Una nuova tipologia di guerra : la guerra economica_2a parte, di Giuseppe Gagliano

Soggetti e tipologie della guerra economica

Dopo aver descritto le tre rivoluzioni della geopolitica, l’idea di potenza e la teoria del commercio, meritano di essere analizzati nel dettaglio i protagonisti e le forme assunte dagli scontri geo-economici. La nuova centralità dello Stato nelle relazioni internazionali, soprattutto quelle di tipo economico, è funzionale alla delimitazione del concetto di “guerra economica”, definibile come lo scontro fra nazioni mediante e ai fini dell’economia e non come competizione economica tout court, che riguarda piuttosto le imprese. Il rinnovato ruolo centrale dello Stato nell’economia è una tendenza recente, evidenziabile con il passaggio del millennio e ancora di più in seguito alla grande recessione causata dalla crisi finanziaria dell’agosto 2007, mentre negli anni Ottanta e Novanta il neoliberalismo imperante considerava lo Stato esclusivamente come un ostacolo allo sviluppo economico, alla globalizzazione finanziaria, alla transnazionalizzazione delle imprese e all’intensificazione degli scambi internazionali (restano celebri, a questo proposito, le parole del Presidente Reagan: “il problema è lo Stato”). Lo Stato, con le sue prerogative anche in campo economico, è però resistito a questa svalutazione e, continuando a favorire lo sviluppo delle proprie imprese tramite la costruzione di un ambiente giuridico, fiscale e infrastrutturale adeguato, ha posto solide basi per l’assunzione del suo ruolo odierno, quasi di “capo militare” risoluto che conosce il “mestiere delle armi”, ridonando morale e spirito di conquista all’economia e guidando le proprie truppe alla conquista di mercati e risorse. Esempi di amministrazioni statali che hanno incarnato o tuttora incarnano questo ruolo possono essere considerati il Ministero per il Commercio Internazionale e l’Industria giapponese, emblema della potenza economica nipponica, e in Francia l’unione di Presidenza della Repubblica, Presidenza del Governo e Ministero delle Finanze. Le truppe, invece, non sarebbero altro che le stesse imprese del settore privato, anche se i critici della guerra economica insistono nell’affermare che tale gerarchia di ruoli sia impossibile da realizzare, dato che la logica di potenza dello Stato e la logica di
profitto delle imprese non coinciderebbero. Tali critiche, d’altra parte, vengono screditate nel momento stesso in cui si considera che ciò che si verifica non è tanto un’alleanza diretta fra Stato e imprese, quanto piuttosto una ripercussione indiretta della forza di queste ultime sullo Stato in cui sono stabilite. S’intendono qui soprattutto le grandi multinazionali: un rapido sguardo ai principali Paesi d’origine delle prime 1.000 aziende manifatturiere mondiali nel 2007 dà conto in maniera piuttosto evidente, per non dire scontata, delle dinamiche appena evidenziate. Stati Uniti e Giappone, con rispettivamente 305 e 209 società multinazionali, distaccano di gran lunga gli altri Paesi occidentali (Francia, Germania, Regno Unito, Canada, Svizzera, Italia, Finlandia, Svezia, Paesi Bassi, Spagna, Norvegia e Lussemburgo) e i mercati emergenti (Corea del Sud, Taiwan, Cina, Brasile, India e Russia), i quali evidenziano però tassi di crescita nettamente superiori che potrebbero rovesciare, nei prossimi anni, questa classifica. Si tratta, naturalmente, di un impianto strategico che va a discapito delle istituzioni multilaterali, sviluppatesi soprattutto negli anni Novanta, con gli Stati occidentali che oggi preferiscono gli accordi bilaterali, lasciando il campo più libero a una dinamica di alleanze e di rapporti di forza, secondo quanto afferma Bernard Nadoulek. Di fatto, quello che è avvenuto è che lo Stato si è messo a capo di quelle tre rivoluzioni indicate nella sezione precedente del presente contributo, che sono state il motore del passaggio da una logica di Guerra Fredda a quella di guerra economica, piuttosto che svolgere un mero ruolo di garante delle regole del gioco, di controllore della correttezza dello stesso o di strumento di salvataggio in caso di sconfitta. Questo perché esso possiede delle prerogative che non sono alla portata delle imprese, per quanto grandi esse siano, soprattutto in termini di finanziamento a lungo termine e di investimenti lungimiranti in tecnologie costose e settori all’avanguardia. Non solo il finanziamento, ma anche la pianificazione di lunga durata è appannaggio dello Stato piuttosto che delle aziende: è il caso del Commissariato per la Pianificazione Economica in Francia, in vigore dal 1946 al 2006, e a livello europeo delle due strategie decennali rispettivamente di Lisbona, adottata nel 2000 dai Paesi membri dell’UE allo scopo di rendere l’Unione Europea
“la prima economia della conoscenza”, ed Europa 2020 per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva. Vi è poi il caso di capi di Stato e di governo che incarnano personalmente ruoli di tipo economico: emblematici sono gli esempi carismatici di Margaret Thatcher e Bill Clinton, entrambi impegnatisi in prima persona in particolare con l’Arabia Saudita per la stipula di contratti di fornitura, e quello decisamente più duro di Putin, che usa deliberatamente il gas russo come arma allo stesso tempo di dissuasione e di pressione. Il ruolo delle imprese, in questo contesto di guerra economica, sarebbe dunque quello di “truppe”, al fronte se esportano in maniera consistente, nelle retrovie se mantengono saldamente il controllo di nicchie del mercato interno, di sfondamento se svolgono una parte consistente della loro attività in terra straniera. In quest’ultimo caso ci riferiamo soprattutto alle grandi industrie multinazionali, il cui peso e importanza economica vengono stabiliti non tanto in funzione del loro fatturato annuale, bensì sul grado di globalizzazione, cioè sulla loro capacità di conquistare mercati esteri. Questa abilità si può misurare considerando i valori che costituiscono l’indice di transnazionalità di un’azienda, nonché gli attivi detenuti al di fuori del Paese dove ha sede la casa madre, la percentuale di vendite realizzate all’estero e il numero di dipendenti che lavorano all’estero. Vi sono però alcuni elementi che non rendono quest’identificazione di tipo militare così automatica come sembrerebbe. Innanzitutto, la questione della nazionalità delle imprese, soprattutto le multinazionali: analizzando i listini dei principali indici borsistici degli Stati occidentali, ciò che salta immediatamente all’occhio è la quantità di capitali detenuta da residenti stranieri, che molto spesso supera la metà del totale delle società quotate nei listini stessi; in questi casi risulta quindi controverso affermare un’unica nazionalità per queste imprese. Eppure, il concetto di nazionalità è fondamentale per la definizione di guerra economica, poiché quest’ultima cessa di esistere se non vi è nessuna esigenza di difendere delle proprietà interne alla nazione stessa, sia in maniera diretta – con il possesso di quote azionarie da parte dello Stato, ad esempio –, sia in maniera indiretta – garantendone l’indipendenza nei confronti di imprese straniere. Gli Stati Uniti si
confermano, anche in questo caso, in prima linea nella difesa dei propri interessi interni, come hanno dimostrato due interventi dell’amministrazione Bush, rispettivamente nel 2005 e nel 2006, per impedire l’acquisto di Unocal (azienda del settore petrolifero) da parte della China National Offshore Corporation e per costringere la Dubai Port World alla vendita della gestione di sei grandi porti americani a favore di AIG International, una società di servizi finanziari e assicurativi. D’altronde, vi sono almeno tre fattori che permettono di considerare nazionali imprese che, a tutti gli effetti, si fondano invece su capitali internazionali: in primo luogo il territorio dove originariamente la società è stata fondata e ha sviluppato la propria attività, costruendo legami con fornitori e clienti e operando sulla base di prassi non scritte derivanti da una determinata cultura nazionale; in secondo luogo, le norme e i rapporti istituzionali che permettono lo sviluppo dell’impresa, anch’essi dipendenti dal Paese in cui la stessa ha la sede principale; infine, l’ubicazione del centro decisionale, la cultura d’impresa e la nazionalità dei proprietari del capitale. Il secondo elemento che rende problematica l’identificazione automatica delle imprese come “truppe” della guerra economica è la convergenza d’interessi di Stati e imprese. Come già anticipato in precedenza, la logica di potenza degli Stati differisce dalla logica di profitto delle imprese, che spesso si dimostrano indifferenti alle necessità degli interessi nazionali. In realtà, al giorno d’oggi l’economia è forse la preoccupazione principale degli Stati, come pure i suoi operatori i quali, con la conquista di segmenti di mercato su cui vendere le merci prodotte, garantiscono il mantenimento di livelli adeguati di occupazione ed entrate costanti e sicure nelle casse dello Stato sotto forma di imposte, contribuendo così alla gestione degli equilibri sociali e al finanziamento dei servizi pubblici (sanità, istruzione, giustizia, difesa, ecc.). Il fatto che alcune imprese generano occupazione e versano imposte in Stati esteri concorre però, almeno indirettamente, al controllo di un mercato straniero da parte di interessi nazionali ed è a servizio della politica di potenza dello Stato. Questa convergenza d’interessi spiega, in ogni caso, perché gli Stati cercano di promuovere e consolidare le
aziende leader a livello nazionale e internazionale nei diversi settori. Gli Stati Uniti si confermano al primo posto in varie classifiche: con il primato in settori quali quello aerospaziale e della difesa (Boeing Co.), quello farmaceutico e nella grande distribuzione (con Walmart che da diversi anni si conferma come la prima multinazionale mondiale per fatturato), sono lo Stato con il più alto numero di multinazionali di punta, seguiti dalla Germania, che detiene il primato nei settori automobilistico (Volkswagen) e chimico (BASF) e Cina, le cui imprese statali dominano soprattutto il settore petrolifero (Sinopec Group e China National Petroleum Corporation); l’Italia, grazie al primato di Exor, gode di una posizione di rilievo nel settore dei servizi finanziari. È palese, anche agli occhi della sempre più informata opinione pubblica, che l’apertura di filiali all’estero da parte delle multinazionali o la delocalizzazione della produzione – anche da parte di imprese di dimensioni inferiori – in virtù dei minori costi sostenuti non favorisce l’occupazione interna, indicatore di potenza economica (nonché di controllo sociale) tanto caro agli Stati. Partendo da questa constatazione, gli Stati hanno sviluppato due tipi di atteggiamento in merito: il più diffuso è cercare di incentivare le società straniere a investire sul proprio territorio con politiche fiscali e normative più vantaggiose (ambito in cui l’Italia è fanalino di coda fra i Paesi occidentali, a causa delle inefficienze della triade burocrazia, fiscalità e giustizia civile), mentre il secondo è un tipo di approccio attuato, ancora una volta, dagli Stati Uniti della prima presidenza Clinton, con la proposta di sostenere le imprese presenti sul territorio statunitense a prescindere dalla loro nazionalità, allo scopo di creare o mantenere l’occupazione nazionale. La conclusione che si può trarre da quanto analizzato finora è dunque quella di uno scenario in cui imprese e Stati si muovono nell’arena della competizione economica non collaborando strettamente (anche perché si tratterebbe di una constatazione ingenua), ma utilizzando le rispettive armi e carte vincenti che, in taluni casi, contribuiscono e favoriscono le logiche di intervento delle une e degli altri. Considerato, d’altra parte, il ruolo che lo Stato sempre più deve assumere nel contesto delle relazioni economiche internazionali, destabilizzando l’impianto
liberale finora prevalente a livello globale, si può immaginare un futuro in cui Stati e imprese dovranno, a tavolino, trovare un equilibrio che tenga conto delle reciproche prerogative. La grande recessione causata dalla crisi finanziaria dell’agosto 2007, a motivo della sua eccezionale gravità che coinvolge tutti i Paesi e per cui è impensabile che vi sia qualcuno che ne uscirà vincitore a discapito degli altri, favorisce nelle relazioni internazionali una dialettica in cui vengono rimesse al centro le logiche multilaterali dei grandi organismi, FMI e Unione Europea in testa, ma anche OMC e ONU. I Paesi del G20, che sostituirà gradualmente il G8 come principale forum economico delle nazioni più sviluppate, mantengono ufficialmente il dialogo come metodo di regolamentazione delle difficoltà economiche, anche perché l’urgenza della situazione economica sembra richiedere una risposta collettiva per salvare la finanza ed evitare la contrazione degli scambi, senza ricadere perciò in quel cortocircuito di natura economica generatosi negli anni Trenta del Novecento che portò agli avvenimenti storici mondiali e soprattutto europei che ben si conoscono. Tuttavia, la contraddizione è dietro l’angolo: se questo è, infatti, il discorso ufficiale mantenuto dagli Stati, la realtà dei fatti dimostra come la necessità di conservare le porzioni di mercato acquisite sia preponderante rispetto all’imperativo di solidarietà nel settore finanziario, aumentando così le tensioni già abbastanza elevate a causa della crisi. Quest’ultima, d’altra parte, se nella percezione generale è connotata esclusivamente in senso negativo, si rivela spesso una grossa opportunità per le imprese che le sopravvivono di conquistare nuovi “territori” rimasti sprovvisti di fornitori (in Francia, esse sono sostenute in questo tipo di attività da Ubifrance, l’Agenzia francese per lo Sviluppo Internazionale delle Imprese, di cui il corrispettivo italiano è l’Agenzia ICE). Ecco che torna dunque la logica di guerra economica, che ci aiuta ancora una volta a comprendere atteggiamenti che potrebbero sembrare discordanti, se non addirittura schizofrenici, e che devono invece essere letti come l’evoluzione dei rapporti postGuerra Fredda, dove le alleanze non più militari consentono di non sentirsi
vincolati a costo della vita ai propri partner, ma addirittura di considerarli dei concorrenti commerciali e di trattarli di conseguenza. Il mondo post-bipolarismo, quindi, non è più un unico scacchiere dove solo due giocatori muovono di volta in volta le loro pedine, ma è composto di numerosi scacchieri sovrapposti dove si conducono partite spesso legate le une alle altre. Si potrebbe affermare che resta valido il concetto di multipolarismo adottato per definire le relazioni internazionali successive alla fine della Guerra Fredda, benché non vada interpretato in senso idilliaco e come orizzonte di una definitiva concordia fra i popoli, bensì in senso di guerra economica e come scena su cui gli Stati-attori assumono sempre più i ruoli ambivalenti di partner/concorrente e sempre meno quelli di alleato/avversario, che si escludono a vicenda. Secondo questa lettura, ai due blocchi della Guerra Fredda sarebbero succeduti tre blocchi: il primo sarebbe lo spazio di potenza ancora teorica ma in via di erosione progressiva del mondo occidentale, eccezion fatta forse per gli Stati Uniti; il secondo sarebbe l’ampio spazio di manovra delle nuove potenze, in continua (anche se al giorno d’oggi rallentata) espansione anche per quanto riguarda il numero dei Paesi che ne farebbero parte; il terzo, infine, corrisponderebbe allo spazio di sopravvivenza dei Paesi non compresi nei due blocchi precedenti, un nuovo ipotetico Terzo Mondo. L’analisi che i due esperti Christian Harbulot e Didier Lucas conducono a proposito delle strategie di potenza fino al 2020 conferma tuttavia la generale crisi del multilateralismo e la riaffermazione della sovranità e della potenza degli Stati nazionali. È opportuno ribadire che le alleanze interne ai tre nuovi blocchi di cui abbiamo appena presentato la proposta non hanno il carattere necessario delle passate alleanze, anzi vi sono collegamenti anche molto stretti fra Paesi che integrano blocchi diversi. Si pensi, ad esempio, alla complessità del rapporto CinaUSA: rivali nell’Africa subsahariana, dove si affrontano in una guerra per le risorse senza esclusione di colpi, ma reciprocamente dipendenti a causa del finanziamento del debito pubblico statunitense tramite l’acquisto di buoni del Tesoro americano, da un lato, e dei consistenti investimenti diretti all’estero su cui si sostiene la
crescita del gigante asiatico, dall’altro. Le analisi, in questo senso, sono ambivalenti: c’è chi sostiene che la Cina non si accontenterà del secondo posto a livello mondiale e che fin d’ora, tramite la dipendenza economica e il trasferimento di tecnologia, mostra ciò di cui sarà capace nelle offensive di una futura, probabile guerra del Pacifico; c’è chi invece legge con maggiore preoccupazione l’alleanza strategica con l’India sulle alte tecnologie, che potrebbe mettere in scacco le potenze occidentali sprovviste di una simile arma. Nonostante tutto, anche tenendo conto di questi scenari in cui i Paesi emergenti avrebbero finalmente la meglio sul vecchio Occidente, gli Stati Uniti restano ancora l’incontestabile leader della globalizzazione, anche in virtù della loro sapiente difesa degli interessi nazionali.La guerra economica come mezzo al servizio delle strategie di potenza degli Stati, siano esse di natura geopolitica o geo-economica, può assumere tre diverse tipologie: guerra economica con finalità economiche; guerra economica con finalità politico-strategiche; guerra economica con finalità militari. La prima forma è l’oggetto di tutti i discorsi fatti finora, sarà ulteriormente approfondita nella sezione seguente e non è altro che l’indebolimento degli avversari sui mercati internazionali attraverso l’espansione della forza economica dei singoli Stati. La seconda forma si esplicita principalmente nelle sanzioni intese come danni economici imposti a un Paese affinché cambi politica. Si tratta di un’arma antica della guerra economica, di cui molti sono gli esempi recenti e contemporanei: le sanzioni economiche imposte dalla Società delle Nazioni contro l’Italia in seguito alla guerra d’Etiopia, quelle contro il Sudafrica al tempo dell’apartheid e le più recenti e ancora in vigore “misure restrittive”, come vengono definite nel gergo dell’UE, a danno della Russia in risposta alla crisi in Ucraina, di carattere diplomatico (sospensione del G8), finanziario (congelamento dei beni e restrizioni di viaggio) e più specificamente economico (divieti di importazione e di esportazione in settori specifici). La terza forma di guerra economica, dal momento che per lo più assume le forme della seconda, se ne differenzia esattamente per il fine; in questo caso, ne sono esempi le sanzioni economiche contro l’Iraq di
Saddam Hussein negli anni Novanta (successive alla prima guerra del Golfo ma interrotte con la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 1483 del 2003), l’embargo sulle armi imposto su tutti i territori dell’ex Jugoslavia pochi mesi dopo l’inizio della guerra in Croazia (determinante per l’andamento della guerra in Bosnia-Erzegovina) e l’attuale embargo sulle armi nei confronti della Siria, causato dalle violente repressioni del governo che nel 2011 hanno dato avvio alla guerra civile ancora in corso. Sarebbe auspicabile pensare, come alcuni teorici sostengono, che la prima forma di guerra economica abbia soppiantato quasi completamente gli scontri bellici diretti, almeno fra le grandi potenze del pianeta. Tuttavia, la guerra cosiddetta tradizionale non si è davvero ritirata in favore della sua forma meno virulenta (e sicuramente meno sporca di sangue), come auspicano i liberali da ormai due secoli. Gli scenari di alcuni importanti conflitti degli ultimi vent’anni dimostrano piuttosto come ciò che avviene sia una sostanziale sovrapposizione e un intreccio fra guerra classica e guerra economica. Questa constatazione può essere verificata in quasi tutti i continenti: in Africa, ad esempio, le guerre che insanguinano la regione dei Grandi Laghi sono contemporaneamente lotte per il potere e per il controllo delle risorse naturali. Il caso della Repubblica Democratica del Congo è emblematico con le regioni del Nord e Sud Kivu che, dopo il genocidio del Ruanda nel 1994, sono state il teatro di atrocità belliche permanenti causate da conflittualità di tipo etnico (scontro plurisecolare fra nilotici e bantu, esacerbato ma tenuto a bada in epoca coloniale ed esploso in seguito all’indipendenza dei Paesi dell’area) intrecciate a questioni territoriali (alcune etnie rivendicano le terre di grandi proprietari appartenenti ad altre etnie) e a ragioni di tipo economico (per il controllo delle zone di estrazione di rame, cobalto, diamanti, oro, zinco e altri metalli di base). In Europa, le motivazioni politiche della già citata crisi ucraina (opposizione russa all’Accordo di Associazione con l’Unione Europea, annessione della Crimea e proteste filorusse nelle altre regioni dell’Ucraina orientale) sono legate a doppio filo con motivazioni economiche più o meno evidenti, come la necessità per la Russia di mantenere il controllo del porto di Sebastopoli
(fondamentale per i suoi traffici commerciali), l’importanza di Kiev sul mercato internazionale dei cereali (secondo esportatore mondiale nel 2014) e la sua posizione strategica come corridoio di importanti gasdotti diretti verso il continente europeo. Il caso siriano, infine, è esemplificativo di quanto sul quadrante geopolitico mediorientale pesino considerazioni di tipo economico legate principalmente alle risorse energetiche: all’origine del mancato intervento occidentale in una guerra che infiamma ormai da cinque anni ci sarebbe la relativa povertà di idrocarburi e gas naturale dei giacimenti controllati da Damasco, che non motiverebbe quindi i costi ingenti di una mobilitazione

sovranismi limitati, di giuseppe germinario

ad esso attinente:

http://italiaeilmondo.com/2018/09/23/sovranita-sovranismo-e-sovranismi-di-giuseppe-germinario/

 

Il 2019 non passerà certamente alla storia come un anno epocale, ma sarà comunque ricordato negli annali politici d’Italia almeno come un punto cruciale di svolta del movimento, per meglio dire dell’area cosiddetta sovranista, definito tale in quanto sostenitore di un recupero delle prerogative sovrane dello stato nazionale nel sistema di relazioni interne ed esterne di una formazione sociale. Più che di sostegno di un obbiettivo politico ben definito, si dovrebbe parlare di mera aspirazione. La quasi totalità di questa area di opinione piuttosto che coagularsi in formazioni politiche chiaramente connotate in tal senso ha preferito sino ad ora affidarsi a partiti già ampiamente strutturati e radicati, almeno elettoralmente, quali la Lega e il M5S, ma che nel migliore dei casi assumevano solo alcuni aspetti di questo orientamento cosiddetto sovranista: l’euro, i margini di deficit, i flussi migratori e per di più in maniera assolutamente estemporanea. La congiunzione astrale che ha portato alla formazione del primo Governo Conte ha certamente vellicato le aspirazioni e offerto una parvenza di concretezza a questo auspicio congelando i propositi e le velleità di costruzioni politiche alternative con tale impronta.

La crisi latente e poi manifesta del primo Governo Conte, la deriva smaccatamente opportunista e trasformista del M5S, il confronto politico più sottotraccia nella Lega che sta portando comunque il partito verso un progressivo riallineamento, non si sa se meramente tattico, alle tesi europeiste e nei canoni tradizionali del confronto politico hanno scoperchiato improvvisamente il calderone. Ne sono sorte nuove formazioni politiche le più significative delle quali- Nuova Direzione, Patria e Costituzione, Vox Italia- hanno assunto la lotta di classe come motore determinante e dirimente per affermare una strategia sovranista vincente in quanto suscettibile di emancipare i ceti popolari. Una impronta che intende collocarsi a grandi linee nel solco della tradizione gramsciana, marxista ed internazionalista.

Una novità significativa se non in assoluto almeno nel minoritario arcipelago sovranista. Sino ad ora la sinistra e le stesse componenti neosocialiste e progressiste avevano brillato negli ultimi trenta anni, specie in Italia, per il progressivo scivolamento verso posizioni globaliste e cosmopolitistiche che tendevano a rimuovere e negare la funzione degli stati, in particolare degli stati nazionali o a riconoscere ad essi, tuttalpiù, una funzione regressiva. In queste nuove formazioni il ruolo dello stato, in particolare ma non sempre di quello nazionale, torna ad occupare un posto di primo piano.

Una prima disamina dell’impianto teorico ed analitico per altro comune a queste organizzazioni può aiutare a comprendere il respiro di queste iniziative senza cedere però alla tentazione di trarre deterministicamente giudizi inequivocabili sul piano della loro azione politica concreta. Quasi tutti i movimenti politici, specie quelli rivoluzionari, susseguitisi nella storia sono per altro stati pressoché condannati ad una qualche forma di eterogenesi dei fini; la cautela è quindi d’obbligo specie in una fase di transizione durante la quale è particolarmente difficoltoso riuscire a produrre un corpo teorico coerente ma adeguato alle dinamiche politiche.

Si parte quindi dalla constatazione che il capitalismo sia il rapporto sociale dominante, se non addirittura ormai esclusivo ed “assoluto”, capace di pervadere non solo l’intero pianeta ma anche i vari ambiti della vita umana dei singoli. Da qui la suddivisione classica e dirimente della società tra i capitalisti dominanti e i subalterni dominati e oppressi. La caratteristica fondamentale del capitalismo maturo è la sua liquidità ed estrema mobilità. Particolarità che caratterizza i capitalisti dominanti nel ruolo parassitario di percettori di rendite e come figure sempre meno vincolate da limiti e legami territoriali.

Il carattere parassitario e predatorio dei capitalisti dominanti ha innescato una dinamica accelerata e diffusa di accentuazione delle ineguaglianze e dello sfruttamento, di vera e propria espropriazione e precarizzazione della condizione di lavoro ed umana in generale.

La rappresentazione sociale conseguente a questa chiave di lettura si riduce ad una forbice che vede un decimo della popolazione detenere la ricchezza e il dominio sul restante 90% progressivamente pauperizzato. Un rapporto più realistico rispetto a quello 1 a 99 in auge sino a qualche tempo fa nella pubblicistica movimentista, ma comunque sorprendente considerata la capacità di tenuta del sistema. In effetti qualche riserva sulla attendibilità di questa rappresentazione deve aver colto i più avveduti visto che la permeabilità, altrimenti indecifrabile, dei due blocchi sociali così nettamente divisi sarebbe in realtà consentita dal peso diverso che avrebbe la rendita nelle varie figure sociali dal carattere di fatto ibrido. In linea di massima, però, la tenuta del sistema è garantita soprattutto dalla crescente attitudine al controllo e dalle capacità persuasive ed egemoniche di un sistema mediatico e culturale interamente sotto controllo della classe dominante.

La conduzione pratica della lotta di classe e l’esercizio di espropriazione ad opera dei capitalisti procede prevalentemente attraverso questa modalità:

  • Lo svuotamento progressivo delle prerogative degli stati nazionali con la cessione di competenze agli organismi sovranazionali (UE, FMI, BCE, ect)
  • la dismissione progressiva ai privati della gestione dei servizi e degli interventi diretti nelle attività produttive e l’inaridimento progressivo del welfare
  • l’appropriazione di plusvalore non soltanto attraverso l’acquisizione del pluslavoro dai salariati, ma da un processo di vera e propria rapina e alienazione generalizzate

Anche se le posizioni del capitalismo globalista riguardo alla sorte dello stato nazionale spaziano tra l’intenzione di annichilirlo e quello di asservirlo strettamente ai propri interessi, di fatto il conflitto di classe si alimenta tra la propensione alla territorialità e al comunitarismo dei ceti subalterni e la propensione globalista e mondialista dei dominanti. Di conseguenza ogni progetto di emancipazione deve passare attraverso un recupero delle prerogative statali il cui esercizio implica di per sé l’esistenza di un territorio delimitato; ogni pratica realmente sovranista deve avere necessariamente una connotazione anticapitalista e socialista; i soggetti portanti e antagonisti del conflitto sono quindi le vittime del capitalismo, in particolare i precari da un lato e i capitalisti, identificati nei rentier della finanza, dall’altro.

Si tratta di impostazioni teoriche ed analisi di dinamiche dalle pesanti implicazioni nelle strategie politiche, nelle tattiche, nell’individuazione di avversari ed alleati e della composizione dei blocchi sociali a supporto del progetto politico.

L’enfasi pressoché esclusiva riservata al conflitto di classe elude completamente l’evidenza dei conflitti tra centri, definiti da chi scrive al momento capitalistici, compresi quelli tra centri finanziari ed ignora il dato storico che un successo radicale dei ceti subalterni, sia soprattutto nella forma rivoluzionaria ma anche in quella riformistica, si è realizzato nei momenti di maggior asprezza e distruttività del conflitto, chiamiamolo per il momento così, tra dominanti. L’assegnazione di una posizione di dominio assoluto al capitalismo finanziario tende a conformare il ceto dei rentier ad una cupola capace di esercitare il dominio globale ed assoluto sulla società uniformata. Il conflitto e la competizione tra dominanti, per l’esattezza tra centri egemonici, è al contrario la caratteristica principale costante delle dinamiche politiche che interagisce con le dinamiche dei conflitti sociali, specie di classe, di natura verticale; conflitti, questi ultimi che esplodono e che soprattutto conseguono successi significativi per i subalterni solo in alcune contingenze e solo quando a questi si associano quote significative di classi dirigenti e di ceti professionali in grado di esercitare il . Soprattutto conoscono lunghi intervalli di latenza politica e la particolare contingenza, dovuta a motivi soggettivi che oggettivi di frammentazione e ricomposizione sociale, si può benissimo inserire in questa fase

Analoga approssimazione viene rivelata nel tentativo di individuare la composizione dei soggetti costitutivi dei blocchi sociali oggettivamente contrapposti. L’attribuzione della posizione di dominio assoluto ai rentier finanziari pone il problema della collocazione dei restanti soggetti imprenditoriali (capitalistici) e di tutta la gamma di ceti e strati sociali. Il dilemma viene solitamente risolto o con l’affermazione che i capitalisti sono costitutivamente globalisti (es. Porcaro) oppure che trattandosi di settori residuali e decadenti sono ininfluenti e destinati a scomparire, rimuovendo quindi un problema sia pur transitorio. Da una parte quindi si ignora il dato storico che nel momento in cui una formazione sociale ha cercato l’emancipazione da quella subordinata alla posizione dominante, ha trovato in questi ceti una propulsione decisiva. Non si spiegherebbe, infatti, a titolo di esempio il successo dell’economista List nei momenti di formazione delle potenze statunitense, tedesca e giapponese contrapposte a quella inglese di fine ‘800. Dall’altra, con l’enfasi esclusiva attribuita alla polarizzazione delle diseguaglianze e ai processi di proletarizzazione, in termini attuali ma dal significato però profondamente diverso glebalizzazione (Fusaro) si travisano gravemente la situazione e le dinamiche legate alla funzione e alla condizione degli strati sociali intermedi (detti ceti medi). Quello che il concetto di glebalizzazione evidenzia e rappresenta è la divaricazione progressiva e scandalosa tra la condizione di dominio e privilegiata del vertice della piramide sociale e la condizione di servaggio della sua base sempre più estesa e appiattita, condannata ad una condizione informe, precaria e instabile. Quello che invece elude è la stratificazione di questa base, molto più complessa di come viene rappresentata e contraddittoria nelle sue tendenze di sviluppo nelle varie aree geoeconomiche. La composizione degli strati intermedi della società, dei quali si declama la progressiva sparizione soprattutto verso il basso della scala sociale, dipende in realtà da una serie di fattori:

  • dai cambiamenti tecnologici che rideterminano la divisione del lavoro e delle funzioni, la varietà delle competenze professionali, le capacità e la qualità di controllo e in buona parte le gerarchie
  • dal carattere emergente o declinante delle formazioni sociali, in termini di potenza politico-economica e di conseguente complessità della loro composizione
  • dal peso della conflittualità sociale e politica nel determinare a sua volta l’articolazione delle strutture di controllo e di comando
  • da politiche consapevoli di redistribuzione di redditi e diritti (es proprietà immobiliari) volte a favorire artificiosamente lo status e la dimensione di questi strati

Se infatti il peso di questi strati intermedi si sta riducendo e la loro condizione economica si sta appiattendo in gran parte del mondo occidentale, una tendenza esattamente contraria si sta manifestando nelle formazioni emergenti a cominciare dalla Russia, dalla Cina, dall’India e dal Brasile, ma non solo da quelle parti.

Vi è inoltre un aspetto transitorio del fenomeno, legato alle trasformazioni tecnologiche e alla riconsiderazione dei ruoli e delle funzioni ascrivibili ad esse, difficile al momento da valutare nelle dimensioni e nella qualità.

Per finire una tale rappresentazione tende a presentare questo appiattimento, relativo o presunto che sia, come un fenomeno meramente redistributivo della ricchezza, eludendo invece la questione ben presente dei ruoli, delle funzioni e dello status. Proprio l’Italia, guarda caso, potrebbe essere un esempio apparentemente paradossale di appiattimento redistributivo al ribasso delle competenze professionali e di funzioni in una situazione di estrema divergenza tra la condizione economica dei vertici di comando ed il resto. L’esercizio delle funzioni continuano però ad avere un ruolo essenziale nella stratificazione e nella collocazione sociopolitica degli individui.

Al contrario il concetto di plebe e di glebalizzazione tende ad attribuire un carattere avulso sia alla élite dominante che alla massa marginalizzata.

Le implicazioni politiche di questa analisi assolutamente prevalente negli ambienti sovranisti, specie in quelli sinistrorsi, sono particolarmente pesanti.

Assumendo la condizione di dominio assoluto del capitalismo finanziario si tendono a rimuovere le contraddizioni ed i conflitti spesso dirompenti e distruttivi fra i vari centri finanziari; si evidenzia esclusivamente il suo carattere parassitario e si elude completamente la funzione positiva e proattiva di drenaggio e di trasferimento di risorse non solo tra strati sociali ma anche tra settori economici e formazioni sociopolitiche, contribuendo così a determinare la particolare condizione di potenza e le aree di influenza delle varie formazioni. Si riduce di fatto il capitalismo finanziario al solo capitalismo finanziario occidentale ad egemonia americana, rendendo così di fatto impalpabile la natura degli analoghi sistemi finanziari delle potenze concorrenti, in particolare russi e cinesi. Si glissa sulla funzione dinamica e sulla capacità attrattiva del capitalismo, per meglio dire del rapporto sociale di produzione capitalistico, che ha fatto di questo ormai il sistema socioeconomico predominante, pressoché esclusivo, dell’intero pianeta comprese le formazioni sociali eurasiatiste e socialiste presenti e offerte come sistemi sociali alternativi e antitetici, risolutivi delle ingiustizie sociali.

In realtà questi centri finanziari sono per lo più parte integrante di sistemi complessi di impresa a loro volta componenti più o meno decisivi di centri politici decisionali strategici in costante rapporto di cooperazione e conflitto. Sono questi centri che agognano, operano ed esercitano quel potere che conforma le varie forme di dominio, compreso quello capitalistico nel sistema di produzione. Il luogo è lo strumento principale di conflitto e di esercizio del potere e dell’azione politica di costoro rimane ancora, direi sempre più, lo Stato.

Si arriva quindi ad un altro punto debole dell’analisi e dell’azione politica di questa area politica. Si tende a vedere il rapporto tra Stato e capitalismo finanziario di natura esclusivamente antagonistica con il secondo che tende a sopprimere del tutto le prerogative dell’altro o tutt’al più a ridurlo a mero esecutore di funzioni repressive. In realtà questi stessi centri finanziari per agire hanno bisogno di un quadro normativo, del sostegno politico, giudiziario e militare, delle capacità persuasive delle istituzioni e delle strutture statali, in particolare di quelle dello stato espressione dei centri politici egemonici e dominanti per competere e confliggere con altri stati, altre imprese e altri sistemi economici. Possono anche dichiararsi ed ambire ad una visione cosmopolitica e soggettivamente possono essere preda di questo punto di vista; ma sono come cavalli liberi di correre a piacimento finché le briglie rimangono sciolte; finché prosaicamente la loro libertà di movimento coincide sostanzialmente con la capacità egemonica di un centro di potere, detentore delle leve dello stato egemonico. Non si tratta quindi di contrapposizione tra lo Stato detentore e difensore del “bene pubblico” e del capitalismo impegnato nell’affermazione del bene privato dei possessori di capitale, bensì di conflitto tra centri decisionali nell’occupazione delle leve e nell’attuazione di politiche tese a formare quel blocco, quella coesione sociali e quella forza necessari al conseguimento degli obbiettivi interni ed esterni entro il quale agiscono le dinamiche capitalistiche; in altre parole di quel “bene pubblico” interpretato in termini però più prosaici.

Impostata in questi termini la questione, si rivela limitativo, se non capzioso, l’approccio al tema dello Stato e del suo esercizio di sovranità offerto da questa area. Si afferma che la sovranità è, esiste e va sostenuta solo se popolare e nella attuale forma costituzionale. Di fatto però si confonde l’esercizio della sovranità, proprio dei centri decisionali con la forma di legittimazione che modella in pratica le istituzioni. Un equivoco che porta a fraintendere, specie nelle contingenze più critiche, la natura e la fattualità della partecipazione popolare anche nei regimi cosiddetti democratici. Dall’altra tende ad interessare un unico e particolare aspetto dell’intervento statale: quello della redistribuzione legata alla pratica del welfare e in subordine quello dell’intervento pubblico diretto in economia visto in termini di bene pubblico piuttosto che di efficacia nel garantire gli interessi strategici, l’efficacia e la coesione di una formazione sociopolitica gestita da centri decisionali. Ed infatti più che di capitalismo, si dovrebbe parlare di capitalismi nelle varie conformazioni dettate dalla storicità delle formazioni sociali e dalla dinamica delle decisioni politiche e del confronto dei centri decisionali.

Tale approccio tende da una parte ad attribuire poteri autonomi ad organismi sovranazionali che in realtà sono il concentrato della capacità operativa di stati egemoni e il campo di definizione dei contenziosi; dall’altra non consente di individuare sufficientemente le dinamiche e la natura del confronto politico; preclude la possibilità di individuare la formazione di un blocco sociale, comprensivo di ceti professionali, imprenditoriali e manageriali idonei e disponibili a sovvertire la situazione. Un ambito dove questo limite risalta è proprio quello della salvaguardia e del potenziamento della grande industria strategica, laddove ai proclami di difesa non corrisponde lo sforzo di individuazione delle forze interne a quelle realtà sensibili al problema. Si punta ad attribuire una capacità egemonica a forze di per sé marginali e marginalizzate, dalle quali non si sa come dovrebbero sorgere le élite capaci di guidare il cambiamento.

Da qui la sopravvalutazione dell’importanza dell’interlocuzione con gli ambienti del M5S e la preclusione della stessa con gli ambienti della Lega. Quasi che il carattere popolare del salario di cittadinanza sia qualificante rispetto alla quota 100 propugnata da una Lega insensibile a queste istanze. Da qui l’attenzione agli strati marginalizzati dai primi e la rimozione e la rinuncia alle possibilità di intervento negli strati professionalizzati ed imprenditoriali maggiormente rappresentati dai secondi. In realtà un impegno alla redistribuzione e al ripristino dei diritti e delle opportunità di base a favore di tutta la popolazione, proprio di forze socialiste o comunitarie, può essere proposto in funzione della coesione, della forza e della dinamicità di una formazione sociale e delle istituzioni che la governano, dove il discorso di potenza deve avere uno spazio fondamentale come quello riservato alle tematiche più care e tradizionali. Tutto ciò non esclude il conflitto sociale, sia all’interno che all’esterno del blocco di riferimento; anzi lo valorizza e lo indirizza più efficacemente. In caso contrario non fa che assecondare, involontariamente o meno, quei processi involutivi che stanno rapidamente e radicalmente riconducendo all’ovile quelle forze, in particolare Lega e ormai definitivamente M5S, che avevano rivelato qualche velleità emancipatoria senza nemmeno tentare di discernere all’interno di esse il grano dal loglio; non solo, riduce l’impegno politico di convincimento e aggregazione del blocco sociale ad un problema di mera comunicazione sulla falsariga di quel recupero approssimativo di Gramsci e del suo concetto di egemonia già avvenuto in America Latina

Bisognerà probabilmente fare un ulteriore sforzo di definizione di campo di intervento. Tutte queste forze si definiscono socialiste o comunitariste e, quindi, anticapitaliste. Il capitalismo è un rapporto sociale di produzione; il socialismo è invece un regime politico, sia pure nelle diverse accezioni nel corso degli ultimi due secoli. Si parla di anticapitalismo, ma in realtà si propugna una forma di regolazione del capitalismo, diversa dal liberismo, dal totalitarismo e via dicendo. Far corrispondere le parole alle cose potrebbe aiutare ad individuare meglio interlocutori ed avversari ed evitare quella disinvolta permeabilità che ha fatto sino ad ora naufragare simili iniziative e le migliori intenzioni.

https://irp-cdn.multiscreensite.com/8f74a13b/files/uploaded/manifesto_politico_vox_italia_5T4FOZ4URkK2wZkDNRAt.pdf

http://www.patriaecostituzione.it/manifesto-per-la-sovranita-costituzionale/

https://www.facebook.com/notes/nuova-direzione/dalla-padella-alla-brace-analisi-della-situazione-politica/413033419563284/

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https://www.facebook.com/notes/nuova-direzione/partito-e-classe-dopo-la-fine-della-sinistra/362865437913416/

http://antropologiafilosofica.altervista.org/quale-socialismo/?fbclid=IwAR3ABSerWdt8hybl3kNOxIwalORbn0UnIZzdm5GlUSlpq6lhu03KDS1JK8Y

https://www.sinistrainrete.info/politica-italiana/15333-mimmo-porcaro-note-sulla-fase-politica.html

 

sardine e pesci in barile, di Giuseppe Germinario

Esauritasi la fase delle rivoluzioni colorate, inizia la ribellione dei pesci in barile.

Quel che appare senza fine è la corsa al ribasso delle aspettative e delle ambizioni politiche ridotte sempre più ad una meccanica elaborata a tavolino e generatrice di moti “spontanei” spinti da aneliti primordiali e prepolitici.

Il prodotto migliore, frutto di menti geniali, è stato il Movimento Cinque Stelle. Ha fondato le proprie fortune su due principi fondanti: l’onestà e l’ ”acompetenza” senza gerarchia. Troppo poco e troppo fuorviante. Quanto basta, però, per trascinare rapidamente quel movimento verso un trasformismo più o meno consapevole che sta letteralmente sgretolando le sue basi di consenso ed esponendo il suo gruppo dirigente alla tentazione e alle lusinghe dei “poteri forti” così aborriti. Ho detto rapidamente; in realtà ci son voluti circa dieci anni e la parabola non si è ancora del tutto esaurita. Un’era biblica con i tempi e la crisi che precipita ormai velocemente nel nostro paese. Il M5S però, tutto sommato, rientra in un alveo ben presente nella storia politica del dopoguerra iniziato con l’Uomo Qualunque e proseguito sino ai girotondini, espressione di un sentimento ben preciso: l’indignazione. La sua crisi ormai manifesta, unite in parte ai limiti e alle scelte improvvide della Lega in versione balneare, ha aperto voragini entro le quali si stanno inserendo vari nuovi attori tra di loro disparati, dai sovranisti di sinistra e impronta socialista e comunitaria alle recentissime “sardine”.

Dei primi si tratterà in un prossimo articolo; i secondi meritano appena qualche considerazione

  • La spontaneità del movimento. Più ci si definisce spontanei, più c’è da dubitare della genuinità delle motivazioni. Non esistono movimenti politici spontanei; tutt’al più dei moti. Esistono invece dei gruppi, delle élites capaci di cogliere il momento, di promuoverlo e di dirigerlo. Se si sente l’esigenza di nascondersi nella massa, di identificare questa con il popolo, molto probabilmente c’è ben altro da nascondere e celare. La dinamica di sviluppo di questo movimento rivela l’esistenza di una rete già ben collaudata e rodata e un substrato amministrativo che funge da supporto. Da quanto si intuisce dalle scarne dichiarazioni dei capi, buona parte del supporto è fornito dagli ambienti del cosiddetto terzo settore
  • L’impulso primordiale. L’appello all’onestà ha perso credibilità e non è più sufficiente. Occorre scendere ancora più in basso. La menzogna e l’odio sono le aberrazioni da combattere. Salvini diviene la personificazione del male; il malefico da annichilire. Il bersaglio da anteporre ad ogni altro obbiettivo politico. Siamo alla lotta tra il bene e il male; attendiamo l’arrivo dei crociati militanti proprio, paradossalmente, contro l’ostensore di rosari. I nostri bell’imbusti ci rassicurano sul fatto che in Italia esistono ancora “politici competenti ed onesti”. Ci rivelino per correttezza e trasparenza nomi e cognomi. Ci aiuterebbero a comprendere finalmente il loro metro di giudizio e il loro orientamento politico; dei politici eletti come dei capi del banco di sardine. Nelle more una domanda. La spocchia e la supponenza, la denigrazione della quale questi eterni ragazzi pare che dispongano a piene mani, non è essa stessa una forma non dichiarata e subdola di odio? L’odio è connaturato alla politica, esattamente come il sentimento opposto, perché in politica esistono nemici ed avversari. E i capisardine ne trasudano in abbondanza anche se cercano di mimetizzarlo assieme alla loro appartenenza politica. Quando è dichiarato e puntualizzato può servire anche ad una mediazione costruttiva; altrimenti porta ad un ulteriore scadimento del confronto. Anzi due domande. Gli altri due popoli, quello di Salvini e gli agnostici, cosa fanno? Non lavorano, non studiano, non amano?

Ormai è la lotta tra il bene e il male, tra i colti e gli incolti. Ogni mezzo è consentito. Quale significato può avere l’affermazione “Perché grazie ai nostri padri e nonni avete il diritto di parola, ma non avete il diritto di avere qualcuno che vi stia ad ascoltare”. E’ riconducibile all’azione di censura all’opera sui social network e che trova folte schiere di gruppi organizzati pronti e solerti a segnalare i profanatori della verità e del politicamente corretto? Manie complottistiche, forse.

Fare il pesce in barile e consentire a qualche sardina di saltare, salvo asfissiare anch’essa, è il prezzo che questa classe dirigente decadente e marcia è costretta e ha deciso di pagare pur di restare ancora per qualche tempo a galla. Pare che riesca a trovare sempre nuovi profeti o, con i tempi che corrono, nuovi conigli dal cappello abili ad incantare. Una trappola capace di attrarre anche il “fomentatore” o eletto tale dai pesci in barile. I nostri capisardine non chiedono altro che di tornare alla normalità, alla famiglia, al lavoro, alla beneficenza, allo studio scossa dall’invasore di turno. Segno di un appagamento della propria condizione, non proprio comune a gran parte dei mortali. Segno anche di una sottile intelligenza che sta cogliendo abilmente i limiti e gli errori di una politica e di una campagna elettorale in particolare della Lega.

Il paradosso dei cosmopoliti che riscoprono il valore dell’identità, ad usum delphini, ma nascondendo accuratamente la propria. Segno che sta sfuggendo loro il controllo della situazione.

https://www.fanpage.it/politica/il-manifesto-del-popolo-delle-sardine-cari-populisti-avete-tirato-la-corda-ora-si-e-spezzata/

cariatidi a Bruxelles, a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto un interessante articolo tratto da https://www.les-crises.fr/von-der-leyen-et-borrell-martelent-que-lue-doit-apprendre-a-parler-le-langage-de-la-puissance-par-ruptures/ rivelatore dello spessore umano e politico dei prossimi Commissari Europei. Dietro la prosopopea e l’arroganza delle loro affermazioni si cela la ottusa continuità della linea politica perseguita soprattutto a partire dagli anni ’80, in particolare dalla caduta del muro di Berlino. Una arroganza e una sicumera che nasconde una debolezza intrinseca. Una volontà di potenza che in realtà poggia sulla forza espressa dalla potenza statunitense. L’auspicio di sopravvivenza di questa classe dirigente europeista poggia soprattutto sulle possibilità di ripristino della politica estera americana pretrumpiana. A prescindere dalla rielezione di Trump, molto difficilmente però tutto potrà tornare come prima.

Troppe cose sono cambiate, a cominciare dagli Stati Uniti per proseguire con la Russia e la Cina. Ogni velleità di ritorno agli anni ’90 rischia di ridurre l’Europa ad un campo di battaglia di forze esterne. L’articolo termina stigmatizzando l’atteggiamento imperiale di costoro. Ma l’imperialismo europeo è praticamente una scatola vuota. Arroganza, prosopopea e fragilità sono ingredienti fondamentali per spingere una classe dirigente all’avventurismo. Questi non sono dirigenti autorevoli che puntano ad una realtà di stati europei sovrani capaci di coesistere pacificamente; sono dei ventriloqui che perpetrano l’inganno brandendo il vessillo dell’autonomia politica. Per costoro l’avversario dichiarato è la Russia di Putin, ma le prime vittime da consumare sono i fratelli dell’Europa Mediterranea. I futuri sviluppi del MES, per come li sta assecondanto il nostro “avvocato del popolo”, sono lì a certificarli_Giuseppe Germinario

Von der Leyen e Borrell sostengono che l’UE deve “imparare a parlare la lingua del potere” – Attraverso Rotture

Fonte: Breaks , 14-11-2019

I due leader, che entreranno in carica a Bruxelles il 1 ° dicembre, hanno annunciato le proprie intenzioni marziali o imperiali (editoriale nell’edizione delle rotture di 10/28/19, e aggiornati)

Ursula von der Leyen si insedierà a capo della Commissione europea il 1 ° Dicembre – in linea di principio. L’ex ministro della Difesa tedesco non ha aspettato l’insediamento per svelare il suo spirito marziale.

“Oggi, il soft power non è più sufficiente se vogliamo affermarci nel mondo come europei” – Ursula von der Leyen

In un discorso tenuto a Berlino l’8 novembre, proprio in occasione del trentesimo anniversario della caduta del muro di Berlino, ha pronunciato parole virili, purtroppo passate inosservate. Per il futuro leader più altolocato dell’UE, “l’Europa deve imparare a parlare la lingua del potere” . E affinché tutto sia chiaro, ha martellato: “oggi , il soft power non è sufficiente se vogliamo affermarci nel mondo come europei ” .

È vero che è stato preceduto in questo registro dal futuro alto rappresentante per la politica estera e la sicurezza dell’UE. Durante la sua audizione all’europarlamento, il 7 ottobre, Josep Borrell aveva già preparato il terreno con un fuoco di artiglieria. A 72 anni, l’attuale capo della diplomazia spagnola, ha alle spalle una lunga carriera, ha iniziato la carriera nel Partito socialista spagnolo (PSOE) e ha occupato molti portafogli ministeriali (e alcuni scandali). Ha anche presieduto il Parlamento europeo dal 2004 al 2007.

ovazione

Ha quindi suscitato l’entusiasmo dei suoi ex colleghi – che alla fine lo hanno accolto con una standing ovation – spiegando le sue intenzioni, iniziando con un discorso molto duro su Mosca. Non si trattava di revocare le sanzioni, così in particolare martellava. Una professione di fede poco sorprendente per un uomo che alcuni mesi fa aveva proclamato che “la Russia , il nostro vecchio nemico, è tornata a essere una minaccia “, che aveva provocato un incidente diplomatico con Mosca.

Per l’UE, non si tratta certamente di una rotazione di 180 °. Tuttavia, l’attuale operatore in carica, l’italiana Federica Mogherini, è stata regolarmente sospettata di essere troppo indulgente con il Cremlino, in particolare dagli Stati membri orientali, ora estasiati dall’inflessione rivendicata dal suo successore. Quest’ultimo ha anche dichiarato la sua intenzione (come molti altri prima di lui) di cambiare il processo decisionale in materia di politica estera: a suo avviso, non dovrebbe più richiedere l’unanimità. Tale evoluzione è, per così dire, improbabile (presuppone l’accordo di tutte le capitali), ma dice molto sulle ambizioni dei leader dell’UE.

E non solo nei confronti della Russia. Borrell ha insistito sul fatto che l’Unione deve ora ” imparare a usare il linguaggio della forza ” per affermarsi come potenza nel mondo. A tal fine, ha affermato, sarebbe necessario rafforzare le capacità militari di quest’ultimo, in particolare rimuovendo i “gruppi di battaglia” dall’armadio. Questi battaglioni multinazionali sono stati creati nel 2004 ma non sono mai stati utilizzati. Certo, questa prospettiva non è realistica a breve termine, per motivi di interessi e strategie divergenti tra gli Stati membri, ma la sua dichiarazione dà il tono. Tanto più che il sig. Borrell non ha mancato di sottolineare che potremmo benissimo finanziare tutto questo con il Fondo chiamato “European Peace Facility” (ciao Orwell), ovvero 10,5 miliardi di euro.

Per Borrell, la credibilità dell’UE è innanzitutto la sua capacità di aiutare l’Ucraina contro “l’espansionismo russo”

Per Borrell, la credibilità dell’UE poggia innanzitutto sulla sua capacità di aiutare l’Ucraina contro “l’espansionismo russo”; così come nei Balcani descritti come “una priorità per la nostra politica estera“. Da quel momento in poi, il futuro capo della diplomazia europea annunciò che intendeva fare la sua prima visita ufficiale in Kosovo. Un annuncio tanto più notevole in quanto la Spagna è uno dei pochi paesi dell’UE a non aver riconosciuto l’indipendenza di questa provincia che si era separata dalla Serbia grazie ai bombardamenti che la NATO – compresi i paesi europei – guidati nel 1999. Madrid è davvero riluttante ai proclami dell’indipendenza, perché si trova di fronte alle richieste separatiste catalane. Ma la tentazione di “Europe Power” è fondamentale … In ogni caso, la priorità mostrata dal futuro alto rappresentante ricorda quella frase formulata venti anni fa da Bernard Kouchner che “l’ Europa inizia a Pristina “(La capitale del Kosovo), il che significa che la vera integrazione europea può basarsi solo sulla guerra.

Il leader spagnolo, alquanto inebriato, ha anche parlato dell’immigrazione: ” La spinta della gioventù africana è un’opportunità per l’Europa ” , ha detto. Sottinteso: per il padronato europeo. Gli spiriti maligni accosteranno questo appetito per la globalizzazione a una frase rilasciata un anno fa davanti agli studenti. Ha poi lamentato le difficoltà di unire l’Europa, dove invece gli Stati Uniti si sono costituiti facilmente – ” è stato sufficiente uccidere quattro indiani ” , lasciandosi andare ridendo … Si era scusato in seguito e fu presto perdonato poiché questa affascinante analisi storica non emanava da un “populista” o leader di estrema destra.

Di fatti, Borrell ha dichiarato il suo odio per il “nazionalismo”, sostenendo di odiare i confini. Quest’ultima affermazione non è banale. Perché un’entità che non riconosce un confine, si chiama precisamente: un impero.

Meritava un’ovazione.

Fonte: Breaks , 14-11-2019

Una nuova tipologia di guerra : la guerra economica_1a parte, di Giuseppe Gagliano

Una nuova tipologia di guerra : la guerra economica
La realtà della guerra economica veniva fin dal XIX secolo percepita da intellettuali
del calibro di Victor Hugo e da studiosi dei campi più disparati come l’ineluttabile
evoluzione della logica di conflitto, che da guerra materiale, combattuta sui campi
di battaglia dai soldati con le armi, si sarebbe trasformata in un confronto più
“addolcito” fra mercati nazionali sul campo del commercio internazionale e, infine,
in un aperto scambio di idee fra spiriti liberi. Ciò che gli ultimi vent’anni
evidenziano, però, non è certo uno scenario internazionale in cui gli scontri sono
meno aspri di quando imperversavano ordigni e bombe sull’Europa: infatti la
concordia fra le nazioni non si è realizzata nemmeno in Occidente, fra Stati Uniti e
Unione Europea, per non parlare del resto del mondo, dove la democrazia resta
ancora un ideale per miliardi di individui, nonostante i notevoli passi avanti
compiuti in questo senso in tutti e cinque i continenti. Oltre a una generale
disillusione sulla reale portata di quel progresso la cui idea ha definito in maniera
netta la modernità, rimane quindi la convinzione che la guerra convenzionale si
possa esprimere naturalmente nell’economia, attraverso quella “guerra
economica” la cui definizione appare per la prima volta all’epoca della Prima
Guerra Mondiale come componente della guerra totale cara al generale tedesco
Erich Ludendorff. Risulta così assodato, ormai, che l’economia non è
esclusivamente la posta in gioco della guerra convenzionale.
Il concetto di guerra economica sembra essere diventato un tema “alla
moda” non solo nell’ambito degli studi strategici, ma anche – più in generale –
all’interno di un certo dibattito geopolitico che, orfano di una Guerra Fredda che
per quattro decenni aveva polarizzato tutte le attenzioni e cancellato ogni speranza
rispetto a una possibile “globalizzazione felice” e alla definitiva vittoria del
multilateralismo degli anni Novanta, doveva presto trovare uno schema
interpretativo dei rapporti sullo scacchiere globale. Secondo questa concezione,
dunque, il XXI secolo segnerebbe il ritorno della politica internazionale dominata
dagli Stati in pieno possesso della loro sovranità, impegnati a garantire la
perpetuazione della propria potenza in un complesso gioco di alleanze e diffidenze.
È pur vero però che, come sempre accade, il successo anche mediatico di una
definizione è foriero di molti malintesi, interpretazioni poco precise e una generale
banalizzazione dei termini del discorso. Scopo del presente contributo sarà perciò
individuare con precisione questo nuovo oggetto teorico e pratico e valutarne la
reale portata e gli strumenti tramite i quali agisce come concetto interpretativo,
per dare un’immagine più aderente alla realtà storica ed evitare schematizzazioni
semplicistiche che non contribuiscono a una vera comprensione dei fenomeni.
Natura e scopo della guerra economica
Uno dei primi a parlare di guerra economica nel senso in cui la si intende
oggi è stato l’ex Consigliere del Presidente francese Georges Pompidou, Bernard
Esambert, che nel 1991, ossia paradossalmente proprio all’inizio del decennio di
relativa pace nei rapporti internazionali seguito al crollo dell’URSS e precedente
l’attacco alle Torri gemelle di New York, pubblicò un’opera controcorrente per
l’epoca. Fin dalle prime pagine La guerra economica mondiale sfatava il mito allora
in costruzione di un mondo multilateralista e pacifico sotto l’egida dell’ONU. In un
contesto di economia globalizzata quale potenzialmente si presentava all’indomani
della caduta del comunismo e del conseguente ingresso di un consistente numero
di economie nazionali sul mercato globale, l’antico colonialismo territoriale si
trasformava in conquista delle tecnologie più all’avanguardia e dei mercati più
redditizi. Alla violenza delle armi si sostituirebbe dunque una lotta a suon di
prodotti e servizi, la cui esportazione costituisce il mezzo a disposizione di ogni
nazione per cercare di vincere questa guerra di tipo nuovo, in cui le imprese
costituiscono gli eserciti e i disoccupati le vittime. L’origine di questa guerra è da
ricercare nella confluenza di tre rivoluzioni, di cui ricostruiremo qui di seguito la
cronologia.
Si è visto come il concetto di guerra economica non sia di recente
definizione. La sua forma contemporanea, tuttavia, può essere fatta risalire
all’immediato secondo dopoguerra e, più precisamente, alla firma degli accordi del
GATT nel 1947, evento che pone le basi (regolamentate) della competizione
commerciale multilaterale allo scopo di favorire la liberalizzazione del commercio
mondiale. L’ambito originario dell’accordo era comunque di portata limitata, dal
momento che restarono esclusi sia il settore primario sia il settore terziario,
divenuti oggetto di discussione dei negoziati solo a cavallo del passaggio di
millennio; inoltre, anche la logica dei blocchi e il contesto geopolitico della Guerra
Fredda limitavano le rivalità economiche, evidenziando maggiormente la necessità
della solidarietà interna fra le varie economie di mercato piuttosto che prese di
posizione a difesa di singoli prodotti e/o settori industriali.
Questa situazione di relativo equilibrio viene scossa nel 1991 dalla caduta
del blocco comunista, che lascia il posto al modello capitalista (e in particolare alla
sua forma neoliberista) come unico sistema economico funzionante a livello
mondiale. Non solo gli ex Paesi comunisti vengono integrati a poco a poco
nell’economia mondiale (l’ingresso della Cina nell’OMC, istituzione nata dal GATT,
è del 2001, quello della Russia del 2011), ma anche i Paesi del cosiddetto Terzo
Mondo spingono per accedere ai mercati globali: è il trionfo della globalizzazione,
iniziata negli anni Settanta con le prime misure di deregolamentazione e il nuovo
scenario politico-economico di un mondo non più diviso in due. Quella che sembra
essere un’unificazione finalmente pacifica di tutte le nazioni all’insegna del libero
scambio non è altro, in realtà, che un presupposto per la conduzione di una nuova
guerra, finalmente a carte scoperte e non più mascherata dalla contrapposizione
militare fra blocchi della Guerra Fredda: la guerra economica. Come molti analisti
sottolineano, vi è in effetti uno spostamento delle politiche di potenza dal terreno
militare e geopolitico, dove assumevano per l’appunto la forma di scontro fra
blocchi anche in conflitti periferici, al terreno economico e commerciale, dove le
nazioni si contendono l’accaparramento di risorse e mercati. Gli scambi
commerciali, in quest’ottica, non sarebbero altro che una delle modalità della
guerra nel momento in cui si indebolisce il suo fronte armato; perciò investimenti,
sovvenzioni e azioni di penetrazione dei mercati esteri non sarebbero altro che
l’equivalente delle dotazioni in armamenti, dei progressi tecnici del settore bellico
e dell’avanzamento militare in territorio straniero. È evidente che siamo ben
lontani dalle visioni degli intellettuali illuministi e ottocenteschi che auspicavano
un “addolcimento” delle relazioni internazionali grazie al libero movimento di beni
e idee. Sarebbe tuttavia riduttivo pensare che la geo-economia cancelli la
geopolitica. Fra gli altri studiosi della questione, Christian Harbulot insiste sul fatto
che esistono scacchieri diversi che si intersecano parzialmente: scambi armoniosi,
guerra economica e mire geopolitiche possono coesistere e anche interagire,
poiché si inscrivono in mondi dalle logiche autonome ma inevitabilmente legati fra
loro.
È dunque negli anni Novanta che avviene quella che possiamo definire come
una vera e propria rivoluzione copernicana nell’ambito delle relazioni
internazionali, che segna il passaggio da una geopolitica classica caratterizzata da
Stati che lottano fra loro per il controllo di territori a una geo-economia (o guerra
economica) in cui gli Stati si confrontano per il controllo dell’economia globale.
Non si tratta esclusivamente di una considerazione di tipo intellettuale, elaborata
dagli studiosi della materia, bensì di una constatazione ormai alla portata anche
dell’opinione pubblica, tanto da essere ripresa addirittura in slogan pubblicitari.È
questo il caso di un’impresa europea di elettronica che, in piena Prima Guerra del
Golfo, affermava: “la Terza guerra mondiale sarà una guerra economica: scegli fin
d’ora le tue armi”. La posizione degli Stati Uniti in questa nuova epoca è molto
chiara: la sicurezza nazionale dipende dalla potenza economica. Innanzitutto, come
superpotenza del blocco uscito vincitore dalla Guerra Fredda, già si trovava in una
posizione privilegiata per comprendere prima di qualunque altro Paese il
cambiamento in atto, anche in virtù degli investimenti sotto forma di sovvenzioni
fatti nei decenni precedenti in ricerca e sviluppo, in modo da equipaggiare al
meglio le proprie imprese per la concorrenza internazionale che si profilava
all’orizzonte. In secondo luogo, il neoeletto Bill Clinton ha da subito messo in
pratica questa “dottrina” della sicurezza nazionale dipendente dall’economia
istituendo una “War room” direttamente collegata al dipartimento del Commercio,
come canale privilegiato di relazione fra lo Stato e le imprese per sostenere queste
ultime nella competizione mondiale; allo stesso tempo, il Segretario di Stato
Warren Christopher dichiarava ufficialmente che la “sicurezza economica” doveva
essere elevata al rango di prima priorità della politica estera degli Stati Uniti
d’America. Si può perciò parlare di una vera e propria dichiarazione di guerra
economica da parte della prima potenza economica mondiale al resto del mondo,
anche se mascherata da difesa degli interessi nazionali, in un mix originale e
audace di principi liberali e mercantilisti.
Nel contesto di questa nuova geo-economia ad alto tasso concorrenziale,
caratterizzata negli ultimi tre decenni da fenomeni quali la deregolamentazione, la
rivoluzione tecnologica e la globalizzazione della finanza, è proprio l’arrivo di
nuovi attori sulla scena del mercato ad aver rimescolato le carte in tavola e turbato
quello che era un relativo ordine costituito. Si tratta perlopiù di Paesi che, forti di
una nuova autonomia e indipendenza non solo politica, vogliono prendere parte
alla spartizione di ricchezze ed entrare nelle dinamiche di arricchimento che fino a
questo momento sono state esclusivo appannaggio del Nord del mondo. È grazie
alla loro voce che la realtà della povertà emerge e si mostra a quel 2% di
popolazione mondiale che beneficia del 50% della ricchezza totale. Nonostante sia
in costante diminuzione, il fenomeno della povertà risulta comunque allarmante:
2,8 miliardi di persone vivono con meno di 2 dollari al giorno. In un mondo come
quello odierno, caratterizzato dall’immediatezza dell’informazione e, come
conseguenza, dalla sempre più ampia presa di coscienza dell’opinione pubblica
delle dinamiche internazionali, la povertà viene a maggior ragione percepita come
intollerabile. In questa lotta per la spartizione delle ricchezze, i nuovi Paesi
emergenti (in primo luogo Brasile, Russia, India e Cina, ma a seguire anche il
Sudest asiatico e molte nazioni africane) possono peraltro far tesoro
dell’esperienza di predecessori come il Giappone e le Tigri asiatiche, la cui
integrazione negli scambi internazionali ha significato arricchimento e aumento
della potenza. Tuttavia la posta in gioco rappresentata dalle risorse è caratterizzata
da una scarsità (assoluta per alcune, relativa per altre) tale per cui gli scambi si
sono trasformati in competizione, ossia in guerra economica. In questo scenario, il
pensiero liberalista sull’indebolimento dello Stato viene necessariamente messo in
discussione in quanto i recenti cambiamenti richiedono non solo una
trasformazione del ruolo dello Stato rispetto all’economia ma anche della stessa
natura dell’organismo Stato.
Il cambiamento della natura dello Stato prende origine, innanzitutto, da una
trasformazione del concetto di potenza. Il concetto di potenza può essere
scomposto in hard power e soft power, ovvero nelle due componenti di uso della
forza e dell’influenza. In un contesto in cui gli Stati ricorrono sempre meno che in
passato alla prima componente, perché più costosa sotto molti aspetti e addirittura
meno efficace, la seconda componente prende il sopravvento e si manifesta sotto
forma di guerra economica (anche se quest’ultima, in realtà, si porrebbe piuttosto
al confine tra hard e soft power). Ecco perché per lo Stato è diventata sempre più
importante la sua situazione economica, mentre i suoi investimenti in armamenti e
dotazioni militari hanno progressivamente perso rilevanza. Le politiche di potenza
odierne avranno allora la forma di sovvenzioni alle imprese perché queste possano
godere di una posizione di favore sui mercati internazionali, del sostegno
all’occupazione affinché la delocalizzazione non penalizzi il mercato interno e della
diplomazia economica volta all’accaparramento di risorse scarse. Tradotte in
termini di guerra economica, tali politiche di potenza significano, per uno Stato,
assicurarsi l’indipendenza in termini di risorse, la capacità di difendersi di fronte
alla minaccia commerciale o finanziaria rappresentata dagli altri Stati e
un’attitudine all’intelligence, risorsa imprescindibile nell’odierna società della
comunicazione. Secondo un’altra definizione, non si tratterebbe di altro se non
della capacità di imporre la propria volontà agli altri (Stati) senza che questi
possano imporre la propria, per quanto ciò possa essere possibile in un mondo in
cui la dipendenza è sempre più dispersa e frammentata. La vera rivoluzione,
quindi, non è altro che la trasformazione della potenza politica in potenza
economica o, per meglio dire, la dipendenza della prima dalla seconda: gli Stati
cercano innanzitutto di modificare le condizioni della concorrenza e di trasformare
i rapporti di forza economici non solo per conservare posti di lavoro, ma
soprattutto assicurarsi il proprio dominio tecnologico, commerciale, economico e,
pertanto, politico.
Andando ad analizzare più nel dettaglio i singoli obiettivi della guerra
economica, almeno per quanto riguarda i Paesi occidentali, il primo risulta essere
di natura difensiva, ovvero il mantenimento dell’occupazione industriale
nonostante l’ormai avvenuta terziarizzazione di queste società. Fra il settore
secondario e quello terziario si cela infatti un forte legame, quello che Bernard
Esambert definisce come “simbiosi industria-servizi”, dal momento che l’aumento
dell’occupazione nel settore secondario si traduce in un corrispondente aumento
dell’occupazione in quello terziario e, a fronte della richiesta di una sempre
maggiore specializzazione dei lavoratori delle industrie ad alto coefficiente
tecnologico, è evidente l’incremento di servizi quali la formazione e la consulenza.
La difesa, ovvero il mantenimento dei posti di lavoro nel settore dell’industria
serve non solo a evitare la recessione economica, ma anche a contenere la
disoccupazione e la sottoccupazione, due realtà la cui forte carica di
destabilizzazione sociale rappresenta una minaccia per tutte le democrazie. A
questo proposito, a causare la perdita più considerevole di posti di lavoro non
sarebbero tanto le “delocalizzazioni” in senso stretto, quanto piuttosto le “non
localizzazioni”, ossia l’apertura da parte delle aziende di filiali all’estero piuttosto
che nel Paese in cui hanno sede e rispetto allo stesso mercato di destinazione delle
merci prodotte. Emblematica di questa centralità del mantenimento
dell’occupazione nei discorsi sulla guerra economica è la prima campagna
presidenziale di George W. Bush (ma anche di molti esponenti democratici in
quello stesso frangente), in cui l’Accordo nordamericano per il libero scambio
veniva indicato come la causa di un dissanguamento occupazionale a favore del
Messico. Altri esempi concreti in questo senso possono essere considerati
l’impegno dell’esecutivo francese per salvare lo stabilimento di Gandrange del
gruppo ArcelorMittal, nonostante il notevole sforzo economico richiesto alle casse
dello Stato in quell’occasione, o il più recente accordo con Electrolux in Italia. La
ragione che conduce a questo genere di decisioni è, ovviamente, elettorale, ma
rivela anche un altro aspetto: nessun Paese può perdere il proprio potenziale di
produzione, pena la dipendenza. Quello delle delocalizzazioni è peraltro un
discorso difficilmente accettabile agli occhi di qualsiasi elettorato e, quindi, sempre
al centro del dibattito politico, visto che le conseguenze di disoccupazione,
sottoccupazione, pressione salariale, disequilibrio della bilancia sociale e
diminuzione dei consumi farebbero crollare i presupposti su cui si reggono le
nostre società di consumo – anche se naturalmente vi è anche chi le difende, ad
esempio l’FMI, che tende piuttosto a evidenziare i vantaggi di produttività da esse
generati. La politica di potenza, dunque, si concretizza al giorno d’oggi anche in
politiche industriali volte alla conservazione di un controllo di tipo “territoriale” da
parte dello Stato.
Il secondo obiettivo della guerra economica è invece di natura offensiva ed è
la conquista di mercati, ma soprattutto di risorse limitate, la cosiddetta “corsa alle
materie prime”. Infatti, l’approvvigionamento sicuro e continuo delle materie
prime da parte degli Stati è l’unica garanzia per il mantenimento e magari per la
crescita del loro livello economico. In questa vera e propria guerra per le risorse, le
più ambite sono le fonti di energia (petrolio, gas naturale, carbone, uranio per la
produzione di energia nucleare, corsi d’acqua per la produzione di energia
idroelettrica), la cui domanda è direttamente collegata allo sviluppo economico,
nonché l’oggetto del contendere. Un certo spazio nelle dinamiche di potenza messe
in atto sui mercati finanziari è tuttavia riservato anche alle derrate alimentari quali
mais, riso, soia e grano. Quest’ultimo, in particolare, è oggetto di ogni sorta di
speculazione e di lotte, scatenando i rapporti di potenza fra coloro che lo
producono e coloro che ne hanno bisogno, determinando l’estrema attualità di
quella che è, a tutti gli effetti, un’arma (alimentare).
Fa parte ormai della percezione comune il fatto che il petrolio sia all’origine
di scontri economici molto duri, quando non di veri e propri conflitti armati.
Risorsa scarsa, da sola rappresenta oltre il 35% del consumo energetico totale,
principalmente da parte dei Paesi asiatici (30% del consumo mondiale),
nordamericani (oltre il 28%) e dell’Unione Europea (oltre il 17%). La portata della
guerra economica in corso è ben illustrata dalla doppia tensione fra Stati
produttori/Stati consumatori da un lato e, dall’altro, Stati la cui domanda si
stabilizza/Stati la cui domanda aumenta. Si tratta di una tensione che nasconde
peraltro la prospettiva futura di conflitti anche armati (si pensi ai precedenti delle
due guerre del Golfo). La lotta feroce che contrappone Stati Uniti e Cina per il
petrolio africano, ma anche per altre risorse del sottosuolo (vari metalli rari e
pietre preziose), è un altro esempio di questa guerra economica. La Cina ha iniziato
a investire nell’Africa subsahariana solo dalla fine della Guerra Fredda ma ne è
ormai diventata il terzo partner commerciale dietro a Stati Uniti e Francia, anche
se non sempre percepita positivamente dai governi locali a causa del suo
atteggiamento predatore, al pari delle ex potenze coloniali e dell’Occidente più in
generale. Il gigante cinese rappresenta bene l’inversione dei rapporti di forza in
atto tra Paesi occidentali e Paesi emergenti, BRIC in testa. Tali Stati, un tempo
esclusivamente produttori e fornitori delle materie prime necessarie al Nord
industrializzato, stanno ora risalendo la gerarchia mondiale grazie a un aumento
del controllo anche interno della propria produzione.
È evidente che questo risveglio del Sud del mondo rovescia completamente
gli equilibri globali, anche perché si concretizza nel controllo non solo delle risorse
naturali, ma anche di intere società un tempo esclusivamente occidentali e oggi
pervase in maniera sempre più massiccia da capitali di provenienza soprattutto
araba e asiatica. I fondi sovrani la fanno da padrone in questo ambito, soprattutto
quelli cinese e quelli di Singapore i quali, avvantaggiati dalla crisi economica che ha
colpito le mature economie europee e statunitense, detengono quote significative
di importantissime imprese fra cui, ad esempio, Morgan Stanley e Merrill Lynch.
Questi esempi dimostrano come non solo il debito pubblico dei Paesi capitalisti è
oggi nelle mani dei cosiddetti Paesi emergenti, ma ormai anche una parte dello
stesso prodotto interno lordo, attraverso il controllo dei capitali delle imprese o,
come nel caso dell’Arabia Saudita, attraverso la creazione di ricchezze permessa
dall’uso del petrolio arabo. Come è logico dedurre, il vantaggio strategico che ne
deriva per questi Paesi è considerevole.
Infine, c’è un’altra risorsa cruciale il cui controllo risulta determinante in un
contesto di guerra economica: la conoscenza del livello tecnologico, del mercato di
riferimento, di partner e concorrenti, in poche parole della strategia economica di
imprese e Stati “nemici”, ossia dell’intelligence. Si tratta di una risorsa
relativamente nuova, resa però fondamentale dallo sviluppo tecnologico degli
ultimi decenni, al pari dei capitali finanziari necessari all’avvio e al mantenimento
delle imprese, delle materie prime per la produzione e delle risorse umane
impiegate. I programmi di intelligence economica gestiti e coordinati dallo Stato
sono perciò diventati indispensabili per non subire ritardi inammissibili in un
quadro concorrenziale sempre più competitivo e duro.
La terza rivoluzione che ha portato all’attuale contesto di guerra economica
in cui gli Stati in costante competizione fra loro mirano ad accaparrarsi risorse di
ogni genere (non solo materie prime, dunque) è di tipo teorico, per non dire
ideologico. È possibile parlare, infatti, di un ritorno al mercantilismo, ovviamente
con sembianze moderne, nella misura in cui la potenza si esprime principalmente
sotto forma di esportazioni. Nelle parole di Bernard Esambert, “esportare è
l’obiettivo della guerra economica e della sua componente industriale” perché
“significa occupazione, stimolo, crescita. La posta in gioco è conquistare la maggior
parte possibile [dei mercati mondiali]”. Non è difficile riconoscere la stretta
correlazione esistente fra volume delle esportazioni e potenza economica nella
classifica dei principali Paesi esportatori, che vede sul podio la Germania (che da
sola detiene il 9,5% delle esportazioni mondiali) seguita da Cina e Stati Uniti, oltre
alle principali potenze del G7 (Giappone, Francia, Italia, Regno Unito e Canada) e ad
alcuni Paesi emergenti (Corea del Sud, Russia, Hong Kong e Singapore) fra le prime
quindici posizioni. Anche fra i principali Paesi importatori, d’altra parte, ritroviamo
le massime potenze economiche mondiali come Stati Uniti, Germania, Cina,
Giappone, Regno Unito, Francia, Italia, Canada, Spagna, Hong Kong, Corea del Sud e
Singapore, segno dunque del ruolo fondamentale che, più in generale, rivestono gli
scambi ai fini delle considerazioni sulla potenza economica.
È dunque un nuovo trionfo degli Stati sovrani come protagonisti delle
relazioni internazionali quello evidenziato da questa tendenza neo-mercantilista,
che di fatto scredita in parte le tesi del loro indebolimento progressivo e inevitabile
in epoca di globalizzazione. Il politologo Edward N. Luttwak esprime bene questa
concezione quando afferma che nell’arena degli scambi mondiali dove si vedono
americani, europei, giapponesi e altre nazioni sviluppate cooperare e rivaleggiare
allo stesso tempo, le regole nel complesso sono cambiate. Quale che sia la natura o
la giustificazione delle identità nazionali, la politica internazionale rimane
dominata dagli Stati (o da associazioni di Stati come la Comunità Europea), i quali
si basano sul principio del “noi” in opposizione all’ampio insieme formato dagli
“altri”. Gli Stati sono delle entità territoriali delimitate e protette da confini
gelosamente rivendicati e spesso ancora sorvegliati. Anche se non pensano a
rivaleggiare militarmente, anche se cooperano quotidianamente in decine di
organizzazioni internazionali o di tutt’altro tipo, gli Stati restano
fondamentalmente antagonisti.
La fine della Guerra Fredda, come già evidenziato precedentemente, è lo
snodo cruciale che ha rimesso al centro delle relazioni internazionali i singoli Stati,
anche se gli anni Novanta, con l’apparente trionfo del multilateralismo,
sembravano affermare il contrario. Infatti, proprio nel momento in cui, da un lato,
si dava impulso alla creazione di un’Organizzazione Mondiale del Commercio
orientata al libero scambio e garante di rapporti equi e paritari fra Stati in ambito
commerciale, dall’altro lato, risultavano indeboliti, o addirittura svuotati di
significato, i legami di solidarietà che univano i membri del blocco occidentale, che
da alleati diventavano così concorrenti. Questa lettura viene interpretata da alcuni
critici della nozione di “guerra economica” come il risultato della mancanza
generale di cultura economica nella società, tale da favorire l’individuazione di
nemici e colpevoli esterni per le oscillazioni più o meno brusche dell’economia
interna. In realtà, questa visione dipende piuttosto da un rinnovato impulso della
volontà di potenza degli Stati: è una pura espressione irrazionale e non coincide
esattamente con l’interesse generale.
Il cambiamento interpretativo emerso in concomitanza con questa
congiuntura storica è fortemente legato alla pubblicazione di alcune opere
(tuttavia non disponibili in traduzione italiana) da parte di economisti e analisti
politici particolarmente influenti, prima fra tutte Head to Head: The Coming Battle
among America, Japan and Europe (1992) del recentemente scomparso Lester
Thurow, stimato studioso delle conseguenze della globalizzazione, il quale ha
ricevuto fin dagli anni Sessanta la considerazione del governo statunitense. Del
Segretario del Lavoro degli Stati Uniti durante la presidenza di Bill Clinton, Robert
Reich, è invece The Work of Nations (1993), opera di analisi della concorrenza fra
le nazioni, e dello stesso tenore è fin dal titolo A Cold Peace: America, Japan,
Germany and the Struggle for the Supremacy (1992) di Jeffrey Garten, anch’egli
divenuto membro della prima amministrazione Clinton come Sottosegretario di
Stato per il Commercio Estero. Tutti questi lavori, scritti da uomini di Stato e
decisori politici che hanno imposto, fra gli altri, la “diplomazia degli affari” dell’era
Clinton, hanno contribuito a plasmare l’odierna accezione di guerra economica
grazie alle loro descrizioni dell’economia mondiale in termini di scontri fra Stati.
D’altra parte, per quest’ultimi si trattava di una esigenza particolarmente
pressante: l’unico modo di riaffermare la loro supremazia soprattutto nei confronti
delle multinazionali, che sembravano essere le uniche padrone e detentrici del
controllo dell’economia mondiale. È ancora una volta Luttwak a suggerire
un’interpretazione di quest’improvvisa conversione delle élite al dogma della
guerra economica, suggerendo ai burocrati europei e giapponesi, come a quelli
americani, l’idea che la geo-economia sia l’unico sostituto possibile dei ruoli
diplomatici e militari del passato: infatti, sarebbe solo invocando gli imperativi
geo-economici che le amministrazioni statali possono rivendicare la loro autorità
sui semplici uomini d’affari e sui loro concittadini in generale

 

LA GUERRA DEL CABLAGGIO, di Pierluigi Fagan

Nella storia culturale, come in quella personale, a volte c’è chi nota come dopo che si è formata una semplice idea -chiara e distinta” (avrebbe detto Cartesio)- è incredibile pensare al perché non ci avevamo pensato prima. Cos’è che ci impedisce di pensare ad una idea e cos’è che ad un certo punto ce lo permette magari dopo molto rovello? Per rispondere dobbiamo scendere in sala macchine.

Sala macchina qui è metafora, si poteva anche dire sottoterra dove ci sono le radici o altro esempio in cui un effetto viene da una causa. La sala macchine della mente è il cervello. Nel cervello ci sono solo cellule nervose (tutte uguali per funzionamento, non per forma e funzione) e loro filamenti con cui le cellule di connettono. Queste connessioni sono di due tipi: a breve raggio e si chiamano dendriti (diverse migliaia per cellula) ed a lungo raggio (solo una per cellula e si chiama assone). Nei dendriti viaggiano sostanze chimiche, negli assoni impulsi elettrici. La cosa sorprendente del cablaggio generale è che, contrariamente a quanto ci venga immediatamente da pensare, tali connessioni non sono di contatto. I dendriti non si allacciano ad altri dendriti ma arrivano a sfiorarsi come nell’attimo prima del bacio. In quel momento, dalla boccuccia di un dendrite escono delle sostanze chimiche che la boccuccia del dendrite dell’altra cellula risucchia. La questione si basa sull’imprecisione perché solo l’imprecisione è adattativa, è predisposta al cambiamento. Il genio è uno che cabla a modo suo, se è funzionale è riconosciuto tale se è disfunzionale lo diciamo affetto da qualche patologia psichica.Così funziona il cervello (be’ poi c’è anche dell’altro ma insomma, questa è la prima cosa di cui tener conto, ai nostri fini).

Un’idea quindi è il funzionamento sincronico di un grumo di cellule nervose attivato da una rete di connessioni tra loro. Prima di pensare quell’idea il sistema del grumo di cellule non è cablato completamente o per niente, dopo si e lì c’è l’eureka! Una singola idea poi può stare in un sistema di idee ed il sistema di idee è quello che a volte permette o a volte impedisce di pensare quella idea. E’ una faccenda fisica, alla base. Ci mettiamo parecchio tempo a capire una idea o a farsela venire o a trarne conseguenze perché ci mettiamo parecchio tempo a cablare tra loro alcune cellule.

Michel de Montaigne, pensatore nel XVI secolo, filosofo guida di un altro filosofo Edgar Morin, diceva che: è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena. Qui siamo nel campo dei sistemi di idee ma i sistemi in fondo sono fatti di idee e connessioni tra loro quindi il principio è attinente anche al nostro discorso. L’eureka! quella improvvisa gioia del pensiero che sopravviene ad un certo punto, sembra essere come una abbondante eiaculazione sincronica di cellule interconesse che finalmente hanno trovato il loro sistema di funzionare assieme. E’ per questa ragione fisica che ci mettiamo tanto ad apprendere, a pensare, a chiarirci le idee per formularle con chiarezza. Ad esempio come quando un pensatore pensa e ripensa a lungo lo stesso concetto (magari per anni) e solo dopo molto armeggiare, trasforma l’iniziale intuizione circondata di confusione, in una frase distinta e ben collocata in un sistema di idee/discorso. E’ per questo che a volte si dice che un pensatore -in fondo- scrive e riscrive sempre lo stesso libro. E’ una pura faccenda di cablaggio (a livello di sala macchine) che fa sì di aver trovato la forma più semplice e pulita per esprimere l’idea. Un primo livello per pensarla, una secondo per comunicarla.

Poi da lì iniziano fasi successive del lavoro cognitivo: collocarla dentro altri sistemi di idee, trarne deduzioni-induzioni-abduzioni, renderla non contraddittoria con altre o col sistema di idee (o dei valori o di altri giudizi), etc. Lavoro e tempo per espletarlo, sembra esser questa la regola per pensare, almeno la prima, la pre-condizione di possibilità di tutti i successivi passi. Chiedete ad una giovane mamma del disagio psichico provato per via del fatto che tutto il giorno, tutti i giorni dei primi anni di un figlio da poco partorito, il cervello è costantemente impegnato sul suo fuori e non ha tempo per il suo dentro. Provate a non dormire ovvero permettere la pulizia delle tante connessioni inutili che si sono formate durante il giorno. Provate ad aver idee chiare e distinte alle 7.00 di mattina e poi provate alle 23.00.

La questione mi veniva in mente prendendo il caffè con la mia signora stamane. “Learning activism” diceva lei potenziata dalla facilità con cui i madre lingua inglese giungono felicemente e sintesi, a volte anche troppo facilmente (ogni facoltà ha il suo rovescio della medaglia ed ogni lingua ha le sue facoltà). Effettivamente, pensando alle tante cose del nostro mondo che non vanno come ci piacerebbe andassero e di contro, alla nostra triste condizione di atomi sociali (ma la metafora qui è sbagliata poiché gli atomi, come le cellule, sono tutti ontologicamente predisposti alla reciproca interrelazione secondo regole ma anche secondo possibilità) o meglio -monadi sociali- (le monadi sono atomi a cui sono state potate le connessioni ed in natura non esistono), registriamo la difficoltà al fare qualcosa di politico che abbia effetto sul reale e concreto.

Ma qualcosa possiamo ancora fare. Il “learning activist” (che non è l’info-activist) per esempio. Molti di noi, espletano la funzione attiva a modo loro, scrivendo, commentando, facendo replay di cose scritte o dette da altri. Anche nel reale, il “fare politica” ebbe il suo tempo per modellarsi. Sindacati, partiti, movimenti non si formarono facilmente nella storia, letti “dopo” ci sembrano fatti naturali ma anche lì, ci furono molti tentativi ed errori prima di giungere a “modi effettivi condivisi ed efficaci”. I comunisti vennero dai socialisti ed i socialisti assieme ai democratici venivano dalle sette “carbonare” prima di salire sulle piazze. Manifesti, comizi, dibattiti, manifestazioni, scioperi, agitazione sociale, furono il risultato di questi tentativi ed errori. Ogni azione ha i suoi fini e dai fini trae le regole per esser espletata al meglio.

Quindi anche per il “learning activist”, si tratta di riflettere meglio (con tempo e lavoro per espletarlo, da solo ma anche in compagnia) sul come render più efficace l’azione. L’azione di condividere idee ma anche aiutare la formazione di idee, la sostituzione di idee sbagliate o fuorvianti, la messa a sistema di idee isolate, la convergenza di idee e sistemi di idee con altri, la comunicazione di idee, la formazione e modellamento dell’intelligenza collettiva.

Forse è questo un mondo, un modo, che dovremmo esplorare meglio. C’è grande impegno da parte dei soliti noti per non darci tempo e modo di pensare, per farci pensare in un certo modo. C’è una vera e propria centrale di produzione di concetti che poi ordinano il dibattito pubblico con molti di noi che gli va anche appresso pensando di doverli criticare, ma anche solo accettare un concetto per poi criticarlo è dargli legittimità di idea, idea che poi condiziona sistemi di idee. Spesso, per pura eterogenesi dei fini, è perdere la partita prima di scendere in campo a giocarla, è aprire i portoni di Troja per far entrare il cavallo. La “società dell’informazione” provoca apposta overdosi informative per non farci trasformare l’informazione in conoscenza. Ci riempie la testa apposta perché questa non sia ben fatta.

C’è da farci una riflessione sul come possiamo esser “learning activist” più efficaci. Per cambiare lo stato di cose, tocca cambiare le menti, aiutare i cervelli a muovere dendriti e sinapsi, le nostre e di chi ci sta accanto, off line ed on line. C’è da esplorare un modo per poterlo fare di più e meglio, ognuno per come può, assieme per provare a cambiare qualcosa. C’è da combattere meglio la guerra per il cablaggio.

tratto da https://www.facebook.com/pierluigi.fagan/posts/10219250709514118

L’EUROPA TRA LE VIE DELLA NATO, LE VIE DELLA SETA E LE VIE DELL’ENERGIA. Prima parte. di Luigi Longo

L’EUROPA TRA LE VIE DELLA NATO, LE VIE DELLA SETA E LE VIE DELL’ENERGIA. Prima parte.

di Luigi Longo

 

 

                                                                               La Nato ovverosia gli Stati Uniti

Noam Chomsky*

 

                                                 Verso la fine del XIX secolo, un eminente                                                                geologo Tedesco, Ferdinand von Richthofen […] diede                                                 a questa estesa rete di connessione un nome che è                                             entrato stabilmente nell’uso: SeidenstraBen, vie della                                              Seta

Peter Frankopan**

 

  1. Premessa

 

La situazione politica in Europa, parafrasando Ennio Flaiano, è grave ma non è seria (1). Vediamo perché la situazione è grave e perché non è seria.

La situazione è grave perché il progetto dell’Unione Europea, pensato e messo in atto dagli USA nella fase monocentrica (dopo la seconda guerra mondiale), è finito. La sudditanza europea, coordinata soprattutto dalla Germania, cessa di avere la sua funzione unitaria nelle strategie statunitensi, di contrasto e di conflitto, verso le potenze Cina e Russia che vogliono ridefinire l’ordine politico mondiale con una nuova forma di relazioni tra grandi potenze, nel rispetto della propria effettiva sfera di influenza.

La nuova sudditanza europea è improntata a relazioni bilaterali tra ciascuna nazione e gli Usa. Cambia la tattica degli agenti strategici principali degli USA: quelli rappresentati da George W. Bush-Bill Clinton-Barack Obama hanno utilizzato soprattutto la sfera economica dell’Europa, in maniera coordinata, tramite la Germania << La Germania è l’emblema di un gigante economico e politico, che però a livello militare è rimasto un nano. E’ economicamente integrata con gli altri Stati vicini ed è protetta dall’America, il capo assoluto della sicurezza con il suo ombrello atomico >> (2); quelli rappresentati da Donald Trump stanno proponendo l’uso dell’Europa attraverso il sovranismo asimmetrico di ciascuna nazione. A mio avviso, diventa secondario pensare l’appartenenza delle nazioni europee ad uno dei due suddetti principali schieramenti di agenti strategici, mentre diventa prioritario riflettere sul perché l’Europa continua nella sua condizione di servitù volontaria verso gli Stati Uniti d’America. Il problema, quindi, come ho già sostenuto in altri scritti, non è passare da una servitù volontaria all’altra, a seconda delle strategie statunitensi di volta in volta egemoni, quanto, piuttosto, come pensare una strategia europea per liberarsi da questa servitù volontaria e costruire altre strade e altri ponti verso l’Oriente, in modo da restare nella fase multicentrica con le armi della dialettica (il dialogo tra le potenze mondiali) e non arrivare alla fase policentrica con la dialettica delle armi (la guerra di distruzione tra le potenze mondiali). Dalla fine del XV secolo ad oggi, nella storia tra le potenze dominanti e le potenze in ascesa, utilizzando la Trappola di Tucidide (3), abbiamo avuto dodici rivalità che si sono risolte con la guerra e quattro rivalità che non hanno prodotto nessuna guerra così come indicata nella sottostante figura (4).

Fonte:Allison,2018

 

 

La situazione europea non è seria perché gli attuali sub-decisori delle diverse nazioni (è bene ricordare sempre che l’Europa non è un soggetto politico!) e le relative forze politiche, cosiddette sovraniste e populiste, sono antitetico polari (in opposizione e sostegno reciproco) al mantenimento, in maniera diversa, della servitù volontaria europea verso gli USA; questi servi andrebbero liquidati con ‘o pernacchio, con il significato profondo che gli dà don Ersilio Miccio, interpretato con maestria da Eduardo De Filippo nel famoso episodio de “ Il professore”, nel film L’oro di Napoli, con regia di Vittorio de Sica (la sintesi dell’arte è straordinaria).

E’ proprio il segno dei tempi interpretare le relazioni della sfera economica come il cambiamento di strada verso l’Oriente (Russia, Cina, India); l’egemonia (coercizione e consenso) degli agenti strategici che dominano la società non è data solo da quelli della sfera economica ma da quelli espressi dall’insieme delle sfere sociali: nelle fasi multicentrica e policentrica essi trovano infatti maggior peso proprio nelle sfere politica, militare e istituzionale. In questa logica lo Stato è configurato come strumento all’interno dei rapporti sociali, esso è inteso, cioè, come l’insieme dei luoghi istituzionali e territoriali dove si svolge il conflitto sociale e politico tra dominanti e dominati e tra gli stessi dominanti per il potere e il dominio della società. La storia dimostra, tranne alcune eccezioni (le rivoluzioni), che il conflitto prevalente che si svolge nelle società è quello tra gli agenti strategici delle diverse sfere del legame sociale (dove si esprimono le forme del potere) che configurano il blocco degli agenti strategici egemonici che governano, in una situazione di equilibrio dinamico, la nazione (dove si esprimono le forme del dominio). E’ questa formazione degli agenti strategici egemonici che realizza le capacità di coordinare l’insieme delle relazioni nazionali e delle alleanze fra nazioni soprattutto nelle fasi multicentrica e policentrica.

 

 

2.Il declino irreversibile degli USA

 

Gli Stati Uniti sono una potenza mondiale in irreversibile declino; le ragioni sono molteplici: a) i gravi squilibri interni economici, sociali e territoriali; b) un allentamento complessivo dei legami della società civile; c) la incapacità degli agenti strategici di creare una nuova sintesi di sviluppo e di legame sociale [come quello che ha caratterizzato il Novecento come il secolo americano (5)] capace di ri-lanciare una nuova sfida per l’egemonia mondiale alle potenze che si sono configurate in questa fase storicamente data (Cina e Russia). La frattura all’interno degli agenti strategici è caratteristica del declino irreversibile di un impero; essa non produce più la sintesi nazionale, ma una sintesi di parte, su base imperiale, che si erode sempre di più proprio per la crisi interna della società sempre più impoverita e degradata (6).

Gli Usa hanno la convinzione di essere la nazione indispensabile a guidare il mondo e non accettano, per la propria storia, di condividere, in maniera rispettosa e dialogante, il governo del mondo con altre potenze.

Sergio Romano scrive che la superpotenza degli Stati Uniti << […] si considera autorizzata a stroncare qualsiasi aspirazione che possa turbare i suoi sogni imperiali. Dopo aver vinto la Seconda guerra mondiale, l’America ha fatto guerre inutili, da quelle del Vietnam a quella dell’Iraq, e le ha perdute con risultati che hanno scompigliato gli equilibri di intere regioni. Dopo aver assistito alla scomparsa dell’Unione Sovietica e alla nascita di Russia federale, ha fatto del suo meglio per restituire a quest’ultima il ruolo del pericoloso nemico che aveva sostenuto dalla fine della Seconda guerra mondiale al 1989. Dopo aver corteggiato la Cina, all’epoca di Nixon e Kissinger, per meglio isolare l’Unione Sovietica, ha deciso di trattare la Repubblica Popolare come un pericoloso concorrente e sta combattendo con Pechino due guerre: la prima, quella dei dazi, per impedirle di crescere sino a diventare la prima economia mondiale; la seconda, quella delle nuove tecnologie, per impedirle di conquistare un primato scientifico. Il Paese che si è presentato al mondo, sin dalle sue origini, come testimone e missionario di democrazia, è in realtà uno Stato militaresco, governato spesso da uomini che hanno una formazione militare. E’ una democrazia, ma ha una concezione gerarchica e militare della società internazionale e, quindi, ha sempre bisogno di un nemico che giustifichi i suoi arsenali e di alleati che obbediscano ai suoi ordini. >> (7).

Per queste ragioni gli USA vanno combattuti e neutralizzati nonché indirizzati a un modello di governo mondiale condiviso tra potenze (fase multicentrica) onde evitare il conflitto mondiale tra le potenze (fase policentrica).

Questo declino statunitense ha radici profonde nella crisi del modello sociale capitalistico che ha rappresentato la modernità Occidentale (8) [ben diversa dalla modernità Orientale anch’essa con il suo modello sociale capitalistico (9) ] a partire dai quattro cicli egemonici (il ciclo genovese-iberico, dal XV secolo agli inizi del XVII; il ciclo olandese, dalla fine del XVI secolo alla metà del XVIII; il ciclo britannico, dalla seconda metà del XVIII secolo agli inizi del XX; il ciclo statunitense, dalla fine del XIX secolo fino ad oggi) che hanno caratterizzato la storia del capitalismo (10).

 

 

3.Le vie della Nato

 

La situazione oggettiva è che abbiamo una Europa servile in totale sbando e decadenza e una potenza imperiale (USA) di coordinamento mondiale, in irreversibile declino, non propensa ad un ordine mondiale condiviso con altre potenze.

In questa fase storica data, l’Europa si trova ad un bivio: o proseguire la servitù volontaria verso gli Stati Uniti d’America scegliendo le vie della NATO, oppure iniziare un cammino di liberazione dalla servitù e scegliere un nuovo orientamento verso l’Oriente attraverso le vie della seta e le vie dell’energia (queste ultime che riguardano il ruolo dell’altra potenza in ascesa, cioè la Russia, saranno oggetto della seconda parte di questo scritto). Un cammino che non può prescindere dal << […] “saltare il passaggio” della piena restaurazione della sovranità politica e monetaria degli stati nazionali >> (11).

La strategia statunitense, nella fase multicentrica sempre più intensa, necessita di una Europa coordinata dalla Nato (12). La Nato non è solo una macchina da guerra come sostiene Sergio Romano: << La Nato è un’alleanza politica militare in cui esiste un esercito permanente integrato, esiste un comando militare che lavora 24 ore su 24 ore con un comandante supremo che è in realtà un Capo di Stato Maggiore di tutti i paesi dell’Alleanza Atlantica, ma è sempre americano[ corsivo mio], e questo Capo di Stato Maggiore fa esattamente quello che fanno tutti i capi di Stato Maggiore, cioè, preparano la prossima guerra […] >> (13); né essa è soltanto un mercenariato militare globalizzato al servizio della geopolitica di potenza USA come affermava Costanzo Preve (14), né tantomeno la Nato è in stato di “morte cerebrale” come dichiara Emmanuel Macron con i suoi deliri di grandezza nel concepire una Europa “come una potenza del mondo con una autonomia strategica e di capacità sul piano militare” (15), magari sotto l’egemonia francese (sic).

La Nato è una istituzione mondiale che ha subito diverse metamorfosi dalla sua costituzione (1949) ad oggi. Essa è lo strumento degli Stati Uniti in tutti gli scenari mondiali per affermare la democrazia e imporre il suo modello sociale, politico, culturale ed economico. La Nato penetra in tutte le sfere del legame sociale delle nazioni e delle macroregioni (economica, istituzionale, culturale, infrastrutturale, eccetera), trasforma territori e città (Europa, Medio Oriente, Mediterraneo, Africa, Asia), incide e condiziona lo sviluppo dei Paesi [penso, a mò di esempio, ai corridoi europei, ai territori e città Nato dell’Italia (Napoli, Taranto, Vicenza…), all’aumento delle spese militari sottratte agli investimenti, alla nuova base Usa di Alessandropoli (Grecia), alle strategie nel Mar Nero] in funzione degli scenari di guerra contro le potenze mondiali, per contrastare il formarsi di alleanze tra le potenze in ascesa in grado di mettere in discussione il loro dominio (16). La potenza mondiale da centrare, da parte degli USA è data dall’entità del pericolo che rappresenta e dalla capacità di potenza raggiunta che può mettere in discussione la sua egemonia; ma gli USA sono attenti anche alle alleanze che si possono formare tra le potenze in ascesa che sarebbero deleterie per loro (Cina e Russia hanno avuto ed hanno forme di collaborazione e di intesa politica, economica, finanziaria e militare ben raffigurate, in questa fase, dalle Vie della Seta). Con Richard Nixon-Henry Kissinger la Russia era nel mirino strategico degli USA e l’alleanza con la Cina era la logica conseguenza del divide et impera. Con Barack Obama-Donald Trump la Cina è nel mirino strategico degli USA, perché nel lungo periodo può rappresentare la potenza cardine del sistema mondiale, e l’alleanza con la Russia è la logica conseguenza del divide et impera.

Maurizio Molinari, direttore de La Stampa, ben introdotto nei gangli del potere servile statunitense, afferma, a proposito delle strategie Nato nel XXI secolo, che :<< Le interferenze russe avvenute nelle elezioni di più paesi occidentali e la nuova via della seta pongono la Nato davanti ad una competizione strategica […] maggiore cooperazione sulla sicurezza per affrontare le interferenze russe e unità per occuparsi dei rapporti con la Cina […] genesi della nova Nato del XXI secolo. >> (17).

Il presidente Sergio Mattarella, nel messaggio del 4 Novembre, definisce la Nato una<< alleanza alla quale abbiamo liberamente scelto di contribuire, a tutela della pace nel contesto internazionale, a salvaguardia dei più deboli e oppressi e dei diritti umani >>. Qui, per dirla con Costanzo Preve, siamo alla menzogna sistematica!

 

Le vie della Nato, ovverosia degli Stati Uniti, sono vie che preparano scenari di guerra e l’Europa per la prima volta nella storia sarà teatro passivo di future guerre!

 

Fonte: Limes, 2018

 

 

4.Le vie della seta

 

Riporto una lunga ma significativa sintesi di cosa sono le Vie della Seta tratta dall’omonimo libro dello storico Peter Frankopan:<<In realtà, per millenni, fu la regione che si estendeva tra l’Est e l’Ovest, collegando l’Europa con l’oceano pacifico, a fungere da asse da rotazione del mondo. La regione a metà tra Oriente e Occidente, che si estende approssimativamente dalle coste orientali del Mediterraneo e del Mar Nero fino all’Himalaya, potrebbe sembrare un luogo poco promettente per farne il punto di osservazione del mondo […] In realtà, il ponte tra Oriente e Occidente è il vero crocevia della civiltà. Lungi dall’essere al margine degli affari globali, questi paesi ne sono proprio al centro, come lo sono stati fin dall’alba della storia […] Fu su questo ponte tra l’Est e l’Ovest che circa 5000 anni fa vennero fondate grandi metropoli, fu qui che le città di Harappa e Mohenjo-daro, nella valle dell’Indo, fiorirono come meraviglie del mondo antico, con popolazioni che ammontavano a decine di migliaia di abitanti e strade che si connettevano in un sofisticato sistema fognario che non sarebbe stato uguagliato in Europa per migliaia di anni. Altri grandi centri di civiltà come Babilonia, Ninive, Uruk e Akkad, in Mesopotamia, erano celebri per la loro grandiosità e la loro architettura innovativa. E oltre duemila anni fa un geografo cinese annotava che gli abitanti della Battriana, una regione incentrata sul fiume Oxos e oggi situata nell’Afghanistan settentrionale, erano commercianti e negoziatori leggendari; la loro capitale ospitava un mercato in cui si comprava e vendeva un’enorme gamma di prodotti, provenienti da ogni dove.

Questa regione è il luogo dove videro la luce le grandi religioni del mondo, dove il giudaismo, il cristianesimo, l’islam, il buddhismo e l’induismo vissero gomito a gomito. E’ il crogiuolo dove competevano vari gruppi linguistici, dove lingue indoeuropee, semitiche e sino-tibetane coabitavano con idiomi altaici, turcici e caucasici. Questo è il luogo in cui grandi imperi sorsero e caddero, dove le conseguenze degli scontri fra culture rivali si avvertivano a migliaia di chilometri di distanza. Qui si aprivano nuovi modi di guardare al passato e si rivelava un mondo profondamente interconnesso, dove quanto accadeva in un continente aveva effetti su un altro, dove le scosse secondarie di ciò che succedeva nelle steppe dell’Asia centrale potevano essere avvertite nel Nord Africa, dove eventi verificatisi a Baghdad avevano risonanza in Scandinavia, deve scoperte compiute nelle Americhe alteravano i prezzi delle merci in Cina e facevano schizzare la domanda sui mercati dei cavalli in India settentrionale.

Questi scossoni si diffondevano lungo una rete estesa in ogni direzione, un ventaglio di strade lungo le quali hanno viaggiato pellegrini e guerrieri, nomadi e mercanti, lungo le quali merci e materie prime sono state trasportate e vendute, e le idee sono state scambiate, modificate e perfezionate. Queste strade hanno portato non solo prosperità, ma anche morte e violenza, malattie e disastri. Verso la fine del XIX secolo, un eminente geologo tedesco, Ferdinad von Richthofen (zio del <<Barone Rosso>>, l’asso dell’aviazione della prima guerra mondiale), diede a questa estesa rete di connessioni un nome che è entrato stabilmente nell’uso: SeidenstraBen, Vie della Seta.

Queste direttrici fungono da sistema nervoso centrale del mondo, collegando popoli e luoghi ma rimanendo sottotraccia, invisibili a occhi nudo. Allo stesso modo in cui l’anatomia spiega come funziona il corpo, la comprensione di queste connessioni ci consente di capire come funziona il mondo. Eppure, nonostante la sua importanza, questa parte del pianeta è stata dimenticata dalla storia tradizionale. In parte ciò è dovuto a quello che è stato chiamato <<orientalismo>>, ovvero la concezione netta e drasticamente negativa dell’Oriente come sottosviluppo e inferiore all’Occidente, e quindi non meritevole di uno studio serio. Ma deriva anche dal fatto che la narrazione del passato è diventata così dominante e consolidata da non lasciare spazio a una regione che è stata a lungo vista come periferica rispetto alla vicenda dell’ascesa dell’Europa e della società occidentale.>> (18).

 

Fonte Limes, 2019

 

 

I territori delle Vie della Seta, da inquadrare nelle diverse fasi della storia mondiale caratterizzate da segni particolari e da questioni rilevanti e peculiari proprie delle fasi (Peter Frankopan ne individua ben 25 Vie nei periodi storici che vanno dalla sua configurazione ad oggi passando dalla Via delle Fedi alla Via alla Tragedia), sono interessati da un grande progetto di respiro mondiale basato sullo sviluppo economico, politico, culturale tra le nazioni coinvolte nell’idea di scambio tra Oriente e Occidente che ricalca il senso e gli obiettivi delle antiche Vie della Seta. Xi Jinping così dichiarava, nel discorso di Astana (Kazakhstan), nell’autunno del 2013, dove annunciava per la prima volta il progetto della Via della Seta:<< Per più di duemila anni […] i popoli che vivono nella regione che collega l’Est e l’Ovest sono stati in grado di coesistere, cooperare e prosperare nonostante le differenze di razza, fede e cultura. Per la Cina è una priorità di politica estera […] sviluppare rapporti di cooperazione amichevole con i paesi dell’Asia centrale. E’ giunto il momento […] di rendere più stretti i legami economici, migliorare le comunicazioni, incoraggiare gli scambi e incrementare la circolazione monetaria […] >> (19).

E l’Europa che fa?

L’Europa mostra i suoi limiti nella cooperazione con la Cina sul grande progetto mondiale della Nuova Via della Seta (Belt and Road Iniziative), limiti derivanti da una mancanza di politica unitaria essendo l’Unione Europea, come già detto, un non soggetto politico. Diego Angelo Bertozzi (uno dei maggiori esperti italiani della Cina e della Nuova Via della Seta) sostiene che :<<E’ fuor di dubbio che, dal momento del suo lancio nel 2013, la Belt and Road Initiative abbia attirato l’interesse dei Paesi membri dell’Unione Europea. Poco dopo infatti, nel settembre del 2015, la Cina e l’UE hanno firmato un accordo per istituire la piattaforma di connettività UE-Cina per la promozione della cooperazione congiunta in materia di investimenti infrastrutturali e servizi di trasporto; già prima Pechino aveva mostrato il proprio interesse a rendere compatibili la nascente Bri con il piano Juncker da 385 miliardi di euro centrato principalmente sulla costruzione di infrastrutture. Resta però il fatto che la maggior parte degli investimenti cinesi in infrastrutture europee (autostrade, ferrovie e porti) si sono verificati al di fuori della piattaforma di connettività e che a prevalere è un approccio bilaterale con i singoli Paesi interessati, in modi e intensità diverse, alla collaborazione [corsivo mio, LL]>> (20). Molte nazioni europee (Francia, Germania, Regno Unito) hanno fatto accordi con la Cina nonostante ci siano critiche e conflitti all’interno dei Paesi G7 :<<Le critiche all’adesione italiana alla BRI, primo fra i paesi G7, nascono dal timore di uno stabile insediamento cinese, con investimenti industriali e logistici, che completi un corridoio dall’Asia al Centro Europa via Trieste (anche Genova ha firmato un’intesa preliminare), che potrà riprendere quella centralità che già l’Impero asburgico aveva compreso trasformandola in porto franco>>. La Commissione europea, inoltre, ha definito la Cina avversario sistemico nonostante <<Contando solo le partecipazioni almeno del 10%, in dieci anni la Cina ha speso per aziende europee 145 miliardi […] Ma altre stime […] arrivano a 350 miliardi. Più di 670 gruppi cinesi della terraferma o con sede a Hong Kong […] hanno investito in Europa dal 2008; quasi 100 hanno alle spalle lo stato o fondi di investimento. Circa 360 imprese sono state acquisite, anche colossi come l’italiana Pirelli. Controllo o partecipazioni riguardano inoltre quattro aeroporti, sei porti, parchi eolici e squadre di calcio […] In parecchi hanno dunque rapporti assai stretti con quello che la Commissione europea ha definito inaspettatamente avversario sistemico, timorosa forse di suscitare ritorsioni commerciali dalla Casa Bianca (corsivo mio, LL)>> (21).

La Nuova Via della Seta è un grande progetto a livello mondiale, messo in atto dalla Cina nella logica del dialogo con i popoli, ricalcando in maniera diversa il senso e l’idea delle relazioni tra Oriente e Occidente << Nonostante la loro apparente <<estraneità>>, queste terre sono sempre state di importanza fondamentale nella storia mondiale, in un modo o nell’altro, collegando est e ovest e ponendosi come un crogiuolo dove, dall’antichità ad oggi, si sono incontrate e scontrate idee, abitudini e lingue. E oggi le Vie della Seta stanno riacquistando importanza, un fenomeno che molti ignorano o a cui non prestano interesse. Gli economisti non hanno ancora rivolto l’attenzione alle ricchezze che si trovano sotto e sopra il suolo, sotto le acque o sepolte nelle montagne delle catene che collegano l’Himalaya al mar Nero, all’Asia Minore e al Levante. Si concentrano su gruppi di paesi senza connessioni storiche (corsivo mio, LL) i cui indici misurabili appaiono a prima vista simili, come i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), spesso ormai sostituiti dal nuovo trend dei MIST (Messico, Indonesia, Corea del Sud e Turchia). In realtà, è al vero Mediterraneo- << il centro del mondo >>- che dovremmo invece guardare. Non c’è un Selvaggio Oriente, nessun nuovo mondo da scoprire, ma una regione e una serie di connessioni che riemergono sotto i nostri occhi >> (22).

La Cina è una potenza in ascesa, come lo fu Atene nella fase multicentrica precedente la guerra del Peloponneso, con la caratteristica di sconvolgere l’ordine esistente: << Essi (gli ateniesi, mia precisazione) sono amanti delle novità, rapidi nel concepire un piano e nel portare a compimento ciò che hanno deciso […] >> (23). Per questo motivo gli Stati Uniti cercano di bloccare e contrastare il progetto cinese perché vedono in esso un serio pericolo alla loro egemonia mondiale (“sindrome della potenza dominante”).

 

Fonte Limes, 2016

 

La Nuova Via della Seta della Cina è una Via che recupera un nuovo senso e un nuovo dialogo tra Oriente e Occidente e ha come obiettivo l’equilibrio dinamico tra le potenze dominanti della fase multicentrica.

 

 

5.In sintesi: abbiamo due potenze in ascesa, Cina e Russia, che rivendicano un ordine mondiale dialogante e rispettoso delle proprie diversità storiche, politiche e culturali in modo da superare la “Trappola di Tucidide” e restare nella fase multicentrica.

Al contrario, la potenza dominante, gli Stati Uniti d’America, rivendica un ordine mondiale sotto la propria egemonia e non accetta un limite al proprio dominio nella configurazione di un nuovo ordine mondiale avanzato dalle potenze in ascesa. Quindi gli USA metteranno in atto strategie politiche di conflitto per contrastare sia la minaccia del proprio declino (ormai irreversibile) sia le potenze in ascesa; difficilmente si fermeranno nella fase multicentrica.

 

Cosa farà l’Europa? Quali vie intraprenderà?

 

Sono pessimista nell’accezione di Ennio Flaiano << Essere pessimisti circa le cose del mondo e la vita in generale è un pleonasmo, ossia anticipare quello che accadrà […].>>. Abbiamo, purtroppo, sub-decisori europei (in particolare quelli italiani per la loro peculiarità storica) che sono dei rubagalline (il significato pieno del termine è nel film Totò, Peppino e i fuorilegge, regia di Camillo Mastrocinque del 1956) e hanno le facce da servi (per il prosieguo della definizione delle facce rimando alla magnifica sintesi fatta da Giorgio Gaber nel brano Mi fa male il mondo dell’album “E pensare che c’era il pensiero”, 1995). Sub-decisori inaffidabili e pericolosi per la maggioranza delle popolazioni. Sono i cotonieri lagrassiani, soggetti politici espressione di una sfera economica caratterizzata da modelli di produzione superati e tecnologicamente arretrati (di processo e di prodotto), che hanno venduto l’anima e i relativi paesi per n’anticchia di potere e non sanno andare oltre una visione economica delle relazioni internazionali.

In Europa ci vorrebbe un Gelsomino (24) dalla voce potentissima che, con l’aiuto di un moderno Principe, sconfiggesse la prepotenza e l’arroganza e ristabilisse la verità e l’ordine per traghettare l’Europa fuori dalla servitù statunitense e pensare una Europa (espressione di una recuperata sovranità politica delle nazioni) dei dialoghi e dei confronti tra mondi diversi (Occidente e Oriente).

Le citazioni che ho scelto come epigrafe sono tratte da:

 

* Noam Chomsky, Venti di protesta, Ponte alle Grazie, Milano, 2018, pag.81.

** Peter Frankopan, Le vie della seta, Mondadori, Milano, 2017, pag.8.

 

 

NOTE

 

1.Ennio Flaiano, Diario notturno, Adelphi, Milano, 2012, pp. 114 e 165.

2.Graham Allison, Destinati alla guerra. Possono l’America e la Cina sfuggire alla trappola di Tucidide?, Fazi editore, Roma, 2018, pag.309.

3.La situazione storica che si venne a creare nella guerra del Peloponneso dove la potenza dominante di Sparta fu messa in discussione dalla emergente potenza di Atene. La trappola di Tucidide definisce la << “sindrome della potenza in ascesa” e la “sindrome della potenza dominante”. La prima mette in evidenza l’accresciuta consapevolezza di sé, dei propri interessi e del proprio diritto a essere riconosciuto e rispettato. La seconda è essenzialmente l’immagine speculare della prima, ossia il manifestarsi da parte del potere costituito di un crescente senso di paura e di insicurezza difronte alla minaccia del proprio “declino” […]. Sparta era una polis conservatrice, una potenza incline allo status quo. Come in seguito ebbe a dichiarare l’ambasciatore di Corinto all’Assemblea degli spartani:<< Loro caratteristica [degli ateniesi, mia specificazione] è di sconvolgere l’ordine esistente: veloci nell’ideare, veloci nel realizzare ciò che hanno deciso. Vostra caratteristica [degli spartani, mia specificazione] è invece l’immobilismo: non vi sforzate di ideare vie nuove e, sul piano dell’azione, non siete all’altezza neanche dello stretto necessario >> in Graham Allison, Destinati alla guerra, op.cit., pag. 90 e 74; Sull’ascesa della potenza di Atene si rimanda a Tucidide, La guerra del Peloponneso, Mondadori, Milano, 1976, volume primo, Libro I, pp.3-97.

4.Sul progetto della Trappola di Tucidide si rimanda a Graham Allison, Destinati alla guerra, op.cit., in particolare all’Appendice I dove è riportato il dossier completo sulla Trappola di Tucidide che fa parte del progetto di storia applicata del Belfer Center di Harvad (Cambridge, USA).

5.Per la costruzione di un nuovo modello di società che ha caratterizzato il Novecento come il secolo americano, si rimanda a Olivier Zunz, Perché il secolo americano?, il Mulino, Bologna, 2002.

6.Per gli indicatori economici del declino statunitense si rimanda a Graham Allison, Destinati alla guerra, op. cit., pp.33-63.

7.Sergio Romano, L’epidemia sovranista, Longanesi, Milano, 2019, pp.100-101.

8.Sulla crisi della modernità occidentale si veda Marshall Berman, L’esperienza della modernità, il Mulino, 1985; David Harvey, La crisi della modernità, il Saggiatore, Milano, 1993; Costanzo Preve-Luigi Tedeschi, Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale, il Prato editrice, Saonara (Padova), 2016.

9.Sulla diversità della modernità orientale si legga Maxime Rodinson, Islam e Capitalismo, Einaudi, Torino, 1968; Luce Irigaray, Tra Oriente e Occidente, Manifestolibri, Roma, 1997; Guy Mettan, Russofobia. Mille anni di diffidenza, Sandro Teti Editore, Roma, 2016; Aleksandr Dugin, L’Occidente e la sua sfida in www.ariannaeditrice.it, 18/10/2018, prima e seconda parte; Graham Allison, Destinati alla guerra, op.cit.

10.Per una lettura che superi le periodizzazioni dei cicli economici delle diverse fasi storiche del capitalismo, si intreccino gli studi di Giovanni Arrighi, Gianfranco La Grassa e Costanzo Preve.

11.Costanzo Preve-Luigi Tedeschi, Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale, op. cit., pag.153.

12.Luigi Longo, Il Progetto dell’Unione Europea è finito, la Nato è lo strumento degli Usa nel conflitto strategico della fase multicentrica, www.italiaeilmondo.com, 26/11/2018.

13.Sergio Romano, Sulle finalità della Nato e il bisogno di Occidente della Russia, www.ispionline.it, video intervento, 4/6/2018.

  1. Costanzo Preve-Luigi Tedeschi, Dialoghi sull’Europa e sul nuovo ordine mondiale, op. cit., pag.152.

15.Redazione Ansa, Macron, Nato in stato di “morte cerebrale”, www.ansa.it, 7/11/2019; Anais Ginori, Siria: Macron, la Nato è in stato di morte cerebrale, www.repubblica.it, 7/11/2019.

16.Per le politiche di espansione, di allargamento, di sicurezza, di alleanze e controalleanze, di partenariato di pace (sic), di investimenti infrastrutturali, di spese militari della Nato, si rimanda a Mahdi Darius Nazemroaya, La globalizzazione della NATO. Guerre imperialiste e colonizzazioni armate, Arianna editrice, Bologna, 2014; Manlio Dinucci, Geopolitica di una “guerra globale” in AaVv, Escalation. Anatomia della guerra infinita, DeriveApprodi, Roma, 2005, pp.11-112; sul continuo aumento delle spese militari a favore della Nato si veda Manlio Dinucci, 4 Novembre, vedi Napoli e poi muori, www.volitairenet.org, 10/11/2019; sulla base USA di Alessandropoli in Manlio Dinucci, Alessandropoli, nuova base USA contro la Russia, www.voltairenet.org, 24/9/2019; sulla strategia USA-NATO sul Mar Nero in Martin Sieff, USA e NATO in preda a “pazzia da Mar Nero”, www.comedonchisciotte.org, 17/6/2019.

17.Maurizio Molinari, Il doppio fronte della Nato, www.lastampa.it, video editoriale, 29/7/2019.

18.Peter Frankopan, Le Vie della Seta, op.cit., pp. 7-8; si legga anche Claudio Mutti, La nuova Via della Seta, www.euroasia-rivista.com, 24/6/2019.

  1. Peter Frankopan, Le Vie della Seta, op.cit., pag. 595; per una analisi sintetica degli obiettivi del progetto della Via della Seta si invia a Vladimiro Giacchè, Un progetto per molti obiettivi, www.sinistrainrete.info, 29/4/2019.

20.Osservatorio Globalizzazione, Sulle rotte della Nuova Via della Seta, conversazione con Diego Angelo Bertozzi, www.comunismoecomunita.org, 8/10/2019.

21.Luciano Santilli, La Nuova Via della crescita in Capital n. 465-466 giugno 2019, pag.7. E’ interessante la lettura completa dello speciale Cina perchè ricca di informazioni, dati, analisi delle relazioni tra Cina ed Europa e soprattutto il livello di penetrazione cinese in Italia; sugli accordi dei paesi europei con la Cina si rimanda a Pino Nicotri, Con la nuova Via della Seta la Cina è vicina, anzi è tra noi, www.sinostrainrete.info, 1/4/2019.

  1. Peter Frankopan, Le Vie della Seta, op.cit., pag.585.
  2. Tucidide, La guerra del Peloponneso, op.cit., pag. 46.

24.Per la storia di Gelsomino si legga Gianni Rodari, Gelsomino nel paese dei bugiardi, Einaudi, Torino, 2010.

interrogativi ragionevoli, di Giuseppe Masala

Qui sotto alcune considerazioni a proposito delle recenti iniezioni di liquidità della Federal Reserve. La FD ha deciso di sostenere Deutsche Bank, in grandissima difficoltà. Non sarà probabilmente l’unico intervento di soccorso. Un crollo di DB destabilizzerebbe tutto il sistema finanziario e la direzione dei flussi verso gli Stati Uniti. Vedremo come Angela Merkel dovrà ricambiare la cortesia, sempre che vada a finire bene_Giuseppe Germinario

Intanto la Federal Reserve di New York ai 60 miliardi mensili di Quantitative Easing e alle operazioni pronti contro termine a 24 ore da 120 miliardi e a quella da 35 miliardi a 14 giorni ne ha aggiunte due a 42 giorni da 40 miliardi complessivi e un’altra da 15 miliardi a 25 giorni. Ormai stanno allagando tutta la curva dei tassi sull’interbancario…una vera alluvione di liquidità. Il dato interessante è che apertis verbis hanno scritto che non diranno per almeno i prossimi due anni quale (o quali) banche stanno chiedendo soldi perchè evidentemente nei guai fino al collo e nessuna altra banca gli presta un dollaro.

Ora che Deutsche Bank è in fallimento la Merkel accelera per l'”Unione Bancaria”: Conte non ceda al ricatto

 Ora che Deutsche Bank è in fallimento la Merkel accelera per l'Unione Bancaria: Conte non ceda al ricatto
“Le perdite tedesche sono perdite europee e tutta l’Europa deve contribuire. Le perdite degli altri stati, specialmente quelli mediterranei sono perdite dei singoli stati”

di Giuseppe Masala 

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-ora_che_deutsche_bank__in_fallimento_la_merkel_accelera_per_lunione_bancaria_conte_non_ceda_al_ricatto/29296_31659/?fbclid=IwAR1SV4HesrOrBPgXa5OYtGhv1Tp7g49JDMFLDbjL5IixZCcb_LmHReuk0eUNarrano le cronache che il focus della cena di lavoro tra il PdC Giuseppe Conte e la Cancelliere tedesca Angela Merkel sia stato il completamento della cosiddetta “unione bancaria” con l’introduzione di un’assicurazione europea per le banche che eventualmente andranno in default trascinando con sé i risparmi dei loro clienti. Non esattamente a caso questa preoccupazione alla signora Merkel viene ora che sono a grande rischio le banche tedesche a partire da Deutsche Bank e di Commerzbank. Ricordo inoltre che quando saltarono dopo la cura Monti ben sette banche italiane a Berlino dissero che non ci pensavano proprio a pagare per gli italiani e quindi che l’Unione Bancaria non sarebbe stata mai completata con un’assicurazione sui c/c delle banche sottoposte a bail-out. Hanno cambiato idea, quando gli conviene.

Insomma, vogliono ripetere l’operazione già fatta ai tempi della crisi greca con la costituzione del Meccanismo Europeo di Stabilità che fu finanziato in proporzione al pil dei singoli stati e non in base all’esposizione verso la Grecia insolvente del sistema bancario dei singoli stati. E fu così che l’Italia a fronte di un esposizione di appena quattro miliardi nei confronti della Grecia fu costretta a pagare ben 50 miliardi calcolati in proporzione al peso del pil italiano su quello europeo.

In buona sostanza abbiamo speso una cifra immensa per salvare le banche tedesche e francesi che erano esposte per cifre astronomiche. Ora ci risiamo, e del resto se il colpo è venuto bene una volta, giustamente la furba signora Merkel ci riprova con i fessi di turno (sempre gli stessi, noi).

La regola in sostanza secondo la Signora Merkel sarebbe questa: “Le perdite tedesche sono perdite europee e tutta l’Europa deve contribuire. Le perdite degli altri stati, specialmente quelli mediterranei sono perdite dei singoli stati ed ognuno s’arrangi.”. In altri termini ciò che è mio è mio, ma ciò che è tuo è comunque mio. Questo dicono i tedeschi.

Ora, è molto probabile che i tedeschi lancino una bella esca come per esempio fondi europei o una collaborazione italo-tedesca sulla siderurgia per risolvere la crisi di Taranto. In cambio chiederanno “una firmetta” italiana sull’assicurazione europea sui depositi. Insomma, magari ci daranno un miliardo sulla siderurgia per chiedercene una cinquantina tra un anno per salvare i c/c dei ricchi bottegai tedeschi. Un vero e proprio capestro. L’ennesimo.

36° podcast_Se ne deve andare!_di Gianfranco Campa

Le campagne processuali a carico di Donald Trump, Presidente degli Stati Uniti d’America, sono e vanno avanti a prescindere. Un fatto pressoché unico nella storia degli Stati Uniti. La pervicacia e la sistematicità della tessitura sono il segno non solo della radicalità delle opzioni politiche in campo, ma anche della loro incompatibilità. Una condotta spietata che ha portato al sacrificio di due personaggi chiave dello staff di Trump, Flynn e Roger Stone, in secondo piano Manafort, colpiti da accuse pesantissime  e da decenni di duro carcere e a minacce sempre più prossime all’ultimo suo mentore, Rudolph Giuliani, il più esperto. Le oscillazioni della condotta presidenziale si spiegano in gran parte per l’ostracismo e per l’assenza di una classe dirigente alternativa sufficientemente radicata negli apparati. Non si esita nemmeno a stravolgere la finzione della separazione e della indipendenza dei poteri di uno Stato pur di proseguire nella persecuzione. Per non parlare, poi, della retorica della democrazia. Il parere e la volontà del popolo vale solo se in sintonia con l’élite dominante. Sono rari i momenti in cui un sistema di potere è costretto a gettare la maschera; quando avviene la strada verso la destabilizzazione di un paese e delle sue istituzione è ormai diretta lungo un pendio sempre più ripido. Negli Stati Uniti, vista la tempistica, tutto congiura alla presentazione del candidato unico alle presidenziali. Non male per il più fiero avversario dei regimi cosiddetti totalitari. Ascoltate la narrazione di Gianfranco Campa! Ne vale la pena.Buon ascolto_Giuseppe Germinario

ILVA, il suo percorso è la metafora del futuro di una nazione_con Augusto Sinagra

tra quelli che ci fanno

L’affare ILVA si sta rivelando la metafora del destino che l’Italia sta inseguendo nella sua frenesia autodistruttiva.

babbei al governo

Dal ruolo improprio, l’ennesimo, della magistratura alla contrapposizione paralizzante e arcadica tra difesa ambientale e salvaguardia del patrimonio industriale, specie di quello strategico di base, alla insipienza ed arrendevolezza di un ceto politico complice, ormai non solo oggettivamente. Una classe dirigente che non sa offrire un futuro, che non sa pensare all’interesse nazionale, che non sa far altro che nascondersi tra le pieghe sempre più asfittiche lasciate dagli attori geopolitici più intraprendenti. Ha dimostrato di non aver cura nemmeno delle condizioni minime di sopravvivenza del proprio apparato industriale; ha abdicato da ogni iniziativa politica lasciando sempre più spazio all’azione impropria di apparati preposti a sanzionare il mancato rispetto della legge; si sta facendo soverchiare da una multinazionale francoindiana complice dei propositi di desertificazione del paese ad opera dei “fratelli maggiori europei”. Un ceto politico inetto, scarsamente rappresentativo di interessi forti nel paese, ormai avviluppato in un conflitto tra bande. Potrebbe essere la grande occasione per un ceto politico alternativo di presentarsi come i difensori e gli assertori di una diversa prospettiva nazionale. E invece anche l’opposizione, compreso Salvini, sta rivelando limiti ed incomprensioni drammatici, per non dire di peggio. Di fronte a insolenti colpi di mano di Arcelor Mittal tesi a chiudere e danneggiare gli altiforni e alla reazione governativa meramente legalitaria, praticamente una manfrina, inadeguata rispetto all’urgenza drammatica della situazione, si chiosa bellamente sulla modalità di trattare con la multinazionale, sulle buone maniere piuttosto che spingere verso atti di imperio e straordinari che impediscano il vero e proprio sabotaggio in corso. La crisi ILVA è solo la punta di un iceberg che sta minacciando l’esistenza stessa di un apparato industriale appena degno di questo nome. Colpisce l’afasicità delle reazioni, compresa quella degli interessati diretti, gli operai. Non si può nemmeno più parlare della bollitura a fuoco lento di una rana. Qualche segnale di allarme, anche se tardivo, comincia a pervenire dagli ambienti imprenditoriali. E’ l’unico barlume di speranza rimasto. Si vedrà se il ricorso giudiziario, quel che pare una recita a contratto, si trasformerà in una reazione più risoluta. In controcanto ci sta pensando il Ministro della Difesa Lorenzo Guerini a rivelarci convinto l’ultimo tassello della congiunzione astrale, assieme all’ambientalismo d’accatto e decrescista e ai propositi della Unione Europea a trazione franco-tedesca, che vorrebbe il funerale dell’ILVA e del paese: preoccupato del futuro dei quindicimila prossimi disoccupati, ha annunciato l’estensione dell’arsenale militare nel’area Italsider e la prossima assunzione di mille unità.

il complice

Vedremo! Buon ascolto_Giuseppe Germinario

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