GET INSIDE, STAY INSIDE, STAY TUNED, di Pierluigi Fagan

GET INSIDE, STAY INSIDE, STAY TUNED. Questi i tre consigli di un simpatico video rilasciato dal Dipartimento per le emergenze di New York, in caso di attacco nucleare: andate dentro, state dentro, state collegati alle fonti di informazione. Lo useremo come metafora per ripetere il senso di cosa sta succedendo dal 24 febbraio scorso.
Come ricorderà, forse, chi frequenta questa pagina da tempo, reagii immediatamente con molta inquietudine a quello che si stava manifestando come reazione europea ed occidentale all’attacco russo all’Ucraina. Il motivo era l’incredibile prontezza e coordinazione della reazione, la perfetta coincidenza con la narrazione subito imposta che verteva su uno sconosciuto commediante di uno sconosciuto stato della periferia d’Europa, già a lungo noto -per chi si occupava di relazioni internazionali e geopolitica- per esser nodo di lunga trama del braccio di ferro tra le due superpotenze nucleari, condita con il potente ricorso ai “valori” etico-morali che rendevano necessaria la mobilitazione a qualunque costo contro il nemico. Tutto questo prima ancora di capire cosa stesse succedendo e perché. In particolare, il “perché”, non c’era alcun perché da domandarsi, era tutto chiarissimo, c’era un aggredito ed un aggressore.
Fino a lì, che ci fosse un aggredito ed un aggressore ci arrivavamo tutti, era abbastanza evidente. Tuttavia, per coloro che cascando dal pero si accorgevano per la prima volta dell’esistenza sia di una cosa strana chiamata “geopolitica”, sia di una cosa ancora più esotica chiamata Ucraina, era forse necessario capire un po’ meglio come si era arrivati alla fatidica questione. Ma d’improvviso era vietato farsi domande, anche perché il ricatto dei valori etico-morali coinvolti serviti a condimento della lievitazione emotiva imponeva l’azione e la allineata e convinta reazione unitaria. Il mondo di prima era fatto di confuse spinte alternative, di grovigli, di conflitti di interessi, di bilanciamenti un po’ di qui ed un po’ di lì, di amorale opportunismo utilitarista, di sostanziale cinismo realista quando si trattava di fare affari con monarchie assolute, dittatori di varia risma, usurpatori di altrui territori e negatori dei diritti dei popoli. Ma d’improvviso, da un giorno all’altro, tutto ciò non valeva più e tutto ciò perché dovevamo difendere l’inderogabile diritto di questo Paese mezzo fallito e neanche democratico o stato di diritto, dedito al traffico d’armi, prostituzione e droga, di entrare nella NATO. In più colpiva l’improvviso, immediato e inderogabile allineamento ad una sola voce, come nei b-movie di fanta-distopia. Possibile?
Nel post del primo giorno, quello proprio del 24 febbraio, riportavo il virgolettato del discorso di Putin di poche ore prima che, in riferimento alle possibili prese di posizione europee, minacciava: …è molto probabile ci saranno contro-ritorsioni sulle forniture del gas in Europa “… la risposta della Russia sarà immediata e vi porterà a conseguenze che non avete mai sperimentato nella vostra storia”. Aggiungevo in analisi “Il contenzioso profondo è tra gli USA che vogliono stringere a sé i propri alleati in via esclusiva, contro Cina e Russia, per resistere il più a lungo possibile all’esito multipolare dell’ordine mondiale, un esito di cui ormai non si può più discutere il “se”, ma il “come e quando”.
Tutto ciò che s’è verificato in seguito è andato in accordo con questa analisi. Biden ha sfoderato il suo format “democrazie vs autocrazie” per giustificare il dovere di allineamento strategico, si è tentato per due volte di isolare la Russia alle Nazioni Unite (con esiti modesti), si è e si sta preparando l’allineamento asiatico anti-cinese, il G7 ha fatto finta di deliberare una presunta strategia concorrenziale alla Belt and Road Initiative. Biden e Blinken hanno provato a raggruppare i paesi amici del Centro e Sud America, scoprendo di avere davvero pochi amici, il pupazzo di Kiev ha provato a blandire e minacciare di sanzione morale l’Unione Africana che ha sfoggiato assoluta indifferenza. Hanno provato a far scattare l’ostracismo ai russi per il G20 in Indonesia e per irritazione verso il sabotaggio, il locale Ministro degli Esteri ha candidamente spifferato che in realtà Blinken s’è appartato qualche ora con Lavrov alla recente riunione dei ministri degli esteri del formato, alla faccia del “col nemico etico-morale non si parla”. Ora Biden sta provando a rinsaldare il trumpiano Patto di Abramo tra Israele ed il saudita affettatore di giornalisti scomodi e promotore dell’Isis, dopo aver dato i curdi in pasto al dittatore necessario di Ankara per rimuovere il suo veto alla cooptazione dei due paesi scandinavi che torneranno utili nei prossimi tempi del conflitto per l’Artico.
Insomma, fino ad ora il disegno di Washington conta, nella rete calata nei turbolenti mari del futuro geopolitico, il solo pescione europeo. Non male come risultato, nonostante il resto.
Come altri hanno notato, ieri l’euro è andato a pari del dollaro per la prima volta dopo venti anni. Ha anche perso il 18% sullo yuan dall’agosto di due anni fa. Quindi il gas che dovremo comprare dagli USA, che già costava più di ogni altro, ci costerà ancora di più e le merci cinesi saranno meno convenienti per noi di quasi un quinto. Il tutto dopo aver perso il mercato russo del tutto e con esso, una buona parte delle forniture energetiche. Il che porta a prezzi del gas alle stelle, mancanza reale di alternative viabili nel breve-medio termine, materie prime più costose (si pagano in dollari, di solito), inflazione, razionamenti già pianificati nell’indifferenza comprensibile dei più che sognano solo la loro ristorante vacanzina, alternando il residuo di attenzione distratta tra le polemiche sul corsivo ed il divorzio dei VIP. La Germania si prepara alla “grande crisi” della sua industria mentre non si sa se noi stiamo facendo altrettanto visto che siamo parte della loro catena del valore. E tutto ciò aspettando si dipani appieno quelle “conseguenze che non avete mai sperimentato nella vostra storia” minacciate dal russo che evidentemente non era pazzo come alcuni psicanalisti da operetta hanno diagnosticato nel marasma mediatico iniziale ed i calcoli li sa fare bene, nel breve, nel medio e nel lungo periodo.
Proprio ieri, Biden si appropriava per scopi pubblicitari della cooperazione tecno-scientifica euro-canadese-americana del nuovo telescopio Webb, ricordando quanto gli USA siano l’unica, vera, potenza tecno-scientifica del pianeta, seguito a poche ore dall’annuncio della rottura della rilevante collaborazione tra l’ente europeo ESA ed il corrispettivo russo Roscosmos. La cattura egemonica dell’Europa procede a grandi falcate ed è ormai irreversibile. Ma manca ancora un pezzo, forse. Dopo tre giorni dall’inizio del conflitto, scrissi un altro post in cui avanzai la previsione che si sarebbe, prima o poi, rispolverata la vecchia idea del TTIP, l’accordo di libero scambio privilegiato transatlantico. Oramai siamo del tutto assorbiti dalla NATO e dalle strategie di riarmo e preparazione di sciami di conflitti tra “democrazie” ed “autocrazie”, non tutte, solo quelle davvero antipatiche al gusto di Washington. Siamo però anche la prima potenza commerciale del mondo pur essendo un aggregato statistico e non un soggetto economico-politico unitario. Non ci sarà vera cattura egemonica fino a che non verremo riquadrati in uno specifico recinto di sub-globalizzazione atlantica, sottraendoci al sistema cinese, nemico ultimo della nostra nuova stella madre.
Loro, col dollaro forte ci compreranno meglio e noi compreremo meno bene dai cinesi, si chiama “nudge”, spintarella gentile.
Quindi, eccoci alla metafora di apertura: entriamo tutti alla svelta nel sistema occidentale a guida americana, stiamo tutti dentro e togliamoci ogni velleità di relazioni esterne autonome, attacchiamoci allo streaming continuo di informazioni distorte ed opinioni falsate, previsioni senza senso e minacce inventate di sana pianta che ci daranno ottimi motivi, più emotivi che razionali, per credere a questo incredibile colpo di stato contro la nostra capacità di sovraintendere al nostro minimo interesse.

Ritorno al futuro con la NATO, di Antonia Colibasanu

Un articolo significativo di Antonia Colibasanu la cui considerazione implicita sottende il crescente ruolo politico a tutto campo della NATO, non più solo politico-militare. Una tesi sostenuta con enfasi già nel consesso dell’anno precedente. Manca una sottolineatura sul ruolo dell’Unione Europea, ormai sempre più subordinata ed integrata agli indirizzi della NATO, sino a porre l’interrogativo sulla sua stessa utilità e ragione di esistenza se non per la sua funzione di aggregazione dei pochi paesi europei esterni all’alleanza militare. Resta la constatazione della progressiva sussunzione delle dinamiche e ragioni economiche, costitutive della UE a quelle politiche e geopolitiche generali. Altro aspetto apparentemente ingannevole rimane la nuova enfasi dell’ostilità esclusiva verso la Russia. A ben guardare, però, la Cina rimane il convitato di pietra. L’obbiettivo degli Stati Uniti rimane al meglio quello di ripristinare il dominio egemonico unipolario; quello subordinato, più realistico, di semplificare il confronto riducendolo ad una logica bipolare. Entrambe le ipotesi, però, appaiono con tutta probabilità ormai fuori tempo massimo. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Molto è stato detto su come la guerra russa in Ucraina abbia cambiato la NATO. Il numero dei suoi membri è certamente destinato a crescere man mano che Svezia e Finlandia iniziano il processo di adesione . Ma altrettanto importante è il suo nuovo Concetto strategico, pubblicato la scorsa settimana in un vertice a Madrid, che mostra cosa c’è in serbo per l’alleanza nel prossimo decennio. In una parola, il concetto è: riallineamento.

Da partner a minaccia

Il testo del Concetto strategico è pubblico, anche se il testo della strategia militare di accompagnamento, che descrive in dettaglio come gli Stati membri possono sostenere gli obiettivi dell’alleanza, è classificato. Tuttavia, ciò che è disponibile suggerisce che il prossimo decennio si concentrerà sulla deterrenza e sulla difesa, sottolineando lo scopo originale della NATO come organizzazione militare. (Può sembrare ovvio, ma ricorda il Concetto strategico della NATO del 2010, che metteva in evidenza il ruolo politico che l’alleanza potrebbe svolgere negli affari europei.) Mentre il concetto precedente si riferiva alla Russia come partner strategico per la stabilità euro-atlantica, il nuovo concetto esplicitamente descrive la Russia come una minaccia strategica.

Questo non è particolarmente sorprendente dato che il testo è stato pubblicato in tempo di guerra. Altri documenti rilasciati durante la guerra del Kosovo nel 1999 e la guerra di Corea parlavano in termini simili. In effetti, quest’ultimo è considerato un punto di svolta nella storia della NATO perché ha portato a una maggiore assistenza degli Stati Uniti per combattere l’Unione Sovietica e alla riorganizzazione di un’alleanza in rapida espansione sotto il comando centralizzato, che sarebbero tutti pilastri per il resto della Guerra Fredda con l’Unione Sovietica.

Allo stesso modo, il Concetto strategico 2022 propone un quadro più ampio per l’alleanza che ristabilisce il suo ruolo militare, pur mantenendo il suo ruolo politico e adottando un approccio più globale, integrando la Cina e discutendo questioni di sicurezza pertinenti al dominio economico. Ancora più importante, propone un nuovo modello di forza che porterà probabilmente alla riorganizzazione militare dell’alleanza, proprio come fece quello proposto nel 1952. Il documento discute l’istituzione della struttura di comando della NATO per l’era dell’informazione e le modalità con cui la NATO intende espandere le proprie capacità e cooperazione militari. La formulazione indica un ulteriore potenziamento militare, alludendo anche alla formazione di una piattaforma in grado di supportare operazioni globali in ambito militare, politico ed economico.

In effetti, il nuovo modello di forza è al centro del Concetto strategico, che significa “rafforzare in modo significativo la deterrenza e la difesa per tutti gli alleati … [e] rafforzare la nostra resilienza contro la coercizione russa”. A tal fine, le informazioni pubblicamente disponibili, compreso il contenuto di un discorso pronunciato dal Segretario generale Jens Stoltenberg la scorsa settimana, suggeriscono piani della NATO per aumentare la sua presenza nella sua parte orientale, il che potrebbe comportare l’espansione e il rebranding della Forza di risposta della NATO, composta da 40.000 uomini. Allo stesso tempo, il nuovo modello di forza per i fianchi orientale e sudorientale della NATO, che ospiterà il Corpo alleato di reazione rapida, prevede un futuro in cui migliaia di altre truppe con base nei loro paesi d’origine sono pronte a schierarsi se necessario.

Stoltenberg ha anche affermato che la Forza di risposta della NATO di circa 40.000 soldati sarà trasformata in una forza futura di circa 300.000 soldati mantenuti in allerta, con 44.000 mantenuti in alta prontezza. Sebbene non sia chiaro come i membri dell’alleanza pianifichino di raggiungere quel numero, significherebbe che, per la prima volta, tutte le forze di reazione rapida sotto il comando della NATO saranno impegnate in un ruolo di deterrenza e difesa e che tutte queste forze saranno consolidate sotto una unica struttura di comando. Sulla base delle spiegazioni offerte pubblicamente, il nuovo modello di forza vuole che questa nuova forza sia trattenuta con 24 ore di “preavviso per agire”, mentre la maggior parte della struttura della forza NATO si manterrà con 15 giorni di “preavviso per muoversi”. Si tratta di uno straordinario miglioramento dell’attuale struttura, dove alcune forze armate hanno un preavviso di 180 giorni per trasferirsi, essenzialmente rendendo l’alleanza più flessibile e più dinamica. La nuova strategia vedrà anche equipaggiamenti pesanti preposizionati vicino ai confini della NATO. Tutto ciò indica che gli Stati membri sono maggiormente impegnati a rendere nuovamente la NATO una forza militare più forte.

Raggiungere le dimensioni e la portata di una tale forza sarà costoso per gli alleati della NATO. Ecco perché Stoltenberg ha affermato che l’impegno di investimento della difesa della NATO del 2% del prodotto interno lordo per alleato è ora “più un minimo che un tetto”. Diversi membri europei della NATO, tra cui Germania, Regno Unito e Paesi Bassi, si sono già impegnati ad aumentare di conseguenza i rispettivi budget per la difesa. Ma, soprattutto, quasi tutta l’Europa ha a che fare con un’inflazione elevata e economie post-COVID, quindi il successo di questi impegni dipende dai vincoli economici futuri.

Leadership americana

In una certa misura, dipendono anche dalla leadership americana e non è chiaro se gli Stati Uniti condividano interamente le preoccupazioni dell’Europa. Una versione riservata della strategia di difesa nazionale degli Stati Uniti è stata resa disponibile al Congresso alla fine di marzo e sembra dare alla Cina e alla regione indo-pacifica una priorità maggiore rispetto a Russia ed Europa. (Questo è probabilmente il motivo per cui il Concetto strategico della NATO si concentra sui collegamenti tra Russia e Cina e afferma che tali collegamenti minacciano la sicurezza europea.) L’NDS offre informazioni su come gli Stati Uniti considereranno il nuovo modello di forza della NATO e la sua forza futura. Secondo i dettagli disponibili pubblicamente disponibili sulla strategia, la futura forza americana sarà costruita su tre principi: “deterrenza integrata” e poteri di combattimento credibili, campagne efficaci nella zona grigia e “costruzione di un vantaggio duraturo” sfruttando nuove, emergenti e dirompenti tecnologie. E per la prima volta, l’NDS implica un ruolo più importante per gli alleati nell’aiutare gli Stati Uniti a raggiungere i propri obiettivi strategici e le sfide, in particolare all’interno e intorno al teatro europeo. Tutto ciò indica la sfida di mantenere l’interoperabilità tra la futura forza statunitense e le forze alleate.

Il messaggio di Washington è chiaro: l’Europa dovrà iniziare a condividere la responsabilità di garantire la sicurezza europea. Ciò significa una NATO più robusta e forte. Mentre gli Stati Uniti hanno chiesto all’Europa di farlo in diverse occasioni in passato, l’attuale scenario bellico gioca a favore degli Stati Uniti poiché gli alleati della NATO sono fortemente incentivati ​​dalle operazioni militari russe a mantenere l’integrità della NATO e migliorare le capacità di difesa nazionale.

Washington a parte, la base per il futuro della NATO è disporre di forze sufficienti per scoraggiare e impegnarsi nelle crisi, per rispondere quindi rapidamente a qualsiasi crisi dentro e intorno all’area euro-atlantica. Il nuovo Concetto strategico riafferma l’impegno della NATO per la difesa collettiva, con un approccio a 360 gradi basato su tre compiti fondamentali di deterrenza e difesa, prevenzione e gestione delle crisi e sicurezza cooperativa. Tutto ciò indica la complessità dell’ambiente in cui la NATO sta attualmente lavorando.

Il Concetto strategico è un tacito riconoscimento della guerra economica globale in cui è impegnato il mondo, motivo per cui invita anche la NATO a lavorare ulteriormente per sviluppare il suo ruolo politico e perché menziona la conservazione del vantaggio tecnico della NATO, una trasformazione digitale che migliora le tecnologie informatiche ed emergenti e dirompenti e il mantenimento dell’ordine basato su regole, che vanno tutte oltre l’ambito di un allineamento puramente militare. In parole povere, il mondo è più complicato ora di quanto non fosse negli anni ’50, quindi se l’alleanza vuole mantenere il suo vantaggio, dovrà farlo in una varietà di domini. Questo è esattamente ciò che richiede il nuovo concetto.

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Le trappole non sempre funzionano come previsto e a volte si ritorcono contro. Di Claudio Martinotti Doria

I russi hanno una visione estremamente lungimirante e complessa nelle loro stretegie politico militari, gli USA/UK/NATO credevano di intrappolarli in Ucraina e invece è esattamente il contrario, ma pochi lo hanno capito, persino tra gli addetti ai lavori.

Per farsi un’idea approssimativa ma appropriata di come ragionino i russi occorre ricorrere alla metafora degli scacchi, nei quali se ricordate in passato erano maestri mondiali. Col tempo sono rimasti maestri, anche se tenendo un basso profilo mediatico alcuni possono aver pensato lo fossero meno, che avessero perduto la supremazia nel gioco, invece è l’Occidente che è regredito in questo gioco.

Premesso che la supponenza, il delirio di onnipotenza e la decadente supremazia occidentale ha indotto i suoi leaders a elaborare la trappola ucraina con la quale sfiancare la Russia, portandola al disfacimento socioeconomico e successivo smembramento politico territoriale, per poi sfruttare le sue infinite risorse naturali, per cercare di capire se poteva funzionare una simile trappola occorre pensare al gioco degli scacchi.

Se l’occidente credendosi superiore ha saputo prevedere una ventina di mosse che l’avversario potrebbe compiere, la Russia è abitualmente in grado di prevederne almeno cinquanta.

Questo significa che a mio modesto avviso, prima di avviare l’operazione militare speciale in Ucraina la Russia aveva previsto tutte le mosse che l’Occidente avrebbe messo in atto, e si era di conseguenza preparata accuratamente. Forse alcune di quelle troppo deliranti, aberranti e scellerate, potrebbero essergli sfuggite a livello previsionale, del resto immedesimarsi in una mente malata non è semplice.

Del resto l’Occidente erano decenni che si dedicava a imbastire la trappola per la Russia e almeno otto anni che ha intensificato gli sforzi, da dopo il colpo di stato Euromaidan organizzato nel 2014 dagli USA per colonizzare l’Ucraina e prepararla alla guerra contro la Russia.

Credete forse che la Russia non abbia fatto altrettanto? Che non si sia preparata a ogni possibile evento? Pensate che non sappia come pensano e agiscono gli angloamericani, soprattutto i loro think tank e i loro servizi di intelligence?

Occorre riconoscere che la Russia ha fatto di tutto per essere presa sul serio nei suoi molteplici appelli al mondo occidentale per evitare un conflitto, ma ovviamente è stata umiliata perché lo scopo era fin dall’inizio lo scontro bellico, mirante a indebolire la Russia e provocare col tempo rivolte popolare che inducessero un cambio di governo, secondo la tipica mentalità americana. Segno di profonda ignoranza della cultura e della società russa. Non è bastato indottrinare i giovani russi ai cosiddetti (dis)valori occidentali, e neppure corrompere oligarchi e infiltrare le cosiddette quinte colonne in Russia, rimangono una esigua minoranza non in grado di interferire e mutare neppure minimamente la coesione e lo spirito patriottico russo.

Ve lo avrebbe potuto riferire qualsiasi studioso e conoscitore della Russia, anche e soprattuto dal punto di vista storico.

Altro errore madornale tipicamente occidentale, il più grave di tutti, è stato quello di sottovalutare le capacità produttive militari russe, ritenere che siano assai limitate, e che di conseguenza dopo poche settimane di guerra in Ucraina le truppe russe avrebbero avuto problemi di approvvigionamento bellico e logistico.

Una sciocchezza madornale, la Russia si stava preparando da anni all’aggressione (che ha subìto, perché gli aggressori sono gli occidentali), e in ogni caso non l’avreste mai trovata iimpreparata.

Avreste dovuto imparare dalla storia, anche solo recente: Hitler aveva commesso lo stesso errore di valutazione, da lui stesso ammesso alcuni anni dopo, aveva sottovalutato la capacità produttiva industriale bellica dell’allora Unione Sovietica.

Si era basato inizialmente sull’esito della Guerra d’Inverno tra URSS e Finlandia, la pessima figura militare e le enormi perdite subìte dall’Armata Rossa lo aveva indotto a sottovalutare la capaictà bellica dell’Unione Sovietica. Ma un conto è il livello strategico e tattico, le capacità di comando degli stati maggiori (falcidiati anni prima dalle purghe staliniane), che in effetti all’inizio della II G.M. era ai minimi termini, e un altro conto è il livello delle potenzialità industriali belliche, che in Russia erano intatte nella vastissima area siberiana dove erano state trasferite e concentrate le industrie militari.

Per avere un’idea della situazione dei rapporti di forza tra Germania e Unione Sovietica dopo due anni di guerra, se ad un Panzer distrutto a fatica ne producevano uno in sostituzione, a un T 34 distrutto i sovietici nel producevano 20 in sostituzione. Gli USA avevano pressappoco lo stesso rapporto di forza rispetto ai giapponesi nel Pacifico, ecco come si vincono le guerre.

Pressappoco la stessa cosa sta avvenendo ora in Ucraina.

I prostituti mediatici della propaganda mainstream hanno scritto in questi mesi corbellerie, castronerie, spudorate menzogne facendo una disinformazione avvilente, che non aveva alcun rapporto con la realtà e i fatti concreti. A partire dalla cosiddetta “guerra lampo” dei russi ovviamente fallita dal loro punto di vista.

Nei miei articoli fin dalla fine di febbraio ho sempre precisato che non esisteva alcuna guerra lampo, che i russi non avevano affatto iniziato una guerra, che se l’avevano chiamata operazione militare speciale, avevano sicuramente i loro buoni motivi. La stessa modesta concentrazione di forze in campo lo dimostrava, la prudenza iniziale nell’uso dell’artiglieria e nel non nuocere ai civili, lo dimostrava. Non aggredisci un paese iperarmato, il secondo esercito europeo per capacità belliche e numero di truppe disponibili, con una forza armata sul campo in netta inferiorità numerica, in un rapporto di 1 a 3.

I modesti avanzamenti territoriali non erano dovuti a difficoltà belliche strategiche e/o operative russe, pur riconoscendo la strenua resistenza degli ucraini, che erano otto anni che scavavano trincee, costruivano bunker, fortificavano difese, ecc., e quindi erano preparati. Ma erano dovuti alla volontà strategica di sondare le forse avversarie e mobilitarle, impegnando il maggior numero di forze possibili ucraine e NATO sul territorio, e logorarle gradualmente. Come è puntualmente avvenuto. Esattamente il contrario di quello che ritenevano gli strateghi occidentali, non è la Russia a essere logorata ma la NATO.

Gli esibizionisti mediatici che impazzano per avere visibilità e gli pseudoesperti improvvisatisi analisti militari quante cazzate hanno predetto sull’imminente collasso russo per carenza di mezzi bellici ormai esauriti ed eccessive perdite di uomini? Secondo loro da quanti mesi la Russia avrebbe dovuto rimanere priva di risorse belliche e ritirarsi con la coda tra le gambe?

Invece dovreste domandarvi per quanti mesi ancora credete che la NATO e soprattutto gli USA potranno continuare a fornire armi agli ucraini? Tre mesi? Quattro? Poi non lo potranno più fare perché le avranno esaurite e saranno rimasti sguarniti gli stessi reparti della NATO. E le capcità produttive dell’’apparato militare industriale occidentale non è all’altezza di quello russo, ve lo posso assicurare, ci vorranno anni prima che la NATO possa sostituire le armi fornite all’Ucraina riapprovvigionando i propri depositi militari ormai quasi sguarniti.

Inoltre il debito pubblico USA e dei vari paesi satelliti e colonie europee atlantiste salirà alle stelle, così come pure l’inflazione e la povertà e le opinioni pubbliche saranno sempre più esasperate e ostili ai loro governi che si sono impegnati in una guerra che le popolazioni non vogliono e non approvano. Quello che inizialmente sembrava russofobia indotta artificialmente dai media mainstream, ora si sta rivoltando contro gli stessi ucraini, sempre più disprezzati perché girano con auto di lusso per l’Europa facendo i turisti a spese nostre (ad andarsene per primi non erano profughi di guerra ma la classe benestante e corrotta del paese). Altroché eroi, patrioti che combattono per la democraiza. Quale demcrazia? L’Ucraina è da anni uno stato neonazista che reprimeva fino a torturare e uccidere i suoi cittadini di lingua russa, e negli ultimi mesi se abbiamo avuto un’infinità di prove, testimoniali e video, e nei suoi laboratori segreti finanziati dagli USA cercavano di produrre armi biologiche selettive in base al DNA delle popolazioni da colpire. Quindi l’Ucraina costituiva una minaccia per l’intera umanità. Ad ogni modo la Russia è intervenuta a sta ponendo rimedio a queste aberrazioni, e non è affatto finita in una trappola come pensano molti think tank di analisi geopolitica e strategia militare. L’esito di una trappola lo si valuta alla sua giusta scadenza, non quando fa comodo, valutiamo questa presunta trappola a fine anno e poi vedremo che esito avrà avuto.

Gli USA, UK e la NATO reggeranno fino alla fine dell’anno? O prima di quella scadenza le popolazioni si saranno già rivoltate per le disastrose condizioni di vita che le scelte scellerate dei loro governi hanno causato? Oppure credete che gli ucraini ormai sfiniti e demotivati, il cui governo criminale sta annunciando a gran voce che ad agosto attuerà una potente controffensiva inviando contro i russi un milione di baionette, possano avere successo? Oppure credete che se gli ucraini saranno sconfitti subentreranno i polacchi? Il popolo polacco così russofobico e apparentemente guerrafondaio? Ebbene dissaudetevi, un recente sondaggio interno ha rilevato che nel caso di una guerra vera contro la Russia, i polacchi si riverseranno in massa in Germania a cercare salvezza, dando per scontato che i russi vinceranno e invaderanno o distruggeranno il paese. Lo sapevate? Oppure vi informate presso i media maistream che vi raccontano cazzate dal mattino alla sera. Immaginatevi 30 milioni di polacchi che prende ogni mezzo a disposizione e si riversa sui 472 km di confine con la Germania, un’invasione al contrario rispetto a quella del settembre 1939. E se dovesse accadere cosa pensate faranno le popolazioni dei Paesi Baltici, russofobe e guerrafondaie anche loro? Rimarranno a combattere da sole col cerino acceso in mano? Con buona parte delle loro stesse popolazioni che sono russofone e filorusse e che quindi si rivolteranno contro? Potete stare certi che si riverseranno in Polonia attraverso il corridoio di Suwałki e si accoderanno alle emigrazioni di massa polacche.

Sarebbe il collasso definitivo non solo della Germania, già in ginocchio a causa delle demenziali sanzioni alla Russia, ma anche dell’UE e della NATO e dell’Impero USA in Europa. Nel frattempo ai russi basterebbe chiudere del tutto i rubinetto del gas e degli oleodotti.

Chi è caduto nella trappola?

 

Cav. Dottor Claudio Martinotti Doria, Via Roma 126, 15039 Ozzano Monferrato (AL), Unione delle Cinque Terre del Monferrato,  Italy,

Email: claudio@gc-colibri.com  – Blog: www.cavalieredimonferrato.it – http://www.casalenews.it/patri-259-montisferrati-storie-aleramiche-e-dintorni

ALLA FINE DEL SUO LEGAME: LA GRANDE STRATEGIA DEGLI STATI UNITI PER FAR AVANZARE LA DEMOCRAZIA, di DAVID HENDRICKSON

PUNTI CHIAVE

  1. Negli ultimi decenni, gli Stati Uniti hanno fatto del progresso della democrazia il suo grande scopo in politica estera. La retorica dell’amministrazione Biden su una lotta globale tra autocrazia e democrazia è la vecchia abitudine in una nuova forma.

  2. I leader statunitensi commercializzano questo obiettivo come consono alla tradizione liberale degli Stati Uniti, ma in realtà offende l’etica fondante della nazione, specialmente relegando la sovranità statale e l’indipendenza nazionale a uno status secondario. Nell’insegnamento più antico, accettato anche da internazionalisti liberali come il presidente Woodrow Wilson e il presidente Franklin Roosevelt, le libere istituzioni dovevano espandersi con l’esempio, non con la forza.

  3. Dopo la Guerra Fredda, gli sforzi degli Stati Uniti per spingere gli stati a diventare democrazie mediante l’istruzione, la guerra e le sanzioni sono stati un totale fallimento, in gran parte perché hanno offeso il principio dell’indipendenza nazionale.

  4. Definire oggi gli sforzi degli Stati Uniti come la difesa della democrazia oscura i problemi vitali nel sistema di alleanze degli Stati Uniti, comprese le sue tendenze espansionistiche, la sua ingiusta condivisione degli oneri e i rischi che comporta di una guerra importante che sarebbe dannosa per la sicurezza degli Stati Uniti.

  5. Gli Stati Uniti dovrebbero rifiutare la politica rivoluzionaria del cambio di regime e tornare al rispetto dell’indipendenza nazionale un tempo radicata nella tradizione diplomatica statunitense. Il rovesciamento dei governi autocratici è un obiettivo antitetico alla pace, l’ambiente più favorevole alla crescita della democrazia liberale.

STORIA DI APPASSIRE

Il saggio di Francis Fukuyama del 1989 su “The End of History?” aveva come provocazione la tesi che l’umanità fosse giunta al termine della sua evoluzione ideologica. Ciò che era avvenuto prima – quello che Edward Gibbon chiamava un “registro dei crimini, delle follie e delle disgrazie dell’umanità” – era culminato dopo tutti quegli anni nelle istituzioni del moderno stato democratico liberale. Il comunismo è stato stroncato. Nel 1989, nessun altro modello sembrava un rivale, a parte l’Islam, il cui fascino era intrinsecamente particolaristico. Nessuno poteva rivendicare l’universalità; nessuno, cioè, tranne le istituzioni democratiche praticamente inventate negli Stati Uniti. 1

Per la maggior parte del diciannovesimo secolo, gli Stati Uniti furono un avamposto piuttosto solitario tra le poche democrazie del mondo, che generalmente a quei tempi non si chiamavano così. Alla fine degli anni ’80, sembrava che la democrazia fosse al comando. Il suo fascino era irresistibile. Il politologo Samuel P. Huntington l’ha definita “la terza ondata” dell’avanzata democratica. 2 Iniziata a metà degli anni ’70, la terza ondata si è rivelata più forte delle due precedenti, attraversando il Sud America e l’Asia orientale prima di sbarazzarsi del comunismo e dell’apartheid. Più sorprendentemente, la conquista democratica è stata raggiunta pacificamente, condotta alla vittoria dal “potere popolare”. Per molti, l’unico punto di arresto logico era il trionfo dell’idea democratica liberale in tutto il pianeta.

Negli oltre 30 anni successivi, l’argomento sorprendente di Fukuyama – La storia è finita! – è stato male interpretato e masticato innumerevoli volte nelle università di tutto il mondo, masticato, sputato, respinto. Agli accademici, quindi, non piaceva, ma alla nazione politica americana piaceva. L’idea generale di Fukuyama ottenne un grande favore a Washington. In effetti, questo trionfo politico non aveva bisogno del saggio di Fukuyama come scintilla; il fuoco era già acceso. Quattro mesi prima della pubblicazione del suo saggio, il presidente George HW Bush aveva affermato circa il 98 per cento della tesi di Fukuyama (tralasciando la filosofia continentale) nel suo discorso inaugurale:

Sappiamo cosa funziona: la libertà funziona. Sappiamo cosa è giusto: la libertà è giusta. Sappiamo come garantire una vita più giusta e prospera per l’uomo sulla Terra: attraverso il libero mercato, la libertà di parola, le libere elezioni e l’esercizio del libero arbitrio senza ostacoli da parte dello stato. Per la prima volta in questo secolo, forse per la prima volta in tutta la storia, l’uomo non ha bisogno di inventare un sistema per vivere. Non dobbiamo parlare fino a notte fonda su quale forma di governo sia migliore. Non dobbiamo strappare giustizia ai re. Dobbiamo solo evocarlo da noi stessi. Dobbiamo agire in base a ciò che sappiamo. 3

Per un verso, il presidente Bush stava semplicemente ribadendo quelle caratteristiche dello stile di vita americano che, nel 1989, lo rendeva attraente per altri popoli come esempio da emulare, ma potrebbe anche essere letto come un appello a lanciare una crociata a favore di libertà e democrazia. Il presidente Bush era sospettato dai neoconservatori di non accettare il programma implicito di ricostruzione globale, e infatti negli anni ’90 gli Stati Uniti oscillavano tra i ruoli di esempio e crociato. Nel 2001 tutto è cambiato. L’amministrazione di suo figlio, il presidente George W. Bush, non ha mostrato tale reticenza nell’abbracciare il ruolo di crociato per la libertà e la democrazia, in cui l’America avrebbe sostenuto con forza la sua volontà nella convinzione del diritto. L’anziano presidente Bush, sembra giusto dire, si è tirato indietro di fronte alle piene implicazioni di ciò che aveva detto. Non così suo figlio.

QUATTRO DOTTRINE PER LA DEMOCRAZIA: REAGAN, CLINTON, BUSH E BIDEN

La difesa e l’avanzamento della democrazia è stato il grande tema dell’arte di governo statunitense negli ultimi 40 anni. Ha assunto varie forme. I punti di riferimento più importanti in passato sono stati la Dottrina Reagan degli anni ’80, la Dottrina Clinton degli anni ’90 e la Dottrina Bush degli anni 2000.

La Dottrina Reagan è stata battezzata come tale dall’editorialista Charles Krauthammer nel 1985. Significava il sostegno degli Stati Uniti alle insurrezioni contro i regimi comunisti in Nicaragua, Afghanistan, Angola e Cambogia. La sua esposizione più importante fu un discorso del febbraio 1985 del Segretario di Stato George Shultz, che riteneva fondamentale stare con “le forze della democrazia in tutto il mondo”. 4 Abbandonare i giovani afgani, nicaraguensi o cambogiani all’oppressione “sarebbe un vergognoso tradimento, un tradimento non solo di uomini e donne coraggiosi, ma anche dei nostri più alti ideali”. 5La nuova politica ha rappresentato un allontanamento dal linguaggio che il presidente Reagan aveva usato in precedenza. “La base di una politica estera libera e basata sui principi”, ha affermato accettando la nomina repubblicana nel 1980, “è quella che prende il mondo così com’è e cerca di cambiarlo con la leadership e l’esempio; non per arringa, molestie o pio desiderio”. 6

Nonostante una posizione inizialmente cautelativa, il presidente Reagan arrivò a vedere i trasferimenti di armi agli insorti come una forza di cambiamento e liberazione. Insistette che la sua politica avrebbe promosso la libertà e la democrazia, ma richiedeva l’associazione con personaggi sgradevoli. Il ribelle angolano Jonas Savimbi, unto negli anni ’80 come combattente per la libertà dal presidente Reagan e considerato tale da numerosi giornali e gruppi di riflessione negli Stati Uniti, è stato successivamente considerato un pericoloso bandito dai diplomatici statunitensi negli anni ’90. Le forze di destra sostenute dagli Stati Uniti al confine con la Cambogia, in opposizione al nuovo regime imposto alla Cambogia dal Vietnam del Nord, furono raggiunte sul fianco sinistro dai resti sopravvissuti dei Khmer rossi cambogiani, responsabili del genocidio della Cambogia alla fine degli anni ’70 . Tuttavia,

La Dottrina Clinton parlava di allargare la comunità degli stati liberali e di mercato; ha lanciato la campagna per espandere la NATO nell’Europa orientale. Mentre il presidente Clinton è intervenuto ad Haiti per “ristabilire la democrazia” nel 1994, il suo più grande sforzo è stato la ricostruzione dell’ordine europeo sotto gli auspici della NATO. Ciò significava abbandonare la promessa al leader sovietico Mikhail Gorbaciov che la NATO si sarebbe allargata “non di un centimetro” ad est. 7 La NATO, si diceva a metà degli anni ’90, doveva andare “fuori area” o “fuori mercato”, suggerendo che la sicurezza per i suoi membri non era più un obiettivo sufficiente dell’alleanza. La Russia, devastata da 70 anni di governo comunista, non era in grado di resistere. Col tempo l’obiettivo comprometterebbe i trattati sul controllo degli armamenti che inizialmente definirono l’ordine di sicurezza del dopo Guerra Fredda in Europa.

La Dottrina Bush del 2002 è stata la più grandiosa di tutte. La sua ispirazione guida è stata quella di premere su tutti i fronti per la vittoria della libertà e della democrazia. Il presidente Bush ha riassunto eloquentemente l’accusa nel suo secondo discorso inaugurale. Le sue premesse erano duplici: “La sopravvivenza della libertà nella nostra terra dipende sempre più dal successo della libertà in altre terre. La migliore speranza di pace nel nostro mondo è l’espansione della libertà in tutto il mondo”. La sua conclusione è stata che “è politica degli Stati Uniti cercare e sostenere la crescita dei movimenti e delle istituzioni democratiche in ogni nazione e cultura, con l’obiettivo finale di porre fine alla tirannia nel nostro mondo”.

LA STORIA DELL’ESPANSIONE DELLA NATO

Dopo la Guerra Fredda, la NATO si espanse verso est in ondate successive, rompendo le promesse fatte al leader sovietico Mikhail Gorbaciov nel 1990. Il diplomatico statunitense George Kennan avvertì nel 1997 che l’espansione ai confini della Russia, intesa a consolidare la democrazia nell’est dell’Europa, sarebbe stato un errore fatale. Predisse che avrebbe infiammato le tendenze nazionalistiche e anti-occidentali nell’opinione pubblica russa, ostacolato la democratizzazione della Russia e spinto la politica estera russa in direzioni ostili.

Gli Stati Uniti sotto il presidente Biden dipingono il loro scopo fondamentale nel mondo come difendere la democrazia dall’autocrazia. Quel tema era anche caratteristico delle dottrine di Reagan, Clinton e Bush. Poiché questo è un obiettivo centrale della politica estera degli Stati Uniti, l’intero stato di sicurezza nazionale, con oltre 1 trilione di dollari all’anno, è probabilmente impegnato a tal fine. Per questo motivo, quella che viene conteggiata come una voce nel bilancio federale per la “costruzione della democrazia”, ​​a circa 2 miliardi di dollari all’anno, è insignificante rispetto a questo scopo più ampio.

I funzionari non distinguono nella loro retorica tra “difendere” e “far avanzare” la democrazia, ma in termini di bilancio possiamo distinguere tra le spese per proteggere gli alleati americani in Europa e in Asia e le guerre di “cambio di regime” dell’ultima generazione. Per aspetti fondamentali, entrambi sono simboli dell’auto-dichiarata devozione americana alla democrazia, ma sollevano questioni separate. “Difendere” è diverso da “avanzare”. Mentre i trattati americani di mutuo sostegno con gli alleati democratici hanno sollevato questioni di equità, spesa e sicurezza, nessuno può negare che gli Stati Uniti abbiano il diritto di formare alleanze con altre repubbliche o democrazie. Il diritto di rovesciare i governi, che gli Stati Uniti hanno cercato di fare in molte occasioni negli ultimi 30 anni, solleva una serie di questioni completamente diverse. Straordinariamente, quasi impercettibilmente, si dava per scontato che gli Stati Uniti godessero del diritto di impegnarsi in un “cambio di regime” attraverso mezzi coercitivi. Questa non era la tradizionale posizione diplomatica americana.

Questo saggio cerca di fare due grandi punti. In primo luogo, la dottrina di porre fine alla tirannia nel mondo, o di far avanzare la democrazia in modo coercitivo, fa appello ai Padri Fondatori ea ciò che “abbiamo sempre creduto”, ma in realtà andare all’estero in cerca di mostri da distruggere non aveva nulla a che fare con la filosofia degli affari internazionali abbracciata dai Fondatori e dai loro seguaci nella tradizione diplomatica americana. Consideravano tali dottrine della rivoluzione forzata come offensive dei principi di diritto naturale e indipendenza su cui avevano costruito gli Stati Uniti. In secondo luogo, questi sforzi coercitivi sono stati un abietto fallimento. I due punti, si potrebbe suggerire, sono correlati. Offendere il principio dell’indipendenza nazionale, gli Stati Uniti si sono impegnati in un’impresa destinata alla frustrazione.

VECCHIO INSEGNAMENTO CONTRO NUOVO INSEGNAMENTO

INGIUNZIONI FONDATIVE

Thomas Jefferson ha scritto nella Dichiarazione di Indipendenza che la vita, la libertà e la ricerca della felicità erano al centro dei diritti naturali dell’uomo. Le nazioni godevano degli stessi diritti? È il presupposto dell’arte di governo americana contemporanea, che ha come credo l’avanzata della democrazia, che non abbiano legittimamente la scelta delle proprie istituzioni, o piuttosto che questa scelta debba logicamente assumere la forma della democrazia se vuole avere significato. La missione dell’America nel ventunesimo secolo è stata rovesciare i tiranni e portare la democrazia alle persone che soffrono sotto la tirannia. Non era così che Jefferson concepiva la missione dell’America. Pensava che le altre nazioni “avessero il diritto, e noi nessuno, di scegliere da sole”. 8

Su questo punto Alexander Hamilton era del tutto d’accordo con il suo grande avversario. Dettare ad altre nazioni la forma di governo che devono avere, come disse Hamilton, era contrario “ai diritti generali delle Nazioni, ai veri principi di libertà, [e] alla libertà di opinione dell’umanità”. 9 Jefferson rimproverò i francesi sullo stesso motivo, ma pensava che l’alleanza delle monarchie diretta contro la Francia fosse più colpevole della Francia su questo punto. Hamilton e Jefferson differivano profondamente sul fatto che la Francia o la confederazione dei re fossero i maggiori responsabili della conflagrazione europea, cioè chi fosse il più colpevole di aver violato la norma di non intervento. Ma entrambi hanno fatto appello alla stessa norma.

Nell’abbracciare questo punto di vista, nessuno di questi uomini stava arando un nuovo terreno. Questo fu anche l’insegnamento del diritto delle genti, e in particolare della sua più recente e raffinata affermazione di Emer de Vattel nel suo trattato Il diritto delle nazioni: principi del diritto di natura applicati alla condotta e agli affari delle nazioni e dei sovrani (1758 ), un libro ampiamente approvato negli Stati Uniti. 10 Il diritto delle genti, e poi il diritto internazionale, facevano del proprio volere il governo interno e la costituzione di ogni nazione. Il diritto delle nazioni cercava regole della strada che non mettessero in gioco la questione controversa.

La storia, certo, ha spesso messo in gioco questa questione, dagli interventi a sfondo religioso del XVII secolo alle guerre della Rivoluzione francese agli interventi umanitari del XIX secolo. 11La storia della diplomazia e della guerra europea, si potrebbe dire, è la storia dell’intervento. La storia del diritto internazionale, invece, è il tentativo di limitare questa tendenza. Esistevano estese controversie su quando l’intervento militare potesse essere legittimo, ma il diritto internazionale rifiutava l’idea che la società internazionale potesse essere costruita sulla base di una concordanza universale tra i vari tipi di regimi interni. Farlo creerebbe enormi fratture al suo interno. Nel vecchio insegnamento, l’osservanza della regola del non intervento negli affari interni degli altri Stati era considerata indispensabile per la conservazione della pace. Queste idee furono costantemente ribadite dai diplomatici americani nel diciannovesimo secolo, di cui le figure più grandi furono John Quincy Adams, Daniel Webster e William Seward. 12

WOODROW WILSON E LA SUA EREDITÀ

Il loro insegnamento è stato rovesciato dall’internazionalismo liberale nel ventesimo secolo? La convinzione che fosse è spesso affermata. Il presidente Woodrow Wilson, in particolare, gioca il ruolo da protagonista in questa trasformazione ideologica da esemplare a crociato. E il presidente Wilson era un crociato, un grande cambiamento, ma più per la sicurezza collettiva che per la democrazia. Il presidente Wilson voleva rendere il mondo sicuro per la democrazia, non infilare la democrazia in gola a tutti. La Società delle Nazioni a cui desiderava disperatamente l’adesione dell’America, ma alla quale non aderì, era dedicata alla prevenzione dell’aggressione, non alla diffusione della democrazia, sebbene richiedesse per la sua efficacia la cooperazione tra le democrazie più antiche e più recenti d’Europa. 13

Ciò che rende difficile interpretare la prospettiva del presidente Wilson è che il suo ideale più prezioso, l’autodeterminazione, era soggetto a molteplici significati. La difficoltà più grande è stata identificare “il sé” che avrebbe fatto il determinante. Era la nazione, lo stato, il volk o una comunità di cittadini? Uno studioso ha identificato tre significati: autodeterminazione esterna o libertà dal dominio alieno; l’autodeterminazione interna, il diritto di un popolo a scegliere la sua forma di governo; e la democrazia, che abbracciava non solo la volontà del popolo o della nazione, ma lo faceva anche in forme costituzionali. 14

Il presidente Wilson ha attribuito un peso maggiore all’autodeterminazione esterna rispetto all’autodeterminazione interna o alla democrazia. La sua idea per la Società delle Nazioni era incentrata sulla garanzia dell’indipendenza politica degli stati, un’indipendenza politica che doveva essere “assoluta nelle questioni interne, limitata negli affari esteri solo dai diritti delle altre nazioni”. 15 Credeva nella democrazia come la migliore via da seguire, ma comprendeva e accettava anche che ogni popolo aveva la scelta delle proprie istituzioni. “Se non vogliono la democrazia”, ha detto dei nuovi popoli usciti dalla guerra, “non sono affari miei”. 16

Il presidente Wilson ha espresso questo punto di vista in relazione a molti conflitti diversi, in particolare le rivoluzioni messicana e russa. Le persone a terra dovevano capirlo, credeva, anche se dovevano attraversare l’inferno per arrivarci. Gli stranieri non avevano né il diritto né la saggezza di trovare quella soluzione per loro. Nel caso né del Messico né della Russia, il governo degli Stati Uniti ha seguito esattamente le prescrizioni del presidente Wilson e lo stesso presidente Wilson ha cambiato idea in alcune occasioni. Nel 1913 e nel 1914 guadò fittamente il Messico, poi si voltò disgustato. Tuttavia, questa visione del diritto nazionale figurava fortemente nella sua filosofia delle relazioni internazionali. Su questo punto ha semplicemente ribadito il tradizionale consenso americano mirando non a un mondo pienamente democratico ma a un mondo sicuro per la democrazia e la diversità politica.

Il presidente Wilson potrebbe essere giustamente accusato di aver ignorato il diritto all’autodeterminazione nazionale dei popoli non europei, che hanno immediatamente riconosciuto, dalla Corea, dal Vietnam e dalla Cina all’India, alla Siria e all’Egitto, l’importanza del principio del presidente Wilson per la propria situazione . Questo fatto, tuttavia, non sminuisce il merito intrinseco del principio enunciato dal presidente Wilson. 17

Il diritto all’indipendenza nazionale e la prevenzione dell’aggressione erano anche centrali nella concezione dell’ordine internazionale del presidente Franklin Roosevelt. “Non c’è mai stata, non c’è ora e non ci sarà mai, nessuna razza sulla terra adatta a servire come padroni dei loro simili”, dichiarò il presidente Roosevelt. “Riteniamo che qualsiasi nazionalità, non importa quanto piccola, abbia il diritto intrinseco alla propria nazionalità”. 18Le Nazioni Unite guidate dal presidente Roosevelt fino alla sua nascita nel 1945 contenevano molti stati non democratici. Il suo statuto non conferiva poteri alla sua principale istituzione politica, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, di cambiare i governi di altri stati. Il suo scopo era garantire la pace e la sicurezza internazionale. Allo stesso modo, i firmatari del Trattato del Nord Atlantico nel 1949 si sono impegnati nella fedeltà ai principi della Carta delle Nazioni Unite e hanno sottolineato “il loro desiderio di vivere in pace con tutti i popoli e tutti i governi”. 19

OBIETTIVI PUBBLICI E AZIONI SEGRETE DURANTE LA GUERRA FREDDA

Il vecchio insegnamento è stato maltrattato e ammaccato durante la Guerra Fredda. Come mostrato nella meticolosa ricerca di Lindsey O’Rourke e di altri studiosi, la storia della Guerra Fredda americana è sbocciata con interventi in tutto il mondo, alcuni piccoli e nascosti, altri grandi e palesi. 20Il mandato per questo era stato dato nella Dottrina Truman, offerta dal presidente Harry S. Truman nel 1947. Gli Stati Uniti, dichiarò il presidente Truman, “devono “sostenere i popoli liberi che stanno resistendo al tentativo di sottomissione da parte di minoranze armate o da pressioni esterne”. Come si lamentò all’epoca Walter Lippmann, la dichiarazione del presidente Truman era a tempo indeterminato e poteva essere attuata solo “reclutando, sovvenzionando e supportando una serie eterogenea di satelliti, clienti, dipendenti e pupazzi”. La gestione di questa sgraziata coalizione richiederebbe “un continuo e complicato intervento degli Stati Uniti negli affari di tutti i membri della coalizione”, per quanto tale intervento sia stato sconfessato. Nel frattempo, il Congresso e il popolo americano “dovrebbero essere pronti a sostenere i loro giudizi su chi dovrebbe essere nominato,21

PAESI MIRATI AL CAMBIAMENTO DI REGIME DAGLI USA DURANTE LA GUERRA FREDDA

Sebbene gli Stati Uniti abbiano posto i principi della Carta delle Nazioni Unite al centro delle loro dichiarazioni di politica estera durante la Guerra Fredda, le loro restrizioni contro l’intervento sono state spesso violate di nascosto dai diplomatici e dalle spie statunitensi durante quel periodo. Il grande scopo di tale intervento era solitamente quello di combattere il comunismo, non di costruire la democrazia.

Gli avvertimenti di Lippmann si sono rivelati profetici in entrambe le parti. L’intervento sarebbe avvenuto. Sarebbe anche sconfessato. Nel suo discorso inaugurale nel 1953, il presidente Dwight D. Eisenhower sembrava predestinare tale attività: “Onorando l’identità e il patrimonio speciale di ogni nazione nel mondo, non useremo mai la nostra forza per cercare di imprimere su un altro popolo la nostra amata politica e istituzioni economiche”. 22 In pratica, la sua amministrazione diede carta bianca alla CIA per intromettersi all’infinito negli affari interni di altri governi, sebbene in nessuno di questi casi il risultato fosse una riproduzione delle amate istituzioni americane.

Questo contrasto tra ciò che è stato detto in pubblico e ciò che stava accadendo dietro le quinte è emerso durante l’era del Vietnam, in particolare nelle indagini del Congresso della metà degli anni ’70. Nella mente degli americani comuni, tuttavia, si dava per scontato che l’America fosse tra le forze di pace, non tra quelle che rompevano la pace. Come il presidente John F. Kennedy riassunse il vecchio consenso nel 1963 in un discorso all’Università americana: “La pace nel mondo, come la pace della comunità, non richiede che ogni uomo ami il suo prossimo, richiede solo che vivano insieme nella reciproca tolleranza, sottomettendo i propri controversie ad una soluzione giusta e pacifica”. 23A quel tempo, sulla base dell’appello squillante del premier sovietico Nikita Khrushchev a sostenere le guerre di liberazione nazionale contro le potenze coloniali, il presidente Kennedy diede la colpa al blocco sovietico. “La spinta comunista a imporre agli altri il proprio sistema politico ed economico è oggi la causa principale della tensione mondiale. Perché non c’è dubbio che, se tutte le nazioni potessero astenersi dall’interferire nell’autodeterminazione degli altri, la pace sarebbe molto più assicurata. Il leitmotiv del presidente Kennedy non era la convergenza dei popoli del mondo sulla forma di governo americana. Era per “rendere il mondo sicuro per la diversità”.

Come con l’amministrazione Eisenhower, c’era più di quanto sembri. La CIA ha continuato le sue vie interventiste sotto il presidente Kennedy e i suoi successori. Ma l’idea di ordine mondiale che proponevano al pubblico americano non era quella di un tale intervento. Ripudiavano in pubblico ciò che facevano in privato, ma l’ipocrisia era in questo caso un tributo alla virtù. Ha rivelato la continua importanza, nell’opinione pubblica, del substrato di credenze e convinzioni alla base del vecchio consenso americano. La stessa comprensione si rifletteva negli scritti di strateghi come Bernard Brodie. Gli Stati Uniti, scrisse Brodie alla fine degli anni ’50, “sono, ed sono stati a lungo, una potenza in status quo. Non siamo interessati ad acquisire nuovi territori o aree di influenza o ad accettare grandi rischi per salvare o riformare quelle aree del mondo che ora hanno sistemi politici radicalmente diversi dal nostro. D’altra parte, come potere dello status quo, siamo anche determinati a mantenere ciò che abbiamo, inclusa l’esistenza in un mondo di cui la metà o più è amichevole, o almeno non acutamente e perennemente ostile”.24

Cosa possiamo concludere da questa storia? La conclusione è irresistibile che la ricerca per promuovere la democrazia che ha catturato l’arte di governo americana dopo la fine della Guerra Fredda non era un autentico trasmettitore del vecchio insegnamento, ma una perversione di esso. Ci voleva una pratica una volta nascosta dietro la segretezza, perché superava la norma contro l’intervento e l’aggressione, e la mascherava come qualcosa in cui gli americani avevano sempre creduto. Ha cambiato gli Stati Uniti da un potere in status quo a un potere rivoluzionario. Ha reso l’imperativo della politica estera americana piegare la Storia alla sua volontà, costringerla in certi solchi e non in altri. Così facendo, ha reso la pace secondaria, se non terziaria, sostituendo una nuova ricerca per l’insegnamento più antico. Essere il miglior esempio per le nazioni, difendere l’indipendenza delle nazioni, non era più sufficiente; infatti, era vile e indegno. Gli Stati Uniti hanno potuto compiere la loro missione storica solo diventando un crociato per la democrazia.

È stata sia una grande partenza che un grande errore. E non ha funzionato.

TRE METODI PER PROMUOVERE LA DEMOCRAZIA: ISTRUZIONE, GUERRA E SANZIONI ECONOMICHE

Il progetto americano di promuovere la democrazia ha assunto tre forme principali negli ultimi quattro decenni: istruzione, invasione militare e pressione economica. Il National Endowment for Democracy (NED) è stato istituito nel 1983 per insegnare procedure e istituzioni democratiche alle nazioni di recente democratizzazione. Ci sono state le guerre in Afghanistan, Iraq, Siria e Libia lanciate con l’estensione della democrazia e dei diritti umani come portabandiera invariabile, sebbene ogni intervento avesse altre giustificazioni e motivazioni solitamente associate. Infine, c’era una vasta gamma di sanzioni economiche, intese solitamente a punire coloro che violavano i diritti umani o le procedure democratiche. Un rapporto sulle priorità della difesa del 2019 contava 20 paesi sanzionati in quel momento. 25

CATTIVO INSEGNANTE

La creazione del NED è stata la principale manifestazione del desiderio dell’America di insegnare la democrazia mediante l’istruzione. A questi sforzi si sono uniti gli istituti diretti dai partiti democratico e repubblicano. Questi sforzi promettevano di insegnare i principi democratici in modo apartitico e come tali erano perfettamente compatibili con la tradizionale missione americana di essere un esempio di libertà. In pratica, però, la storia era diversa. Gli sforzi degli Stati Uniti sono stati spesso legati a particolari movimenti politici nei paesi in cui hanno avuto luogo i loro sforzi. L’Ucraina è l’esempio più notevole. Secondo l’assistente del segretario di Stato Victoria Nuland, gli Stati Uniti hanno investito 5 miliardi di dollari negli sforzi per costruire la democrazia in Ucraina alla fine del 2013. Questi sforzi sono culminati negli Stati Uniti

PRINCIPALI BENEFICIARI DEGLI AIUTI STATUNITENSI PER LA PROMOZIONE DELLA DEMOCRAZIA

La maggior parte dell’assistenza alla promozione della democrazia degli Stati Uniti, come classificata dal Servizio di ricerca del Congresso, passa attraverso l’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale, il Dipartimento di Stato e il National Endowment for Democracy. Tuttavia, le spese reali sono di gran lunga maggiori, perché anche l’establishment della sicurezza nazionale si giustifica in relazione a questo scopo.

Qui notiamo un’anomalia molto sorprendente. Il trasferimento pacifico dei poteri all’indomani delle elezioni costituzionalmente autorizzate è al centro della democrazia costituzionale. Non esiste un principio superiore nel pantheon democratico. Eppure in Ucraina, i politici americani hanno accettato la palese violazione di questo primo principio. Non sorprende che la violazione di quella regola essenziale abbia prodotto una guerra civile in Ucraina. Mentre il presidente che è stato deposto senza tante cerimonie era profondamente impopolare nell’ovest e nel centro dell’Ucraina, ha ricevuto il 90 per cento dei voti nella provincia dell’estremo oriente ucraino della Crimea.

Evidentemente, la lezione insegnata dal NED è stata: prima fai una costituzione, poi la rompi, poi ne fai un’altra. Il leader del NED, Carl Gershman, ha visto il cambio di regime in Ucraina come un preludio al cambio di regime in Russia, 26ma nel sostenere la Rivoluzione di febbraio nel 2014, lui e altri appassionati di democrazia hanno voltato le spalle all’esperienza di un’altra “giovane democrazia”, ​​gli Stati Uniti d’America. Fin dai primi istanti del nuovo governo creato nella Convenzione federale si è compreso che la guerra civile era l’alternativa all’osservanza delle regole elettorali della Costituzione. Nessuno degli statisti che fecero il governo e poi guidarono la sua successiva operazione avrebbe accolto per un momento l’idea che un trasferimento di potere potesse essere compiuto radunando una folla nella capitale allo scopo di assaltare l’ufficio del presidente, poiché che avrebbe prodotto istantaneamente lo scioglimento del governo, non la sua rigenerazione. L’alternativa alla Costituzione, si diceva mille volte, era la disunione e la guerra.27

Considerata candidamente, l’osservanza delle regole costituzionali per il trasferimento dei poteri è un baluardo vitale che protegge gli Stati Uniti dai conflitti civili di oggi. Il furore suscitato, legittimamente, dagli eventi del 6 gennaio 2021, veniva da quel profondo riconoscimento. Eppure ciò che non avrebbe mai potuto passare adunata negli Stati Uniti è stato adottato dal governo degli Stati Uniti, acclamato dal commentatore statunitense, come del tutto ineccepibile quando applicato all’Ucraina nel 2014. Né questa violazione delle regole democratiche da parte della Rivoluzione del febbraio 2014 è stata un’anomalia. L’Ucraina dopo il 2014 è diventata effettivamente uno stato in guerra. Ha chiuso i media critici, ha perseguito l’accusa di tradimento contro oppositori politici e ha violato i diritti umani con leggi sulla lingua ufficiale. 28

PERCHÉ LA GUERRA NON PUÒ PRODURRE DEMOCRAZIA

Il secondo metodo adottato per il progresso della democrazia e dei diritti umani, un segno distintivo dell’amministrazione di George W. Bush in particolare, è stato l’intervento militare. I quattro casi principali sono stati Afghanistan (2001), Iraq (2003), Libia (2011) e Siria (2012), gli ultimi due intrapresi dall’amministrazione Obama. In ognuno di questi, la retorica del progresso della democrazia e della protezione dei diritti umani è stata avanzata in modo prominente come obiettivi fondamentali della politica statunitense sin dall’inizio. In ogni caso, tuttavia, è emerso un contrasto sorprendente tra le brillanti speranze annunciate all’inizio e la cupa realtà che alla fine è emersa. In una parola, le operazioni militari volte a produrre democrazia hanno prodotto anarchia.

Afghanistan

L’Afghanistan ha tenuto elezioni democratiche durante i quasi 20 anni di occupazione americana del paese, ma i governi eletti non sono riusciti a ottenere la legittimità con la propria popolazione. Il governo afghano, si sono resi conto dei funzionari statunitensi, non poteva resistere senza il costoso sostegno degli Stati Uniti, raggiungendo nel 2011 e nel 2012 più di 100 miliardi di dollari all’anno. Quando gli Stati Uniti si sono ritirati nell’agosto 2021, il governo afghano si è disintegrato.

Iraq

L’Iraq sotto l’occupazione statunitense scrisse una nuova costituzione, creò un parlamento e tenne elezioni democratiche, ma lo fece in circostanze di guerra civile. Una volta che lo stato iracheno è stato distrutto dall’invasione statunitense, sono riemerse rivalità mortali tra sunniti, sciiti e curdi. 29 I partiti politici iracheni di solito venivano dotati di milizie armate, fenomeno non tipico di uno stato democratico liberale. Durante gli anni dell’occupazione statunitense (2003¬¬–2011), la politica interna dell’Iraq è stata il germoglio di poteri esterni. Rimangono così oggi, anche se l’Iran, piuttosto che gli Stati Uniti, ha la maggiore influenza negli affari dell’Iraq.

Libia

La Libia è caduta in una lunga guerra civile dopo l’operazione NATO del 2011 per cacciare il suo leader Muammar Gheddafi. 30 I tentativi dei libici di scrivere una nuova costituzione sono andati in pezzi e la nazione è stata consumata da una lunga guerra civile. Si formarono innumerevoli milizie, basate in gran parte su lealtà tribali, con un ruolo importante svolto dai governi esterni nel sostenere le varie fazioni. Mercati degli schiavi all’aperto sono emersi in alcune parti della Libia, così come la formazione dell’ISIS. La dissoluzione dello Stato libico ha aperto le porte a una marea di profughi, travolgendo l’Europa e disordinandone la politica. 31

SPESA USA PER LA GUERRA IN AFGHANISTAN

Gli Stati Uniti hanno speso miliardi di dollari all’anno per la guerra in Afghanistan solo per far crollare il governo afghano sostenuto dagli Stati Uniti prima che l’esercito americano potesse completare il suo ritiro.

Siria

In Siria, gli Stati Uniti si sono scontrati con i cosiddetti “ribelli moderati” intenti a far cadere il governo del presidente siriano Bashar al-Assad. Il rovesciamento del presidente Assad, sperava il Dipartimento di Stato, avrebbe inferto un duro colpo all’Iran nella sua competizione con Israele e avrebbe inaugurato un’alternativa più liberale. Nel 2011, gli Stati Uniti hanno chiesto la rimozione del presidente Assad, ma il presidente Obama era riluttante a coinvolgere le forze statunitensi. Nel 2012, tuttavia, l’amministrazione ha accettato, di nascosto, di inviare armi leggere dagli arsenali libici alla Siria. Nel giugno 2013, ha annunciato pubblicamente che stava fornendo supporto militare all’opposizione e ha anche facilitato la fornitura di armi dietro le quinte, per lo più pagate dall’Arabia Saudita e da altri stati del Golfo Persico, all’insurrezione anti-Assad, che finì per essere dominata dai jihadisti che cercavano il dominio religioso, non la democrazia in stile occidentale. L’anarchia che ne è seguita nel 2012 e nel 2013 ha permesso all’ISIS di impadronirsi del territorio in Siria e poi in Iraq, provocando le sue grandi offensive nell’estate del 2014.

Gli sforzi statunitensi contro l’ISIS sono arrivati ​​attraverso la cooperazione con l’YPG curdo (strettamente legato al PKK turco, che è stato designato come organizzazione terroristica straniera dal 1997) 32 e le milizie legate all’Iran che hanno lavorato con le forze statunitensi, sotto l’occhio vigile dei curdi , per cacciare l’ISIS dal nord dell’Iraq. Gli sforzi degli Stati Uniti hanno polverizzato con successo l’ISIS ma non sono riusciti a rovesciare il presidente Assad, che è stato salvato dall’intervento russo nel 2015. Non è stato ottenuto nulla di simile alla democrazia e ai diritti umani nei territori in cui hanno avuto luogo questi sforzi.

Le ragioni del netto fallimento della costruzione della democrazia attraverso la forza sono varie. L’enfasi posta dalla maggior parte degli scrittori è la resistenza delle culture politiche straniere a un trapianto diretto di abitudini, costumi, procedure e istituzioni formate altrove. Mentre la Germania e il Giappone avevano entrambi tradizioni parlamentari a cui attingere dopo la seconda guerra mondiale, l’Afghanistan, l’Iraq e la Libia ne avevano al massimo deboli ricordi. 33Sebbene questa interpretazione abbia merito, non raggiunge il problema primordiale, che era la condizione in cui l’intervento militare esterno poneva gli abitanti degli stati appena liberati dalla tirannia. L’intervento militare li ha effettivamente gettati in uno stato di natura, richiedendo loro di ricostruire l’autorità politica dal basso verso l’alto. Questa, tuttavia, è una cosa straordinariamente difficile da fare quando gruppi nazionali rivali nutrono sospetti reciproci l’uno dell’altro.

I PRINCIPALI INTERVENTI MILITARI STATUNITENSI DALLA GUERRA FREDDA

La fine della Guerra Fredda ha creato una nuova struttura di potere nel mondo che ha contribuito a consentire l’intervento degli Stati Uniti. I motivi per tali interventi erano molteplici, ma la retorica presidenziale di solito sottolineava la promozione della democrazia e dei diritti umani come uno scopo fondamentale degli Stati Uniti. Di solito seguivano tentativi di cambio di regime.

L’ostacolo principale a una transizione democratica di successo, quindi, non è tanto la diversità delle culture politiche, quanto la quasi impossibilità di ottenere il consenso necessario, in circostanze di anarchia, dai pertinenti raggruppamenti politici e militari. Le stesse difficoltà intrinseche sarebbero affrontate se improvvisamente i cittadini degli Stati Uniti venissero lasciati senza la loro Costituzione da un invasore vittorioso, che poi decretasse: crearne una nuova secondo i principi della democrazia. Gli americani sarebbero stati in grado di farlo, come fecero i loro lontani antenati nel 1787? Le “maggioranze concorrenti” richieste da un atto del genere sembrano a prima vista insuperabili. Dopotutto, lo chiamavano il “Miracolo di Filadelfia” per una ragione. Come ha poi notato Daniel Webster in un discorso commemorativo, stabilire un governo unito “su comunità distinte e ampiamente estese . . . è successo una volta negli affari umani, e solo una volta; l’evento si distingue come un’importante eccezione a tutta la storia ordinaria; e a meno che non supponiamo di imbatterci nell’era dei miracoli, potremmo non aspettarci che si ripetano.34 Webster era forse troppo pessimista sui requisiti dell’elaborazione della costituzione, ma dalla sua osservazione deriva che fare una costituzione duratura nel mezzo di una guerra civile richiederebbe qualcosa come un miracolo.

Mentre gli interventi di Washington si svolgevano in Afghanistan e in Iraq, un’industria artigianale è emersa riconoscendo che l’America stava sbagliando tutto. I sostenitori della democratizzazione forzata hanno esposto idee per farlo bene. 35 L’esperienza mostra, tuttavia, che le idee brillanti si arenano in circostanze di anarchia, che la potenza occupante può cercare di dissipare ma che è creata dall’atto stesso dell’intervento. L’intervento straniero crea una resistenza nazionalista o tribale, come il sistema immunitario di un corpo che respinge un virus, fino alla morte. L’anarchia che ne risulta crea un vuoto in cui svaniscono le buone opere.

Costruire una democrazia attraverso la guerra è come mettere in piedi una piramide capovolgendola. Deve poggiare sulla volontà dei partecipanti di rispettare le loro divergenze e di cedere alla persuasione. Il suo stesso respiro è orrore per la pistola. Il conquistatore, dopo essersi appellato alla pistola, non può dire alla gente del posto in modo convincente che d’ora in poi la persuasione, piuttosto che la pistola, sarà la regola. Nella costruzione di una democrazia, in breve, una bomba da 500 libbre non è “adatta allo scopo”. 36

PERCHÉ ANCHE LE SANZIONI ECONOMICHE FALLISCONO

Il record non è migliore quando arriviamo all’applicazione di sanzioni economiche per promuovere i diritti umani e la democrazia. Questi sono stati “riusciti” nell’imporre dolore ai destinatari, ma non è seguito alcun progresso nel modo di promuovere la democrazia ei diritti umani. Le culture e le politiche straniere mostrano enormi poteri di resistenza quando sono sottoposte a pressioni esterne. Possono essere infranti con la forza militare, ma le sanzioni economiche rivelano, puntata dopo puntata, l’incapacità di portare il nemico a una decisione. Rinunciare al cambio di regime con la forza, come hanno fatto il presidente Biden e il segretario di Stato Antony Blinken, mentre abbracciano il cambio di regime con sanzioni economiche, come hanno anche fatto, lascia la politica estera americana in una terra di nessuno. Non raggiunge l’obiettivo.

AGGIUNTE ALL’ELENCO DELLE SANZIONI USA

Il numero di stati, entità e individui aggiunti all’elenco delle sanzioni statunitensi ogni anno è aumentato, ma la loro efficacia nella promozione della democrazia e dei diritti umani non è aumentata.

Le sanzioni economiche sono principalmente uno strumento per l’imposizione di pene collettive, almeno in alcune circostanze, più del potere militare. Il loro analogo nella strategia militare è il blocco marittimo o, nella guerra terrestre, l’assedio. 37 Sono in grado di esigere un tributo spaventoso, come testimoniato negli anni ’90 dalla malnutrizione e dalla morte tra i civili, compresi i bambini, in conseguenza delle sanzioni draconiane imposte all’Iraq dopo l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein. I sostenitori delle sanzioni, che invariabilmente si definiscono grandi umanitari, hanno cercato di evitare tali terribili risultati adottando sanzioni “mirate”, ma queste sono per lo più simboliche e hanno un effetto principalmente propagandistico. 38Le sanzioni contro Afghanistan, Siria e Venezuela, per fare oggi tre esempi importanti, incidono duramente sulle persone che già soffrono sotto il governo di questi regimi illiberali, con poche prospettive di cambiare i governi o qualsiasi altra chiara misura di successo. Con le condizioni sia in Afghanistan che in Siria che rasentano la carestia diffusa, non può fare a meno di nuocere al buon nome della democrazia e dei diritti umani per la politica statunitense di invocare questi concetti mentre affronta la morte su larga scala. L’ex ministro degli Esteri britannico David Miliband, ora membro dell’International Rescue Committee, ha osservato nel gennaio 2022 che “l’attuale crisi umanitaria potrebbe uccidere molti più afgani degli ultimi 20 anni di guerra”. 39Il presidente Biden aveva promesso l’agosto precedente che il ritiro dall’Afghanistan non avrebbe significato la fine del sostegno degli Stati Uniti al popolo afghano, ma la politica degli Stati Uniti, ha osservato Miliband, aveva fatto il contrario, “invece offrendo isolamento, caos economico e miseria umana”. 40 L’11 febbraio, l’amministrazione Biden ha risposto alla richiesta di Miliband non scongelando le riserve della banca centrale dell’Afghanistan, ma sequestrandole 7 miliardi di dollari e distribuendo metà del ricavato ai querelanti dell’11 settembre, imponendo di fatto l’onere della responsabilità collettiva a circa 20 milioni Afgani nati dall’11 settembre. 41

UN BILANCIO

Durante le prime fasi della Guerra Fredda, gli interventi segreti furono “anticomunisti” ma non pro-democratici. Gli Stati Uniti avevano rapporti di sicurezza con stati gestiti da autocrati, e questi erano così vasti che un commentatore alla fine degli anni ’60 potrebbe lamentarsi dell'”America controrivoluzionaria”. 42 Sotto l’impronta della Dottrina Reagan, abbracciata da molti Democratici, che è cambiata in modi vitali, anche se non completamente. I regimi autocratici dell’America Latina e dell’Asia orientale hanno ricevuto pressioni per democratizzare, ma non i produttori di petrolio arabi nel Golfo Persico. Definire gli insorti “combattenti per la libertà”, inoltre, non li ha trasformati miracolosamente in veri credenti nella libertà e nella democrazia in stile occidentale. Ted Galen Carpenter, nel suo libro Gullible Superpower, esamina una dozzina di paesi diversi in 40 anni in cui gli Stati Uniti hanno definito i loro alleati locali come coraggiosi combattenti per la libertà e la democrazia. Come osserva, gli Stati Uniti potrebbero farlo solo distorcendo selvaggiamente i fatti della situazione. 43

I casi di studio di Carpenter sono i contras nicaraguensi; i Mujaheddin afgani; UNITA di Jonas Savimbi in Angola; il Fronte di liberazione del Kosovo; Rivoluzioni colorate in Libano, Kirghizistan e Georgia; il Congresso nazionale iracheno guidato da Ahmed Chalabi; i Mujahadeen-e-Khalq (MEK), un gruppo di ribelli che cercano di rovesciare il governo iraniano; Insurrezionisti libici di vario genere; i nazionalisti ucraini che hanno guidato la Rivoluzione del febbraio 2014; ei “ribelli moderati” della Siria (che erano tutt’altro che). Gullible Superpower fa un complimento a un precedente libro di Carpenter, scritto con Malou Innocent, Perilous Partners: The Benefits and Pitfalls of America’s Alliances with Authoritarian Regimes . 44Questo esamina le relazioni di Washington con una dozzina di diversi governanti autoritari dalla seconda guerra mondiale. Sebbene la maggior parte degli analisti di politica estera caratterizzi le successive amministrazioni presidenziali in base alle loro parole, le loro azioni – come mostrano questi due libri – rivelano un bizzarro miscuglio, al tempo stesso incoerente e imprudente, tra tendenze rivoluzionarie e controrivoluzionarie nelle politiche statunitensi. Entrambi i ceppi erano antitetici all’insegnamento più antico, che invitava questa nazione, come tutte le nazioni, a non sopprimere né favorire le rivoluzioni in altri governi. 45

Per quanto sbagliate siano state le imprese americane nel Sud del mondo, gli Stati Uniti in passato avevano almeno candidati per sostituire i regimi esistenti. Oggi, in Afghanistan e in Siria, gli Stati Uniti continuano a imporre un embargo economico in via di estinzione a entrambi gli stati, ma non hanno candidati plausibili per sostituire i loro governanti esistenti. Il suo scopo sembra essere la perpetuazione di quanta più miseria e anarchia possono sopportare i popoli dei due territori. Per quale scopo terreno? Non può essere sconfiggere il terrorismo, poiché i terroristi trovano invariabilmente il loro più ampio margine di manovra quando l’autorità statale è crollata. Non può essere costruire la democrazia, poiché ciò richiede deliberazione, non disperazione, nelle persone. Non può essere promuovere i diritti umani, poiché entrambi i luoghi sono perseguitati dalla carestia in cui il più fondamentale dei diritti umani, la vita stessa, è appeso a un filo.

L’abbraccio da parte di Washington del “cambio di regime” come diritto e dovere per gli Stati Uniti ha avuto luogo in un momento di grande ottimismo, come dimostra chiaramente l’esuberante celebrazione della libertà del presidente George HW Bush nel suo discorso inaugurale. L’era in cui è stato schiuso, gli anni ’80, ha visto i popoli del Sud America, dell’Asia orientale, dell’Europa orientale e dell’Africa meridionale fare l’autostop sull’onda democratica. Mentre alcuni di questi cambiamenti sono stati provocati dal potere americano, come la resa della vecchia dittatura del Paraguay alla democrazia, ciò che li ha fatti prevalere è stata l’idea di democrazia che si è fatta valere agli occhi dei loro popoli. Che cosa fosse in astratto, del resto, lo si poteva capire solo guardandolo concretamente,

Proprio nel momento, quindi, in cui il potere dell’esempio americano nel cambiare il mondo era più potente, i politici hanno iniziato a pensare di cambiare il mondo attraverso la coercizione. Ci si aspettavano grandi risultati da quella campagna coercitiva; le celebrazioni che avevano scosso l’Europa nel 1989, abbattendo gli autocrati comunisti, avrebbero dovuto continuare in tutto il mondo. Si è scoperto, tuttavia, che gli Stati Uniti non potevano forzare il processo, e per i motivi più semplici. Perché fosse durevole, i popoli dovevano volerlo e costruirlo per se stessi. Non potevano essere costretti a conformarsi a un copione scritto da estranei, per quanto belle fossero le parole.

Il fallimento di questa impresa era prevedibile. In effetti, era stato previsto. Scrivendo nel 1951 in Foreign Affairs su “L’America e il futuro russo”, George Kennan osservò: “I modi in cui le persone avanzano verso la dignità e l’illuminazione nel governo sono cose che costituiscono i processi più profondi e intimi della vita nazionale. Non c’è niente di meno comprensibile per gli stranieri, niente in cui l’ingerenza straniera possa fare meno bene”. 46

DEMOCRAZIA, AUTOCRAZIA E DOTTRINA BIDEN

I precedenti sforzi per promuovere la democrazia attraverso l’istruzione, la guerra e le sanzioni sono culminati oggi nella Dottrina Biden, che comprende il problema centrale e la sfida per gli Stati Uniti come la grande battaglia tra democrazia e autocrazia. “Negli ultimi 30 anni, le forze dell’autocrazia sono rinate in tutto il mondo”, ha affermato il presidente Biden nel suo discorso al castello di Varsavia nell’aprile 2022. Ironia della sorte, è stato proprio in quel periodo di indiscussa importanza dell’America come potenza unipolare che questo è avvenuta la rinascita. Freedom House riferisce che il 2021 “ha segnato il 15° anno consecutivo di declino della libertà globale”, con i paesi in fase di deterioramento che hanno superato in numero quelli con miglioramenti con il margine più ampio dal 2006, quando è iniziata la tendenza negativa. 47L’autocrazia avanzava, in altre parole, proprio nel momento in cui la sconfitta della tirannia diventava l’obiettivo principale dell’America. Questo fatto non parla particolarmente bene delle prospettive della crociata del presidente Biden per la democrazia.

Il mondo autocratico è facilmente identificabile. È composto da più della metà degli stati del mondo. I suoi membri più importanti dal punto di vista degli Stati Uniti sono Cina, Russia e Iran. Il campo democratico, invece, ha una forma più incerta. In pratica, è costituito dalle ali occidentale e orientale del sistema di alleanze americano – le democrazie dell’Europa e del Nord America, insieme a Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda – con l’Ucraina a ovest e Taiwan a est spesso trattate e descritti come “alleati” sebbene non abbiano un trattato di sicurezza con gli Stati Uniti. Gli stati all’interno di questo “Occidente” allargato cercano o ottengono protezione dai loro legami con gli Stati Uniti e insieme costituiscono la preponderanza della ricchezza mondiale, misurata dal PIL e dalla capitalizzazione del mercato azionario. Nonostante tutto, sono per popolazione solo un ottavo dell’umanità.

IL VERTICE PER LA DEMOCRAZIA

L’elenco degli inviti al Summit per la Democrazia del 2021 dell’amministrazione Biden include un’ampia gamma di nazioni del Sud del mondo le cui credenziali democratiche potrebbero essere messe in discussione. Si può dire che pochissimi degli stati invitati al di fuori dell’Occidente facciano parte di una “coalizione democratica”. Tutti si oppongono, ad esempio, alle sanzioni unilaterali o secondarie imposte con crescente frequenza dagli Stati Uniti. Gli stati invitati dall’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (ASEAN) vogliono buone relazioni con gli stati dell’ASEAN che non sono stati invitati al vertice. La Turchia non è stata invitata, sebbene fosse un membro della NATO. India e Pakistan sono profondamente in contrasto tra loro, mostrando la fittizia del “campo democratico” come un vero concetto geopolitico nel Sud del mondo. Molti degli stati africani invitati hanno storie molto travagliate per garantire elezioni eque e rispetto dei diritti individuali. L’Angola, importante produttore di petrolio, ha una costituzione che attribuisce il controllo totale al presidente, incarico ricoperto da un uomo, José Eduardo dos Santos, dal 1979 al 2017. Lì una piccola oligarchia, che vive nel lusso, governa le masse tormentate dallo squallore.48

Il vertice per la democrazia del presidente Biden nel 2021 è stato un tè debole rispetto alla League of Democracies promossa dal senatore John McCain nella sua candidatura presidenziale del 2008, a lungo un concetto preferito dagli scrittori neoconservatori. 49 L’obiettivo effettivo di un tale raggruppamento sarebbe quello di sostituire l’ONU come principale organizzazione mondiale per la sicurezza. Ma pochissimi, se non nessuno, degli stati del Sud del mondo, compresi quelli invitati all’incontro del 2021, sarebbero favorevoli a tale accordo. Gli Stati Uniti potrebbero vedere una League of Democracies come un tentativo di guidare il mondo, ma la maggioranza dei popoli del mondo vedrebbe tale alleanza come una secessione da essa.

STANDARD INCOERENTI

Washington non aderisce a uno standard coerente nel suo approccio alla democrazia e ai diritti umani. Come ha spiegato il funzionario del Dipartimento di Stato Brian Hook al Segretario di Stato Rex Tillerson, allora appena nominato da Donald Trump, “gli alleati dovrebbero essere trattati in modo diverso – e migliore – rispetto agli avversari”. Gli Stati Uniti dovrebbero difendere i principi a volte, ma non sempre. Contro avversari come Cina, Russia, Corea del Nord e Iran, ha spiegato Hook, i diritti umani dovrebbero essere considerati una questione importante, perché “cerchiamo di fare pressione, competere con loro e superarli”. Ma “gli alleati degli Stati Uniti come l’Egitto, l’Arabia Saudita e le Filippine” dovrebbero essere trattati in modo diverso. Questo atteggiamento flessibile, altrimenti noto come ipocrisia, consente l’armamento di principio contro gli avversari ma evita la coercizione degli amici. 50

PAESI E GOVERNI INVITATI AL SUMMIT PER LA DEMOCRAZIA 2021

Il Summit per la Democrazia del 2021 riflette il tentativo dell’amministrazione Biden di porre la promozione della democrazia al centro della politica estera degli Stati Uniti, ma le 110 nazioni invitate non riflettono né un concetto geopolitico coerente né un impegno comune per la democrazia liberale.

Ciò che rende particolarmente fuorviante il netto contrasto tra democrazia e autocrazia è che descrive erroneamente la posta in gioco negli scontri tra le nazioni. Sebbene i governi autocratici non rappresentino per certi aspetti la volontà del loro popolo, rappresentano la volontà del loro popolo sulla maggior parte delle questioni di politica estera. La Cina ha una serie di interessi su una dozzina di questioni diverse che renderebbero la continuità della politica nell’improbabile caso in cui riuscisse a passare a una democrazia costituzionale rappresentativa. Potrebbe, in tali circostanze, essere ancora più desideroso di portare Taiwan sotto la sua giurisdizione. Il governo democratico russo negli anni ’90, così com’era, si oppose all’espansione della NATO e all’intervento occidentale nei Balcani, proprio come avrebbe fatto in seguito il presidente russo Vladimir Putin; anche Alexei Navalny, ex leader dei liberali russi, ha sostenuto la guerra russa del 2008 contro la Georgia e l’annessione della Crimea del 2014. Nessun governo in Iran, se la democrazia sostituisse il governo dei mullah, accetterebbe un trattamento discriminatorio nell’applicazione delle regole del Trattato di non proliferazione.51 Personalizzando le controversie di politica estera e parlando del presidente Putin, del presidente Xi e di altri odiati leader, le nazioni che guidano vengono cancellate dal conto. Se tutte le nazioni hanno uguali diritti, come una volta era una parte centrale del credo americano, quell’attribuzione è sia un errore filosofico che un invito a un’azione imprudente.

Esaminando i molteplici conflitti nel mondo, sono invariabilmente meglio compresi come conflitti di nazionalità, lacerati da concezioni contrastanti di ciò che appartiene a loro e ciò che appartiene agli altri. La forma di governo può influenzare la concezione dell’interesse nazionale di queste nazionalità in conflitto e dei loro leader, ma il nucleo del loro conflitto politico nella maggior parte dei casi persiste anche con un cambio di regime. I popoli democratici, non meno dei leader autocratici, sono capaci di grande bellicosità.

Se gli Stati Uniti sono incoerenti nel loro approccio alle sanzioni contro i trasgressori contro la democrazia ei diritti umani, anche la loro concezione dei diritti umani ha subito un cambiamento sostanziale. Significava i diritti cari identificati nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948. Oggi, almeno a giudicare dall’attenzione riservata alla questione dal Dipartimento di Stato americano, la sua caratteristica principale è la dedizione ai diritti delle persone LGBTQI+. Sembra più un trapianto delle guerre culturali americane nel mondo che una politica ferma per la quale esiste un consenso interno negli Stati Uniti. Se preso sul serio, genererà sicuramente un enorme risentimento nel mondo islamico. 52

Gli americani considerano una verità evidente, o sono abituati, che uno stato che sopprime il libero pensiero sta danneggiando la sua nazione, perché ogni nazione ha bisogno della creatività che solo il libero pensiero può produrre. Quella verità evidente vale sicuramente per Cina, Russia e Iran, così come per gli stati autocratici con i quali gli Stati Uniti mantengono legami amichevoli. Per non dimenticare, vale per gli stessi Stati Uniti. 53Allo stesso tempo, le misure che l’Occidente prende contro questi governi hanno l’effetto invariabile di danneggiare quelle stesse forze nelle loro stesse società che sono più suscettibili a qualche forma di “occidentalizzazione”. Ci sono innumerevoli vittime nella risposta della Russia dal 2014 alle sanzioni occidentali, la maggior parte delle quali è caduta su organizzazioni che hanno cercato di costruire un ponte tra le due culture. Le ultime organizzazioni a ottenere l’ascia (15 in tutto) includono la Carnegie Endowment for International Peace, Human Rights Watch, Amnesty International, la Fondazione Friedrich Naumann per la libertà, la Fondazione Friedrich Ebert e la Fondazione Aga Khan. 54La rottura forzata della comunicazione tra Oriente e Occidente, ora considerata un imperativo morale, è infausta per la pace nel mondo, poiché le nazioni che non comunicano hanno poche speranze di comprendere il modo di pensare dell’altro. Come possono allora conoscere le linee rosse dell’altro?

CAMUFFARE LA POSTA IN GIOCO

Forse il problema più grande che sorge dall’inquadrare la questione della politica estera come “democrazia contro autocrazia” è che nasconde la vera posta in gioco per gli Stati Uniti. Consideriamo la trasformazione della NATO, formatasi tra gli Stati Uniti ei suoi partner democratici nell’Europa occidentale dopo la seconda guerra mondiale. Mentre la vecchia NATO era un’alleanza difensiva, forgiata per scoraggiare l’aggressione sovietica contro l’Europa occidentale, la NATO dopo la Guerra Fredda divenne una piattaforma per l’intervento degli Stati Uniti in luoghi come la Libia. Si è anche impegnato nel principio dell’espansione illimitata, cosa che non era vietata dalla sua Carta ma non da essa affatto richiesta. Contrariamente alla politica odierna, la NATO allora era disposta ad accettare la “neutralizzazione” come formula ammissibile per la sicurezza, come fece nel caso dell’Austria nel 1955.ne plus ultra dell’espansione a est, come l’avevano chiamato il Trattato del Nord Atlantico per un motivo. Successive iniziative di difesa collettiva si concretizzarono in associazioni regionali come SEATO e CENTO.

Il cambiamento più consequenziale della politica europea nell’era unipolare è stato il rifiuto della neutralità ucraina da parte del presidente George W. Bush. Suo padre, al contrario, aveva avvertito dei pericoli del “nazionalismo suicida”. Bush II voleva mettere l’Ucraina su una corsia preferenziale per l’adesione alla NATO. Gli alleati europei hanno esitato sull’opzione “fast track”, ma hanno raggiunto un compromesso e hanno firmato al vertice di Bucarest del 2008 il principio dell’espansione in futuro. 55 Questa posizione ha avuto effetti politici sfortunati. Convinse la Russia che gli Stati Uniti e l’Occidente erano ostili ai suoi interessi vitali; ha incoraggiato i nazionalisti ucraini a premere duramente contro la popolazione russofona in Ucraina. Questa si è rivelata la formula perfetta per una guerra ed è stata in gioco sia nel 2014 che nel 2022. 56

Una seconda obiezione all’attuale struttura degli obblighi dell’alleanza è che impone oneri ingiusti al popolo americano. Una disparità annuale del 3% del PIL nelle spese per la “difesa” potrebbe non sembrare molto, ma nel tempo incide inevitabilmente sul benessere interno, sia attraverso tasse onerose, aumento del debito o spiazzamento delle spese necessarie a casa, come programmi a lungo ritardato per potenziare le infrastrutture della nazione. Nell’arte di governo, una classica saggezza è mettere in guardia dal fare della politica estera una mera questione di conta, di dollari e centesimi, ma questa è una disabilità permanente, uno svantaggio strutturale che pregiudica il benessere del corpo politico americano.

Una terza carenza di questo accordo è che solleva le nazioni sotto l’ala della protezione americana dalla necessità di adottare misure per la propria sicurezza. La vecchia regola era che ogni nazione doveva prendersi cura di se stessa. Singolarmente, ogni popolo potrebbe raccogliere grandi risorse nella resistenza alle conquiste esterne e, se debole da solo, potrebbe allearsi con gli altri nelle sue vicinanze. È comprensibile il motivo per cui, nel ventesimo secolo, l’America si è concentrata sulla necessità dell’unione e si è vista a capo del gruppo per combattere l’aggressione. Aveva il ricordo di Adolf Hitler e della seconda guerra mondiale come lezione permanente della necessità di stabilire amicizie durature tra nazioni strettamente allineate nella fede sui fondamenti.

L’EQUILIBRIO DI FORZA TRA NATO-EUROPA E RUSSIA

L’ombrello di sicurezza statunitense in Europa è un emblema del grande conflitto che Biden ha posto tra democrazia e autocrazia, ma ha favorito la dipendenza, non l’autogoverno, tra le nazioni europee. Sebbene la Russia generi una potenza militare molto più efficace di quanto indicherebbe la cifra di 62 miliardi di dollari, gli alleati europei dell’America hanno chiaramente la capacità economica di porre fine alla loro dipendenza dagli Stati Uniti e provvedere alla propria difesa.

Quando quella missione fu intrapresa, tuttavia, l’aspettativa comune era che non sarebbe durata per sempre. Il presidente Eisenhower ha insistito sul fatto che il tempo avrebbe portato un rapporto più equilibrato tra protettore e protetto. Sfortunatamente, gli alleati americani non hanno mai ricevuto quel promemoria, soprattutto perché il governo degli Stati Uniti non lo ha inviato. I leader statunitensi hanno tenuto discorsi in tal senso, certo, ma tutto ciò significava che gli alleati avrebbero dovuto acquistare armi prodotte dagli Stati Uniti. Sotto l’ombrello della sicurezza americana, gli alleati si sono sviluppati a malapena dopo l’adolescenza e conservano ancora oggi i classici segni dell’infanzia: la ben nota incapacità di andare d’accordo senza genitori protettivi. Nel 2020, il PIL dei paesi europei nella NATO è stato di 19,5 trilioni di dollari; quello della Russia, $ 1,66 trilioni, più di 9 volte più grande. Le spese militari della NATO superano molte volte la Russia. La disparità tra le spese per la difesa degli Stati Uniti e degli alleati suggerisce che gli Stati Uniti si preoccupano più della sicurezza degli alleati che degli alleati stessi. Nella maggior parte dei luoghi, la sua nuova teologia politica è diventata la dottrina poco plausibile che Dio aiuta coloro che non aiutano se stessi.

Questo accordo ha funzionato magnificamente per lo stato di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, i cui interessi sono distinti da quelli del popolo americano. Politicamente, presenta una situazione di vantaggi concentrati e costi diffusi, conferendo all’establishment della sicurezza un potente vantaggio elettorale. 57 Nella maggior parte degli stati e dei distretti congressuali, la spesa per l’esercito ha un collegio elettorale fondamentale che è considerato mantenere l’equilibrio del potere politico, quindi un interesse a non essere offeso. 58Questa situazione aiuta anche a spiegare la strana anomalia che le voci non interventiste, metà o più del sentimento pubblico, dovrebbero avere poca rappresentanza al Congresso. In un’epoca in cui la leadership repubblicana e democratica al Congresso sono profondamente estraniate, ricordando i conflitti inconciliabili degli anni ’50 dell’Ottocento, l’unica cosa su cui possono essere d’accordo è il costante aumento del budget della difesa. 59

I leader statunitensi hanno detto per una generazione che gli alleati avrebbero dovuto farsi avanti e assumersi gli oneri, ma il vero significato era che avrebbero dovuto aderire agli scopi americani aumentando così il loro contributo alla cassa comune. Non erano particolarmente entusiasti di questo e hanno ottenuto la protezione a prescindere, quindi generalmente non si sono preoccupati. Quel ragionamento è perfettamente comprensibile. È anche perfettamente ovvio che la grande disparità di contribuzione va a svantaggio del popolo americano.

Ma la ragione più importante per riconsiderare queste alleanze è la minaccia che sono arrivate a rappresentare per la sicurezza americana. Apparentemente si tratta di fornire quella sicurezza – questa è la loro missione annunciata – ma la conseguenza degli impegni degli Stati Uniti è una serie di crisi di guerra, singolarmente e collettivamente, con Russia, Iran, Cina e Corea del Nord. Il presidente George W. Bush ha promesso un mondo di tale schiacciante potenza militare statunitense che nessun altro avrebbe osato sfidarlo. L’esperienza ha dimostrato che l’aspettativa non era corretta. Piuttosto che una barriera alla guerra, le alleanze statunitensi funzionano come una cinghia di trasmissione per il coinvolgimento degli Stati Uniti. 60

DALLA LIBERTÀ ALLA FORZA

Questi impegni a livello mondiale pongono una domanda fondamentale da considerare per gli americani. Una delle lezioni più antiche della tradizionale filosofia americana delle relazioni internazionali è che la forza possiede una logica che è in definitiva ostile alla libertà. Le nazioni in guerra diventano meno libere e più irreggimentate. Come Alexander Hamilton ha espresso questa idea, la guerra costringe “le nazioni più attaccate alla libertà a ricorrere per il riposo e la sicurezza alle istituzioni che hanno la tendenza a distruggere i loro diritti civili e politici. Per essere più al sicuro, alla fine diventano disposti a correre il rischio di essere meno liberi”. 61John Quincy Adams ha spiato lo stesso pericolo, osservando che se l’America si arruolasse nelle guerre degli altri “le massime fondamentali della sua politica cambierebbero insensibilmente dalla libertà alla forza”. Gli eccessi della guerra al terrore e la creazione di uno stato di sorveglianza di penetrazione universale confermano la profezia di Adams.

Un ambiente internazionale caratterizzato dalla minaccia di una guerra continua, inoltre, tende a incoraggiare l’equivalente moderno dell’“uomo a cavallo”: il leader forte che difenderà la nazione dai suoi nemici. I leader forti che popolano la maggior parte dei grandi stati del mondo sono forti soprattutto per la loro nazione, percepita come attaccata da avversari stranieri. Tali tipi tendono ad essere meno potenti, o meno attraenti per la loro gente, in un ambiente straniero meno conflittuale. In questa prospettiva, la dinamica complessiva non è che la democrazia porti alla pace, ma piuttosto che la pace sia la condizione più favorevole alla crescita della democrazia. 62

L’obiezione più potente contro la formula americana dell’universalismo democratico, a parte i suoi fallimenti in Afghanistan, Iraq, Libia e Siria, è che mette gli Stati Uniti in uno stato di conflitto spietato con i paesi non democratici. La formula americana di “porre fine alla tirannia”, infatti, descrive quasi esattamente le condizioni in cui Immanuel Kant definì il “nemico ingiusto” – “è un nemico la cui volontà pubblicamente espressa (con le parole o con i fatti) rivela una massima con la quale se diventassero una regola universale, qualsiasi condizione di pace tra le nazioni sarebbe impossibile e, invece, si perpetuerebbe uno stato di natura. 63Affermando la causa della guerra o delle sanzioni come “l’essere” piuttosto che il “fare” di uno stato non democratico, gli Stati Uniti si mettono in una posizione che pone enormi ostacoli alla pace. Punta le sue misure coercitive contro i governanti, ma i fardelli, sicuramente risentiti, ricadono sul popolo. In linea di principio, questo scopo rivoluzionario ci avvicina molto a un sistema internazionale senza legge, uno stato di natura tendente alla guerra.

IL PRIMATO DELLA POLITICA ESTERA

La convinzione dell’establishment della sicurezza nazionale con sede a Washington è che la sicurezza, la prosperità e la libertà del popolo americano possono essere raggiunte solo se gli Stati Uniti cercano la riforma del mondo. Hanno cercato all’estero la formula con cui assicurare il progresso della democrazia e il mantenimento della pace. Hanno affermato, in effetti, il primato della politica estera come regola con cui viene gestita la casa pubblica americana. A meno che la democrazia non prevalga ovunque, sarà in pericolo a casa.

Anche se possono crederci, in realtà non è vero. In effetti, la qualità della democrazia americana è stata manifestamente compromessa dai suoi ampi impegni globali. Quando il presidente Wilson ha chiesto all’America di unirsi alla Società delle Nazioni e di impegnarsi contro l’aggressione, il mondo alternativo che ha evocato era un insieme di istituzioni interne che sarebbero state fatali per la libertà: poteri esecutivi ampiamente ampliati, “un grande esercito permanente”, ” agenzie segrete dislocate ovunque”, “coscrizione universale”, “tasse come non abbiamo mai visto”, restrizioni alla libera espressione di opinione, una “classe militare” che dominerebbe il processo decisionale civile – tutto ciò “assolutamente antidemocratico nella sua influenza” e rappresentando un “capovolgimento assoluto di tutti gli ideali della storia americana”. 64Non tutti gli elementi dell’oscura profezia del presidente Wilson si sono avverati, ma molti di loro lo hanno fatto; inoltre, lo hanno fatto come conseguenza degli impegni militari globali dell’America, non perché si sia ritirata nell’isolamento politico dopo la prima guerra mondiale. Le generazioni contemporanee di americani sono così abituate a queste istituzioni che sembrano una parte normale dello scenario democratico. Il presidente Wilson ha riconosciuto che erano in netta contraddizione con l’ideale democratico che teneva negli occhi della sua mente.

Sia che l’America persegua obiettivi modesti o ambiziosi nel mondo, ha bisogno di una politica estera, ma la politica estera adottata dagli Stati Uniti è stata del tutto troppo ambiziosa. Ha cercato la riforma del mondo intero. Arruola idee preziose come libertà e democrazia in imprese che hanno questo come scopo retorico, ma mai come effetto pratico. Le sue spese militari costituiscono un peso per il benessere della sua gente. I suoi impegni globali minacciano la sua sicurezza nazionale piuttosto che assicurarla.

La consapevolezza di cui abbiamo più bisogno è che mettere al primo posto la riforma del mondo ha significato mettere per ultime le cose che dovrebbero preoccuparci di più, che è la conservazione della sicurezza, della libertà e della prosperità del popolo americano. 65 Mettere al primo posto il proprio Paese, certo, non solleva nessuno Stato o nazionalità dal dovere di rispettare gli obblighi di buon vicinato, né di dare contributi ai beni globali. Ci sono modi in cui le nazioni possono perseguire i propri interessi senza commettere una serie di ingiustizie lungo la strada, sostanzialmente nello stesso modo in cui la gente comune può diventare prospera senza rapinare banche.

Gli Stati Uniti potrebbero dare un contributo significativo al mondo cessando di infliggere danni a quelle parti di esso che si sono scontrate con la campagna di Washington per estendere la democrazia ei diritti umani per mezzo di pressioni esterne. Le ferite inflitte in realtà non fanno sì che gli oggetti del potere statunitense si rimettano a posto. Gli ideali americani, insieme a un’idea gonfiata del suo potere coercitivo, incoraggiano la nazione americana a una crociata che, intrinsecamente, non può vincere, perché il mondo è troppo intrattabile nelle sue molte inimicizie e conflitti irrisolvibili. Nel tentativo di risolverli con l’intervento militare o con i metodi del blocco a lunga distanza, la somma totale è solo un sacco di altre ferite inflitte, insieme a un elenco in crescita di quelle autoinflitte.


Note di chiusura

1 Francis Fukuyama, “La fine della storia?” Interesse nazionale 16 (estate 1989): 3–18.

2 Samuel P. Huntington, The Third Wave: Democratization in the Late Twentieth Century (Norman, OK: Oklahoma University Press, 1991).

3 George HW Bush, Discorso inaugurale, 20 gennaio 1989, https://georgewbush-whitehouse.archives.gov/news/inaugural-address.html .

4 “Excerpts from Shultz’s Speech Contrasting Communism and Democracy,” New York Times, 23 febbraio 1985, https://www.nytimes.com/1985/02/23/world/excerpts-from-shultz-s-speech-contrasting -comunismo-e-democrazia.html .

5 “Estratti da Shultz”.

6 Ronald Reagan, indirizzo di accettazione della Convenzione Nazionale Repubblicana, 17 luglio 1980, https://www.reaganlibrary.gov/archives/speech/republican-national-convention-acceptance-speech-1980 .

7 ME Sarotte, Not One Inch: America, Russia, and the Making of Post-Cold War Stalemate (New Haven, CT: Yale University Press, 2021).

8 Thomas Jefferson a John Adams, 17 maggio 1818, in The Adams-Jefferson Letters, ed. Lester J. Cappon (Chapel Hill, NC: University of North Carolina Press, 1959), 524.

9 “Pacificus n. 2, 3 luglio 1793,” The Papers of Alexander Hamilton, ed. Harold C. Syrett et al., vol 15, (New York: Columbia University Press, 1961–1979), 59–62.

10 Theodore Christov, “La legge delle nazioni di Emer de Vattel nell’indipendenza americana”, Giustificazione della rivoluzione: legge, virtù e violenza nella guerra d’indipendenza americana, eds. Glenn A. Moots e Phillip Hamilton (Norman, OK: Oklahoma University Press, 2018), 64–82; Otto Gierke, Natural Law and the Theory of Society, 1500—1800 Introduzione di Ernest Barker, Introduzione al Natural Law and the Theory of Society, 1500—1800 (Boston, MA: Beacon Press, [1934] 1957), xlvi–xlvii.

11 Brendon Simms e DJB Trim, eds., Intervento umanitario: una storia (Cambridge, MA: Cambridge University Press, 2011); Gary J. Bass, La battaglia della libertà: le origini dell’intervento umanitario (New York: Vintage, 2008).

12 Si vedano i saggi su Adams, Webster e Seward in Norman A. Graebner, ed., Traditions and Values: American Diplomacy, 1790–1865 (Lanham, MD: University Press of America, 1985). L’affermazione classica è John Quincy Adams, An Address . . . Celebrando l’anniversario dell’indipendenza, presso la città di Washington il 4 luglio 1821, in occasione della lettura della Dichiarazione di indipendenza (Washington, DC: Davis and Force, 1821).

13Il posto del presidente Wilson nel firmamento diplomatico statunitense ha suscitato un enorme interesse da parte di storici e politologi. Il fanatismo del presidente Wilson è sottolineato in Walter A. McDougall, Terra promessa, Stato crociato: l’incontro americano con il mondo dal 1776 (Boston, MA: Houghton Mifflin, 1996) e Walter A. McDougall, La tragedia della politica estera degli Stati Uniti: come l’America La religione civile ha tradito l’interesse nazionale (New Haven, CT: Yale University Press, 2016). A presentare un quadro un po’ più moderato degli obiettivi wilsoniani ci sono Michael Lind, The American Way of Strategy (Oxford, Regno Unito: Oxford University Press, 2006); David C. Hendrickson, Union, Nation, or Empire: The American Debate over International Relations, 1789–1941 (Lawrence, KS: University Press of Kansas, 2009); G. John Ikenberry, Un mondo sicuro per la democrazia: Internazionalismo liberale e crisi dell’ordine globale (New Haven, CT: Yale University Press, 2020); e Tony Smith, Why Wilson Matters: The Origin of American Liberal Internationalism and Its Crisis Today (Princeton, NJ: Princeton University Press, 2017). La migliore breve introduzione è John A. Thompson, Woodrow Wilson (Londra, Regno Unito: Routledge, 2002).

14 Michla Pomerance, “The United States and Self-Determination: Perspectives on the Wilsonian Conception”, American Journal of International Law 70 (1976): 1–27. Si veda la discussione parallela in David C. Hendrickson, “Sovereignty’s Other Half: How International Law Bears on Ukraine”, The Institute for Peace and Diplomacy, 17 maggio 2022, https://peacediplomacy.org/wp-content/uploads/2022/ 05/Sovereigntys-Other-Half-%C2%B7-How-International-Law-Bears-on-Ukraine-1.pdf .

15 “Woodrow Wilson, Discorso al Congresso, 22 gennaio 1917,” UVA Miller Center, https://millercenter.org/the-presidency/presidential-speeches/january-22-1917-world-league-peace-speech .

16 “Osservazioni ai corrispondenti stranieri, 8 aprile 1918,” in Thompson, Woodrow Wilson, 169.

17 Il vivo interesse suscitato tra le nazioni soggette all’imperialismo europeo dall’appello di Wilson all’autodeterminazione è rintracciato in Erez Manela, The Wilsonian Moment: Self-Determination and the International Origins of Anticolonial Nationalism (Oxford, UK: Oxford University Press, 2009) .

18 Roosevelt citato in David Fromkin, In the Time of the Americans: FDR, Truman, Eisenhower, Marshall, MacArthur—The Generation That Changed America’s Role in the World (New York: Random House, 1995), 591.

19 “Il Trattato del Nord Atlantico”, Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico, 4 aprile 1949, https://www.nato.int/cps/en/natolive/official_texts_17120.htm .

20 Lindsey O’Rourke, Covert Regime Change: America’s Secret Cold War (Itaca, NY: Cornell University Press, 2018); Tim Weiner, Legacy of Ashes: La storia della CIA (New York: Doubleday, 2007); Stephen Kinzer, I fratelli: John Foster Dulles, Allen Dulles e la loro guerra mondiale segreta (New York: Times Books, 2013).

21 Walter Lippmann, The Cold War: A Study in US Foreign Policy (New York: Harper & Row, 1972 [1947]).

22 Dwight D. Eisenhower, “Inaugural Address,” The American Presidency Project, https://www.presidency.ucsb.edu/documents/inaugural-address-3 .

23 John F. Kennedy, “Discorso di inizio alla American University, Washington, DC, 10 giugno 1963,” John F. Kennedy Presidential Library and Museum, https://www.jfklibrary.org/archives/other-resources/john- f-kennedy-speeches/american-university-19630610 .

24 Bernard Brodie, Strategia nell’era dei missili (Santa Monica, CA: RAND Corporation, 1959), 269.

25 Enea Gjoza, “Counting the Cost of Financial Warfare,” Defense Priorities, 11 novembre 2019, https://www.defensepriorities.org/explainers/counting-the-cost-of-financial-warfare .

26 Carl Gershman, “Gli ex stati sovietici resistono alla Russia. Gli Stati Uniti?” Washington Post, 26 settembre 2013, https://www.washingtonpost.com/opinions/former-soviet-states-stand-up-to-russia-will-the-us/2013/09/26/b5ad2be4-246a- 11e3-b75d-5b7f66349852_story.html .

27Per numerose espressioni di questo tema, vedere David C. Hendrickson, Peace Pact: The Lost World of the American Founding (Lawrence, KS: University Press of Kansas, 2003) e ibid Union, Nation, and Empire. Che la “giovane democrazia” americana contenesse elementi combustibili è mostrato in Richard Kreitner, Break It Up: Secession, Division, and the Secret History of America’s Imperfect Union (New York: Little Brown, 2020); ed Elizabeth R. Varon, Disunion! L’arrivo della guerra civile americana, 1789–1859 (Chapel Hill, NC: University of North Carolina Press, 2010). I mezzi per la sua conservazione sono descritti in dettaglio in Peter B. Knupfer, The Union as It Is: Constitutional Unionism and Sectional Compromise, 1787–1861 (Chapel Hill, NC: University of North Carolina Press, 1991); e Paul C. Nagel, One Nation Indivisible: The Union in American Thought, 1776–1861 (New York:

28 Nicolai N. Petro, “La politica ucraina americana è tutta sulla Russia”, Interesse nazionale, 6 dicembre 2021; Ted Galen Carpenter, “I clienti ‘democratici’ stranieri di Washington diventano di nuovo un imbarazzo”, Cato Institute, 18 febbraio 2021, https://www.cato.org/commentary/washingtons-foreign-democratic-clients-become-embarrassment-again ; “Gli esperti del Consiglio d’Europa criticano le leggi sulla lingua ucraina”, RFE/RL, 7 dicembre 2019.

29 Si veda inoltre David C. Hendrickson e Robert W. Tucker, Revisions in Need of Revising: What Went Wrong in the Iraq War (Carlisle, PA: Army War College, Strategic Studies Institute, 2005).

30 Dominic Tierney, “The Legacy of Obama’s Worst Mistake”, Atlantic, 15 aprile 2016, https://www.theatlantic.com/international/archive/2016/04/obamas-worst-mistake-libya/478461 .

31 “Libia: New Evidence Shows Refugees and Migrants Inpped in Orrific Cycle of Abuses,” Amnesty International, 24 settembre 2020, https://www.amnesty.org/en/latest/news/2020/09/libya-new- prove-mostra-rifugiati-e-migranti-intrappolati-in-un-orribile-ciclo-di-abuso .

32 “Organizzazioni terroristiche straniere”, Bureau of Counterterrorism, https://www.state.gov/foreign-terrorist-organizations .

33La tesi sull’occupazione della Germania e del Giappone mostra che la forza può costruire la democrazia manca di altri due fatti pertinenti. Entrambi i paesi avevano commesso un’aggressione su larga scala e furono a loro volta distrutti, le loro città ridotte in cenere. Quella era una sorta di condizione sospensiva per la successiva ricostruzione. Nessuna sequenza del genere era immaginabile nei casi di Afghanistan et al. Gli Stati Uniti, inoltre, non entrarono in guerra nel 1941 per “promuovere la democrazia”, ma per sconfiggere Germania e Giappone. Nei successivi tre anni e mezzo lo fecero senza rimorsi, quasi senza pensare alla vita dopo il V-Day. Il dovere di ricostruire quelle società derivava dal fatto dell’occupazione, per la quale la democrazia rappresentativa sembrava non irragionevolmente la scelta migliore, seppur con tutele per garantire contro il ritorno alle cattive abitudini delle nazioni aggressori.

34 Daniel Webster, “Il carattere di Washington”, Le opere di Daniel Webster, ed. Edward Everett, 22 febbraio 1832, (Boston, MA: Wentworth Press, 1851), 230.

35 Larry Diamond, La vittoria sprecata: l’occupazione americana e lo sforzo pasticciato per portare la democrazia in Iraq (New York: Times Books, 2005).

36 L’approccio degli Stati Uniti alla costruzione della democrazia in Iraq si riflette nei commenti del generale James Mattis, il comandante della Marina in Iraq che è diventato il Segretario alla Difesa di Trump: “Sii educato, sii professionale, ma abbi un piano per uccidere tutti quelli che incontri”. E questo: “Vengo in pace. Non ho portato l’artiglieria. Ma ti sto implorando, con le lacrime agli occhi: se mi fotti, vi ammazzo tutti”. Questi metodi, inutile dirlo, non compaiono nelle Regole dell’Ordine di Robert. Mattis è citato in Thomas Ricks, “Mattis as Defense Secretary”, Foreign Policy, 21 novembre 2016, https://foreignpolicy.com/2016/11/21/mattis-as-defense-secretary-what-it-means- per-noi-per-i-militari-e-per-trump/ .

37 Nicholas Mulder, The Economic Weapon: The Rise of Sanctions as a Tool of Modern War (New Haven, CT: Yale University Press, 2022).

38 Oona A. Hathaway e Scott J. Shapiro, The Internationalists: How a Radical Plan to Outlaw War Remade the World (New York: Simon and Schuster, 2017).

39 David Miliband, “The Afghan Economy is a Falling House of Cards”, CNN, 20 gennaio 2022. https://www.cnn.com/2022/01/20/opinions/afghan-economy-falling-house-cards -miliband/indice.html .

40 Miliband, “L’economia afgana”.

41 Charlie Savage, “Rifiutare la domanda da parte dei talebani, Biden si trasferisce per dividere $ 7 miliardi in fondi afgani congelati”, New York Times, 11 febbraio 2022, https://www.nytimes.com/2022/02/11/us/ policy/taliban-afghanistan-911-families-frozen-funds.html ; Ezra Klein, “Se Joe Biden non cambia rotta, questo sarà il suo peggior fallimento”, New York Times, 20 febbraio 2022, https://www.nytimes.com/2022/02/20/opinion/afghanistan- fame-biden.html .

42 Robert Heilbroner, “Counterrevolutionary America”, Commentary, aprile 1967, https://www.commentary.org/articles/robert-heilbroner/counterrevolutionary-america/ .

43 Ted Galen Carpenter, Gullible Superpower: US Support for Bogus Foreign Democratic Movements (Washington, DC: Cato Institute, 2019).

44 Ted Galen Carpenter e Malou Innocent, partner pericolosi: i vantaggi e le insidie ​​delle alleanze americane con i regimi autoritari (Washington, DC: Cato Institute, 2015).

45 Una classica dichiarazione di Abraham Lincoln e amici, “Resolutions in Behalf of Hungarian Freedom, 9 gennaio 1852”, The Collected Works of Abraham Lincoln, ed. Roy F. Basler, (New Brunswick, NJ: Rutgers University Press, 1953), 115–116.

46 George F. Kennan, “America and the Russian Future”, Foreign Affairs 29 (aprile 1951), 351–370, citato in James Carden, “George Kennan and the Russian Future”, Asia Times, 29 marzo 2022.

47 Sarah Repucci e Amy Slipowitz, “Freedom in the World 2021: Democracy Under Siege”, Freedom House, nd

48 Doug Bandow, “Il vertice di Joe Biden per la democrazia ha un grave difetto”, Cato Institute, 30 novembre 2021, https://www.cato.org/commentary/joe-bidens-summit-democracy-has-serious-flaw .

49 Si veda, ad esempio, Robert Kagan, Il ritorno della storia e la fine dei sogni (New York: Knopf, 2008).

50 Brian Hook, “Note per il segretario”, Politico, 17 maggio 2017, https://www.politico.com/f/?id=00000160-6c37-da3c-a371-ec3f13380001 .

51 Si veda, ad esempio, Daniel H. Joyner, Iran’s Nuclear Program and International Law: From Confrontation to Accord (Oxford, UK: Oxford University Press, 2016).

52 Cfr. “Rapporto interagenzia sull’attuazione del memorandum presidenziale sull’avanzamento dei diritti umani delle persone LGBTQI+ nel mondo (2022),” Governo federale degli Stati Uniti, 28 aprile 2022, https://www.state.gov/wp- content/uploads/2022/04/Report-Interagency-on-the-Implementation-of-the-Presidential-Memorandum-on-Advancing-the-Human-Rights-of-Lesbian-Gay-Bisexual-Transgender-Queer-and- Intersessuali-Persone-Around-the-World-2022.pdf .

53 I casi in cui questa vecchia verità è stata abbandonata sono descritti in dettaglio in Glenn Greenwald, “The Pressure Campaign on Spotify to Remove Joe Rogan Reveals the Religion of Liberals: Censorship”, Substack, 29 gennaio 2022, https://greenwald.substack. com/p/la-campagna-pressione-su-spotify .

54 AFP, “Moscow Shutting Down Amnesty, Human Rights Watch in Russia”, Moscow Times, 8 aprile 2022, https://www.themoscowtimes.com/2022/04/08/moscow-shutting-down-amnesty-human- diritti-orologio-in-russia-a77290 .

55 Steven Erlanger e Steven Lee Myers, “NATO Allies Oppose Bush on Georgia and Ukraine”, New York Times, 3 aprile 2008, https://www.nytimes.com/2008/04/03/world/europe/03nato. html .

56 David C. Hendrickson, “The Causes of the War”, American Conservative, 4 marzo 2022, https://www.theamericanconservative.com/articles/the-causes-of-the-war/ .

57 Benjamin H. Friedman e Harvey Sapolsky, “Unrestrained: The Politics of America’s Primacist Foreign Policy”; A. Trevor Thrall e Benjamin H. Friedman, US Grand Strategy in the 21st Century: The Case for Restraint (New York: Routledge, 2018).

58 Rebecca U. Thorpe, The American Warfare State: The Domestic Politics of Military Spending (Chicago: University of Chicago Press, 2014).

59 Il cambiamento dell’umore pubblico è descritto in dettaglio in A. Trevor Thrall, “Identifying the Restraint Constituency,” US Grand Strategy.

60 Questa dinamica è elaborata in Christopher Layne, The Peace of Illusions: American Grand Strategy from 1940 to the Present (Ithaca, NY: Cornell University Press, 2006) e Barry Posen, Restraint: A New Foundation for US Grand Strategy (Ithaca, NY : Cornell University Press, 2014).

61 Federalista n. 8.

62 Un’ampia letteratura di scienze politiche dedicata all’affermazione che le democrazie non si combattono tra loro non rileva questo punto chiave. Vedere la discussione in Michael Lind, The American Way of Strategy (Oxford, Regno Unito: Oxford University Press, 2006), 35–36; e Mark E. Pietrzyk, International Order and Individual Liberty: Effects of War and Peace on the Development of Governments (Lanham, MD: University Press of America, 2002).

63 Immanuel Kant, La metafisica della morale, ed. Lara Denis (Cambridge, Regno Unito: Cambridge University Press, 2017), 129.

64 Thomas Knock, To End All Wars: Woodrow Wilson and the Quest for a New World Order (Oxford, Regno Unito: Oxford University Press, 1992), 261.

65 Per un effetto simile, vedere Christopher Preble, The Power Problem: How American Military Dominance ci rende meno sicuri, meno prosperi e meno liberi (Itaca, NY: Cornell University Press, 2014).

https://www.defensepriorities.org/explainers/at-the-end-of-its-tether

La Turchia, l’Italia e il realismo_di Giuseppe Gagliano

Articolo come sempre ben centrato nella sua consueta essenzialità. Il focus è incentrato su uno Stato, la Turchia e un capo di governo, Erdogan, destinati ad assumere, nella veste di una potenza di media grandezza, un ruolo di primo piano in un ampio, se non addirittura sovradimensionato, in assenza di supporto e placet da parte dei grandi, spazio che va dall’area turcomanna, ai Balcani, all’Europa Orientale, al vicino oriente, al Mediterraneo Centro-Orientale, all’Africa Sahariana e Sub-sahariana. Offre altresì uno spunto interessante sulle miserie domestiche per caratterizzare ulteriormente, a seconda dei casi, la postura rispettivamente di plenipotenziario, di luogotenente e di cerbero di Mario Draghi, sotto le mentite spoglie di Capo di Governo. Non so se avete notato l’apparente discrasia tra l’annuncio trionfalistico e denso di aspettative per il prestigio del paese che ha accompagnato l’investitura a Presidente del Consiglio di Mario Draghi e il tono dimesso che ha accompagnato le particolari e specifiche prestazioni del nostro nell’agone internazionale. Un po’ c’entra la goffaggine con la quale il nostro si è avventurato nelle sue scorribande, specie esterne e prospicienti al suo territorio di elezione e di coltura, l’Europa; una sorta di ripetitore automatico, spesso gracchiante ed approssimativo. Tantissimo c’entra il merito della sua missione e la natura dell’esercizio delle sue funzioni.

Mario Draghi, ammantato dell’aura di supertecnocrate, è stato invocato per sistemare la farraginosa macchina amministrativa quel tanto che bastasse per avviare e mettere in atto il PNRR. Al di là delle aspettative illusorie affidate al piano e al netto dei suoi aspetti compromettenti e vincolanti, il nostro sta deludendo nell’ambito riformatore, sta ampiamente conseguendo altresì l’obbiettivo di vincolare ulteriormente le future politiche economiche e, conseguentemente, le dinamiche geopolitiche del nostro paese al carro NATO-UE ormai sempre più simbiotico. La missione ormai nemmeno tanto più occulta ed imprescindibile è un’altra: condurre con mano i paesi europei dell’area mediterranea all’interno delle spericolate strategie dell’attuale leadership americana. Con poco sforzo Spagna, Portogallo e Grecia hanno seguito il buon pastore in ordine ed allineati. Vigilare sui comportamenti di Macron in Francia e Scholz in Germania. I due conoscono sin troppo bene la propensione gregaria e la fonte primaria della sua affiliazione. E’ evidente lo scarso gradimento riguardo alla sua ossessiva presenza; hanno il serio problema, a prescindere dalla loro indole e propensione politica, di dover fronteggiare i forti impulsi di autonomia presenti all’interno dei rispettivi paesi. Che sia questa la funzione essenziale da svolgere lo si deduce dalla irrilevanza dei risultati ottenuti in ambito UE da Mario Draghi in materia di calmieramento e compensazione dei danni seguiti alla pedissequa attuazione delle sanzioni nominalmente ai danni della Russia. L’aspetto più pernicioso, che rivela per altro definitivamente lo spessore umano della persona e dell’uomo di governo, si è manifestato nella postura assunta di recente nei confronti della Turchia. A fronte di qualche risultato raggiunto nel campo degli scambi commerciali e delle commesse industriali, in settori nei quali per altro l’Italia ha mantenuto parzialmente la capacità produttiva ma perso significativamente il controllo strategico, risalta l’accettazione acritica della superiore postura strategica assunta dalla Turchia in aree di interesse vitale dell’Italia, a cominciare dal controllo degli hub energetici del Mediterraneo Orientale per finire con la gestione della crisi libica. Il tutto ovviamente in linea con l’accettazione pedissequa dei nuovi orientamenti statunitensi nei confronti della Turchia, ma particolarmente onerosi per il nostro paese. Dal punto di vista simbolico la irridente anticamera imposta a Draghi e a mezzo governo italiano in attesa del vertice è stata una significativa illustrazione della reale condizione geopolitica del nostro paese della quale il nostro luogotenente non fa che prendere atto e perseguire, perfezionandola. Questo commento non è una gratuita e sterile manifestazione di livore nei confronti di un personaggio tanto estraneo quanto influente nell’agone politico italiano. Vuole stigmatizzare la tragica e grave condizione nella quale sta trascinando il paese grazie alla sua pedissequa e solerte esecuzione dei dictat statunitensi. Non è demerito suo esclusivo. Ad esso contribuiscono la grettezza della quasi totalità della nostra classe dirigente e, con la parziale eccezione di parte degli ambienti vaticani, la condizione inebetita dell’intero ceto politico. Quest’ultima è ancora una volta patrimonio comune delle compagini che sostengono il governo e della forza di opposizione: la prima a partire dalla veste assunta dal Partito Democratico, il quale per esplicita ed ostentata ammissione, ha scelto una postura “discreta” e riservata proprio per non ostacolare il cammino di Draghi; la seconda, Fratelli d’Italia, assumendo una posizione ostentatamente più realista del re tale da farla apparire pienamente corresponsabile dei prossimi disastri annunciati. Sulla base degli antefatti, molto probabilmente Mario Draghi riuscirà a sgattaiolare senza particolari danni in tempo utile per sfuggire al prossimo redde rationem; addirittura con qualche benemerenza e lascito aggiuntivo. Il cerino acceso rimarrà in mano ai suoi improbabili epigoni. In quel momento, ormai prossimo, il paese dovrà seguire necessariamente una delle due vie obbligate: una opzione autonoma ed indipendente, dai costi comunque pesanti, tale da tirarsi fuori dalla trappola costruita dall’avventurismo disperato dell’attuale leadership statunitense; la continuità nelle attuali per così dire “scelte” che avranno per epilogo l’individuazione definitiva nella Russia del capro espiatorio responsabile del disastro autolesionistico economico-sociale prossimo a venire e relativo corollario di una politica apertamente bellicista, del tutto autolesionistica per l’intero continente europeo. Il compimento tragico di un percorso avviato con la 1a guerra mondiale e proseguito con la 2a. Un paese come l’Italia, il quale quattro anni fa, ha ostentatamente rifiutato di giocare nel Mediterraneo le carte che le sono state offerte, non merita alcuna considerazione, almeno sino a quando non vorrà liberarsi delle proprie nullità al comando. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Come le democrazie liberali a volte si piegano alla ragion di Stato. Il caso della Turchia e dell’Egitto. Il corsivo di Giuseppe Gagliano

Numerosi sono i cantori dei supremi valori della democrazia liberale. Valori, questi, che tuttavia – almeno nel contesto della politica estera – vengono profondamente ridimensionati di fronte alla ragion di Stato. Per non dire vanificati. Ieri con l’Egitto. Oggi con la Turchia.

Questa discrasia tra la realtà effettuale e i nostri ideali è pienamente giustificabile e comprensibile all’interno di una determinata cornice teorica quale quella del realismo ma diventa priva di legittimità e di giustificazione se si abbraccia un approccio di tipo liberale alla politica internazionale. Cosa ha indotto il nostro paese a consolidare i propri legami con la Turchia dopo le dichiarazioni di Mario Draghi fatte lo scorso anno a proposito del premier Erdogan definito un dittatore ? Vediamole in breve.

In primo luogo la necessità di contenere i flussi migratori proventi della Libia, sulla quale ormai la Turchia esercita una politica di influenza sempre più rilevante che ha in breve tempo marginalizzato quella italiana; in secondo luogo, grazie al gasdotto Tap l’Italia avrà sempre più bisogno della Turchia. E avrà sempre più bisogno della Turchia come delle nazioni africane e di quelle mediorientali perché l’Italia ha da molto tempo rinunciato ad avere una politica energetica autonoma.

Quanto alle sinergie strette tra Italia e Turchia nel settore degli armamenti queste non fanno altro che consolidare quelle che già esistono da molto tempo, come abbiamo avuto modo di indicare in un articolo precedente. Se poi guardiamo alle scelte poste in essere dal premier turco sia in relazione al vertice di Madrid della Nato – dove è riuscito a ottenere, senza troppo clamore, che in cambio di un suo ‘sì’, in relazione all’ingresso di Helsinki e Stoccolma nella Nato, la Finlandia e la Svezia promettessero di non prestare più sostegno ai leader curdi che Ankara considera ‘terroristi’ -, sia a indurre gli USA a rivedere la loro decisione di non vendere i 40 caccia F16 il vero vincitore del vertice di Madrid è certamente il premier turco.

Forse sulla carta e sui preziosi volumi di diritto internazionale e di filosofia della politica i valori della democrazia sono sacri e puri – come l’amore narrato nei film hollywoodiani – ma nel contesto della realtà conflittuale, quale è quella della politica internazionale, questi valori vengono profondamente ridimensionati e relativizzati. Ecco che allora la realtà concreta nella quale viviamo assomiglia a una via di mezzo fra un dramma e una tragica farsa.

https://www.startmag.it/mondo/turchia-egitto-italia-ragion-di-stato/?fbclid=IwAR01QO-5qz7R_tQLpoOGDb3c83f-DfpOfnKyd9vufBZmVgoMqtKPKi9CTq8

L’ELEZIONE DI ZELENSKY E QUELLE PROMESSE TRADITE AGLI OCCHI DEL MONDO, di Marco Giuliani

L’ELEZIONE DI ZELENSKY E QUELLE PROMESSE TRADITE AGLI OCCHI DEL MONDO

Correva il 2019. Quando il conflitto poteva ancora essere evitato, il leader ucraino remò contro

Nel 2019, una volta eletto presidente ai ballottaggi con il 73% dei voti, Volodymyr Zelensky ha trasformato la sua natura di comico d’avanspettacolo televisivo in cruda realtà, soprattutto quella legata alla sorte futura dei suoi connazionali (malgrado loro). Nel puntualizzare le promesse disattese di questo personaggio, in primo luogo di fronte alla comunità internazionale, è opportuno ripercorrere analiticamente il processo politico che, dal punto di vista di Kiev, ha provocato la tragedia militare in corso da quasi cinque mesi nell’Est europeo. Processo che, come ormai noto a tutti, sta mutando gli equilibri geopolitici di mezzo mondo.

Quali furono i presupposti per la candidatura di Zelensky alla presidenza della Rada ucraina? Quale programma elettorale determinò la sua vasta popolarità nel paese che decise di dargli fiducia? Procediamo per ordine. Oltre alle promesse di “smontare” gli establishments oligarchici che di fatto imperversavano nella cosa pubblica e nell’amministrazione ucraine dando luogo a vasti fenomeni di corruzione, i primi slogan, in politica estera, si ispirarono alla volontà di avvicinare il paese alla zona euro e all’impegno simultaneo di pacificare le aree russofone e quelle a maggioranza ucrainofona, in guerra da decenni (e non dal 2014, come l’informazione convenzionale ripete da tempo). Opzioni entrambe fallite, vuoi per dolo, vuoi per inconsapevole negligenza. Sappiamo che tra le lobbies che sostennero l’ex comico gravitavano personaggi poco limpidi – il controverso banchiere Ihor Kolomoisky, miliardario e vicino agli ambienti neonazisti ucraini, ne è un esempio – ma non è questo il punto. Il problema si è ingigantito a seguito del rifiuto ai posteri di instaurare un dialogo con il Cremlino circa le questioni Crimea-Donbass, dove la popolazione è per circa il 60% a maggioranza russa da secoli, e dove le leggi nel Donetsk contro la libertà di espressione e contro la lingua da parte degli ucraini si sono susseguite negli anni e inasprite – guarda caso – proprio con Zelensky. Il quale Zelensky, soggiogato (ma soprattutto foraggiato) dalla Nato e dai governi occidentali filostatunitensi, non ha fatto altro che provocare il muro contro muro. E di conseguenza, altri morti. Lo ha fatto di fronte alla comunità internazionale, che nonostante tutto, ha iniziato ad appoggiarlo con lo scopo di cercare un casus belli per scontrarsi con Putin.

Non bisogna dimenticare – contrariamente a quanto fanno oggi i leaders e i media mainstream euro-atlantici – che nel 2010, alle presidenziali indette da Kiev, i candidati filorussi presero il 90% dei voti. Dopo di che, dal 2019 a oggi, che corre la metà del 2022, le condizioni nell’Ucraina sudorientale sono precipitate. Non solo a causa dell’attacco russo, ma anche perché smentendo quanto garantito nel suo programma politico preelettorale, l’ex comico ha fatto l’opposto di ciò che sarebbe stato opportuno e sacrosanto per evitare la guerra, o quanto meno interromperla: complicità in quelle che si possono definire vere e proprie leggi razziali ai danni delle minoranze russofone, il rifiuto per qualsiasi tipo di trattativa per giungere ad accordi bilaterali che ratificassero la carta di Minsk, e in ultimo, la svolta atlantista e guerrafondaia che nel tempo ha attirato a sé tutta una serie di movimenti neonazisti ben armati e sfruttati militarmente in chiave antirussa. Salvo farli passare da molti per “eroi della resistenza”.

La recrudescenza del sentimento di contrapposizione a coloro che ormai vengono considerati da Biden & c. come i nemici da abbattere senza compromessi, ha pochi precedenti, se non dal 1945; detta condizione, legata alla paventata e stupida idea di fornire armi non più difensive ma a lungo raggio a Kiev (promossa dal deposto Johnson e non scartata dal governo italiano “dei migliori”), a conflitto ormai in corso e ferme restando le colpe di Mosca, suggerisce che c’è premeditazione. Da un lato gli alleati atlantici, che hanno trasformato l’Europa in una propria succursale senza proporre compromessi bensì rimpinguando lo scontro, e dall’altro un governo che in pieno terzo millennio usa mezzi vecchi e spicci per risolvere controversie internazionali. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

 

MARCO GIULIANI

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA & SITOGRAFIA

 

  1. Sciuto, Quegli strani neonazisti europeisti e atlantisti in Ucraina, articolo del 7 marzo 2022 in Micromega –

www.analisidifesa.it

www.balcanicaucaso.org

www.iltempo.it, pagina del 2 giugno 2022

www.ukrcensus.gov.ua., censimento della popolazione ucraina effettuato nel 2001 –

 

 

 

 

 

 

 

PERCHÉ L’UCRAINA NON PUÒ VINCERE CONTRO LA RUSSIA?_di Roberto Buffagni

PERCHÉ L’UCRAINA NON PUÒ VINCERE CONTRO LA RUSSIA?

Che cosa vuole dire che “l’Ucraina non può vincere contro la Russia”?

Vuole dire che:

  1. Le risorse strategiche russe (popolazione, “potenza latente” economica, “potenza manifesta” militare, ossia truppe mobilitate e mobilitabili + armamenti e materiali + arsenale atomico tattico e strategico) sono di gran lunga superiori alle risorse strategiche ucraine, nonostante gli aiuti militari e finanziari occidentali.
  2. Il contesto delle ostilità in Ucraina è la strategia statunitense: prolungamento della guerra a tempo indeterminato, dissanguamento e destabilizzazione politica della Russia, regime change, frammentazione politica della Federazione russa, in vista del contenimento del nemico principale, la Cina. In sintesi, i dirigenti ucraini hanno noleggiato la loro popolazione, il loro Stato, le loro FFA per il perseguimento di questa strategia statunitense.
  3. La strategia statunitense rappresenta una chiara minaccia esistenziale per la Federazione russa, che non può permettersi di perdere il confronto militare con l’Ucraina, che è una sineddoche del confronto Russia/USA-NATO.
  4. Ciò implica che l’Ucraina non può fare ricorso all’unica strategia politico-militare possibile per il debole nei confronti del forte: rendere sfavorevole, per il forte, il rapporto costi/benefici del conflitto con il debole.Tu mi puoi sconfiggere e conquistare, ma ti costerà più di quel che ti rende.” È il criterio ordinatore della strategia di “dissuasion du faible au fort” elaborata dal gen. Gallois per l’istituzione della force de frappe nucleare francese voluta da de Gaulle.
  5. Mi spiego meglio. Il debole, in questo caso l’Ucraina, può infliggere gravi perdite umane, materiali e politiche al forte, la Russia. Se la posta in gioco fosse limitata, ad esempio una controversia territoriale, patendo l’accanita resistenza del debole il forte potrebbe, in base a un calcolo costi/benefici, accettare un compromesso, riducendo le sue esigenze politiche a quanto ritiene strettamente necessario; o addirittura rinunciare a combattere e ritirarsi, come fecero gli Stati Uniti in Vietnam.
  6. Se invece il forte, come nel presente caso, non può permettersi di perdere la guerra, perché una sconfitta decisiva mette a rischio la sua sopravvivenza politica, esso sarà disposto a sopportare qualsiasi costo del conflitto, e impiegherà tutte le sue risorse strategiche per vincerlo. Al debole, dunque, non basterà infliggere ripetute sconfitte tattiche al forte, né infliggergli gravi perdite, anche superiori alle proprie, per spezzare la sua volontà di combattere.
  7. Dunque, paradossalmente, è proprio l’unanime schieramento occidentale a sostegno dell’Ucraina a garantire che l’Ucraina sarà sconfitta dalla Russia.
  8. Infatti, il sostegno occidentale all’Ucraina non può spingersi fino a un conflitto diretto NATO-Russia, per l’elevato rischio di una escalation nucleare, tattica ma anche strategica, delle ostilità, che metterebbe a rischio lo stesso territorio statunitense. Dunque, lo schieramento NATO non può riequilibrare i rapporti di forza tra le risorse strategiche ucraine e le risorse strategiche russe.
  9. Lo schieramento NATO in appoggio all’Ucraina, invece, sortisce l’effetto paradossale di alzare la posta del conflitto fino al cielo, per la Russia, perché ne minaccia la sopravvivenza politica e dunque la costringe a vincere ad ogni costo, perché per la Russia, qualsiasi costo delle ostilità sarà sempre minore della propria distruzione.
  10. Questa maestosa eterogenesi dei fini fa sì che l’Ucraina sia matematicamente condannata alla sconfitta. Scrivo “matematicamente” perché se l’Ucraina non può adottare la strategia “du faible au fort”, rendendo sfavorevole per la Russia il rapporto costi/benefici del conflitto, ad operare sarà la semplice proporzione matematica tra le risorse strategiche ucraine e le risorse strategiche russe, più che sufficiente a predeterminare l’esito del conflitto.

La giunta maliana non è un “regime difensivo nazionalista” ma un pioniere africano, di Andrew Korybko

Ci siamo soffermati più volte sul Mali, grazie anche ai fondamentali contributi di Bernard Lugan. E’ stato il primo paese a subire i pesanti contraccolpi dello scellerato intervento della NATO in Libia, nel 2011, conclusosi con il terribile eccidio di Gheddafi e di uno dei suoi figli. Le truppe scelte di pretoriani, rimasti orfani del capo e mecenate, presero la strada del Mali e diedero un apporto sostanziale alla ripresa dei conflitti di natura tribale in un quadro di contrapposizione atavica tra la popolazione nera stanziale e quella nomade presente a nord del paese. I francesi furono chiamati dai militari al governo a sedare la ribellione. Agirono, più o meno pretestuosamente, adottando il comodo discrimine del conflitto religioso, facendo della guerra al radicalismo islamico il vessillo delle loro imprese e costringendo l’azione politico-militare entro questa chiave largamente fuorviante. Il risultato è stato l’acuirsi delle rivalità e il fallimento disastroso dell’operazione nell’immediato. Ancora peggiori e disastrose le conseguenze future, in particolare per la Francia e per tutti i paesi, compresa l’Italia, i quali del tutto gratuitamente hanno offerto il sostegno all’operazione. Il discredito e l’alea di impotenza ed inaffidabilità rapace che sono riusciti a generare priverà di senso e autorevolezza ogni dichiarazione di intenti per decenni. La situazione dei regimi politici africani è profondamente cambiata. Sono realtà fortemente dipendenti dal punto di vista economico e politico, ma non sono più semplici marionette da manipolare a piacimento; soprattutto possono contare su numerosi interlocutori alternativi all’Occidente, dalla Cina, alla Russia, alla Turchia, all’India, ai sauditi. Hanno rapidamente imparato a non dire sì prima ancora che si pongano le domande. Una postura che il ceto politico italiota è ancora lungi da perseguire con la conseguente immagine e realtà di vacuità ed insignificanza che l’Italia ormai offre da tempo. Mario Draghi ne rappresenta solo l’apoteosi e l’essenza mortifera definitiva. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Colpo di stato in Mali; come la giunta ecowas ha revocato le sanzioni economiche

L’esempio maliano incute timore nel cuore dei leader occidentali poiché li fa sospettare che alcuni degli stessi uomini incaricati di far rispettare i loro regimi neocoloniali nell’Africa occidentale potrebbero essere segretamente combattenti per la libertà antimperialisti che complottano per rovesciare questi sistemi ingiusti dall’interno come la giunta di quel paese era chiaramente con il senno di poi.

La BBC ha condannato la giunta maliana come un cosiddetto “regime nazionalista difensivo” che “ha abilmente giocato” sulle percezioni popolari nella regione per convincere l’ECOWAS a revocare le sue sanzioni paralizzanti in un pezzo che l’outlet ha appena pubblicato intitolato ” Colpo di stato in Mali: come la giunta ha fatto revocare le sanzioni economiche di Ecowas ”. Non è altro che un pezzo di successo che ruota la valorosa difesa della giunta di interessi nazionali oggettivi di fronte alle sanzioni neoimperialistiche sostenute dalla Francia dell’ECOWAS a causa della paura che l’Occidente guidato dagli Stati Uniti ha dell’esempio continentale dato da Bamako.

Attraverso “l’approvazione di una nuova legge elettorale e disposizioni per un’autorità elettorale, e una tabella di marcia dettagliata per la transizione e, soprattutto, un calendario fisso che fissa una scadenza fissa per il primo turno delle elezioni presidenziali che si terrà a febbraio 2024”, la giunta ha convinto questo blocco regionale a revocare le sue restrizioni economiche nei confronti del Paese. Rispondendo con aria di sfida a “ogni messaggio duro di Ecowas o dell’Europa e delle Nazioni Unite”, sono stati anche in grado di convincere il popolo dell’Africa occidentale che l’ECOWAS sta effettivamente lavorando contro tutti loro, il che è ciò che ha portato alla revoca delle sanzioni.

Dopotutto, l’ECOWAS pretende di agire in nome del popolo dei suoi stati membri, ergo il pretesto con cui ha sanzionato in primo luogo la giunta maliana. La falsa base era quella di “ristabilire la democrazia” lì, ma l’ultimo colpo di stato è stato davvero popolare tra le masse che la BBC, a suo merito, ha accuratamente riferito che erano desiderose “di un cambiamento radicale in un paese la cui élite tradizionale era stata presumibilmente marcita dalla corruzione e dall’autocompiacimento. ” Insieme alla campagna “antiterrorista” lunga anni della Francia che molti ritenevano fosse una copertura per lo sfruttamento neocoloniale del paese, è chiaro il motivo per cui si è verificato il colpo di stato.

La giunta maliana ha quindi aperto la strada a un nuovo modello da seguire per tutti gli altri paesi africani. In primo luogo, l’esercito era motivato da ragioni genuinamente patriottiche e antimperialistiche per rovesciare il governo corrotto sostenuto dalla Francia. In secondo luogo, questa era una sincera espressione della volontà popolare. In terzo luogo, la successiva sanzione da parte dell’ECOWAS del loro stato ha peggiorato direttamente la vita della gente media. In quarto luogo, invece di rivoltarli contro la giunta, ha cambiato decisamente il loro atteggiamento contro l’ECOWAS ei suoi sostenitori occidentali. E quinto, la risposta provocatoria della giunta a tutte le pressioni ha ispirato gli africani ovunque.

Elaborando quest’ultimo punto, tutti hanno visto come un movimento militare genuinamente patriottico e popolare può resistere a un blocco regionale sostenuto dall’Occidente di fronte a sanzioni paralizzanti senza concedere unilateralmente alcuna questione di interessi nazionali oggettivi. Al contrario, la giunta ha articolato in modo convincente questi stessi interessi in risposta a pressioni massicce e quindi è servita a educare la popolazione su di essi, il che a sua volta ha aumentato ulteriormente il loro sostegno. Questa rivoluzione della coscienza di massa, che era già in divenire da molto tempo, può essere descritta come un punto di svolta.

Questo perché non è solo un’esclusiva del Mali, ma si sta diffondendo in tutta l’Africa occidentale – che è pronta a diventare un importante campo di battaglia per procura nella Nuova Guerra Fredda – e nel continente in senso più ampio. Dall’altra parte dell’Africa, la sfida altrettanto coraggiosa dell’Etiopia di fronte a pressioni senza precedenti su di essa per concedere unilateralmente la sua autonomia strategica in risposta alla Guerra del terrore ibrida guidata dagli Stati Uniti, sostenuta dall’Occidente e organizzata dall’Egitto, dal TPLF, ha stabilito un identico esempio. Presi insieme, Etiopia e Mali stanno dimostrando che esistono percorsi diversi verso gli stessi obiettivi di sovranità.

Che siano guidati da un leader genuinamente popolare eletto democraticamente come in Etiopia o da un militare genuinamente popolare salito al potere con un colpo di stato come in Mali, i paesi africani possono proteggere la loro sovranità fintanto che i loro massimi rappresentanti hanno veramente la volontà politica di farlo. Certamente comporta costi considerevoli, come dimostrato da tutto ciò che l’Etiopia ha vissuto come punizione per le sue politiche indipendenti e le enormi sofferenze inflitte al popolo maliano dalle sanzioni neoimperiali dell’ECOWAS, ma questi costi valgono probabilmente la pena per difendere il loro onore e indipendenza.

L’esempio maliano incute timore nei cuori dei leader occidentali ancor più di quello etiope, anche se fa sospettare che alcuni degli stessi uomini incaricati di far rispettare i loro regimi neocoloniali in Africa occidentale potrebbero essere segretamente combattenti per la libertà antimperialisti che complottano per rovesciare questi sistemi ingiusti dall’interno come la giunta di quel paese era chiaramente col senno di poi. Elezioni democratiche come quella che ha confermato la premiership di Abiy Ahmed si verificano in date programmate mentre i colpi di stato militari si verificano inaspettatamente e talvolta quando meno se lo aspetta il Golden Billion dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti.

Considerando il fatto che molteplici regimi neocoloniali sostenuti dall’Occidente continuano ad esistere in Africa occidentale e oltre, l’esempio dato dal Mali potrebbe ispirare “imitatori” in tutto il continente, soprattutto perché hanno appena visto che rispondere con aria di sfida a tutte le pressioni su di loro può avere successo nell’alleviarne alcune manifestazioni come le sanzioni senza concedere unilateralmente interessi nazionali oggettivi. Ecco perché la giunta ha fatto tremare di paura i leader occidentali per ciò che ha appena ottenuto, ecco perché la BBC ha cercato di screditarlo, anche se falliranno nel manipolare le percezioni regionali su di loro.

https://oneworld.press/?module=articles&action=view&id=3056

Ucraina e Africa sono una formula esplosiva per l’UE, di cui pare non avere consapevolezza alcuna. Di Claudio Martinotti Doria

Premetto che non mi ripeterò rispetto a quanto ho già scritto in precedenza, perché francamente ho poca voglia di scrivere, ritenendo che chi è sinceramente desideroso di sapere, capire e interpretare la realtà che ci circonda e prevedere quella che si approssima, dovrebbe ricercare fonti attendibili d’informazione e non abbeverarsi ai media mainstream che fanno solo propaganda di regime, non dovrebbe fare scelte comode e omologate o far finta di nulla e rifiutarsi di sapere come realmente stanno le cose, ma semmai assumersi le proprie responsabilità individuali cercando di fare scelte consapevoli.

Dopo questa breve premessa veniamo all’oggetto di questo mio sintetico intervento: Ucraina (intesa come situazione complessiva in corso e sue ripercussioni) e Africa e la loro stretta correlazione geopolitica, economica e antropologico culturale.

Sull’Ucraina ormai tutti dovrebbero aver capito che il Donbass è stato quasi totalmente liberato dalle forze armate russe e donbassiane e quindi la guerra per gli ucraini è persa nonostante le decine di miliardi armi e finanziamenti stanziati dagli USA, NATO e UE (che vengono usate per colpire obiettivi civili russi e donbassiani) e gli otto anni di addestramento e guerra intestina guidata dagli specialisti NATO nel paese, con lo scopo di provocare e aggredire la Russia per poi smembrarla e depredarla delle sue risorse naturali, perché questo era ed è tuttora lo scopo degli angloamericani, ci sono i piani resi pubblici sui vari siti istituzionali militari e dei principali think tank atlantisti, andate a cercarli e leggeteli.

Dopo il Donbass le forze armate russe e donbassiane, come ho scritto fin dalla fine di febbraio di quest’anno, si dedicheranno all’oblast di Odessa ricongiungendosi alla Transnistria russa, e agli oblast del nordest del paese fino a giungere al grande fiume Dnepr che fungerà da confine naturale tra i due blocchi. L’Ucraina senza le sue regioni più ricche, senza sbocco al mare, diverrà del tutto una colonia polacco-americana, onerosa da mantenere, in quanto ridotta in miseria e difficile da controllare in quanto con una popolazione incazzata (non ben disposta, se vogliamo ricorrere al politically correct.

Anche la guerra economica alla Russia è fallita e si è ritorta contro l’Occidente, UE in primis. Paradossalmente con questa pessima strategia si è favorito proprio quello che si temeva, cioè la creazione di un mondo multipolare con Russia Cina e India (e altri grandi paesi e quasi interi continenti) da un lato e dall’altro un mondo occidentale sempre più isolato e in declino, fondato sulla sottomissione coloniale agli USA come potenza unilaterale ormai al collasso, che sta perdendo il controllo finanziario e militare del mondo. Non sto a soffermarmi sui vari disastri provocati da queste strategie deleterie e disastrose, stagflazione e crisi energetica autoindotta in primis, perché dovreste esserne ormai consapevoli e il peggio deve ancora avvenire, probabilmente già in autunno.

Vediamo invece quali altri disastri si approssimano e non sono stati considerati nella loro gravità: l’Africa.

L’Africa era già una polveriera prima della guerra in Ucraina e delle assurde, per non dire demenziali sanzioni alla Russia, ora sta per esplodere.

L’Africa nel suo complesso, salvo rare eccezioni, ha sempre dovuto subire lo sfruttamento postcoloniale delle multinazionali occidentali, le modalità sono sempre state le stesse ripetute aridamente: si corrompe l’élite locale in genere tribale perché prenda il potere o lo conservi in cambio di concessioni di sfruttamento minerario ed altro, la quale a sua volta tramite un esercito agguerrito e ben remunerato impone la sua volontà e il controllo repressivo sulla maggioranza della popolazione tenuta a livelli di povertà assoluta, mentre l’élite locale si arricchisce. Complici di questo stato di cose tutte le istituzioni internazionali (evito di citare le varie sigle, sostanzialmente ci sono tutte), carrozzoni parassitari al servizio dei poteri forti angloamericani ed europei.

Orbene pochi sanno che la Russia, non solo non ha mai partecipato a questa predazione parassitaria cinica e spietata, ma semmai ha applicato metodologie simili a quelle di Enrico Mattei negli anni ‘50 e ’60 quando agiva per conto di un’Italia non ancora del tutto asservita agli interessi angloamericani. Cioè agiva rispettando le popolazioni locali, evitando la corruzione eccessiva e l’incitamento alla guerra civile, coinvolgendo gli stati africani alla compartecipazione al business pariteticamente o quantomeno trattandoli con maggiore rispetto e onestà. Non solo, la Russia ha da decenni agito a favore degli stati africani per liberarli dalla loro schiavitù da indebitamento e colonizzazione occulta, la stragrande maggioranza della classe dirigente africana si è formata nelle accademie e università russe, spesso ospitata gratuitamente, e di questo impegno russo gli africani sono quasi tutti consapevoli, ne sono intimamente grati e simpatizzano per i russi, ma questo ovviamente non lo trovate pubblicato sui media mainstream. Ma avreste potuto intuirlo, infatti dopo la risoluzione di condanna dell’ONU e l’applicazione delle sanzioni alla Russia quasi tutti gli stati africani si sono rifiutati di aderirvi, per loro sarebbe stato un tradimento nei confronti dell’unico paese che non li ha mai sfruttati ma semmai aiutati. Ma in questo caso non si tratta solo di essere politicamente filorussi, la situazione è più grave. L’Africa per gli approvvigionamenti alimentari ed energetici e logistici dipende in gran parte dalla Russia e dalle regioni del Mar Nero, leggasi in primis Ucraina. Se ci sarà uno stop a questi approvvigionamenti l’Africa esploderà a causa di gravi carestie e non si tratterà solo di immigrazioni di massa che confluiranno sull’Europa, ma di guerre civili e infiltrazioni di organizzazioni criminali e persone pericolose che penetreranno sul suolo europeo arrecando danni immani. L’Europa sta rischiando una deflagrazione mai vista nella sua storia precedente e deve ringraziare la sua classe dirigente mediocre, incompetente, corrotta e iniqua, invece di perdersi dietro al cazzeggio politico mediatico ipocrita e imbarazzante, spesso da mentecatti.  Sarebbe meglio lasciar spazio alle diplomazie serie e qualificate oltre a lasciar mano libera alla Russia di porre rimedio, l’Unica in grado di evitare la catastrofe avviata dagli angloamericani, intervenendo in maniera appropriata in Africa, come ha dimostrato di saper fare già in alcuni paesi dove i rapporti con la Russia sono molto stretti, intensi e costruttivi, dove, per capirci fino in fondo, la Russia è di casa, nonostante qualche imbecille di leader occidentale ritenesse di sfidarla tramite l’Ucraina, senza rendersi conto che era già presente sul Mediterraneo proprio di fronte alle sue coste.

Ma forse ormai l’Occidente ha scelto la distruzione propria e altrui come unica soluzione al suo inesorabile fallimento a 360 gradi, della serie “muoia Sansone con tutti i Filistei”.

Cav. Dottor Claudio Martinotti Doria, Via Roma 126, 15039 Ozzano Monferrato (AL), Unione delle Cinque Terre del Monferrato,  Italy,

Email: claudio@gc-colibri.com  – Blog: www.cavalieredimonferrato.it – http://www.casalenews.it/patri-259-montisferrati-storie-aleramiche-e-dintorni

QUANTO COSTA LA BONTA’?_di Roberto Buffagni

QUANTO COSTA LA BONTA’?

Non so se noi italiani abbiamo capito che la strategia americana sull’Ucraina (prolungare la guerra, dissanguare la Russia, provocarne la destabilizzazione e la frammentazione politica in vista del contenimento della Cina) ha un effetto collaterale garantito, per noi: rapida fine del welfare, per quel che ne resta, che non è poco (sanità e istruzione pubbliche anzitutto).

Sono molto ignorante in economia, se qualcuno che se ne intende correggerà gli errori che certo commetterò gliene sarò grato. In logica però me la cavo. La logica che propongo è la seguente.

La strategia americana implica questi presupposti:

  1. Finanziare a tempo indeterminato l’Ucraina, uno Stato in guerra con una grande potenza dotata di risorse strategiche di molto superiori; uno Stato la cui economia è già devastata, e lo sarà progressivamente sempre di più. Dunque non solo finanziare le FFAA ucraine, ma un intero paese grande il doppio dell’Italia che già ora non è in grado di provvedere autonomamente ai bisogni elementari della sua popolazione e delle sue istituzioni, e lo sarà sempre meno.
  2. L’Europa mediterranea non conta più nulla, conta soltanto l’Europa Orientale e Scandinava, che deve diventare l’hub logistico della guerra contro la Russia, fornire truppe, prendere posizioni politiche utili (es., adesione alla NATO di Finlandia e Svezia).
  3. Qualcuno deve pagare i conti al punto 1 e 2 + tutti i conti accessori, ad es. quel che chiede e chiederà la Turchia, un elemento chiave nella strategia USA. C’è un limite anche alle possibilità americane di erogare denaro con la bacchetta magica della FED. Chi paga il resto? Secondo me paga l’Europa mediterranea, e in prima fila l’Italia, il Bel Paese dove il sì suona ancor prima che gli americani pongano le domande.

Morale: non solo perdiamo mercati per noi molto importanti come il mercato russo, ma dobbiamo pagare il conto stratosferico della strategia che ce li fa perdere. Da dove usciranno questi soldi? Qualcosa mi suggerisce che usciranno dal risparmio degli italiani + dalle casse dello Stato italiano. Il quale non ha la bacchetta magica della FED, non può erogare a debito neanche un euro senza il permesso della UE che ormai coincide con la NATO, e dunque taglierà progressivamente il welfare, obiettivo: welfare zero.

Le classi dirigenti italiane cercheranno di indorare la pillola con cantafavole sulla battaglia della democrazia contro le autocrazie, con la promessa che domani si farà credito, con provvedimenti assistenziali tipo cerottino sulle ferite da mitragliatrice, con la difesa dei diritti inalienabili dell’individuo tipo il suicidio assistito. Quando il confronto tra realtà della vita quotidiana e cantafavole le polverizzerà, si verificheranno vari disordini e proteste che però, non trovando organizzazione e direzione politica adeguate, saranno spente con il vecchio sistema del bastone (manganellate in piazza, denunce e processi a raffica, accertamenti fiscali ai riottosi, etc.).

Sintesi: se vogliamo evitare il peggio, c’è un cambiamento preliminare che noi italiani dovremmo tentare. Il cambiamento è: smettere di identificarci con gli americani, perché almeno oggi, identificarci con gli americani = identificarci con l’aggressore (così funziona la sindrome di Stoccolma).

La subalternità dell’Italia agli USA è un fatto incontestabile, perché l’Italia è stata sconfitta nella IIGM, e assegnata, a Yalta, alla zona d’influenza statunitense. Sino all’implosione dell’URSS, questa subalternità è stata gestita in modo sostanzialmente favorevole, o almeno tollerabile, per l’Italia: per gli USA l’Italia era strategicamente importante, e le classi dirigenti italiane si ritagliavano un margine di autonomia politica per realizzare, nei limiti del possibile, l’interesse nazionale.

Oggi, l’Italia non ha importanza strategica, per gli Stati Uniti. Ce l’avrebbe solo in negativo, ossia se manifestasse serie intenzioni di rompere il fronte NATO – UE e quindi di intralciare o compromettere la strategia antirussa e anticinese americana. Dunque l’Italia passa dalla condizione di Stato satellite alla condizione di colonia vera e propria, da cui estrarre valore politico (adesione perinde ac cadaver alla politica estera USA) e valore economico (pagare il conto della strategia USA), e basta. Se le condizioni sociali della colonia Italia vanno in malora, agli Stati Uniti interessa il giusto: cioè molto, molto poco.

Come si reagisce a queste condizioni poco simpatiche? Anzitutto, fare un esame di realtà e rendersi conto che non possiamo MAI PIU’ ragionare come se l’interesse statunitense e l’interesse italiano coincidessero. Può avvenire, ma sarà sempre una rara eccezione, mai la regola. Poi, imparare a contrattare, e a giocare su più tavoli: come hanno imparato a fare i paesi africani, le ex colonie occidentali che l’esame di realtà, e molto severo, l’hanno dovuto fare prima di noi.

Bisogna anche smettere di identificarsi emotivamente e culturalmente con gli americani. Non è facile, perché il soft power statunitense ha lavorato a lungo e a fondo, e siccome per la cultura eccezionalista americana gli americani sono sempre i Buoni, identificandoci psicologicamente con loro ci sentiamo anche noi Quasi Buoni, sulla via di diventare – domani, quando il Progresso farà credito – Buoni del tutto, Buoni d.o.c..

È bello, sentirsi buoni. Però il presupposto di ogni esame di realtà è riconoscere che anche noi, e non solo gli altri, abbiamo qualcosa che non va: che anche una parte di noi è cattiva, meschina, ignobile. È difficile, è umiliante, lo so. Ma la Bontà, purtroppo, la Bontà non ce la possiamo più permettere. That’s all, folks.

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