Italia e il mondo

GAZA: LA STORIA INSEGNA, di Michele Rallo (articolo di ottobre 2023)

Le opinioni eretiche

di Michele Rallo

GAZA: LA STORIA INSEGNA

Guerra di Gaza, di chi la colpa? Degli Israeliani o dei Palestinesi?

La colpa originaria, intendo, perché la colpa immediata è certamente del canagliesco attacco di Hamas. Hamas, peró – non si dimentichi – è un partito palestinese, non la Palestina. La Palestina, i Palestinesi in senso lato non hanno colpe in questa infame guerra di Gaza.

Colpe maggiori le hanno di sicuro gli Israeliani. Non tutti, certamente, non coloro che si sono opposti alla folle politica «di annessione e di esproprio» (uso le parole dell’autorevole quotidiano israeliano “Haaretz”) voluta dal governo di Benjamin Netanyahu; politica che è stata la miccia che ha dato fuoco alle polveri anche di quest’ultima tragica pagina di storia.

Naturalmente, non voglio avventurarmi nel tragico esercizio di “pesare” le colpe degli uni e le colpe degli altri, di contare i morti dell’una e dell’altra parte, di giudicare se sia da considerare maggiormente infame l’orrendo blitz terroristico di Hamas o la cinica condanna del popolo di Gaza a una morte atroce per fame e per sete (e per bombe) decretata da Netanyahu e dai suoi sodali. Dico soltanto che la bassa macelleria di Hamas non ha recato alcun beneficio alla causa palestinese, cosí come la canagliesca strage di civili palestinesi non recherá alcun beneficio alla causa israeliana. Lo capiscano una buona volta gli uni e gli altri: la brutalitá, la crudeltá, la cattiveria, l’infierire sui civili indifesi non ha mai giovato a nessuna causa.

Certo, peró, se per un attimo tralasciamo la funebre contabilitá di quest’ultimo drammatico episodio e risaliamo un po’ indietro nel tempo, allora non si puó non riconoscere che i Palestinesi abbiano ben poche colpe. I Palestinesi abitavano quella terra fin dall’antichitá, almeno da quando gli ebrei l’avevano abbandonata a séguito della Terza Guerra Giudaica (132-134 dopo Cristo).

Piú tardi, molto piú tardi (novembre 1917) l’allora Ministro degli Esteri inglese, conte Arthur James Balfour, indirizzó un messaggio ufficiale al barone Walter Rotschild (capo della comunitá ebraica britannica nonché proprietario della Banca d’Inghilterra) promettendo – a nome del governo di Sua Maestá – la creazione di una «dimora nazionale per il popolo ebraico» in Palestina. Impegno che sarebbe stato certamente lodevole, sol che la Palestina non fosse, ormai da un paio di millenni, la “dimora nazionale” di una diversa popolazione: i Palestinesi, per l’appunto.

Peraltro – non va dimenticato neanche questo – pochi mesi prima di aver promesso la Palestina agli Ebrei, gli inglesi la avevano promessa agli Arabi (accordo MacMahon-Hüsseyn del luglio 1916). Vecchio vizietto inglese, quello di promettere la stessa cosa a soggetti diversi. A noi – per esempio – avevano garantito la regione ottomana di Smirne (patto di Londra, aprile 1915), ma la stessa regione avevano poco prima offerto alla Grecia (accordi Grey-Venizélos, marzo 1915).

In ogni caso – venendo a tempi meno lontani – nel 1947 la neonata Organizzazione delle Nazioni Unite decretava che la Palestina dovesse essere spartita fra Arabi ed Ebrei, e nel 1948 veniva cosí costituito un modesto (al tempo) Stato d’Israele. Da allora quello Stato è andato gradualmente estendendosi e, parallelamente, il quasi-Stato palestinese è andato riducendosi fino alle dimensioni attuali: due tronconi separati (la Cisgiordania e la minuscola “striscia” di Gaza) per un totale di 6.000 chilometri quadrati e di 5 milioni di abitanti.

E non era tutto, perché alcuni governi israeliani – in primis il governo Netanyahu – hanno nel frattempo favorito ampi insediamenti ebraici in territorio palestinese: vere e proprie “colonie di popolamento”, peraltro condannate dall’ONU come palese violazione di ogni piú elementare norma di diritto internazionale. Da qui l’accusa «di annessione e di esproprio» cui si è fatto riferimento all’inizio di questo articolo.

Una riflessione, in chiusura. Benjamin “Bibi” Netanyahu era, fino a qualche giorno fa, politicamente con un piede nella fossa. Formalmente incriminato per corruzione, frode e abuso d’ufficio, era letteralmente assediato da oceaniche manifestazioni popolari che ne chiedevano le dimissioni, e correva il rischio di essere cacciato ignominiosamente dal potere. Adesso, invece, cinge l’aureola di difensore della sicurezza di Israele e tenta di tornare sulla cresta dell’onda. Magari con un mezzo genocidio al suo attivo.

In tale contesto sarei tentato di inserire le voci secondo cui i servizi segreti egiziani lo avrebbero avvisato, con tre giorni d’anticipo, dell’aggressione che Hamas stava preparando. Ma Bibi – secondo tali voci – avrebbe ignorato l’avviso.

Per caritá, sono soltanto voci. Ma per lo storico hanno un che di deja vu. Vengono alla mente altre voci, di qualche decennio piú vecchie. Secondo tali voci, nel 1941 il Presidente americano Roosevelt fu in qualche modo avvertito di un imminente assalto giapponese a Pearl Harbor. Ma non prese alcuna contromisura. Forse – sostengono i suoi detrattori – per poter scioccare gli americani ed avere una buona scusa per trascinare gli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale.

Ora, volendo fare opera di fantapolitica, qualcuno potrebbe interrogarsi sui motivi che avrebbero indotto ad ignorare la “soffiata” dei servizi egiziani. E non vado oltre, perché le “perle” della fantapolitica sono come le ciliegie: una tira l’altra. Si potrebbe partire da Pearl Harbor ed arrivare poi fino a Gaza. Magari passando dall’Ukraina e dal Donbass.

 [“Social” n. 518  ~ 20 ottobre 2023]

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La Guerra low cost : la dissuasione occidentale messa a malpartito, Gil Mihaely

La Guerra low cost : la dissuasione occidentale messa a malpartito, Gil Mihaely

coppia Gil Mihaely

La superiorità tecnologica occidentale è indebolita dalla guerra a basso costo. Alcuni attori potrebbero approfittare di questa situazione per estendere la propria influenza o attaccare l’Occidente. Ciò richiede una revisione non solo delle attrezzature, ma anche delle dottrine d’uso.

Il rapido sviluppo della tecnologia dei droni e dei missili ha trasformato profondamente la guerra come l’abbiamo conosciuta e pensata negli ultimi quarant’anni. La sua essenza risiede nella diffusa democratizzazione delle tecnologie militari e a doppio uso, che ora mette alla portata degli Stati poveri e degli attori non statali sistemi d’arma che, nel XX secolo, erano appannaggio delle grandi potenze economiche e industriali. Insieme a Internet, agli smartphone e all’accesso ai servizi satellitari (navigazione e immagini), questi sviluppi stanno mettendo in discussione le dottrine militari consolidate e gli arsenali esistenti.

La grande sofisticazione degli armamenti e degli equipaggiamenti occidentali, basata su enormi progressi nel campo dei sensori, della navigazione, dell’elaborazione dei dati e delle comunicazioni, ha permesso alle principali potenze economiche, tecnologiche e industriali di tradurre i loro vantaggi in questi campi in una schiacciante superiorità militare e di dotare i loro eserciti di sistemi che raggiungono livelli di precisione senza precedenti. Queste armi offrivano letalità, sia con l’esplosivo che con l’impatto diretto, con un grado di efficacia estremamente elevato. Insieme ai vantaggi tecnologici in termini di controllo, comunicazione e comando, queste risorse hanno reso possibile l’attuazione di dottrine di combattimento congiunte con un livello di coordinamento ed efficacia molto elevato.

La vittoria della qualità

Nel 1944-1945, per colpire un piccolo obiettivo in Germania erano necessari centinaia di bombardieri pesanti e migliaia di bombe. Secondo i calcoli dell’USAAF, la probabilità che una singola bomba colpisse un obiettivo di circa trenta metri da un’altitudine di 6.000 metri era solo dell’1,2%. Per ottenere una probabilità di successo del 93% circa, era necessario mobilitare quasi duecentoventi bombardieri, o circa duemiladuecento aviatori esposti alle difese nemiche. Nel combattimento vero e proprio, la precisione era ancora più bassa: nel 1943, solo il 16% dei proiettili cadeva entro i 300 metri dal bersaglio, una percentuale che migliorò solo al 60% nel 1945. Oggi, grazie alle armi di precisione, un solo aereo e una sola bomba guidata del tipo JDAM, con una probabile deviazione circolare (CEP) inferiore a cinque metri grazie al GPS, o una GBU-39/B Bomba di piccolo diametro, permettono di piazzare l’esplosivo direttamente sul bersaglio.

Inoltre, in quasi tutti i casi, i piloti sganciano le munizioni lontano dall’obiettivo e fuori dal raggio d’azione delle difese aeree. In alcuni casi, la presenza di un pilota non è nemmeno necessaria. Il fatto che fossero necessarie molte meno munizioni, piattaforme e uomini per distruggere un obiettivo era tanto più gradito se si considera che armi così precise erano anche estremamente, persino eccessivamente, costose. Nell’offensiva come nella difesa, la qualità ha battuto tutti i record, al punto che la quantità è stata trascurata o piuttosto repressa. Ora, questa repressione sta tornando con quella che potremmo definire la rivincita della quantità.

La rivincita della quantità

L’esempio recente più eclatante viene da Israele. Durante la Guerra dei 12 giorni, le batterie THAAD dispiegate dagli Stati Uniti in Israele hanno sparato tra i 100 e i 150 intercettori. Prima del conflitto, ne avevano tra i 600 e i 900 e il ritmo di produzione attuale rimane basso: 11 intercettori nel 2024 e 12 previsti per quest’anno. Il modo occidentale di fare la guerra è stato profondamente modificato, fin nei suoi assiomi di base.

Vale la pena di leggere anche: I droni sono ancora formidabili?

Gli sfidanti sono i sistemi aerei senza pilota (UAS), che vanno dai piccoli ed economici droni a visione soggettiva (FPV, First Person View) a sofisticati sciami. Hanno dimostrato la loro capacità di neutralizzare beni di alto valore – carri armati, aerei, persino navi – a una frazione del costo.

La rivincita delle miniature

Nella guerra nel Mar Nero, questa rivoluzione è palesemente evidente: i droni marittimi hanno sconvolto l’equilibrio navale ereditato dalla Guerra Fredda. Progettati a basso costo, assemblati con componenti civili e pilotati a distanza tramite collegamenti satellitari, questi mezzi autonomi o semi-autonomi hanno permesso all’Ucraina di neutralizzare una marina teoricamente molto più potente della sua.

La differenza di costo è spettacolare: un drone esplosivo di superficie ucraino costa tra i 20.000 e i 250.000 dollari, mentre le navi russe prese di mira hanno un valore di centinaia di milioni, fino a 750 milioni di dollari per l’incrociatore Moskva affondato nel 2022. Il rapporto di costo è quindi di 1 a 1000, a volte di più. La guerra navale, a lungo appannaggio delle potenze industriali, sta diventando il terreno dell’innovazione a basso costo, affidandosi a tecnologie duali che minano il valore strategico delle piattaforme convenzionali.

Questa trasformazione, accelerata da conflitti come la guerra tra Russia e Ucraina, il Karabakh e gli scontri che coinvolgono Israele, Hamas, Hezbollah, gli Houthi e l’Iran, ha evidenziato le vulnerabilità delle forze americane e alleate.

In Birmania, le forze anti-junta hanno integrato i droni in una strategia di guerra asimmetrica, integrando il potere aereo convenzionale con alternative a basso costo. Allo stesso modo, gli Houthi in Yemen hanno usato droni rudimentali per minacciare i sofisticati mezzi navali statunitensi, dimostrando che un attore non statale può colpire ben oltre il suo peso strategico. Hanno anche utilizzato missili balistici, armi un tempo riservate alle potenze industriali.

Finestra di opportunità

Poiché l’adattamento non tiene facilmente il passo con l’innovazione, si apre una “finestra di opportunità” per gli avversari. Nazioni come la Cina, la Corea del Nord, il Venezuela o la Russia potrebbero sfruttare questo divario per ottenere vittorie strategiche prima che le contromisure siano completamente dispiegate.

Da un punto di vista dottrinale, gli Stati Uniti continuano a fare affidamento sulla superiorità aerea e sulle capacità congiunte. Tuttavia, la guerra con i droni richiede una revisione urgente della dottrina, delle attrezzature e dell’organizzazione. I nostri alleati, in particolare all’interno della NATO, stanno vivendo gli stessi problemi: anche i loro inventari mancano di capacità anti-drone integrate.

Infine, i reparti logistici, i sistemi di comunicazione, i posti di comando e le basi aeree e navali devono essere adattati a un ambiente caratterizzato dal lancio di missili balistici e dal costante attacco di droni di ogni dimensione. Camuffamento, rifugi e infrastrutture sotterranee diventeranno ancora una volta elementi chiave di resilienza.

Leggi anche: Micro-droni biomimetici : estendere il regno della guerra.

Trovare una soluzione richiederà tempo, tanto più che attualmente non esiste un consenso su cui basare risposte chiare, fissare obiettivi e piazzare ordini. Non dimentichiamo che, anche per i carri armati e gli aerei tra il 1918 e il 1939, mentre le lezioni apprese dal 14-18 sembrano ovvie e ampiamente condivise, per i decisori dell’epoca riconoscere il vero potenziale delle nuove tecnologie, abbozzare progetti di armamento, sviluppare dottrine e organizzare le unità, l’addestramento e la logistica fu un processo lungo, irto di dibattiti burrascosi e che portò a risposte molto diverse da parte di inglesi, tedeschi, francesi e sovietici.

Questo gap di adattamento crea ora una finestra di debolezza strategica in cui gli avversari potrebbero tentare una svolta prima della modernizzazione americana: l’invasione di Taiwan da parte della Cina, l’aggressione russa al fianco orientale della NATO o l’uso della forza da parte della Corea del Nord. L’accessibilità tecnologica abbassa la soglia d’ingresso, consentendo ad attori secondari di sfidare le superpotenze. Tuttavia, questa finestra di opportunità è di breve durata, il che può paradossalmente aumentare il rischio di escalation. In un contesto in cui gli Stati Uniti si stanno gradualmente sganciando dal blocco che hanno guidato per ottant’anni, la rivoluzione militare a basso costo sta ulteriormente erodendo la deterrenza convenzionale occidentale.

La miopia dei leader incompetenti getta l’Europa nel caos_di Simplicius

La miopia dei leader incompetenti getta l’Europa nel caos

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I pesi massimi dell’Europa, gli stessi paesi che presumono di dettare legge al resto del mondo, stanno precipitando in una crisi economica sempre più profonda. Nel frattempo fingono che tutto vada bene, ignorando il disfacimento interno a favore dei mandati globalisti.

Ho già detto in precedenza che il segno distintivo del regime globalista moderno è l’attenzione esclusiva all’agenda di politica estera, mentre le questioni interne sono lasciate all’ordine burocratico liberale, che opera in modo autonomo, come una macchina illiberalemonodirezionale, che attua una serie di progetti prestabiliti ignorando completamente la società.

Secondo l’ONS (Ufficio Nazionale di Statistica) ufficiale, il Regno Unito ha il livello di indebitamento più alto dall’inizio degli anni ’60. Un nuovo rapporto scrive:

Il Regno Unito ha ora il livello di debito più alto dall’inizio degli anni ’60.

•L’ultima volta che il Regno Unito ha registrato un debito superiore al 90% del PIL per tre anni consecutivi è stato quando Macmillan era Primo Ministro.

Ma il debito della Gran Bretagna non è solo un rischio economico, bensì anche un pericolo per la democrazia.

I crimini di ogni tipo sono alle stelle:

Il numero di casi di taccheggio nel Regno Unito ha raggiunto livelli senza precedenti: nei 12 mesi terminati il 31 marzo, in Inghilterra e Galles sono stati registrati ben 530.643 casi.

Secondo i dati presentati al Parlamento e pubblicati dal Times, si tratta di un numero record nella storia.

In Francia, il primo ministro ha indetto elezioni anticipate a causa dell'”emergenza nazionale” rappresentata dal debito pubblico in forte aumento rispetto al PIL:

Francois Bayrou, primo ministro francese, ha indetto elezioni anticipate per l’8 settembre, dichiarando lo stato di emergenza nazionale a causa dell’impennata del rapporto debito/PIL della Francia (114%).

Parigi sta ora spendendo più per il servizio del debito che per molti programmi pubblici, un segnale d’allarme per la seconda economia più grande d’Europa.

 Si tratta del terzo primo ministro in un anno. Questa mossa aumenta la pressione sulla presidenza di Macron, rischia di destabilizzare i mercati e potrebbe aggravare l’incertezza proprio mentre la Francia è alle prese con costi di finanziamento elevati e una crescita debole.

Mentre una moltitudine di crisi multiple attanaglia i paesi europei, i leader continuano a finanziare ciecamente l’Ucraina con miliardi di euro:

Nei paesi europei della NATO, dopo aver stanziato 50 miliardi di euro all’Ucraina, si è verificata una crisi di bilancio.

In Francia si attendono le dimissioni del governo e l’assistenza del FMI. Martedì 26 agosto, le contrattazioni sul mercato azionario francese hanno aperto con un forte calo, sulla scia delle valutazioni degli operatori sui rischi che il governo del Paese non ottenga il sostegno parlamentare il mese prossimo in occasione del voto di fiducia.

Martedì 26 agosto l’indice francese CAC 40 è sceso al minimo del 2,24%, attestandosi a 7668 punti, dopo che i tre principali partiti dell’opposizione del Paese hanno annunciato che non avrebbero sostenuto il governo nel voto di fiducia. Su iniziativa del primo ministro François Bayrou, il voto è previsto per l’8 settembre in relazione ai piani di bilancio del governo.

Secondo il primo ministro francese, per ridurre il deficit di bilancio del Paese, che nel 2024 ammontava al 5,8% del PIL, è necessario tagliare il bilancio di circa 44 miliardi di euro. Le sue proposte includono il congelamento dell’indicizzazione delle spese previdenziali e pensionistiche, nonché delle aliquote fiscali al livello del 2025.

Problemi simili esistono nel Regno Unito, dove si è discusso anche dell’assistenza del FMI.

In Germania, Merz ha recentemente fatto notizia con la sua urgente ammissione che “lo stato sociale non è più sostenibile”, proprio mentre la spesa della Germania ha superato il record di 47 miliardi di euro stabilito lo scorso anno.

Gli esperti ritengono ora che la Germania sia in recessione, in particolare dopo che sia il 2023 che il 2024 hanno registrato una crescita negativa del PIL per la prima volta dall’inizio degli anni 2000.

L’economia tedesca ha registrato una contrazione dello 0,2% lo scorso anno, dopo un calo dello 0,3% nel 2023: è la prima volta dall’inizio degli anni 2000 che l’economia registra una flessione per due anni consecutivi.

L’economia tedesca ha registrato una nuova contrazione dello 0,3% nell’ultimo trimestre (secondo trimestre del 2025), dopo una crescita modesta dello 0,3% nel primo trimestre:

https://tradingeconomics.com/germania/crescita-del-pil

Ora Merz ammette che risollevare l’economia si è rivelato molto più difficile di quanto immaginasse, definendo la situazione non solo un periodo di debolezza economica, ma una vera e propria crisi nazionale:

Il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha affermato che affrontare le sfide economiche del Paese si sta rivelando un’impresa molto più ardua di quanto inizialmente previsto.

“Lo dico anche in modo autocritico: questo compito è più grande di quanto chiunque avrebbe potuto immaginare un anno fa”, ha affermato Merz sabato in un discorso tenuto nella città di Osnabrück, nel nord della Germania. “Non stiamo solo attraversando un periodo di debolezza economica, ma una crisi strutturale della nostra economia”.

https://www.bloomberg.com/news/articles/2025-08-23/merz-says-tackling-germany-s-economic-woes-tougher-than-expected

Ovunque si guardi, i paesi europei – e quelli vicini all’Europa come il Canada – stanno affrontando crisi senza precedenti e dati economici negativi; le ultime notizie di oggi:

L’ECONOMIA CANADESE SI CONTRARGE DELL’1,6% SU BASE ANNUA NEL SECONDO TRIMESTRE, MANCANDO L’OBIETTIVO DEL -0,7%.

Praticamente tutte le questioni sono gestite autonomamente dalla disastrosa leadership a rotazione di questi paesi. Ogni anno, lo stesso gruppo di opinionisti che ripetono sempre lo stesso copione viene riciclato attraverso il sistema. Se riuscite a crederci, secondo le ultime notizie il cancelliere Merz starebbe addirittura valutando la candidatura di Ursula von der Leyen alla carica di presidente della Germania:

https://www.spiegel.de/politica/germania/news-ursula-von-der-leyen-presidente-federale-friedrich-merz-cdu-libano-cellulari-scuole -a-452d60fe-9ae8-443b-97dd-9687c562876f

Più che mai la questione dei migranti è stata al centro dell’attuale zeitgeist politico, proprio perché i migranti sono alla radice sia della causa che dell’effetto del disastroso esperimento globalista che ha lacerato le società e le economie occidentali. Con questo intendo dire che essi stanno distruggendo le società occidentali e sono anche un sottoprodotto e una conseguenza del fallito vampirismo imperiale dell’Occidente – o forse dovrei dire imperialismo vampirico?

Ma la cosa incredibile è che, nonostante queste crisi economiche, i “leader” europei continuano a guidare verso l’abisso raddoppiando i loro odiosi complotti massimalisti.

Solo una settimana fa si è tenuto il Simposio economico di Jackson Hole, una sorta di riunione Bilderberg per i banchieri mondiali e i funzionari della Federal Reserve. Il tema in discussione era proprio quello delle preoccupazioni economiche, oltre che demografiche. L’arciglobalista e presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde ha chiesto un maggiore afflusso di migranti in Europa per contrastare le “tendenze demografiche negative” che incidono sulla crescita economica: a55> migranti in Europa per contrastare le “tendenze demografiche negative” che incidono sulla crescita economica:

Anche la presidente della BCE Christine Lagarde ha affermato che l’afflusso di lavoratori stranieri avrebbe un “ruolo cruciale” nel contrastare l’impatto negativo delle tendenze demografiche sulla crescita economica. Come se ciò non fosse già stato tentato dalla Germania e dalla maggior parte dell’Europa a metà degli anni 2010, quando milioni di rifugiati siriani hanno invaso l’Europa provocando un afflusso storico di musulmani che si rifiutano – come dire in modo educato – di integrarsi culturalmente.

Lagarde ha osservato che senza un afflusso di lavoratori stranieri, entro il 2040 l’area dell’euro avrebbe 3,4 milioni di persone in età lavorativa in meno, secondo quanto riportato dal FT. Il mercato del lavoro dell’Eurozona ha superato la pandemia in “condizioni sorprendentemente buone”, in parte grazie al maggior numero di lavoratori anziani, ma “ancora più” importante è stato l’aumento del numero di lavoratori stranieri, ha affermato.

Questa discussione ha riguardato principalmente l’Europa, mentre gli Stati Uniti sembrano divergere rapidamente in una direzione diversa e più promettente. Tuttavia, sotto la superficie dell’economia statunitense sta accadendo qualcosa di molto interessante che viene volutamente ignorato da coloro che desiderano vendere il sogno di una rinascita americana.

Trump e i suoi portavoce hanno continuato a parlare di valutazioni azionarie in forte aumento, come se il mercato azionario non fosse completamente distaccato dall’economia reale, dall’inflazione reale, ecc. Ma anche i trionfi del mercato azionario sono stati ampiamente sopravvalutati, dato che solo poche azioni di punta stanno “sostenendo il ponte” per il resto del lotto:

Si noti che solo i primi dieci titoli stanno registrando un aumento significativo, e qui viene il bello: i primi titoli, ovvero Nvidia, Microsoft, Apple, Google, Amazon, ecc., rappresentano ora il 40% della capitalizzazione di mercato dell’intero S&P 500, un record assoluto.

Da quanto sopra riportato, si evince che solo Nvidia, Microsoft, Apple, Alphabet e Amazon condividono circa 16,5 trilioni di dollari di capitalizzazione di mercato. L’intero S&P 500 vale circa 55 trilioni di dollari, il che significa che solo queste cinque società rappresentano circa il 30% dell’intero S&P. Se si includono le restanti dieci società principali, la percentuale sale al 40% circa, un primato senza precedenti nella storia.

Ciò significa che la maggior parte del cosiddetto “boom” del mercato azionario è stato determinato solo da un piccolo numero di aziende, la cui crescita esplosiva è dovuta principalmente alla bolla dell’intelligenza artificiale:

Ciò significa, in sostanza, che si può descrivere a grandi linee l’intera economia statunitense come un grande miraggio alimentato dalla bolla tecnologica e dall’intelligenza artificiale, che non fa nulla per compensare l’inflazione in forte aumento, ora sistematicamente nascosta dietro i falsi dati “ufficiali” del BLS e dell’IPC.

È ovviamente ancora molto più avanti dell’Europa quando si tratta almeno di avere una possibilità di arginare l’ondata delle varie turbolenze economiche causate dalle molteplici crisi. Nonostante i numerosi fallimenti di Trump, egli sta almeno cercando di scuotere il sistema negli Stati Uniti, dalla lotta contro la crisi dell’invasione dei migranti alla sfida al sistema della Federal Reserve. Quest’ultima è avvenuta questa settimana, quando Trump è entrato in guerra contro il governatore della Fed Lisa Cook e ha segnalato l’intenzione di nominare il suo alleato Stephen Miran nel Consiglio dei governatori della Fed per assumere un maggiore “controllo” della Federal Reserve dall’interno.

Non esiste nulla di simile in Europa e nei paesi limitrofi, dove i banchieri centrali governano sempre più spesso letteralmente le loro nazioni come presidenti e primi ministri, in una palese beffa. Ricordiamo l’ex dirigente della Rothschild Macron, il dirigente della BlackRock Merz, il capo della Banca centrale europea Draghi diventato primo ministro italiano, l’ex capo della Banca del Canada e dirigente della Goldman Sachs Mark Carney ora primo ministro canadese, ecc. Questo decadente nesso di paesi è diventato una parodia della cosiddetta “democrazia” e del repubblicanesimo. Le figure di facciata che siedono in cima alle macerie sono nominate dalla cabala finanziaria per svolgere un mandato monotono volto a mantenere a galla la sovrastruttura finanziaria dell’élite occidentale, e poco altro.

Questo non significa che Trump riuscirà necessariamente a ribaltare decenni di stagnazione, declino e totale usurpazione istituzionale da parte dei cosiddetti globalisti, ma semplicemente che gli Stati Uniti hanno almeno una possibilità di lottare, mentre l’Europa sembra una causa persa e irrecuperabile. Continuo a sostenere la teoria del “rimbalzo del gatto morto” riguardo alla presunta “rinascita” degli Stati Uniti sotto Trump, ma ciò non significa che gli Stati Uniti siano completamente “finiti”, piuttosto che non riacquisteranno mai il loro ambito status di superpotenza e che una sorta di era buia economica è destinata a durare a lungo, dato che il marciume istituzionale ha eroso troppo la capacità degli Stati Uniti di riprendersi dal declino infrastrutturale.

Le difficoltà continuano ad accumularsi in un’Europa triste e afflitta; e purtroppo non si intravede ancora alcuna speranza. L’attuale classe dirigente europea è senza dubbio la peggiore della storia, e tutti i suoi piani di risanamento sembrano quasi voluti appositamente per peggiorare ulteriormente la situazione. Ad esempio, ora l’ipermilitarizzazione e la guerra vengono vendute come l’elisir per i mali dell’Europa:

Qualunque cosa accada, possiamo stare certi che le élite europee continueranno a restringere sempre più la loro cerchia per centralizzare il potere, soffocare il dissenso e mantenere il loro controllo sempre più labile. È una delle poche certezze della vita: la morte, le tasse e l’istinto di autoconservazione della cricca.

Questa recente notizia rappresentativa coglie nel segno: Schwab è stato scagionato da ogni accusa e Larry Fink di BlackRock è stato nominato alla guida del WEF:

È un club ristretto, e tu non ne fai parte.

Come siamo arrivati qui_Di WS

 Il   disastro  in cui  stiamo sprofondando  comincia   ad essere     “percepito”  da  un numero  sempre maggiore  di “  soggetti”    e    con   la sua  solita   abile  retorica, talvolta  volgarmente      qualificabile  anche come “pippone “, Aurelien    cerca  di spiegarci     “come  siamo  arrivati   qui”   seppure  alla  fine non riesca  ad andare oltre     categorie  vaghe :  “decisori politici”  “  credenti  del Dio  Mercato”   ect.

Noi   che siamo meno  raffinati partiamo  dalla banalità   che “Qualcuno”   deve  pure  aver deciso  tutto  questo    e sappiamo  che  tutto  questo, successivamente “ratificato”   dai  suddetti  “decisori /mercatisti“,    fosse   già  stato  esposto e discusso  nel  segreti “simposi”   delle  nostre  “elites”.

Quindi  sono  state le “elites”, no?

Ma  questa  è solo una  facile      spiegazione,   anche  consolatoria  .  Chi  sono  queste  “ elites” ?    I “ padroni” ,  “la borghesia “,  “la finanza”,  “le banche”?  Solo quindi altre  “ categorie” , non si  sa come   sorte    e   perché “obbedite”   e da “Chi”. 

Beh  sul “Chi”, credo  che nessuno  potrà   negarlo,  rispondere   è facile : Gli “ obbedienti”   siamo   “ Noi  , il popolo”  o per meglio dire, “We  the People”,  per  metterla  nella prospettiva  storica    di  chi ha inventato  “la democrazia”.

E perché   Noi   “obbediamo”?   Non  ci sono ancora  per le strade gli  sgherri  del potere; Nessuno ancora  ci rapisce  dalle nostre  case   alle tre  di notte    solo  dietro  sospetto   di “disobbedienza“  anche solo “mentale” .

Quindi  non siamo  ancora  una “dittatura”  e   noi     siamo  certamente  “ arrivati”  qui “   spontaneamente.  Seppur        siamo  certamente “vittime”,   eppure   NON siamo “innocenti”.

E  il dibattito  su queste responsabilità  della “vittima”  manca  sempre   e di sicuro  noi   “ We  the People”   non  usciremo   da  questo  inferno   senza  un doloroso “ pentimento  e  riscatto”

E per  far  capire  di cosa parlo  mi riferirò  alla mia  esperienza personale.

 Io infatti  come Aurelien     sono almeno  tecnicamente ” uno  che  ce l’ ha fatta”;  nato poverissimo, ma evidentemente   abbastanza intelligente e motivato,    con grande sacrificio dei miei  genitori, peraltro pure anziani,  e il sostegno, voglio  sottolineare  PER MERITO,    di uno  stato  non  ancora completamente  asservito   ai rentiers,  ha potuto studiare fino ad un livello alto di istruzione.

Ma  a differenza  di Aurelien  io non venivo  dalla  mondo “ della fabbrica” ma da un  gradino ancora più basso :  quello  “della terra”   sebbene  nel “mondo operaio”  io ci sia  sempre  vissuto  perché,  nel  caseggiato in cui crebbi, otto appartamenti  e un solo  gabinetto a mezze  scale,  erano  soprattutto operai     del livello meno qualificato.

 I miei  invece sopravvivevano       con un piccolo commercio  di frutta e verdura. L’ altra differenza  con i vicini  è   che  mio padre,  semi-invalido e  uscito dalla mezzadria  “liquidato”  dal fratello, aveva messo  tutti i suoi  risparmi nell’acquisto  di  quelle  due misere  stanze,  mentre  invece  i nostri  vicini   ci  stavano in affitto;   alcuni di loro, poi,  direttamente dal loro datore  di lavoro  che  aveva   impiantato una   officina e cromeria   nei  fondi dell’edificio stesso.

Il  detto  “padrone”    erano  due  ex-operai  che  avevano  fatto    i loro primi  soldi  con i traffici   del  “ passaggio  della guerra” e cominciavano allora la loro  scalata   da  “padroncini” a  Imprenditori   fino  ad  arrivare   agli inizi  dei ‘90     ad avere una      fabbrica   di “meccanica fine” con 250  dipendenti; fabbrica che poi  crollò nella transizione ai rispettivi  figli,  evidentemente    meno capaci.  .

Erano,  quelli  in cui  crebbi io,  i “ruggenti 50”: nessuna  regola , nessun controllo, nessun diritto, massima libertà di iniziativa. Eppure  il paese  cresceva.

Ma una cosa  mi colpiva,   già allora : la differenza  di mentalità  dei “figli della fabbrica”    dai “ figli della  terra”. I  nostri  vicini non si preoccupavano  del futuro, loro  vivevano  nel presente,   senza  risparmiare,  nella  certezza  che un lavoro , seppur misero, ci sarebbe  sempre  stato.  Invece i  miei invece  vivevano  “ nel futuro”     lesinando  oggi  sul “ raccolto  buono”  in previsione di dover  sopravvivere domani  ad  uno “ cattivo”.

E  così  nella  sostanza  noi  possedevamo il nostro  tugurio  solo  perché    vivevamo  da poveri  più di loro.

Questa  mentalità “ consumistica”  della   “classe operaia”  mi ha sempre  colpito negativamente.

Si definivano      “proletari”  ma  avevano  aspirazioni borghesi , cioè   odiavano  la borghesia  solo perché   essa   “consumava”  cose  che   anch’essi  volevano ma non potevano permettersi.

Io invece  l’ unica  cosa  che invidiavo  alla  “borghesia”  era  solo l’istruzione   che  essa poteva permettersi.  Io  ho  sempre  desiderato istruirmi ,  divoravo qualunque  cosa  fosse  scritta e    ricordo     che,   con  i miei primi pochi  soldini,   a 8 anni         ad un Natale  mi autoregalai un Atlante e  che  per  quell’ acquisto  mia   madre,  totalmente ignorante  di cosa  fosse un “Atlante”, mi    accompagnò impacciatissima  in una libreria .

E la lettura   di quel  Atlante  pieno  di  dati  economici, che ancora  pur sfasciatissimo  dall’ uso  io conservo ,     ha formato per  sempre il mio pensiero   (geo)politico : è  solo la produzione di beni   REALI  che   definisce la realtà del mondo, tutto il resto è solo “gioco  del monopoli”…. o  “delle tre carte”.

 E così, pure  quando alla  fine   sono   attivato in cima  al mio  cammino  di istruzione, io, pur avendone i mezzi , ho sempre  rifiutato  di vivere “ da borghese” .  Sostanzialmente  le  mie aspirazioni,  i miei interessi personali  erano  rimasti quelli di un “ contadino”.  “Servire la  MIA terra con le MIE  mani ”   era per me più  gratificante  che “ consumare”.

Ma  per lavoro ero sempre  rimasto in mezzo  agli “operai”. Ne riconoscevo l’ importanza  per il riscatto  di questo paese  e ne vedevo però  la  loro  compromissione  culturale  alle aspirazioni “ borghesi”. 

  Per lavoro passavo  molto tempo con loro  ex “ giovani operai “,  divenuti poi tecnici  di qualità  nelle officine in cui venivano realizzate,  grazie al loro  lavoro, molte delle mie idee , e li esortavo a non  cadere   ne “l’ edonismo”   che  tracimava  dalle  televisioni  commerciali;  a non barattare   sogni  consumistici  irrealizzabili  con   i capisaldi  conquistati  a  caro prezzo  dalle  generazioni  precedenti.

 Gli  dicevo : attenti ,   abbiamo  già  tutto quanto  ci serve. Abbiamo un buon lavoro SICURO ,  una buona istruzione  GRATIS, una buona sanità GRATIS, la casa di proprietà,     due piccole auto per famiglia , “ tempo libero”   e un mese  di ferie   VERE  ect, ect . Non si può  crescere  all’ infinito, non si può    vivere   tutti “  da borghesi”   e se   “sognerete con gli occhi  della borghesia”      questi  capisaldi   crolleranno  e  i nostri  figli non avranno  quello che abbiamo avuto noi .

“Prediche inutili” , naturalmente!   La TV  gli  prometteva    un “ mondo  di balocchi”  e chi ero io   per  dire   diversamente?  Semplicemente  mi guardavano  come se fossi scemo, mentre gli   scemi  erano loro.

E   così finimmo  tutti nel  “ paese dei balocchi”.

Ecco , “come  siamo  arrivati  qui”

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Il ritorno della storia: l’agenzia continentale e il crollo dell’ordine unipolare, di Taha

Il ritorno della storia: l’agenzia continentale e il crollo dell’ordine unipolare

Taha25 agosto
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Introduzione: Il crollo del vecchio ordine

Il ventesimo secolo si è concluso con l’illusione della permanenza. La caduta dell’Unione Sovietica sembrava consacrare un’era di egemonia unipolare, in cui Washington regnava sovrana, dove il dollaro dominava incontrastato e dove le guerre della NATO venivano spacciate per crociate umanitarie. Eppure, una generazione dopo, l’edificio si è incrinato. Da Kabul a Kiev, da Caracas a Kinshasa, l’ordine unipolare è stato privato della sua credibilità. Il ventunesimo secolo non ha portato la “fine della storia”, ma il ritorno della storia, cruda e spietata. Ciò che emerge al suo posto non è uno stabile equilibrio multipolare, ma una mutazione caotica, un ordine meta-imperiale in cui gli imperi sopravvivono attraverso la trasformazione, dove la sovranità si scontra con la dipendenza e dove il futuro dei continenti si forgia nella battaglia tra resistenza e ricolonizzazione.

Muammer Gheddafi – Unione Africana, 2009

Il risveglio geopolitico dell’Africa: l’Africa centrale come asse del futuro

L’Africa, a lungo considerata la periferia del mondo, è in realtà l’arena decisiva del futuro. Il suo suolo contiene il sessanta percento delle terre arabili rimanenti del pianeta, cobalto per le batterie elettriche, uranio per i reattori e terre rare per le tecnologie di domani. La sua popolazione, già di oltre 1,4 miliardi, raddoppierà nel giro di decenni, plasmando migrazioni, lavoro e mercati su scala globale. Chiunque protegga l’Africa, protegga il secolo.

Il cuore di questa lotta non si trova sulle coste, ma in Africa Centrale. La Repubblica Democratica del Congo (RDC) è l’impero silenzioso delle risorse. Le sue miniere di cobalto alimentano la rivoluzione delle auto elettriche. Le aziende cinesi, sia attraverso colossi statali che partnership private, dominano gran parte di questa estrazione, costruendo infrastrutture in cambio di diritti minerari. A Kolwezi, le aziende cinesi gestiscono vaste concessioni che alimentano la catena di fornitura globale di batterie. Anche la Russia ha fatto progressi, con le forze di Wagner che hanno messo in sicurezza i siti minerari nella Repubblica Centrafricana (RCA) e protetto il governo di Bangui dagli insorti. In cambio, Mosca ottiene l’accesso alle concessioni per l’estrazione di oro e diamanti, ma soprattutto, una leva strategica nel Sahel e un punto d’appoggio politico in Africa Centrale.

Questi interventi trasformano il processo decisionale africano a livello continentale. L’Unione Africana, un tempo dominata dalle élite francofone legate a Parigi, ora subisce la pressione di regimi incoraggiati dalla finanza cinese e dalle armi russe. Quando Mali, Burkina Faso e Niger espulsero le truppe francesi, trovarono sostegno non a Bruxelles, ma a Mosca e Pechino. La Repubblica Centrafricana, un tempo colonia dimenticata, ora si esprime in difesa della presenza russa nei forum internazionali. L’Angola, ex campo di battaglia della Guerra Fredda, negozia contratti petroliferi e di difesa sia con Washington che con Pechino, mettendo le potenze l’una contro l’altra. L’asse dell’Africa Centrale che si estende da Kinshasa a Bangui a Juba non è più marginale; plasma il posizionamento dell’Africa tra Oriente e Occidente.

Questa è l’essenza del risveglio dell’Africa: una sovranità non ancora conquistata, ma contestata. L’assassinio di Gheddafi ha dimostrato che qualsiasi progetto africano di indipendenza incontrerà il sabotaggio occidentale. Eppure, il ritorno dell’Africa centrale sulla scena mondiale dimostra che il continente non è più un oggetto passivo. È un’arena in cui convergono ferrovie cinesi, appaltatori russi, investimenti del Golfo e sanzioni occidentali. La domanda per l’Africa è se potrà trascendere l’essere un obiettivo e diventare un polo di potere a pieno titolo.

Nicolas Maduro nel giorno dell’Indipendenza – Caracas, 2024

L’America Latina all’ombra della dottrina Monroe

Se l’Africa rappresenta la promessa del risveglio, l’America Latina incarna la persistenza della resistenza. La Dottrina Monroe proietta ancora la sua ombra, ricordando al continente che Washington lo considera un “cortile di casa”. Eppure, le crepe sono visibili.

Il Venezuela è al centro di questa sfida. Con le più grandi riserve petrolifere accertate al mondo, è diventato l’ancora di un asse latinoamericano che resiste alla ricolonizzazione. Nonostante le sanzioni che hanno fatto crollare la sua economia, nonostante i tentativi di colpo di stato e i complotti di assassinio, Caracas sopravvive. Lo fa perché non è più sola. I prestiti e gli acquisti di petrolio della Cina le danno respiro, mentre i consiglieri militari e le armi russe rafforzano le sue difese. Anche l’Iran ha silenziosamente inviato petroliere nei porti venezuelani, sfidando i blocchi statunitensi. In questo modo, il Venezuela rappresenta non solo la sovranità, ma anche la solidarietà: la prova che i piccoli stati possono resistere quando sono sostenuti da imperi rivali.

Altrove, il Brasile di Lula da Silva si destreggia con cautela tra Washington e Pechino. Cerca la tecnologia statunitense, ma fa molto affidamento sul commercio cinese, soprattutto per quanto riguarda soia e minerali. L’ingresso dell’Argentina nei BRICS segna una svolta verso il multipolarismo, pur dovendo fare i conti con la dipendenza dal FMI. In Nicaragua, il regime di Daniel Ortega continua a resistere alle pressioni statunitensi, mantenendo i legami con Russia e Cina. Ogni caso dimostra la stessa tendenza: l’America Latina non è più completamente prigioniera della Dottrina Monroe, anche se rimane vulnerabile.

Eppure questa resistenza è fragile. Washington ha iniziato a riaffermarsi, in particolare nei Caraibi e in America Centrale, dove le crisi migratorie forniscono una leva per l’intervento. La contesa non è finita. Ma la presenza di Cina e Russia in Venezuela, a Cuba e in Argentina, per quanto limitata, crea un nuovo calcolo. L’America Latina non è più semplicemente un cortile di casa degli Stati Uniti; è una prima linea di contesa multipolare.

Mappa del conflitto nel Mar Cinese Meridionale

La Cina e gli oceani del Pacifico di domani

Se l’Africa è la terra del risveglio e l’America Latina il continente della resistenza, la Cina è l’impero degli oceani. Il suo destino è inscindibile dai corridoi marittimi, soprattutto dal Mar Cinese Meridionale. Qui risiede il cuore della strategia di Pechino: chiunque controlli questo mare controlla le linee vitali del commercio cinese, il suo accesso alle risorse, la sua stessa sopravvivenza. Gli Stati Uniti, consapevoli di ciò, cercano l’accerchiamento, armando Taiwan, militarizzando le Filippine, fortificando Guam e tessendo alleanze dal Giappone all’Australia sotto il “Quad” e l’AUKUS.

Eppure la Cina non si muove frettolosamente. La sua Belt and Road Initiative non solo costruisce ferrovie attraverso l’Asia e l’Africa, ma anche porti attraverso l’Oceano Indiano, da Gwadar in Pakistan a Gibuti nel Corno d’Africa. Ogni porto è un nodo di influenza, un punto d’appoggio per il futuro. Nel Pacifico, le aperture della Cina alle Isole Salomone e a Kiribati segnalano una sfida diretta al predominio statunitense. In patria, il silenzio di Xi Jinping sulla scena internazionale dalla metà del 2025 è più un consolidamento che una ritirata: la Cina si prepara, calcola e attende.

La Russia, spinta verso est dalle sanzioni, rafforza questo scacchiere marittimo. Le sue esercitazioni navali con la Cina nel Pacifico e la sua espansione artica dimostrano che le potenze eurasiatiche non sono più confinate alla terraferma. Il Pacifico non è più il dominio sicuro dell’America. È l’oceano del futuro, dove la multipolarità sarà consacrata o annientata.

Vladimir Putin e Emmanuel Macron – Mosca, 2022

La Russia e la fragilità dell’Europa

La guerra in Ucraina è spesso inquadrata come la disperazione della Russia, ma in realtà rivela la fragilità dell’Europa. Per Mosca, l’Ucraina è sia memoria che necessità: la culla della sua civiltà, il cuscinetto contro la NATO, la prova che non si lascerà accerchiare senza opporre resistenza. Per l’Europa, tuttavia, l’Ucraina rivela la dipendenza. La sua industria crolla sotto il peso delle sanzioni energetiche, la sua politica si frammenta sotto pressione e la sua sovranità si dissolve all’ombra di Washington.

La forza della Russia non risiede solo nella sua resistenza, ma anche nella sua portata. In Africa, Wagner si assicura i governi. In America Latina, Mosca stringe alleanze con regimi assediati dall’Occidente. In Medio Oriente, collabora con l’Iran per sostenere l’Asse della Resistenza. Ogni mossa estende il campo di battaglia oltre l’Ucraina, costringendo l’Occidente a un’estensione eccessiva.

L’Europa, nel frattempo, è frammentata. La Germania non riesce a conciliare le sue esigenze industriali con gli impegni NATO. La Francia parla di “autonomia strategica”, ma capitola quando viene sfidata. La Polonia chiede un’escalation, ma non ha il peso per guidare. L’Unione Europea, un tempo salutata come un progetto di civiltà, appare ora come un fragile blocco di trattati, vulnerabile agli shock esterni e al nazionalismo interno. La Russia non ha bisogno di conquistare militarmente l’Europa; deve solo sostenere la guerra finché l’Europa non imploderà sotto le sue stesse contraddizioni.

Il ritorno di Donald Trump amplifica questa fragilità. Il suo disprezzo per la NATO, la sua ammirazione transazionale per Putin e la sua imprevedibilità lasciano l’Europa paralizzata. Se Washington abbandona il continente, l’Europa è indifesa. Se Washington negozia con Mosca, l’Europa è tradita. In ogni caso, la Russia sopravvive.

Il futuro della multipolarità: tra costruzione e caos

La storia del nostro secolo non è la sopravvivenza di un solo impero, ma la mutazione di molti. L’Africa si solleva dalla sua emarginazione, le sue regioni centrali plasmano il processo decisionale continentale sotto il patrocinio cinese e russo. L’America Latina resiste alla ricolonizzazione, il Venezuela si erge come una fortezza ribelle contro la Dottrina Monroe. La Cina manovra nel silenzio, costruendo oceani di influenza in attesa del suo momento decisivo. La Russia sanguina ma resiste, destabilizzando l’Europa non attraverso la conquista ma attraverso l’attrito.

Tuttavia, il pericolo di questa transizione è l’instabilità. La multipolarità non è automaticamente pacifica. Può produrre convergenza, dove le potenze rispettano le proprie sfere di influenza, o caos, dove ogni frontiera diventa un campo di battaglia. L’Africa centrale può diventare la spina dorsale della sovranità continentale, oppure può rimanere un obiettivo conteso da potenze esterne. L’America Latina può emergere come un blocco autonomo, oppure può essere frammentata dall’intervento statunitense. L’Eurasia può consolidarsi attorno a un asse sino-russo, oppure può sprofondare nella rivalità.

La verità è che l’era dell’arroganza unipolare è finita. Ciò che verrà dopo è incerto: un nuovo equilibrio di civiltà o un’era di confronto permanente. Il mondo è decentrato, plurale, frammentato. E in questo risiedono sia i suoi pericoli che le sue promesse.

Assemblea generale delle Nazioni Unite

Il ritorno della storia

Da Kinshasa a Caracas, da Mosca a Pechino, dal Mar Cinese Meridionale al Sahel, la storia è tornata con forza. Gli imperi non crollano più; mutano. Le nazioni non aspettano più; manovrano. Gli Stati Uniti si aggrappano alla supremazia ma perdono credibilità. L’Europa proclama unità ma nasconde fragilità. L’Africa e l’America Latina si risvegliano, non ancora libere ma non più silenziose. La Russia resiste, la Cina attende e gli oceani tremano per le battaglie a venire.

Il futuro è incerto. Il multipolarismo può consegnare la sovranità ai dimenticati, oppure scatenare un’instabilità senza fine. Ma una verità non può essere negata: l’ordine unipolare è morto. Il XXI secolo non appartiene a un solo impero, ma a molte civiltà, non a un singolo destino, ma allo scontro dei futuri. La domanda che ci troviamo di fronte non è chi governerà il mondo, ma se il mondo riuscirà a sopravvivere al suo ritorno alla storia.

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Ecco come potrebbero apparire le garanzie di sicurezza degli Stati Uniti per l’Ucraina, di Andrew Korybko

Ecco come potrebbero apparire le garanzie di sicurezza degli Stati Uniti per l’Ucraina

Andrew Korybko28 agosto
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Trump sembra voler sfidare la sorte con Putin, che è aperto ai compromessi, non alle concessioni, tanto meno a quelle significative in materia di sicurezza. Se questo approccio non cambia, è prevedibile una grave escalation.

Le garanzie di sicurezza occidentali per l’Ucraina sono uno dei principali problemi che ritardano una risoluzione politica del conflitto . La Russia ha lanciato il suo speciale ( SMO ) principalmente in risposta alle minacce provenienti dall’Ucraina e provenienti dalla NATO. Sarebbe quindi una concessione significativa per la Russia accettare che un certo livello di tali minacce, forse anche in forme più intense rispetto a quelle pre-SMO, persista anche dopo la fine del conflitto. A quanto pare, tuttavia, questo è esattamente ciò che Trump prevede, secondo le sue dichiarazioni e i recenti rapporti:

* 18 agosto: “ L’Ucraina offre a Trump un accordo sulle armi da 100 miliardi di dollari per ottenere garanzie di sicurezza ”

* 23 agosto: “ Il Pentagono ha bloccato silenziosamente gli attacchi missilistici a lungo raggio dell’Ucraina contro la Russia ”

* 25 agosto: “ Trump afferma che gli Stati Uniti hanno smesso di finanziare l’Ucraina ”

* 25 agosto: “ Gli Stati Uniti non avranno un ruolo chiave nelle garanzie di sicurezza dell’Ucraina – Trump ”

* 26 agosto: “ Gli Stati Uniti offrono supporto aereo e di intelligence alle forze del dopoguerra in Ucraina ”

Le conclusioni corrispondenti sono che: 1) l’Ucraina vuole che Trump continui la sua nuova politica di armamento indiretto tramite nuove vendite di armi alla NATO; 2) sebbene all’Ucraina non sia più consentito dagli Stati Uniti di colpire il territorio russo universalmente riconosciuto, sono stati appena approvati 3.350 missili lanciati dall’aria Extended Range Attack Munition in base alla suddetta politica; 3) tali accordi rappresentano il suo nuovo approccio al conflitto; 4) è riluttante a impegnarsi ulteriormente; ma 5) gli Stati Uniti potrebbero ancora aiutare le forze dell’UE in Ucraina.

Dal punto di vista ufficiale della Russia, che potrebbe speculativamente non riflettere quello reale a porte chiuse: 1) il continuo afflusso di armi della NATO in Ucraina è inaccettabile; 2) è ancora peggio se si tratta di armi offensive moderne (i Javelin e gli Stinger del periodo pre-SMO erano già abbastanza dannosi); 3) l’orgoglio di Trump per la sua nuova politica rende improbabile un suo cambio di rotta; 4) è comunque lodevole che non voglia essere coinvolto più a fondo; ma 5) qualsiasi forza occidentale in Ucraina rimane inaccettabile.

Di conseguenza, i pomi della discordia sono il continuo afflusso di moderne armi offensive in Ucraina e il flirt degli Stati Uniti con l’idea di sostenere le truppe dell’UE in quel Paese, che, secondo il rapporto citato in precedenza, potrebbero schierarsi a una certa distanza dal fronte, dietro le truppe ucraine addestrate dalla NATO e le forze di peacekeeping dei paesi neutrali. Il sostegno degli Stati Uniti potrebbe assumere la forma di intelligence, sorveglianza e ricognizione; comando e controllo; maggiori difese aeree; e aerei, logistica e radar a supporto di una no-fly zone imposta dall’UE.

Lo scenario sopra menzionato intensificherebbe le minacce provenienti dalla NATO provenienti dall’Ucraina. Sarebbe un avversario più formidabile rispetto all’era pre-SMO e questa volta godrebbe del sostegno diretto delle truppe di alcuni paesi NATO presenti sul suo territorio, anche se gli Stati Uniti non fornissero loro ufficialmente la protezione prevista dall’Articolo 5. Il rischio che scoppi una guerra accesa tra NATO e Russia, per volontà del blocco o per manomissione da parte dell’Ucraina attraverso future provocazioni, sarebbe quindi senza precedenti e rimarrebbe una minaccia persistente.

È quindi improbabile che la Russia accetti questo accordo anche se l’Occidente costringesse l’Ucraina a cedere tutte le regioni contese, il che è comunque improbabile, poiché ciò equivarrebbe a rendere la natura delle minacce emanate dalla NATO in Ucraina molto peggiore rispetto a quella pre-SMO. Al massimo, la Russia potrebbe accettare l’afflusso di moderne armi offensive in Ucraina e forse di truppe occidentali a ovest del Dnepr, ma solo se tutto a est del fiume venisse smilitarizzato e gli Stati Uniti riducessero significativamente le loro forze in Europa.

La proposta di smilitarizzazione è stata presentata per la prima volta a gennaio e comporterebbe anche il controllo della regione “Trans-Dnepr” (TDR) da parte di forze di pace non occidentali, con solo una presenza simbolica dell’Ucraina, come le forze di polizia locali. Questa disposizione è in linea con lo spirito di quanto ora preso in considerazione nel rapporto precedentemente citato, in merito al pattugliamento del fronte da parte di forze di pace di paesi neutrali, con truppe ucraine addestrate dalla NATO alle loro spalle e poi truppe occidentali a una certa distanza.

Le differenze, tuttavia, sono che la TDR non verrebbe smilitarizzata a causa della presenza di truppe ucraine addestrate dalla NATO e che l’UE imporrebbe una no-fly zone, sia su tutta l’Ucraina che appena a ovest della TDR. La Russia potrebbe accettare truppe ucraine addestrate dalla NATO nella TDR se Kiev cedesse tutte le regioni contese, ma una no-fly zone in quella zona rimarrebbe probabilmente inaccettabile. Una significativa riduzione delle forze statunitensi in Europa, tuttavia, potrebbe rendere una no-fly zone a ovest del Dnepr più appetibile per la Russia.

In sintesi, l’interesse di Trump a proseguire la sua nuova politica di armamento indiretto dell’Ucraina tramite la NATO e persino di supporto ad alcune delle forze del blocco presenti in quel territorio potrebbe, in teoria, essere approvato dalla Russia come parte di una soluzione politica, ma solo a condizioni molto specifiche. Si tratta di cessioni territoriali e di una TDR smilitarizzata controllata da forze di peacekeeping non occidentali, mentre una no-fly zone imposta dall’UE a ovest del fiume potrebbe – nell’improbabile scenario in cui venga concordata – richiedere una significativa riduzione delle forze statunitensi in Europa.

Il problema, però, è che Trump ha intensificato la sua retorica contro la Russia dopo il recente vertice della Casa Bianca sulle garanzie di sicurezza con Zelensky e una manciata di leader europei. Questo include critiche controfattuali a Biden per non aver autorizzato attacchi ucraini all’interno del territorio universalmente riconosciuto dalla Russia e minacciato una guerra economica con la Russia se Putin non scende a compromessi. Trump potrebbe quindi cercare di rendere lo scenario peggiore per Putin un fatto compiuto, come spiegato in questa serie di analisi:

* 16 agosto: “ Cosa ostacola un grande compromesso sull’Ucraina? ”

* 21 agosto: “ Quali garanzie di sicurezza occidentali per l’Ucraina potrebbero essere accettabili per Putin? ”

* 22 agosto: “ L’intervento diretto della NATO in Ucraina potrebbe presto trasformarsi pericolosamente in un fatto compiuto ”

L’UE, Zelensky e i guerrafondai statunitensi come Lindsey Graham preferirebbero che Trump avanzasse richieste inaccettabili a Putin, sabotando il processo di pace e sfruttandole per giustificare l’escalation occidentale, oppure lo costringesse pericolosamente al fatto compiuto. A giudicare dalle parole di Trump finora e dai recenti resoconti, sta sfidando la sorte con Putin, che è aperto ai compromessi, non alle concessioni, tanto meno a quelle significative in materia di sicurezza. Se questo approccio non cambia, ci si aspetta una grave escalation.

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Il capo della lingua lituana si lascia sfuggire cosa pensa veramente della minoranza polacca

Andrew Korybko23 agosto
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Sebbene poco dopo abbia ritirato con riluttanza la minaccia di chiudere le scuole polacche, le sue parole hanno ricordato alla minoranza più numerosa della Lituania che le attuali pratiche discriminatorie nei loro confronti potrebbero sempre intensificarsi, il che a sua volta richiama l’attenzione sullo scenario di un conflitto identitario in futuro.

Il mese scorso si è verificato un breve scandalo nelle relazioni polacco-lituane, che ha attirato scarsa attenzione mediatica al di fuori di questi due Paesi. Il presidente dell’Ispettorato linguistico statale lituano, Audrius Valotka, ha dichiarato che “non dovrebbero esserci scuole polacche e russe. Perché dobbiamo creare e mantenere ogni sorta di ghetti linguistici a Šalčininkai?”. Ciò ha provocato la condanna dell’incaricato d’affari polacco a Vilnius, e Valotka ha ritrattato a malincuore le sue affermazioni in un post su Facebook .

Pur cercando di rassicurare la minoranza polacca del suo Paese, ormai indigena e con quasi 700 anni di storia, di aver perso la calma nella foga del momento e che non ci sono piani in atto per chiudere le loro scuole, ha comunque criticato aspramente la loro mancanza di integrazione linguistica nella società lituana. Sia la Lituania tra le due guerre che la Repubblica Socialista Sovietica Lituana hanno discriminato i polacchi e la loro lingua nell’ambito di un progetto di costruzione della nazione che continua ancora oggi, a oltre un terzo di secolo dall’indipendenza.

Le quasi 200.000 persone in Lituania che si identificano come polacche sono ufficiosamente considerate i resti dei presunti colonialisti polacchi dall’Unione di Krewo del 1385 fino all’ultima spartizione del 1795 e/o lituani etnici che sono stati ” russificati ” da allora ma si identificano come polacchi perché cattolici. Questa falsa percezione, che nega disonestamente la natura ormai indigena della minoranza polacca, alimenta la discriminazione della Lituania. pratiche contro di loro che Varsavia ufficialmente si è lamentato circa nel passato.

Da allora la Polonia ha mantenuto un basso profilo a riguardo, a causa della paranoia che la Russia potesse sfruttare la questione per scopi speculativi di “divide et impera”, ma la questione continua a irritare di tanto in tanto i nazionalisti conservatori. Il nocciolo del problema è che la Lituania contemporanea si concepisce come uno stato etno-nazionale che rivendica in modo esclusivo l’eredità del Granducato di Lituania (GDL), nonostante il ruolo dominante che gli slavi (principalmente polacchi e bielorussi) e la loro cultura hanno svolto per gran parte dell’esistenza di tale sistema politico.

Rispettare i diritti della minoranza polacca in Lituania, ad esempio consentendo loro di usare segni diacritici polacchi nei loro nomi e rendendo il polacco una lingua amministrativa ufficiale nelle loro località storiche, screditerebbe questa narrazione di costruzione della nazione, con costernazione degli ultranazionalisti lituani. Ciò potrebbe a sua volta facilmente portare a dibattiti più ampi sulla possibilità che la Lituania si sia appropriata indebitamente dell’eredità della GDL, come ha sostenuto in modo convincente Timothy Snyder nel suo libro del 2003 sulle identità regionali e la rivendicazione dei ” litvinisti “.

A questo proposito, alcuni lituani hanno recentemente protestato contro la diaspora bielorussa filo-occidentale, sostenendo che le narrazioni storiche di questo gruppo, vicine al “litvinismo”, indeboliscono le proprie. L’analisi con link precedente ha accennato allo scenario in cui i nuovi arrivati ​​e la minoranza polacca rilanciassero congiuntamente i falliti piani di autonomia di quest’ultima del 1989-1991 , a causa di interessi socio-culturali convergenti. Gli ultranazionalisti lituani temono che questo possa rappresentare un cavallo di Troia per l'”espansionismo” polacco o russo.

Un altro scenario è che loro e la minoranza russa, la seconda più numerosa in Lituania , decidano di citare Vilnius in giudizio presso un tribunale europeo o internazionale se viola la legge sulle minoranze nazionali dell’anno scorso chiudendo le scuole. Considerando che la Lituania è uno dei Paesi in più rapido spopolamento, con la sua nazionalità titolare che si sposta verso ovest per motivi di lavoro , questi tre potrebbero presto rappresentare una quota maggiore della popolazione, il che potrebbe indurre lo Stato a reprimerli e provocare così un grave conflitto identitario.

L’intervento diretto della NATO in Ucraina potrebbe presto trasformarsi pericolosamente in un fatto compiuto

Andrew Korybko22 agosto
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La strategia negoziale di Trump è quella di “escalation to de-escalation”, in un tentativo molto rischioso di ottenere concessioni, che potrebbe presto applicare contro Putin dopo essere stato incoraggiato dal successo con l’Iran.

Il vertice alla Casa Bianca tra Trump, Zelensky e una manciata di leader europei ha ufficialmente riguardato le “garanzie di sicurezza” per l’Ucraina, una questione estremamente delicata per la Russia. È stato quindi allarmante, dal suo punto di vista, che Trump abbia successivamente affermato che il proposto dispiegamento di truppe francesi e britanniche in Ucraina “non creerà problemi alla Russia”. A peggiorare ulteriormente la situazione, ha anche parlato di aiuti ” via aerea “, mentre un altro rapporto affermava che 10 paesi sarebbero disposti a inviare truppe.

Sebbene non sia stato confermato, questa sequenza di eventi suggerisce che la mossa finale prevista da Trump in Ucraina sia il dispiegamento di truppe NATO (anche se non sotto la bandiera del blocco), che potrebbe includere una no-fly zone (parziale?) imposta dagli Stati Uniti e/o promesse di supporto aereo statunitense in caso di attacco. Tutti e tre – truppe NATO in Ucraina, una no-fly zone e l’estensione di fatto degli impegni di difesa reciproca previsti dall’Articolo 5 alle truppe alleate presenti (contrariamente alla dichiarazione di Hegseth di febbraio) – vanno contro gli interessi di sicurezza della Russia.

Tuttavia, è ipoteticamente possibile che Putin possa accettare almeno alcune delle misure sopra menzionate, ma solo in cambio di ampie concessioni ucraine e/o occidentali altrove. Per essere chiari, né lui né alcun funzionario sotto di lui hanno accennato a nulla del genere, anzi, si sono sempre opposti a questi piani e hanno minacciato di ricorrere persino alla forza per fermarli. Detto questo, “la diplomazia è l’arte del possibile”, come alcuni hanno affermato, e questi tre briefing contestualizzerebbero qualsiasi simile quid pro quo:

* 7 agosto: “ Qual è la causa del prossimo vertice Putin-Trump? ”

* 16 agosto: “ Cosa ostacola un grande compromesso sull’Ucraina? ”

* 21 agosto: “ Quali garanzie di sicurezza occidentali per l’Ucraina potrebbero essere accettabili per Putin? ”

In sintesi, la strategia del bastone e della carota di Trump potrebbe convincere Putin che è meglio accettare questo scenario piuttosto che opporsi, ma potrebbe anche essere presentata come un fatto compiuto per spingerlo ad accettarlo come parte di un accordo di pace se continuasse a opporsi, invece di rischiare un’escalation se si verificasse durante le ostilità attive. Dopotutto, Stati Uniti, Regno Unito e Unione Europea si stanno coordinando attivamente sulle “garanzie di sicurezza” che presto presenteranno alla Russia, e questo potrebbe pericolosamente includere piani per intervenire direttamente nel conflitto.

La strategia negoziale di Trump è quella di “escalation to de-escalation”, che finora ha assunto la forma più drammatica con il bombardamento statunitense dei siti nucleari iraniani , in un rischiosissimo tentativo di estorcere concessioni agli altri. Potrebbe quindi dire a Putin che gli Stati Uniti creeranno a breve una (parziale?) no-fly zone sull’Ucraina e forniranno supporto aereo alle truppe degli alleati della NATO, che si schiereranno a breve anche lì, se attaccate mentre svolgono compiti “non di combattimento”, se Trump non accetta la pace alle condizioni dell’Occidente.

Tali condizioni, tuttavia, potrebbero includere i tre esiti sopra menzionati – truppe NATO in Ucraina, una no-fly zone e l’estensione di fatto dell’Articolo 5 alle truppe alleate presenti – che vanno contro gli interessi di sicurezza della Russia. In tale scenario, Putin si troverebbe quindi costretto a un dilemma: o rischierebbe la Terza Guerra Mondiale difendendo i propri interessi con attacchi contro quelle truppe e violando la no-fly zone statunitense, oppure accetterebbe tali misure per scongiurare la Terza Guerra Mondiale, sperando che le conseguenze siano gestibili.

Quali garanzie di sicurezza occidentali per l’Ucraina potrebbero essere accettabili per Putin?

Andrew Korybko21 agosto
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Potrebbe ipoteticamente concordare sul fatto che la ripresa dell’attuale supporto della NATO all’Ucraina (armi, intelligence, logistica, ecc.) in caso di un altro conflitto non supererebbe i limiti imposti dalla Russia, ma è improbabile che scenda a compromessi sulla questione delle truppe occidentali in Ucraina una volta terminato l’attuale conflitto.

L’affermazione di Steve Witkoff secondo cui Putin avrebbe acconsentito all’offerta da parte degli Stati Uniti all’Ucraina di una “protezione simile all’Articolo 5” durante il vertice di Anchorage, che Trump ha ribadito durante il suo vertice alla Casa Bianca con Zelensky e una manciata di leader europei, solleva la questione di quale forma potrebbe ipoteticamente assumere se fosse vera. Ipotizzando, per amore dell’analisi, che abbia effettivamente acconsentito, è importante chiarire esattamente cosa comporta l’Articolo 5. Innanzitutto, non obbliga gli alleati a inviare truppe se uno di loro viene attaccato.

Secondo il Trattato del Nord Atlantico , ogni membro deve solo adottare “le misure che ritiene necessarie”, il che potrebbe includere “l’uso delle forze armate”, ma non è obbligatorio. Come spiegato all’inizio di quest’anno qui , “l’Ucraina ha probabilmente beneficiato dei benefici di questo principio negli ultimi tre anni, pur non essendo membro della NATO, poiché ha ricevuto tutto dall’alleanza, tranne le truppe”. Armi, intelligence, supporto logistico e altre forme di supporto sono già stati forniti all’Ucraina nello spirito dell’Articolo 5.

Potrebbe quindi essere che Putin abbia accettato che tale “protezione simile all’Articolo 5” possa essere ripristinata in caso di un altro conflitto senza oltrepassare le linee rosse imposte dalla Russia. Sebbene la Russia si opponga alla rimilitarizzazione dell’Ucraina dopo la fine dell’attuale conflitto , è possibile che possa accettare anche questo come parte di un grande compromesso in cambio del raggiungimento di alcuni dei suoi altri obiettivi, come spiegato qui . Ciò che la Russia non accetta, tuttavia, è l’invio di truppe occidentali in Ucraina dopo la fine dell’attuale conflitto.

La portavoce del Ministero degli Esteri Maria Zakharova ha dichiarato il giorno del vertice della Casa Bianca: “Ribadiamo la nostra posizione di lunga data di respingere inequivocabilmente qualsiasi scenario che implichi il dispiegamento di contingenti militari della NATO in Ucraina”. Non si prevede che questa posizione cambi poiché una delle ragioni alla base dello speciale L’operazione ha lo scopo di fermare l’espansione della NATO in Ucraina. La successiva presenza occidentale sul territorio ucraino equivarrebbe quindi a percepire il fallimento dell’obiettivo primario della Russia.

Ciò sarebbe particolarmente vero se fossero schierati lungo la Linea di Contatto, ma il loro dispiegamento a ovest del Dnepr, parallelamente alla creazione di una regione “Trans-Dnepr” smilitarizzata controllata da forze di peacekeeping non occidentali, come qui proposto , potrebbe ipoteticamente rappresentare un compromesso. Detto questo, la Russia preferirebbe che ci fossero solo forze di peacekeeping non occidentali, se non addirittura nessuna. Il dispiegamento di forze militari straniere, indipendentemente dal Paese, potrebbe incoraggiare l’Ucraina a organizzare provocazioni sotto falsa bandiera.

Riassumendo, nell’ordine dalle garanzie di sicurezza occidentali più ipoteticamente accettabili per l’Ucraina a quelle meno ipoteticamente accettabili dal punto di vista della Russia, queste sono: 1) la ripresa del sostegno occidentale all’Ucraina solo se scoppia un altro conflitto e senza alcuna forza di pace; 2) il sostegno occidentale continuato ma con forze di pace non occidentali; e 3) il sostegno occidentale continuato, truppe occidentali a ovest del Dnepr e truppe non occidentali in una regione smilitarizzata “Trans-Dnepr”.

La portata della smilitarizzazione dell’Ucraina e l’entità delle garanzie di sicurezza occidentali dopo la fine dell’attuale conflitto sono di fondamentale importanza per la Russia, al fine di impedire che l’Ucraina venga nuovamente utilizzata come arma e trampolino di lancio per un’aggressione occidentale. È quindi altamente improbabile che la Russia scenda a compromessi su questo tema, soprattutto per quanto riguarda lo scenario della presenza di truppe occidentali in Ucraina. La Russia potrebbe essere più flessibile su altre questioni, ma su questa potrebbe dimostrarsi irremovibile.

La ferrovia progettata dall’Iran verso il Mar Nero dipenderà dall’Azerbaigian

Andrew Korybko27 agosto
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Un popolare canale Telegram ha falsamente affermato che si tratta di uno “scacco matto ai piani USA/Zangezur” e ha persino condiviso una mappa che mostra un percorso diverso da quello confermato, per trarre in inganno il pubblico.

Il viceministro degli Esteri armeno Vahan Kostanyan ha dichiarato all’agenzia di stampa iraniana Islamic Republic News Agency (IRNA) all’inizio di questo mese, durante il suo viaggio a Teheran, che il suo Paese prevede che i recenti accordi con l’Azerbaigian, mediati dagli Stati Uniti, faciliteranno l’accesso dell’Iran al Mar Nero. Nelle sue parole, “questo aprirà nuove porte alla cooperazione ferroviaria tra Armenia e Iran, anche attraverso la linea ferroviaria Nakhchivan-Jolfa, che significherà l’accesso dell’Iran all’Armenia e, in ultima analisi, al Mar Nero”.

Il Ministro iraniano delle Strade e dello Sviluppo Urbano, Farzaneh Sadegh, ha incontrato poco dopo la sua controparte a Yerevan, durante la visita del Presidente Masoud Pezeshkian, per discutere della riapertura di questo corridoio . Il popolare canale Telegram “Geopolitics Prime” ha poi attirato l’attenzione su questo argomento in un post , affermando che si tratta di uno “scacco matto ai piani USA/Zangezur”, “contrasta le ambizioni dell’Azerbaigian per il Corridoio Zangezur” e “blocca gli sforzi USA/Azerbaigiani di isolare Teheran”. Niente di tutto ciò è vero.

Come ha osservato Kostanyan nella sua intervista con IRNA, questo corridoio attraversa la Repubblica Autonoma di Nakhchivan in Azerbaigian, il che significa che la connettività ferroviaria iraniano-armena dipenderà da Baku. Esiste una strada tra i due paesi attraverso la stretta provincia armena di Syunik, attraverso la quale transiterà la ” Trump Road for International Peace and Prosperity ” (TRIPP, precedentemente nota come Corridoio Zangezur), ma la conformazione montuosa di quella regione rende molto costosa la costruzione di una ferrovia nord-sud.

Di conseguenza, il corridoio pianificato dall’Iran verso il Mar Nero non è uno “scacco matto ai piani USA/Zangezur”, non “contrasta le ambizioni del Corridoio Zangezur dell’Azerbaigian” e non blocca in alcun modo gli sforzi USA/Azerbaigian di isolare Teheran”, come ha affermato Geopolitics Prime nel suo post e come altri potrebbero presto sostenere. Certo, l’Iran può ancora esportare i suoi prodotti sul mercato europeo via terra, passando per Syunik, e poi verso i porti georgiani sul Mar Nero, ma non è così veloce o conveniente come affidarsi alla ferrovia.

Inoltre, l’UE potrebbe non avere comunque un mercato rilevante per i prodotti iraniani, oppure gli Stati Uniti potrebbero fare pressione sul blocco affinché non li acquisti (data l’influenza che gli Stati Uniti esercitano ora sull’UE dopo il loro accordo commerciale totalmente sbilanciato ), quindi qualsiasi corridoio del Mar Nero potrebbe non avere nemmeno molta importanza per l’Iran. Ciononostante, sarebbe comunque significativo se l’Azerbaigian e gli Stati Uniti non interferissero con le esportazioni iraniane rispettivamente attraverso Nakhchivan e Syunik, il che potrebbe in parte alleviare le tensioni sul TRIPP.

A tal proposito, questa analisi spiega come quel corridoio minacci di indebolire la posizione regionale più ampia della Russia, rilevante anche per l’Iran, poiché i suoi interessi nazionali sarebbero minacciati dal TRIPP che alimenterebbe l’espansione dell’influenza turca sostenuta dagli Stati Uniti in tutta la sua periferia settentrionale. Mentre alti funzionari iraniani hanno criticato aspramente il TRIPP a causa del controllo statunitense su di esso concesso per 99 anni, cosa che, come ha dichiarato Kostanyan all’IRNA, “non implica una presenza di sicurezza statunitense”, l’Iran alla fine ha scelto di accettarlo.

La decisione di cooperare con l’Azerbaigian per facilitare gli scambi commerciali con l’Armenia e oltre rappresenta una via di mezzo tra il confronto e la capitolazione, ma entrambi gli estremi potrebbero comunque manifestarsi se Kostanyan stesse dicendo solo una mezza verità e la sicurezza del TRIPP venisse esternalizzata alle PMC statunitensi, come alcuni temono. Per ora, e in assenza di un dispiegamento permanente di truppe o PMC statunitensi in Armenia, l’Iran sta cercando di trarre il meglio da una situazione strategicamente difficile, forse sperando che questo plachi l’emergente blocco turco.

Alti funzionari statunitensi hanno condiviso le ridicole ragioni per cui il loro Paese ha imposto tariffe punitive all’India

Andrew Korybko30 agosto
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Sostengono che si tratti di “profittare” del conflitto ucraino e di “finanziare la macchina da guerra di Putin”.

Gli Stati Uniti hanno punito l’India per le sue importazioni di energia dalla Russia imponendole dazi aggiuntivi del 25%, portando così i dazi totali al 50%, nonostante Cina e UE siano rispettivamente i maggiori importatori di petrolio e GNL russi, secondo il Ministro degli Affari Esteri, Dr. Subrahmanyam Jaishankar. Il Segretario al Tesoro Scott Bessent ha difeso questa politica accusando l’India di “profittare”, mentre il consigliere senior di Trump, Peter Navarro, ha fatto lo stesso sulla base del presunto presupposto che l’India stia “finanziando la macchina da guerra di Putin”.

Per quanto riguarda l’affermazione di Bessent, sebbene sia vero che l’India esporta in Occidente una parte del petrolio russo lavorato, Jaishankar ha rivelato nei suoi commenti sopra menzionati che “negli ultimi anni gli americani hanno affermato che dovremmo fare tutto il possibile per stabilizzare i mercati energetici mondiali, incluso l’acquisto di petrolio dalla Russia”. Per contestualizzare, un rappresentante del Ministero del petrolio indiano ha affermato alla fine del 2023 che queste importazioni hanno impedito il “devastamento” sul mercato, che all’epoca è stato analizzato qui come un modo per scongiurare una policrisi globale.

In risposta a Navarro, sta chiudendo un occhio sulle importazioni di petrolio e GNL russi da parte della Cina e dell’UE, che “finanziano la macchina da guerra di Putin” molto più delle importazioni indiane. Sta anche ignorando ciò che Putin ha rivelato durante il suo vertice di Anchorage con Trump su come il commercio russo-statunitense sia aumentato del 20% da quando la sua controparte è tornata al potere. Questi doppi standard a loro volta danno credito all’affermazione che gli Stati Uniti abbiano secondi fini economici e strategici per prendere di mira l’India per i suoi scambi commerciali con la Russia.

Alla luce di quanto sopra, è quindi vero che il cosiddetto “profiteering” dell’India era fino a poco tempo fa un servizio richiesto dagli Stati Uniti per stabilizzare i mercati energetici globali, mentre Cina, UE e, in misura minore, persino gli Stati Uniti “finanziano la macchina da guerra di Putin”, ma solo l’India viene punita per questo. Di conseguenza, il cambio di rotta degli Stati Uniti dimostra che sono in gioco secondi fini, tutti incentrati sulla ricerca di subordinare l’India a Stato vassallo. L’India, tuttavia, rifiuta di accettare questo ruolo.

L’India è così contraria a diventare vassalla degli Stati Uniti che ha appena iniziato a ricucire i suoi problemi con la Cina, che Jaishankar in precedenza aveva lasciato intendere stesse perseguendo un unipolarismo in Asia, vanificando così la ragione principale dell’ultimo decennio per il rafforzamento dei legami con gli Stati Uniti. Il Primo Ministro Narendra Modi ha apparentemente concluso che è meglio per il suo Paese gestire la rivalità con la Cina bilateralmente senza l’assistenza degli Stati Uniti piuttosto che subordinarsi agli Stati Uniti e quindi rischiare di essere utilizzato come arma anti-cinese.

Il riavvicinamento sino-indo-indiano è ancora nelle sue fasi iniziali e richiederà compromessi reciproci politicamente difficili per procedere al punto da produrre una differenza geostrategica significativa, ma la ripresa del commercio e dei voli di frontiera dimostra che i due Paesi sono seriamente intenzionati a migliorare le loro relazioni. Il primo viaggio di Modi in Cina in sette anni per partecipare al prossimo vertice della SCO a Tianjin includerà probabilmente un incontro bilaterale con il presidente cinese Xi Jinping per discutere proprio di tali compromessi.

Questi rapidi sviluppi non sarebbero stati possibili se Trump avesse mantenuto la politica indofila del suo primo mandato, come previsto . Solo poco più di sei mesi fa, sarebbe stata considerata una fantasia politica immaginare che gli Stati Uniti favorissero apertamente il Pakistan rispetto all’India e chiudessero un occhio sulle importazioni cinesi di energia russa, eppure è proprio questo che si è rivelata la sua politica regionale . Per quanto ci provi, non riuscirà a subordinare l’India come vassallo, che può contare sulla Russia e ora sulla Cina per evitare questo destino.

Il Myanmar si sta preparando a diventare il prossimo fronte della nuova guerra fredda sino-americana

Andrew Korybko24 agosto
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La Cina vuole mantenere l’accesso alle terre rare dello Stato Kachin, gli Stati Uniti vogliono rubarle e la crescente concorrenza per questa parte del Myanmar potrebbe trasformarla nel prossimo punto critico della Nuova Guerra Fredda.

Reuters ha riferito che la politica degli Stati Uniti nei confronti del Myanmar potrebbe virare verso un maggiore impegno diplomatico con la giunta al potere o con l’Esercito per l’Indipendenza Kachin (KIA), nel tentativo di ottenere l’accesso alle enormi riserve di terre rare presenti nell’omonimo Stato. Attualmente, si sospetta che gli Stati Uniti sostengano clandestinamente alcuni gruppi armati anti-giunta, ma non si ritiene che il KIA ne abbia tratto beneficio a causa della sua posizione isolata lungo il confine montuoso del Myanmar con Cina e India.

Questa geografia rappresenta una sfida per il reindirizzamento di queste risorse dalla Cina all’India, ad esempio, indipendentemente dallo status politico finale dello Stato Kachin, autonomo all’interno di un Myanmar (con)federato o indipendente, ma questo presuppone che la Cina non intervenga. Reuters ha citato un esperto dello Stato Kachin, il quale ha affermato: “Se vogliono trasportare le terre rare da queste miniere, che si trovano tutte al confine con la Cina, all’India, c’è una sola strada. E i cinesi interverrebbero sicuramente e lo fermerebbero”.

I rapporti della fine dell’anno scorso sulla società di sicurezza congiunta che Cina e Myanmar stavano pianificando all’epoca sono stati analizzati in questa sede e hanno concluso che i rischi associati anche a un intervento guidato dalle PMC a sostegno del Corridoio Economico Cina-Myanmar (CMEC) rendono questo scenario improbabile. Per quanto il CMEC sia importante per aiutare la Cina a ridurre la sua dipendenza logistica dallo Stretto di Malacca, facilmente bloccabile, i minerali di terre rare del Kachin sono ancora più importanti, quindi i suoi calcoli potrebbero cambiare.

Tuttavia, la Cina è nota per promuovere i propri interessi nazionali attraverso mezzi ibridi economico-diplomatici, non con la forza militare. È quindi molto più probabile che possa presto intensificare questi sforzi con la giunta, il KIA o entrambi per prevenire qualsiasi imminente campagna diplomatica statunitense. Il primo scenario mirerebbe a ripristinare il controllo militare sulle riserve di terre rare del Kachin, il secondo punterebbe all’indipendenza di fatto del Kachin, mentre il terzo punterebbe all’autonomia di quello stato.

Nell’ordine in cui sono stati menzionati: l’esercito è in difficoltà nel Kachin nonostante oltre quattro anni di sostegno cinese, quindi è improbabile che un nuovo approccio da parte della Cina possa invertire questa tendenza; i decenni di impegno della Cina con l’Esercito dello Stato Wa Unito, di fatto indipendente, dello Stato Shan orientale (anche per quanto riguarda le terre rare ) potrebbero servire da precedente per qualcosa di simile con il KIA; mentre cercare l’autonomia del Kachin in un accordo politico mediato dalla Cina sarebbe lo scenario migliore per Pechino.

In ogni caso, è inimmaginabile che la Cina permetta agli Stati Uniti di appropriarsi delle riserve di terre rare del Kachin senza fare alcun tentativo di prevenire questo gioco di potere, quindi è previsto che la rivalità sino-americana in Myanmar si intensificherà. Il Kachin è al centro di questa lotta, che oggi è guidata dall’accesso alle terre rare di quella regione, sebbene un tempo riguardasse il CMEC, con il futuro politico del Myanmar (centralizzato, decentralizzato, devoluto o diviso) solo come mezzo per raggiungere il suddetto obiettivo.

La Cina ha un vantaggio sugli Stati Uniti grazie alla posizione geografica (inclusa la vicinanza dei suoi impianti di lavorazione delle terre rare), ai suoi legami esistenti sia con la giunta che con il KIA, e al fascino che qualsiasi nuovo approccio (possibilmente legato al CMEC) potrebbe avere nel facilitare un accordo pragmatico tra i due Paesi. Detto questo, gli Stati Uniti potrebbero quantomeno tentare di provocare un intervento armato cinese di qualche tipo per intrappolarli in un pantano, anche se le probabilità che questo scenario si verifichi sono basse, il tutto nell’ambito della loro crescente rivalità da Nuova Guerra Fredda sul Myanmar.

Perché gli Stati Uniti hanno elevato la qualifica di terrorista a un gruppo di militanti anti-cinesi in Pakistan?

Andrew Korybko17 agosto
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Si potrebbe pensare che gli Stati Uniti considererebbero un gruppo del genere come un alleato nella loro Nuova Guerra Fredda con la Cina.

La rivalità sistemica degli Stati Uniti con la Cina sui contorni dell’ordine mondiale emergente ha indotto molti a supporre che sostengano tutti gli oppositori della Repubblica Popolare, dagli stati confinanti con cui Pechino ha dispute territoriali ai gruppi terroristici, eppure una recente mossa ha appena infranto questa percezione. Il Dipartimento di Stato ha improvvisamente elevato la designazione del 2019 dell'”Esercito di Liberazione del Belucistan” (BLA) da “Terrorista Globale Specialmente Designato” a “Organizzazione Terroristica Straniera” nel contesto del riavvicinamento tra Stati Uniti e Pakistan .

Il BLA è a tutti gli effetti un gruppo terroristico il cui ultimo attacco noto è stato il mortale dirottamento del Jaffar Express all’inizio di questa primavera, che ha fatto seguito a un’ondata di altri attacchi terroristici negli ultimi tre anni, tra cui quelli contro progetti legati al Corridoio Economico Cina-Pakistan (CPEC). Il CPEC è il progetto di punta della Belt & Road Initiative (BRI) cinese ed è stato concepito per garantire un accesso diretto all’Oceano Indiano e mitigare preventivamente gli effetti di un eventuale futuro blocco statunitense dello Stretto di Malacca.

Questa serie di megaprogetti si è arenata negli ultimi anni per una serie di ragioni che vanno dalla corruzione alla disfunzione politica del Pakistan a partire dall’aprile 2022 . Colpo di Stato e, in particolare, la successiva ondata di attacchi terroristici del BLA, che ha sfruttato la nuova attenzione dello Stato nel reprimere l’opposizione. Dato il ruolo sproporzionato che il BLA ha svolto nel sovvertire il CPEC, su cui gli Stati Uniti hanno finora chiuso un occhio per motivi di convenienza strategica, nonostante la sua attuale designazione terroristica, dovrebbe essere di fatto un alleato degli Stati Uniti.

Invece, la sua designazione terroristica è stata appena sollevata, sollevando quindi naturalmente la questione del perché. I contesti regionali e globali in rapida evoluzione aiutano a rispondere a questa domanda. Non solo gli Stati Uniti hanno avviato un riavvicinamento con il Pakistan, ma ne stanno cercando uno anche con la Cina, come dimostrato dall’entusiasmo di Trump nel raggiungere un accordo commerciale e dalle sue recenti, pacate critiche. Ciò potrebbe rispettivamente rimodellare la regione e il mondo intero se questi doppi riavvicinamenti riuscissero a ostacolare l’ascesa dell’India a Grande Potenza .

Aumentando la qualifica di terrorista del BLA, gli Stati Uniti stanno segnalando che cesseranno di opporsi al CPEC nell’ambito di quello che potrebbe essere un grande compromesso con la Cina, con questa concessione volta a rilanciare l’ammiraglia della BRI al fine di rafforzare ulteriormente l’alleanza sino-pakistana contro l’India. Rimettere in carreggiata il CPEC potrebbe anche compensare l’incipiente riavvicinamento sino-indo-indiano, poiché è stato l’annuncio del CPEC un decennio fa a innescare l’ultima fase della loro rivalità, a causa del transito attraverso territorio rivendicato dall’India ma controllato dal Pakistan.

Il grande obiettivo strategico perseguito dagli Stati Uniti è lo scenario “G2″/”Chimerica” ​​di dividere il mondo con la Cina dopo il fallimento del suo tentativo di ripristinare l’unipolarismo, il che richiederebbe di contenere, subordinare e possibilmente persino “balcanizzare” l’India, poiché la sua ascesa a Grande Potenza rovinerebbe questi piani. L’analista indiano Surya Kanegaonkar sospetta che la nuova designazione del BLA potrebbe precedere un tentativo USA-Pakistan di inserire l’India nella Financial Action Task Force con il pretesto che sostiene questo gruppo. Potrebbe avere ragione.

Tutto sommato, l’importanza della nuova designazione terroristica del BLA risiede nel fatto che corrobora le affermazioni secondo cui gli Stati Uniti stanno utilizzando il loro nuovo riavvicinamento con il Pakistan per promuoverne uno più significativo a livello globale con la Cina, entrambi guidati in gran parte dal comune interesse a ostacolare l’ascesa dell’India come Grande Potenza. Che il riavvicinamento tra Stati Uniti e Pakistan regga o meno, che quello tra Stati Uniti e Cina sia garantito e/o che l’India sia contenuta, il fatto è che gli Stati Uniti stanno tentando un’altra mossa di potere, che segue l’ultima contro la Russia .

L’Indonesia avrà un ruolo chiave nel riequilibrio asiatico della Russia

Andrew Korybko15 agosto
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La loro stretta cooperazione strategica nell’era sovietica, prima del colpo di stato del generale Suharto a metà degli anni ’60, serve da punto di riferimento nostalgico per il livello di relazioni che i loro leader contemporanei sono ansiosi di rilanciare.

Il presidente indonesiano Prabowo Subianto è stato l’ospite d’onore di Putin durante il Forum Economico Internazionale di San Pietroburgo di metà giugno. Il privilegio che gli è stato conferito non è stato sorprendente, dato che i legami bilaterali si sono notevolmente rafforzati rispetto allo scorso anno, come documentato qui a gennaio. La Russia prevede che l’Indonesia svolga un ruolo chiave nel suo equilibrio asiatico, che non potrà che crescere dopo la firma del nuovo accordo di partenariato strategico. Il presente articolo descriverà in dettaglio alcune delle forme in cui ciò avverrà.

Innanzitutto, la Russia ha aiutato l’Indonesia a completare la sua adesione accelerata ai BRICS come membro a pieno titolo, cosa per cui Prabowo ha ringraziato Putin durante l’incontro e nelle successive dichiarazioni alla stampa . La sera prima, Putin aveva dichiarato ai responsabili delle agenzie di stampa internazionali, durante il suo incontro, che i quasi 300 milioni di abitanti dell’Indonesia le consentono di svolgere un ruolo più importante nell’economia globale, con l’insinuazione che ciò le consentirà di svolgere un ruolo più importante anche nella governance globale.

È qui che entra in gioco la rilevanza dell’adesione dell’Indonesia ai BRICS, assistita dalla Russia. Sebbene la cooperazione all’interno dei BRICS sia puramente Su base volontaria , il gruppo può comunque contribuire collettivamente ad accelerare i processi di multipolarità finanziaria e, in seguito, a graduali riforme della governance globale. Di conseguenza, dato il crescente peso economico e politico dell’Indonesia nel mondo, unito ai loro tradizionali legami amichevoli, la Russia si aspetta che i due paesi possano cooperare più strettamente a tal fine.

Nel perseguimento di questo obiettivo, ritenuto la forza trainante del loro partenariato strategico, entrambi i Paesi stanno dando priorità all’espansione complessiva dei loro legami economici, politici e militari. Dal punto di vista della Russia, la dimensione economica può aprire nuovi mercati per ogni tipo di esportazione energetica e del settore reale, legami più stretti con l’Indonesia, leader de facto dell’ASEAN, possono conferire alla Russia una maggiore presenza in quel blocco, e una maggiore cooperazione tecnico-militare può rafforzare il bilanciamento dell’Indonesia.

A questo proposito, l’Indonesia si allinea tra potenze rivali proprio come l’India, e una più stretta cooperazione tecnico-militare con la Russia potrebbe aiutarla a evitare il crescente dilemma a somma zero tra impegnarsi con la Cina o con gli Stati Uniti. Dopotutto, una cooperazione più stretta con uno dei due potrebbe destabilizzare l’altro e portare a una maggiore pressione sull’Indonesia, ma la Cina probabilmente non si opporrebbe se il suo partner strategico russo fornisse armi all’Indonesia, mentre gli Stati Uniti potrebbero non reagire in modo eccessivo se il loro riavvicinamento incipiente continuasse.

Per quanto riguarda l’equilibrio asiatico della Russia, esso mira a evitare preventivamente una dipendenza sproporzionata dalla Cina, alcune delle conseguenze di un miglioramento dei difficili rapporti indo-americani e il rischio di ritrovarsi in un dilemma a somma zero tra l’una e l’altra opzione. Legami economici più stretti con l’Indonesia aiutano quindi la Russia a proteggersi dalla dipendenza commerciale dalla Cina, legami tecnico-militari più stretti potrebbero compensare parzialmente la diminuzione della quota di mercato in India, e legami politici più stretti con l’ASEAN possono offrire alla Russia maggiore flessibilità nel contesto della rivalità sino-indo-indiana.

Nel complesso, Russia e Indonesia svolgono ruoli complementari nei rispettivi equilibri, fungendo in un certo senso da valvola di sfogo per la pressione esercitata rispettivamente su Cina-India e Cina-USA. La loro stretta cooperazione strategica dell’era sovietica, prima del colpo di stato del generale Suharto a metà degli anni ’60, funge da punto di riferimento nostalgico per il livello di relazioni che i loro leader contemporanei desiderano rilanciare. Ora è il momento perfetto per farlo e, poiché non ci sono impedimenti, il futuro dei loro legami appare molto roseo.

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L’amministrazione Trump sta cercando di rovesciare il governo britannico?_di Morgoth

L’amministrazione Trump sta cercando di rovesciare il governo britannico?

Morgoth27 agosto
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Il problema con la cultura del “hot-take” dei social media è che le riflessioni speculative, che potrebbero rivelarsi sbagliate, sono spesso disincentivate. L’algoritmo preferisce che tu scelga una collina su cui morire o una collina su cui caricare, non su cui restare fermo a riflettere. Eppure, non posso fare a meno di concludere che se fossi un britannico di sinistra del calibro di LBC e Guardian, sarei assolutamente convinto che l’attuale amministrazione americana stia tentando un “cambio di regime” nel Regno Unito.

Il problema di tali speculazioni, ovviamente, è che il governo laburista è così incompetente che è difficile stabilire dove finisca la stupidità e inizi il sabotaggio esterno. Elencare esempi di come l’amministrazione Trump potrebbe indebolire il regime di Starmer equivale allo stesso tempo a elencare esempi di politiche così venali e in contrasto con i “valori occidentali” da equivalere a un gol a porta vuota.

Quest’anno, in Gran Bretagna si è diffuso un costante rumore di fondo di “Guerra Civile”, causato dall’enorme portata dell’immigrazione di massa, dai crimini contro le donne native, dalla censura, dal doppio controllo della polizia e da tutto il resto. Eppure, non sono il primo a notare che la narrazione della guerra civile è stata propagata da una rete di podcast con un’inclinazione chiaramente pro-MAGA e pro-sionista. Tuttavia, dobbiamo procedere con cautela. Sono d’accordo sul fatto che corriamo il rischio di scivolare verso un conflitto settario, in particolare in Inghilterra. Ciononostante, il quotidiano neoconservatore britannico The Daily Telegraph ha ripetutamente pubblicato articoli che citavano un’imminente guerra civile, non conflitti etnici o possibili tensioni settarie.

L’atmosfera in cui Keir Starmer deve operare è quella di una crisi perpetua e incombente, causata dalle sue stesse politiche (piuttosto che dall’ondata di Boris), che potrebbe segnare la fine del Paese. I beneficiari di questa narrazione non sono in realtà la destra britannica, che non ha i mezzi per condurre alcun conflitto, ma i podcaster su larga scala che generano traffico, e l’amministrazione Trump, che può sentirsi giustificata nei propri ideali. La base MAGA può usare il Regno Unito come monito.

Naturalmente, questo si adatta alla tradizionale inquadratura della contro-jihad, secondo cui la destra americana e britannica sarebbero filo-israeliane e anti-islamiche, in un conflitto di “valori” che si allineano sempre con gli ideali neoconservatori.

L’introduzione dell’Islam qui è fondamentale perché l’impressione che il MAGA dà della Gran Bretagna, e certamente del Partito Laburista, è che siamo di fatto un califfato che opera sotto la legge della sharia. Di nuovo, non si tratta di minimizzare i problemi reali che abbiamo, ma di sottolineare che anche altri li hanno notati e potrebbero logicamente cercare di sfruttarli a proprio vantaggio. Il Partito Laburista dipende infatti fortemente dal voto musulmano, e questo significa che è paralizzato quando si tratta di questioni come la situazione Israele/Palestina. La leadership del partito è perennemente in tensione con la sua base, sia essa islamica o semplicemente di sinistra, riguardo al grado e alla natura del loro sostegno a Israele e alle narrazioni filo-sioniste.

Dal punto di vista dell’amministrazione Trump e dei suoi sostenitori, il Partito Laburista deve apparire come un alleato profondamente debole o compromesso quando si tratta del Medio Oriente.

Quando si parla del governo britannico in questo contesto, non si tratta tanto del vecchio dibattito tra malizia e incompetenza, quanto piuttosto di sabotaggio o stupidità.

Alla narrazione della guerra civile si aggiunge, e la completa perfettamente, la situazione davvero spaventosa della libertà di parola nel Regno Unito. Anche questo è stato ripreso dall’amministrazione Trump, in particolare da JD Vance, e Starmer è stato colto di sorpresa in presenza di Trump quando gli è stato chiesto direttamente se ritenesse che la libertà di parola fosse minacciata da lui stesso. Pur accogliendo con favore questi interventi, non ho potuto fare a meno di notare che il capitale politico di Starmer ne è stato pubblicamente danneggiato, perché ha dovuto mentire goffamente dicendo che la nostra libertà di espressione era solida come sempre.

Ancora una volta, l’idea diffusa era che il Regno Unito fosse un caso disperato di totalitarismo e che Keir Starmer ne fosse il responsabile, nonostante le leggi draconiane citate fossero in vigore ben prima del suo mandato.

Come la narrazione della guerra civile, il podcast populista e la scena mediatica di destra stanno correttamente mettendo l’oltraggiosa prigionia di Lucy Connolly al collo di Starmer come un’incudine. Questo è naturalmente prevedibile, poiché è una certezza ideologica assoluta. Ci sono opinioni e clic, e c’è anche un caso reale di una donna rinchiusa mentre alleati e amici del partito laburista erano liberi.

Eppure, ora si vocifera che Lucy Connolly si recherà negli Stati Uniti per testimoniare davanti al Congresso, probabilmente accompagnata da Nigel Farage. Il New Statesman sembra aver colto l’iniziativa:

Da allora, il caso è diventato una causa celebre per la destra su entrambe le sponde dell’Atlantico. Il suo rilascio questa settimana è seguito con attenzione a Washington. “C’è grande interesse per il caso di Lucy tra l’amministrazione. È la dimostrazione dei danni da cui J.D. Vance aveva messo in guardia a Monaco”, mi ha detto una fonte vicina all’amministrazione a Washington. Nigel Farage ha dichiarato a proposito del caso che i suoi “amici americani non riescono a credere a quello che sta succedendo nel Regno Unito”.

Gli amici di Nigel a Washington avrebbero potuto dare risalto alla vicenda di Palestine Action, che ha visto centinaia di arresti per aver indossato magliette e per un’eccessiva estensione della legislazione antiterrorismo del Regno Unito, ma non l’hanno fatto. In effetti, l’America di Trump è piuttosto a suo agio nel censurare in nome della lotta all’antisemitismo. E perché Nigel Farage viene pubblicizzato come l’accompagnatore di Lucy Connolly e non, ad esempio, il guru della libertà di parola Toby Young?

Lo scopo dell’amministrazione Trump che galoppa per difendere la libertà di parola nel Regno Unito non è tanto la libertà di parola, quanto piuttosto indebolire il governo laburista, il che è abbastanza giusto. Tuttavia, ora vediamo Nigel Farage entrare nella mischia come nostro paladino. Farage e il suo partito, Reform UK, sono stati i principali beneficiari di tutte le narrazioni sopra menzionate e della sconcertante incompetenza del partito laburista. In Nigel Farage, MAGA e Trump avrebbero un ardente alleato e compagno di viaggio al numero 10 di Downing Street, libero dal voto del blocco islamico, privato della cerchia dei tecnocrati euro preferiti da Starmer e un cliente compiacente su questioni come Russia e Ucraina.

Inoltre, internamente, la riforma può fungere da via di fuga dal sistema di polizia a due livelli e dalla crisi degli immigrati clandestini, diventando un balsamo teorico per le numerose ferite della nazione.

Ciò che ostacola tutto questo è che Starmer ha ancora anni prima di dover indire le elezioni. A meno che, naturalmente, un disastro non faccia crollare il governo. Magari un disastro delle dimensioni di un’economia britannica che fallisce definitivamente, costringendo il Paese a ricorrere al Fondo Monetario Internazionale per gestire i propri affari. Che è esattamente ciò che il Daily Telegraph ha riportato questa settimana.

È difficile negare che si stia preparando il terreno per Nigel Farage e che forze più potenti dell’incompetenza del partito laburista stiano contribuendo a scrivere la sceneggiatura.

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È tutto?_di Aurelien

È tutto?

Nessun “perché” nel liberalismo.

Aurelien27 agosto
 
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Nelle ultime due settimane c’è stato un altro gratificante aumento delle iscrizioni. Grazie e benvenuti a tutti i nuovi iscritti, in particolare a coloro che hanno messo qualche moneta nella mia ciotola o mi hanno inviato gentili messaggi di sostegno.

Questi saggi saranno sempre gratuiti, ma potete continuare a sostenere il mio lavoro mettendo “mi piace” e commentando, e soprattutto condividendo i saggi con altri e passando i link ad altri siti che frequentate. Se desiderate sottoscrivere un abbonamento a pagamento, non vi ostacolerò (anzi, ne sarei molto onorato), ma non posso promettervi nulla in cambio se non una calda sensazione di virtù.

Ho anche creato una pagina Buy Me A Coffee, che potete trovare qui.☕️ Grazie a tutti coloro che hanno recentemente contribuito.

E come sempre, grazie agli altri che instancabilmente forniscono traduzioni nelle loro lingue. Maria José Tormo pubblica le traduzioni in spagnolo sul suo sito qui, mentre Marco Zeloni pubblica le traduzioni in italiano su un sito qui. Molti dei miei articoli sono ora disponibili online sul sito Italia e il Mondo: li potete trovare qui. Sono sempre grato a chi pubblica traduzioni e sintesi occasionali in altre lingue, purché ne indichiate la fonte originale e me lo comunichiate. E ora:

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Nel Neolitico, quando affittai per la prima volta un posto dove vivere, ricordo di aver firmato un documento in cui si diceva che se avessi fatto questo, quello e quell’altro, avrei avuto diritto a “godere tranquillamente” della proprietà. Anche allora, i miei riflessi di ex studente di letteratura si risvegliarono. Cosa significava? Dovevo passare le mie giornate a contemplare sorridendo quattro mura?

All’inizio pensavo fosse un’affettazione dell’inglese antico in cui sono redatti tali contratti. Ma poi, qualche tempo dopo, ho scoperto che contratti simili in francese utilizzano il termine equivalente jouir, che, come forse saprete, copre varie forme di godimento, non tutte tranquille. In realtà, le due parole condividono un’origine comune, dal francese antico enjoir che significa “gioire” o “provare piacere”. Ora lo sapete. Ma ciò che colpisce davvero è la coincidenza di due elementi – proprietà e documenti legali – che sono l’essenza di una società liberale, dove la vita consiste essenzialmente nello stare seduti felicemente in una stanza vuota. Se la stanza è di vostra proprietà, tanto meglio, e tanto più piacevole. A quanto pare.

Più ci penso, più mi convinco che con il trionfo definitivo del liberalismo nell’ultimo mezzo secolo, la nostra società abbia subito una trasformazione radicale e nichilista verso una forma pura senza sostanza, e una mera esistenza senza nulla che si possa ragionevolmente definire vita. Quindi, quando le persone si lamentano che la vita oggi sembra priva di significato, è perché lo è davvero. Quando le persone dicono di non avere nulla da aspettarsi, è perché non hanno nulla. Quando le persone muoiono giovani, per disperazione o suicidio, è una reazione del tutto naturale e logica al mondo di oggi. Come suggerirò, ci stiamo avvicinando all’apoteosi del liberalismo: una società che è tutta forma e processo senza contenuto, nient’altro che la ricerca universale e meccanica della quintessenza dell’interesse individuale, imposta da un quadro di leggi draconiane e che porta teoricamente a un mercato perfettamente funzionante in cui tutti i desideri sono soddisfatti automaticamente. Solo che il liberalismo non ha idea di cosa siano questi desideri.

Ora, potresti ragionevolmente dire: aspetta un attimo. Non ci sono state società in passato in cui le persone erano disperate? Beh, sì: molte, in effetti. Pensa alla malinconia di moda ai tempi di Shakespeare, descritta nel monologo di Amleto sul suicidio:

Com’è stancante, stantio, piatto e inutile,

Mi sembrano tutti gli usi di questo mondo!

È un tema ricorrente nelle storie sugli aristocratici annoiati, da Peacock a Cechov, e nell’era romantica nei suicidi ispirati, ad esempio, da Goethe I dolori del giovane Werther. Un senso di futilità e stanchezza nei confronti della vita permeava gran parte delle prime poesie di T. S. Eliot e, naturalmente, Albert Camus fece dell’assurdità della vita in un mondo senza Dio un’intera attività, chiedendosi se l’unica vera questione filosofica fosse se suicidarsi o meno. E ce ne sono molti altri.

Ma avrete notato che si tratta di scrittori e filosofi, che esprimevano una reazione personale al loro mondo che all’epoca non era affatto condivisa da tutti. La differenza oggi è che la vita è ufficialmente destinata a non avere alcuno scopo, al di fuori del minimalismo liberale che consiste nell’estrarre denaro dall’economia e dagli altri per il proprio tornaconto. I personaggi ridicoli e disprezzati nella letteratura del passato sono ora modelli di riferimento: Arpagone di Molière, Barabas di Marlowe (“ricchezze infinite in una piccola stanza”). Non è nemmeno che il consumo ostentato fosse davvero l’obiettivo: la maggior parte delle “ricchezze” consiste in uno e zero memorizzati nelle reti informatiche, o in quella che io descrivo come ricchezza di Schrödinger: credenziali che potrebbero dare accesso al denaro se potessero essere vendute. I milionari che accendevano i sigari con banconote da cinquanta dollari almeno fornivano un po’ di intrattenimento.

Pertanto, al di là della ricerca incessante del proprio interesse razionale, non è affatto chiaro quale sia il vero scopo di una società liberale for. Qual è lo scopo di accumulare sempre più stringhe di uno e zero in competizione tra loro? Perché dovremmo avvicinarci sempre più a un mondo senza attriti in cui le risorse sono distribuite in modo perfetto? E cosa succederà allora? Ci sono un paio di teorie che accennerò brevemente, ma nessuna delle due è davvero soddisfacente.

Uno è che stiamo perseguendo la crescita. Ma è evidente che non è vero, semplicemente perché le economie liberali hanno avuto molto meno successo di quelle gestite collettivamente del passato, e una nazione sinceramente interessata alla crescita non distruggerebbe la propria industria, le proprie infrastrutture e il proprio sistema educativo. In realtà, con l’inasprirsi della morsa del liberalismo, la crescita, nel senso novecentesco del termine, è praticamente scomparsa e in molte economie occidentali la crescita nominale del PIL riguarda principalmente l’inflazione dei prezzi degli asset. (Quanto vale la tua casa?) Abbiamo assistito a un massiccio trasferimento di risorse dai cittadini comuni ai ricchi, e i ricchi sono l’unica classe la cui ricchezza è effettivamente aumentata in termini netti. In effetti, il partito ha ormai abbandonato la crescita come obiettivo, perché richiederebbe cose inaccettabili come investimenti, formazione, istruzione e intervento del governo. È molto più facile organizzare un’altra incursione violenta contro i poveri.

Quindi non è la crescita. Ma che dire dell’altra alternativa, il progresso? Beh, il progresso nel senso in cui lo conoscevamo nella mia giovinezza ha iniziato a rallentare dopo gli sbarchi lunari dell’Apollo. In alcuni paesi occidentali è continuato negli anni ’70 con treni ad alta velocità e tecnologie anti-inquinamento, ma il Partito, allora in forma embrionale, aveva iniziato a rendersi conto che in realtà non era necessario. Il progresso, nel senso tradizionale di miglioramento della vita della gente comune, era stato a lungo un fattore determinante per l’ottenimento di voti, e nemmeno i partiti di destra potevano ignorarlo completamente. Ma da qualche tempo il Partito ha semplicemente deciso che non ci sarà più progresso, perché è troppo costoso e potenzialmente pericoloso, e comunque non è necessario fintanto che tutte le fazioni del Partito concordano di non usarlo l’una contro l’altra. Quindi, dove prima c’era il progresso, ora c’è il regresso. Si dà per scontato che la vita della gente comune diventerà meno sicura, che sarà meno in grado di nutrirsi e vestirsi adeguatamente e di mantenersi dignitosamente, che i propri figli non potranno mai permettersi una casa propria, che gli standard sanitari e scolastici peggioreranno e che le infrastrutture del Paese andranno sempre più in rovina. Il progresso richiede duro lavoro, etica, dedizione, investimenti per il futuro, istruzione e, soprattutto, un senso di solidarietà sociale. Il regresso richiede solo di mostrare il dito medio all’elettorato che, si suppone, non ha comunque altro posto dove andare.

Beh, se tutto il resto fallisce, non si tratta semplicemente di avidità e accumulo di ricchezza e potere da parte dei ricchi, se si può definire questo come uno “scopo”? Anche questo mi sembra dubbio, o almeno mi sembra che abbia superato ogni attività economica razionale, diventando puramente patologico. Quando si “vale” diciamo dieci trilioni di dollari, in un certo senso il valore teorico dei buoni elettronici se potessero essere venduti, quale ragione razionale, impeccabilmente liberale, potrebbe esserci per cercare di valere undici trilioni?

Quindi il liberalismo moderno (tra un attimo daremo uno sguardo al passato) non ha come obiettivo né la crescita né il progresso. Che cosa ha allora? Nulla, in realtà, e questo è ciò che fa paura. Poiché è tutto un processo senza contenuto, in linea di principio può andare avanti all’infinito, mentre la macchina macina ostacoli sempre più piccoli al nirvana liberale di un perfetto equilibrio nella ricerca razionale dell’interesse individuale. Il liberalismo è l’epitome del pensiero della parte sinistra del cervello senza interruttore di spegnimento: secondo Iain MacGilchrist, l’Emissario ha usurpato il Maestro ed è ora fuori controllo.

Questa distruzione incontrollata, simile alle azioni di un mostro di Frankenstein, è possibile solo a causa della mancanza di principi morali guida di applicazione generale. Infatti, i primi liberali affermavano specificatamente, e i liberali moderni credevano, che l’etica e la morale fossero una questione puramente personale e che ognuno dovesse essere libero di avere le proprie, a condizione che non le imponesse agli altri. Questo suona bene in teoria, finché non ci rendiamo conto che, in pratica, le società prive di norme morali ed etiche generalizzate (anche se controverse o contrastanti) non possono realmente essere delle società e quindi non possono nemmeno funzionare. Questo è ciò che sta accadendo ora, con grande sorpresa dei liberali e di altri. Ma cosa si aspettavano?

Naturalmente, sia individualmente che in gruppo, i liberali hanno sostenuto cause morali ed etiche. Ma si tratta in gran parte di una coincidenza. I liberali avrebbero normalmente sostenuto la schiavitù, ad esempio, in quanto economicamente efficiente. Ma in Gran Bretagna non solo hanno avuto un ruolo di primo piano nella lotta contro la tratta degli schiavi nell’Atlantico, ma hanno anche spinto il governo a cercare di eliminare il commercio stesso in Africa e nel Golfo. Ma questo perché gli abolizionisti erano devoti cristiani non conformisti, non perché erano liberali. E più recentemente, i liberali hanno sostenuto riforme economiche progressiste, soprattutto per evitare la concorrenza dei loro acerrimi nemici, i socialisti. Ora, tutto è diverso. Nella regione francese dello Champagne, nientemeno, ci sono stati ripetuti scandali sul traffico di immigrati clandestini provenienti dall’Africa occidentale e dall’Afghanistan, alcuni dei quali bambini, per lavorare alla vendemmia. Acquistati da veri e propri mercanti di schiavi a Parigi, pagati pochissimo, malnutriti e senza un alloggio, quest’anno alcuni di loro sono morti per un colpo di calore nei campi. La vicenda non ha ricevuto molta pubblicità, come ci si aspetterebbe in una società liberale. Dopotutto, questo è ciò che la concorrenza fa ai salari e alle condizioni di lavoro.

In pratica, il liberalismo è una filosofia nichilista che considera tutte le relazioni sociali e familiari, tutte le comunità, tutta la cultura e la storia condivise, tutti i sentimenti e le azioni altruistiche come ostacoli da eliminare nel progresso teleologico verso un’utopia in cui la vita umana consisterà esclusivamente in scelte razionali e egoistiche. Pertanto, le decisioni relative alle relazioni personali, come sposarsi, avere figli, comportarsi con amici, familiari e colleghi, sono guidate esclusivamente da considerazioni di razionale interesse personale. Nella misura in cui la stragrande maggioranza non vuole, e non ha mai voluto, condurre una vita vuota e priva di significato basata sull’egoismo e l’egocentrismo, il liberalismo ha dovuto lottare strenuamente per sopprimere le caratteristiche più fondamentali della natura umana. In effetti, il liberalismo è in una certa misura il tentativo di ingegneria sociale utopistica più ambizioso, duraturo e spietato della storia umana. È anche indiscutibilmente il più riuscito, data la sua predominanza politica in Occidente e la sua più ampia influenza globale.

Ma come ideologia è puramente distruttiva, incapace di sapere dove fermarsi. I suoi sostenitori si considerano “eliminatori degli ostacoli alla concorrenza”, ma nonostante la qualifica sbandierata di “libero ed equo”, in pratica le sue istituzioni non fanno alcun tentativo reale di applicare controlli morali o etici all’attività economica, né tantomeno di far rispettare le leggi esistenti. (In effetti, far rispettare le leggi sulle condizioni di lavoro mette il vostro paese in una posizione di svantaggio competitivo rispetto ai paesi che non lo fanno). Il risultato, come ci si potrebbe aspettare, è una corsa al ribasso sociale ed economica, dove ogni volta che pensate di aver sentito tutto, succede qualcosa di peggio. Il risultato inevitabile è la riduzione dell’essere umano allo status di materia prima, da utilizzare e poi gettare via. Non c’è da stupirsi che la nostra casta di tecno-fantastici non veda l’ora di avere una forza lavoro composta da robot. Siamo già a metà strada.

Questa è solitamente la fase della discussione di qualsiasi filosofia fallita in cui viene tirato fuori l’argomento del “vero scozzese”. Non è mai stato provato adeguatamente/hai frainteso ciò che X ha scritto a Y nell’anno Z/ questo libro moderno spiega come farlo correttamente/non è quello che volevano i fondatori/la teoria è stata stravolta, e così via. E senza dubbio si possono trovare liberali che erano gentili con i bambini e gli animali e personalmente affascinanti con gli altri. Ma dai loro frutti li riconoscerete, e doveva essere ovvio fin dall’inizio che una teoria di egoismo radicale e di egoismo che cercava di rovesciare la tradizione e la società e di introdurre un mondo privo di valori alla ricerca dell’interesse personale, sarebbe finita male. I critici dei primi tempi del liberalismo lo capirono e lo articolarono molto bene, che fossero tradizionalisti della corona e della chiesa, socialisti o anarchici. I liberali pensanti di oggi assomigliano sempre più a quegli scienziati illusi dei film di fantascienza degli anni ’50: se solo avessi capito le implicazioni di ciò che stavo facendo in quel momento…

Quindi l’impersonalità dell’individuo nei confronti dell’individuo è stata parte integrante del liberalismo sin dall’inizio. Ora, naturalmente, la schiavitù e altre forme di sfruttamento estremo degli esseri umani risalgono a migliaia di anni fa in quasi tutte le parti del mondo. Ma ciò che è nuovo nell’ultimo secolo circa è proprio la gestione razionale di questo sfruttamento che ci aspetteremmo dal liberalismo, con la sua venerazione dell’astratta “efficienza”. Perché l’attuale trattamento liberale degli esseri umani come materia prima da gestire e poi smaltire ha alcuni antecedenti, e piuttosto inquietanti, nelle dittature totalitarie del secolo scorso. Tendiamo a dimenticare che quando i bolscevichi iniziarono il processo di modernizzazione della nuova Unione Sovietica, il modello a cui si ispirarono fu quello degli Stati Uniti: l’apice dell’innovazione tecnologica e gestionale dell’epoca. Le nuove strutture governative (il Partito Comunista Sovietico era la casta professionale e manageriale originale) abbracciarono con entusiasmo la teoria manageriale americana e cercarono la salvezza attraverso le statistiche. (Stalin era un particolare fan del guru americano del management Frederick Taylor e affascinato dai metodi di produzione di Henry Ford). C’erano obiettivi per tutto: anche all’NKVD venivano assegnati obiettivi per il numero di agenti trotskisti da scoprire e arrestare, il che portò in seguito a problemi pratici.

Gli storici discuteranno ancora a lungo su quanto le purghe di Stalin fossero calcolate e quanto fossero invece il risultato di una personalità paranoica. Ma le purghe non fecero altro che incoraggiare il perseguimento razionale dell’interesse personale, che in questo caso significava denunciare il proprio collega prima che lui o lei potesse denunciare te. Persino l’NKVD si fece a pezzi con entusiasmo, e il potere e la sopravvivenza nel partito non derivavano dalla competenza o dall’esperienza, ma proprio dalle squallide abilità PMC di oggi: adulare, trovare protettori, tenere la testa bassa e, soprattutto, padroneggiare la verbosità e i cliché del marxismo-leninismo di Stalin. Il risultato della mentalità manageriale taylorista del Partito fu la spietata astrazione degli esseri umani in semplici numeri per soddisfare le quote di produzione e gli obiettivi di costruzione, soprattutto attraverso l’uso (e l’abuso) del lavoro carcerario, in cui morirono decine di migliaia di persone.

Ma quello era solo il riscaldamento del ventesimo secolo. In precedenza ho paragonato i nazisti a consulenti aziendali psicopatici, ed erano proprio loro ad aver perfezionato l’uso degli esseri umani come meri fattori di produzione, da procurarsi, utilizzare e gettare via quando non servivano più. I campi di lavoro gestiti dai nazisti (non entreremo ora nel merito della terminologia confusa dei campi di “concentramento”) cercavano di spremere fino all’ultima goccia di vantaggio dalle popolazioni dei paesi conquistati. Le loro economie venivano saccheggiate, le loro risorse rubate, le loro popolazioni erano essenzialmente dei servi. Soprattutto, c’era bisogno di manodopera. L’uso dei prigionieri per i lavori forzati era iniziato nella stessa Germania negli anni ’30, principalmente come misura di risparmio sui costi. Successivamente fu esteso ai territori occupati, soprattutto nell’Est, dove i più abili venivano messi al lavoro e quelli incapaci di lavorare venivano uccisi. (I prototipi di MBA delle SS, che attiravano molti intellettuali, presentavano senza dubbio prototipi di presentazioni PowerPoint sui vantaggi di tali programmi).

Ma in realtà la situazione era già fuori controllo: il processo stava prendendo il sopravvento. I documenti riportano accese discussioni tra diverse parti delle SS sul trattamento dei prigionieri. Anche il loro destino sembrava arbitrario, intrappolato in un sistema che ormai nessuno controllava più. Così circa 200.000 francesi furono deportati nei campi in Germania, circa un terzo per attività di resistenza diretta, il resto per una serie di motivi politici. (Solo circa la metà sopravvisse.) Eppure la loro selezione era poco logica. Alcuni Résistants furono fucilati senza processo, altri dopo un processo, altri ancora furono deportati e uccisi immediatamente, altri furono utilizzati come schiavi, altri furono persino costretti a lavorare come specialisti. Nessuno sapeva perché, e le vite venivano tolte o salvate in modo apparentemente arbitrario. Il resistente italiano Primo Levi, uno scienziato la cui vita era stata risparmiata perché aveva competenze in chimica, provò a chiedere a una guardia ad Auschwitz perché le cose fossero organizzate in quel modo nel campo. Hier ist kein warum fu la risposta: qui non ci sono “perché”.

Questo potrebbe davvero essere il motto della società liberale. Non ci sono perché, solo processi e procedure. Non ci sono scopi reali, ma solo una serie di “obiettivi” inutili. L’unica risposta è “perché”. Il risultato non ha importanza. Recentemente ho parlato con una persona che aveva subito un trattamento per il cancro che le aveva causato inutili danni neurologici. Il trattamento avrebbe potuto essere interrotto prima, ma a quanto pare “il protocollo” per il trattamento non poteva essere modificato, nemmeno da chirurghi eminenti. Un altro esempio della serie infinita di trionfi della forma sulla sostanza e del processo sull’obiettivo che caratterizzano necessariamente una società liberale matura. Alla fine, i pazienti sono solo un altro input, come le mascherine chirurgiche e i medicinali. È il processo che conta. E questo è ormai tipico delle organizzazioni nel loro complesso: le università hanno cose molto più importanti da fare che sprecare tempo e denaro per istruire adeguatamente gli studenti, proprio come le aziende private ora odiano i loro clienti e cercano di derubarli. Decenni fa, quando iniziò la sciocchezza del “le persone sono la nostra risorsa più importante” (se fosse vero non ci sarebbe bisogno di continuare a ripeterlo), mi imbattei in una vignetta di Dilbert che esprimeva in modo ammirevole la situazione reale. Pensavo fosse scomparsa, ma l’ho ritrovata qui.

A loro discolpa (ammesso che qualcuno volesse difenderli), i sovietici e i nazisti almeno pensavano di stare cercando di realizzare qualcosa. Stalin avrà anche usato gli esseri umani come semplici unità di conto, ma il Canale Mar Bianco-Volga fu inaugurato nel 1933, in anticipo rispetto al programma e nonostante le migliaia di morti tra la forza lavoro composta principalmente da prigionieri. Anche i nazisti, in linea di principio, cercavano di sostenere il loro sforzo bellico con milioni di lavoratori forzati, anche se l’impulso di sterminare le razze inferiori contrapposto alla necessità di una forza lavoro effettivamente in grado di lavorare, produsse un caos burocratico che rese ancora più grottesca l’orrenda sofferenza umana che ne derivò.

Al contrario, il managerialismo liberale, come ho suggerito, non ha in realtà alcun obiettivo, se non la vaga ricerca teleologica di uno stato di pura concorrenza e di infinita libertà personale, entrambi per definizione irraggiungibili in questo mondo ed entrambi richiedenti la distruzione incessante di ogni organizzazione e società che possa ostacolarli. È questo aspetto quasi religioso, credo, che aiuta a spiegare molte delle caratteristiche più sconcertanti del liberalismo realmente esistente. Dopo tutto, voltare le spalle alla crescita e al progresso può fornire benefici finanziari a breve termine a chi ha comunque troppo denaro, ma sta già iniziando ad avere un impatto negativo sulla vita stessa del clero liberale. Il degrado delle infrastrutture, il fallimento dei sistemi educativi e il deterioramento dei servizi pubblici finiranno per avere un impatto su tutti, fino al più malvagio dei cattivi con i baffi arricciati. Quando Amazon non potrà consegnare i pacchi perché non riuscirà a reclutare persone che sappiano leggere, perché alcune zone delle città saranno controllate da bande di trafficanti di droga e le strade e i ponti non saranno abbastanza sicuri da poter essere utilizzati, allora sarà arrivata una certa nemesi. I ristoranti stanno già chiudendo nelle grandi città perché il personale non può permettersi di vivere in loco. Improvvisamente, l’enoteca locale chiude perché il franchisee non può permettersi l’affitto. L’officina locale che ripara entrambe le vostre auto chiude. Il supermercato all’angolo chiude presto perché è troppo pericoloso per il personale prendere i mezzi pubblici di notte. La situazione sta cominciando a sembrare grave, anche se le statistiche dicono che va tutto bene.

Una generazione fa, Thomas Frank ha sottolineato i pericoli di divinizzare “il Mercato” e di pensarlo in modo simile al funzionamento della religione. Stava scrivendo degli Stati Uniti, ma tali idee si sono ormai diffuse ampiamente. In un modo che sarebbe sembrato inconcepibile in qualsiasi altro momento della storia, “il Mercato” è stato reificato, come se fosse una cosa realmente esistente, come il tempo atmosferico, e non un’abbreviazione per indicare orde di persone sporche e spesso ignoranti che comprano e vendono pezzi di carta elettronica. Eppure il punto fondamentale del Mercato, ovviamente, dovrebbe essere che esso è benevolo, se solo lo veneriamo e lo lasciamo in pace. E ha molte delle caratteristiche di Dio, una delle quali è l’onniscienza.

La prima volta che ti imbatti nella teoria della concorrenza perfetta (talvolta chiamata informazione perfetta), probabilmente penserai di esserti imbattuto in una parodia delle caratteristiche più stupide dell’economia moderna. Ma no, esiste, domina il pensiero economico e Amazon è piena di costosi libri di testo al riguardo. Essa afferma che tutti gli attori dell’economia dispongono di informazioni perfette sui prezzi e sull’offerta, che tutti i concorrenti producono beni intercambiabili della stessa qualità e che non ci sono costi di transazione come pubblicità, trasporti, affitti, prestiti o personale. Non c’è da stupirsi che la maggior parte delle persone pensi che sia una parodia. Significherebbe che se volessi comprare una camicia blu, per esempio, avrei informazioni perfette sul costo e sulla disponibilità di tutte le camicie blu (che sarebbero identiche) e, a loro volta, i produttori di camicie conoscerebbero il prezzo e le altre preferenze di tutti i potenziali acquirenti di camicie blu. Potrei entrare nel primo negozio di abbigliamento maschile che incontro e acquistare la prima camicia blu che vedo, sicuro che sarebbe esattamente quella che desidero al prezzo che sono disposto a pagare e che il negozio è disposto a vendere (che sarebbe lo stesso prezzo di tutti gli altri negozi, perché la concorrenza è perfetta).

Messa in questi termini, l’idea sembra folle quanto lo è in realtà. Ma ecco un economista, che sabato pomeriggio ha passato il tempo a cercare una camicia blu che gli piacesse senza riuscire a trovarla, a dirci che ovviamente si tratta solo di un “modello idealizzato”. In pratica, sì, il mondo è più complicato di così, ma non è forse un meccanismo utile per giudicare quanto sia “imperfetta” la concorrenza reale, in modo da poterla rendere più perfetta? No, non proprio. È come insegnare i principi della meteorologia partendo dal presupposto che le temperature, i venti e le precipitazioni siano identici in tutto il mondo, prima di passare ad analizzare le “imperfezioni”.

Eppure, come spesso accade, il vero problema non sono i teologi e gli ideologi dallo sguardo fisso, ma piuttosto i decisori politici che li ascoltano solo a metà. L’idea del “Mercato” come meccanismo autoregolante in cui una mano invisibile risolverà effettivamente tutti i problemi a un livello più alto di astrazione, si è insinuata nell’inconscio collettivo dei decisori politici, anche se questi ultimi non riescono a capirne appieno il funzionamento. Nel frattempo, come i teologi medievali, gli economisti ci dicono di non preoccuparci se le cose sembrano andare male, perché forze potenti che non possiamo comprendere le risolveranno in modi che non possiamo capire. Finché non lo fanno. Così in Francia, il monopolio di France Telecom è stato spezzato in nome della “concorrenza” e ora ci sono quattro operatori di telefonia mobile (di cui il vecchio FT, ora Orange, è in qualche modo il migliore). Tuttavia, il mercato non è abbastanza grande e uno dei quattro operatori versa in cattive condizioni e potrebbe essere acquistato da un altro. Quindi ora si chiede al governo di spendere denaro pubblico per sovvenzionare il mercato, mantenere in attività i quattro operatori e preservare la concorrenza per contenere i prezzi. Naturalmente un monopolio statale può fissare i prezzi più bassi che vuole, ma non sarebbe divertente. E così via.

Se teniamo presente la natura essenzialmente religiosa della fede nel “Mercato”, diversi aspetti degli ultimi due decenni diventano più chiari. Soprattutto, le decisioni prese dal “Mercato” sono necessariamente giuste, anche se i comuni mortali non riescono a comprenderle. Pertanto, chiudere le fabbriche, delocalizzare la produzione, dequalificare l’industria, diventare dipendenti da paesi potenzialmente ostili per le materie prime, sono state tutte decisioni giuste da prendere, perché tutte le decisioni prese dal “Mercato” sono necessariamente giuste, anche se i comuni mortali non riescono a comprenderle. Nel quadro di riferimento liberale, la concorrenza produce sempre la risposta giusta, a meno che il governo non interferisca.

Ma si può spingere questa logica ancora oltre. Forse, dopotutto, non abbiamo bisogno di alcuna istruzione oltre il livello elementare. Se non c’è mercato per ingegneri e scienziati, allora potremmo anche chiudere i dipartimenti, perché chiaramente non sono necessari. Dopotutto, se ce ne fosse bisogno, i datori di lavoro chiederebbero alle università di formarne di più. Se l’offerta effettiva di istruzione, formazione tecnica, competenze infrastrutturali, lingue straniere e abilità manuali fosse importante, allora il settore privato farebbe a gara per fornirla. Ma se le decisioni effettive degli attori economici sono quelle di tagliare e bruciare i sistemi educativi e sanitari, le infrastrutture e la capacità industriale, beh, quelle devono essere le decisioni giuste, anche se non riusciamo a capirne il motivo, dobbiamo solo accettarle con fede. L’aumento dei tassi di criminalità perché non ci sono abbastanza poliziotti, i tempi di attesa più lunghi perché non ci sono abbastanza medici, il calo degli standard educativi perché non ci sono abbastanza insegnanti, sono problemi che alla fine saranno misteriosamente risolti.

D’altra parte, se gli obiettivi finali devono essere lasciati alla saggezza superiore del mercato, possiamo divertirci molto con la gestione del processo stesso e ricavarne un sacco di soldi. Da qui la crescita rigogliosa delle erbacce amministrative attorno alle parti operative di ogni organizzazione odierna. Alla fine, non importa se gli studenti ricevono una buona istruzione: otterranno un certificato che darà loro diritto a un lavoro (o almeno così era) in cui la loro competenza non avrà importanza, perché alla fine saranno gli dei del liberalismo a sistemare tutto. La qualità degli studenti ammessi e del personale docente non ha importanza, alla fine ciò che conta sono cose che possiamo misurare, come il colore della pelle e l’orientamento sessuale. Il liberalismo è, come molti hanno notato, una forma secolare di deismo, in cui l’universo è strutturato da un Dio benevolo ma assente che, una volta premuto il pulsante, produrrà automaticamente, se non necessariamente l’utopia, allora, come pensava Leibniz, il miglior risultato possibile nelle circostanze. C’è poco o nulla che gli esseri umani possano fare per migliorare ulteriormente questo risultato, ed è consigliabile non provarci.

Ciononostante, il tentativo di imporre, talvolta con la forza letterale, un ambizioso e utopistico programma di riforme sociali ed economiche ha portato con sé alcuni problemi. Il più evidente è che i principi del liberalismo – la concorrenza basata sul razionale interesse personale – sono in netto contrasto con il modo in cui la maggior parte delle persone desidera vivere la propria vita. In generale, le persone cooperano tra loro ove possibile e formano e mantengono legami comunitari. Essa rispetta anche standard etici e morali che vanno oltre l’interesse individuale. Inoltre, una società basata esclusivamente sull’interesse individuale non può semplicemente sopravvivere: come ho sottolineato più volte, una società liberale dipende per la sua stessa sopravvivenza dall’impegno di persone (medici, insegnanti, poliziotti, netturbini) che non lavorano principalmente per interesse personale. Allo stesso modo, l’introduzione forzata di idee liberali nelle organizzazioni (usando il denaro per motivare le persone, tagliando i numeri e riducendo le prospettive, costringendo le persone a competere tra loro, coprendo tutto con strati di burocrazia) distrugge quelle organizzazioni, con conseguenze che alla fine influenzano lo stesso PMC liberale. Infine, da un elenco molto lungo, la mancanza di qualsiasi fondamento etico del liberalismo stesso e la sua distruzione dei fondamenti già esistenti incoraggiano necessariamente comportamenti non etici e criminali, poiché la disonestà è un tipo razionale di comportamento egoistico. Come ho già sottolineato in precedenza, la corruzione è in realtà logica e razionale in una società liberale, e il liberalismo non ha argomenti di principio contro di essa. E naturalmente la mancanza di fiducia tra individui e organizzazioni così generata, significa leggi e regolamenti infiniti progettati per far fronte alle conseguenze.

A volte si sostiene che il valore fondamentale del liberalismo sia la libertà, ma la maggior parte degli osservatori imparziali avrebbe difficoltà a crederlo oggi. Le origini contano: la “libertà” che i liberali originari cercavano era essenzialmente quella di promuovere i propri interessi economici e politici e le proprie opinioni, e di organizzarsi politicamente contro la monarchia. Cercavano il potere e la libertà dai vincoli per se stessi, mentre lavoravano per negarli (spesso brutalmente) alla gente comune. La generalizzazione dei principi liberali è per definizione impossibile, perché la libertà non è cumulativa, ma (ironicamente) competitiva. Quindi il liberalismo promuove esattamente il tentativo competitivo di imporre obblighi agli altri in nome della “mia libertà”, come ci si aspetterebbe. Poiché nel liberalismo non esistono standard etici, le discussioni si svolgono nei tribunali, davanti a giudici che dovrebbero semplicemente interpretare la legge e dire tecnicamente chi ha ragione e quale libertà dovrebbe prevalere. Il risultato è quello di affidare quelli che sono fondamentalmente giudizi politici ed etici a gruppi di giuristi che sono irrimediabilmente inadeguati al compito e, in ultima analisi, di screditare la legge. Questo è anche, ironicamente, il motivo per cui le società liberali, che si dicono così favorevoli alla libertà personale, hanno introdotto così tante leggi che regolano il comportamento personale: non hanno altro modo per affrontare i problemi sociali che esse stesse hanno creato. La libertà deve essere distrutta per salvarla: un argomento familiare alla storia, credo.

Ma sicuramente la libertà personale significa che puoi fare quello che vuoi purché ciò abbia ripercussioni solo su di te? Non è così semplice. Un paio di settimane fa, un personaggio famoso in Francia, che aveva fatto fortuna facendosi volontariamente insultare, umiliare e aggredire dai suoi colleghi, è morto davanti al suo pubblico. Ancora una volta, l’opinione liberale sta iniziando a dire che beh, ci devono essere alcuni limiti a ciò che le persone possono liberamente acconsentire, perché lo sfortunato individuo in questione sicuramente non avrebbe potuto scegliere liberamente di soffrire in questo modo, deve essere stato manipolato. Aggiungiamo qualche teoria sub-foucaultiana sulle gerarchie di potere, il patriarcato, ecc. ecc. e vedremo che molto presto la vostra “libertà” di fare certe cose potrebbe essere cancellata perché sarete giudicati non realmente “liberi”.

La settimana scorsa ho citato un commento di Guy Debord secondo cui le società liberali preferiscono essere conosciute dai loro nemici piuttosto che per i loro risultati. Quando non si hanno risultati, è necessario avere un gran numero di nemici. Questo è uno dei motivi principali dell’odio irrazionale che si prova attualmente nei confronti della Russia. L’esternalizzazione delle tensioni in un ambiente politico svuotato di qualsiasi contenuto è destinata a essere incontrollata e violenta, e naturalmente l’esistenza di un nemico esterno fornisce, a sua volta, una scusa per identificare e prendere di mira i nemici interni che si cerca di identificare con essi. Questo è ciò che fanno le società liberali al posto della politica. Ma quando i nemici esterni non riescono a soddisfare, o diventano obsoleti, quelle energie che normalmente sarebbero dirette verso un dibattito sano e discussioni sulle politiche diventano solo lotte tra fazioni e epurazione dei nemici. E se il partito non vuole autodistruggersi, deve trovare, o se necessario creare, nemici concordati nella società in generale.

E così arriviamo alla sordida tragicommedia della lotta contro l’«estrema destra», che ricorda molto la lotta contro il deviazionismo di destra e di sinistra nella Russia di Stalin. Dove non c’erano nemici, era necessario crearli e dotarli di ideologie pericolose e terribili. In realtà, sono ormai cinquant’anni che non è più possibile classificare nettamente le idee come «di destra» o «di sinistra». Alcune idee di “estrema destra”, come il controllo della proprietà straniera o la necessità di una politica industriale, un tempo facevano parte del consenso dell’epoca. Altre, come il controllo dell’immigrazione economica, erano storicamente cause della sinistra.

L’evacuazione liberale della politica dalla politica e la sua trasformazione in un esercizio tecnico-manageriale significa che, per definizione, le preoccupazioni della gente comune devono essere ignorate. Nella misura in cui non possono essere ignorate, devono essere delegittimata associandole all'”estremismo”. Il processo è quindi abbastanza semplice da descrivere. (1) Rifiutarsi di parlare di un problema che sta a cuore alla popolazione. (2) Lasciare che siano i gruppi esterni al partito gli unici a parlarne. (3) Affermare che quindi solo l'”estrema destra” è interessata al problema. In questo modo, un sistema politico che non ha nulla da offrire e nessuna base morale o etica è almeno in grado di trovare un nemico contro cui mobilitarsi.

Ma ci sono segnali che indicano che questo astuto piano non funziona più come prima. La gente è preoccupata per la povertà, l’insicurezza, l’immigrazione, la criminalità, l’istruzione dei propri figli e molte altre questioni, non perché è stata influenzata dalla propaganda dell'”estrema destra”, ma a causa delle esperienze che vive quotidianamente. È stanca di ricevere istruzioni su chi votare contro, senza che le venga offerto nulla per cui votare. Il fatto è che la nostra classe politica e i suoi parassiti non sono molto brillanti e nella vita reale non ci sono menti criminali con i baffi arricciati dietro di loro. Ma sono intrappolati nella loro stessa ideologia e nella loro propaganda, e senza dubbio continueranno a cercare compiacentemente di godersi tranquillamente le loro proprietà quando la folla arriverà a rompere le finestre

Vista da Londra: la guerra civile arriva in Occidente

Vista da Londra: la guerra civile arriva in Occidente

12:13 25.08.2025 •

Il Campidoglio degli Stati Uniti è stato preso d’assalto il 6 gennaio 2021.
Foto: Military Strategy Magazine

“Perché è corretto percepire il crescente pericolo di violenti conflitti interni che stanno scoppiando in Occidente? Quali sono le strategie e le tattiche che saranno probabilmente impiegate nelle future guerre civili in Occidente e da chi?”, si chiede David Betz , professore di Guerra nel mondo moderno presso il Dipartimento di Studi sulla Guerra del King’s College di Londra.

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…“L’Europa è un giardino. Abbiamo costruito un giardino. Tutto funziona. È la migliore combinazione di libertà politica, prosperità economica e coesione sociale che l’umanità sia riuscita a costruire: le tre cose insieme… La maggior parte del resto del mondo è una giungla…”

Lo ha affermato il capo degli Affari esteri dell’UE, Josep Borrell, a Bruges nell’ottobre 2022. I dizionari futuri lo useranno come esempio per la definizione di hybris.

Questo perché la principale minaccia alla sicurezza e alla prosperità dell’Occidente oggi deriva dalla sua stessa grave instabilità sociale, dal declino strutturale ed economico, dall’inaridimento culturale e, a mio avviso, dalla pusillanimità delle élite. Alcuni studiosi hanno iniziato a lanciare l’allarme, in particolare “How Civil Wars Start — and How to Stop Them” di Barbara Walter, che si occupa principalmente della precaria stabilità interna degli Stati Uniti. A giudicare dal discorso del presidente Biden del settembre 2022, in cui ha dichiarato che “i repubblicani del MAGA rappresentano un estremismo che minaccia le fondamenta stesse della nostra repubblica”, i governi stanno iniziando a prestare attenzione, seppur con cautela e goffaggine.

Tuttavia, il campo degli studi strategici tace ampiamente sulla questione, il che è strano perché dovrebbe essere motivo di preoccupazione. Perché è corretto percepire il crescente pericolo di violenti conflitti interni che stanno scoppiando in Occidente? Quali sono le strategie e le tattiche che saranno probabilmente impiegate nelle future guerre civili in Occidente e da chi?

Rivolte di Belfast 2011.
Foto: Military Strategy Magazine

Cause

La letteratura sulle guerre civili è unanime su due punti. In primo luogo, non riguardano gli stati ricchi e, in secondo luogo, le nazioni che possiedono stabilità governativa sono in gran parte esenti dal fenomeno. Vi sono diversi gradi di ambiguità su quanto sia importante il tipo di regime, sebbene la maggior parte concordi sul fatto che le democrazie percepite come legittime e le autocrazie forti siano stabili. Nelle prime, le persone non si ribellano perché confidano che il sistema politico funzioni complessivamente in modo giusto. Nelle seconde, non lo fanno perché le autorità identificano e puniscono i dissidenti prima che ne abbiano la possibilità.

Un’altra preoccupazione importante è la fazionalizzazione, ma le società estremamente eterogenee non sono più inclini alla guerra civile di quelle molto omogenee. Ciò è dovuto agli elevati “costi di coordinamento” tra le comunità presenti nelle prime, che mitigano la formazione di movimenti di massa. Le più instabili sono le società moderatamente omogenee, in particolare quando si percepisce un cambiamento nello status di una maggioranza titolare, o di una minoranza significativa, che possiede i mezzi per ribellarsi autonomamente. Al contrario, nelle società composte da molte piccole minoranze, il “dividi et impera” può essere un meccanismo efficace per controllare una popolazione.

La questione, piuttosto, è se l’ipotesi delle condizioni che hanno tradizionalmente posto le nazioni occidentali al di fuori del quadro di analisi delle persone interessate da esplosioni di violenta discordia civile su larga scala e persistenti sia ancora valida.

Le prove suggeriscono fortemente di no. In effetti, già alla fine della Guerra Fredda alcuni percepivano che la cultura che aveva “vinto” quel conflitto stava iniziando a frammentarsi e degenerare. Nel 1991, Arthur Schlesinger sosteneva in “The Disuniting of America” ​​che il “culto dell’etnicità” metteva sempre più a repentaglio l’unità di quella società. Questa era una previsione lungimirante.

Si considerino i sorprendenti risultati del “Barometro della Fiducia” di Edelman negli ultimi vent’anni. “La sfiducia”, ha concluso di recente, “è ormai l’emozione predefinita della società”. La situazione in America, come dimostrato da ricerche correlate, è estremamente negativa. Nel 2019, anche prima delle contestate elezioni di Biden e dell’epidemia di Covid, il 68% degli americani concordava sull’urgente necessità di ripristinare i livelli di “fiducia” nella società e nel governo, con la metà che affermava che la perdita di fiducia fosse dovuta a una “malattia culturale”.

La cancelliera Angela Merkel una volta puntò il dito direttamente contro il multiculturalismo, dichiarando che in Germania aveva “completamente fallito”, un’idea ripresa sei mesi dopo dall’allora Primo Ministro David Cameron in Gran Bretagna. Egli affermò che “ghettizza le persone in gruppi di minoranza e maggioranza senza un’identità comune”. Tali dichiarazioni da parte di leader, entrambi degni di nota centristi, di grandi stati occidentali apparentemente stabili dal punto di vista politico non possono essere facilmente liquidate come demagogia populista.

Inoltre, la “polarizzazione politica” è stata accentuata dai social media e dalle politiche identitarie, di cui parleremo più avanti. La connettività digitale tende a spingere le società verso una maggiore profondità e frequenza di sentimenti di isolamento in gruppi di affinità più ristretti.

Si potrebbero citare molti esempi tratti dai titoli recenti. Uno di questi, tuttavia, è la città di Leicester, in Gran Bretagna, che nell’ultimo anno è stata teatro di ricorrenti violenze tra la popolazione locale indù e quella musulmana, entrambe animate da tensioni intercomunitarie nella lontana Asia meridionale. Una folla indù ha marciato attraverso la parte musulmana della città scandendo “Morte al Pakistan”.

Ciò che questo riflette soprattutto è la considerevole irrilevanza dell’essere britannici come aspetto della lealtà pre-politica di una frazione significativa di due delle più grandi minoranze in Gran Bretagna. Chi vuole combattere chi e per cosa? La risposta, in questo caso, a questa valida domanda strategica ha ben poco a che fare con la nazionalità nominale delle persone che hanno già iniziato a combattere.

Infine, a questo volatile mix sociale si aggiunge la dimensione economica, che non può che essere descritta come estremamente preoccupante. Secondo una stima comune, l’Occidente ha già avviato un’altra recessione economica, una recidiva attesa da tempo della crisi finanziaria del 2008, combinata con le ricadute della deindustrializzazione delle economie occidentali, di cui un notevole effetto collaterale è la progressiva de-dollarizzazione del commercio globale, accelerata dalle sanzioni alla Russia, che hanno anche indotto un aumento vertiginoso dei costi di beni di prima necessità come energia, cibo e alloggi.

Violenza contro i migranti nelle strade della Gran Bretagna.
Foto: RT

Condotta

L’intimità della guerra civile, la sua intensità politica e la sua natura fondamentalmente sociale, unite alla facilità con cui si possono attaccare da ogni lato i punti deboli di ognuno, possono renderla particolarmente feroce e devastante. È una forma di guerra in cui le persone subiscono crudeltà e fanatismo non per ciò che hanno fatto, ma per ciò che sono.

Forse le guerre civili in Occidente possono essere contenute al livello di ripugnanza di quelle dell’America Centrale degli anni ’70 e ’80. In tal caso, una vita “normale” rimarrà possibile per quella frazione della popolazione sufficientemente ricca da isolarsi dal più ampio contesto di omicidi politici, squadroni della morte e rappresaglie intercomunitarie, oltre alla fiorente predazione criminale che caratterizza una società in via di disgregazione.

C’è da stupirsi che quelle lezioni e quelle idee siano tornate a casa? “The Citizen’s Guide to Fifth Generation Warfare”, scritto in collaborazione con il MGEN Michael Flynn, ex capo della Defense Intelligence Agency e primo Consigliere per la Sicurezza Nazionale del Presidente Trump, è un manuale ben strutturato ed esplicito nel suo obiettivo: educare le persone in Occidente al tema della rivolta. Per usare le sue stesse parole, l’ha scritto perché “non avrei mai immaginato che le più grandi battaglie da combattere si sarebbero svolte proprio qui, nella nostra patria, contro elementi sovversivi del nostro stesso governo”.

Circa il 75% dei conflitti civili del dopoguerra è stato combattuto da fazioni etniche. Pertanto, non è un’eccezione che anche in Occidente si verifichi una guerra civile.

La peculiarità del multiculturalismo occidentale contemporaneo, rispetto agli esempi di altre società eterogenee, è triplice.

In primo luogo , si trova nel “punto debole” rispetto alle teorie sulla causalità della guerra civile, in particolare il presunto problema dei costi di coordinamento viene ridotto in una situazione in cui le maggioranze bianche (che in alcuni casi tendono rapidamente a diventare grandi minoranze) vivono accanto a numerose minoranze più piccole.

In secondo luogo , finora è stato praticato un tipo di “multiculturalismo asimmetrico” in cui la preferenza all’interno del gruppo, l’orgoglio etnico e la solidarietà di gruppo, in particolare nel voto, sono accettabili per tutti i gruppi, tranne che per i bianchi, per i quali tali cose sono considerate rappresentative di atteggiamenti suprematisti che sono anatematici per l’ordine sociale.

In terzo luogo , a causa di quanto sopra, è emersa la percezione che lo status quo sia invidiosamente sbilanciato, il che fornisce un argomento a favore della rivolta da parte della maggioranza bianca (o di una larga minoranza) che affonda le sue radici in un linguaggio commovente di giustizia.

Ai fini della presente analisi, ciò che è importante qui, al di là della risonanza della narrazione del “declassamento” chiaramente osservabile nella sua ampia diffusione, è un’altra peculiarità del multiculturalismo in Occidente, ovvero la sua asimmetria geografica. Esiste una dimensione urbano-rurale distintamente osservabile nei modelli di insediamento degli immigrati: in sostanza, le città sono radicalmente più eterogenee delle campagne. Pertanto, logicamente, possiamo concludere che le guerre civili in Occidente che divampano attraverso divisioni etniche avranno un carattere tipicamente rurale vs urbano.

In Francia scoppiano sempre più rivolte di massa contro il governo.
Foto: AFP

Conclusione

Il riconoscimento della possibilità di una guerra civile in Occidente è presente nella politica, nell’opinione pubblica e in una vasta gamma di studi accademici. Molti ancora la negano o sono riluttanti a parlarne.

La teoria è generalmente chiara e convincente sulle condizioni in cui è probabile che si verifichi una guerra civile. Nel prossimo decennio, l’Occidente nel suo complesso si troverà in gravi difficoltà. Inoltre, c’è poco da sperare che, qualora una guerra civile scoppiasse in un grande Paese, le sue conseguenze non si estenderebbero ad altri.

Inoltre, non è solo il fatto che le condizioni siano presenti in Occidente; è piuttosto il fatto che si stanno avvicinando all’ideale. La relativa ricchezza, la stabilità sociale e la relativa assenza di fazioni demografiche, oltre alla percezione della capacità della politica tradizionale di risolvere problemi che un tempo facevano sembrare l’Occidente immune alla guerra civile, ora non sono più valide. Anzi, in ciascuna di queste categorie la direzione di attrazione è verso il conflitto civile.

Il fatto è che gli strumenti della rivolta, sotto forma di vari accessori della vita moderna, sono semplicemente sparsi in giro, la conoscenza di come impiegarli è diffusa, gli obiettivi sono evidenti e indifesi e sempre più cittadini, un tempo normali, sembrano intenzionati a tentare il colpo.

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La guerra in Iran di Trump, di Andrew Day…e altro

La guerra in Iran di Trump

Il Presidente avrà presto un’altra possibilità di evitare la trappola di sabbia di una guerra in Medio Oriente.

A giugno, il presidente Donald Trump ha esaudito un desiderio di lunga data del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu;

Per decenni Netanyahu ha fatto pressione ai presidenti americani affinché bombardassero l’Iran. Ognuno di loro ha resistito, compreso Trump nel suo primo mandato, quando ha grippato che il premier israeliano era “disposto a combattere l’Iran fino all’ultimo soldato americano”. Ma nel secondo mandato di Trump, Bibi ha finalmente ottenuto ciò che voleva. Due mesi fa, mentre infuriava la guerra tra Israele e Iran, il presidente ha autorizzato attacchi aerei e navali contro gli impianti nucleari di Teheran.

Ora Netanyahu vuole che Trump attacchi di nuovo l’Iran, e questa volta in modo massiccio. Se il presidente intende ancora tenersi fuori dalle guerre per sempre in Medio Oriente – come ha promesso di fare – allora deve tenere a freno Netanyahu e segnalare preventivamente il rifiuto di combattere i nemici di uno Stato cliente fuori controllo, che è quello che Israele è palesemente diventato. A giugno, Trump è riuscito a evitare di rimanere invischiato in un conflitto prolungato e in escalation. La prossima volta potrebbe non essere così fortunato.

Trita Parsi, analista veterana delle relazioni tra Stati Uniti e Iran, ha previsto che Israele probabilmente lancerà un’altra guerra quest’anno, forse prima di settembre. A differenza dell’ultima volta, scrive Parsi in Foreign Policy, l’Iran risponderà subito con forza per dimostrare la sua resistenza;

Di conseguenza, la prossima guerra sarà probabilmente molto più sanguinosa della prima. Se il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump cederà di nuovo alle pressioni israeliane e si unirà alla lotta, gli Stati Uniti potrebbero trovarsi di fronte a una guerra totale con l’Iran che, al confronto, farà sembrare l’Iraq facile.

Ovviamente, una guerra in Iraq 2.0 comporterebbe notevoli rischi per gli Stati Uniti e per Trump, che è uscito dalla “guerra dei 12 giorni” per lo più indenne. Solo un’esigua maggioranza di americani si è opposta agli attacchi statunitensi di giugno, anche se una supermaggioranza – il 78% – ha espresso la preoccupazione che l’America possa essere trascinata in una guerra diretta con l’Iran, secondo il sondaggio di Quinnipiac. Un altro sondaggio ha rilevato che gli americani erano più favorevoli agli attacchi dopo che gli era stato detto che erano limitati alle strutture nucleari dell’Iran. Questi risultati suggeriscono che molti americani sono contrari alla guerra con l’Iran, ma hanno tollerato il bombardamento discreto e mirato di Trump.

Gli elettori, in sostanza, hanno dato a Trump un lasciapassare, una ripetizione o, in termini da golfista, un mulligan. Presto il presidente avrà un’altra occasione per evitare la trappola di sabbia di una guerra in Medio Oriente. Questa volta non potrà permettersi di sbagliare e avrà meno spazio di manovra.

Sia i funzionari israeliani che quelli iraniani sembrano considerare l’attuale momento come una sorta di intervallo, una tregua nei combattimenti, piuttosto che un periodo stabile post-bellico. “Non siamo in una tregua, ma in una fase di guerra”, ha dichiarato la scorsa settimana un alto consigliere della Guida suprema iraniana Ali Khamanei. “Nessun protocollo, regolamento o accordo è stato scritto tra noi e gli Stati Uniti o Israele”.

In Israele, l’ex ufficiale dei servizi segreti Jacques Neriah ha avvertito questa settimana di un incombente “secondo round” della guerra dei 12 giorni. “C’è la sensazione che una guerra stia arrivando, che la vendetta iraniana sia in atto”, ha detto Neriah in un programma radiofonico israeliano. “Gli iraniani non potranno convivere a lungo con questa umiliazione”. L'”umiliazione” di Teheran non deriva solo dai danni subiti durante la guerra di giugno, ma anche dai più ampi guadagni geopolitici ottenuti da Israele negli ultimi due anni. Questi potrebbero presto includere un riavvicinamento con la Siria, un tempo partner iraniano e avversario di Israele fino al rovesciamento di Bashar al-Assad lo scorso dicembre.

Con Teheran in agitazione e la percezione della minaccia aumentata, “Israele deve lanciare un attacco preventivo contro l’Iran nel suo stato attuale, poiché gran parte delle sue capacità militari sono paralizzate”, ha aggiunto Neriah e. Gli alti funzionari israeliani sono d’accordo. Il ministro della Difesa Israel Katz ha avvertito i leader iraniani di un’imminente offensiva israeliana. Katz ha persino suggerito che questa volta Israele assassinerà Khamenei, consigliando al leader iraniano di “alzare gli occhi al cielo e ascoltare attentamente ogni ronzio”. Anche altri funzionari israeliani, tra cui il ministro degli Esteri Gideon Saar e il capo di Stato Maggiore Eyal Zamir, hanno accennato a ulteriori attacchi per neutralizzare la minaccia percepita dall’Iran.

Israele non solo sta preparando piani per un’altra guerra preventiva, ma sta anche sollecitando l’amministrazione Trump a partecipare, secondo Asharq Al-Awsat, un quotidiano panarabo, che ha citato fonti di sicurezza israeliane senza nome. Il giornale ha affermato che se Trump rifiuterà, Israele cercherà il via libera del Presidente per andare avanti da solo.

Il problema è che Israele non può andare in guerra da solo contro l’Iran. Come minimo, ha bisogno che gli Stati Uniti estendano il loro scudo di superpotenza sul piccolo Paese, intercettando missili e droni lanciati dall’Iran. E poiché Trump ha già dimostrato la volontà di bombardare l’Iran per conto di Israele quando scoppierà la guerra tra i due Paesi, il governo Netanyahu si aspetta un’azione offensiva. Netanyahu gioca a fare il duro, ed è piuttosto bravo ad architettare crisi geopolitiche che generano pressioni su Washington affinché intervenga a favore di Israele.

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Netanyahu potrebbe presto mettere alla prova queste capacità, perché sa che il tempo sta per scadere per assicurarsi l’egemonia nella regione – un obiettivo ovvio degli integralisti israeliani – con il sostegno popolare per Israele che sta crollando in Occidente. All’inizio di quest’anno, Netanyahu ha detto a un comitato israeliano per gli affari esteri che il Paese dovrà “svezzarsi” dagli aiuti militari statunitensi. Mentre Washington gli copre ancora le spalle, Israele vuole decapitare la Repubblica islamica e trasformare l’Iran in uno Stato fallito, e ha bisogno che gli Stati Uniti si uniscano alla guerra per il cambio di regime. “L’impegno limitato probabilmente non è più un’opzione”, scrive Parsi. “Trump dovrà unirsi completamente alla guerra o starne fuori”.

Il Presidente dovrebbe fare quest’ultima cosa. Dovrebbe infatti comunicare ora, senza mezzi termini, che gli Stati Uniti, con le loro scorte di missili intercettori allarmantemente esaurite, non solo si asterranno dall’unirsi agli attacchi israeliani contro l’Iran, ma addirittura rinunceranno alla difesa aerea. Un simile avvertimento indurrebbe Netanyahu a pensarci due volte prima di attaccare l’Iran.

Gli interessi americani e israeliani sono diversi: Washington vuole un accordo per limitare il programma nucleare di Teheran e Gerusalemme vuole dare un colpo di grazia al suo regime. Forse Trump non può impedire a Israele di lanciare una guerra contro l’Iran. Ma può almeno chiarire che sarebbe una guerra di Israele, non dell’America e certamente non sua.

L’autore

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Andrew Day

Andrew Day è redattore senior di The American Conservative. Ha conseguito un dottorato di ricerca in scienze politiche presso la Northwestern University. Può essere seguito su X @AKDay89.

Il controllo dell’Amministrazione della Pace

Il signor Pace è delirante quasi quanto il signor Guerra.

European Leaders Join Ukrainian President Zelensky For White House Meeting With Trump

jude

Jude Russo

27 agosto 202512:03

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Uno dei motivi ricorrenti della retorica del Presidente Donald Trump in questi giorni è che lui è Mr. Peace, che risolve guerre a destra e a manca in tutto il mondo. Certamente è meglio che presentarsi come Mr. War, un personaggio che negli ultimi decenni si è rivelato insoddisfacente e la cui uscita di scena non è stata molto compianta.

Certo, c’è un po’ di slittamento tra stile e sostanza. Sì, le guerre sono state risolte, anche se il contributo americano è oggetto di dibattito. (L’India nega categoricamente il coinvolgimento americano nella risoluzione della sua breve guerra con il Pakistan, e l’accordo tra Azerbaigian e Armenia è poco più che un semplice riconoscimento della vittoria dell’Azerbaigian). E, mentre le gloriose dispute di confine tra Cambogia e Thailandia o tra Congo e Ruanda sono senza dubbio episodi deplorevoli da deplorare, il contribuente americano può essere perdonato per essersi chiesto cosa abbiano a che fare con gli Stati Uniti e perché il nostro Presidente ne pubblicizzi gli esiti come trionfi della politica statunitense. Possiamo essere contenti che siano finiti, ma anche dubitare che siano la sostanza di un’eredità. Fa ridere anche vedere chi candida Trump al Premio Nobel per la Pace, che è già di per sé una battuta. Chi dubita della bona fides pacifica del regime azero di Aliyev, di Benjamin Netanyahu e del governo del Pakistan?

D’altra parte, nei primi otto mesi della seconda amministrazione Trump, gli Stati Uniti hanno bombardato a tappeto gli Houthi dello Yemen (in modo inefficace) e sono stati indotti da un partner junior a bombardare a tappeto l’Iran (anch’esso in modo inefficace, per quanto se ne possa dire); stiamo ancora finanziando e armando gli ucraini e gli israeliani, e ora stiamo minacciando direttamente vari potentati sudamericani con navi da guerra e piani d’attacco. (Per non parlare del business as usual all’AFRICOM, che è forse più disfunzionale persino del CENTCOM). Tutte le aspirazioni umane superano la realtà, certo, ma si tratta comunque di cose piuttosto sorprendenti per il signor Pace;

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Ma c’è un problema più grande nell’essere Bizarro Bush (come Mr. Peace è conosciuto dai suoi amici). I negoziati per la guerra in Ucraina sono esemplificativi. I due protagonisti stanno combattendo una guerra perché ritengono che sia nei loro rispettivi interessi nazionali farlo. Senza un cambiamento fondamentale delle condizioni di fondo – ad esempio, il crollo dell’economia russa o la rottura della linea difensiva ucraina – sembra che continueranno ad andare avanti. Gli Stati Uniti non possono fare nulla di particolare, se non urlare a squarciagola da bordo campo. (A quanto pare, staccare la spina agli armamenti americani per l’Ucraina, che ora vengono riciclati con denaro europeo, è considerato un’opzione politica non praticabile). Allo stesso modo, non è chiaro se gli Stati Uniti possano fare molto per concludere la guerra tra Israele e Gaza, anche se certamente potremmo smettere di alimentarla attivamente. Il signor Pace è un grande personaggio televisivo, ma in realtà le sue pretese di dare ordini al resto del mondo sono quasi altrettanto deliranti di quelle del signor Guerra. In effetti, il signor Pace è solo l’inversione amichevole del signor Guerra: non il poliziotto del mondo, ma il terapeuta del mondo.

Tutto questo per dire che il quadro non è così completo come sembra. I due testi classici per comprendere l’America di questo secolo sono la Guerra Giugurtina di Sallustio e l’Ercole Furenti di Seneca. Inutile dire che nessuno dei due è molto letto. (“Il pensiero di come sarebbe l’America / Se i classici avessero un’ampia diffusione…”). / Oh, bene! / Mi turba il sonno”). Il primo riguarda un’apparente nota a piè di pagina della storia militare romana, una guerra nel deserto del Nord Africa, in cui Sallustio trova sia i sintomi che le ulteriori cause della decadenza repubblicana. Nel secondo, un eroe apparentemente invincibile, all’apice della sua carriera, è reso folle da poteri che sfuggono al suo controllo e distrugge la sua stessa casa. Se dovessimo declinare queste opere in piccole lezioni, la prima è che l’impero ha conseguenze indesiderate; la seconda è che nessuna entità umana è onnipotente e che il peggior tipo di danno è autoinflitto. Queste condizioni non sono cambiate. Mettere un sorriso invece di un cipiglio sul volto dell’imperialismo americano non lo rende più efficace.

L’orientamento dell’America non dovrebbe essere quello di gestire affari che non riguardano il nostro interesse nazionale. Non è che non abbiamo problemi a casa nostra. Risolvere i problemi del mondo è costoso e distrae, certo, ma peggio ancora non funziona. L’obiettivo di portare la pace sulla terra e la buona volontà verso gli uomini è meno macabro di molte alternative, ma forse non meno fuorviante. Questo è particolarmente vero se lungo la strada ci assumiamo obblighi non compensati – garanzie di sicurezza in regioni periferiche, per citare un esempio. Il presidente non dovrebbe essere Mr. Peace o Mr. War, ma Mr. America.

L’autore

jude

Jude Russo

Jude Russo è redattore capo di The American Conservative e collaboratore del The New York Sun. È un James Madison Fellow 2024-25 presso l’Hillsdale College ed è stato nominato uno dei Top 20 Under 30 dell’ISI per il 2024.

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