando una fulminea manovra operativa non riesce a mettere fuori gioco il nemico?

 

Per la Wehrmacht, con il suo limitato manuale operativo, la risposta era chiaramente quella di lanciare un’altra offensiva. Gli ufficiali tedeschi erano stati addestrati a pensare alla guerra in modo molto specifico e a cercare soluzioni a livello operativo, cioè con il movimento aggressivo di grandi formazioni – il tipo di manovra a scacchi che piace alla mentalità dei wargame. In questo caso, la soluzione era l’Operazione Tifone: un seguito di Barbarossa che prevedeva una manovra a tenaglia per accerchiare e distruggere le forze sovietiche in avvicinamento a Mosca prima di catturare la città stessa.

 

Per gli ottimisti del comando tedesco, Tifone poteva essere inquadrata come un colpo di grazia a un avversario già stordito e malconcio dopo Barbarossa. Più realisticamente, tuttavia, Tifone tradisce una catastrofe militare in atto: nonostante le perdite orribili, i sovietici erano ancora in piedi in gran numero – e l’inverno si stava avvicinando. Qualunque sia il tropo che persiste sul fatto che i tedeschi siano stati sorpresi dall’inverno russo, questo non è inequivocabilmente il caso. Avevano esplicitamente puntato a vincere la guerra nel primo anno per evitare di combattere in inverno. Il tempo stava per scadere: da qui Tifone, come ultimo tentativo di vincere la guerra prima che le temperature precipitassero.

 

Per sferrare il tanto necessario colpo di grazia, le forze furono riassegnate dai gruppi d’armate settentrionali e meridionali per concentrare la massima potenza di combattimento nel Gruppo d’armate Centro, il cui comandante – il feldmaresciallo Fedor Von Bock – ora controllava tre dei quattro gruppi di panzer della Wehrmacht. Il gruppo d’armate di Bock era ora cresciuto fino a circa 2 milioni di uomini, rendendo Tifone il più grande comando tedesco sul campo dell’intera guerra. Si trattava di una forza formidabile, ma l’impressionante ordine di battaglia sulla carta smentiva l’entità dei danni che i tenaci difensori dell’Armata Rossa avevano inflitto nei tre mesi precedenti.

 

Questo non era lo stesso esercito che aveva invaso l’Unione Sovietica il 22 giugno. Nonostante i molti errori commessi dagli alti comandi, le truppe dell’Armata Rossa avevano combattuto con ferocia e coraggio, infliggendo gravi perdite ai tedeschi. All’inizio di Tifone, i tre gruppi di panzer di Bock erano ridotti solo al 52,8% dei loro complementi di carri armati autorizzati. Anche le perdite di autocarri furono ugualmente paralizzanti; secondo una stima, i gruppi di panzer avevano perso tra il 30 e il 40% dei loro mezzi di trasporto motorizzati. In totale, la Wehrmacht aveva perso qualcosa come 200.000 veicoli durante i mesi estivi. Per compensare queste perdite sconcertanti, Hitler approvò un lotto di sostituzione di soli 3500 camion per il fronte orientale.

A causa della profondità dell’avanzata della Wehrmacht in Unione Sovietica (e della difficoltà di modificare i treni tedeschi per renderli compatibili con i binari sovietici) Tifone doveva essere scarsamente rifornito. Prima dell’inizio dell’operazione, il personale logistico della Wehrmacht avvertì che l’offensiva non avrebbe potuto essere adeguatamente rifornita fino a Mosca. L’esercito immacolato e superbamente equipaggiato che aveva invaso l’Unione Sovietica in giugno era ora gravemente degradato – Halder ammetterà con amarezza che “un esercito del genere non sarà più a nostra disposizione”.

 

L’ampiezza dei successi operativi della Wehrmacht aveva in gran parte accecato la leadership tedesca sullo stato abissale del proprio esercito. Si trattava, come ha detto un analista, di un esercito in via di “de-modernizzazione”. La Wehrmacht voleva combattere una guerra di manovra, muovendosi rapidamente e ad arte per aggirare e disorientare l’Armata Rossa, ma dopo il pesante dissanguamento di carri armati e veicoli durante i combattimenti estivi, l’esercito era pericolosamente a corto di mobilità e di forza d’urto. Un’invasione di successo dell’Unione Sovietica avrebbe richiesto un esercito in grado di avviare molteplici operazioni offensive successive, con divisioni panzer fresche e completamente rifornite e una fanteria motorizzata in grado di sferrare una sequenza di colpi. La Wehrmacht non era semplicemente l’esercito adatto a questo compito. Quando il 2 ottobre iniziò Tifone, cercò di sferrare un colpo ad effetto utilizzando divisioni Panzer dimezzate e un numero enorme di unità di fanteria stanche e mal rifornite. La mancanza di trasporti a motore assicurava inoltre che ogni ulteriore progresso sarebbe stato del tipo “stop-start”: i carri armati avanzavano a passo di carica e poi si fermavano per permettere alla fanteria e ai rifornimenti di recuperare. Come scrisse lo stesso Bock nel suo diario, “non so ancora come si possa iniziare una nuova operazione da questa posizione, con il valore di combattimento in lento calo delle truppe, che vengono attaccate di continuo”.

 

A questo punto il problema principale era l’inadeguatezza del transito ferroviario e camionistico della Germania. Contrariamente a quanto si credeva, gli sforzi sovietici di fare terra bruciata non avevano completamente disattivato le ferrovie (anzi, tendevano a mantenerle in funzione per evacuare le attrezzature fino all’ultimo momento possibile), e le unità ingegneristiche tedesche erano riuscite a ripristinare i collegamenti ferroviari al Gruppo d’Armate Centro in preparazione di Tifone. Il problema era semplicemente che la capacità ferroviaria era inadeguata a rifornire un esercito così grande, e questo costrinse la Wehrmacht a fare scelte impossibili, in termini di allocazione della capacità limitata a varie esigenze come veicoli di ricambio, pezzi di ricambio, munizioni, carburante – e abbigliamento invernale. Le difficoltà logistiche erano amplificate dall’ottimismo sfrenato del quartiermastro dell’esercito, il generale Eduard Wagner, che di norma tendeva a promettere troppo e a non mantenere.

 

Non avendo la capacità di rifornire adeguatamente l’esercito o di rinforzarlo, i tedeschi dovettero ricorrere a mezze misure e a lavori di rattoppo per mettere insieme le forze necessarie per Tifone.

 

In nessun settore questo fu più evidente che nei veicoli corazzati, in particolare nei carri armati. Le perdite cumulative dei carri armati tedeschi furono enormi, anche in una serie ininterrotta di vittorie. Sulla carta, il Gruppo d’Armate Centro iniziò l’Operazione Tifone in ottobre con più carri armati di quanti ne avesse in giugno, ma questo aumento di forza fu ottenuto attraverso una serie di soluzioni provvisorie che coprivano il degrado generale della potenza di combattimento della Wehrmacht.

Le perdite di carri armati erano state gravi e la logistica era appesa a un filo, il tutto amplificato dagli ormai endemici problemi di rendicontazione della Wehrmacht. Le unità della Wehrmacht tendevano a oscillare tra l’eccesso e il difetto di dichiarazione delle perdite, a seconda di come volevano manipolare le forniture. Era comune dichiarare in eccesso le perdite e i guasti dei carri armati per richiedere veicoli di ricambio e pezzi di ricambio, ma in difetto per ottenere più munizioni e carburante. Più in generale, lo stato inadeguato delle forniture tedesche creava un forte incentivo a mentire. Di conseguenza, i comandanti tedeschi non avevano un’idea precisa della reale forza di combattimento delle loro importantissime unità di panzer, ma sapevano che la situazione era disastrosa.

 

In media, la forza dei carri armati della Wehrmacht a est all’inizio di settembre era di circa il 30% di perdite permanenti, il 23% in riparazione e il 47% pronto al combattimento. Nel Gruppo d’armate Centro, tuttavia, solo il 34% della forza originale dei carri armati era pronto all’azione – queste unità avevano assistito a combattimenti particolarmente duri a Smolensk. Uno degli aiutanti di Hitler riportò l’allarme emergente del Führer per lo stato della forza dei panzer:

 

“Come poteva condurre una guerra se contava su 1.000 carri armati in più e poi qualcuno gli diceva che in realtà ce n’erano solo 500? Aveva dato per scontato che le persone dell’Ufficio Armamenti sapessero almeno contare”.

 

Per rafforzare il Gruppo d’Armate Centro in vista di Tifone, i tedeschi dovettero giocare quasi tutte le loro carte immediatamente disponibili. Tra queste, il trasferimento di un Gruppo Panzer dal Gruppo d’Armate Nord (in modo che Bock avesse 3 dei 4 gruppi panzer dell’esercito orientale), l’invio di entrambe le divisioni panzer nella riserva strategica dell’Alto Comando d’Armata, l’assegnazione di un lotto di 316 veicoli sostitutivi dal magazzino e l’invio di carri armati francesi catturati per svolgere compiti di sicurezza nelle retrovie, in modo da liberare i panzer tedeschi per l’azione in prima linea. Anche con tutte queste misure adottate, il Gruppo d’armate Centro era ancora significativamente sotto forza.

 

Unità per unità, l’armata era semplicemente degradata in modo scioccante. Il 2° Gruppo Panzer di Guderian, che aveva iniziato la guerra a giugno con 900 carri armati, alla fine di settembre era sceso a soli 256 panzer pronti al combattimento, ai quali si potevano aggiungere i 149 veicoli di ricambio promessi.

 

I tedeschi riuscirono a mettere insieme un pacchetto potente per Tifone. Bock ora comandava il 60% delle forze tedesche sul fronte orientale. Ma anche dopo aver dato a Bock un gruppo Panzer in più, aver schierato divisioni Panzer dalla riserva strategica e aver inviato veicoli di ricambio, il Gruppo d’Armate Centro riuscì a malapena a eguagliare la sua forza di carri armati di giugno. Il vero problema, tuttavia, era il fatto che l’arrivo di tutte queste nuove unità e di tutti i veicoli di ricambio significava che non c’era più capacità ferroviaria per i pezzi di ricambio e, di conseguenza, i veicoli guasti avevano la tendenza a rimanere tali.

 

Quando Tifone fu finalmente lanciata, si preannunciò un’altra straordinaria vittoria per la Wehrmacht. Questa sarebbe stata l’ultima vittoria incontestabile, l’ultima stupefacente battaglia di annientamento prima che il miraggio evaporasse e la Wehrmacht non potesse più ignorare l’apocalisse.

 

Schematicamente, Tifone fu solo un’espansione dei precedenti movimenti tedeschi in Unione Sovietica. Sia in Bielorussia che a Smolensk, il Gruppo d’armate Centro aveva effettuato enormi accerchiamenti usando i suoi due gruppi di panzer come tenaglie – il 3° Panzer del generale Hoth come tenaglia settentrionale e il 2° di Guderian come tenaglia meridionale. Ora, con l’aggiunta del 4° Gruppo Panzer del generale Hoepner all’inventario, le tenaglie sarebbero state tre, con il gruppo di Hoenper al centro.

 

All’inizio l’intera operazione sembrava l’ennesima implementazione impeccabile del pacchetto standard della Wehrmacht. Il gruppo di panzer di Hoepner aprì un varco nel fronte sovietico, mentre Guderian e Hoth si accucciarono ai bordi. La risposta sovietica fu lenta e confusa, in gran parte dovuta al fatto che il comandante sovietico del fronte, Ivan Konev (che in seguito si sarebbe dimostrato estremamente competente), aveva ricevuto da Stalin e dallo Stavka l’ordine di organizzare una difesa a oltranza di un ampio fronte con forze insufficienti. Konev non fu in grado di ritirare le sue unità dopo aver perso le comunicazioni con la maggior parte dei suoi comandanti di prima linea a causa dei bombardamenti della Luftwaffe sui posti di comando. Più o meno appeso a un filo, Konev assistette impotente all’accerchiamento parziale o totale di ben sette armate durante l’avvicinamento a Mosca.

La difesa contro l’operazione Tifone segnò probabilmente il punto più basso della condotta operativa sovietica. Nelle prime tre settimane di ottobre, l’Armata Rossa aveva perso più di 900.000 uomini per difendere l’avvicinamento a Mosca e la strada per la capitale sembrava pericolosamente aperta. Eppure, alla fine di ottobre, fu la Wehrmacht a sentire la disperazione. Non avevano più energie né tempo.

 

La notte del 6 ottobre cadde la neve. Il mattino seguente si sciolse rapidamente e creò del fango.

 

Ottobre era un mese terribile per arrivare ovunque in Unione Sovietica; la maggior parte delle strade era sterrata e le piogge autunnali le trasformarono rapidamente in incubi di fango. I veicoli tedeschi erano ovunque impantanati e incapaci di muoversi; vittime della Rasputitsa (letteralmente, tempo senza strade). Un comandante tedesco, dopo la guerra, scriverà:

 

Naturalmente l’avevamo previsto, perché l’avevamo letto nei nostri studi sulle condizioni russe. Ma la realtà superò di gran lunga le nostre peggiori aspettative… Il fante striscia nel fango, mentre sono necessarie molte squadre di cavalli per trascinare avanti ogni cannone. Tutti i veicoli a ruote affondano nella melma fino all’asse.

 

I soldati tedeschi che erano stati in campagna e avevano attraversato queste vaste distese per mesi, ora faticavano a spostarsi su distanze molto brevi. E ancora, nonostante la completa distruzione delle forze sovietiche a Viazma, c’erano ancora forze dell’Armata Rossa sul campo, che combattevano. Tra il fango, la carenza di veicoli e di carburante, la stanchezza generale e la continua difesa dell’Armata Rossa, la Wehrmacht avanzava a fatica. Inoltre, la lentezza non riguardava solo l’avanzata delle unità da combattimento al fronte, ma anche la linea di rifornimento tedesca, che ormai era completamente sommersa e forniva solo una minima parte del cibo, del carburante e delle munizioni necessarie per sostenere l’esercito. Questo a sua volta costrinse a scelte più difficili: ogni tonnellata di carburante e di granate che veniva faticosamente trasportata fino al fronte rappresentava un gran numero di uniformi invernali che venivano lasciate indietro.

Can’t park there, Hans

Bock, cercando di spiegare la situazione all’alto comando, disse senza mezzi termini che “gli obiettivi… non possono essere raggiunti prima dell’inverno, perché non abbiamo più le forze necessarie e perché è impossibile rifornirle”.

 

Le forze tedesche che si facevano dolorosamente strada verso Mosca erano difficilmente riconoscibili come le stesse truppe di classe mondiale che avevano scosso i pilastri dell’Europa. La loro velocità, precisione e vitalità erano scomparse. Invece di combattere una guerra di manovra e di movimento (il tipo di guerra in cui la Germania eccelleva), stavano ora combattendo una battaglia di logoramento, che era il tipo di gioco che l’Unione Sovietica avrebbe sempre vinto. Un ufficiale tedesco ha spiegato: “Abbiamo gradualmente perso la capacità di manovra. La guerra divenne un movimento lineare… Non eravamo più istruiti a sorprendere, aggirare e annientare il nemico. Ci veniva detto: “terrete il fronte da tale punto a tale e tale punto, avanzerete su tale linea””. Dall’altra parte della linea, nonostante la sequenza di sconfitte, alcuni ufficiali sovietici potevano percepire il cambiamento nella capacità di combattere della Germania. Il tenente generale Vassily Sokolovsky si vantava del fatto che “la guerra lampo si è trasformata in una continua frantumazione della macchina bellica tedesca”. Ora essa si stava fermando.

Il Gruppo d’Armate Centro arrancava lentamente verso la periferia di Mosca mentre la temperatura scendeva, dando adito al mito duraturo che la Germania fosse a un passo dal vincere la guerra. Le forze tedesche che stavano afferrando Mosca con la punta delle dita erano combattute ed esauste, con la maggior parte delle loro unità che erano ormai tra un terzo e la metà della loro forza normale – e quei soldati che erano ancora in piedi erano ora gravemente affaticati, non adeguatamente equipaggiati per l’inverno e mal riforniti. Agli ufficiali tedeschi era stato insegnato a privilegiare l’aggressività e la forza di volontà sopra ogni altra cosa, e attraverso la linea cercarono disperatamente di far avanzare i loro uomini. Ma questa battaglia fu persa. Il fatto che i soldati tedeschi fossero a portata di binocolo del Cremlino è solo una curiosità di poco conto; non è che i tedeschi avrebbero vinto la guerra se fossero riusciti a spingersi in avanti e a toccare i cancelli del Cremlino – come avrebbe potuto testimoniare Napoleone. Non si trattava di un gioco di prestigio; entrare a Mosca avrebbe significato semplicemente una sanguinosa battaglia urbana, ed era pura fantasia pensare che questo relitto distrutto della Wehrmacht avesse la forza di conquistare la città isolato per isolato. E così, su tutto il fronte, le unità tedesche si guastarono e si fermarono, come un motore che gira a vuoto. Tifone, come Barbarossa, era fallito e l’Armata Rossa era ancora in campo.

 

Esame di realtà a Mosca

Col senno di poi, è chiaro che la decisione tedesca di spingere su Mosca negli ultimi mesi del 1941 non aveva alcuna possibilità di successo e poneva la Germania in una posizione strategicamente pericolosa. Persino la disastrosa difesa sovietica a Vyazma costò ai tedeschi tempo e perdite più che sufficienti per vanificare l’attacco, dimostrando che Tifone non era semplicemente una soluzione adeguata al problema della Germania – dopo tutto, se un’operazione può annientare un intero gruppo di armate nemiche e comunque fallire, ciò suggerisce che l’operazione era impraticabile fin dall’inizio.

 

L’operazione Tifone era, dopo tutto, una scelta. C’erano molte altre attività potenzialmente fruttuose in cui la squadra di Hitler avrebbe potuto impegnarsi: ad esempio, rafforzare la rete logistica, proclamare la fine delle fattorie collettive e reclutare la popolazione ucraina per rovesciare il bolscevismo, o aumentare le coscrizioni e la produzione bellica in patria (è sorprendente che anche mesi dopo aver invaso l’Unione Sovietica, la Germania nazista non fosse in una situazione economica di cosiddetta “guerra totale”). Forse, dopo aver annientato le forze dell’Armata Rossa in avvicinamento a Mosca alla fine di ottobre, la Wehrmacht avrebbe potuto trincerarsi nelle posizioni invernali e cercare di rifornirsi e riorganizzarsi per il 1942, piuttosto che tentare l’ultima strisciata nel fango e nella neve verso la città.

 

Invece, i tedeschi fecero l’unica cosa che sapevano fare: preparare un’altra operazione offensiva e tentare un altro colpo di grazia, spingendosi in avanti fino a quando non fu impossibile andare oltre. Sapendo, come ora, che Tifone non avrebbe mai funzionato, è facile criticare la portata limitata dell’esperienza tedesca. Tuttavia, non bisogna dimenticare che, a prescindere dai loro limiti in altri aspetti del modo di fare la guerra, la Wehrmacht rimase l’esercito più esperto al mondo dal punto di vista operativo, e nel 1941 l’Armata Rossa si dimostrò completamente incapace di contrastarla. Tifone non riuscì a conquistare Mosca, ma distrusse un’intera linea di armate sovietiche a guardia dell’avvicinamento alla capitale e inflisse ai sovietici perdite terribili. Per Stalin e i suoi collaboratori alla Stavka, la mappa della situazione raccontava di una catastrofe in rapida evoluzione.

 

Per i residenti di Mosca, compreso Stalin, non era immediatamente evidente che la città avrebbe retto. Verso la fine di ottobre, mentre i tedeschi lottavano per liquidare le sacche dell’Armata Rossa sull’autostrada, Mosca aveva acquisito una chiara aura di imminente sventura. Le infrastrutture civili si ruppero, con i trasporti pubblici interrotti e l’elettricità disponibile solo a intermittenza – le forniture di carbone erano ora monopolizzate dalle fabbriche di armamenti. Notevoli furono i casi di disordini civili: un evento raro in una popolazione che da tempo aveva raggiunto il punto di sottomissione per gentile concessione dell’NKVD.

 

Contrariamente alle speranze tedesche, tuttavia, gli episodi di disordine nelle strade non riflettevano un crescente stato d’animo antisovietico tra la popolazione, ma piuttosto la paura crescente che il governo li abbandonasse. Alcuni moscoviti osservarono quanto fosse inaudito e minaccioso che le panetterie della città distribuissero contemporaneamente razioni per diversi giorni: il governo si aspettava forse di essere sloggiato? In realtà, Stalin e i suoi avevano già pianificato di abbandonare la città. Il 15 ottobre Stalin emanò un ordine che dava il via all’evacuazione del governo e ai preparativi per la demolizione di fabbriche, depositi di rifornimenti e infrastrutture nel caso in cui i tedeschi fossero riusciti a entrare in città. Un numero consistente di fabbriche era già stato evacuato e i piani erano ora in moto per trasformare ciò che rimaneva in una terra desolata per i tedeschi.

A rare candid photo of Stalin shows a man burdened and weary

Stalin, di solito imperturbabile e di pietra, sembrava essere al limite della sopportazione. “Sei sicuro che possiamo tenere Mosca?”, chiese a Zhukov, “Te lo chiedo con un dolore nell’anima. Mi dica la verità, da comunista”. Zhukov – un militare “a qualunque costo” per eccellenza – rispose: “Terremo Mosca, senza alcun dubbio”.

 

Dopo il panico di metà ottobre, lo stato d’animo della capitale si irrigidì nella sfida. Centinaia di migliaia di civili vennero arruolati per scavare fossati anticarro e costruire fortificazioni campali nella periferia della città, mentre gli uomini in grado di lavorare continuarono a essere messi in uniforme. Zhukov e Stalin concordarono persino di organizzare la parata del 7 novembre per la commemorazione annuale della rivoluzione, come dimostrazione di determinazione.

 

Dopo aver passato in rassegna le truppe in parata, Stalin si rivolse alla folla. Il suo discorso, che fu stampato su tutti i giornali il giorno successivo, ammise che l’URSS era in gravi difficoltà, ma insistette sul fatto che la vittoria sovietica era inevitabile. “Il mondo intero vi guarda”, disse, “perché siete voi che potete distruggere le armate predatrici dell’invasore tedesco”. Inoltre, ha ricordato i grandi eroi della storia militare russa, come Alexander Nevsky, Dmitri Donskoi, Alexander Suvorov e Mikhail Kutuzov. Già a luglio, il regime sovietico aveva iniziato a riabilitare un patriottismo specificamente russo, tracciando un’analogia tra l’invasione tedesca e i cattivi del passato russo, come Napoleone e i mongoli. Stalin ha riproposto questo tema con la Wehrmacht alle porte. La sua battuta finale, “Morte agli occupanti tedeschi!”, racchiudeva bene l’atmosfera.

 

Dopo aver accennato all’evacuazione in ottobre, Stalin era ora deciso a rimanere nella capitale per combattere. Il 1° dicembre, il Segretario Generale ricevette una telefonata dal quartier generale avanzato di Zhukov nel villaggio di Perkhushkovo. L’addetto allarmato all’altro capo della telefonata riferì che i tedeschi erano molto vicini e chiese se il quartier generale poteva essere spostato più a est. Stalin rispose chiedendo se avessero delle pale a portata di mano. L’ufficiale, dapprima sconcertato, rispose che avevano delle pale e chiese cosa si dovesse fare con esse. “Compagno Stepanov, dica ai suoi compagni di prendere le vanghe”, rispose il dittatore, “e di scavarsi delle tombe. La Stavka non lascerà Mosca. Io non lascerò Mosca. E loro non andranno via da Perkhushkovo”.

 

Valutare le prestazioni di Stalin in guerra è difficile. È molto facile sottolineare i terribili errori di Stalin: ha fatto crescere in modo massiccio il suo corpo ufficiali negli anni precedenti la guerra; ha sbagliato il dispiegamento dell’Armata Rossa nel periodo precedente la guerra; durante Barbarossa la sua leadership ha portato a battaglie di accerchiamento di massa che hanno distrutto l’Armata Rossa. È più difficile dare credito a Stalin per i suoi successi – è più bello invece riconoscere ed elogiare figure meno – diciamo così – controverse come Zhukov.

 

Tuttavia, è un semplice dato di fatto che Stalin fu al centro della vittoria sovietica, come leader indiscusso del Paese, intimamente coinvolto in tutte le decisioni critiche. Stalin era considerato indispensabile da tutti i suoi subordinati (continuava a trarre grande legittimità dal suo carico di lavoro apparentemente sovrumano), e di fatto la sua popolarità generale aumentò notevolmente durante la guerra, in quanto divenne l’archetipo dello Stato e della sua ostinata e stoica resistenza contro la tempesta. Nei mesi finali del 1941, mentre l’assalto tedesco raggiungeva il suo apice all’avvicinarsi di Mosca, la sfida di Stalin personificava la crescente rabbia sovietica di fronte all’apocalisse. Come disse lo stesso Stalin, tra gli applausi scroscianti della folla a Mosca, “Gli invasori tedeschi vogliono una guerra di sterminio contro i popoli dell’Unione Sovietica. Molto bene, allora! Se vogliono una guerra di sterminio l’avranno!”.

 

Questo senso di eroica presa di posizione alle porte dell’inferno era esaltante, e non solo per i cittadini sovietici. Un giornalista americano, che era stato anche lui in Francia nel 1940, ha ricordato:

 

Ogni giornalista che assiste a un’occasione epocale di questo tipo cerca di pensare a una frase che racconti la storia completa ed emozionante… Mentre guardavo i tedeschi occupare Parigi… il meglio che riuscivo a fare era: “Parigi è caduta come una signora”. Ora, il meglio che sono riuscito a trovare è stato: “Mosca si è alzata e ha combattuto come un uomo”.

 

Stalin, con il suo regime e il suo esercito, si preparò a una lotta feroce per la città. Ma il tremendo scontro non arrivò mai; al contrario, i tedeschi si fermarono. All’inizio di dicembre, con le temperature in picchiata, il Gruppo d’armate Centro era sostanzialmente bloccato in ogni punto della linea. Non era solo il freddo a tenerli congelati sul posto (un gioco di parole davvero eccessivo), ma anche l’esaurimento generale e la carenza di uomini, cibo, carburante e munizioni. Il freddo rendeva le cose miserabili, ma le unità di prima linea del Gruppo d’armate Centro erano così malridotte e sottoalimentate che non avrebbero ottenuto grandi risultati nemmeno con il clima estivo.

Con la Wehrmacht in difficoltà e incapace di muoversi, l’iniziativa strategica passò per default all’Armata Rossa per la prima volta nella guerra. Zhukov non perse tempo e iniziò immediatamente una feroce controffensiva per ricacciare la Wehrmacht dalla soglia di casa. Sulla carta, il Gruppo d’armate Centro superava le forze dell’Armata Rossa nella regione di Mosca (forse 1,7 milioni di tedeschi contro 1,1 milioni di soldati sovietici), ma l’Armata Rossa aveva armate di riserva in via di formazione, le sue forze, a differenza dei tedeschi, erano fresche e vicine ai loro punti di rifornimento e di comunicazione, avevano accesso a ferrovie funzionanti e, cosa ancora più importante, i sovietici erano ora in grado di concentrare le truppe in punti mirati della linea. Nonostante l’inferiorità numerica del fronte, gli attacchi concentrati diedero all’Armata Rossa un vantaggio numerico di oltre 2 a 1 nei punti chiave. L’attacco iniziò il 5 dicembre e riuscì ben presto a respingere le prime linee tedesche da Mosca.

 

La decisione di Zhukov di non perdere tempo e di colpire immediatamente i tedeschi esausti si rivelò decisiva e l’Armata Rossa mise il Gruppo d’armate Centro in una posizione molto difficile durante l’inverno. L’8 dicembre Hitler emanò la Direttiva di guerra 39, che ordinava all’esercito di “abbandonare immediatamente tutte le principali operazioni offensive e passare alla difensiva”. L’ordine fu un tardivo riconoscimento di una realtà che già esisteva sul campo. Per molti soldati tedeschi aggrappati alle loro posizioni fuori Mosca, la “difensiva” era già fin troppo reale.

 

Se i mesi estivi erano stati testimoni dell’apice dell’arroganza tedesca, dicembre avrebbe dato luogo a un’analoga eccessiva fiducia da parte della leadership sovietica. Dopo mesi di pesanti sconfitte operative e terribili perdite, l’improvviso cambiamento di slancio era inebriante. L’Armata Rossa ottenne significativi avanzamenti operativi che eliminarono l’imminente minaccia per Mosca e causarono una vera e propria crisi per il comando tedesco. Tuttavia, il contrasto tra il panico di ottobre e i successi di dicembre convinse Stalin che i tedeschi erano allo stremo e portò a una massiccia inflazione delle aspettative.

 

Il massimo a cui l’Armata Rossa poteva aspirare in inverno era eliminare la pressione diretta su Mosca e spingere i tedeschi fuori dalla porta di casa, ma Stalin e i suoi tirapiedi si convinsero invece che era possibile accerchiare le principali formazioni tedesche e potenzialmente distruggere del tutto il Gruppo d’armate Centro. In un promemoria, Stalin espresse la sua fiducia che l’offensiva invernale avrebbe “assicurato la completa sconfitta delle forze naziste nel 1942”.

 

Purtroppo, l’Armata Rossa non era in grado di compiere operazioni così ambiziose. I sovietici erano ancora carenti negli elementi tecnici e logistici per condurre una guerra offensiva. Il corpo degli ufficiali sovietici era inesperto e non era in grado di coordinare adeguatamente la manovra delle proprie unità come potevano fare gli ufficiali tedeschi, i sistemi di rifornimento e controllo sovietici erano ancora macchinosi e incapaci di sostenere un’offensiva in profondità, le munizioni e il cibo caldo erano strettamente razionati e l’Armata Rossa faticava a coordinare con successo una battaglia ad armi combinate. D’altro canto, la Wehrmacht – sebbene malridotta – era ancora l’esercito più letale del mondo e riusciva a resistere grazie ai nervi saldi, alla superiorità tattica e ai contrattacchi accuratamente ritmati. La tragedia, quindi, fu che nessuno dei due eserciti fu in grado di sconfiggere l’altro nel 1941.

 

Alla fine, la Battaglia di Mosca fu molto meno drammatica di quanto suggerisce la mitologia, anche se non meno decisiva. La storia della battaglia non riguarda tanto l’intervento tempestivo del clima invernale, quanto piuttosto il logorio e la stanchezza delle forze tedesche che alla fine hanno avuto la meglio, esponendo una Wehrmacht esausta alla controffensiva di Zhukov. I tedeschi non furono fermati fuori Mosca perché faceva freddo; furono bloccati al freddo perché la loro offensiva era fallita.

 

Sebbene il mito della possibilità di vittoria tedesca sia solo questo – un mito – il dicembre 1941 fu testimone del primo cambiamento nella traiettoria e nella natura della guerra, quando il conflitto si allargò e – per la prima volta dopo anni – la Germania perse il controllo dell’iniziativa strategica. Ma le condizioni sul terreno in Unione Sovietica non furono l’unica cosa che cambiò a svantaggio della Germania. Il 5 dicembre, Zhukov sguinzagliò le sue armate di riserva e iniziò a colpire il Gruppo d’armate Centro. Due giorni dopo, una forza d’attacco giapponese lanciò un attacco a sorpresa contro la flotta americana del Pacifico a Pearl Harbor, e la guerra nazi-sovietica si unì alla crescente guerra mondiale.

La manovra diventa logoramento

Spesso, quando si parla di guerra, si presuppone tacitamente che, in un determinato momento, una parte stia “vincendo” e l’altra stia “perdendo”. La guerra nazi-sovietica, soprattutto nel 1941 e 1942, sfata questa nozione. Disorientamento, disperazione, rabbia e sofferenza erano onnipresenti sia per l’Armata Rossa che per la Wehrmacht. Entrambe le parti potevano vantare alcuni successi, ma nel contesto di una catastrofe più ampia. La Wehrmacht poté celebrare una serie di brillanti accerchiamenti e battaglie vinte, ma queste – Smolensk ne è l’esempio ideale – avvennero sullo sfondo di una catastrofica lettura errata del potenziale di mobilitazione sovietico: i tedeschi continuarono ad accerchiare e distruggere le unità sovietiche, ma queste unità non avrebbero dovuto esistere e l’Armata Rossa avrebbe dovuto crollare. Da parte sovietica, il successo dell’evacuazione di molte fabbriche critiche – soprattutto di carri armati – fu (ed è tuttora) considerato una grande vittoria dal regime comunista, ma ovviamente queste fabbriche furono evacuate perché l’Armata Rossa veniva distrutta su tutta la linea e le regioni industriali cruciali venivano invase dai tedeschi. Alla fine, entrambe le parti si trovarono impegnate in una disperata lotta per la sopravvivenza alla quale nessuno era preparato: la portata e l’intensità della guerra erano semplicemente senza precedenti. Il fiume di sofferenza e di morte aveva superato gli argini.

 

Questo porta al punto più importante. Nel 1941, né l’Armata Rossa né la Wehrmacht erano in grado di distruggere l’altra in modo definitivo. Nessuna vittoria decisiva era possibile per entrambe le parti, il che significa che questa guerra era proprio ciò che i tedeschi avevano temuto: una guerra di logoramento.

The Wehrmacht took huge numbers of prisoners, but could not break the Red Army

Singolarmente, le operazioni tedesche avevano tutte le caratteristiche di una guerra di manovra, con i loro abili movimenti a tenaglia e l’applicazione potente e decisiva del loro pacchetto meccanizzato nei punti decisivi. Esse produssero enormi accerchiamenti che fecero lievitare le perdite sovietiche a livelli scandalosi. Il problema è che queste vittorie non portarono a una decisione strategica globale.

 

I tedeschi combatterono quattro enormi battaglie nel 1941: in Bielorussia, a Smolensk, a Kiev e a Vyazma, sulla strada per Mosca. Quando un esercito è costretto a combattere una sequenza di campagne di manovra, ognuna delle quali non porta a un risultato decisivo, l’effetto cumulativo è l’attrizione. E questo era il problema della Germania. L’Armata Rossa era semplicemente troppo potente, la riserva di manodopera troppo enorme e lo Stato sovietico troppo tenace per poter essere distrutto in una o anche in due grandi campagne di manovra, e la Wehrmacht era intrappolata in una guerra di logoramento, che lo volesse o meno.

 

In definitiva, ciò rivelò che la Wehrmacht, pur essendo estremamente dotata nei domini operativi e tattici del modo di fare la guerra, era fatalmente incompetente in altri domini, come l’intelligence militare e la logistica. In particolare, le valutazioni tedesche del potenziale di mobilitazione sovietico furono forse il più grande errore di intelligence militare di tutti i tempi.

 

I poteri di mobilitazione dell’Unione Sovietica erano davvero impressionanti e si prendevano continuamente gioco dell’intelligence militare tedesca. All’inizio di agosto, furono presentati a Hitler dei rapporti che prevedevano che l’Armata Rossa non aveva più forze sufficienti per formare un fronte difensivo continuo e che probabilmente era vicina alla fine delle sue risorse – “Il numero di nuove unità che vengono organizzate potrebbe aver raggiunto il suo picco. È difficile aspettarsi la creazione di altre unità”. Il rapporto prevedeva che, al massimo assoluto, l’Armata Rossa avrebbe potuto schierare 390 divisioni. Questo numero era una revisione al rialzo rispetto alle stime precedenti all’invasione, ma rappresentava comunque una sottostima risibile.  A quel punto, la mobilitazione sovietica aveva portato la forza di linea dell’Armata Rossa a 401 divisioni – un numero che sarebbe cresciuto a 450 entro settembre e a 592 entro dicembre. L’aspetto forse più sorprendente è che la Stavka riuscì a realizzare questa straordinaria impresa organizzativa per poi replicarla nella prima metà del 1942 mettendo in campo altre 10 armate.

 

In ultima analisi, la Germania ha perso la guerra perché era impegnata in una guerra d’attrito che non si aspettava e non poteva capire, e non poteva adattarsi a queste condizioni a causa di vincoli ideologici.

 

Nell’autunno del 1941, le regioni industriali e produttrici di grano più importanti si trovavano dietro le linee tedesche. Naturalmente, lo scopo di Barbarossa era quello di consentire alla Germania di sfruttare le risorse economiche dell’Unione Sovietica occidentale, e in particolare dell’Ucraina, per creare un grande impero tedesco economicamente autosufficiente: un presupposto importante della leadership tedesca, quindi, era che Barbarossa avrebbe fatto pendere la dimensione economica della guerra a favore della Germania. Questa ipotesi si rivelò un’assoluta chimera.

 

L’Unione Sovietica spese una quantità considerevole di energie per evacuare le fabbriche dal percorso tedesco, anche se, contrariamente a quanto vantavano i comunisti, questi beni industriali non furono ricostruiti senza problemi nelle aree retrostanti. L’evacuazione di una singola fabbrica comportava centinaia, se non migliaia di vagoni ferroviari di attrezzature e, nel caos della guerra, questi carichi tendevano ad accumularsi ai nodi ferroviari, creando grandi cumuli di macchinari e attrezzature disorganizzati. Secondo una stima, circa 1,5 milioni di vagoni ferroviari carichi di attrezzature di fabbrica furono evacuati nelle aree retrostanti (gli Urali, la valle del Volga, la Siberia e l’Asia centrale). Per ovvie ragioni, la maggior parte di queste fabbriche non fu immediatamente riassemblata nel 1941, e l’anno successivo avrebbe visto un enorme calo della produzione industriale sovietica – secondo alcune stime, la produzione del 1942 era scesa di oltre un terzo rispetto ai livelli del 1940.

Il principale vantaggio dell’evacuazione delle fabbriche, quindi, fu semplicemente quello di impedire ai tedeschi l’accesso a questi beni. Nonostante queste interruzioni, l’Unione Sovietica riuscì a destreggiarsi in un’economia improvvisata e di emergenza in risposta all’invasione tedesca, seguita da un ritorno a una pianificazione di successo a partire dal 1943 – un successo, almeno, per gli standard sovietici; la produzione militare dell’URSS non si avvicinò mai a eguagliare la fabbrica di dimensioni continentali chiamata America che lavorava al di là degli oceani. Tuttavia, lo sviluppo staliniano dell’industria nelle regioni interne dell’URSS, in particolare negli Urali, si rivelò fondamentale per dare al Paese una sorta di profondità economica che gli permise di sopravvivere all’invasione tedesca, e l’investimento non solo in attrezzature, ma anche in operai specializzati, manager e tecnici permise all’URSS di produrre grandi quantità di carri armati e armi per tutta la durata della guerra.

 

Per ironia della sorte, anche se nel 1941 l’Unione Sovietica perse territori economicamente preziosi (e la Germania, per estensione, li guadagnò), fu il Terzo Reich a trovarsi presto in gravi difficoltà economiche.

 

Il regime sovietico riuscì ad evacuare o a distruggere un numero sufficiente di infrastrutture di valore, tanto che per i tedeschi fu difficile ricavare un valore reale dalle regioni catturate. Lo sfruttamento dell’Ucraina, ad esempio, richiedeva la deviazione dei treni tedeschi e il carbone per far muovere le cose, ma il tentacolare impero nazista era già a corto di entrambe le cose. Per funzionare in Unione Sovietica, i tedeschi dovevano riparare i binari e le infrastrutture, ma questo richiedeva manodopera e la Germania stava già affrontando una grave carenza di manodopera. Inoltre, spostare le risorse dall’Unione Sovietica avrebbe richiesto l’allocazione della capacità ferroviaria necessaria a spostare i rifornimenti per mantenere l’esercito. La situazione economica stava diventando così disperata che alcuni pianificatori tedeschi suggerirono di chiudere l’intera industria degli armamenti per l’inverno per risparmiare carbone. Alla fine, le porzioni occupate dell’Unione Sovietica fornirono alla Germania un valore economico inferiore a quello del piccolo Belgio occupato.

 

Nella misura in cui i nazisti trovarono l’Ucraina una terra desolata, raccolsero semplicemente ciò che avevano seminato. È sorprendente che la leadership tedesca scelse specificamente di non abolire le fattorie collettive sovietiche – un gesto semplice che avrebbe potuto ottenere il sostegno di molti ucraini.  Un funzionario tedesco suggerì che “la fornitura sicura a lungo termine di materie prime e generi alimentari al Reich tedesco potrebbe essere ottenuta con meno mezzi di forza attraverso un trattamento comprensivo delle nazionalità interessate” – in gergo burocratico, si trattava di cercare di conquistare gli ucraini trattandoli con un minimo di umanità.

 

Questo suggerimento sensato fu respinto in toto. I nazisti stavano progettando di far morire di fame gli slavi in ogni caso, la fattoria collettiva sembrava un sistema utile per farlo, e i tedeschi non hanno mai dubitato di poterla gestire in modo più efficiente di quanto avessero fatto i comunisti, e così le fattorie collettive rimasero. Ma i tedeschi, coinvolti in una guerra catastrofica, senza alcuna conoscenza delle aree locali e senza un’ideologia convincente come il comunismo, non potevano controllare i contadini come i sovietici e quindi l’Ucraina non avrebbe nutrito la Germania come voleva Hitler. Ogni speranza delle popolazioni locali che la Wehrmacht venisse a liberarle dall’oppressione comunista evaporò all’istante al contatto con la barbarie tedesca.

 

Stalin e il partito comunista avevano fissato una soglia di crudeltà molto alta, eppure i tedeschi riuscirono a superarla senza difficoltà. Vale la pena chiedersi come sarebbe andata la storia se la Wehrmacht avesse dichiarato la fine dell’azienda agricola collettiva e si fosse presentata come liberatrice (anche in modo disonesto), facendo un tentativo a metà per ottenere il sostegno degli ucraini. Ma questo significa chiedersi come sarebbe andata se Hitler non fosse stato malvagio; ma allora non sarebbe stato Hitler, e la Wehrmacht non sarebbe stata affatto in Ucraina.

“Close your hearts to pity.”

Alla fine, a causa di una combinazione di crudeltà tedesca e dello sforzo dei sovietici di evacuare o distruggere beni di valore economico, Barbarossa non riuscì a spostare gli aspetti industriali della guerra a favore della Germania. L’implicazione economica più immediata dell’invasione per i tedeschi fu piuttosto il rapido esaurimento delle loro riserve di carburante e la costosa responsabilità di rifornire un enorme esercito a centinaia di chilometri di profondità in territorio nemico.

 

Incapace di attuare la sua sanguinosa visione del paradiso razziale a est, il regime nazista frustrato iniziò a compiere crimini compensativi. Il piano originale prevedeva di rubare il grano dell’Ucraina e di far morire di fame decine di milioni di slavi. Non riuscendo a farlo, la Wehrmacht affamò invece dove era in grado di farlo. Avrebbero ucciso circa 3 milioni di prigionieri di guerra sovietici – mezzo milione con la fucilazione e il resto costringendoli in recinti all’aperto e aspettando che morissero di fame. A Leningrado, tagliata fuori dai rifornimenti a causa dell’assedio tedesco, la fame era già un problema alla fine del 1941, e quando l’Armata Rossa salvò la città nel 1944 circa 1 milione di persone erano morte di fame.

 

Questo fu un crimine apocalittico da parte della Wehrmacht, ma era tutto sbagliato. Questi crimini si verificarono perché la Germania non aveva vinto la guerra e non poteva commettere i crimini che Hitler aveva pianificato. I prigionieri sovietici furono fatti morire di fame perché la Wehrmacht era a corto di rifornimenti e accumulava ogni caloria che riusciva a procurarsi per i propri soldati. Leningrado fu teatro di una fame di massa, ma la città fu assediata e affamata perché i tedeschi non riuscirono a catturarla del tutto. Hitler aveva originariamente pianificato di demolirla completamente, e quindi la morte per fame dei suoi cittadini rappresentava la rabbia esasperata di un regime nazista che stava per vedersi sfuggire un impero tra le dita.

 

Anche la decisione di iniziare l’assassinio di massa degli ebrei tradisce il fatto che lo sforzo bellico tedesco è condannato. Hitler aveva fatto quattro importanti promesse riguardo al Barbarossa: primo, che l’Armata Rossa avrebbe potuto essere distrutta in una rapida campagna; secondo, che lo Stato sovietico sarebbe crollato sotto la pressione della guerra; terzo, che le terre dell’Unione Sovietica avrebbero fornito ricchezza economica ai tedeschi; quarto e ultimo, che la caduta dell’Unione Sovietica avrebbe permesso una soluzione definitiva al problema ebraico. Tutto stava andando storto. L’Armata Rossa continuava a mettere in campo formazioni fresche ovunque; lo Stato sovietico non era crollato, ma stava stoicamente arrestando, fucilando, spostando e arruolando persone su scala enorme; i territori sovietici occupati non fornivano grano o carbone o metallo, ma stavano invece assorbendo enormi quantità di materiale e carburante. Di fronte al fallimento a est, Hitler spostò i parametri della guerra per enfatizzare lo sterminio degli ebrei – un tacito riconoscimento che questo era ormai l’unico obiettivo bellico ancora a portata di mano. In origine, la Soluzione Finale doveva essere attuata dopo il crollo dell’Unione Sovietica, quindi all’inizio non c’erano piani reali per la sua realizzazione. Con l’Armata Rossa in piedi, la guerra contro gli ebrei doveva essere spostata in cima alla lista delle priorità, e così le SS iniziarono a sparare agli ebrei sovietici a un ritmo frenetico e a sperimentare modi industrializzati di ucciderli.

 

L’Olocausto, in un senso molto reale, fu un premio di consolazione per un pazzo che si trovò dalla parte sbagliata della sua stessa apocalisse.

 

Coda: i limiti della manovra

Sarebbe profondamente sbagliato definire il 1941 una storia di successo sovietico. Le decisioni militari prese da Stalin e dalla sua squadra alla Stavka – in particolare l’impulso a mantenere il terreno e a contrattaccare senza sosta – fecero aumentare enormemente le perdite sovietiche, sprecarono gran parte delle prime unità di prima linea dell’Armata Rossa e permisero di invadere l’intero margine occidentale dell’URSS. Tuttavia, in mezzo a questa catastrofe, lo Stato sovietico dimostrò una tenacia, una durata e un potere di mobilitazione che confusero completamente le nozioni tedesche di un’unica stagione di campagna decisiva.

 

Prese a sé stanti, le operazioni del 1941 hanno messo in mostra una Wehrmacht all’apice delle sue forze, che ha cacciato e distrutto enormi forze sovietiche in una sequenza di grandi vittorie. Cumulativamente, però, queste battaglie distrussero la Wehrmacht, che non si riprese mai dalle perdite di ufficiali, truppe veterane ed equipaggiamento subite in questo anno cruciale. Declassata, deflagrata, sgonfiata, era ormai solo una questione di quando e come, non di se la Germania avrebbe perso la guerra.

 

In agosto, un ufficiale di divisione tedesco fece una nota di passaggio che si rivelò molto più preveggente di quanto potesse immaginare. La divisione, notò, avrebbe dovuto trovare un modo per ridurre il tasso di perdite “se non intendiamo vincere fino alla morte”.

[1] http://italiaeilmondo.com/2023/02/01/un-anno-di-guerra-in-ucraina-riepilogo-ragionato-di-roberto-buffagni/

[2] https://en.wikipedia.org/wiki/David_M._Glantz

Intervista a Julien Freund nel 1990

Un grande poco conosciuto in Italia. A Cura di Giuseppe Germinario

 

Intervista a Julien Freund

 

L’Europa è in declino, nonostante i suoi successi tecnologici, perché non crede più nei propri valori. Riuscirà a superare questa crisi? Tornerà ai valori tradizionali o ne creerà di nuovi? Manterrà la propria identità o la abdicherà a un globalismo trionfante? Queste sono le domande fondamentali che i popoli europei si pongono e alle quali risponde l’eminente sociologo Julien Freund.

***

– I – Lei è l’ex direttore dell’UER per le Scienze Sociali dell’Università di Strasburgo e l’autore, tra l’altro, del famoso Qu’est-ce que la politique? Non crede che tra le cause intellettuali e spirituali della decadenza europea, la prima sia il pluralismo dei valori?

Per sua natura, il valore implica la pluralità. Dove c’è un solo valore, non c’è alcun valore, perché non è possibile il confronto, che è la base di ogni valutazione. Una cosa vale più di un’altra, o meno, o è equivalente ad essa. In altre parole, i valori sono distribuiti su una scala, a seconda che siano superiori o inferiori ad altri o equivalenti. Il rapporto tra superiorità e inferiorità si chiama gerarchia. Chiunque utilizzi il concetto di valore presuppone una gerarchia, almeno implicitamente. L’egualitarismo moderno è un singolare che esclude i valori, poiché essi sono plurali. In questo senso, l’uguaglianza è un valore solo accanto ad altri come la libertà, la carità, la felicità, la virtù, la mediocrità o la malvagità.

Pluralità non significa però pluralismo, così come socialità non significa socialismo o totalità non significa totalitarismo. L’attuale pluralismo dei valori proclama che tutti i valori sono uguali e come tale costituisce una disaggregazione del valore attraverso la disaggregazione di qualsiasi gerarchia. In questo caso, alla fine, l’innocenza non ha più valore della colpa, la rettitudine non più dell’ipocrisia. Ovviamente, in questo caso non c’è più motivo di preferire un parlamentare onesto a uno disonesto, un insegnante consapevole del suo compito a uno pigro. Questo pluralismo di valori è senza dubbio una delle ragioni della decadenza spirituale dell’Europa.

– II – È troppo tardi per un risveglio, per un risveglio?

Non si possono escludere dalla vita e dalla storia situazioni eccezionali ed eventi miracolosi. Se ci riferiamo alle condizioni attuali, la decadenza dell’Europa [*] è irrimediabile. Direi addirittura che l’Europa è in piena decadenza da diversi anni. A questo proposito si possono addurre vari argomenti soggettivi, e quindi discutibili, ma rimane un argomento oggettivo che nessuno può mettere in discussione, se non in malafede. L’Europa è stata finora l’unica civiltà che non era semplicemente localizzata in un territorio di un continente. Non solo era continentale, ma è stata anche l’unica ad acquisire una dimensione globale. Ha infatti riunito popoli che fino ad allora si ignoravano completamente. Un abitante aborigeno ignorava l’Africa quanto un eschimese.

Eppure l’Europa è stata gradualmente presente in tutti i continenti, anche su isole prima disabitate, o scoprendo piccole isole oceaniche che ancora oggi non sono abitate stabilmente. E improvvisamente, all’indomani dell’ultima guerra mondiale, ha abbandonato i suoi territori extraeuropei e si è ritirata all’interno dei suoi confini geografici come subcontinente dell’Asia. Il fatto indiscutibile è che per secoli ha progredito sotto ogni punto di vista, scientifico, artistico, economico e non solo, e improvvisamente, in soli due decenni, è regredita fino a cessare di essere una potenza mondiale a livello politico. Cinquant’anni fa dominava tutti gli oceani, oggi ha tutte le difficoltà del mondo a difendersi efficacemente all’interno dei suoi confini.

– III – Per lei, la decadenza dell’Europa è un fatto irrimediabile?

Non sono né un profeta né un indovino, ma trovo difficile vedere un’inversione della situazione nelle prossime generazioni. L’Europa è in declino, nonostante i suoi successi tecnici. Mi sembra addirittura che l’Europa voglia mettere alla prova la sua debolezza fino in fondo, nonostante tutti gli inviti a rialzarsi, nonostante tutte le buone intenzioni di chi cerca di metterci in guardia dalle inevitabili conseguenze della decadenza. I Romani della decadenza, a parte l’una o l’altra mente lucida (erano rari), non erano affatto consapevoli di vivere in un periodo di decadenza, poiché l’economia non era mai stata così prospera come in quel periodo e ai cittadini venivano offerti tutti i piaceri dei giochi negli stadi e, nei circhi, i giochi più frivoli e assassini. La decadenza è soprattutto morale e politica, non economica o tecnica.

Andate a far capire la prudenza a un maniaco della velocità! Le droghe uccidono, ma il piacere che danno nel presente è il più forte. Tendo a credere che l’economia del tempo libero, oggi predominante al punto da fare della disoccupazione un argomento di retorica politica, contribuirà ad accelerare la decadenza. Lo stesso vale per altri settori, in particolare per l’istruzione. L’ignoranza viene gradualmente elevata a pretesa intellettuale. L’esperienza è resa priva di significato, ogni generazione vive delle conquiste di quelle precedenti, ma allo stesso tempo finge che le conquiste di cui gode siano opera sua. L’educazione moderna consiste soprattutto nell’imparare a mentire a se stessi.

– IV – Orfani, cosa possiamo fare in futuro?

Siamo in presenza di profondi cambiamenti nella mentalità generale che riguardano tutte le menti del mondo. Una mentalità non cambia su comando o raccomandazione, per quanto utile o vantaggiosa possa essere. Il futuro non è però bloccato, perché non esiste una decadenza storicamente assoluta. Anzi, la decadenza è una transizione, che dura diverse generazioni, tra una civiltà esausta e stanca e la nascita di una nuova civiltà consapevole di un nuovo ordine, di nuove forme e norme. Lo sappiamo da tutta la storia conosciuta.

La domanda oggi è se la nuova civiltà che sta nascendo sarà una civiltà globale, non una civiltà che si è globalizzata nel corso del suo sviluppo, come l’Europa, ma una civiltà che è globale nello spirito fin dall’inizio. L’eventualità di questo nuovo tipo può presupporre la comparsa di una nuova autorità, che istituisca una nuova gerarchia riconosciuta come legittima e che riesca a imporsi universalmente. È più che probabile che l’umanità sperimenti quella che definirei una rivolta culturale, in successione più o meno rapida, all’insegna delle rivendicazioni di minoranze etniche o di gruppi radicalizzati incentrati su valori che saranno facilmente scalfiti

Non è affatto detto che ciò che sta accadendo nella Russia sovietica sia una replica di ciò che stiamo vivendo in Europa, perché la discordia che sta lacerando la Russia sovietica può far nascere un altro modo di vedere le cose. Smettiamo di essere schiavi di noi stessi. Le stesse osservazioni possono essere fatte sull’America. La speranza, che è consustanziale alla vita, è l’unico modo per controllare i possibili slittamenti dei travagliati tempi di transizione. Se tutto dovesse diventare certo nel futuro, dovremmo abbandonare ogni speranza, come nell’Inferno di Dante. Chi spera non è mai orfano, perché rimane capace di immaginare e anticipare, alla luce del passato, prospettive che sfuggono alla logica delle teorie. Non cadiamo nella fatuità del Premio Nobel per la Fisica, vittima del suo scientismo, che negli anni Trenta dichiarò che tra sei mesi la fisica sarebbe stata una scienza completamente finita.

– V – Il ritorno della politica condiziona un risveglio del nostro popolo al potere?

Una civiltà non è solo l’espressione di un potere politico perché, per sua stessa essenza, implica altri momenti altrettanto prestigiosi, di natura religiosa, morale, artistica, scientifica, giuridica e altro. In quanto tale, la politica è il potere di regolazione interna delle società per potersi difendere meglio dal nemico esterno; è efficace solo a condizione di riconoscere che questi diversi momenti che compongono una civiltà possono essere conflittuali. Non siamo ciechi: il conflitto è una delle fonti del dinamismo di una società. Una società che vorrebbe essere pacifica fin dall’inizio tra le altre è solo un’utopia destinata al disastro.

Il ritorno alla politica, se concepita come un’entità isolata, potrebbe solo portare a delle illusioni, poiché rimane l’istanza di scelta della gerarchia all’interno di una società. La scelta è inevitabile perché lo sviluppo di una società è caratterizzato dalla pluralità di orientamenti possibili, in funzione di eventi contingenti, ma anche di espressioni e valori concordanti. Una scelta immanente a se stessa è pura necessità che ignora se stessa. La scelta di cui parlo è innanzitutto la fede in una trascendenza che alimenta una speranza il più possibile favorevole per l’umanità a venire.

La speranza è indispensabile, come dimostra il fenomeno dell’emigrazione. La vita implica un gioco di reciprocità tollerabili tra di loro. Altrimenti, diventa una guerra. Quando gli emigranti sono numerosi, introducono inevitabilmente i loro modi di pensare, diventano forze contagiose per la società ospitante. Di conseguenza, introducono altre norme ai popoli non autoctoni. In Europa, siamo all’inizio di un processo di reciprocità che può essere disciplinato solo dalla speranza nella trascendenza dei valori comuni a una nuova storia da costruire. Ci sono nostalgie che sono mortificanti per noi stessi.

– VI – Crede nella fine delle ideologie?

La fine delle ideologie, intese come armi di propaganda e dottrine escatologiche polemiche e secolarizzate, è storicamente un evento innegabile. Le ideologie stanno appassendo, come dimostrano il crollo del marxismo-leninismo e gli antagonismi interni dell’anarchismo in tutti i Paesi. Diciamo che le ideologie filosoficamente qualificate e socialmente bellicose o sterminatrici stanno tutte andando alla deriva, ma hanno lasciato un segno nelle anime. Viviamo inconsapevolmente tra persone ideologizzate (può succedere anche a noi), che non dichiarano più di appartenere a una certa ideologia, ma che hanno integrato il sedimento di ideologie moribonde nei loro comportamenti, nella loro mentalità e nei loro ragionamenti, oltre che nei loro voti.

A destra e a sinistra si sacrifica il terzomondismo, si fanno discorsi lusinghieri sulla pace, sulla giustizia e sulla felicità individuale e collettiva. Le ideologie caratteristiche richiedevano l’adesione volontaria delle menti, l’ideologizzazione, al contrario, è lo svilimento delle anime, distorte dai media. È quello che Max Weber chiamava il paradosso delle conseguenze. In nome delle buone intenzioni, ci prepariamo a un domani infelice. Se la filosofia ha ancora un senso, allora potrebbe riflettere sul divario tra la generosità delle idee e la malvagità degli atti effettivamente compiuti.

– VII – L'”ideologia morbida” non porta con sé il totalitarismo?

È possibile che la “soft ideology” porti al totalitarismo se intesa come terrorismo individuale e collettivo. Forse anche in questo ultimo secolo siamo ossessionati dal totalitarismo che ha caratterizzato la nostra epoca. Non è forse un crepuscolo dal quale dobbiamo uscire? In effetti, ci sono altrettante possibilità, forse anche di più, che la conseguenza non sia più il totalitarismo, ma la decomposizione di tutti i rapporti sociali, purtroppo con il nostro consenso.

Osserviamo semplicemente che l’opinione generale è più o meno consapevolmente ostile all’autorità, alla costrizione, ai divieti e di conseguenza alle regole, all’ordine e al rispetto, al pudore e anche, molto semplicemente, la speranza non è posta di fronte all’alternativa: totalitarismo terroristico o decomposizione della società? Confidando nel trascendente, la speranza è capace di immaginare norme più umane di relazione tra gli uomini, purché riconosca che l’intelligenza è inseparabile dalla memoria e dall’ispirazione. La lotta da condurre è di tipo spirituale: riabilitare la memoria come passato e storia e confidare nella grazia nascosta nel pensiero produttivo, di cui la creatività attualmente in voga non è che una caricatura.

– Professore, la ringraziamo per questa intervista.

 

Intervista di Xavier Cheneseau, Vouloir n°61-62, 1990.

 

Nota aggiuntiva:

 

* In realtà, la problematica deve essere estesa a tutta l’Europa, questo continente all’origine dell’Occidente moderno. L’idea di Europa”, ricorda Julien Freund, “è contemporanea alle grandi esplorazioni dei navigatori che hanno scoperto l’America, l’Africa nera, le Indie, la Cina e l’Oceano Pacifico. Per i popoli che parteciparono a questa immensa impresa fu il mezzo per darsi un’identità di fronte a questi nuovi continenti e per differenziarsi da essi. L’avventura li condusse alla scoperta del mondo intero nella sua finitudine sferica. L’abbandono in meno di due decenni di quasi tutte le terre conquistate nel corso dei secoli e il ritiro dell’Europa nel proprio spazio geografico è un evento decisivo: “L’Europa entra in decadenza non solo in relazione all’impero mondiale che controllava alla vigilia del suo improvviso declino, ma soprattutto in relazione al suo dinamismo interno, all’audacia delle sue imprese e alla vitalità dei suoi abitanti” (La fine del Rinascimento). Dopo aver condotto uno studio complessivo delle diverse teorie e filosofie relative alla caduta degli imperi e delle civiltà in La décadence, Julien Freund torna, in un libro di interviste, alla storia contemporanea dell’Europa. Al di là delle interpretazioni e delle ermeneutiche degli storici, egli mette in evidenza la perdita di controllo sui confini e la scomparsa della base territoriale di un popolo come criterio di decadenza: “C’è un fenomeno oggettivo fondamentale: è la perdita del territorio. La decadenza è finita il giorno in cui si perde il territorio. La decadenza dell’Europa è cominciata il giorno in cui l’Europa si è raccolta sul suo territorio, abbandonando le sue conquiste lontane” (L’avventura della politica). Questo criterio territoriale dei fenomeni di decadenza è eminentemente geopolitico e ci riporta alla situazione attuale dell’Europa. Le nazioni e gli Stati del Vecchio Mondo non sono in grado di difendersi con le proprie forze e di presidiare i confini comuni. L'”Europa dei vecchi parapetti” di Arthur Rimbaud non esiste più e i confini esterni dell’Unione non sono ancora stati stabiliti. La diagnosi della decadenza dell’Europa richiede un’eziologia. Le origini di questo fenomeno sono molteplici e complesse; i fattori esplicativi si influenzano a vicenda e non è facile distinguerli. Va semplicemente sottolineato che ogni grande civiltà si sente superiore alle altre costellazioni socioculturali e si considera universale. In questo modo, pretende di attualizzare al massimo livello le virtualità della specie umana. Un deplorevole etnocentrismo? I gruppi umani, dal più piccolo al più grande, hanno la loro prospettiva e se questa “visione del mondo” non è valida al di fuori dei gruppi che la utilizzano, non può essere confutata all’interno di questi gruppi. Questa è una delle condizioni sine qua non della diversità di culture e civiltà che i “tardo moderni” vogliono rispettare. Certo, la conoscenza permette di superare le particolarità, ma è un’ascesi elitaria. Tesa alla salvezza e alla liberazione, la conoscenza non mira a governare gli uomini e ad assumere le responsabilità del Politico considerato nella sua essenza. (estratto dall’articolo “Penser l’Europe: déclin ou décadence?” di JS Mongrenier)

 

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In memoria di Julien Freund

Il 10 settembre 1993 Julien Freund ci ha lasciato in silenzio. In Europa era uno dei più eminenti filosofi della politica, un riferimento obbligato per tutti coloro che volevano pensare alla politica fuori dagli schemi. La stampa non ha parlato di lui.

Nato a Henridorff, in Alsazia-Lorena, nel 1921, si unì alla resistenza durante la Seconda guerra mondiale. Nell’immediato dopoguerra, prima insegna filosofia a Metz, poi diventa presidente della facoltà di scienze sociali dell’Università di Strasburgo, di cui assicurerà lo sviluppo.

Inizialmente ispirato dal pensiero di Max Weber*, autore all’epoca poco conosciuto in Francia, Freund sviluppò gradualmente una teoria dell’azione politica che formulò, a grandi linee, nel suo capolavoro, L’essenza della politica (Sirey, 1965).

La politica è un’essenza, in un duplice senso: da un lato, è una delle categorie fondamentali, costanti e non eradicabili della natura e dell’esistenza umana e, dall’altro, una realtà che rimane identica a se stessa nonostante le variazioni di potere e di regimi e nonostante il cambiamento dei confini sulla superficie della terra. Per dirla in altri termini: l’uomo non ha inventato la politica, né tanto meno la società, e, d’altra parte, la politica rimarrà sempre ciò che è stata, secondo la stessa logica per cui non potrebbe esistere un’altra scienza, specificamente diversa da quella che abbiamo sempre conosciuto. È infatti assurdo pensare che possano esistere due diverse essenze di scienza, cioè due scienze che abbiano presupposti diametralmente opposti; altrimenti la scienza sarebbe in contraddizione con se stessa.

La politica è un’attività circostanziale, causale e variabile nelle sue forme e nei suoi orientamenti, al servizio di un’organizzazione pratica e della coesione della società […]. La politica, invece, non obbedisce ai desideri e alle fantasie dell’uomo, che non può non fare nulla, perché allora non esisterebbe o sarebbe qualcosa di diverso da ciò che è. Non si può sopprimere il politico – a meno che l’uomo stesso, senza sopprimersi, non diventi un’altra persona.

Sulla base di questa definizione dell’essenza del politico, Freund sottopone a una serrata critica l’interpretazione marxista del politico come mera espressione delle dinamiche economiche in atto nella società. Freund, invece, tiene a sottolineare la sua specificità, una specificità irriducibile a qualsiasi altro criterio. Dal suo punto di vista, la politica è “un’arte della decisione”, basata su tre tipi di relazioniil rapporto tra comando e obbedienza, il rapporto pubblico/privato e, infine, l’opposizione amico/nemico.

Quest’ultima disposizione bipolare costituisce l’essenza stessa della politica: legittima l’uso della forza da parte dello Stato e determina l’esercizio della sovranità. Senza forza, lo Stato non è più sovrano; senza sovranità, lo Stato non è più lo Stato. Ma può uno Stato cessare di essere “politico”? Certamente, risponde Freund:

È impossibile esprimere una volontà veramente politica se si rinuncia in anticipo all’uso dei normali mezzi della politica, che significa potere, coercizione e, in alcuni casi eccezionali, violenza. Agire politicamente significa esercitare l’autorità, manifestare il potere. Altrimenti, si rischia di essere annientati da un potere rivale che vuole agire pienamente in politica. In altre parole, tutta la politica implica il potere. Il potere è uno dei suoi imperativi. Di conseguenza, è contrario alla legge stessa della politica escludere l’esercizio del potere fin dall’inizio, ad esempio facendo di un governo un luogo di discussione o un organo arbitrale come un tribunale civile. La logica stessa del potere è che esso sia davvero potere e non impotenza. In secondo luogo, per il suo stesso modo di esistere, la politica ha bisogno di potere, e qualsiasi politica che vi rinunci per debolezza o per un’osservanza troppo scrupolosa della legge, cessa di essere veramente politica; cessa di svolgere la sua normale funzione per il fatto che diventa incapace di proteggere i membri della comunità di cui è responsabile. Per un Paese, quindi, il problema non è avere una costituzione giuridicamente perfetta o andare alla ricerca di una democrazia ideale, ma darsi un regime capace di affrontare le difficoltà concrete, di mantenere l’ordine, generando un consenso favorevole alle innovazioni in grado di risolvere i conflitti che inevitabilmente sorgono in ogni società.

In questi testi tratti da L’essenza della politica, possiamo notare l’evidente parentela tra la filosofia di J. Freund e il pensiero di Carl Schmitt (1888-1985).

Particolarmente attento alle dinamiche dei conflitti, amico di Gaston Bouthoul, uno dei principali osservatori mondiali di questi fenomeni, Freund fondò nel 1970, sempre a Strasburgo, il prestigioso Istituto di Polemologia [“Per polemologia”, spiegava, “non intendo la scienza della guerra e della pace, ma la scienza generale del conflitto nel senso del polemos eracliteo”] e, nel 1983, pubblicò, nell’ambito di questa scienza della guerra, un importante saggio: Sociologia del conflitto, un’opera in cui considera i conflitti come processi positivi: “Sono sicuro di poter dire che la politica è per sua natura conflittuale, per il fatto stesso che non c’è politica se non c’è nemico “**.

Così, sulla base di tali elaborazioni concettuali, rivoluzionarie nella loro chiarezza, Freund giunge a una definizione generale di politica, intesa “come l’attività sociale che si propone di assicurare con la forza, generalmente basata sul diritto, la sicurezza esterna e la concordia interna di una determinata unità politica, garantendo l’ordine nonostante le lotte che nascono dalla diversità e dalle divergenze di opinioni e di interessi”.

In un libro in gran parte auto-biografico, pubblicato sotto forma di intervista (L’aventure du politique, Critérion, 1991), Freund esprime il suo pessimismo sul destino dell’Occidente, ormai in preda a una decadenza insanabile, dovuta a cause interne che aveva studiato nelle pagine di un altro suo capolavoro, La décadence (Sirey, 1984). Difensore di un’organizzazione federalista dell’Europa, aveva espresso il suo punto di vista su questa questione cruciale in La fin de la Renaissance (PUF, 1980). Julien Freund è morto prima di aver completato un saggio sull’essenza dell’economia. Il Prof. Dr. Piet Tommissen avrà l’onore di pubblicare la versione definitiva di quest’opera***, certamente fondamentale come tutte le precedenti. Il Prof. Dr. Piet Tommissen sarà anche l’esecutore e il gestore dell’archivio lasciatoci dal grande politologo alsaziano.

► Dott. Alessandra Colla (rivista milanese Orion n°108, settembre 1993).

 

*: Freund ha tradotto Lo studioso e il politico e Saggi sulla teoria della scienza di Max Weber (anch’essi da lui prefati). Cfr. estratti.

** La demonizzazione del nemico è il prezzo da pagare per coloro che ignorano l’opposizione tra amico e nemico. Da qui le guerre di sterminio che, prendendo di mira nemici ridotti a incarnazioni del diavolo, vengono condotte in nome di fini sublimi (pace perpetua, fratellanza universale, ecc.). PA Taguieff, Julien Freund, au cœur du politique, La Table ronde, 2008, p. 54. Il nemico è inteso qui come “polemos” o “hostis”, cioè come nemico pubblico, un’entità che deve essere chiaramente distinta dal nemico privato (“ekhthros” o “inimicus”). Da buon pensatore machiavellico, Julien Freund individua il gioco machiavellico di coloro che rifiutano la nozione di nemico per utilizzare, in cambio, una terminologia moraleggiante che letteralmente evacua il nemico dal genere umano. “Il nemico rientra dalla porta di servizio, ma sotto una veste diabolica”, scrive Taguieff a questo proposito (p. 53).

*** : L’essence de l’économique, Presses univ. de Strasbourg, 1993 [vedi questa intervista]. P. Tommissen ha anche stabilito una bibliografia in appendice a Philosophie et sociologie (Cabay, Louvain-la-Neuve, 1984, p. 415-456: Julien Freund, une esquisse bio-bibliographique).

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Testi aggiuntivi :

Filosofo, sociologo e politologo, Julien Freund ci ha lasciati il 10 settembre 1993, lasciandoci in eredità un ricco e variegato corpus di lavori sul diritto, la politica, l’economia, la religione, l’epistemologia delle scienze sociali, la polemologia, la pedagogia e l’estetica. Tuttavia, era particolarmente interessato a chiarire quelli che Paul Ricœur chiamava i paradossi della politica. Segnato prima della guerra da una concezione idealista della politica, Freund perse le sue illusioni durante gli anni della Resistenza e durante il suo impegno politico e sindacale dopo la Liberazione. Sono state le delusioni causate dalla realtà della pratica politica a spingerlo a studiare cosa sia realmente la politica, cioè a scoprire cosa si nasconde dietro il velo ipocrita di certe concezioni moralistiche. È da questo desiderio di ricercare e descrivere la vera natura della politica, al di là delle contingenze storiche e ideologiche, che nasce L’essence du politique, la sua opera magna pubblicata nel 1965 e riedita nel 2003 da Dalloz con una postfazione di Pierre-André Taguieff.

La grande lezione politica di Julien Freund

Contro la saggezza convenzionale del suo tempo, Julien Freund osò affermare e dimostrare ne L’essenza della politica (1) che la politica ha un peso insormontabile e che è illusorio sperare nella sua scomparsa. Egli sintetizzò questa idea nella formula: “ci sono rivoluzioni politiche, non c’è rivoluzione del politico” (2). Questa affermazione, apparentemente semplice, ha innumerevoli conseguenze filosofiche.

Il pensiero politico di Freund si basa sull’idea che esista un’essenza della politica. Ciò significa, da un lato, che l’uomo è un essere politico e, dall’altro, che la società è un fatto naturale e non una costruzione artificiale dell’uomo (3). Da questo punto di vista, l’autore de L’essenza della politica è in linea con Aristotele e in opposizione alle varie teorie del contratto sociale ereditate da Hobbes. Da ciò deriva una certa concezione del rapporto tra la società e gli individui che la compongono.

La società è intesa come condizione esistenziale dell’uomo: come ogni ambiente, gli impone una limitazione e una finitudine. Spetta cioè all’uomo, attraverso l’attività politica, organizzarla e riorganizzarla costantemente in funzione dell’evoluzione dell’umanità e dello sviluppo delle varie attività umane. Per Freund, la società è quindi “data”, così come l’uomo che, da parte sua, è dotato di una “socievolezza naturale”. L’idea di uno “stato naturale”, che implicherebbe un’umanità asociale, è quindi per lui priva di senso. Può avere senso solo come ipotesi, come “utopia razionale” che permetterebbe di comprendere meglio la società e di mostrare ciò che è convenzionale in essa.

Una visione fondamentalmente conflittuale della società

A causa dell’uso del termine “essenza”, la filosofia di Freund è stata spesso definita essenzialismo, nel senso che rinchiude la politica in un’immobilità estranea alla sua natura. Non è necessario aver letto Freund per pensarlo. La sua intera ambizione teorica era quella di riabilitare la distinzione tra i generi, che si basa sull’idea dell’autonomia delle diverse attività umane, ognuna delle quali ha il proprio scopo e i propri mezzi. Lo scopo della scienza o dell’arte non è lo stesso di quello della politica o della religione. La sua teoria era, tra l’altro, un modo per reagire contro le ideologie o le dottrine sistematiche che cercavano di spiegare tutte le attività umane con un’attività primaria, sia essa l’economia (come nel marxismo), la politica o la religione. Pertanto, quando Freund dice che la politica è un’essenza, significa che è solo un’essenza, cioè un’attività umana tra le altre come la religione, la morale o l’economia. Come sociologo, non vedeva l’esistenza umana solo da una prospettiva politica, ignorando queste altre attività. Non vedeva la politica come un fine in sé, ma come un’attività al servizio di altre aspirazioni umane (estetiche, religiose, metafisiche, ecc.), tornando così alla filosofia aristotelica.

La sua teoria politica si basa su una visione fondamentalmente conflittuale della società, secondo la quale essa è attraversata da tensioni e antagonismi tra le varie attività umane che nessuna razionalizzazione o utopia può superare definitivamente. Come Vilfredo Pareto (4), ritiene che l’ordine sociale si basi su un equilibrio più o meno sensibile tra queste forze antagoniste. Alcune forze tendono a stabilizzare l’ordine sociale, altre a destabilizzarlo e disorganizzarlo per stabilire un ordine migliore. L’equilibrio su cui poggia questo ordine non può mai trovare una soluzione definitiva, ma solo un compromesso; ed è proprio compito della politica mantenerlo, in particolare attraverso la coercizione. Per questo l’ordine politico è in gran parte determinato dall’interazione dialettica tra comando e obbedienza.

Un ostacolo insormontabile per uno Stato universale

Va sottolineato che, come ogni attività, la politica ha dei presupposti, cioè delle condizioni costitutive che la rendono ciò che è, e non qualcos’altro. Per Freund, questi presupposti sono tre: la relazione tra comando e obbedienza, la distinzione tra pubblico e privato e la distinzione tra amico e nemico (5). Tutti e tre questi presupposti riflettono le dinamiche conflittuali in atto nella società.

  1. Il rapporto di comando e obbedienza è il presupposto di base della politica ed è questo che la caratterizza veramente, in quanto introduce il rapporto gerarchico tra governanti e governati. Erede di Max Weber, Freund vede il comando come un fenomeno di potere. È questo potere a plasmare la volontà del gruppo e a garantire l’esistenza del dominio pubblico. Possiamo capire perché la teoria politica di Freund dia alla sovranità la sua piena dimensione politica, presentandola come un fenomeno di potere e di forza e non come un concetto essenzialmente giuridico. Tuttavia, Freund non fa del potere il fine della politica. Per lui, come per Hobbes, potere e protezione vanno di pari passo: il potere è al servizio della protezione della comunità, perché non dobbiamo dimenticare che lo scopo della politica è la sicurezza di fronte al mondo esterno e la concordia all’interno.
  2. La distinzione tra pubblico e privato è il presupposto che permette di delimitare ciò che è di competenza della politica, cioè ciò che riguarda l’ordine pubblico, e ciò che appartiene alla sfera privata e riguarda l’individuo e le relazioni interindividuali. Nella realtà storica, le cose non sono così nette. Inoltre, questo confine non è mai definitivo, poiché dipende dalla volontà politica, che in ultima analisi determina la quota di ciascuna sfera. Ciò che è certo è che la dialettica tra pubblico e privato esiste in ogni società politica. La storia dell’Occidente è caratterizzata da uno sforzo politico per estendere la sfera privata e garantire una serie di libertà fondamentali, mentre il totalitarismo, al contrario, è stato un gigantesco sforzo per cancellare la distinzione tra individuo e pubblico. Eppure il privato è indispensabile quanto il pubblico, nella misura in cui è il luogo delle innovazioni, delle trasformazioni e delle contestazioni. Qui troviamo la dinamica conflittuale che attraversa il lavoro di J. Freund. È la dialettica tra l’ordine pubblico e il ribollire della sfera privata che permette a una società di essere viva e di evolversi costantemente.
  3. Freund ha incorporato il criterio schmittiano della distinzione amico-nemico nella sua teoria politica, rendendolo non il criterio della politica, ma solo uno dei suoi tre presupposti. Questa distinzione non ha la stessa importanza esistenziale o metafisica che aveva per l’autore de La nozione di politica, ma il nemico rimane per Freund il fattore essenziale della politica: nonostante gli idealisti, per lui “non può esserci politica senza un nemico reale o virtuale” (6). Il vantaggio della distinzione amico-nemico è che non è solo simbolica, ma soprattutto concreta ed esistenziale, cioè eminentemente politica. Ciò significa che “la guerra è sempre latente, non perché sia un fine in sé o l’obiettivo della politica, ma come ultimo ricorso in una situazione senza speranza” (7).

Per Freund, la natura conflittuale della natura umana costituisce un ostacolo insormontabile alla costituzione di uno Stato universale. Per questo Freund adotta un approccio realista e sociologico alle relazioni internazionali che deve molto ai suoi maestri, Carl Schmitt e Raymond Aron. Pur ammettendo che le relazioni tra gli Stati si basano anche su scambi amichevoli, Freund osserva che esse si fondano sulla paura e sulla volontà di potenza, piuttosto che su basi giuridiche. Pertanto, a suo avviso, il diritto rimane subordinato agli interessi della politica. Era sospettoso nei confronti dell’atteggiamento moralistico di credere che le guerre potessero essere terminate con mezzi legali, eliminando allo stesso tempo ogni coercizione e violenza. A questo proposito, rimproverava ad alcuni giuristi di negare, in nome di un positivismo troppo stretto, l’esistenza della sovranità o di considerarla un concetto metafisico o filosofico.

In definitiva, se rileggiamo Freund oggi, notiamo che, per la maggior parte, la sua analisi “classica” delle relazioni internazionali non è invecchiata molto, nonostante il forte cambiamento seguito alla scomparsa dell’URSS nel 1991. Come osserva Pierre de Sénarclens, “nonostante lo sviluppo delle istituzioni intergovernative, delle reti di solidarietà transnazionali, dei processi di integrazione regionale e dei regimi di cooperazione settoriale, la politica internazionale mantiene le sue caratteristiche. Continua a svolgersi in un ambiente relativamente anarchico, caratterizzato da Stati di importanza molto diversa, le cui società rimangono culturalmente e politicamente eterogenee” (8). È quindi ancora caratterizzata dall’egemonia delle grandi potenze e dal “ripetersi di crisi e conflitti violenti che le Nazioni Unite o le organizzazioni internazionali non sono in grado di limitare o arbitrare” (9). La “pace di diritto” annunciata dall’Abbé de Saint-Pierre, da Kant [cfr. questo estratto] o da Habermas rimane un’utopia.

Non si può parlare della politica di Freund senza affrontare la questione del diritto, poiché queste due nozioni sono così consustanziali. Freund difende una concezione sociologica del diritto. Infatti, contrariamente ai positivisti, che lo considerano solo per se stesso, nella sua pura positività, Freund pensa che il diritto possa essere compreso solo nella sua relazione con le altre attività umane, e in particolare con la politica e la morale. Questo approccio sociologico lo ha portato a mettere in discussione il normativismo kelseniano, che ritiene che “il diritto sia un ordine di costrizione”, cioè che, in quanto diritto, porti in sé la costrizione. È vero che tale tesi è incompatibile con la nozione di essenza della politica. Se, come pensa Kelsen (10), il diritto è un insieme di norme che contiene in sé la costrizione, la politica è subordinata al giuridico ed è lo Stato che deriva dal diritto e non viceversa. Per l’autore de L’essenza della politica, il diritto è certamente normativo e prescrittivo, ma “non possiede in sé il potere di imporre o far rispettare ciò che prescrive” (11). La legge presuppone un’autorità (politica o gerocratica) che abbia il potere di coercizione e che esegua le sentenze. Non è concepibile senza una costrizione esterna, senza una volontà diversa da quella del giurista.

La volontà politica precede il diritto

Per Freund, il diritto non è quindi un’essenza, un’attività originale e autonoma dell’uomo. È soprattutto una dialettica (nel senso di una mediazione) tra politica e morale, cioè presuppone queste due essenze: la morale e la politica devono essere state date in precedenza perché possa sorgere la relazione giuridica. In altre parole, la politica e la morale sono le condizioni di possibilità della relazione giuridica. In generale, il diritto presuppone una volontà politica preesistente, cioè un’unità politica già formata (da questo punto di vista, è incoerente, ad esempio, parlare di Costituzione europea quando l’unità politica europea non è chiaramente definita). Ma il diritto non è solo un puro effetto della volontà politica. Ha anche un aspetto morale, poiché presuppone che la società riconosca prima “un certo ethos o valori, fini o aspirazioni che determinano la sua particolarità” (12). È la legge che iscrive questi valori e questi fini nell’ordine che regola.

Né la politica né la morale possono quindi fare a meno del diritto, che per sua natura si colloca nell’intervallo che permette alla politica di agire sulla morale e alla morale di agire sulla politica. In cambio, il diritto agisce anche sulla morale e sulla volontà politica; fornisce loro la disciplina, la legittimità delle istituzioni e conferisce durata e unità politica attraverso la sua organizzazione. Senza il diritto, non potrebbe esistere un’organizzazione politica duratura e la politica sarebbe solo una serie di decisioni arbitrarie.

Morale e politica non hanno lo stesso obiettivo

79115110.jpgLa filosofia di J. Freund permette di risolvere il dibattito sempre ricorrente tra morale e politica. Per lui non si tratta di eliminare la politica dal giudizio morale o di isolare queste due attività l’una dall’altra, ma solo di riconoscere che non sono identiche. La morale e la politica non mirano affatto allo stesso obiettivo: “La prima risponde a un’esigenza interiore e riguarda la rettitudine degli atti personali secondo le norme del dovere, con l’assunzione da parte di ciascuno della piena responsabilità della propria condotta. La politica, invece, risponde a una necessità della vita sociale, e chi la pratica intende partecipare alla presa in carico del destino di una comunità” (13). Aristotele lo aveva già annunciato distinguendo la virtù morale dell’uomo buono, che mira alla perfezione individuale, dalla virtù civica del cittadino, che è legata alla capacità di comandare e obbedire e mira alla salvezza della comunità (14). Sebbene sia auspicabile che il politico sia un uomo buono, può anche non esserlo, perché è responsabile della comunità politica indipendentemente dalla sua qualità morale.

Secondo Freund, l’identificazione tra morale e politica è addirittura una delle fonti del dispotismo e delle dittature (15). È un segno dell'”imperialismo del politico”, nel senso che il politico può invadere tutti i settori della vita umana, che caratterizza i totalitarismi. Come osserva Myriam Revault d’Allonnes, “tutto è politico”, cioè l’abolizione della distinzione tra ciò che è politico e ciò che non lo è, tra il privato e il pubblico, tra il politico e il sociale, significa che nulla è politico (16). La pluralità umana, condizione per la convivenza, è scomparsa.

Su questo tema, J. Freund ha tratto il meglio da Machiavelli. Egli si definisce un pensatore machiavellico, ma distingue tra i termini machiavellico e machiavellico. Il primo termine corrisponderebbe all’analisi teorica, il secondo alla pratica della politica: “Essere machiavellico significa adottare uno stile di pensiero teorico, senza concessioni alle commedie moraleggianti di alcun potere. Non è essere immorali, ma proprio cercare di determinare con il massimo acume possibile la natura del rapporto tra morale e politica […]; essere machiavellici, invece, è adottare una condotta pratica nel gioco politico concreto, che consiste in ‘generose scelleratezze’, inganni più o meno diabolici e manovre perverse” (17). Per quattro secoli il pensatore fiorentino è stato oggetto di interpretazioni diverse e contraddittorie, che riflettono in ultima analisi l’ambiguità del suo pensiero, che in realtà deriva dall’ambiguità insita nella politica stessa. È, come suggerisce Leo Strauss, un nemico del genere umano in combutta con Satana, o è, come pensa Rousseau, un cittadino buono e onesto che finge di dare lezioni ai re per darne al popolo?

 

La concordia

Senza voler sminuire la dottrina di Machiavelli, ma rifiutando le interpretazioni più machiavelliche, possiamo intendere il suo pensiero politico come un appello alla vigilanza e alla lucidità: una lucidità che sa che non potrà far scomparire la morte, la violenza, la malvagità umana, la divisione sociale e la corruzione delle cose; una vigilanza che richiede la costruzione di solidi baluardi, di un regime e di leggi che evitino gli eccessi. È qui che risiede la morale politica di Machiavelli: mantenere lo Stato, sostenere la forza della legge, prevenire il disordine e la violenza, preservare la pace senza la quale la vita comune è impossibile (18).

L’autore de Il Principe non nega i valori morali, ma si rifiuta di considerarli come l’unico criterio di giudizio per un uomo di Stato. La moralità del principe consiste nell’esercitare il suo ufficio politico al meglio delle sue possibilità. Sarebbe infedele a questa morale se, per preservare la propria integrità morale, permettesse alla sua città di sprofondare nel disordine e al suo popolo nell’angoscia. J. Freund riassume questa posizione dicendo che, per Machiavelli, “non esiste una politica morale, ma una morale della politica” (19). Il pensiero di Freund corrisponde a questa interpretazione. Anch’egli ritiene che “la politica non è il raggiungimento di un fine morale, ma il fine della politica, cioè la pace interiore e la sicurezza interiore, anche se ciò significa fare delle curve nella moralità personale” (20).

 

L’ideologia come sostituto della teologia

La grande lezione di Machiavelli è anche questa ricerca della verità effettuale, questa “verità effettiva della cosa”, che rifiuta di fare politica a partire da repubbliche immaginarie, concepite in sogno e che nessuno ha mai conosciuto. Questa diffidenza verso le utopie, questo attaccamento alla “verità effettiva” riflette anche il desiderio di marcare la distanza tra l’essere e il dover essere, tra l’ideale e ciò che è realizzabile, perché la ricerca dell’ideale a tutti i costi porta politicamente al fallimento e spesso alla violenza. Freund fa anche spesso riferimento al paradosso delle conseguenze di Max Weber, che spiega che in politica non basta avere intenzioni moralmente buone all’inizio, ma che bisogna evitare di fare scelte con conseguenze spiacevoli. Infatti, “è nell’azione che il politico dimostra di essere moralmente all’altezza del compito che gli è stato affidato” (21).

La distinzione di Freund tra politica e morale spiega la sua diffidenza verso le ideologie e le utopie (22). Il suo approccio machiavellico lo porta a considerare l’ideologia in modo paradossale. Da un lato, ne riconosce l’importanza in politica, non solo per il consolidamento del potere, ma anche come promessa e speranza, cioè come motore della politica. In assenza di una fede teologica, solo l’ideologia può permettere di affermare un’opinione in mezzo a molteplici opinioni e quindi di stabilire un ordine politico. L’ideologia avrebbe quindi un ruolo di sostituzione della teologia. Per questo Freund la descrive come una “razionalizzazione intellettuale della volontà politica” (23).

D’altra parte, la sua analisi realistica e scientifica, l’importanza che attribuisce al senso di responsabilità nella politica, incoraggiano la sua diffidenza. La politica ideologica gli appare come una politica “intellettualizzata”, che privilegia idee astratte, presumibilmente generose e umanistiche, ma lontane dalla realtà concreta della politica. Tale politica è pericolosa in quanto permette di giustificare filosoficamente certe violenze in nome di fini escatologici, promesse di pace o di giustizia… È ciò che Camus chiamava “violenza comoda”. L’ideologia pretende di raggiungere i fini ultimi senza preoccuparsi dei mezzi a disposizione. Meglio ancora, usa l’esaltazione di questi fini ultimi per mascherare il cinismo che presiede all’uso dei mezzi. È in questo senso che Freund parla di escatologia secolarizzata, nel senso che l’ideologia ci fa credere che i fini escatologici che la teologia proietta nell’aldilà sarebbero realizzabili qui sotto (24).

Per quanto riguarda le utopie, è il loro stesso spirito che si oppone alla nozione di essenza della politica. Le prime utopie non erano la negazione della politica, poiché, pur portando la speranza di una nuova società, riconoscevano la necessità di un’organizzazione della società. Ma le utopie moderne, soprattutto sotto l’influenza del marxismo, hanno assunto una dimensione antipolitica, allontanandosi dall’esperienza umana in nome di speculazioni immaginarie e fittizie sul futuro e credendo di poter trasformare radicalmente l’uomo attraverso le istituzioni. Tale convinzione implica la negazione della natura umana, e quindi il suo sacrificio. In quanto idea puramente astratta e distaccata dalla realtà, l’utopia è quindi esposta ai deliri dell’eccesso, del dispotismo e della tirannia. Immagina che sia possibile instaurare una società perfetta ed eliminare ogni conflitto eliminando ciò che considera negativo o malvagio. Antipolitica, si basa quindi sulla negazione dell’essenza e dei presupposti della politica, sull’ignoranza o sul rifiuto del “peso della natura umana”.

A questa concezione progressista, razionalista e, va detto, un po’ ingenua della società, J. Freund oppone la sua teoria delle essenze, che si basa sul riconoscimento della natura fondamentalmente conflittuale delle società storiche. Egli incoraggia anche la polemologia, lo studio dei conflitti, ritenendo che la sociologia non debba considerare la vita solo dal punto di vista del desiderio, cioè nei termini di una società immaginaria, ma che si debbano prendere in considerazione anche altre nozioni come la violenza o l’aggressione (25). Seguendo Simmel (26), egli considera il conflitto come un fenomeno sociale normale, nel senso che è un fenomeno consustanziale a qualsiasi società. Naturalmente, questa considerazione del conflitto determina un modo di intendere la società. Presuppone l’accettazione dell’idea (su cui si basa la teoria politica di Freund) che l’uomo viva naturalmente in società. Il conflitto, infatti, diventa sociologicamente intelligibile solo se si concepisce la società come un dato dell’esistenza umana e come un insieme di relazioni in permanente trasformazione, di cui il conflitto è uno dei fattori di modifica.

In conclusione, ci si può chiedere a quale corrente politica appartenga Freund. Se possiamo collocarlo, metodologicamente, nella linea degli autori “machiavellici” (27), possiamo concordare con Pierre-André Taguieff nel classificarlo politicamente (con tutte le precauzioni che questo tipo di classificazione merita) come “un liberale conservatore insoddisfatto” (28), tanto che “Freund accumulava nella sua persona due figure paradossali: quella di un liberale dotato di senso del nemico e quella di un conservatore che rifiuta il conservatorismo gretto dei “conservatori” patentati” (29).

 

► Bernard Quesnay, Elementi n°111, dicembre 2003.

 

♦ NOTE:

  1. Freund, L’essence du politique, Sirey, 1965, ripubblicato da Dalloz, 2003, 868 p., 45 €, postfazione di P.-A. Taguieff. Sebbene insista, a nostro avviso, un po’ troppo sul rapporto tra Schmitt e Freund e sulla nozione di nemico – a scapito di altre nozioni essenziali e di altri pensatori importanti per Freund -, l’importante postfazione di Taguieff presenta in modo esauriente e onesto il pensiero dell’autore, restituendo a quest’ultimo l’importanza che merita, collocandolo tra i grandi “educatori” e “illuminatori” del XX secolo, come Alain, Ricœur, Sorel, Valéry, Camus, Cioran, Péguy, Ellul o Aron…
  2. Freund, op. cit. p. IX.

Ibidem, p. 24.

Pareto, autore di un Trattato di sociologia generale (Droz, Ginevra, 1968), occupa un posto fondamentale nel pensiero di Freund, che gli ha dedicato un libro (Pareto. La théorie de l’équilibre, Seghers, coll. Philosophie, 1974). Oltre alla concezione dell’equilibrio sociale, Freund ereditò dal sociologo italiano l’idea generale che, al di là della forma (la politica), la sostanza (la politica) rimane costante; nonché una certa diffidenza nei confronti dei miti e delle utopie, illuminata dalla distinzione paretiana tra residui e derivazioni. Su Pareto, si veda anche G. Busino, Introduction à une histoire de la sociologie de Pareto; Cahiers V. Pareto, Droz, 1967; G.-H. Bousquet, Pareto, le savant et l’homme, Payot, 1960; Raymond Aron, Les étapes de la pensée sociologique, Gal., 1967).

  1. Freund, op. cit. p. 94.

Ibidem, p. 478.

Ibidem, p. 446.

  1. de Senarclens, Mondialisation, souveraineté et théorie des relations internationales, A. Colin, 1998, p. 202.

Ibidem, p. 202.

Hans Kelsen, Teoria pura del diritto, LGDJ, 1999, p. 64. Kelsen (1881-1973), autore di una Teoria pura del diritto (op. cit.) e della Teoria generale delle norme (PUF, 1996), è all’origine di una delle principali correnti del positivismo giuridico: il normativismo, secondo il quale il diritto è un insieme di norme, ciascuna delle quali deriva da una norma superiore, fino ad arrivare a una misteriosa “norma fondamentale”. Secondo questa teoria pura del diritto, è impossibile definire una norma giuridica in base al suo contenuto, ma solo in base alla sua appartenenza a un sistema di norme. Freund, seguendo Schmitt, si è spesso opposto a questa teoria, che porta a una totale identificazione tra diritto e Stato.

  1. Freund, Le droit aujourd’hui, PUF, 1972, p. 9.
  2. Freund, op. cit. p. 88.
  3. Freund, Qu’est-ce que la politique, prefazione, Seuil, 1968, ripubblicato nel 1978 e nel 1983, p. 6.

Aristotele, Politica, III, 4, 1276-b.

  1. Freund, Che cos’è la politica? op. cit. prefazione, p. 6.

Myriam Revault d’Allonnes, Le dépérissement de la politique. Généalogie d’un lieu commun, Aubier-Flammarion, 1999, p. 239.

L’essence du politique, op. cit. p. 818.

“Stabilire la pace significa riconoscere il diritto delle opinioni e degli interessi che non sono i nostri di esistere e di esprimersi. Se neghiamo loro questo diritto, abbiamo la guerra. La pace non è quindi l’abolizione del nemico, ma un accomodamento con lui; e non è nemmeno una sorta di riconoscimento, ma il riconoscimento del nemico”, sottolinea giustamente J. Freund: “La pace che esclude il nemico si chiama guerra”, in: Le Nouvel Âge. Éléments pour la théorie de la démocratie et de la paix, Marcel Rivière, 1970, p. 219.

  1. Freund, Politique et impolitique, Sirey, 1987, p. 243.

Ibidem, p. 243.

Ibidem, p. 244.

“È forse perché la violenza è profondamente radicata nell’uomo che l’utopismo vi ricorre. La violenza non eliminerà la violenza, nonostante l’utopismo. La natura umana pone un problema insolubile, da cui la perennità della metafisica”, J. Freund, Utopia e violenza, Marcel Rivière, 1978, p. 256.

  1. Freund, “L’idéologie chez Max Weber” in Revue européenne des sciences sociales, 1973, 30, p. 16.
  2. Freund, Politique et impolitique, op. cit. p. 17. Nello stesso senso, Aron ha parlato di “religioni secolari” e Schmitt di “concetti teologici secolarizzati”. Su questo tema si veda Jean-Claude Monod, La querelle de la sécularisation de Hegel à Blumenberg, Vrin, 2002, e Karl Löwith, Histoire et Salut, Gal. 2002 (commentato in Elements n. 108).

Ricordiamo che fondò la Facoltà di Scienze Sociali di Strasburgo e creò con Gaston Bouthoul l’Istituto di Polemologia e il Laboratorio di Sociologia Regionale.

Georg Simmel (1858-1918) è uno dei fondatori della sociologia moderna. È soprattutto colui che ha evidenziato il contributo dei conflitti nella vita sociale. La sociologia di Freund dimostra che per strutturare una società non è necessario eliminare tutti i conflitti, poiché anch’essi contribuiscono all’equilibrio sociale. Il suo lavoro ha ricevuto un rinnovato interesse negli ultimi dieci anni: cfr. Le conflit (Circé Poche). Le conflit (Circé Poche, 1995, pref. di J. Freund), Sociologies, Études sur les formes de socialisation (PUF, 1999), La tragédie de la culture et autres essais (Rivages Poche, 1993); su Simmel, si veda anche François Léger, La pensée de Georg Simmel. Contribution à l’histoire des idées au début du XXe siècle (Kimé, 1989, prefazione di J. Freund).

Il termine “machiavellico” è stato utilizzato a partire dal famoso libro di James Burnham, Les machiavéliens. Defenders of Liberty (Calmann-Lévy, 1949), per designare autori diversi come Machiavelli, Pareto, Weber, Schmitt, Mosca, Michels o anche Aron, che si impegnano in un’analisi “realistica” o “scientifica” della politica e sono sospettosi di qualsiasi idealismo.

Questa nozione di liberalismo conservatore, che rimane vaga, ma la cui idea centrale è quella di erigere uno Stato politico forte e autonomo che preservi le libertà degli individui in una società civile liberale, permette di collocare Freund nella linea di Weber, Schmitt, Pareto e Hayek (cfr. Renato Cristi, Le libéralis. Renato Cristi, Le libéralisme conservateur, Trois essais sur Schmitt, Hayek et Hegel, Kimé, 1993).

P-A Taguieff, postfazione alla riedizione de L’essenza della politica, op. cit.

 

 

Da leggere:

Omaggi a J.F.

  1. Freund (AdB, 2008)

Conversazione con J. Freund (P. Bérard)

Il testo di Freund sulla decisione

La negazione del nemico

elementi editoriali n° 105

3 recensioni (Revue française de science politique)

 

 

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L’opera controversa di Julien Freund fa luce sulla tendenza alla depoliticizzazione delle nostre società

Un filosofo contro l’angelismo

medium13.jpgJulien Freund aveva iniziato la sua tesi su L’essenza della politica (1) con Jean Hyppolite. Dopo qualche tempo, gli inviò le prime cento pagine per la revisione. Jean Hyppolite, preoccupato, gli fissò immediatamente un appuntamento al Balzar. Aveva avuto cura di invitare anche Canguilhem. Si trattava di revocare la tesi: “Sono socialista e pacifista”, disse Hyppolite a Freund. “Non posso dirigere una tesi alla Sorbona in cui si afferma che non c’è politica se non quando c’è un nemico”. Freund, stupito e deluso, scrisse a Raymond Aron per chiedergli di dirigere la tesi che aveva iniziato, e lui accettò. Anni dopo, venne il momento della difesa e Jean Hyppolite era nella giuria. Egli rivolse a Freund un discorso severo: “Sulla questione della categoria di amico-nemico, se lei ha davvero ragione, posso solo andare a coltivare il mio giardino”. Freund si difese con coraggio: “Lei crede, come tutti i pacifisti, che sia lei a designare il nemico. Ma è il nemico che designa voi. Se vuole che tu sia suo nemico, lo sei, e ti impedirà persino di coltivare il tuo giardino”. Hyppolite si alzò sulla sedia: “In questo caso”, disse, “non mi resta che uccidermi”.

Questa storia, autentica fino all’ultimo dettaglio, è significativa per la vita di Julien Freund. È un uomo che viene ostracizzato per idee alle quali i suoi avversari finiranno per arrendersi, ma dopo la sua morte.

La descrizione del rapporto amico-nemico come base irriducibile della politica dell’epoca sembra una provocazione, indigna l’establishment clericale regnante e pone Freund ai margini della società in un modo che sembra definitivo. Sostenendo che non c’è politica senza riconoscimento del nemico, Freund vuole forse la guerra? Questo è sufficiente per definirlo un fascista.

 

Freund è vissuto nell’epoca del trionfo del pensiero marxista. Ma è un figlio di Aristotele. Non crede che gli intellettuali e i politici possano rigenerare l’umanità. Cerca ciò che è: cos’è l’uomo? Che cos’è una società umana? È interessato alla realtà e se ne stupisce, un atteggiamento filosofico. Come è fatto il mondo umano? È una diversità in movimento. Una pluralità di culture. Non potremmo ridurre questa pluralità generatrice di conflitti, sradicarla? Questo è ciò che spera il marxismo. Freund crede in questa possibilità, ma al prezzo della peggiore schiavitù. Allora perché dovremmo accettare la diversità che porta la guerra in mezzo a noi? Perché l’umanità è incapace di rispondere una volta per tutte, e con una sola parola finita, alle domande che la tormentano. Pluralità significa pluralità di interpretazioni. Solo un oppressore può ridurla.

Il conflitto è il correlato della diversità di pensiero e della particolarità di ogni cultura. La politica, nel senso ampio di governo, è l’organizzazione di una società particolare che, attraverso la sua cultura, fornisce risposte specifiche alle domande che tutti gli uomini si pongono, e quindi si scontra con altre risposte diverse e altrettanto specifiche. La politica in senso stretto del governo europeo, inventato dai greci, significa quell’organizzazione che accetta i dibattiti di interpretazione all’interno di una società e di una cultura.

A metà del XX secolo, in un’epoca in cui le ideologie danno per scontato che “tutto è possibile” per quanto riguarda l’uomo, Freund sviluppa una riflessione antropologica e ripercorre le storture della condizione umana, da cui emerge chiaramente che non tutto è possibile impunemente. E impedisce il volo di Icaro verso regioni eteree popolate da angeli e sature di azzurro.

Non ha mai accettato critiche sulla sua ammirazione per il pensiero di Carl Schmitt. I suoi detrattori erano, secondo un’espressione ormai consolidata, antifascisti ma non antitotalitari, e inoltre ritenevano naturale ammirare Heidegger. Queste ipocrisie lo facevano scoppiare in una risata squillante e in una rabbia fulminante. Aveva un innegabile talento pedagogico, una passione per la trasmissione disinteressata: lo studente meno accademico, che portava avanti la sua tesi di laurea al di fuori del percorso ufficiale, lo consigliava con la stessa cura con cui si portava dietro grandi aspettative. Questo talento per l’insegnamento lo portava al pubblico più semplice, e le organizzazioni contadine sapevano che non avrebbe rifiutato alcuna lezione.

 

Come altri, ammiravo in lui un modo di pensare capace di accettare coraggiosamente la realtà umana in un momento in cui tante grandi menti la stavano fuggendo nella folle speranza di diventare dei. La vita di alcune persone sarebbe stata più tranquilla se non lo avessero incontrato, perché questo era ciò che traspariva dal suo modo di affrontare l’ostile mondo delle idee: costi quel che costi, uno spirito libero non si arrende.

Chantal Delsol, Le Figaro (19 febbraio 2004).

(1) Le Edizioni Dalloz stanno ripubblicando questo capolavoro, con una postfazione di P.-A. Taguieff (L’Essence du politique, 867 p. 45 €).

 

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Morale e politica

In effetti, la morale e la politica non hanno affatto lo stesso obiettivo. La prima risponde a un’esigenza interiore e riguarda la rettitudine degli atti personali secondo le norme del dovere, con l’assunzione da parte di ciascuno della piena responsabilità della propria condotta. La politica, invece, risponde a un’esigenza della vita sociale e chi si impegna su questa strada intende partecipare alla gestione del destino globale di una comunità. Già Aristotele distingueva tra la virtù morale dell’uomo buono, che mira alla perfezione individuale, cioè alla realizzazione di sé, e la virtù civica del cittadino, che riguarda la capacità di comandare e obbedire e la salvezza della comunità. (…) In altre parole, la politica si occupa della comunità in quanto tale, indipendentemente dalla qualità morale e dalla vocazione personale dei suoi membri (…) Questa distinzione classica è ancora valida, nonostante le ideologie che cercano di asservire gli individui all’epifania della giustizia e dell’uguaglianza sociale o all’ordine morale che promettono per un futuro indeterminato. L’identificazione tra morale e politica è addirittura una delle fonti del dispotismo e delle dittature.

Julien Freund, Qu’est-ce que la politique? 1965, Points Seuil, prefazione, p. 6.

 

Legge e forza:

In generale, la vita politica è posta sotto il segno della costrizione, che è la manifestazione specifica della forza pubblica senza la quale non solo non esisterebbe l’ordine, ma nemmeno lo Stato. Poiché tutto lo Stato è coercizione, poiché si basa sul presupposto del comando e dell’obbedienza, la forza è inevitabilmente il mezzo essenziale della politica e appartiene alla sua essenza. Ciò non significa, tuttavia, che essa costituisca l’intera unità politica, né che sia l’unico mezzo della sua autorità, perché lo Stato è anche un’organizzazione giuridica, soprattutto oggi che, sotto l’influenza della crescente razionalizzazione della vita in generale, la legalità tende a moderare gli interventi diretti della forza. Tuttavia, per quanto capitalistica possa essere la razionalizzazione legalistica nelle società moderne, quando un conflitto sorge all’interno di un sistema di legalità e gli oppositori rifiutano di scendere a compromessi, non resta che la forza come ultima risorsa. Non che la forza sia fine a se stessa o che lo Stato esista solo per applicare la forza fine a se stessa; essa è al servizio dell’ordine e del rispetto della morale, dei costumi, delle istituzioni, delle norme e delle altre strutture giuridiche. Certamente, non può esserci concordia senza regole, convenzioni o leggi comuni e valide per tutti i membri, e quindi non c’è ordine senza legge (di qualsiasi natura essa sia: consuetudinaria o scritta). Lo Stato appare quindi come lo strumento per la manifestazione del diritto, sia sancendo le consuetudini esistenti sia promulgando nuove leggi. Tuttavia, senza la coercizione e la possibilità di applicare sanzioni a coloro che violano le prescrizioni e le leggi, l’ordine non potrebbe essere mantenuto a lungo.

Julien Freund, Che cos’è la politica, 1965, Points Seuil, pp. 128-129.

 

Il significato della patria

Va bene ironizzare sul concetto di patria e concepire l’umanità in modo anarchico e astratto come composta unicamente da individui isolati che aspirano a un’unica libertà personale, ma la patria è una realtà sociale concreta, che introduce l’omogeneità e il senso di collaborazione tra gli uomini. È addirittura una delle fonti essenziali del dinamismo collettivo, della stabilità e della continuità di un’unità politica nel tempo. Senza di essa, non c’è né potere né grandezza né gloria, ma nemmeno solidarietà tra coloro che vivono sullo stesso territorio. Non possiamo quindi dire con Voltaire, nell’articolo Patrie del suo Dictionnaire philosophique, che “desiderare la grandezza del proprio Paese è augurare il male ai propri vicini”. In effetti, se il patriottismo è un sentimento umano normale come la pietà familiare, qualsiasi uomo ragionevole può facilmente capire che uno straniero può provare lo stesso sentimento. Così come non si può dedurre dalla persistenza dei crimini passionali che l’amore sia inutile, non si possono usare certi abusi di sciovinismo come pretesto per denigrare il patriottismo. È addirittura una forma di giustizia morale. A. Comte vedeva giustamente nella patria la mediazione tra la forma più immediata di raggruppamento, la famiglia, e la forma più universale di comunità, l’umanità. La ragione di ciò è il particolarismo insito nella politica. Nella misura in cui la patria cessa di essere una realtà viva, la società decade, non come alcuni credono a favore della libertà dell’individuo, né come altri credono a favore dell’umanità; una comunità politica che non è più una patria per i suoi membri cessa di essere difesa e cade più o meno rapidamente sotto la dipendenza di un’altra unità politica. Dove non c’è una patria, i mercenari o gli stranieri diventano i padroni. Senza dubbio dobbiamo la nostra patria al caso della nascita, ma è un caso che ci libera da altri.

Julien Freund, L’essenza della politica

http://vouloir.hautetfort.com/archive/2007/05/26/eajf.html?fbclid=IwAR1sMHW_22wUDgESqp8RkTTL7FKRHndgfFYw4Kuea3GIEUE79yavKNQ_TK4

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Capire cosa sta succedendo in Francia, di Aurelien

Articolo interessante, ma con una breve chiosa. Il movimento dei “Gilet Gialli” non era promosso e organizzato da organizzazioni politiche o politico-sindacali, ma aveva agganci importanti con centri di apparati statali, specie militari. L’attuale movimento è diretto, al momento, dalle tradizionali organizzazioni sindacali; le sue dimensioni e il livello di insoddisfazione potranno spingerlo facilmente fuori dai recinti canonici della protesta, senza intravedere offerte alternative visibili di organizzazione politica. Giuseppe Germinario

https://aurelien2022.substack.com/p/understanding-whats-happening-in?utm_source=post-email-title&publication_id=841976&post_id=109974339&isFreemail=true&utm_medium=email

Capire cosa sta succedendo in Francia.

In seguito potrebbe venire la fase cinetica

di Aurelien 23 marzo 2023

Quasi sicuramente avrete letto o visto qualcosa sul caos politico che regna attualmente in Francia. Non è solo importante in sé, ma anche come potenziale indicatore di ciò che potrebbe accadere in altri Paesi. Ecco come capire cosa sta succedendo: la situazione non è semplice, ma questa spiegazione include le cose che di solito vengono tralasciate.

 

Per cominciare, qual è il problema più grande che la Francia deve affrontare in questo momento? Si potrebbe pensare all’inflazione, al forte aumento del costo dei generi alimentari e al vertiginoso aumento del prezzo del carburante che costringe alcuni ristoranti e negozi a chiudere e rende sempre più difficile per le persone stare al caldo. Si potrebbe pensare alla disoccupazione, alla povertà, alle fabbriche che chiudono, ai posti di lavoro inviati all’estero, alla corruzione nella vita politica a tutti i livelli, agli effetti dell’immigrazione incontrollata, al declino catastrofico del sistema educativo e al collasso del servizio sanitario. Oh, e si potrebbero includere il riscaldamento globale, i continui effetti del Covid e le conseguenze della guerra in Ucraina.

 

Naturalmente non è un elenco completo, ma per ora è sufficiente. Quindi, tra tutti questi, qual è l’argomento o gli argomenti principali del Presidente francese Emmanuel Macron? Cosa lo tiene sveglio di notte e su quale argomento è pronto a giocarsi la reputazione e persino la sopravvivenza politica?

 

Se siete stati attenti, saprete che la risposta corretta è “nessuno dei precedenti”. L’ossessione di Macron, da ben prima della sua seconda incoronazione nel 2022, è stata quella di far aspettare i francesi più poveri diversi anni in più prima di poter riscuotere la pensione.

 

Data l’acrimonia, il conflitto e persino la violenza che questa proposta ha già provocato, nonché la crisi politica che si sta sviluppando anche mentre scrivo questo articolo, vale la pena cercare di spiegare non solo quali sono le questioni a breve termine, non solo come siamo arrivati a questo punto, ma anche quali potrebbero essere le conseguenze: perché ciò che sta accadendo oggi in Francia potrebbe accadere domani dalle vostre parti.

 

Cominciamo quindi con un po’ di storia. La crisi politica della Francia di oggi è il prodotto di un sistema politico che è ormai in disfunzione terminale, e probabilmente è vero che se la causa immediata non fossero state le pensioni, ci sarebbe stata un’altra causa.

La politica in Francia dalla Rivoluzione in poi è stata tradizionalmente binaria e dualistica. Prima repubblicani contro monarchici; poi, all’interno della confraternita repubblicana, liberali contro socialisti; all’interno del socialismo, marxisti contro non marxisti. E dal trionfo dei principi repubblicani dopo la Seconda Guerra Mondiale, la divisione fondamentale è stata “Sinistra” contro “Destra”. C’erano famiglie con una lunga tradizione di voto per il Partito Comunista, per esempio, e altre per i socialisti, e c’erano organizzazioni intermedie come i sindacati, esplicitamente legate a un partito o all’altro. La Chiesa aveva legami con alcuni partiti di destra. Ma i partiti politici francesi cambiano, declinano, muoiono, rinascono altrove, si dividono e a volte si uniscono, cambiando continuamente nome, ed è per questo che qui parlo di gruppi piuttosto che di nomi. Un francese anziano di oggi, se glielo chiedessimo, probabilmente direbbe semplicemente “sono di sinistra” o “sono di destra”. L’esatto partito per cui ha votato dipenderebbe dalle circostanze del momento.

 

La politica francese è altamente personalizzata e la maggior parte dei “partiti” sono in pratica raccolte di fazioni. Ad esempio, il “partito” di Macron all’Assemblea nazionale è in realtà una coalizione di diversi gruppi, noti collettivamente (almeno questa settimana) come “Ensemble”. Il partito di Macron, “Renaissance”, inizialmente battezzato “En Marche” dalle sue iniziali, poi successivamente “La République en Marche”, si è unito a “Horizons”, un partito guidato da Eduard Philippe, un rifugiato dalla destra che è stato il suo primo Primo Ministro, e a un paio di altri partiti del centro-destra. Non c’è nulla di strano in questo: la consistente maggioranza che i socialisti avevano nel 2012 derivava da un raggruppamento di tutta una serie di partiti, alcuni grandi, altri piccoli.

 

Ciò ha due conseguenze che potrebbero non essere ovvie per l’osservatore casuale. In primo luogo, se i partiti della stessa parte dello spettro politico si oppongono l’uno all’altro al primo turno di un’elezione, possono effettivamente impedirsi a vicenda di qualificarsi per il secondo. È quello che è successo nel 2002, quando la disunione del Centro e della Sinistra ha fatto sì che Jean-Marie Le Pen del Fronte Nazionale arrivasse al secondo turno, precedendo di poco il candidato socialista Lionel Jospin. In secondo luogo, poiché i partiti sono, in ultima istanza, coalizioni, possono essere fragili e i loro membri possono cambiare affiliazione. (Jean-Yves Le Drian, ministro della Difesa nel governo di Hollande del 2012, è stato eletto come socialista nel 2017, ma è passato rapidamente a Macron, diventando il suo ministro degli Esteri).

 

Fino a circa una generazione fa, il sistema funzionava comunque abbastanza bene. Il primo turno vedeva una profusione di partiti ampiamente di sinistra o di destra, il secondo turno vedeva il partito che aveva fatto meglio in ogni raggruppamento portare avanti da solo lo stendardo. Questo non sempre funzionava – ad esempio nelle elezioni locali, notoriamente complicate – ma nel complesso, un sistema politico binario in una cultura binaria, di solito produceva un risultato chiaro. Più di recente, il sistema ha iniziato a rompersi e Macron è sia il risultato che l’agente del suo ulteriore declino.

 

Il caso della sinistra è quello più noto e meglio compreso. Il potente Partito Comunista Francese, che era una sorta di governo parallelo in alcune parti del Paese e che poteva contare fino al 20% dei voti nelle elezioni presidenziali e legislative degli anni Cinquanta, si è ridotto quasi a nulla (meno di 50.000 membri secondo l’ultimo conteggio). I socialisti, che avrebbero potuto raccogliere questo voto, hanno invece voltato le spalle e si sono trasformati in un partito vagamente socialmente progressista della classe media urbana. Tuttavia, fino a un decennio fa, mantenevano un sostegno istintivo tradizionale e, quando nel 2012 Nicolas Sarkozy, in preda agli scandali, cercò di farsi rieleggere, il poco carismatico François Hollande, di fronte a una campagna di allarme rosso di dimensioni e cattiveria mai viste dagli anni Ottanta, riuscì a strappare una vittoria. A quel punto, i socialisti controllavano la presidenza, avevano preso il controllo dell’Assemblea nazionale e dominavano la scena del governo locale. La loro vittoria era completa e avrebbero potuto fare qualsiasi cosa. Non hanno fatto nulla. La maggior parte del tempo di Hollande è stata impiegata per gestire faticosamente la sua fragile alleanza e per lanciare ossi a vari gruppi di interesse sotto forma di legislazione sociale. La nemesi è arrivata nel 2017, quando il candidato socialista alla presidenza è stato eliminato al primo turno con il 5% dei voti, e la nemesi ha riservato un secondo calcio nelle palle per le elezioni del 2022, quando il candidato non è riuscito a raggiungere nemmeno il 2%. La “sinistra” nell’Assemblea Nazionale è ora un gruppo instabile di partiti con circa il 20% dei seggi, e con poca identità comune.

Questo per quanto riguarda la sinistra. La storia della destra è semmai ancora più complicata (qui una versione semplificata, che non sembra avere una traduzione in inglese) e i “Droites”, come gli studiosi francesi preferiscono chiamarli, hanno incluso tutto, dai neo-monarchici ai cristiano-democratici ai liberali di stile anglosassone, passando per decine di altre tendenze. Dopo lo shock dell’ingresso di Le Pen al secondo turno nel 2002, ci sono stati tentativi di unificare la destra in Francia, per evitare che accadesse lo stesso a loro. Questo tentativo è riuscito in parte con la creazione dell’UMP nel 2002, ma le differenze politiche e le velenose animosità personali che hanno sempre caratterizzato la destra hanno reso il tutto difficile da sostenere, e anche la destra tradizionale ha subito un declino, solo non così pubblico.

 

Nel 2017, la corruzione e il cinismo degli anni di Sarkozy e l’abissale fallimento della presidenza Hollande avevano prodotto uno stato d’animo di impazienza e rabbia nei confronti della classe politica che non si era mai visto prima durante la Quinta Repubblica. Ora, la tendenza normale della politica francese potrebbe essere descritta come una dialettica incompiuta: dalla tesi all’antitesi, di nuovo alla tesi, con poca sintesi. Di conseguenza, i cambiamenti nella vita politica francese tendono a essere bruschi e discontinui quando si verificano. Quindi, in circostanze normali, la destra si sarebbe aspettata di tornare al potere nel 2017, e in effetti è quasi successo. Le ragioni per cui non è successo hanno molto a che fare con le origini della crisi attuale.

 

Gran parte dell’elettorato francese si è sentita esclusa. L’implosione dei socialisti ha fatto sì che gran parte del sostegno della classe operaia andasse a Marine Le Pen, il cui partito, il Fronte Nazionale (ora Assemblea Nazionale), è meglio inteso semplicemente come l’unico partito in Francia che parla di cose importanti per la gente comune, a prescindere da ciò che si pensa delle sue politiche in merito. Ciò significa anche che il suo sostegno alla classe media ha disertato verso i Verdi o verso l’irregolare Jean-Luc Mélenchon, e spesso ha vacillato tra i due. A destra, alcuni elettori sono stati tentati dalla Le Pen, altri hanno deciso di non votare affatto. È in questo panorama politico confuso e diviso che è entrato Emmanuel Macron.

 

Retrospettivamente, i commentatori più pigri hanno parlato di Macron che ha “conquistato” il potere. La realtà è stata ben diversa. Con enormi quantità di denaro e la maggioranza dei media alle sue spalle, era il candidato di protesta delle classi medie, come Le Pen era il candidato di protesta delle classi popolari. Con la sinistra per lo più fuori dai giochi e con la Le Pen di fatto ineleggibile, il vero obiettivo di Macron era quello di arrivare al secondo turno davanti al candidato della destra, François Fillon, dopo di che si sarebbe assicurato la vittoria contro la Le Pen. Normalmente, Fillon avrebbe battuto la sfida di Macron e sarebbe diventato Presidente, ma è rimasto invischiato in una sordida indagine per corruzione, nella quale è stato infine condannato. Questo gli è costato quei pochi punti percentuali che hanno permesso a Macron di spuntarla e di ottenere una vittoria scontata contro Le Pen, anche se l’affluenza alle urne è stata bassa per gli standard francesi e l’entusiasmo per lui è stato scarso.

 

C’erano molti francesi disposti a dare una possibilità a Macron. Certo, era un puro prodotto dell’establishment francese, ma d’altra parte non era una figura affermata della classe politica, ampiamente disprezzata. Ma la gente si è disillusa molto rapidamente di fronte a un giovane tecnocrate inesperto, che ha annaspato e sembrava avere poca idea della vita e dei problemi della gente comune. L’esplosione di protesta che è diventata nota come l’episodio dei Gilets jaunes nel 2018/19 era diretta non solo contro Macron personalmente, ma contro un intero establishment globalizzato, anglicizzato, liberale e benpensante, che distrugge posti di lavoro e di cui Macron, nonostante le sue proteste, era un rappresentante quasi caricaturale.

 

Al potere, e con un partito creato a sua immagine e somiglianza, Macron ha cercato di distruggere qualsiasi opposizione offrendo posti di lavoro a politici di destra e di sinistra per staccarli dai loro partiti e indebolirli. Lentamente, come un buco nero, ha iniziato ad attirare verso di sé gran parte della politica francese.

 

Macron è sopravvissuto ai Gilets jaunes, come è sopravvissuto al Covid. L’anno scorso, in corsa per la rielezione, la sua piattaforma consisteva nel non essere la Le Pen e la sua strategia consisteva nell’assicurarsi di combattere il secondo turno contro di lei. La sinistra tradizionale era ancora a pezzi e la destra tradizionale era stata gravemente indebolita. Le elezioni presidenziali del 2022 furono quindi una lotta tra tre candidati (Le Pen, Macron e Mélenchon) che sostenevano di essere “fuori” dal sistema. Macron ha vinto contro Le Pen (anche se non di tanto come nel 2017): avrebbe battuto anche Mélenchon se quest’ultimo fosse riuscito a recuperare i pochi punti percentuali di distacco da Le Pen. Il confronto al secondo turno tra Le Pen e Macron è stato un confronto che la grande maggioranza degli elettori francesi ha detto di non volere. L’hanno ottenuto comunque, a causa della debolezza del sistema politico francese e del vertiginoso declino dei partiti tradizionali.

 

L’ultimo tassello del puzzle è stato rappresentato dalle elezioni dell’Assemblea Nazionale del 2022, che hanno prodotto un risultato confuso in cui il partito di Macron era il più grande, ma non aveva la maggioranza. L’opposizione proveniva da contingenti ampiamente paritari della destra, dal partito della Le Pen e da un’alleanza elettorale di sinistra, ma non c’era un’unica opposizione unita.

 

Spero che questa carrellata (molto semplificata) della storia recente mostri l’estrema fragilità e disorganizzazione del sistema politico francese in questo momento. Il disgusto nei confronti dei partiti tradizionali non è necessariamente più forte in Francia che, ad esempio, negli Stati Uniti o nel Regno Unito, ma la mancanza di un forte sistema bipartitico lo rende molto più evidente. È un dato di fatto che, anche se si includono i Verdi, i partiti politici “tradizionali” in Francia riescono a raccogliere a malapena un quarto dei voti. Tra gli altri, Le Pen rimarrà per sempre fuori dal potere, l’instabile coalizione (più che partito) presieduta da Mélenchon non sopravviverà a lungo alla sua partenza e lo stesso partito di Macron non avrà futuro dopo la sua uscita dal potere nel 2027. Non c’è alcun segno di rinascita della sinistra, e la destra è divisa e sempre più debole, stretta tra il sostegno ideologico a molte delle idee più brutte di Macron da un lato, e la paura di essere data per scontata come una semplice appendice di Macron dall’altro.

 

C’è quindi un vuoto incolmabile dove dovrebbe esserci il sistema politico francese. Macron ha ereditato una pessima situazione politica e la lascerà in un campo di rovine. Un sistema politico e i suoi parassiti mediatici che per vent’anni hanno predicato la necessità di creare un “fuoco di sbarramento” contro la Le Pen hanno ora escogitato una situazione in cui nel 2027 lei guiderà l’unico partito unito e disciplinato del Paese con la possibilità di prendere il potere. Un’astuzia, questa. E in effetti, mentre la destra ha litigato pubblicamente e le tattiche parlamentari del partito di Mélenchon hanno alienato molti elettori, il partito della Le Pen è stato un modello di discrezione e di buona condotta negli ultimi mesi.

 

Quindi il sistema politico francese rischia di crollare da qui al 2027, anche senza la “riforma” delle pensioni.  I parlamentari di Macron cominceranno presto a farsi prendere dal panico, perché si renderanno conto che nel 2027 potrebbero rimanere senza lavoro. Nessuno ha idea di cosa faranno a quel punto. La destra andrà incontro a un declino terminale, a meno che non riesca a differenziarsi da Macron, ma questo significa votare contro cose come la “riforma” delle pensioni, che in realtà sostengono. Se il sistema attuale sopravvive fino al 2027, il risultato più probabile è una nuova Assemblea nazionale in cui il partito di Le Pen è il gruppo più numeroso, ma non ha la maggioranza, e si trova di fronte a un numero di gruppi che va da cinque a dieci e che non hanno nulla che li unisca. In una parola, il caos. Chi vincerà le elezioni presidenziali è semplicemente impossibile da dire.

 

Con i problemi strutturali che ho brevemente delineato e tutte le altre difficoltà sociali, economiche e internazionali che ho menzionato all’inizio, il sistema francese è in grave difficoltà e non ha bisogno di iniziative molto controverse e impopolari che peggiorano solo le cose. Ma è esattamente quello che è successo. Vediamo ora brevemente il fiasco delle pensioni e il suo significato.

In primo luogo, però, non si può negare che il sistema pensionistico francese sia un po’ un pasticcio. Come molte altre cose nel Paese, è cresciuto gradualmente nel corso delle generazioni ed è confuso sia da usare che da gestire. Tutto dipende dai settori in cui si è lavorato e da chi ci paga e quando. La maggior parte dei francesi ha almeno due pensioni, e quattro sono abbastanza comuni. Se avete lavorato per alcuni anni nel settore privato prima di diventare insegnanti e, parallelamente, avete lavorato come tutor privati per alcuni anni, potreste averne sei. Per certi versi (come nel caso della gradita introduzione della tassazione del reddito alla fonte un paio di anni fa) si sarebbe potuta realizzare un’iniziativa ragionevole e di basso profilo, che avrebbe riscosso un certo successo e che avrebbe potuto essere gestita da un ministro junior un po’ sfigato.

 

Invece, fin dall’inizio della sua carriera, Macron è ossessionato dall’idea di far aspettare di più le persone per ricevere la pensione: l’età attuale è di 62 anni (da 60 prima del 2010) e la sua intenzione originaria era di portarla a 65 anni. Ma poiché il gruppo parlamentare di Macron non ha la maggioranza, è stato costretto a cedere alla destra e a ridurre l’età a 64 anni. E da allora, ci sono state una serie di altre concessioni su punti di dettaglio che possiamo tralasciare in questa sede. Ma nonostante ciò, con ostinazione donnesca, contro l’opposizione di tre quarti della nazione e nonostante le preoccupazioni dei suoi stessi sostenitori, nonostante otto giorni di scioperi e manifestazioni, Macron è andato avanti, ricorrendo infine a una misura costituzionale per approvare le leggi necessarie senza un voto, che avrebbe molto probabilmente perso. Al momento in cui scriviamo, in tutta la Francia sono in corso manifestazioni spontanee, occupazioni, blocchi e scioperi. Sorgono quindi due ovvie domande. Perché la gente è così preoccupata per questa misura e perché Macron si ostina a rispettarla? Vediamo di affrontarle una dopo l’altra.

 

In primo luogo, il governo non si è quasi mai degnato di difendere l’iniziativa. Si è parlato di persone che vivono più a lungo, di un numero inferiore di contribuenti ai regimi pensionistici e che comunque tutti gli altri lo fanno. Ma questo è tutto. Il governo sembra credere che la gente comune sia troppo stupida per capire la necessità della “riforma”, che per loro e i loro sostenitori è evidente.  Le pensioni sono solo un’altra voce di spesa pubblica, e un governo che sta elargendo soldi a pioggia all’Ucraina e che ha dichiarato che avrebbe speso “tutto il necessario” per sconfiggere il Covid non è certo nella posizione di negare una pensione dignitosa a chi ha lavorato tutta la vita.

 

Inoltre, le “riforme” prendono essenzialmente di mira i poveri. Avvocati, politici, amministratori delegati, medici, giornalisti, banchieri… queste persone non hanno fretta di andare in pensione. Ma infermieri, autisti di mezzi pesanti, assistenti, braccianti agricoli, operai edili, raccoglitori di rifiuti… queste persone sono logorate dal lavoro manuale come non mai e non vedono l’ora di andare in pensione. In effetti, una delle ironie della situazione è che la misura non farà risparmiare molto denaro, perché molte persone della classe operaia di circa 60-62 anni sono disoccupate (poiché i giovani sono meno costosi da assumere) o percepiscono un sussidio di invalidità a lungo termine, logorati da una vita di lavoro. Proprio oggi un rapporto ha evidenziato il significativo aumento dei decessi precoci e delle invalidità di lunga durata nell’ultimo decennio, quando l’età pensionabile è stata portata a 62 anni. E poiché nessuno ha ancora capito come la misura possa effettivamente aumentare il numero totale di posti di lavoro disponibili, il risultato sarà un aumento della disoccupazione giovanile. Ma i giovani non votano.

 

È per questo motivo che l’iniziativa non riguarda e non è intesa a far “lavorare più a lungo” le persone. Si tratta piuttosto di farle aspettare più a lungo per riscuotere la pensione nella speranza, brutale, che muoiano. Cosa fare con una popolazione sempre più anziana e sempre più confinata in istituti è un problema che nessun governo francese ha ancora affrontato, quindi perché non aiutarli a morire prima, riducendo così le dimensioni del problema?

L’arroganza e la brutalità di questa misura, infine, sono solo l’ultima di una lunga serie di aggressioni al popolo francese, da parte di un Presidente che disprezza apertamente i francesi, il loro Paese, la loro storia e la loro cultura, e che considera l’essere Presidente della Francia solo un’altra casella da spuntare nel suo percorso per diventare Presidente dell’Europa, o altro. Come l’aumento delle tasse sul carburante nel 2018 è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, scatenando la rabbia che ha dato il via ai Gilets jaunes, così questa iniziativa inutile e provocatoria, unita all’atteggiamento sprezzante del governo nei confronti dell’opinione pubblica e all’uso spudorato di espedienti procedurali per far passare la legge necessaria in Parlamento, ha fatto precipitare la Francia in una protesta furiosa e sempre più casuale e disorganizzata – un punto su cui tornerò. Dopotutto, la legittimità di un governo in Francia si basa storicamente su molto di più di un semplice risultato elettorale.

 

Ora, qualsiasi governo normale, razionale e politicamente accorto, di fronte a questo livello di resistenza da parte degli elettori, e ai dubbi persino dei suoi stessi sostenitori, e su una questione francamente marginale, avrebbe detto: “Va bene, facciamo qualcos’altro”. Ma Macron (ed è lui in persona) ha fatto passare la misura, sfidando persino il Parlamento. Che cosa sta succedendo?

 

Innanzitutto, Macron è un individuo debole, con uno scarso senso della politica e molto distaccato dalla vita comune. È un rappresentante di una nuova generazione di politici, con una mentalità tecnocratica ma con pochissime conoscenze tecniche, per i quali le cariche politiche di alto livello sono solo un altro lavoro sul proprio curriculum, che porta denaro e status, e le possibilità di trarne profitto in seguito. In Macron c’è poco o nulla del tradizionale Presidente francese: fa i rumori obbligatori, ma il suo disprezzo per i suoi concittadini non è nemmeno molto mascherato. Come la maggior parte dei suoi simili, non si aspettava di dover affrontare problemi politici autentici e tradizionali, e non ha la minima idea di come farlo. La sua performance personale durante il Covid, ad esempio, è stata pietosa, ma anche il suo tocco nelle crisi politiche in generale è stato scarso. Quindi ha deciso che questa questione, per quanto banale, è una di quelle su cui vincerà e dimostrerà chi è il capo. È un esercizio per apparire determinato e statista, e le cose sono arrivate a un punto tale che non può tirarsi indietro senza essere gravemente danneggiato politicamente. Avrebbe potuto ritirare la proposta di legge quando è apparso chiaro che probabilmente non sarebbe stata approvata dall’Assemblea Nazionale, il che sarebbe stata la cosa più sensata e professionale da fare. Invece ha usato i poteri speciali per far passare il provvedimento, peggiorando così la situazione.

 

D’altra parte, questo è un problema che Macron, in un certo senso, capisce: il tipo di scenario che gli hanno insegnato quando era all’ENA vent’anni fa, il tipo di cose che i consulenti di gestione pensano di saper gestire. Tagliare, risparmiare, far soffrire e morire inutilmente, aiutare i ricchi e danneggiare i poveri, obbedire ad astruse superstizioni economiche: è tutto lì. Non richiede alcuna conoscenza o comprensione specialistica e non presenta la complessità intellettuale e le sfide della maggior parte degli altri problemi che il Paese deve affrontare.

 

E a differenza di molti altri problemi, questo è interamente francese. Non c’è una dimensione internazionale, non ci sono sviluppi improvvisi che sfuggono al controllo francese, non ci sono trattati e accordi internazionali, non ci sono alleati di cui preoccuparsi, non ci sono questioni veramente difficili e complesse, non ci sono posizioni di altri Paesi che devono essere prese in considerazione, ma solo alcuni modi intelligenti di presentare i numeri per far sembrare che ci sia un problema. Come sempre in politica, è più facile e attraente affrontare problemi piccoli e facili che grandi e complessi. Dopotutto, si tratta di una questione su cui la “vittoria” è effettivamente possibile.

 

Quindi, a che punto siamo? I media hanno fatto un po’ di confusione e la situazione cambia ogni giorno, ma facciamo un passo indietro e guardiamo al quadro generale. In primo luogo, Macron (nella persona del suo Primo Ministro) si è avvalso di una disposizione della Costituzione francese per imporre leggi senza dibattito. Si tratta dell’articolo 49,3 della Costituzione, il famoso Quarante-neuf-trois. In pratica, consente a un Primo Ministro di forzare l’approvazione di una legge, con la riserva che i partiti dell’opposizione possono presentare una mozione di censura; se questa mozione ha successo, il governo deve dimettersi e, naturalmente, la legge decade. Ma ci sono alcune sfumature qui, quindi rimanete con me.

In primo luogo, l’articolo stesso è stato redatto, come gran parte della Costituzione della Quinta Repubblica, come reazione alla Quarta. Quella Repubblica (1946-58) era ultraparlamentare e molto divisa, e i governi avevano spesso enormi problemi a far approvare le leggi. Un governo che non riusciva a far approvare la legge di bilancio, ad esempio, non aveva altra scelta che dimettersi. Questo portò a un’instabilità senza fine e i redattori della Costituzione della Quinta Repubblica erano determinati a evitare che si ripetesse. In realtà, il Quarante-neuf-trois è stato utilizzato solo occasionalmente sotto la Quinta Repubblica, perché la maggior parte dei governi aveva comunque una maggioranza stabile. Ma nell’attuale stato caotico dell’Assemblea Nazionale, il Primo Ministro vi ha già fatto ricorso quasi una dozzina di volte, anche pochi giorni fa. E come spesso accade in Francia, la soluzione è diventata più impopolare del problema iniziale, con comprensibili proteste per il comportamento autoritario di un governo senza maggioranza. Il governo ha vinto questo recente voto di sfiducia, ma solo per un pelo, ed è difficile credere che possa ripetere lo stesso trucco per molte altre volte.

 

Detto questo, i risultati della perdita di un voto di fiducia non sono così drammatici. Per cominciare, non ha alcun effetto sulla posizione di Macron, poiché il bersaglio è il governo, non il Presidente. È possibile (appena) sbarazzarsi di un Presidente sotto la Quinta Repubblica, ma non con questo metodo.  Salvo terremoti politici (ma vedi sotto), Macron è al sicuro fino al 2027. E non è nemmeno detto che ci siano necessariamente le elezioni. L’attuale Primo Ministro deve dimettersi e Macron dovrà trovarne uno nuovo per formare un nuovo governo. Si tratterà di una sconfitta, ma in gran parte simbolica, poiché qualsiasi futuro primo ministro sarà un altro burattino dell’Eliseo. Una singola sconfitta come questa sarebbe un grande imbarazzo politico. Se ci fossero più sconfitte di questo tipo, ci sarebbero pressioni per nuove elezioni, ma non è chiaro se qualcuno le voglia necessariamente: la maggior parte dei partiti ha più da perdere che da guadagnare.

 

C’è quindi una buona probabilità che le cose vadano avanti così ancora per qualche anno e che l’Assemblea Nazionale diventi sempre più caotica e meno rilevante. Ma questa è la Francia, dove c’è una venerabile tradizione di esprimere il malcontento nei confronti del governo nelle strade. Fino a poco tempo fa, l’umore nazionale, per quanto si potesse giudicare, era di rabbiosa rassegnazione. Settimane di manifestazioni e scioperi di massa non erano riuscite a smuovere il governo e sembrava che alla fine avrebbero fatto passare il provvedimento. Questo è in gran parte accaduto (anche se ci sono ancora alcuni trucchi procedurali da provare), ma la rabbia è ancora presente. Finora le cose sono state organizzate e pacifiche. I sindacati, per una volta, hanno lavorato insieme e ci sono stati solo pochi incidenti violenti. Ma i sindacati hanno ormai esaurito le armi: le manifestazioni di massa sono l’unica cosa che sanno fare e ci sono segnali di perdita di controllo a livello locale.

 

Negli ultimi giorni, sono aumentate le segnalazioni di scioperi improvvisati, assembramenti rabbiosi davanti agli edifici ufficiali, blocchi e persino sabotaggi. In diverse città tradizionalmente militanti, i sindacati locali hanno organizzato interruzioni dei trasporti. La spazzatura continua ad accumularsi nelle strade di Parigi. Le raffinerie di petrolio hanno smesso di funzionare per un po’ e gli autotrasportatori stanno parlando di usare tattiche di blocco: un paio di dozzine di camion, posizionati strategicamente nelle ore di punta, farebbero fermare la maggior parte delle città francesi. I tentativi del governo di rimuovere i blocchi hanno ulteriormente infiammato le tensioni.  È interessante il fatto che si cominci a muovere contro l’infrastruttura dello Stato stesso e dei suoi politici eletti.

 

Finora, i sindacati sembrano avere il controllo a livello locale; ma tutti vedono la possibilità di un ritorno della protesta in stile Gilets jaunes: organizzata localmente, senza una gerarchia fissa, in gran parte senza controllo o direzione e aperta alle infiltrazioni. Come in passato, la causa apparente sarà solo una tra le tante: stiamo assistendo all’inizio di un’esplosione di rabbia contro un sistema arrogante che si comporta in modo sempre più dittatoriale. E si può contare sul fatto che Macron peggiorerà la situazione, con una risposta affrettata e probabilmente sproporzionata.

 

La realtà è che lo Stato non è in grado di affrontare efficacemente una ripetizione del 2018/19. Anche in quel caso, la polizia si è ridotta in gran parte a stare a guardare la distruzione di proprietà, intervenendo solo quando la vita era minacciata. Non ce ne sono abbastanza e non possono essere ovunque. Questa volta l’atmosfera è più pesante, la rabbia probabilmente maggiore e la scelta degli obiettivi quasi infinita. Abbiamo già subito attacchi alle infrastrutture elettriche. Non si può proteggere tutto, e anche se si potesse, non si potrebbe proteggere nient’altro.

 

Le cose potrebbero quindi diventare decisamente cinetiche, in un Paese che ha la reputazione di avere una forma vigorosa e vivace di politica di strada. Sebbene il caso francese presenti delle specificità, la maggior parte delle ragioni di malcontento è anche internazionale. È interessante ipotizzare chi potrebbe essere il prossimo.

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Osservatorio sulla diplomazia: Crescono le tensioni in Occidente mentre si trascina la guerra brutale, di Connor Echols a cura di Roberto Buffagni

https://responsiblestatecraft.org/2023/03/10/diplomacy-watch-tensions-grow-in-west-as-brutal-war-drags-on/?mc_cid=0fd4e74627&mc_eid=f4f4f0ee08

Osservatorio sulla diplomazia: Crescono le tensioni in Occidente mentre si trascina la guerra brutale

La solidarietà dell’Occidente sembra incrinarsi mentre il conflitto in Ucraina entra nel suo secondo anno.

di Connor Echols

 

10 MARZO 2023

Quando la Russia ha invaso l’Ucraina, l’Occidente si è unito in una straordinaria dimostrazione di solidarietà. Decine di Paesi hanno inviato aiuti all’Ucraina nella speranza di rallentare almeno la marcia del Cremlino, aiutando Kiev a ribaltare le sorti del conflitto e a respingere Mosca nell’Ucraina orientale. Da allora si è arrivati a una situazione di stallo.

 

Mentre i leader occidentali si impegnano ancora ad aiutare Kiev “fino a quando sarà necessario“, il sostegno pubblico agli aiuti all’Ucraina ha iniziato a dividersi. In Europa, l’entusiasmo per le sanzioni forti è diminuito costantemente in molti Paesi chiave, tra cui Germania, Gran Bretagna e Francia.

 

Negli Stati Uniti, il sostegno dei repubblicani all’invio di qualsiasi tipo di aiuto finanziario all’Ucraina è crollato da quasi il 70% dello scorso aprile a meno del 40% di oggi, e “anche i democratici stanno mostrando un sostegno leggermente inferiore per alcuni tipi di aiuti rispetto all’anno scorso“, secondo l’Economist. (Si noti che Washington ha fornito più della metà degli aiuti totali all’Ucraina dall’anno scorso, molto più di qualsiasi altro Paese).

 

Queste tensioni sono esplose nella sfera pubblica all’inizio di questa settimana, quando l’ambasciatore della Germania negli Stati Uniti ha avuto un battibecco non proprio diplomatico su Twitter con il senatore J.D. Vance (R-Ohio), un politico emergente con un talento per il populismo.

 

Il comportamento della Germania in questa guerra è vergognoso, ed è un insulto ai nostri elettori il fatto che troppi repubblicani la assecondino“, ha twittato Vance, riferendosi alle preoccupazioni diffuse sul fatto che Berlino abbia promesso troppo e mantenuto poco rispetto all’impegno di modernizzare le proprie forze armate per affrontare meglio la Russia. “Tutte le loro promesse si sono trasformate in letame“.

L’ambasciatore tedesco Emily Haber ha risposto a Vance qualche giorno dopo. “Letame? Siamo il più grande fornitore di armi dell’#Ucraina nell’UE“, ha twittato Haber. “Le nostre importazioni di energia russa sono ridotte a zero. Un cambiamento strategico irreversibile, avvenuto quasi da un giorno all’altro“.

 

Abbiamo stanziato 100 miliardi di dollari in più per la difesa“, ha continuato. “Li spenderemo. Ma non si possono comprare carri armati da Costco“.

 

Vance non ha perso tempo a rispondere. “Se la vostra politica non fosse stata quella di dipendere dalla Russia per l’energia e di sottrarvi alle quote della NATO per due decenni, non avreste comprato carri armati da Aldi“, ha scritto. (Sebbene la NATO non abbia una “quota” ufficiale, i politici statunitensi da tempo spingono gli alleati a spendere almeno il 2% del PIL per la difesa). Con una mossa probabilmente ben consigliata, Haber ha scelto di lasciare la conversazione lì.

 

Nel frattempo, il mese scorso, alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, si è consumata un’altra spaccatura occidentale, secondo Stephen Walt, professore di Harvard e borsista non residente del Quincy Institute. In “Foreign Policy”, Walt ha notato “un abisso tra l’ottimismo espresso in pubblico dagli alti funzionari e le valutazioni più pessimistiche ascoltate in privato“.

 

Nonostante la retorica impetuosa dei discorsi pubblici, nessun funzionario che ha parlato con Walt si aspettava che l’Ucraina sarebbe stata in grado di riprendere tutto il suo territorio, e nessuno prevedeva che la guerra sarebbe finita presto. “La maggior parte delle persone con cui ho parlato si aspetta un continuo stallo, che forse porterà a un cessate il fuoco tra qualche mese“, ha scritto Walt.

 

La conclusione di Walt? “Gli aiuti occidentali all’Ucraina non mirano alla vittoria; pertanto, il vero obiettivo è mettere Kyiv in condizione di concludere un accordo favorevole quando sarà il momento“.

 

Ma, osserva, questo approccio comporta rischi significativi. “Se nel febbraio 2024 la guerra è ancora in una fase di stallo brutale e l’Ucraina viene distrutta, Biden dovrà affrontare pressioni per fare di più o per cercare un piano B“, ha scritto Walt. “Considerando ciò che ha promesso, qualsiasi cosa che non sia una vittoria completa sembrerà un fallimento“.

 

Altre notizie relative alla diplomazia:

 

– Il Dipartimento della Difesa sta impedendo agli Stati Uniti di condividere le prove delle atrocità russe con la Corte penale internazionale “perché teme di creare un precedente che potrebbe contribuire a spianare la strada per perseguire gli americani“, secondo il New York Times. La mossa mette il Pentagono in contrasto con il resto dell’amministrazione Biden e con molti membri del Congresso, che hanno dato il permesso speciale di condividere l’intelligence americana con la Corte nonostante Washington ne rifiuti la giurisdizione. Nell’ultima proposta di pace dell’Ucraina, il presidente Volodymyr Zelensky ha chiesto un tribunale speciale per processare i leader russi per numerosi presunti crimini di guerra. “Stiamo facendo tutto il possibile per garantire che la Corte penale internazionale riesca a punire i criminali di guerra russi“, ha dichiarato venerdì scorso Zelensky.

 

– Mercoledì scorso, il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha incontrato Zelensky a Kiev, dove i due hanno espresso il loro sostegno alla proroga dell’accordo sul grano del Mar Nero prima della scadenza del 18 marzo, secondo quanto riportato da Politico. “Oggi siamo interessati a garantire che non ci sia fame nel mondo”, ha detto Guterres dopo l’incontro. La nostra politica comune è quella di continuare a gestire il “corridoio del grano”“. Almeno 23 milioni di tonnellate di cereali ucraini e altri prodotti agricoli sono passati attraverso questo corridoio da quando la Russia e l’Ucraina hanno concordato l’accordo lo scorso agosto, secondo il Dipartimento di Stato.

 

– Funzionari statunitensi anonimi hanno dichiarato martedì al New York Times che, secondo “nuove informazioni“, un “gruppo filo-ucraino” senza legami apparenti con i vertici di Kiev, potrebbe aver compiuto l’attacco dello scorso anno ai gasdotti Nord Stream. Questa nuova teoria arriva dopo che il giornalista investigativo veterano Seymour Hersh ha attribuito la colpa agli Stati Uniti in un articolo dettagliato, scatenando un vortice di discussioni su chi fosse dietro l’attacco. Anche se il vero colpevole rimane poco chiaro, la prima teoria occidentale – che sosteneva che fosse stata la Russia a compiere l’attentato – sembra essere stata screditata.

 

– In una notevole inversione di tendenza, l’Ungheria intende sostenere la candidatura della Svezia all’adesione alla NATO dopo un incontro tra funzionari dei due Paesi, secondo quanto riportato da AP News. Una delegazione ungherese visiterà presto anche la Finlandia per colloqui su una potenziale adesione all’alleanza. Se l’Ungheria approverà entrambe le candidature, la Turchia diventerà l’unico Stato che impedirà ai Paesi scandinavi di entrare nella NATO, che può ammettere nuovi membri solo per consenso unanime.

– Martedì, il ministro degli Esteri cinese Qin Gang ha dichiarato che “il conflitto, le sanzioni e le pressioni non risolveranno il problema” in Ucraina e ha rinnovato l’appello del suo Paese ai colloqui di pace, secondo quanto riportato dalla Reuters. Qin si è anche scagliato contro i funzionari statunitensi per la promessa di “conseguenze” nel caso in cui Pechino scelga di inviare armi per sostenere lo sforzo bellico di Mosca. “La Cina non è parte della crisi e non ha fornito armi a nessuna delle parti in conflitto“, ha dichiarato. “Quindi su che base si parla di colpe, sanzioni e minacce contro la Cina?”.

 

Notizie dal Dipartimento di Stato americano:

 

In una conferenza stampa di martedì, il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price si è impegnato a ritenere la Russia responsabile di crimini di guerra. “La comunità internazionale, compresi gli Stati Uniti, farà tutto il possibile per assicurarsi che i responsabili, dal livello locale a quello politico, siano ritenuti responsabili di questi crimini di guerra e delle atrocità che abbiamo visto commettere“, ha dichiarato Price.

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