IL DESTINO DEGLI EUROPEI (1/2), di Pierluigi Fagan

Continuiamo ad alimentare i “” di Pierluigi Fagan, confidando in un proficuo dibattito. Tratto da https://pierluigifagan.wordpress.com/2018/02/01/il-destino-degli-europei-1-2/

IL DESTINO DEGLI EUROPEI. (1/2)

La definizione di “europei” è geo-storicamente, notoriamente, precaria. Ma, per quanto precaria come ogni definizioni di “popolo-nazione”, concetto che ha spesso bordi sfuggenti[1], ha senso in posizioni comparative. Si constata l’esistenza dell’europeo quando lo si mette accanto al non europeo. Al suo interno, il sistema europeo, risulta dotato di molti sottosistemi ognuno con all’interno un sottosistema che a sua volta ha un sottosistema e così via. Al secondo livello, dopo gli “europei” e prima di arrivare alle “nazioni”, si trovano le grandi famiglie storico-culturali che sono per lo meno quattro: gli europei del nord che includono anglosassoni, germani e scandinavi; gli europei del sud-ovest che includono francesi, iberici, italici e greci (i franchi erano popoli appartenenti sia a questo sistema ed in parte al precedente) detti “greco-latino-mediterranei”; gli europei del nord-est (polacchi, cechi, slovacchi, ungheresi e baltici) e quelli del sud-est i balcanici, bulgari e rumeni. Due di queste aree sono storicamente attratte dal fuori del sistema europeo: gli anglosassoni che hanno avuto storica propensione atlantica e comunque in generale “oceanica”; l’area del sud-est bulgara-rumena-moldava che è contigua all’Ucraina e quindi all’area ponto-russa e quella balcanica dove si mischiano popolazioni ortodosse (Montenegro, Macedonia, Serbia)  cattoliche (Slovenia e Croazia) e musulmane (Bosnia Erzegovina,  Albania), dove la dominazione ottomana ha lasciato impronte durevoli data una presenza in loco per più di cinque secoli.

Dopo lo shock di metà del Trecento (la Peste Nera), la storia degli europei si è sviluppata lungo cinque direttrici. La prima è stata un costante crescita demografica che è giunta a moltiplicatori significativi già da metà XIX secolo per poi assestarsi ed ultimamente ristagnare, se non ad  invertirsi. Nel frattempo, il resto del mondo è cresciuto molto di più per cui se ai primi del XX secolo, gli europei dominavano il mondo anche attingendo al loro peso (20% del mondo, circa), oggi questo peso si è di molto contratto (8%) e viepiù si contrarrà nell’immediato futuro. La seconda direttrice è stata quella che a partire dalla fine del XV secolo in Francia, Inghilterra, Spagna e Portogallo, si sono formati stati che manterranno fino ad oggi più o meno la loro dimensione nativa, arrivando ad omogeneizzare le loro popolazioni interne in “nazioni”. Da qui il significato originario, prettamente europeo,  di “Stato-nazione”, stati che tendono a coincidere con una popolazione che ha una sua relativa omogeneità storico-culturale. Ciò che appare abbastanza nitido nell’origine dello Stato-nazione europeo  nell’Europa occidentale del XV-XVI secolo, lo diventa molto meno mano a mano che ci spostiamo ad est. La terza direttrice è quella di una inversione tra ordinatori per la quale proprio a partire dalla pace di Augusta (1555) e poi Westfalia  (1648), si afferma sempre più l’ordinatore politico aristocratico-militare a scapito dell’ordine medioevale che includeva quello religioso che spesso sovra-ordinava tutti gli altri o comunque interferiva pesantemente. Ma a partire dalla successiva Gloriosa rivoluzione britannica (1688-89), si assiste anche da una modificazione interna all’ordinatore politico (e militare) che diventa sempre più un sistema binario con quello economico affiancando all’aristocrazia una nuova borghesiaprima commerciale, poi industriale e finanziaria. Ciò in ragione di un potente sviluppo della stessa attività economica, espansione il cui inizio si nota già da dopo la Peste Nera. La quarta direttrice accompagna le prime tre. Popolazione, Stati e loro ordinatori, soprattutto quelli economici e militari, si allacciano tra loro in una dinamica che se in parte porta ad una lunga sequenza di guerre europee interne, almeno sino al 1815, dall’altra porta ad una progressiva appropriazione del resto del mondo tramite colonie e poi imperi. L’ultima direttrice, la quinta, parte dalla conflittualità endemica in quel territorio europeo che sembra fatto apposta per produrre popolazioni diverse senza che nessuna di esse abbia mai potuto pensare di sottomettere tutte le altre realizzando una unità imperiale. Crollati i Romani, dopo Carlo Magno e forse Carlo V e dopo il penultimo grande tentativo di Napoleone (l’ultimo fu quello di Hitler), i britannici allora dominanti, sovraintendono una sorta di pace armata che dura quasi un secolo nel quale gli europei si dedicano per lo più alla conquista e consolidamento delle proprie colonie/imperi in accompagno ad una fase di crescita economico-materiale e di equilibrio di potenza nelle relazioni reciproche. L’esternalizzazione della concorrenza interna dona una pausa ma poi si torna a fare i conti in casa una volta affermatesi le sovranità dei tedeschi e degli italiani. Alla vigilia della prima guerra mondiale, l’Europa sembra assestata  in grandi partizioni che semplificano il governo della sua parte centro-orientale dove troviamo l’Impero tedesco, quello austro-ungarico e quello russo e null’altro. Ma tra la seconda metà del XIX secolo e il 1915, si creano anche i presupposti del disastro europeo. Gli europei torneranno imperterriti a scannarsi tra loro mentre il resto del mondo si emancipa dal loro dominio. Il sistema europeo non è più isolato o dominante il mondo come è stato nelle prime due lunghe fasi (antico-medioevo e moderno), il mondo circonda l’Europa e le pone la domanda su ciò che vorrà e potrà essere nel nuovo contesto[2]. Questa domanda esterna rivolta a tutte le nazioni e stati europei, si riflette sulla loro stessa consistenza e sulle loro dinamiche di relazione. Se lo Stato-nazione è stato l’attore della storia europea moderna, la successiva storia complessa nella quale siamo entrati, sembra porre seri limiti a questo sistema nato per adattarsi ad un diverso contesto.

Leggendo alcuni ragionamenti politici e strategici di questo ultimo secolo e mezzo, si nota che già verso la fine del XIX secolo, prima quindi dell’inizio della grande conflitto in due puntate che coinvolgerà l’intero mondo e produrrà tra gli 80-90 milioni di morti distruggendo tutti i presupposti di potenza degli europei (e gli stessi diritti di eccezionalità dei suoi fondamenti culturali) , si presentava una forte preoccupazione per una situazione-mondo che disegnava scenari nei quali l’Europa nel suo complesso, andava a perdere la sua centralità/dominio. Era una consapevolezza ancora appena intuita del fatto che tra Stati Uniti d’America, Russia, Giappone (e qualcuno, sopratutto dopo la prima guerra mondiale vedrà con preveggenza anche un nuovo massiccio attore: la Cina), il “mondo” non era più quello di una volta. Soprattutto non era più una massa informe che “chiamava” l’opera di partizione, dominio e sfruttamento da parte degli europei. Questa consapevolezza si rinforza all’indomani della prima guerra mondiale poiché già lì si può toccare con mano il sorpasso di potenza degli Stati Uniti d’America  rispetto alla Gran Bretagna in quel 1919 da cui inizia il “secolo americano”. Dalla Pan Europa del conte Coudenhove-Kalergi (1922)[3], al tramonto dell’Occidente di Spengler (1923)[4], alle più tarde riflessioni di Schmitt (1938-39)[5], nel mentre alcuni intelletti ragionano problematicamente sul rapporto tra stato interno al sub-continente ed il resto del mondo, le dinamiche competitive e il disequilibrio di potenza europeo portano alla seconda definitiva disgrazia, quel secondo conflitto che accelererà la verticale perdita di potenza del sistema europeo nel suo complesso. Anche il manifesto europeista di Ventotene (1941-1944)[6], parte sia dalla necessità di sedare la secolare coazione bellica degli europei, sia dalla necessità di prender atto che ormai le questioni non sono più solo quelle interne al sub-continente ma anche quelle del rapporto tra questo come sistema integrato ed il più vasto e problematico mondo, quel mondo “grande e terribile” di cui si accorge anche Gramsci. Da Kelergi a Spinelli, nessuno di questi progetti europeisti partiva dalle sole considerazioni economiche, partivano tutti da considerazioni storiche, culturali, politiche e geo-strategiche, parlare di Europa solo con le lenti economiche e monetarie è nevrosi tipicamente contemporanea.

Come si riflette nel pensiero questa tramontante condizione europea? Nel suo “Nazioni e nazionalismi dal 1780”, E. Hobsbawm [7]ci dà conto di un dibattito a più voci che sorse già nel XIX secolo che, rispetto alla consistenza degli stati, prendeva la forma di un vero e proprio principio indicatore: il “principio di taglia minima”. L’economista tedesco -per altro in linea di massima liberale (ma di buonsenso)- F. List (1841), aveva introdotto più generali considerazioni sulla dimensione e forma dei sistemi economici nazionali, anticipato in parte dall’economista canadese John Rae (1834) e prima ancora dal federalista americano Alexander Hamilton sulle relazioni tra nazione, stato ed economia. Di List, Hobsbawm, riferisce la convinzione che “… la nazione doveva possedere sufficiente estensione territoriale da formare una unità in grado di svilupparsi. Nel caso quindi non raggiungesse questa estensione non avrebbe giustificazione storica[8]. A questo dibattito prendevano parte dal Dictionnaire politique di Garnier-Pagès del 1834 che definiva “ridicola” la pretesa di sovranità di entità come il Portogallo ed il Belgio, a John Stuart Mill, Giuseppe Mazzini, Frederich Engels, il nazionalista economico irlandeseArthur Griffin. Senza un adeguato livello di popolazione e risorse, non era possibile dare al principio astratto di sovranità politica la concretezza di un adeguato sistema economico. Altresì, secondo List, i sistemi economici nazionali dovevano essere per molti versi “protetti” durante l’infanzia, prudentemente “semi-aperti” nell’adolescenza e definitivamente partecipanti a network libero-scambisti solo quando in grado di competere alla pari o giù di lì e sempre che avessero il peso per farlo. Lo seguiva il prussiano Gustav Cohn che confermava i vantaggi dei Gross-staaten riferendosi ai casi britannici e francesi, traendone addirittura una normativa di una futuro processo di costruzione progressiva di stati sempre più grandi, qualcosa di simile ai ragionamenti futuri di C. Schmitt sul Gross-raum. I termini Kleinstateerei (sistemi di mini-stati) o balcanizzazione perpetueranno in sintesi, questo auto-evidente giudizio di insufficienza per sovranità non in grado di partecipare ai sistemi mondiali che s’andavano formando, sia dal punto di vista della consistenza economica, finanziaria e valutaria, sia come poi si rivelerà plasticamente nei due conflitti, dal punto di vista militare. Ai primi del XX secolo , c’era anche una sottile polemica di molti europei (anche liberali) contro quel “diritto all’autodeterminazione dei popoli” (anche i più microscopici) concepito dal presidente americano Wilson, un idealista-astratto nel migliore dei casi, un furbo manipolatore del divide te impera secondo i più maligni.   Visto che i pensatori tedeschi sembrano i più convinti assertori di questa scalata alla potenza data da soglie minime di dimensioni, val bene ricordare che l’attuale Germania unita, è di circa un terzo più grande di Gran Bretagna, Francia ed Italia e nella speciale classifica di Stati per Pil, è superata dal Giappone che è quasi mezza volta più grande, dagli Stati Uniti che sono quattro volte più grandi, dalla Cina che è diciassette volte più grande mentre viene insidiata nel suo quarto posto, dall’India che ha proporzioni di poco inferiori alla Cina. Del resto, nello studio PWC[9] su i leader economici per Pil al 2050, la Germania, che è l’unico paese europeo previsto nella top ten è solo nona, sopravanzata da tutti paesi più grandi (tra cui le new entry Indonesia, Brasile, Russia e Messico). Quest’ultima considerazione porta  a sottolineare come il “principio di taglia minima”, essendo un principio relativo, se nel XIX secolo era relativo a gli stati europei tra loro, oggi e sempre più domani, lo sarà rispetto a ben diversi standard mondiali. La conformazione geo-storica dell’Europa non è affatto sintonica con lo standard che si andrà sempre più affermando sul pianeta e le sue parti avranno non poche difficoltà storico-culturali a passare dal riferimento sub continentale a quello mondiale. Nelle nostre culture sociali e politiche l’economia è dominante e l’argomento è dominato da una ideologia che non prende affatto in considerazione la dimensione degli stati, solo modelli astratti.

Su questo punto dimensionale c’è da segnalare che, lungo il Novecento, il resto del mondo è cresciuto prepotentemente di dimensione, contribuendo a quella iper-inflazione demografica per la quale da i 1.500 milioni di inizio secolo, siamo oggi arrivati ai 7.500 milioni e tra trenta anni ai 10.000 milioni di cui gli europei saranno un minima frazione (poco più o forse meno del 5%). Ma a questa discontinuità potente se ne aggiunge un’altra, quella per la quale soprattutto dal discorso di Deng Xiaoping sul “socialismo con caratteristiche cinesi” del 1982, già da poco prima o da poco dopo, l’intera Asia si è volta al sistema economico moderno formatosi in Europa già nel XVII-XVIII secolo, seguita più di recente da Sud America ed Africa. Naturalmente la globalizzazione ha ulteriormente potenziato questa crescita di volume e peso economico e finanziario del resto del mondo, ma questo si sarebbe comunque sviluppata magari accompagnato ad una più tipica internazionalizzazione[10]. I progetti sulle vie della seta cinesi, nonché le nuove istituzioni internazionali come l’AIIB o la SCO o i BRICS, in prospettiva l’imprescindibile sviluppo soprattutto dell’Africa , dicono che l’ambiente competitivo del’economia-mondo, si farà sempre più affollato. Proprio il declino del ruolo degli USA come supervisore e promotore del mercato mondiale che ormai va per conto suo, il loro trincerarsi verso una più realistica posizione di giocatore superpotente ma non più in grado di imporre standard di gioco mondiali a tutti, l’apertura quindi di un fase multipolare del tutto inedita a livello mondiale[11], fanno pensare ad un futuro ordine mondiale molto dinamico, in cui il peso e la potenza daranno le carte migliori in ogni tavolo di gioco, sia che si agisca, sia che si contrattino le regole sul come agire. Vale per l’economia, la finanza, le valute, la disciplina dei flussi migratori, le energie e materie prime, le questioni ambientali, lo sviluppo delle aree influenza, il mercato delle armi, gli ombrelli atomici, la crescita o la decrescita controllata, la politica economica, lo sviluppo delle nuove tecnologie, lo sviluppo tecno-scientifico in generale,  i rapporti tra civiltà e grandi credenze, il modello economico e quello sociale, nonché quello politico, nel cui campo si registra il declino delle forme post-belliche della democrazia rappresentativa occidentale. La “potenza” è classicamente definita dal rapporto tra volume economico e forza militare e la potenza è quella che serve per farsi largo nella oscura selva dei temi più sopra appena accennati. Questo è il mondo complesso che pone le domande a gli europei sulla loro organizzazione interna, la consistenza, la strategia di adattamento alle nuove condizioni che rendono obsoleto ogni riferimento al periodo moderno ormai terminato.

Il “principio di taglia minima” dice a gli Stati che oggi e viepiù domani dovranno fare i conti con la resilienza del proprio sistema economico nazionale, che significa anche in quali produzioni potranno essere autonomi se non esportatori e di quali esser dipendenti, cioè importatori più o meno obbligati, che significa anche di quale meta sistema che dalla R&S va in relazione con la capacità produttiva interna ci si dota, che significa anche con quale valuta si partecipa alla rete di scambi internazionali, che significa anche quale sovranità fiscale si ha in regime di libera circolazione dei capitali o scegliendo una minore libertà come ci si approvvigiona di capitali d’investimento, che vale per politiche di gestione degli scambi internazionali che non significa autarchia ma regolazione fine e selettiva delle aperture-chiusure in base all’ovvio principio di reciprocità, non trascurando i problemi di forza militare (anche solo difensiva), di peso nelle relazioni internazionali che sceglieranno gli standard dei modi di vita planetari (diritti sociali e del lavoro, ambiente, condizioni di lavoro, stile di vita). Tale principio di taglia minima è relativo, nel senso che va comparato alle taglie di coloro che s’individuano come competitor principali, dei differenti contesti in cui si è collocati ed è relativo anche nel senso che non per forzadobbiamo diventare tutti inquadrati in sistemi di 1,5 miliardi di persone come Cina ed India sembrano indicare.

Prima però di analizzare velocemente le eccezioni a questa freccia che sembra puntare a produrre una megafauna di soggetti più potenti, occorre ricordarci che i soggetti di cui stiamo parlando, i soli soggetti previsti da questo descrizione del mondo odierno e futuro, non sono soggetti vaghi. Vaghi sono tutti i sistemi che non hanno una intenzionalità politica direttiva del loro comportamento. Sistemi nebbiosi come quelle dell’Impero negriano, la “globalizzazione”, le “élite mondialiste”, le civiltà, il “mercato regolato dalla mano invisibile”, il “capitalismo apolide”, l’Occidente o l’Oriente o l’islam, Internet e le sue vaste diramazioni virtuali, tutte le organizzazioni formali ed informali sovranazionali, sono senz’altro sistemi, ma sistemi vaghi. Russia, Cina, Stati Uniti, India, Germania, Giappone ed i nuovi affluenti, non sono sistemi vaghi. La loro sovranità serve proprio a districarsi in questa rete piena di problemi e di opportunità che taglia orizzontalmente o diagonalmente la verticalità sovrana che dal problema o dall’opportunità porta all’intenzionalità, al fare scelte, a fare leggi, a mobilitare risorse, a fare piani e strategie, a metterle in pratiche ed a correggerle all’occorrenza. Lo Stato come un’entità politica sovrana, costituita da un territorio e da una popolazione che lo occupa, declinato in istituzioni, diritto, forza militare ed una specifica cultura, soggetto a problemi di vicinato, di relazione e scambi, Stato non aggettivato con nazione o moderno o democratico o capitalistico o quant’altro di carattere eurocentrico e recentista, esiste dalla nascita delle società complesse, or sono seimila anni fa. Imperi, città-Stato, regni, principati, comuni, federazioni (non confederazioni che sono semplici alleanze su base di trattato), califfati, sultanati, khanati, non importa quindi con qual spazio o forma giuridica a variabilità culturale li si intenda, sono Stati[12]. La storia e la logica non ci hanno sino ad oggi dato altro modo di intendere  le forme organizzate al completo livello di sovranità. Se non ci interessa la sovranità, possiamo ben perderci in post moderni sogni o incubi da fluttuazioni quantistiche tipo schiuma del falso vuoto, comunità che s’inseriscono in reti di reti acentriche magicamente autoregolate, finte sovranità formali comandate e strattonate dal diritto del più forte in qualcuno dei giochi orizzontali o diagonali (mercato, partecipazione ad alleanze miliari come complementi, varie forme di servitù o schiavitù volontaria), soggettività desideranti cosmopolite, metafore che vorrebbero assimilare il virtuale di Internet al reale del Mondo, ma a noi qui non interessa questo mondo del possibile per quanto improbabile. Vorremmo rimanere stretti ad un realismo concreto e quindi fare i conti con l’unica forma di individuazione conosciuta in questo contesto, lo Stato. Per quanto intersecato da altri sistemi, lo Stato è l’unità metodologica del discorso sull’ambiente in cui vivono ed agiscono i gruppi umani, famiglie, classi, popoli, civiltà, alternative non se ne vedono. Le potenti interferenze alla sovranità, che non vorremmo dar l’impressione qui si vogliano sottovalutare, esistono e sono proprio quelle che chiamano una sovranità dotata di autonomia e potenza, solo gli Stati forti potranno governare queste interferenze. Né gli USA, né la Cina, né la Russia, né l’India, né il Giappone sembrano soffrire di quella “crisi dello Stato” che potrebbe essere una sindrome europea peggiorata dalle forme che si stanno sviluppando nell’Unione, nel sistema-euro e dal nanismo degli Stati del sub-continente, in rapporto al ben diverso standard che si va affermando nel mondo grande.

Dicevamo che quello della taglia minima è un principio che sembra puntare a stati più grandi come standard di un mondo multipolare, demograficamente denso, saturo di soggetti in competizione, almeno per coloro che ambiscono ad alti livelli di autonomia. Sulla natura di questo mondo siamo ancora incerti in quanto non si è mai verificato nella storia del pianeta e si sta formando e definendo proprio ora. Altresì è del tutto impensato come si potrebbero formare questi stati più massivi visto che l’unico esempio storico che abbiamo sono le annessioni di tipo imperiale, quindi in forma coattiva, di cui è ben difficile immaginare un futuro storico in un mondo denso, affollato e competitivo[13]. Mondo denso, affollato e competitivo, è una descrizione che dice multipolare e multipolare porta con se il principio di equilibrio di potenza. L’equilibrio di potenza fa sì che tutti osservino tutti, non appena uno si sbilancia diventando più forte e minaccioso, molti altri si compattano per bilanciarne il peso. L’equilibrio di potenza in un sistema anarchico come quello mondiale, funge da principio auto-regolatore. Erroneamente l’accademia anglosassone che spadroneggia nella disciplina della Relazioni Internazionali ha ritenuto quello unipolare un ordine massimo, quello bipolare un ordine dinamico e quasi-stabile e l’ordine multipolare un disordine anarchico, al pari di coloro che ritenevano il governo dell’Uno quasi-divino, quello dei Pochi accettabile ma instabile e quello dei Molti l’inferno in terra. Come è evidente, questa è teologia politica, metafisica e pure scadente. Più è grande la massa da ordinare più questa si suddivide in sistemi (pianeti, sistemi solari, galassie, ammassi di galassie), sistemi plurali tra loro in interrelazione, tendono a formare reti e nodi/hub ed un hub è propriamente ciò che chiamiamo “polo”, tanti hub, tanti poli. Più grande e denso il sistema più hub ed articolazioni ci sono, questo indica la multidisciplinare cultura della complessità che taglia in orizzontale gli steccati disciplinari tra scienze dure, umane e sapere umanistico. Multipolare in un sistema denso e massivo, non sarà un sistema con poche superpotenze e qualche potenza regionale, ci saranno anche medie potenze, alleanze regionali, reti di cointeressenze, partecipazioni a tema nei network che uniranno stati più piccoli a quelli più grandi che fanno “hub” di un certo polo. Naturalmente, più potente sarà il nodo/hub, maggiore la sua sovranità, maggiore il suo grado di autonomia[14]. Tanta pluralità complessa, tendenzialmente autoregolata dal principio di equilibrio di potenza, potrà permettere la sovranità a Stati medio – piccoli, se sì a quali condizioni?

(1/2 segue qui )

[1] Il concetto di popolo o nazione è soggetto ad una doppia traenza, esaltante e critica. Di recente è stato ripubblicato il classico  di Benedict Anderson, Comunità immaginate, Laterza 2018, che noi abbiamo integrato col forse più ampio saggio di Hobsbawm sunazioni e nazionalismo che citeremo dopo e dal più vecchio ma sempre interessante, F. Chabod, L’idea di nazione, Laterza, 1961-2011”. Si tenga ben distinto il concetto di nazione da quello di nazionalismo, la nazione è un sistema, il nazionalismo ne è esaltazione ideologica, l’una non porta per forza all’altro. In breve, nell’ambito della storia europea, lo Stato del XVI secolo, si affermerebbe ancora su un concetto debole ed eterogeneo di nazione e sarebbe proprio la sua affermazione a mettere ordine e precisione nella definizione della nazione. Questo porta alcuni a dire che furono gli Stati a creare le nazioni, probabilmente per ragioni di opposizione dialettica a coloro i quali sostengono il contrario. In verità, sembrerebbero estreme tutte e due le posizioni. Se come pare, il Giuramento di Strasburgo che è del 842 d.C., contiene doppie formulazioni in proto-francese ed alto-tedesco antico, si deve conseguire che i due ceppi linguistici si formarono molto presto e si svilupparono all’interno di due areali che avevano buone ragioni geografiche per ritenersi relativamente omogenei e distinti. Ciò non porta a dire che alla nascita della moderna Francia, esistesse una compatta e del tutto omogenea comunità nazionale di “francesi” e certo l’istituzione dello Stato favorì la successiva omogeneizzazione, ma tutto ciò non vuol neanche dire che non esistessero caratteristiche storico-culturali di omogeneità relativa precedenti. Altresì, le ragioni che sostengono la definizione propria di nazione, sono molte e non sempre tutte presenti nell’analisi di questa o quella identità nazionale. Hobsbawm, sulla scorta anche di Anderson, ne conclude che nella misura in cui un gruppo umano si crede nazione, è una nazione, estremizzando forse un po’ troppo il lato soggettivo della questione. Personalmente, ritengo che quello di nazione sia un concetto dai bordi sfumati e dalla giustificazione variabile, ma che compare a fuoco e significante in comparazione: esistono francesi, italiani e spagnoli ed un francese non è un italiano che non è uno spagnolo che non è un francese. Ovviamente, le nazioni statalizzate possono avere nel loro territorio altre sub-nazioni, così come appartenere a sistemi di livello superiore (uno spagnolo è anche un ispanico, un latino, un europeo, un occidentale). “Bordi sfumati” significa anche che questi sistemi, ai loro confini difficili da tracciare con precisione, si mischiano con altri sistemi. Quale sia il popolo dei germani propriamente detti, ad esempio, è problema diverso dal domandarsi chi sono esattamente gli inglesi, la geografia e la storia che in essa si è ambientata, fa la differenza tra maggiore o minore precisione.

[2] Una visione generale dei processi europei si può rinvenire in vari libri di “grandi narrazioni storiche”, da Arrighi a Landes, da Bairoch a Braudel. Una, attenta proprio alle dinamiche di potenza nell’arco storico che va dal 1500 al 1987, è: P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, 1989-1999

[3] R. Caudenhove-Kalergi, Pan-Europa, il Cerchio, 2017

[4] O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente (varie edizioni, l’ultima è Longanesi 2008)

[5] C. Schmitt, Stato, Grande Spazio, Nomos, Adelphi, 2015

[6] A. Spinelli, E. Rossi, Il manifesto di Ventotene (varie edizioni, l’ultima è Mondadori 2017)

[7] Einaudi, 1991-2002

[8] p. 35

[9] https://www.pwc.com/gx/en/issues/economy/the-world-in-2050.html

[10] La differenza tra globalizzazione ed internazionalizzazione è poco notata. Essa è nella semantica, se la seconda è una rete tra nazioni, la prima non aspetta il formarsi di un sistema per tessitura tra le sue parti, impone un sistema unico a cui tutte le parti si iscrivono trovando istituzioni e norme valide per tutti. Scambiare la globalizzazione per il motore unico della crescita degli scambi commerciali tra stati è un errore, la globalizzazione ha inciso sulle forme, non ha creato il fenomeno. La confusione terminologica è propedeutica a quella mentale. Non è vero che siccome Trump rifiuta i trattati di libero scambio pluri-nazionali allora diventa nazionalista e porta gli USA a ritirarsi dal mondo, questa è voluta confusione mentale indotta. Trump ha solo detto che invece di trattati pluri-nazionali, lui ne vuole fare altrettanti one-to-one. Solo un facente finta di essere stupido può confondere le due cose. L’una modalità di commercio internazionale si affida alla mistica della mano invisibile, la seconda si affida al conto di bottega di entrate (export) ed uscite (import) valutando caso per caso, sia la reciprocità, sia il saldo finale.  “Magicamente”, dopo un anno di articoli scriteriati sull’argomento, recentemente a Davos, molti si sono accorti della differenza tra commercio sregolato e contrattato sulle singole partite. Poiché non possiamo pensare che all’Economist o Foreign Affaris siano davvero così stupidi, ne dobbiamo concludere che si tratta di guerre ideologiche che si disputano l’egemonia presso il vasto pubblico che non sa proprio di cosa si stia parlando e scodinzola come i cani di Pavlov al pronunciarsi dei propri vaghi concetti di riferimento “globalista”, “libertà”, “nazione”, “egoista”, “isolazionista”, “sovranista”, etc.

[11] Sistemi multipolari locali come nel Rinascimento italiano o in Europa nel secolo della pax britannica (il “Concerto” delle nazioni tra circa 1815-1914) possono costituire solo riferimenti vaghi. Entrambi furono sistemi in tutt’altra condizione demografica e di sviluppo e le loro dinamiche erano parte di un meno ampio contesto.

[12] Su una possibile archeologia della sovranità, sembra molto promettente l’ultima fatica congiunta di D. Graeber e Marshall Sahlins: https://haubooks.org/on-kings/

[13] Sul concetti di -impero- si veda l’indagine dello storico: H. Munkler, Imperi, il Mulino, 2008

[14] Autonomia non significa starsene per conto proprio, significa darsi la legge da sé, sottomettersi solo alla propria intenzione.

INTORNO AI FATTI DI MACERATA_ NON C’E’ PIU’ RELIGIONE?DIPENDE, di Roberto Buffagni

Non c’è più religione? Dipende.

Intorno ai fatti di Macerata

LA PARTICOLARE GESTIONE POLITICA DEI FATTI DI MACERATA, di Giuseppe Germinario

La giovanissima Pamela Mastropietro viene uccisa e smembrata a Macerata, pare dal criminale nigeriano Innocent Oseghale, in concorso con altro suo connazionale (identificato, non si sa perché non ancora arrestato). Immediatamente un giovane maceratese, Luca Traini, che pure non la conosce di persona, decide di vendicarla. Incensurato, con simpatie sommarie per l’estrema destra, candidato della Lega alle ultime elezioni comunali (zero voti),  in possesso di porto d’armi per uso sportivo (rilasciato dalla Questura in seguito a presentazione di certificato medico ASL attestante l’idoneità psicofisica[1], nonostante egli oggi dichiari d’essere “in cura da una sua amica psichiatra”) si propone di uccidere Oseghale. Ma Oseghale è protetto dalle FFOO, e Traini ripiega su una vendetta generica, una rappresaglia collettiva: sale in automobile e spara con la sua Glock a undici passanti neri, per fortuna senza ucciderne nessuno. Subito allertate, le FFOO lo cercano per ben due ore nella minuscola Macerata, senza trovarlo. Ci pensa Traini, a farsi trovare. Si avvolge in un tricolore e va ad attendere l’arresto-martirio, al quale non opporrà resistenza, sul monumento ai Caduti della Prima Guerra Mondiale. Il simbolismo del gesto è limpido: Traini si considera un eroe, che ha agito per difendere la patria e la stirpe italiana come i soldati che combatterono e morirono nella Grande Guerra. Sorpresa: pare che non pochi maceratesi siano d’accordo con Traini, a giudicare da quel che riferisce il suo avvocato Giancarlo Giulianelli: “Mi ferma la gente a Macerata per darmi messaggi di solidarietà nei confronti di Luca. E’ allarmante ma ci dà la misura di quello che sta succedendo.”[2]

“Non c’è più religione?” Dipende. Non c’è più la religione del Dio che dice “Misericordia io voglio e non sacrifici” (Mt 9 13): non c’è più il cristianesimo, che si è secolarizzato e tradotto (molto male) nel pensiero dominante progressista dei diritti umani e sociali e dell’accoglienza tous azimuts  per gli immigrati, un pensiero tanto dominante che l’ha fatto proprio persino il pontefice cattolico regnante; l’altro, il pontefice pensionato, ha le sue riserve ma sta ai giardinetti e se le tiene per sé.

Altre religioni, invece, ci sono eccome, e una di esse, antica, importante, diffusa nel mondo, a Macerata ha dato una prova di vigorosa esistenza in vita. E’ la religione del popolo Yoruba, al quale Karl Polanyi dedicò un bel libro, Il Dahomey e la tratta degli schiavi. Analisi di un’economia arcaica, Einaudi 1987[3]. Racconta Polanyi che il popolo yoruba viveva del commercio degli schiavi, inserendosi così nelle correnti del traffico interafricano. Per quei tempi, prima dell’arrivo dei bianchi, era la punta di lancia più avanzata dell’economia; i raziocinanti yoruba trattavano bene gli schiavi, per non far deperire la merce pregiata. Come molte religioni, per la verità tutte le religioni tranne le abramitiche[4], la religione yoruba contemplava il sacrificio umano.

La religione yoruba contemplava il sacrificio umano allora, e continua a contemplarlo anche oggi, anche se naturalmente lo proibiscono le legislazioni dei paesi in cui essa è praticata, tra i quali anzitutto la Nigeria. Per la religione yoruba, il benessere e la potenza degli dèi, gli orisha, dipendono dagli uomini.[5] Senza i sacrifici che gli uomini gli tributano, gli orisha si indeboliscono, si ammalano, cadono in depressione, si riducono a nulla.[6] Con il vettore degli schiavi, la religione yoruba si è diffusa nel mondo occidentale, e ibridandosi con elementi del cattolicesimo ha dato origine al candomblè brasiliano, al voodoo haitiano, alla santeria cubana.

Il sacrificio è al centro della religione yoruba. L’uomo sa di non essere solo, ma in comunione con forze divine, alle quali va offerto un sacrificio appropriato alla richiesta e all’occasione. Il sacrificio è il tramite di questa comunione. Si sacrifica per rendere grazie della buona fortuna e per propiziarsela, per sventare la collera divina, per cambiare situazioni spiacevoli, per difendersi dai nemici, per purificare una persona o una comunità in seguito all’infrazione di un tabù. A seconda delle circostanze e dello scopo, si sacrificano oggetti personali, piante, animali. In speciali circostanze, si sacrifica un essere umano. Come è consueto in tutto il mondo, la vittima sacrificale umana viene trattata con il massimo rispetto: ben nutrita, ne vengono esauditi tutti i desideri tranne la vita e la libertà. Se il sacrificio ha scopo riparatorio o espiatorio, la vittima viene condotta in parata lungo le vie della città mentre la popolazione prega per il perdono dei peccati. Il capro espiatorio porta con sé i peccati, la sfortuna e la morte di tutti, senza eccezione. Lo si cosparge di cenere per velare la sua identità di individuo, e il popolo lo tocca per trasferire su di lui tutti i propri mali, fisici e morali. Condotto sul luogo del sacrificio, egli canta la sua ultima canzone, che viene ripresa dagli astanti. La testa viene recisa, il sangue offerto agli dèi.[7]

Molto curiosa la somiglianza tra la religione yoruba e il luogo comune sociologico, o il moderno senso comune ateo, secondo il quale ogni religione è creazione puramente umana, rispondente al bisogno di rassicurazione contro la precarietà e i mali dell’esistenza. La dimensione pratica è in effetti prevalente, nella religione yoruba: in una civiltà cristiana, la si chiamerebbe magia, piuttosto che religione; perché la magia si propone appunto lo scopo pratico di influenzare o asservire forze numinose, per mezzo di rituali e incantesimi.

Come d’altronde la nostra (ex nostra) religione, anche la religione yoruba può secolarizzarsi e trascriversi in pratiche e persuasioni che le somigliano e ne derivano, senza essere espressamente e autenticamente religiose. Per esempio, negli omicidi rituali: molto interessante l’articolo di Patrick Egdobor Igbinova, accademico nigeriano, sugli omicidi rituali in Nigeria.[8] Sempre come avviene, o avveniva, per la nostra ex religione, anche la religione yoruba può influenzare le forme di rappresentazione, a livello artistico o commerciale. Wole Soyinka, ad esempio, il premio Nobel di origini nigeriane, quando ha voluto adattare per la scena un testo della classicità occidentale ha scelto Le baccanti di Euripide, che narra lo sparagmòs, o smembramento sacrificale del re Penteo per mano delle Baccanti, le donne invasate dal dio Dioniso.[9] A livello commerciale, è istruttivo apprendere che da quando in Nigeria c’è stato un afflusso importante di migranti dell’etnia Igbo, assai affezionati alla religione yoruba, il settore industriale degli home movies ha conosciuto una tumultuosa espansione. La trama fissa degli home movies di maggior successo è la seguente: rituali di sacrificio umano generano affermazione sociale, ricchezza, benessere. Certo: l’ autore del sacrificio è presentato come un cattivo, e alla fine della storia viene sconfitto. Però intanto la ricchezza, il successo e il piacere li ha raggiunti proprio grazie ai sacrifici umani che ha praticato.[10]

E’ stato un sacrificio umano con tutti i crismi, l’omicidio con smembramento di Pamela Mastropietro? Non lo so, non credo. E’ stato un omicidio rituale? Non lo so, credo di sì. E’ un pazzo, il criminale nigeriano che l’ha uccisa? Una specie di Jack lo Squartatore africano? Non credo proprio. E’ sicuramente un criminale (pregiudicato, spacciatore di droga, probabilmente membro della mafia nigeriana), ma non vedo perché dovrebbe essere un pazzo. Le modalità dell’omicidio corrispondono a una corrente, antica e profonda, della sua cultura. A quanto pare sinora, lo smembramento non è stato operato per facilitare il trasporto del cadavere, ma a scopo rituale: ma il rituale di smembramento ha uno scopo utilitario, esattamente come smembrare il corpo per farlo stare in valigia. Almeno questo aspetto utilitario dovremmo essere in grado di capirlo anche noi progressisti, che giudichiamo e comprendiamo tutto in chiave di economia, utilità e profitto. C’è molta differenza tra fare a pezzi il cadavere di Pamela per celebrare un rituale inteso ad accrescere il proprio successo e benessere, e fare a pezzi il cadavere dei feti abortiti per venderlo alle industrie biotecnologiche, come fa abitualmente Planned Parenthood? A me francamente non pare. Forse la differenza è che secondo noi progressisti, il rituale africano non funziona? Ma non è affatto detto. Il rituale africano può funzionare benissimo, per esempio per sviluppare la fiducia in sé e la forza del celebrante, per cementare l’intesa del gruppo, per incutere un salutare timore ai nemici, etc. E poi si possono fare soldi con entrambe le pratiche, no?

Concludo rivolgendomi al lettore, in special modo al lettore progressista, allo “hypocrite lecteur, mon semblable, mon frére”.[11]

Rifletti un momento, caro lettore. Giustamente ti ripeti che bisogna comprendere l’Altro, e io sono più che d’accordo con te. L’assassino nigeriano è un uomo, un uomo come te e me, capace di bene e di male come lo siamo tu ed io. Ha anche una sua cultura, radicata nella religione come tutte le culture – persino la tua, nonostante a te la religione non parli più – e questa cultura informa dal profondo sia il bene, sia il male che compie quest’uomo: pensieri, sentimenti, sogni, emozioni, punti di vista, amori, odi, azioni, passioni… E’ così, e non può essere che così, perché è un uomo, e nessun uomo si può ridurre ai moventi più superficiali ed evidenti dei suoi atti. Ora, rifletti: ti sembra facile, o almeno possibile, “integrare” questa cultura, questo uomo? Basterebbe mandarlo a scuola e insegnargli l’italiano, dargli un posto di lavoro decente, il diritto di voto, l’automobile, il 730 dell’Agenzia delle Entrate?

“Ma questo è un criminale,” mi ribatterai tu. “E tutti gli onesti nigeriani, che…etc., etc.”. Vero. Senz’altro vero. Ma secondo te, gli onesti nigeriani comprendono meglio te, o lui, il disonesto nigeriano, l’assassino rituale? A chi si sentono più prossimi? E tu, li capisci, i nigeriani? Onesti o disonesti che siano, come onesti o disonesti siamo noi, a volte indossando la stessa identità anagrafica nell’onestà e nella disonestà? Pensaci.

Pensaci, riflettici, parlane tra te e te, se parlarne con me o con altri ti mette a disagio. Sei sicuro che con tutte queste premure, con tutta questa accoglienza e assistenza, il disonesto nigeriano e gli onesti nigeriani diventerebbero come te, come noi? E se invece fossimo noi, a diventare come lui, come loro? Ci hai mai pensato? E se Luca Traini, il fragile balordo Luca Traini che si è autoinvestito di una missione sacra, la missione di placare col sangue i Mani della fanciulla appartenente alla sua tribù e alla sua stirpe, barbaramente trucidata dal membro di altra tribù, di altra stirpe, e ha simboleggiato la sacralità del suo gesto con i suoi poveri mezzi di bordo – la paccottiglia neonazi, il tricolore-sudario, il Monumento ai Caduti –  se Luca Traini fosse uno di noi che diventa come uno di loro? Un italiano criminale che si sforza di somigliare il più possibile al nigeriano criminale, e ci riesce piuttosto bene? Ci hai mai pensato? Prova. Pensaci. Prova a pensare, a valutare l’ipotesi che il fascismo e l’antifascismo non c’entrino proprio niente. O meglio: c’entrano, nel cuore di Luca Traini, perché da molti decenni le parole sacre “patria” e “stirpe” sono state rinchiuse nella gabbia-ghetto-cordone sanitario della parola “fascismo”.  Non do la colpa a te, per tante ragioni è andata così. Però, vedi: volere o volare, fascismo o antifascismo, patria e stirpe sono pur sempre parole sacre. Restano parole, parole come le altre, finché non accade qualcosa che le riattiva, che le circonda di nuovo dell’aura numinosa, splendida e terribile, che sempre circonda il sacro e dal sacro irradia. Qualcosa di simile l’hai certo sperimentato anche tu: quando parole come “amore” e “tu”, o un altrimenti banale nome di battesimo, vengono pronunciate tra amanti che profondamente si legano, nell’intimità splendida e terribile dell’eros; che come sai – te lo dice anche Umberto Galimberti – è sacro. Bene: non solo l’amore, è sacro. Purtroppo, vedi: nel cuore umano, la radice dell’amore e dell’odio è la stessa. Difetto di progettazione? Forse, ma è così. Anche questo, l’hai sperimentato: quando un tuo grande amore si è trasformato in odio radicato, insopportabile, rovente, e ti ha fatto fare e subire cose che mai avresti immaginato di fare e subire. Esiste, l’amore innocuo? L’amore senza effetti collaterali dannosi? L’amore sicuro, il safe-love? Si può mettere il preservativo, questo sì. Ma il preservativo del cuore e dell’anima non c’è; o se c’è, e lo indossi, anima e cuore avvizziscono, cadono in depressione e muoiono, come gli orisha della religione yoruba quando non gli tributi i sacrifici richiesti.

Come la mettiamo, adesso? Che facciamo? Mah. Un tempo c’era, la procedura seguendo la quale le parole sacre – amore, patria, stirpe, eccetera – restavano sacre ma non irradiavano un’aura radioattiva, mefitica, agghiacciante; in cui insomma si sapeva “gestire”, come ti piace dire, o addomesticare, come preferisco dire io, le sacre profondità dell’anima umana. La procedura si chiamava “civiltà”, e si usava, un tempo, contrapporle la parola “civilizzazione”. Con la parola “civilizzazione” si intendeva tutta la complessa, necessaria, benemerita macchina sociale, dallo Stato alle dighe alle fabbriche alle fogne: tutto quel che si occupa della vita esteriore dell’uomo. Con “civiltà” si intendeva il resto: quel che si prende cura della vita interiore dell’uomo, dalle cime angeliche alle profondità ctonie. La civiltà, ahimè, non c’è (quasi?) più. Ne restano in vita, o in animazione sospesa, gli innumerevoli, meravigliosi monumenti[12]. La fiamma ne è spenta, o è così fioca e impercettibile da sembrarlo. Immensa, torreggiante, la civilizzazione, la “gabbia d’acciaio” weberiana pare invincibile; e in un certo senso lo è, certo che lo è. Ma l’anima e il cuore dell’uomo, anche quando dormono, restano quelli che sono sempre stati. Nelle loro profondità, ci sono miniere d’oro di bontà e fermezza, e abissi di malvagità e violenza. Chi, ormai, sa scendervi e recarvi la luce  “come quei che va di notte, che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte” [13] ?

Io no, e tu neanche, caro lettore progressista. Se ti azzardi a mettere piede sulle vertiginose scalinate, incise da Gustave Doré, che conducono nelle profondità ctonie dell’anima umana, e per illuminarti la via ti munisci della lampadina “antifascismo”, alimentandola con le batterie “diritti, accoglienza, eguaglianza”, temo che presto, molto presto resterai al buio, inciamperai e ti romperai l’osso del collo.

Temo che questo sia un momento solenne e terribile, caro lettore. Temo che l’endiadi dell’omicidio orribile della ragazzina sbandata, e la vendetta atroce e ridicola del giovane balordo, siano il segnale che si è mosso l’Acheronte. Ricordi L’interpretazione dei sogni di Freud, che hai comprato insieme a “la Repubblica” tanti anni fa? Ricordi l’exergo? “Si flectere nequeo Superos / Acheronta movebo”. Se non riesco a piegare gli Dei celesti, muoverò l’Acheronte: che è il fiume infernale. Questi due orribili fatti di sangue, caro lettore, temo proprio siano due schizzi dell’acqua d’Acheronte, che hanno bagnato la piccola città italiana di Macerata. Che Dio, il Dio “che vuole misericordia e non sacrifici” ci aiuti tutti, anche se non ce lo meritiamo.

[1] https://www.laleggepertutti.it/122839_porto-darmi-tipologie-previste-e-requisiti

[2] http://www.repubblica.it/cronaca/2018/02/05/news/macerata_11_i_migranti_presi_di_mira_da_traini-188082521/

[3] https://www.amazon.it/dahomey-schiavi-Analisi-uneconomia-arcaica/dp/8806593919

[4] L’episodio chiave che marca la differenza tra le religioni abramitiche e le altre è il sacrificio di Isacco. Dio ingiunge ad Abramo di sacrificare l’unico figlio Isacco. Abramo è sconvolto dal dolore, ma nient’affatto sconvolto dalla richiesta in sé e per sé: non trova insensato che il suo Dio gli chieda un sacrificio umano, perché per lui e per tutti i suoi contemporanei è scontato e normale che agli Dei si debbano sacrifici: e il sacrificio più pregiato è, naturalmente, il sacrificio umano. Tra i sacrifici umani, il più elevato è il sacrificio del figlio primogenito, il possesso più prezioso del sacrificante. Ma quando Abramo è sul punto di affondare il coltello nella vittima sacrificale, l’Angelo di Dio gli ferma la mano e gli dice: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio» (Gen. 22,13). Ricordo di passaggio l’opera di René Girard, recentemente scomparso, tutta incentrata intorno al tema del sacrificio umano e del suo disvelamento nel cristianesimo.

[5] V. J. Omosade Awolalu, Yoruba Sacrificial Practice, “Journal of Religion in Africa” Vol. 5, Fasc. 2 (1973), pp. 81-93 http://www.jstor.org/stable/1594756

[6] Karin Barber, How man makes God in West Africa: Yoruba attitudes towards the Orisa, International African Institute 1981 https://www.cambridge.org/core/journals/africa/article/how-man-makes-god-in-west-africa-yoruba-attitudes-towards-the-orisa/AB2C604A49D9A4D1712082F22E2C52BA

 

[7] V. Yoruba Sacrificial Practice, cit.

[8] Patrick Egdobor Igbinova, Ritual Murders in Nigeria, 1 april 1988, in “Internation Journal of Offender Therapy and Comparative Criminology” http://journals.sagepub.com/doi/abs/10.1177/0306624X8803200105

[9] Qui un’intelligente recensione di: Wole Soyinka, The Bacchae of Euripides: A Communion Rite https://www.jstor.org/stable/41153657

[10] Jenkeri Zakari Okwori, A dramatized society: representing rituals of human sacrifice as efficacious action in Nigerian home-video movies, in “Journal of African Cultural Studies” Volume 16, 2003 – Issue 1 http://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/1369681032000169230

 

[11] Charles Baudelaire, “Au lecteur”, in Les fleurs du mal, 1861. Qui testo originale e traduzione italiana con una analisi ben scritta. Invito a leggere o rileggere perché molto a proposito: http://charlesbaudelaireifioridelmale.blogspot.it/2011/04/au-lecteur-al-lettore-poesiaprologo.html

[12] Eccone uno, che fa bene al cuore più straziato, e lo placa: https://youtu.be/Z5WUO7hsgCA

[13] Purg. 22, 67-69

GAS, TERREMOTI E GEOPOLITICA_IL CASO OLANDESE, di Piergiorgio Rosso

Qui sotto il sintetico ma efficace testo prodotto da Piergiorgio Rosso e pubblicato al seguente link    http://www.conflittiestrategie.it/la-politica-energetica-ue-terremotata-di-piergiorgio-rosso

L’8 gennaio scorso la regione olandese di Groningen è stata interessata da un terremoto di 3,6° della scala Richter con epicentro a circa 4 km di profondità, esattamente all’altezza del più grande giacimento metanifero europeo, in grado di soddisfare per cinquanta anni, con gli attuali standard di consumo, il 5% del fabbisogno europeo. E’ il più forte di una serie di terremoti verificatisi alla fine dell’anno in una zona, sino a metà anni ’60, del tutto priva di attività sismica. A metà degli anni ’80, a vent’anni dall’inizio dell’attività estrattiva, si iniziano a registrare i primi sussulti e con l’inizio del nuovo millennio l’attività comincia ad essere avvertita dalla popolazione sino ad arrivare, nel 2012, ad un primo terremoto della stessa scala di quello di gennaio, in una zona per altro priva di sistemi di edificazione antisismici. Il legame tra l’attività estrattiva e i movimenti tellurici è ormai riconosciuto da tutti, compresa l’azienda estrattrice. A seguito della novità i governi hanno provveduto a limitare l’attività di estrazione sino a ventilare la possibilità di riduzione del 44%; un taglio che, unitamente ai risarcimenti in corso, renderebbe, tra l’altro, poco conveniente la prosecuzione dei prelievi. Le implicazioni economiche per il paese sarebbero enormi sia dal punto di vista fiscale che da quello della dipendenza energetica in quanto trasformerebbero l’Olanda da paese esportatore a importatore. Le implicazioni geopolitiche sarebbero, probabilmente, ancora più pesanti. L’Olanda è un fulcro commerciale per tutta l’Europa centro settentrionale; è la sede europea di gran parte delle multinazionali estere, specie americane; è uno dei paesi che ha sostenuto in maniera più oltranzista la politica euroamericana antirussa, compresi l’attività militare nella zona baltica e in Ucraina e l’inasprimento delle sanzioni antirusse. L’amara scoperta di una realtà di dipendenza dalle forniture gasifere della Russia e dal sistema di gasdotti russotedeschi potrebbe spingere ad una inedita riconversione degli obbiettivi strategici di politica estera o almeno ad una attenuazione dell’oltranzismo. Il nesso causale non è meccanico e predeterminato, come in ogni nesso che lega l’economia alle scelte geopolitiche. I costi dell’ostinazione potrebbero però rivelarsi pesanti se non insostenibili. Per gli altri stati europei il ragionamento è analogo e potrebbe portare ad una ulteriore divaricazione tra di essi rispetto alle relazioni con il gigante ad Oriente. Buona lettura_Giuseppe Germinario

La politica energetica UE … terremotata di Piergiorgio Rosso

gas

L’estrazione di gas naturale a Loppersum (Groningen – Paesi Bassi) è stata interrotta con effetto immediato a seguito dell’ordinanza dell’ente statale supervisore delle miniere olandesi (SoDM). L’ordinanza subito accolta dal Ministro degli Affari Economici Eric Wiebes, seguiva un forte terremoto – scala 3.6 Richter – avvertito in tutta la città di Groningen, il sesto in ordine di tempo ed il più forte in un solo mese. Da tempo l’attività sismica in quella zona è sotto osservazione da parte degli enti preposti ed è condivisa l’opinione secondo cui essi sono causati dall’attività di estrazione del gas naturale che ha raggiunto un livello tale da abbassare la pressione nei giacimenti al di là dei livelli di guardia per la stabilità geologica. Il SoDM ha anche scritto che l’estrazione di gas naturale dovrà necessariamente dimezzarsi nel prossimo futuro da un livello di 22 Miliardi di m3 (BCM) ad un livello di 12 BCM all’anno: “ .. sarà una tremenda questione sociale” ha detto il Ministro Wiebes. Il gas naturale serve più di 7 milioni di famiglie olandesi, il sistema industriale e la rete elettrica dell’intero paese. Non solo, l’Olanda è esportatrice netta di gas naturale tramite contratti a lungo termine con Belgio, Francia, Germania ed Inghilterra. Il mantenimento degli impegni sarà costoso per le casse dell’erario olandese che vedrà ribaltarsi la posizione commerciale/finanziaria del settore da esportatore ad importatore netto. Uno scenario da incubo. Una transizione accelerata alle rinnovabili come vorrebbero Verdi e organizzazioni non governative, sarebbe estremamente costosa per lo Stato e per le famiglie. L’unica alternativa realistica a breve termine (5-10 anni) è importare gas naturale da paesi come Norvegia, Qatar o Russia. Un nuovo gasdotto dalla Norvegia richiede tempo così come un nuovo ri-gassificatore per l’LNG dal Qatar, mentre i gasdotti dalla Russia già ci sono (via Germania) e aumenteranno la loro capacità con la costruzione del North Stream-2.
Accettare questa realtà sarebbe come ricevere uno schiaffo in faccia per il governo olandese e per l’Unione Europea il cui impegno per la diversificazione delle fonti di approvvigionamento di gas naturale è sinonimo di diminuzione della quota di mercato di Gazprom. La Russia, minacciata da nuove sanzioni dalla UE ed in rotta di collisione col governo olandese sulla questione dell’abbattimento del volo MH17 in Ucraina, si porrà come l’unica àncora di salvezza dell’intera economia dell’Europa nord-occidentale.
Il terremoto di Groningen aprirà un vaso di Pandora: si tornerà a discutere di North Steam-2 e di dipendenza europea dal gas russo nel prossimo futuro, ma in uno scenario completamente diverso da prima.

(libere citazioni da: https://oilprice.com/Energy/Energy-General/Dutch-Gas-Goals-Rocked-By-Earthquakes.html)

PER UN RECUPERO DELLE PREROGATIVE DELLO STATO NAZIONALE ITALIANO, PER LA SALVAGUARDIA DELLA INTEGRITA’ DEL PAESE, VERSO UNA POSIZIONE DI NEUTRALITA’ VIGILE

PER UN RECUPERO DELLE PREROGATIVE DELLO STATO NAZIONALE ITALIANO, PER LA SALVAGUARDIA DELLA INTEGRITA’ DEL PAESE, VERSO UNA POSIZIONE DI NEUTRALITA’ VIGILE, di Giuseppe Germinario

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Si tratta di un documento da me stilato quattro anni fa risultato di un incontro di una parte significativa dell’allora redazione di “conflittiestrategie” e altri personaggi impegnati sulla strada del recupero di quell’autonomia e indipendenza necessarie a risollevare le sorti del nostro paese. Purtroppo l’iniziativa naufragò per la reazione infantile ed insensata di un paio di quei partecipanti ai margini. Forse è giunto il tempo di riproporlo. BUONA LETTURA.
Il crollo del sistema di dominio bipolare, avvenuto ormai più di venti anni fa, ha travolto definitivamente ogni rappresentazione dualistica con la quale si è cercato di ingabbiare la complessità dei conflitti sociali e soprattutto dei rapporti tra centri strategici, stati e i loro sistemi di alleanze.

L’implosione dell’Unione Sovietica ha creato una situazione di sbilanciamento degli assetti globali e conseguentemente, in un contesto di ancora evidente prevalenza americana, allargato le maglie attraverso le quali tentano di riemergere e assurgere a un ruolo di potenza nuovi paesi in particolare del continente euroasiatico e in minor misura latino-americano.

I conflitti sempre più evidenti tra le maggiori potenze, pur in un quadro di ancora conclamato squilibrio dei rapporti di forze, trovano continuo e progressivo alimento e occasione di esercizio dal riemergere, in diverse regioni del mondo, di rivendicazioni identitarie, di conflitti storici ed esigenze di emancipazione in qualche maniera sopiti o addomesticati per quarant’anni nella gabbia bipolare tessuta alla fine della seconda guerra mondiale.

Uno dei focolai più virulenti in cui si sta concentrando la conflittualità riguarda la fascia che parte dal Nord-Africa, passa per il Grande Medio Oriente e si insinua in Europa tra i paesi balcanici e l’estremo oriente europeo.

Il ruolo svolto dall’Unione Europea, con il suo allargamento e il suo processo di integrazione economica, è stato e continua ad essere del tutto complementare alle mire espansionistiche della NATO in funzione antirussa consentendo di conciliare, al momento e presumibilmente per un lungo periodo, le mire di potenza regionale della Germania con quelle strategiche statunitensi con il corollario del neointerventismo francobritannico.

Contrariamente ai fini dichiarati, le attuali politiche dell’Unione Europea stanno accentuando drammaticamente gli squilibri tra i paesi e contribuendo a formare almeno tre aree geopolitiche divergenti delle quali, quella mediterranea rappresenta il ventre molle e la componente meno strutturata ma più esposta agli sconvolgimenti e all’instabilità attuale delle regioni nord africane.

La collocazione strategica al centro del Mediterraneo, la residua ricchezza del proprio patrimonio industriale e produttivo uniti alla frammentazione istituzionale, alla debolezza e supina subordinazione dei centri strategici in pressoché tutti gli ambiti della società e alla pochezza del ceto politico fanno sempre più del nostro paese un possibile campo di azione e appropriazione nonché strumento docile di intervento di interessi e strategie di forze esterne, spesso contrastanti con gli interessi strategici del paese anche nelle zone più remote.

Forte della propria collocazione geografica, del proprio residuo potenziale economico e della tradizione di rapporti sopravvissuti alla sciagura dell’intervento militare in Libia e nella ex-Jugoslavia, con le aree circostanti in particolare nell’area adriatica e mediterranea, l’Italia può svolgere un ruolo autonomo significativo orientato alla risoluzione positiva dei conflitti e alla creazione di un contesto che possa allargare rapporti oggi preclusi e garantire lo sviluppo economico e sociale del paese.

Un ruolo autonomo che strappi il paese fuori dalle sciagurate avventure militari di questo ventennio e dalle prossime che stanno maturando.

Un ruolo autonomo che deve essere il frutto della formazione di una nuova classe dirigente nazionale capace di creare le risorse e le strutture necessarie a dare alimento a queste politiche ma che, per affermarsi compiutamente, deve saper cogliere realisticamente le occasioni offerte da eventuali variazioni di contesto interni al paese dominante e da una situazione internazionale più incerta.

Diventa, quindi, fondamentale puntare a:

  • La riaffermazione e ridefinizione del ruolo dello stato nazionale, di recupero di prerogative, comprese quelle economico-finanziarie, e di una sua intrinseca autorevolezza che puntino a favorire la crescita e la salvaguardia dell’integrità del paese in una fase di esaurimento dell’unipolarismo
  • La ricostruzione prioritaria, sulla base della crisi e della destrutturazione degli attuali schieramenti politici, dei gruppi dirigenti in grado di dare prospettive e plasmare l’identità della formazione sociale sulla base di un riorientamento degli interessi e di nuove regole di governo, nonché capaci di individuare, in particolare tra i ceti professionali e direttivi, i referenti in grado di coagulare le forze necessarie a garantire il successo della svolta
  • La riorganizzazione degli apparati statali e governativi con la ridefinizione delle gerarchie di competenze, sovranità e rappresentatività, compreso l’attuale assetto delle regioni e il loro rapporto con lo stato centrale, in modo da garantire efficienza, snellezza e legittimità alle scelte politiche necessarie e una struttura burocratica più agile in cui sia riconosciuta una migliore corrispondenza tra responsabilità, competenze e retribuzioni
  • La rivisitazione dei rapporti di alleanza e cooperazione come fondamento delle relazioni con i paesi europei, eurasiatici e mediterranei attraverso la coltivazione prevalente di rapporti bilaterali tra i paesi rispetto all’attuale prevalenza del principio del multilateralismo, veicolo ottimale di affermazione degli attuali assetti.

 

La salvaguardia delle prerogative nazionali comporta per tanto la necessità di creazione autonoma di risorse economiche e di potenziamento del proprio apparato produttivo e di servizi con:

i)       Il controllo, la salvaguardia e lo sviluppo delle attività ed industrie strategiche (energia, tecnologie di punta, complesso militare, industria legata alle infrastrutture vitali del paese, ricerca scientifica e sviluppo tecnologico rivolti all’innovazione e all’efficienza, agricoltura)

ii)      Lo sviluppo di una economia (industria di prodotti di consumi civili, turismo, beni culturali, servizi, ect) tesa a garantire equilibrio economico, promozione e riconoscimento sociale, equità scevra da assistenzialismo, e benessere; sulla base di questo ricostruire uno stato sociale più forte e più calibrato sulla base di incentivi e politiche attive e una condizione di maggiore sicurezza interna e controllo dei flussi migratori

iii)     La riorganizzazione delle politiche formative, assistenziali e redistributive del paese finalizzate all’occupazione e al riconoscimento professionale

Si tratta, quindi, di riguadagnare progressivamente un ruolo attivo ed importante di leadership a tutti i livelli sfruttando il potenziale di risorse del paese e riconfigurando le attuali limitazioni esterne, in particolare l’Unione Europea.

Diventa, quindi, propedeutica ed essenziale:

  • La pubblicizzazione, per altro prevista dalle leggi correnti e rivisitazione degli accordi bilaterali e multilaterali, militari e politico-diplomatici in corso
  • L’eventuale reintroduzione dell’esercito di leva affiancato e integrato con i reparti specializzati
  • La revisione dei trattati europei che porti a:
  1. Regolamentare e controllare la libera circolazione dei capitali finanziari in maniera da incentivare le competenze tecnologiche e le capacità imprenditoriali e gestionali
  2. Rendere possibile l’attuazione di una politica industriale che favorisca la collaborazione paritetica dei grandi complessi industriali nazionali nei settori strategici e inneschi processi di effettiva industrializzazione nelle aree depresse tali da sviluppare con il radicamento in loco dei centri decisionali strategici le capacità imprenditoriali e gestionali
  3. Ricondurre le politiche regionali a politiche industriali nazionali e adeguare i criteri di finanziamento europei a questa ottica
  4. Ricondurre le politiche di collaborazione e integrazione regionale europea al controllo degli stati nazionali in collaborazione tra essi
  5. Riorganizzare e controllare le attuali strutture amministrative europee basate esplicitamente al momento su rapporti di tipo lobbistico e su criteri diversi secondo i referenti nazionali; un processo che richiede la dissoluzione dell’attuale architettura istituzionale europeistica
  6. Puntare a nuovi trattati e accordi con i paesi limitrofi alla nostra realtà in modo da bilanciare la progressiva concentrazione delle risorse europee nell’Europa centrorientale

Sulla base di questi punti è necessario valutare in modo serio la questione dell’uscita dal sistema di moneta unica (euro).

 

La coesione di una formazione sociale e la salvaguardia delle condizioni di vita degli strati popolari e intermedi dipendono dalla salvaguardia e riorganizzazione del welfare e queste, sempre più, dalla solidità e dall’autorevolezza delle strutture del paese e dalla solidità di una economia nazionale ben integrata ed equilibrata, dal ridimensionamento politico ed dalla ricollocazione economica dei settori più subordinati agli interessi dei paesi dominanti presenti nelle istituzioni e nei centri nevralgici del paese.

 

Il presente documento e manifesto ha l’ambizione di definire quelle coordinate che consentano la creazione e sviluppo rapidi di una piattaforma comune sulla quale gruppi o singole persone possano offrire il proprio contributo di analisi e proposte sino a determinare un terreno favorevole alla nascita di una o più formazioni politiche capaci di sostenere, perseguire e conseguire gli obbiettivi enunciati così urgenti rispetto all’attuale condizione del paese.

Anniversari. Hitler a Stalingrado,l’Italia di oggi dove?, di Antonio de Martini

75 ANNI DALLA RESA DI STALINGRADDO

75 anni fa, il due febbraio, la sesta armata tedesca, dopo sei mesi di massacro diuturno, si arrendeva alle truppe sovietiche, decidendo le sorti della guerra sul fronte est.

Il generale Paulus veniva promosso feldmaresciallo, inaugurando così la tradizione di promuovere sul campo i generali sconfitti di cui approfitterà anche il nostro generale Messe che comandò l’ARMIR ( armata italiana in Russia, 60.000 uomini mandati allo sbaraglio per compiacere l’alleato)..

Anche in questo caso il disastro fu dovuto a sclerosi mentale, vanità, visione ideologica delle cose e servilismo carrierista.

Hitler invece di puntare con tutte le sue forze al Caucaso petrolifero abitato da numerosi nuclei di origine tedesca, volle concentrarsi sulla città che portava il nome del suo nemico ideologico prima, e si rifiutò di abbandonarla mentre era ancora a tempo, poi.

Goering, vanitoso, ambizioso e avido di attenzione, alla domanda se l’aeronautica sarebbe stata in grado di rifornire per via aerea trecentomila uomini con l’inverno alle porte, rispose positivamente senza nemmeno interpellare il suo Stato Maggiore. Non ci riuscì.

Paulus, che finirà come candidato dei sovietici a primo ministro di una Germania in condominio che non si realizzò perché la divisero, obbedì alle minute istruzioni quotidiane di Hitler come un caporale di giornata, fregandosene degli uomini di cui era responsabile e del proprio onore.

Sono gli stessi difetti, individuali e di gruppo, che stanno portando questo regime alla tomba.
Con due differenze: non si spara e dura da troppi, troppi anni.

Renzi ci ha spiegato , senza contraddittorio, che il lavoro precario deve essere più costoso di quello a tempo indeterminato.

Logica bacata da ideologia sdrucita. Se una impresa deve, mettiamo, fare un lavoro che non dura dovrà pagarlo più di un lavoro durevole indispensabile e permanente, generatore di lavori a tempo.
Ecco la mentalità di Hitler: rigida, irrealistica e priva di confronti.

Il pallido Padoan è Paulus, zelante esecutore incapace di autonomia intellettuale, sempre devotamente in linea con il pensiero altrui.

Le numerose caratteristiche di Goering possiamo ripartirle tra Alfano e il ministro dello sviluppo economico di cui al momento mi sfugge il nome.

Nessuno, invece, che possa rappresentare il maresciallo Von Manstein, fautore inascoltato della Difesa flessibile che propose insistentemente di far ritirare l’Armata prima che venisse accerchiata e destinarla a impossessarsi delle zone petrolifere, approfittando della maggiore mobilità ed esperienza delle truppe tedesche,accorciando il fronte ed evitando di perdere trecentomila uomini e con essi l’intera campagna.

Hitler, esasperato dalle puntuali critiche militari e dal rifiuto a infierire sui civili di Manstein, nel 1944 lo esonerò mandandolo a casa.
Si salvò così da altre epurazioni sanguinose, a Norimberga gli diedero quattro anni di prigione che non gli fecero nemmeno scontare e, più tardi, scrisse le sue memorie che titolò ” Vittorie Perdute”.

La Stalingrado di questo regime sarà l’economia.

A CARTE COPERTE_ Renzi, Berlusconi, Di Maio, Salvini al 5 marzo, di Giuseppe Germinario

Nel grande luna park elettorale, tra funamboli, illusionisti e fattucchiere cominciano a delinearsi nell’ombra, sotto traccia, alcuni punti fermi.

I PROTAGONISTI

Matteo Renzi all’avvio della campagna elettorale sceglie di incontrare in Europa Emmanuel Macron, Presidente della Repubblica Francese nonché fondatore di “En Marche” e in Spagna Albert Rivera, Presidente di Ciudadanos ed emulo spagnolo di Macron. Due leader affermatisi sulle ceneri dei partiti repubblicano e popolare e soprattutto di quelli socialisti dei rispettivi paesi. Non è un caso. Renzi dimentica di incontrare i leader superstiti del Partito Socialista Europeo. Tra i transfughi della diaspora socialista europea avrebbe potuto scegliere in una vasta gamma di esponenti di successo. L’ultimo è il rieletto Presidente Ceko Milos Zeman, dalle propensioni filorusse e particolarmente tiepido verso NATO e UE. Con ogni evidenza non è certamente questo il cerchio di amicizie ambito.

L’attenta selezione delle candidature non è la sanzione definitiva del PdR, del partito personale di Renzi. È una interpretazione troppo riduttiva. Il Rottamatore ha semplicemente e definitivamente liquidato la componente di derivazione pciista e con essa le corrispondenti modalità di militanza e di decisione, le prassi di formazione della classe dirigente ad essa legate. Un processo avviato consapevolmente con l’avvento di Veltroni e conclusosi irrimediabilmente con la recente scissione in seno al PD.  È soprattutto la scelta obbligata necessaria a rendere possibile una svolta ben più radicale e per questo Renzi è disposto a sacrificare il residuo voto di sinistra.

Il modello da imitare è quello di Macron, ma le condizioni di applicazione sono ormai largamente compromesse. A differenza dello “Jupiteriano”, il Monarca di Rignano dovrebbe assumere la duplice improbabile veste di rifondatore del Partito Democratico e nell’eventualità di suo liquidatore in un contesto di grave logoramento della sua credibilità. Macron ha potuto assecondare rapidamente l’operazione di destabilizzazione dei partiti tradizionali e di rinnovamento radicale della rappresentanza perché aveva ed ha il sostegno e la copertura di solidi centri di potere ed amministrativi, a cominciare dall’ENA, i quali gli garantiscono la piena copertura e funzionalità nell’esercizio delle prerogative. In Italia i centri di potere sono molto più frammentati e meno efficaci; buona parte di essi sono per di più apertamente eterodiretti.

La visione europeista di Macron può offrire ai francesi il miraggio di una guida condominiale francotedesca della UE con pari dignità; una guida che per perpetuarsi prevede l’ulteriore sacrificio della terza potenza economica del continente, l’Italia. L’europeismo di Renzi di conseguenza rischia di ricadere nella solita cortina retorica necessaria a nascondere l’accettazione supina delle politiche più deleterie. Il recente incontro di Macron a Roma non ha fatto che confermare questa propensione anche nei passaggi in cui si sono spacciati come decisioni comunitarie alcuni atti unilaterali del Governo Italiano in materia di immigrazione.

In buona sostanza Renzi tre anni fa poteva ambire al ruolo di capitano e di timoniere; oggi fatica a mantenere il ruolo di capitano, avendo perso prestigio ed autorevolezza tra l’equipaggio e sicuramente ha perso il ruolo di timoniere ormai nelle mani del navigatore più esperto e smaliziato, Berlusconi, sempre che disponga delle forze necessarie. http://italiaeilmondo.com/2017/11/12/revival-berlusconi-si-berlusconi-no-_-di-giuseppe-germinario/   

http://italiaeilmondo.com/2016/10/19/i-paradossi-del-referendum-di-giuseppe-germinario/

Il profilo di Berlusconi può in effetti rappresentare la luce necessaria ad alimentare le speranze di sopravvivenza del Rottamatore a sua volta ormai a rischio di rottamazione.

Anche l’ex-Cavaliere ha iniziato praticamente la campagna elettorale andando in Europa, più precisamente presso i vertici della UE e del PPE (Partito Popolare Europeo). È andato a garantire il pieno rispetto dei vincoli e degli accordi sottoscritti. Un impegno perfettamente in linea con il Berlusconi conosciuto negli ultimi dieci anni, quello dell’intervento in Libia, del Governo Monti, del sostegno surrettizio ai successivi governi di centrosinistra. In effetti è riuscito a “cadere in piedi”, con qualche pesante umiliazione personale, ma senza necessità di rialzarsi. Un impegno che stride fortemente con i proclami del principale alleato di coalizione.

I più affezionati alle classiche logiche di schieramento lo ritengono più che altro un sotterfugio teso soprattutto a guadagnare tempo nei confronti del vecchio establishment europeista. Potrebbe anche essere; ma sarebbe un’attesa confidata esclusivamente all’eventuale successo di una politica estera americana tesa a dissestare completamente l’attuale Unione Europea. Un successo ancora del tutto ipotetico ma che di per sé rappresenterebbe assolutamente non una garanzia, ma una semplice opportunità per l’Italia di acquisire un ruolo più autonomo e spregiudicato. Ad una condizione imprescindibile: disporre di una classe dirigente idonea ed attrezzata.

Il curriculum di Berlusconi, con i suoi voltafaccia, anche terribilmente meschini negli ultimi otto anni, ha dimostrato di essere piuttosto di tutt’altra pasta.

Il programma sottoscritto dai tre leader del centrodestra si presta, come naturale tra forze ormai così eterogenee, a varie interpretazioni; oltre al contenuto, però, offre la possibilità di giocare anche e soprattutto sui tempi. L’esito delle elezioni determinerà sicuramente le modalità dello scontro interno al centrodestra ma quello che appare certo è che si assisterà ad una guerra di logoramento piuttosto che a un rapido conflitto risolutivo interno allo schieramento.

La compagine è destinata quindi a diventare l’epicentro di un movimento tellurico che riprodurrà schieramenti più corrispondenti al nocciolo dei problemi politici. Una faglia destinata ad attraversare i tre partiti ma che potrebbe estendersi anche ai nuovi arrivati del M5S. Al momento il protrarsi delle ambiguità non fa che rallentare il processo di decomposizione del Partito Democratico e offrirgli qualche ulteriore chance per presentarsi come il paladino esclusivo dell’attuale Unione Europea.

La candidatura di Alberto Bagnai nella Lega è il segno evidente di questa divaricazione e delle intenzioni bellicose, come pure le continue stizzite puntualizzazioni di Salvini tese a correggere le forzature di Berlusconi. Intenzioni, per la verità,  rese meno praticabili dal pesante intervento giudiziario sui conti del partito. Altre volte le vicende italiche ci hanno trascinato in ingloriose conversioni badogliane; ma più il dibattito si accende e si focalizza su questioni che vanno al di là di mere politiche redistributive, più gli eventuali voltafaccia costerebbero caro ai funamboli. Su questo Berlusconi ha ben poco da perdere e la sua funzione di traghettatore verso una opzione macronista sarà sempre più evidente. Per Salvini e Meloni il prezzo sarebbe decisamente salato ed un eventuale scambio tra una politica redistributiva di facciata ed antiimmigrazionista e un cedimento sulla Unione Europea e sulla NATO sarebbe insufficiente a salvaguardarli.

Rimane il problema di una evidente sottovalutazione delle implicazioni complesse e rischiose di una scelta coerentemente antiUE ed antiestablishment dominante; una questione che si è infranta più volte sugli scogli dell’effettivo controllo delle leve di potere, ma che si potrà porre con più determinazione e precisione una volta semplificati gli schieramenti.

GLI APPARENTI OUTSIDER

Dalla mappa è rimasto sino ad ora fuori il M5S, il movimento sul quale si stanno concentrando i consensi e le attenzioni di buona parte degli indignati, dei moralisti e degli scontenti.

In questi ultimi trenta anni la denuncia e l’azione ossessiva contro la corruzione non hanno portato niente di buono al paese. Ha distrutto una classe dirigente decadente, in piccola parte legata ad una migliore difesa degli interessi nazionali, surrogata da un’altra senza alcun serio radicamento in interessi forti e strategici del paese. Si è trattato di un’onda partita puntualmente da iniziative di precisi centri di potere statunitensi, compreso un centro anticorruzione fondato da una quarantina di giornalisti quasi tutti legati al Partito Democratico americano utile a destabilizzare gli scenari politici di mezzo mondo e che ha saputo raccogliere un discreto consenso in gran parte dei casi. Il M5S è stato il catalizzatore ultimo di questo stato d’animo. Da qui una collaborazione strisciante con gli ambienti istituzionali che hanno gestito e assecondato questi processi. A questo aggiunge una politica ambientalista che dà per scontato l’applicazione su larga scala industriale di tecnologie dubbie o che richiederanno programmi di investimento ultradecennali ed una politica redistributiva fondata su un reddito minimo garantito utile a coltivare una plebe precaria e l’assistenzialismo piuttosto che una comunità di produttori. I programmi di accompagnamento all’occupazione sono dei meri slogan che poggiano su dei falsi reiterati da anni come quello che segnala che la disoccupazione sia un problema di sfasamento tra qualificazione dell’offerta e qualificazione della domanda di lavoro. Un problema che riguarda solo poche centinaia di migliaia di opportunità rispetto alla marea di milioni di persone, anche qualificate, disoccupate e sottopagate. Sono solo tre aspetti, oltre alla improvvisa conversione sulla politica europeista, di un programma dai contenuti prevalentemente demagogici ed enunciativi. Beppe Grillo del resto lo aveva detto chiaramente, un paio di anni fa. Il suo movimento era nato per contenere nell’alveo democratico, tradotto nell’attuale sistema partitico e consociativo, un movimento che poteva assumere connotati radicali e sovranisti. Un cambiamento serio non può quindi che partire da una crisi anche di questo movimento in modo che anche gli “onesti” comincino a guardare ad altre parti.

UNA QUESTIONE STRATEGICA

Il Sole24Ore del 21 gennaio titolava, a proposito della campagna elettorale: ”Economia reale e industria a bassa priorità per i partiti”. Solo Carlo Calenda, Ministro dello Sviluppo Economico e Marco Bentivogli, sindacalista della CISL in un articolo http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2018-01-11/un-piano-industriale-l-italia-competenze-222533.shtml?uuid=AEcQ5JgD si sono soffermati lungamente sull’argomento. Lo hanno fatto però con tutti i limiti di una politica industriale del tutto indifferente al vero e proprio esodo all’estero del controllo e della proprietà delle maggiori e medie realtà industriali del paese e di incentivazione nella sua totalità senza alcuna selezione dei settori strategici. Aspetti già segnalati in questo articolo http://italiaeilmondo.com/2017/01/22/203/ . E infatti, ad oltre un anno di distanza, il Ministro vanta il grande successo degli investimenti nei vari settori industriali e lamenta un insufficiente sviluppo della ricerca, della ricerca applicata e della nascita e sviluppo di start-up qualificate. Calenda presenta il dato come un semplice accidente risolvibile con ulteriori finanziamenti ed una migliore organizzazione dei “competence center” e dei centri di ricerca universitari. Vedasi il suo intervento al per altro interessante convegno a Napoli del 11 gennaio scorso. In realtà si tratta di un limite strutturale legato alla ormai quasi totale assenza di adeguate piattaforme industriali nazionali necessarie a favorire la nascita, lo sviluppo e il consolidamento delle attività sperimentali. La conseguenza è che nel migliore dei casi la ricerca e il rischio delle scarse applicazioni industriali sono a carico degli investimenti pubblici e privati nazionali, il più sicuro e remunerativo consolidamento finisce in mano alle grandi piattaforme industriali straniere. Uno degli ultimi esempi riguarda l’ECM, azienda operante nell’alta tecnologia ferroviaria, un settore nel quale era presente, sino a pochi mesi fa e da diversi decenni Finmeccanica http://iltirreno.gelocal.it/pistoia/cronaca/2018/01/05/news/ecm-diventa-americana-arriva-caterpillar-1.16315568 . Per il resto il dibattito è tuttora assente a parte qualche vaga enunciazione sul mantenimento del controllo delle aziende strategiche fatta da Salvini e Meloni.

È vero che i bacini elettorali sono considerati ormai un mercato segmentato secondo semplici e sofisticate tecniche di comunicazione e costituiti da cittadini consumatori piuttosto che da cittadini partecipi e produttori del bene comune. La politica industriale, nei suoi particolari, deve avere necessari caratteri di riservatezza. Essa, comunque, rappresenta uno dei pilastri imprescindibili sui quali costruire non solo il benessere di una comunità, ma anche la forza e la autorevolezza di una nazione organizzata in uno stato.

L’assenza di dibattito sul tema rivela le reali intenzioni di uno degli schieramenti che si andranno a formare dopo le elezioni, ma anche le debolezze intrinseche che l’altro dovrà superare pena l’estinzione o il trasformismo più deleterio.

Questi paiono i tre aspetti sinora emersi nel dibattito. Si spera che la convulsione dei prossimi giorni aiuti a farne emergere altri ancora più dirimenti. Si vedrà. Rimangono nell’ombra, nell’articolo altre forze politiche. Tra esse “Liberi e Uguali”. Il simbolo più evidente della decadenza e dell’estinzione di una classe dirigente, ma non per questo meno importanti. Non mancherà l’occasione di parlarne. Nel frattempo andate a leggervi il programma. Non sembrano crederci nemmeno loro.

 

Eichmann in Palestina, di Antonio de Martini

Ogni paese, ogni popolo, ha avuto le sue compromissioni col fascismo ( vedasi, tra tutti il libro di Dino Sanzò, ” l’ebreo nero” e “i dieci ” di Franco Cuomo che fa i nomi degli scienziati italiani che firmarono il documento sulla razza, editore Bonanno) e col nazismo antiebraico; anche i più accaniti fautori della nascita dello Stato di Israele.

Vi racconto due fatterelli, uno che riguarda Adolf Eichmann ( che nel dopoguerra fu giustiziato in Israele) e un altro riguardante Avraham Stern, il creatore del movimento “Lehi”, poi meglio noto come ” la banda Stern” che contava tra i suoi adepti anche il futuro premier di Israele Yitzak Shamir.

Il primo è tratto da pagina 446/447 dal libro di Peter Frankopan – docente di storia Bizantina all’Università di Oxford e “senior research fellow”al Worcester college- ” Le vie della seta” edito da Mondadori.

Il secondo, lo trovate a pagina 315 nel libro nel libro di David Ysraeli ( editore Ramat Gan) ” The palestinian problem in German Politics 1889-1945. ”

PRIMO EPISODIO ” Verso la fine degli anni trenta, nel 38, lo stesso Hitler aveva parlato ufficialmente a favore di una politica di emigrazione degli ebrei tedeschi in Medio Oriente.

Fu inviata in Palestina una missione di alto livello guidata da Adolf Eichmann con l’obbiettivo di discutere con l’Agenzia sionista circa un possibile accomodamento che risolvesse una volta per tutte la cosiddetta ” questione ebraica” mediante emigrazione dalla Germania.

Non si misero d’accordo su come incrementare l’emigrazione ebraica in Palestina, ma il fatto resta in tutta la sua interezza.

SECONDO EPISODIO: Nell’autunno 1940 – badate alle date- Avraham Stern inviò un messaggio a un autorevole diplomatico tedesco di stanza a Beirut, ammettendo fin dall’incipit che ” potrebbero esistere interessi comuni tra la Germania e le autentiche aspirazioni del popolo ebraico”.

Il messaggio continuava con una proposta che oggi appare strabiliante: ” se le aspirazioni del movimento per la libertà di Israele fossero riconosciute” continuava il messaggio, Stern si diceva disposto a prendere parte attivamente alla guerra a fianco della Germania.

Stern non rappresentava certo il futuro popolo di Israele, e comunque, per ragioni a ME ignote, la proposta non ebbe seguito.

Resta anche qui il fatto che è storicamente provato che ci furono commistioni tra il nazismo, l’Agenzia sionista e anche gli ambienti ebraici che combattevano per Israele.
E quando Hitler sembrò vicino alla vittoria si offrirono di collaborare col massimo antisemita di tutti i tempi per raggiungere il loro ideale.

Nel giorno in cui si cerca di capire come sia potuto accadere un genocidio industrialmente pianificato ( quello turco con gli armeni fu volenteroso artigianato spontaneo) credo importante portare alla luce che i buoni e i cattivi rigidamente separati esistono solo nei film di Walt Disney e il mondo va capito nella sua interezza.

Altrimenti l’accaduto si ripeterà.

GEORGE SOROS, LA PARABOLA DI UN FILANTROPO_ di Gianfranco Campa e Giuseppe Germinario

Anche quest’anno George Soros ha avuto a disposizione, probabilmente si è concesso, a Davos oltre un’ora di vaticinio. Un privilegio di minuti concesso solo a numero selezionatissimo di astanti. Ad ascoltarlo e vederlo viene in mente questa frase di Melville:  «Dal cuore dell’Inferno, io ti trafiggo! In nome dell’odio, sputo il mio ultimo respiro su di te, maledetta bestia!» Ha avuto modo di prendersela con il carattere monopolistico di Google e Facebook, con la loro capacità di manipolazione, controllo e selezione dei flussi di dati e di formazione degli orientamenti personali e delle società. Un pericolo estremo soprattutto se tale propensione dovesse trovare sostegno e accondiscendenza in regimi autoritari come Russia e Cina. Giudica i Bitcoin, buon per lui, un prodotto troppo speculativo. Soros è però fiducioso: « E’ solo questione di tempo prima che il loro monopolio sia interrotto. La loro fine verrà con le regole e le tasse. E la loro nemesi sarà la commissaria Ue alla concorrenza, Margrethe Vestager» L’Unione Europea, con essa i vecchi e nuovi leader dell’Europa Occidentale, ha quindi per il momento sostituito gli Stati Uniti nel ruolo di paladina della libertà . Cosa intendano per tutela della libertà i novelli templari lo lasciano intuire la composizione e le intenzioni dei vari Comitati di Salute Pubblica in procinto di essere costituiti. Strano, perché la campagna contro la disinformazione è comunque partita dagli “ambienti più politicamente corretti” statunitensi i quali più si sono distinti nella partigianeria ossessiva. In mancanza di una sponda istituzionale solida e sicura a casa propria non resta che affidarsi, al momento, agli epigoni di qua dell’Atlantico. Non che il problema sia irrilevante. Sia Facebook che soprattutto Google, ma anche sempre più i gestori della rete stanno assumendo uno straordinario e crescente potere di manipolazione non solo dei comportamenti individuali, civili e politici, ma anche, attraverso il controllo dei flussi di dati e dei comandi, dello stesso sistema produttivo e di comunicazione. Un controllo che potrebbe limitare la libertà di movimento e di azione di altri manipolatori, come Soros, adusi ad altre e ben più diversificate pratiche, anche le più prosaiche. Le varie “primavere” sparse nel mondo sono lì a ricordarcelo. Per questo “Padre del Globalismo”, tra i tanti, si tratta però di una contingenza, di un accidente destinati ad esaurirsi rapidamente nell’onda lunga della storia “Reputo chiaramente l’amministrazione Trump un pericolo per il mondo, ma lo considero puramente un evento transitorio che scomparira` nel 2020, se non prima. Do al presidente Trump credito per il modo brillante di motivare la sua base, ma per ogni numero di sostenitori c’è un numero egualmente motivato di oppositori. Per questo mi aspetto una valanga democratica nelle elezioni di medio termine 2018″ Con i diciotto miliardi di dollari ( http://italiaeilmondo.com/2017/10/22/un-torrido-inverno-di-giuseppe-germinario/ ) attualmente messi a disposizione dalla sua Open Society, George Soros saprà dare sicuramente il suo personale contributo, con le buone o le cattive, alla “motivazione” e all’afflato ideale dei novelli fustigatori. Dovesse richiedere il sacrificio di qualche martire, tanto meglio; ogni libertà, specie la propria, richiede un tributo e un sacrificio, meglio se di altri. Da parte sua il portafogli, da altri in mancanza di questo o di altro può essere sufficiente la vita. Anche in Italia, negli ambienti più insospettabili, gli adepti non mancano e dopo le elezioni numerosi usciranno allo scoperto. Qualcuno, addirittura, trepida per le sue condizioni di salute; vedi la “Stampa” di oggi.

Qui sotto i link relativi all’intervento di George Soros_ Gianfranco Campa-Giuseppe Germinario

Taccuino francese: il ritorno della Vandea, di Roberto Buffagni

Taccuino francese: il ritorno della Vandea

 

Nello scorso novembre, Patrick Buisson[1] ha pubblicato un libro molto interessante: La grande histoire des guerres de Vendée[2]. Non l’ho letto, ma da quel che ne dicono le recensioni non credo ci racconterà  molto di nuovo sulla terribile repressione rivoluzionaria dell’insorgenza vandeana.

Il libro resta di grande interesse, ma per altre ragioni. Anzitutto, per l’autore. Patrick Buisson è uno storico, un giornalista e un militante politico di primo piano della destra francese. E’ stato consigliere di Sarkozy nella sua prima campagna elettorale (2007); seguendo i suoi consigli, Sarkozy non solo ha vinto le elezioni presidenziali, ma per la prima e unica volta nella storia politica francese ha strappato sette punti elettorali al Front National. La campagna elettorale suggerita da Buisson, che appartiene alla destra francese conservatrice di ascendenza maurrassiana[3], batteva su tutti i temi cari al FN, anzitutto l’identità nazionale (alla quale fu poi intitolato un ministero). Buisson, però, nel corso della presidenza Sarkozy, ha dovuto toccare con mano le conseguenze di una circostanza che non gli sarà sfuggita, ma che forse aveva sottovalutato: l’altro principale consigliere del suo candidato era Alain Minc[4], cioè l’esatto opposto ideologico di Buisson, un liberal-progressista che “ha superato la distinzione destra/sinistra”; e infatti, nell’elezione presidenziale del 2017 Minc ha sostenuto la candidatura del centrista républicain Alain Juppé finché ha avuto chances, per poi passare nel campo di Emmanuel Macron, il candidato su misura per lui. In sintesi: Sarkozy, un abile tattico senza principi, ha usato la linea conservatrice e populista di Buisson in campagna elettorale per prendere voti, e una volta al governo ha seguito la linea liberal-progressista di Minc (così perdendo l’elezione del 2012). Insomma: passata la festa, gabbato lo santo.

Non l’ha presa bene, Buisson. Dopo un ultimo tentativo con Sarkozy nel 2012, quando ha tentato inutilmente di persuadere sia il candidato sia il partito a uscire dalla trappola del Front Républicain – la conventio ad excludendum contro il Front National costruita da Mitterrand per garantire ai socialisti il congelamento di metà della destra francese, e la rendita di posizione che ne conseguiva per il PS – Buisson si è allontanato dai Républicains, ha pubblicato La cause du peuple, un libro di violentissima critica a Sarkozy e alla destra liberale[5] che ha avuto spinosi contraccolpi giudiziari, e si è dedicato alla battaglia politico-culturale per la riforma della destra francese.

L’obiettivo strategico della battaglia di Buisson è la fondazione di una destra conservatrice autentica, accomunata da tradizioni, valori e ideologie non liberali o francamente antiliberali (gaullisti di destra e gaullisti sociali, cattolici reazionari, maurrassiani, etc.). Sul piano operativo, l’obiettivo si può raggiungere solo attraverso una spaccatura e una rifondazione: la spaccatura dei Républicains tra liberali/conservatori non liberali e antiliberali, e la rifondazione del Front National su basi nazionaliste, antiliberali, conservatrici, cattoliche (grossolanamente: la linea che si identifica in Marion Maréchal Le Pen[6], contro quella che si identifica in Marine, e prima di Marine in Florian Philippot[7]). In termini pragmatici, per Buisson i conservatori francesi, sinora politicamente rappresentati dai Républicains, devono prendere la guida di una nuova formazione politica di destra antiliberale e antiprogressista, e diventare il corpo ufficiali di un esercito le cui truppe sono costituite dall’elettorato popolare, sociologicamente e geograficamente periferico, del Front National.

Un’altra ragione d’interesse de La grande histoire des guerres de Vendée è il suo prefatore, Philippe de Villiers[8]. Il visconte vandeano Philippe de Villiers è stato leader del fronte sovranista che nel referendum del 2005 bocciò la proposta di costituzione europea promossa dalla UE; ed è fratello maggiore di Pierre de Villiers[9], il capo di stato maggiore delle FFAA francesi che si è recentemente dimesso (applaudito dalle truppe) dopo un violento scontro con il presidente Macron sui finanziamenti alle forze armate.

Terza e ultima ragione d’interesse del libro, il suo soggetto. Non solo perché la guerra civile di Vandea e il terrore di Stato che sterminò  i combattenti vandeani sono una memoria tuttora viva e politicamente attiva in Francia; ma perché non ho il minimo dubbio che Buisson abbia sottolineato, nel suo libro, come la Convenzione rivoluzionaria abbia decretato la durissima repressione delle insorgenze legittimiste e cattoliche sulla base di un consenso elettorale che definire minoritario è dir poco: su 7 MLN di aventi diritto (suffragio ristretto), solo il 10% espresse un voto valido. L’analogia con la ridotta legittimazione popolare di Emmanuel Macron (al secondo turno, 40% circa sul totale degli aventi diritto, con un record storico di astensione e schede bianche o nulle) è lampante[10].

Non è da ieri che uomini di cultura e politici propongono alle destre francesi questa linea francamente conservatrice, che non è mai riuscita ad affermarsi. Ma rispetto a ieri, oggi c’è una grossa novità: che il successo di Emmanuel Macron l’ha resa l’unica linea politica praticabile, se la destra francese non vuole mettere una pietra tombale sulla sua lunga storia. L’abilissima operazione di “taglio delle estreme” che ha condotto Macron alla presidenza ha resuscitato la “destra di situazione” liberale e orleanista[11] che si cristallizzò nel 1830: nell’odierna riedizione, i centristi e gli europeisti/mondialisti di entrambi i maggiori partiti francesi, PS e Républicains, vengono risucchiati dal “movimento di governo” En Marche!  e svuotano dall’interno i partiti da cui provengono. Li svuotano di personale politico, di clientele, di voti, di finanziamenti e soprattutto di ragioni d’esistere. Li svuotano di ragioni d’esistere, perché a dettare la strategia politica tanto del PS quanto dei Républicains è tuttora il paradigma del Front Républicain, l’adattamento francese dell’ “arco costituzionale antifascista” italiano inventato da Mitterrand negli anni Ottanta[12]: e come hanno dimostrato plasticamente le presidenziali del 2017, non esiste blocco sociale, ideologia, formazione politica più adatta ed efficace per battere il Front National del centrismo orleanista di Macron, che si situa all’esatto opposto del blocco sociale e dell’ideologia del Front National e ne è per così dire il negativo fotografico.

Quindi, chi all’interno del PS e dei Républicains vuole ritrovare ragioni d’esistere al di là del nudo e crudo richiamo della gamelle, e non si vuole allineare con il centrismo orleanista di Macron, è costretto a spezzare il cerchio magico del Front Républicain, e a prendere atto che è finita l’alleanza storica tra il liberalismo e il conservatorismo a destra, tra il liberalismo e il socialismo a sinistra. Esattamente come nel 1830, il  liberalismo puro coincide, oggi, con il pensiero e le forze economiche e politiche socialmente dominanti. C’è però una differenza sostanziale tra il 1830 e il 2018, una differenza che è la chiave politica di tutto: che nel 1830 il suffragio elettorale era censitario e ristretto, nel 2017 universale: e per quanto il sistema politico-mediatico possa manipolarlo con le campagne di guerra psicologica, con le leggi elettorali maggioritarie, etc., non può permettersi di abolirlo, perché il suffragio universale è la “formula politica” (Mosca)[13] che lo legittima. E’ questo, il punto debole del liberalismo, che è democratico soltanto suo malgrado. Il liberalismo non è mai riuscito a diventare “popolare”, perché sin dalla sua premessa metodologica non si rivolge ai popoli e alle comunità, ma agli individui.

In sintesi. Stravincendo e mettendo con le spalle al muro tanto la sinistra quanto la destra, il liberalismo orleanista di Macron costringe entrambe ad affrontare e tentar di sciogliere un nodo metapolitico di portata storica: la dialettica dell’illuminismo e il precipitato storico della Rivoluzione francese. Il mondialismo liberale è la manifestazione storica della dialettica dell’illuminismo, del progressismo e dell’universalismo, culturale e politico, che li accompagna. Illuminismo e universalismo sono trascrizioni secolarizzate – amputate della dimensione metafisica e propriamente religiosa – del cristianesimo. L’opposizione al mondialismo è dunque costretta ad essere, volens nolens, opposizione all’illuminismo e all’universalismo politico[14]; e la linea di frattura politica che divide i campi tende a coincidere con la linea di frattura culturale che divide l’Europa sin dal tempo delle guerre di religione[15].

Ecco perché nel 2018 ritorna di attualità la Vandea. Ed ecco perché nella campagna elettorale presidenziale del 2017 due soli candidati hanno incentrato la loro proposta intorno alla ripetizione della parola “patrie”: Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon. Per Marine, non c’è bisogno di spiegare. Per Mélenchon, la spiegazione che propongo è questa: con la reiterazione martellante della parola “patrie”, Mélenchon manifesta il tendenziale distacco della sinistra francese dal liberalismo, e cerca di ritrovare le radici democratiche rousseauiane della sinistra giacobina e socialista. Non è un caso che anche Alain de Benoist, che ha designato il liberalismo come nemico principale del suo campo politico, abbia dedicato una crescente attenzione a Rousseau[16]: perché il liberalismo trionfante tende a separarsi dalla democrazia.

I progetti di ridefinizione politica e partitica oggi in corso in Francia e non solo in Francia, insomma, sono la manifestazione di superficie di un movimento tettonico profondissimo, che costringe gli europei e gli occidentali a ripensare la loro storia, la loro filosofia e la loro religione (o irreligione). Proprio per questo, le vicende politiche francesi che ho brevemente illustrato sin qui interessano direttamente anche l’Italia. Le differenze storiche tra le culture politiche francese ed italiana sono molte, e non superficiali. Ma in profondità, il sommovimento geologico culturale tocca l’Italia come la Francia. Ne vedremo, probabilmente, gli effetti di superficie dopo le prossime elezioni politiche del marzo 2018. Anche da noi, il blocco sociale e politico liberale tenterà di operare il “taglio delle estreme”, con l’ausilio, a destra, delle quinte colonne Berlusconi e Maroni, a sinistra delle formazioni dissidenti dal PD, e usando come massa di manovra il Movimento 5 Stelle, che grazie alla sua “impoliticità”[17] si candida a essere usato come “ago della bilancia” in una manovra machiavellica di superamento della distinzione tra destra e sinistra storiche. Se l’operazione “taglio delle estreme” riuscirà, l’effetto a breve termine sarà devastante per il campo antimondialista e antiUE; a medio e lungo termine, però, sarà benefico e liberatorio, perché farà coincidere la linea di frattura politica con la linea di frattura culturale e sociale reale e principale.

[1] https://fr.wikipedia.org/wiki/Patrick_Buisson. Per una esposizione approfondita delle sue posizioni, i francofoni possono seguire questa sua conferenza del maggio 2017: https://youtu.be/Hj_B708sCWY

[2] La grande histoire des guerres de Vendée, Perrin, Paris 2017

[3] https://fr.wikipedia.org/wiki/Nationalisme_int%C3%A9gral

[4] https://fr.wikipedia.org/wiki/Alain_Minc

[5] Qui una recensione simpatizzante : https://www.polemia.com/la-cause-du-peuple-de-patrick-buisson/

[6] https://fr.wikipedia.org/wiki/Marion_Mar%C3%A9chal-Le_Pen

[7] https://fr.wikipedia.org/wiki/Florian_Philippot

[8] https://fr.wikipedia.org/wiki/Philippe_de_Villiers

[9] https://fr.wikipedia.org/wiki/Pierre_de_Villiers_(militaire)

[10] http://www.lefigaro.fr/elections/presidentielles/2017/05/07/35003-20170507ARTFIG00164-apres-une-abstention-et-un-vote-blanc-record-macron-attendu-au-tournant.php; https://www.rtbf.be/info/monde/detail_presidentielle-francaise-emmanuel-macron-obtient-66-06-de-voix-selon-les-resultats-quasi-definitifs?id=9600231

[11] Ne ho parlato diffusamente qui: http://italiaeilmondo.com/2017/09/29/taccuino-francese-che-cosa-ci-insegna-la-crisi-del-front-national-di-roberto-buffagni/ . “Destra di situazione” significa una destra che non è tale per i valori e l’ideologia che propone, ma per il posizionamento relativo nella dialettica parlamentare; come fu appunto la destra orleanista nel 1830, che a sinistra escludeva repubblicani e bonapartisti, a destra i legittimisti.

[12] Mitterrand, un politico di abilità machiavellica, fece di tutto per promuovere a dignità di pericolo nazionale il Front National di Jean-Marie Le Pen, erede di Vichy e dell’OAS, piazzandolo nello spettro politico-ideologico allo stesso posto in cui stavano il fascismo e i suoi eredi in Italia, così ridefinendo i confini della legittimità politica in Francia a scapito della destra, e garantendo alla sinistra un vantaggio permanente in ogni competizione elettorale. A sinistra, nessun nemico (Mitterrand vinse la sua prima campagna presidenziale, nel 1981, con l’appoggio decisivo del Partito Comunista Francese, allora forte di un 15% di voti) a destra, un confine invalicabile.

[13] https://fr.wikipedia.org/wiki/Gaetano_Mosca

[14] Ne ho parlato qui: http://italiaeilmondo.com/2017/09/29/taccuino-francese-che-cosa-ci-insegna-la-crisi-del-front-national-di-roberto-buffagni/

[15] Ne ho parlato, dialogando con Alessandro Visalli, a proposito della “Dichiarazione di Parigi” firmata da un gruppo di studiosi conservatori di chiara fama: http://italiaeilmondo.com/category/dossier/autori-dossier/roberto-buffagni/

[16] Qui un articolo liberamente scaricabile: https://s3-eu-west-1.amazonaws.com/alaindebenoist/pdf/relire_rousseau.pdf

[17] E’ “impolitico” un movimento politico che non designa l’avversario, e dunque non designa neppure l’amico. La sua impoliticità lo predispone all’eterodirezione, all’essere usato come massa di manovra e come “ago della bilancia” in una manovra politica spregiudicata “al di là della destra e della sinistra”.

IDEOLOGIE_UN CASO CLAMOROSO DI ACCECAMENTO, di Antonio de Martini

Un esempio di come un’ideologia possa obnubilare le menti è l’accanimento con cui i nazisti vollero perdere la guerra piuttosto che cambiare il loro modo preconfezionato di vedere il mondo.

Incastrati in una tenaglia a est e a ovest per via dell’inganno ordito dagli inglesi che fecero credere a Hitler la favola di una Inghilterra pronta alla pace, Hitler mantenne quel che aveva scritto nel Mein Kampf, attaccò l’URSS e dovette combattere su due fronti.

Tutti gli strateghi e i politici tedeschi capirono che uno dei fronti andava pacificato a pena di sconfitta.
Ci furono decine di contatti in Svezia, Svizzera e Vaticano per fare pace con l’Occidente e continuare la guerra a Oriente, mentre i sovietici continuarono con offerte di pace separata – nelle stesse zone neutrali- fino al giugno 1943 !

Il pregiudizio nazista di trattare solo con l’Ovest impedì loro di capire che la richiesta di resa incondizionata di Roosevelt sarebbe stata mantenuta e che l’URSS avrebbe potuto rifornire di materie prime contro tecnologie la Germania ( oltre a risparmiare quattro gruppi di Armate) e farle rovesciare la situazione.

In cambio, i russi volevano creare un ritorno ai confini del 1939 e uno stato cuscinetto in Ucraina.

Hitler rifiutò ostinatamente fino a che non fu troppo tardi, ma tutte le ipotesi di chiusura di un fronte – anche per i generali tedeschi- presupponevano una intesa con l’Ovest e non con i russi che invece continuarono a proporla per due anni e in più sedi.

Ne sapremo di più quando la Russia si deciderà a desegretare i 39 volumi del processo a Lavrenti Berjia i cui termini di segretezza sono scaduti da oltre trenta anni senza esito. Il poco che se ne sa è fonte di incredulo stupore.

Da Himmler a Halder e Falkenaym a Schellenberg a Kluge, tutti cospirarono, separatamente, per la morte di Hitler e trattativa con l’Occidente. Nessuno prese in considerazione l’URSS.

Anche gli italiani presuppongono unicamente alleanze con gli USA, invece di creare almeno un sottoinsieme mediterraneo, meglio se neutrale.
Fino a che non sarà troppo tardi anche per noi.

Per i nostri governanti, gli USA sono sempre i liberatori e vanno assieme alla devozione per San Gennaro che, come è noto, non è mai esistito.

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