Sulle strategie di approccio alla pandemia da Coronavirus: tiriamo le fila_di Roberto Buffagni

Sulle strategie di approccio alla pandemia da Coronavirus: tiriamo le fila

Cari amici vicini & lontani,

proviamo a tirare le fila di questo enorme pasticcio.

Premessa: lo scritto che segue è interamente congetturale. Non ho informazioni privilegiate, non ho competenze epidemiologiche o scientifiche, non ho il numero di telefono del Fato. Come tutti ho osservato gli eventi, e sulla base delle mie esperienze e riflessioni mi sono fatto un’idea di come e perché le cose sono andate così. Ho cercato di mettermi nei panni di chi ha preso le decisioni rilevanti e di chi vi reagiva, di comprenderne le motivazioni, e di individuare le principali dinamiche psicologiche e sociali che ci hanno condotti qua, a questo tragicomico casino. Quindi, tutto ciò che segue è congettura, e l’esposizione di fatti e loro cause che propongo è soltanto verisimile: verisimile secondo me, ovviamente. Vedete voi se siete d’accordo, in tutto o in parte. Benvenuta ogni critica espressa in forma cortese.

Nel marzo 2020, all’esordio dell’epidemia, ho scritto un breve articolo, I due stili strategici di gestione dell’epidemia a confronto1, che con mio grande stupore ha avuto circa un milione (sì, avete letto bene) di letture e una miriade di citazioni sulla stampa, e persino in articoli scientifici.

In estrema sintesi, affermavo che le due polarità di approccio strategico all’epidemia erano:

Stile 1. Non si contrasta il contagio, si punta tutto sulla cura dei malati e si sceglie consapevolmente di sacrificare una quota della propria popolazione, nessun sistema sanitario essendo in grado di prestare cure ospedaliere all’alto numero di malati che ne abbisognano.

Ratio stile 1: prevenire il grave danno economico che consegue alle misure di confinamento della popolazione, accrescere la propria potenza economico-politica relativa rispetto agli Stati che scelgono lo stile 2, e con un’azione rapida e violenta, cogliere un vantaggio strategico immediato sugli avversari.

Stile 2: Si contrasta anzitutto il contagio contenendolo il più possibile con provvedimenti emergenziali di isolamento della popolazione.

Ratio stile 2: accettare il danno economico temporaneo, e, così proteggendo la propria popolazione, rafforzarne la coesione sociale e culturale, per infondere “uguali propositi nei superiori e negli inferiori” (Sun Tzu) e cogliere un vantaggio strategico di lungo periodo sugli avversari.

Riconducevo infine le scelte di stile strategico degli Stati alla cultura, non solo politica, in essi prevalente.

In contemporanea all’esordio dell’epidemia, accade quanto segue.

Il centro del sistema politico occidentale, gli Stati Uniti d’America all’epoca presieduti da Donald Trump, sceglie d’istinto lo stile 1 (compatibilmente al margine di autonomia decisionale degli Stati, che specie quando siano diretti dai Democrat fanno scelte diverse, più prossime allo Stile 2). Il governo federale tende a ridurre al minimo i confinamenti, senza imporli mai, e incarica i suoi consulenti medico-scientifici di approntare cure efficaci nel minor tempo possibile. Obiettivo principale: garantire il normale funzionamento del sistema economico; obiettivo secondario: ridurre al minimo l’intervento del governo federale nella vita quotidiana degli americani. La ratio culturale è liberal-darwinista: il primo bene da preservare è la libertà individuale, anzitutto la libertà economica di confliggere sul mercato, simbolicamente assimilato alla frontiera, uno dei maggiori miti di fondazione degli USA; il secondo bene da proteggere è l’autonomia degli individui e delle comunità locali dall’invasiva ingegneria sociale del governo federale, connotato tipico dell’avversario politico Democrat, e tradizionalmente odiato dagli elettori del Presidente Trump.

Ovviamente questa scelta strategica ha un costo, e offre l’immagine di uno Stato che non protegge o protegge poco la popolazione dall’epidemia: mentre la funzione primaria di ogni Stato è, appunto, proteggere la sua popolazione. Seguono le elezioni presidenziali, e Trump viene sconfitto con un lieve margine. Egli contesta il risultato, a suo dire viziato da gravi brogli. È probabile che i brogli vi siano effettivamente stati (è un fenomeno ricorrente nel sistema elettorale USA) ma è assai verisimile che l’esito elettorale consegua anche alla sua strategia di approccio all’epidemia da Coronavirus: molti americani che altrimenti avrebbero potuto appoggiare Trump hanno sentito che il Presidente non si curava di proteggerli dal morbo, e quindi non lo hanno votato.

Nel frattempo, in Italia. Nel frattempo in Italia si inaugura un monumentale, tragicomico pasticcio. Anzitutto, i decisori politici si accorgono che non esiste alcun piano nazionale operativo aggiornato, utilizzabile per reagire all’epidemia di un morbo ignoto e molto contagioso, sebbene, grazie al Cielo, esso abbia conseguenze letali molto ridotte. Si accorgono anche che la frammentazione istituzionale introdotta dalla regionalizzazione, che ha affidato alle Regioni le responsabilità sanitarie, ha seminato il caos nella gerarchia delle competenze e delle decisioni in una situazione di emergenza; condizione esiziale in quel contesto, ove il requisito primo per reagire con efficacia e urgenza sarebbe l’unità di comando. Il governo potrebbe legalmente avocarsela, ma non lo fa perché è politicamente troppo debole e teme le reazioni dei presidenti di Regione, molti dei quali appartengono all’opposizione. Preferisce, al contrario, manipolare tatticamente gli eventi e giocare, al pari degli avversari politici, al rimpallo delle responsabilità. La risposta dunque è disorganica, contraddittoria e lenta, ossia l’esatto contrario di quel che dovrebbe essere per circoscrivere e contenere il contagio. L’efficacia delle misure sanitarie dipende, in buona sostanza, dalla qualità professionale e umana dei dirigenti sanitari delle Regioni, e dall’ascolto che trovano presso il personale politico dirigente. Dove i dirigenti sanitari sono competenti e sanno farsi ascoltare, ad esempio in Veneto, le misure adottate in quella fase sono adeguate. Dove i dirigenti sanitari sono incompetenti e yesmen, ad esempio in Lombardia, si verificano veri e propri disastri.

Le forze politiche, dal canto loro, annaspano. Sulle prime, ciascuna forza politica reagisce pavlovianamente incollando i propri slogan preferiti all’emergenza epidemica. Il PD invita ad abbracciare un cinese, tirando in ballo l’antirazzismo. La Lega sbandiera Milano che non si ferma e non si deve fermare, fotocopiando i timori per l’interruzione dell’attività economica della sua base sociale ed elettorale. Eccetera, con più rovesciamenti di posizione bipartisan di 180°; un eccetera che non dettaglio perché appartiene alla storia della comicità (nera) più che alla storia d’Italia.

Quando ormai il contagio è nazionale, il governo centrale e i governi regionali prendono atto di un minimo di realtà, e si accordano per decretare il confinamento della popolazione: un confinamento severo ma non totale. È l’unica misura possibile nell’immediato per prevenire un collasso del sistema sanitario, altrimenti certo, perché il morbo è molto contagioso, i ricoveri ospedalieri specie in terapia intensiva e sub-intensiva sarebbero percentualmente troppi se il contagio dilagasse, e ovviamente manca esperienza clinica di cura del Covid19. Il disordine istituzionale si rivela endemico come il Coronavirus; l’apparato amministrativo è poco flessibile e articolato; il ceto politico, per inveterata abitudine, si limita a promulgare provvedimenti e non sa seguirne e verificarne la concreta attuazione. Non viene predisposto niente in merito alle cure domiciliari. Non viene predisposto un piano logistico per l’approntamento di padiglioni ospedalieri dedicati al solo Covid19, sia mediante precettazione di strutture già esistenti, sia mediante costruzione di ospedali da campo (l’esercito sa costruire in una settimana un ospedale da campo in zona di guerra). Soprattutto, non viene trovata l’unità di comando, ma il blando surrogato di una “cabina di regia”, all’interno della quale non si accomodano Stanley Kubrick, Federico Fellini o Martin Scorsese, ma mestieranti buoni per i B movies. La popolazione nel suo insieme si sottomette al confinamento volentieri, con disciplina, perché riconosce l’effettiva necessità della misura e si attende che produca il ritorno alla normalità, come ostendono dai balconi d’Italia gli striscioni casalinghi che profetizzano “Andrà tutto bene”.

Nel contempo, nel “sovranismo” italiano (e non solo italiano), una quota della popolazione significativa (v. votanti per M5* e Lega nelle ultime elezioni politiche), si diffonde un altro morbo, stavolta psichico: l’irrazionalità. Salvo eccezioni individuali, anche numerose ma non organizzate, molti “sovranisti” cortocircuitano le misure di confinamento della popolazione dettate dallo stato di emergenza sanitaria con una tendenza – beninteso reale e importantissima – della società occidentale odierna. È la tendenza verso il controllo tecno-burocratico, legittimato su basi scientiste; in due parole, la “gabbia d’acciaio” weberiana che si fa sempre più fitta e oppressiva, erode le basi reali delle Costituzioni democratiche, invade le vite personali degli individui, impone i propri ukase come uniche scelte razionali possibili. Da questo cortocircuito nascono spassose antropomorfizzazioni (Cupolone Mondialista che ti imporrà il chip sottopelle e ridurrà del 50% la popolazione mondiale) escursioni nell’escatologia (inaugurazione dell’Apocalissi, protagonisti Papa Francesco e Soros) secche negazioni della realtà effettuale (il Covid19 non esiste o al massimo è una blanda influenza o è stato diffuso intenzionalmente dai powers that be) e un ampio ventaglio di combo tra queste ed altre simbolizzazioni deliranti della situazione reale; alcune delle quali, generate da persone intelligenti e immaginose, non prive di valore come spunto per la fiction letteraria e televisiva.

In effetti, Thomas Mann prese lo spunto per scrivere La montagna magica da una sua visita a Davos, per accompagnare la moglie che si recava in sanatorio per un periodo di cura. Il direttore lo invitò a fermarsi anch’egli per un po’, che male non faceva, ma Mann si rifiutò. Rientrato, certo si chiese: “Che sarebbe accaduto se mi fossi fermato lassù?” Risultato, il celeberrimo romanzo filosofico, dove nella cornice di una casa di cura per malattia epidemica qual era la tubercolosi, si mette in scena la crisi cruciale d’un’intera civiltà. Come si vede, il cortocircuito simbolico dei “sovranisti” e il cortocircuito simbolico di Mann funzionano esattamente allo stesso modo. Il risultato però è diverso perché a) l’analisi di una realtà effettuale e la sua trasposizione letteraria rispondono a diverse categorie di verità e di senso b) Mann non perde mai il controllo razionale sul materiale simbolico incandescente che mette in forma, i “sovranisti” invece lo perdono eccome. Ne consegue che La montagna magica è molto utile per capire la realtà storica (oltre ad essere altre cose, per esempio un capolavoro della letteratura), mentre le simbolizzazioni deliranti dei “sovranisti” aumentano la confusione e basta. Le rare eccezioni individuali che non perdono la testa provano a richiamare alla realtà i girovaghi, ma non ci riescono perché quando si inizia a delirare non si riceve più la lunghezza d’onda della ragione, e per risintonizzarsi ci vuole lo scossone di un impatto frontale con la realtà.

Dopo la sconfitta di Trump, sale al centro decisionale USA il partito progressista Democrat. Grazie al confinamento, attuato in diversi Stati dell’Unione, e ad altri fattori quali la stagione calda, l’epidemia di Covid19 pare regredire. I consulenti medico-scientifici del governo statunitense, tra i quali in prima fila organizzazioni internazionali quali l’OMS, presentano ai decisori politici, in buona sostanza, un solo rimedio all’epidemia: il vaccino, ossia la specifica risposta tecnica richiesta con insistenza dalla precedente presidenza Trump. Tutte le nazioni industrializzate, occidentali e no, hanno lavorato all’approntamento di un vaccino, che, se efficace, sarebbe in effetti la soluzione più rapida e radicale del problema Covid19. Ovviamente, visti i tempi ristrettissimi, è impossibile sapere con certezza sia quanto siano efficaci i vaccini, sia quali siano i loro effetti collaterali indesiderati, gravi e meno gravi. È notevole il fatto che la principale industria produttrice di vaccini, la Merck, abbia scelto di non ricercarne uno, e di incaricare invece il proprio reparto Ricerca e Sviluppo di mettere a punto farmaci per le cure. O meglio, il fatto sarebbe notevole, ma non viene notato dai decisori politici.

Al decisore politico centrale del sistema politico occidentale, gli Stati Uniti d’America, viene dunque presentata dai consulenti una sola opzione tecnica: vaccinare. Il decisore politico, per adottare la strategia di risposta al morbo, deve rispondere alle seguenti domande:

  1. allo stato degli atti, si può avere la certezza che il vaccino eradicherà il morbo? La risposta razionale è: “no”.

  2. allo stato degli atti, si può avere la certezza che il rapporto rischi/benefici del vaccino sia favorevole sempre e per tutti? La risposta razionale è “no”. Si può avere la ragionevole certezza che il rapporto rischi/benefici del vaccino sia favorevole per le categorie di popolazione che il morbo più mette a grave rischio (es., i vecchi, o chi sia affetto da particolari patologie), non si può averla per gli altri.

Il decisore politico deve inoltre tener conto di tre obiettivi politici per lui importanti:

  1. garantire il funzionamento del sistema economico e il ritorno alla normalità nel più breve tempo possibile

  2. far sentire protetti dal morbo i cittadini americani, così differenziandosi dall’avversario politico che ha scontato il proprio opposto approccio strategico all’epidemia

  3. riaffermare la primazia culturale e politica degli Stati Uniti d’America come paese-guida del mondo intero in un periodo di crisi imperiale, obiettivo che presenta il vantaggio collaterale di un’ulteriore differenziazione rispetto all’avversario politico interno Trump, e alle sue velleità isolazioniste.

Il decisore politico statunitense coglie immediatamente l’importanza dei tre obiettivi politici principali c), d), e); e, forse perché deve rispondere sotto la forte pressione dell’urgenza, non presta la dovuta attenzione alle due domande, a) e b), che dovrebbero guidare la sua scelta; o non le prende in considerazione, o le prende in considerazione senza riflettervi seriamente, rispondendosi “sì, all’incirca, più o meno”.

Questo è un fenomeno ricorrente nella formazione delle decisioni politiche difficili e urgenti, che devono sempre semplificare tanto la scelta, quanto l’enorme quantità di informazioni disponibili, e devono per di più mediare la pressione dei grandi interessi politici ed economici che si affollano intorno al decisore. La fretta poi è la peggiore delle consigliere: una delle raccomandazioni consuete ai generali responsabili di decisioni strategiche urgenti in tempo di guerra è di concedersi sempre un tempo di riflessione, per lasciar decantare le emozioni, e analizzare razionalmente la congerie di stimoli e informazioni che li assalgono.

Fatto sta che il decisore politico centrale del sistema occidentale prende una decisione sbagliata, questa:

  1. l’unica strategia di risposta all’epidemia è il vaccino (ovviamente, il nostro vaccino)

  2. il vaccino garantirà il pieno ritorno alla normalità: ossia, l’eradicazione del morbo, anche se questa non viene promessa esplicitamente; si promette per un po’ l’immunità di gregge finché non balza agli occhi che è impossibile ottenerla perché il virus continua a mutare

  3. essendo l’epidemia una pandemia mondiale, ed essendo necessario garantire le comunicazioni globali per un ritorno alla piena normalità, la strategia di risposta al morbo dovrà essere mondiale

  4. dunque, dobbiamo vaccinare tutto il mondo, e lo vaccineremo.

Ora, già solo menzionare l’obiettivo di vaccinare tutto il mondo è un forte segnale di irrazionalità, perché nella pratica è impossibile. Si può vaccinare molto, moltissimo, ma non si può vaccinare tutto il mondo perché in vaste plaghe della Terra non ci sono le condizioni politiche e tecniche minime per vaccinare tutti; e se il vaccino non protegge al 100%, per riaccendere un focolaio di contagio, anche in un paese dove sia vaccinato il 100% della popolazione, basta l’ingresso di una sola persona contagiosa. Che il vaccino non protegga al 100% i vaccinati era già noto al decisore. È poi impossibile sigillare le frontiere e prevenire l’infiltrazione di singole persone.

In sintesi, e omettendo per brevità altre considerazioni: la strategia di eradicazione del morbo è irrazionale. La strategia razionale è, o meglio sarebbe, una strategia di contenimento del morbo, che si articoli su varie risposte flessibili: vaccino per le categorie di popolazione che presentano un rapporto rischi/benefici favorevole; intensificazione della ricerca e sviluppo delle cure; approntamento di padiglioni ospedalieri dedicati al Covid19; continuazione e intensificazione della ricerca e sviluppo sui vaccini; immunità naturale che si estende nelle categorie di popolazione a minor rischio, non vaccinate; varie ed eventuali.

La razionalità, però, è spesso fuori stanza quando entrano in ufficio obiettivi politici importanti, e riflessi condizionati culturali decisivi. Nel caso presente, il riflesso condizionato decisivo è l’asserzione della potenza culturale, tecnica, scientifica, degli Stati Uniti d’America, la riaffermazione della loro egemonia sul mondo intero, la prova della loro fiducia in se stessi e nella loro capacità di fare cose apparentemente impossibili, nella loro cultura del “can do”.

A questo punto, il dado è tratto. I consulenti del decisore centrale statunitense hanno ricevuto, forte e chiaro, il messaggio di quel che il decisore desidera sentirsi dire; e com’è naturale, quasi tutti glielo dicono. Non hanno bisogno di mentire, per dirgli quel che vuole sentire: il vaccino esiste, effettivamente funziona, ed effettivamente non risultano, nell’immediato, vistosi effetti collaterali indesiderati. Va appena rilevato, di passaggio, che incoraggiano questo atteggiamento dei consulenti i grandi interessi economici in ballo, e il coinvolgimento personale in essi di non pochi tra i consulenti di più alto livello, che sono in numero assai ristretto. Nella comunità scientifica, chi solleva dubbi viene zittito dal rumore di fondo dell’opinione dominante, o, più spesso, si zittisce da solo per non subire ripercussioni.

Quindi si procede a carrarmato nel perseguimento dell’obiettivo “vacciniamo tutto il mondo eccetera”. Fa presto capolino la realtà, e segnala i limiti – già noti o facilmente prevedibili – dei vaccini (durata limitata della copertura, possibilità che anche i vaccinati contagino, effetti collaterali indesiderabili, a volte gravi). La realtà segnala anche i limiti della politica di vaccinazione totale: già difficile nei paesi centrali, è impossibile nei paesi periferici.

I decisori non colgono le segnalazioni della realtà se non per modificare lievemente, introducendovi varianti marginali, la loro narrazione, che in sintesi dice: “Questa è l’unica via, c’è qualche ostacolo lungo il percorso ma lo supereremo insieme grazie alla scienza che è cosa nostra.” I decisori non impongono per legge l’obbligo vaccinale ma un sistema di punizioni crescenti, in buona sostanza ricatti, che chiamano Green Pass; sia per adesione irriflessa al loro economicismo (il Green Pass è mutuato dalla teoria del nudge, o spintarella, nata in ambito economico e premiata col Nobel), sia per rendere se non impossibile, almeno difficilissimo ottenere risarcimenti danni in caso di effetti collaterali gravi del vaccino: così manlevando insieme se stessi, gli Stati che dirigono, i loro consulenti tecnici e le case produttrici del vaccino.

La larga maggioranza delle popolazioni occidentali presta fiducia ai decisori politici, e si sottomette di buon grado al Green Pass, perché quando sono in gara la libertà e la sicurezza, la sicurezza inizia la corsa con un vantaggio incolmabile; e perché i decisori godono di un altro vantaggio incolmabile, il controllo dei media, che se non vengono costantemente alimentati dai decisori con le comunicazioni istituzionali non sanno più cosa raccontare 24/7.

C’è una quota, non trascurabile, di dissenzienti. All’interno di questa quota di dissenzienti, ci sono ovviamente, in prima fila, i “sovranisti” che già all’esordio della pandemia avevano cortocircuitato la realtà con la loro simbolizzazione delirante, e che ora vedono confermate tutte le loro previsioni di controllo totalitario. Essi dunque pensano di aver sempre avuto ragione, e riprendono con rinnovata lena i loro viaggi psichici nella twilight zone. Le individualità che all’esordio dell’epidemia avevano cercato di richiamarli al realismo constatano anch’essi sia gli errori della strategia di eradicazione del morbo, sia le distorsioni autoritarie nella struttura istituzionale e giuridica da essa occasionate, sia il silenziamento attivo o passivo delle voci che, nella comunità scientifica e nell’accademia in generale, avanzano obiezioni, dubbi, accuse. Protestano, cercano di farsi sentire. Vengono invitati a dibattere sui media, perché lo spettacolo vive sul conflitto e i media vivono sullo spettacolo. Qui però i loro avversari hanno gioco facile a confondere, in buona o malafede, le loro contestazioni razionali con le contestazioni deliranti degli altri dissenzienti. Risultato: anche chi abbia abbondanti qualifiche e notorietà personale e argomenti razionali fa la figura dell’imbecille e/o dell’incompetente e/o del mattoide, e non esistendo alcuna forza politica organizzata rilevante che traduca le contestazioni ragionevoli in opposizione, contano zero. Molti dunque abbandonano la contestazione, per disgusto o perché cominciano a chiedersi “Chi me lo fa fare?”

Questa situazione si diffonde, a cascata, dagli USA a tutto l’Occidente. Ragioni:

  1. i consulenti principali del decisore politico sono le organizzazioni internazionali. Fatta una scelta al centro dell’organizzazione, salvo sua strepitosa erroneità essa viene replicata nelle sedi periferiche, perinde ac cadaver. I dirigenti di grado più elevato, in contatto diretto con la sfera decisionale, sono molto pochi e hanno interesse a conservare buoni rapporti con i decisori. Dire a qualcuno “Guarda che ti sbagli” su argomento delicatissimo può avere effetti collaterali indesiderabili.

  2. Gli Stati clienti degli USA, tra i quali l’Italia, si guardano bene dal contestare le scelte strategiche del centro imperiale, perché scegliere audacemente un’altra via sarebbe una critica implicita al centro. Di fatto non ci pensano neppure, sia per inveterata abitudine, sia perché un eventuale maggiore successo di strategie alternative farebbe perdere la faccia al decisore centrale, con serie ripercussioni per l’audace innovatore.

  3. L’impostazione culturale di fondo, economicista e scientista, è la stessa al centro e in periferia.

Ciò che basta e avanza perché si proceda imperterriti per una via che – diventa ogni giorno più chiaro – è sbagliata, all’inseguimento di un obiettivo che – diventa ogni giorno più chiaro – è irraggiungibile: perché eradicare il morbo è impossibile, vaccinare il mondo è impossibile. È invece, o meglio sarebbe, possibile contenere il morbo, adottando un’opportuna strategia di contenimento, riduzione del danno e convivenza con il Covid19, flessibile e differenziata. Però non si adotterà mai, in un futuro prevedibile, perché i decisori occidentali tutti hanno investito un enorme capitale politico nella strategia di eradicazione, i dissenzienti non sono organizzati politicamente, e ci sono colossali interessi economici a favore della strategia sbagliata.

Non c’è niente di strano. È già accaduto molte volte che i consulenti tecnici abbiano dato una spintarella alla realtà per dire ai decisori quel che preferivano sentirsi dire. Nella Prima Guerra Mondiale, per esempio, il responsabile dell’intelligence militare britannica mitigava sistematicamente le spaventose perdite subite nelle sue relazioni al comandante in capo sul fronte francese, generale Haig; e si giustificava con la necessità di non scuotere i nervi del decisore. La realtà dei fatti riuscì a far capolino, e a modificare l’approccio operativo di Haig, solo dopo due anni e mezzo: quando un giovane capitano, di fresca nomina al comando dello staff dell’intelligence militare, rientrò a Londra in licenza. Il giovane capitano, un figlio naturale di re Edoardo VII che in seguito avrebbe diretto per vent’anni il Servizio Segreto, disponendo di entrature privilegiate poté far sapere alla famiglia reale e allo Stato Maggiore Imperiale come stavano le cose.

Di recentissimo c’è stato l’esempio preclaro della guerra in Afghanistan. La guerra in Afghanistan è stata decisa per ritorsione all’attacco contro le Twin Towers (i Talebani avevano dato ospitalità al presunto responsabile). Duemilacinquecento anni di storia militare suggerivano che l’occupazione dell’Afghanistan era un obiettivo irraggiungibile. Obiettivo raggiungibile sarebbe stata una spedizione punitiva: si colpisce duramente, si dichiara vittoria e si rientra, abbandonando l’Afghanistan a se stesso, come sempre è stato e sempre ha voluto restare. Però una serie complessa di fattori culturali, politici, economici, psicologici, non interamente decifrabile neppure ai decisori, ha condotto gli Stati Uniti d’America alla decisione clamorosamente sbagliata di occupare l’Afghanistan, e di impiantarvi un regime democratico totalmente alieno alla cultura di quelle lande.

Fu subito chiaro a chiunque ne sapesse qualcosa, persino a me che non sono von Clausewitz, che proponendosi quell’obiettivo strategico ci si condannava a combattere una guerra persa in partenza: ma ormai la decisione era stata presa, con tutta la zavorra di immenso capitale politico speso e formidabili interessi economici che essa trascinava con sé.

Tutti i comandanti in capo della coalizione a guida americana che si sono succeduti nel corso di vent’anni hanno avuto chiaro, appena messo piede colaggiù (e anche prima di partire, secondo me) che vincere con quella strategia era impossibile. Nessuno lo ha detto chiaramente ai decisori politici. Nessuno, se ci ha provato ed è rimasto inascoltato, si è dimesso. Uno solo, il generale McChrystal, ha dato voce a serie obiezioni ed è stato rimosso. La guerra è andata avanti per vent’anni, con un costo terrificante di vite perdute, e immani danni materiali e politici; fino a quando la realtà, con l’ausilio del tempo che è galantuomo ma non ha fretta, è riuscita a farsi valere, e gli USA hanno deciso il ritiro (eseguendolo male).

Quanto ci vorrà per correggere la rotta sbagliata, nel caso della pandemia da Covid19? Non lo so. Direi un bel po’. Dice il nostro Presidente del Consiglio che difenderemo la nostra normalità “con le unghie e con i denti”. Le unghie e i denti però non servono a niente contro il Covid19. Servirebbe la ragione, e magari anche l’indipendenza di pensiero. Chissà se le troveremo sotto l’albero di Natale.

LA MODIFICA DEL PANORAMA IDEOLOGICO DI UN’EPOCA, di Pierluigi Fagan

LA MODIFICA DEL PANORAMA IDEOLOGICO DI UN’EPOCA. [Post di teoria politica, quindi di interesse per pochi] In questo post ragioneremo con Gramsci, useremo cioè una struttura del suo pensato per pensare a nostra volta.
Questa fruttifera relazione tra strutture del pensiero venne resa immagine immortale da Giovanni di Salisbury (XII secolo), il quale però la riferiva come detto del suo maestro ovvero Bernardo di Chartres: “siamo come nani montati sulle spalle di giganti”.
L’immagine ha un implicito di “vedere più lontano” o “vedere da più in alto”. Ma al di là della formulazione che ne diede Bernardo, cattura una dinamica delle relazioni tra strutture del pensiero, una dinamica che, sempre in analogia, assomiglia a quella che in chimica si chiama “funzione catalitica”. La funzione catalica opera nelle trasformazioni chimiche (crea del nuovo dal vecchio) ed è svolta da una sostanza o complesso di sostanze che partecipano al processo, con ruolo necessario, senza però venire incluse nell’esito finale. Così, strutture di pensiero che aspirano al nuovo, usano quelle consolidate e più strutturate del vecchio, vi si appoggiano, le usano, per sottrazione o addizione o riformulazione. Il processo serve a produrre tentativi di nuovo pensato sotto due aspetti: quello della struttura del pensiero (riformulazione), quello della modifica della ricetta (addizione di nuovi elementi o sottrazione di vecchi elementi). Per addizione e/o sottrazione e/o riformulazione, si usa in modo catalitico la struttura di un pensiero consolidata, per produrne di nuove o comunque portare il processo cognitivo su altre strade da successivamente sviluppare. Chiaritaci la relazione di pensiero sottesa alla frase “ragioneremo con Gramsci”, accenniamo al suo contenuto.
Ci troviamo in quella area di pensiero dei Quaderni che somma diverse riflessioni sugli intellettuali, l’egemonia, la funzione del partito, l’ideologia, la filosofia della prassi, rapporti tra filosofia e senso comune che pare influenzò anche il Wittgenstein via Sraffa.
Far entrare questi argomenti in un post ha del temerario, ma forse ci serve come appunto del pensiero.
In forma scandalosamente ridotta, Gramsci pensa che alcune forme del pensiero di Marx vadano riformulate (al modo del nano che sale sulle spalle del gigante diventando a sua volta gigante che attrae nuovi nani scalatori), il tutto in un processo sociale dialettico ma anche gnoseologico tra “intellettuali e semplici”, seguendo partizioni di classe sociale, dentro una formazione sistemica che è il partito, al fine di promuovere l’affermazione di un nuovo panorama ideologico, che faccia da premessa ad una nuova affermazione politica.
Abbiamo qui alcuni assunti da precisare: 1) per quanto da modificare, Gramsci ha una “concezione del mondo” (IdM) di profondo riferimento, quella di Marx (non del marxismo, G. anticipa la distinzione “marxiano-marxista” usata variamente da dopo gli anni ’90 qui in Occidente); 2) G. non rinuncia alla partizione sociale di classe stante che quando pensava e scriveva, l’Italia degli anni ’20-’30 del secolo scorso, le classi erano nitide e consistenti (contadini, operai, classe media, classe alta, religiosi, industriali etc.); 3) presuppone come finalità perseguibile, il gioco politico delle democrazie occidentali, attraverso un sistema ritenuto potente quale il “partito”. L’intera storia del PCI ne discende. Dentro questi assunti perimetrali, organizza un pensiero davvero importante e dalle molteplici ricadute, relativamente ai fini che si dava con la sua filosofia della prassi, sostanzialmente la XI Tesi su Feuerbach (mai pubblicate fintanto Marx in vita).
Va notata la stranezza per la quale il G è attivamente studiato nell’accademia anglosassone (soprattutto gli USA), l’intero concetto di “soft power” vi deriva, mentre qui da noi è dimenticato nei polverosi archivi del pensato. Del resto, qui da noi, da almeno trenta anni, non si frequentano più gli archivi del pensato in quanto non si pensa, almeno a quel livello.
Prima di procedere oltre, una breve nota di commento su questo ultimo punto. Nel Q.XI il G. analizza i processi di formazione ed affermazione delle “concezioni del mondo” ovvero quelle che noi chiamiamo qui “immagini di mondo” (tutte riformulazioni del concetto di Weltanschauung che Dilthey trae in implicito dal Kant della KdRV). Come conclusioni brevi della sua analisi segna due punti. Il primo è “non stancarsi mai di ripetere i propri argomenti perché la ripetizione è il mezzo didattico più efficace” consiglio assunto da Goebbels ai pubblicitari fino alla politica da televisione recente e più in generale dalle forme egemoniche liberali-anglosassoni dominanti negli ultimi trenta anni. Il secondo era “lavorare incessantemente per elevare intellettualmente sempre più vasti strati popolari …”. In Italia, negli ultimi trenta anni, l’egemonia più importante l’ha esercitata un personaggio-fenomeno (ovvero un fenomeno che ha avuto vaste ragioni incarnato da un personaggio catalizzatore) che ha operato in osservanza del primo punto e nel ribaltamento simmetrico del secondo: “lavorare incessantemente per degradare intellettualmente sempre più vasti strati popolari, etc.”. Sicuramente, questa idea è stata formalizzata da quell’oscuro consigliere del Principe, palermitano, oggi in carcere e le cui vicende giudiziarie hanno oscurato la sua levatura intellettuale comunque presente e sottovalutata. Questo non spiega tutto della deprimente condizione del pensiero italiano, ma ne è comunque parte consistente.
Tornando al corso principale del nostro pensare con Gramsci, rileviamo alcuni punti critici, non critici del Gramsci ma dell’usabilità della sua ricetta. Il primo punto è il problema delle classi. Al di là del liquidismo baumaniano, abbiamo oggi una teoria sociologica chiara sullo stato delle partizioni e dinamiche sociali nelle nostre società contemporanee? No. Non avendola ci troviamo in un primo pasticcio, non riusciamo ad avere una idea chiara dell’oggetto sul quale vorremmo intervenire. Impossibile modificare il “panorama ideologico” di un’epoca se non si ha conoscenza chiara dell’oggetto sociale (e quindi sul soggetto e/o soggetti promotori di un nuovo programma ideologico).
Il secondo problema è che non abbiamo possibile ricorso all’idea del partito perché l’intero sistema che chiamiamo “democrazia occidentale” si basa su un disguido concettuale: noi continuiamo a chiamare “democrazia” un sistema che non vi corrisponde. Attenzione, chi scrive, non dice che “non vi corrisponde più” come dicono alcuni “risvegliati” recenti, non vi ha mai corrisposto, è un chiaro, longevo e doloroso caso di schizofrenia tra parola e cosa. Pochi o nessuno ha posto attenzione a questo “doloroso caso” per tempo perché il “panorama ideologico” delle teorie politiche era ingombrato da una tesi che usa apposta questa falsa nominazione per confondere ed una antitesi che invece che contestargli l’abuso, farfugliava di elementi misti confusi nell’espressione “dittatura del proletariato”, accluse romanticherie rivoluzionarie, che aveva statuto teorico inconsistente, almeno qui in Occidente.
Il terzo problema chiude e riassume anche gli altri due. Al di là dei mille-ed-uno problemi inerenti la “modifica del panorama ideologico di un’epoca” (sempre Q XI) da analizzare a parte oltre quelli appena accennati, abbiamo noi una “teoria mondo” di riferimento, quale Gramsci l’aveva rispetto a Marx? No. Noi abbiamo molte tesi contro ma nessuna tesi alternativa, quantomeno non in forma di “teoria mondo”. Possiamo avere vaghe immagini di mondo critiche ma nessuna tesi sul mondo che dia alternativa egemonica a quella dominante.
Il post non conclude, è “appunto per il pensiero”. Personalmente, ho la convinzione che i tre punti siano collegati e che risolvendo il secondo (una teoria politica forte della democrazia), applicato al primo (il paesaggio sociale delle società europee occidentali al XXI secolo, a partire dalla nostra), si avrebbe soluzione del terzo. Ma è solo un’ipotesi, un appunto per i “compiti del pensiero” che però volevo condividere con chi è interessato, per provare a “pensare assieme”.

Energia, come l’Italia ha scelto di ridursi alla canna del gas, di Andrea Muratore

Le conseguenze di un paese preda di fondamentalismi e di condizionamenti esterni. Il caro bollette e la crisi energetica non sono conseguenze di un fato avverso, ma di scelte politiche nefaste nella loro continuità e perseveranza_Giuseppe Germinario

Energia, come l’Italia ha scelto di ridursi alla canna del gas

La scelta dell’Italia di castrare il gas nazionale fa sentire i suoi effetti nei giorni della grande paura per i prezzi energetici

Un danno economico, un errore politico, un errore strategico: la scelta dell’Italia di castrare il gas nazionale fa sentire i suoi effetti nei giorni della grande paura per i prezzi energetici. Gli errori del Conte I non sono stati sanati dai giallorossi e dal governo Draghi, almeno fino ad ora. E da Ravenna un attento consigliere regionale avverte sugli effetti a cascata per l’economia nazionale.

Un Paese in bolletta

Al cavallo tra l’estate e l’inverno, tra settembre e ottobre del 2021, l’Italia è la nazione che ha sperimentato i maggiori aumenti nella spesa dei cittadini e delle imprese per le bollette energetiche,   sulla scia della convergenza tra crisi dei rifornimenti e pressioni inflazionistiche. I dati di Energy Live, infatti, segnalano che Roma, già in testa alla classifica del costo in termini di euro per megawatt/ora nel mese di settembre, ha accelerato la sua spirale a ottobre, passando in meda da 158,59 €/MWh a 217,63 €/MWh (+37,22%), un aumento che batte quelli di Spagna (a ottobre 199,90 €/MWh, +28%), Francia (172,58 €/MWh, +27%) e Germania (139,59 €/MWh, +8,74%).

L’Italia alla canna del gas

La crisi dell’energia colpisce i cittadini, le imprese e i consumatori a più livelli in un Paese che è importatore netto di materie prime come il nostro: nel consumo privato, alla pompa di benzina, nelle filiere produttive dalla generazione al consumo finale, sulla scia delle tensioni finanziarie e borsistiche. Ed è a dir poco tafazziano il fatto che nel nostro Paese l’avvicinarsi di quello che potrebbe essere un inverno dello scontento sul fronte energetico vada di pari passo con la paralisi di ogni discussione sullo sfruttamento a pieno regime dell’energia che potrebbe essere il vero e proprio volano di una, almeno moderata, riduzione del fardello: il gas naturale.

Riserve di gas ai minimi già dallo scorso inverno

Martedì 30 novembre il prezzo del gas ha subito una nuova impennata: i future sul metano contrattati alla Borsa di Amsterdam, punto di riferimento per il gas europeo, hanno toccato un massimo di 101 euro. Come riporta Panorama, infatti, “l’’Europa nord-occidentale è stata colpita da ripetute ondate anomale di freddo. Di conseguenza, il volume di gas in stoccaggio nei 27 paesi dell’Unione europea e in Gran Bretagna è sceso dell’equivalente di 58 terawattora (TWh) rispetto all’inizio di ottobre, uno dei più grandi prelievi dell’ultimo decennio. Il problema è che le scorte di gas erano già ai minimi lo scorso inverno, con volumi al livello più basso dal 2013, secondo Gas Infrastructure Europe. E la situazione delle scorte non è migliorata nei mesi successivi”, creando un effetto-valanga che si è ripercosso sui prezzi.

Danni autoinferti con la ripresa della domanda

L’Italia, in questo contesto, è come un ciclista esposto al vento in discesa. Nel 2020, i consumi di gas naturale in Italia sono diminuiti del 4,2% rispetto al 2019, per un totale di 70.651 milioni di metri cubi standard (Smc), rispetto ai 73.770 milioni di Smc dello scorso anno), ma se da un lato nel 2020 le importazioni totali sono state del 6,4% inferiori a quelle del 2019 (pari a 65.855 milioni di Smc, contro 70.356 milioni nel 2019), dall’altro la produzione nazionale è scesa del 15% circa (per un totale di 3.842 milioni di Smc). La ripresa della domanda nel 2021 e la crisi energetica hanno rimesso in campo la questione della necessità di sfruttare la generazione nazionale.

Il Pitesai ostacola lo sfruttamento dei giacimenti nazionali

Dal 2018, quando con il governo Conte I il Movimento Cinque Stelle e la Lega decretarono il rallentamento delle trivellazioni, il problema dell’estrazione nazionale, soprattutto offshore, è diventato annoso. Il Pitesai, «Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee», il piano introdotto nel 2018 ufficialmente come piano regolatore delle trivelle è diventato nella realtà uno strumento per impedire in modo discreto lo sfruttamento dei giacimenti nazionali. Nel gennaio 2019, in particolare, su iniziativa grillina i gialloverdi introdussero una norma che vincolava esplicitamente le ricerche di nuovi giacimenti all’approvazione del Pitesai. Essa sarebbe dovuto arrivare dopo 18 mesi, ma ancora non se ne sa nulla: l’ultima scadenza, dopo alcune proroghe, era fissata al 30 settembre ma il documento non risulta ancora approvato. Anzi, quel giorno prendeva le strade di un ennesimo giro per la Conferenza Stato-Regioni in attesa di essere ulteriormente affinato.

L’import costa dieci volte tanto

“Quello italiano”, nota Il Sole 24 Ore“è metano il cui costo di estrazione si aggira sui 5 centesimi al metro cubo. È una stima indicativa, una media avicola trilussiana, citata da Marco Falcinelli segretario della Filctem Cgil e dall’economista Davide Tabarelli di Nomisma Energia. Ecco invece il prezzo di mercato del gas che l’Italia importa da Paesi remotissimi: fra i 50 e i 70 centesimi al metro cubo, più di 10 volte tanto”, con picchi nel quadro del gas naturale liquefatto importato da Paesi come il Qatar. Nel 2000 l’Italia, per fare un paragone con il presente, estraeva 17 miliardi di metri cubi l’anno principalmente in Adriatico, ove oggi la produzione è ridotta a 800 milioni di metri cubi. Nessun operatore si impegna a mettere un singolo euro sul gas italiano fino a non avere la certezza del via libera del Pitesai. Secondo Assorisorse bisognerebbe investire 322 milioni per raddoppiare a 1,6 miliardi di metri cubi l’anno l’ormai stanca produzione, e un risultato di 10 miliardi di metri cubi l’anno, meno del 60% di inizio millennio, sarebbe ad oggi un trionfo e un toccasana per le tasche dei cittadini.

E in quest’ottica le ricadute economiche per le tasche dei cittadini si uniscono ai problemi per la crescita nazionale. L’energia pesa enormemente in negativo sulla bilancia commerciale italiano e solo nel 2019 ha comportato extra costi per 40 miliardi di euro. E in questo contesto l’Eni, che è per il 30% di proprietà dello Stato, realizza in Italia il 7% della sua produzione, dunque dell’attività operativa che contribuisce a generare flussi di cassa per lo Stato italiano.

La necessità di un cambio di passo: il gas italiano come chiave di volta per la transizione energetica

“Perché invece non programmare la produzione di gas naturale nei giacimenti italiani per i quali Eni possiede già le concessioni e pochi anni fa ha presentato un piano di investimenti consistente di oltre 2 miliardi, che produrrebbe ricchezza per i territori. Il piano porterebbe ad un aumento della produzione delle piattaforme nell’Adriatico, da meno di 40.000 barili equivalenti al giorno a oltre 100.000”, ovvero da meno di 6,2 a 15,5 milioni di metri cubi al giorno, ha dichiarato a Pandora Gianni Bessi.  Consigliere regionale del PD in Emilia-Romagna e analista geopolitico esperto in questioni energetiche, Bessi è da tempo in prima linea per difendere la produzione energetica nazionale sia in un’ottica di rilevanza strategica degli asset italiani sia nella consapevolezza che il gas italiano sia la chiave di volta per abilitare la transizione energetica. Destinata ad essere castrata, piuttosto che aiutata, dalle politiche ideologiche dei gialloverdi.

L’equazione di Mattei: l’energia nazionale è energia a buon mercato

Per Bessi “si potrebbe fare di più, specie nell’estrazione del gas naturale a km zero, incrementando un’attività che va avanti da oltre cinquant’anni”, e che includendo anche l’entroterra richiama all’epoca eroica dell’energia italiana, quella di Enrico Mattei. L’equazione che animava l’azione di Mattei vale ancora oggi: energia nazionale significa energia a buon mercato; energia a buon mercato significa sviluppo e sicurezza economica per i cittadini; sviluppo e sicurezza economica contribuiscono alla sicurezza nazionale.

“Inoltre”, come ha fatto notare Bessi,  l’attività “italiana” di Eni e degli altri player energetici non si limita alla mera estrazione ma “coinvolge le componenti tecnologiche dell’oil&gas made in Italy. Lo scorso autunno dal porto di Ravenna”, città natale del consigliere e capitale dell’energia italiana, “è stata spedita una piattaforma Tolmount destinata al Regno Unito, un manufatto da 5.500 tonnellate progettato e realizzato dalla Rosetti Marino, una commessa di 125 milioni di euro che ha richiesto oltre un milione di ore lavoro di migliaia di tecnici specializzati. È un esempio di come l’oil&gas produca ricchezza non solo economica, ma anche di occupazione di qualità”.

Quell’occupazione di qualità che, aggiungiamo noi, serve come l’aria al Paese per lo sviluppo post-pandemico. Lasciare l’Italia alla canna del gas non è solo un errore politico, ma anche un potenziale suicidio economico che non aiuta affatto a conseguire alcun vantaggio per l’ambiente. E dal Conte I a Draghi ben poco, di fatto, sembra essere cambiato: in tempi di crisi energetica tutto questo dovrebbe ricordarci che la prima transizione di cui necessitiamo è quella verso il buon senso economico.

https://www.true-news.it/economy/energia-come-litalia-ha-scelto-di-ridursi-alla-canna-del-gas

TUNISIA: ARRIVA LA NUOVA COSTITUZIONE ?_di Antonio de Martini

TUNISIA: ARRIVA LA NUOVA COSTITUZIONE ?

IL PRESIDENTE SAIED ELETTO NEL 2019 E COI PIENI POTERI DA LUGLIO, ANNUNZIA UNA NUOVA COSTITUZIONE. «LE COSTITUZIONI NON SONO ETERNE ». QUESTA ERA STATA VARATA NEL 2014.

Dopo sei mesi di stato di emergenza durante il quale il presidente ha esautorato il Primo ministro, il Parlamento e il partito di maggioranza Ennahda – accusato di estremismo islamico- nel consiglio dei ministri della scorsa settimana ha annunziato che la nuova costituzione , meno parlamentare, é quasi pronta e che sarà sottoposta a referendum popolare.

Le vicissitudini tunisine possono così essere riassunte: nel 2011 una rivolta popolare a seguito del drammatico suicidio di un ambulante angariato dalla polizia, sfocia in un cambio di regime a causa della fuga del Presidente Zine el abidin ben Ali che si rifugia in Arabia Saudita ospite del ministro dell’interno.

Nel 2014 viene varata una nuova Costituzione che trasforma la Repubblica in un regime parlamentare che fa prevalere il partito confessionale Ennahda, guidato da Rachid Ghannouchi.

Ovviamente, gli investimenti esteri languono, i capitali locali emigrano e l’assassinio di un paio di sindacalisti e il tentativo di ”moralizzare” le donne secondo la tradizione mussulmana, provocano una reazione filo occidentale evidente.

L’intervento di mediazione delle Nazioni Unite affida il potere a un quartetto di associazioni ( sindacati, patronato e i principali partiti).

il nuovo sistema regge fino alla morte del Presidente Caid Essebsi, già ministro di Bourghuiba. Le nuove elezioni parlamentari danno la maggioranza a Ennahda, ma l’elezione presidenziale premia uno sconosciuto outsider – Khais Saied appunto- che dopo un anno di convivenza con Ennahda ed il suo abile leader Ghannouchi che presiede il Parlamento, perde la pazienza , si arroga tutti i poteri e – godendo della comprensione degli occidentali- proclama lo stato di emergenza.

Ieri l’annunzio che presto verrà sottoposta a referendum la NUOVA COSTITUZIONE che dovrebbe avere carttere presidenzialista ( o comunque meno assembleare).

In tanto il 15 dicembre verrà presentato il nuovo bilancio. Il combinato disposto di queste due innovaioni, dovrebbe, secondo le parole del presidente “consentire al popolo di passare dalla disperazione alla speranza”.

La crisi economica e quella sanitaria infatti incrudeliscono e sembrano senza via d’uscita senza un poderoso aiuto internazionale che si materializza a mano a mano che la democrazia ben guidata farà i suoi passi in avanti.

Al sud, nella zona del passo di Mareth al confine algerino, focolai di guerriglia islamista alimentati dalla estrema povertà dell’area baluginano sinistramente ma non riescono a dilagare nelle città.

https://corrieredellacollera.com/2021/12/14/tunisia-arriva-la-nuova-costituzione/

FEDERALISMO E UNITÁ POLITICA, di Teodoro Klitsche de la Grange

FEDERALISMO E UNITÁ POLITICA (pubblicato nel 2008)

1. Nella prima metà del XIX secolo due grandi pensatori europei, Hegel e Tocqueville si posero il problema di come potesse conservarsi uno Stato federale, come gli Stati Uniti d’America, senza che l’Unione godesse di tutti quei poteri che il “centro” delle monarchie europee – cioè il governo monarchico – aveva nel proprio territorio,

Scriveva Hegel:

“Se paragoniamo poi l’America del nord con l’Europa, troviamo laggiù l’esempio costante di una costituzione repubblicana. Cioè l’unità soggettiva, perché vi è un presidente a capo dello Stato, eletto, per prevenire ogni possibile ambizione monarchica, solo per quattro anni. La protezione universale della proprietà e la quasi totale assenza d’imposte sono fatti che vengono continuamente elogiati. Ma con questo è già determinata anche la caratteristica fondamentale di questi Stati. Essa consiste nella tendenza del privato all’acquisto e al guadagno, nella prevalenza dell’interesse particolare, che si volge all’universale solo in servigio del proprio godimento. Vi sono, naturalmente, rapporti di diritto, ed una formale organizzazione giuridica: ma questa conformità al diritto è senza dirittura, e così i commercianti americani hanno la cattiva riputazione di ingannare sotto la protezone del diritto”, e prosegue “l’America del nord non va considerata come uno Stato già formato e maturo ma come uno Stato tuttora in divenire: esso non è ancora tanto progredito, da aver bisogno della monarchia. E’ uno Stato federativo: ma questi, per quel che concerne i loro rapporti con l’estero, sono gli stati peggiori. Solo la sua particolare posizione ha impedito che questa circostanza non causasse la sua totale rovina. Ciò si è visto nell’ultima guerra con l’Inghilterra. I Nord-americani non poterono conquistare il Canadà, e gli Inglesi poterono bombardare Washington, perché la tensione fra le provincie impedì ogni vigorosa azione. Inoltre, gli stati liberi nordamericani non hanno nessuno stato confinante, rispetto a cui siano nella situazione in cui gli stati europei sono reciprocamente, uno stato cioè che debbano considerare con sospetto e contro cui debbano mantenere un esercito stanziale. Il Canadà e il Messico non incutono loro timore, e l’Inghilterra ha fatto ormai esperienza da cinquant’anni che l’America le è più utile libera che dipendente”i.

Quindi da un lato Hegel connetteva la forma istituzionale dello Stato federale alla prevalenza, negli USA, del “privato” sul “pubblico” dall’altro, e più ancora, all’assenza di nemici “credibili” ai confini che consentiva di mantenere un governo debole. Considerazioni simili, e nello stesso periodo di tempo, faceva Tocqueville nella “Démocratie en Amérique”.

Sosteneva Tocqueville: “La più importante di tutte le azioni che possono far riconoscere la vita di un popolo è la guerra. Nella guerra un popolo agisce come un solo individuo di fronte a popoli stranieri: esso lotta per la sua stessa esistenza… Di qui deriva che tutti i popoli, che hanno dovuto sostenere grandi guerre, sono stati condotti, quasi loro malgrado, ad accrescere le forze del governo. Quelli che non sono riusciti a farlo, sono stati conquistati. Una lunga guerra pone quasi sempre le nazioni in questa triste alternativa, che la loro disfatta li consegna alla distruzione, e la loro vittoria al dispotismo.

Perciò, in genere, è in guerra che si rivela, nel modo più visibile e pericoloso, la debolezza di un governo; e ho mostrato come il difetto inerente ai governi federali sia appunto quello di essere molto deboli.

Nel sistema federale, non solo non c’è affatto accentramento amministrativo o qualcosa di simile, ma lo stesso accentramento politico esiste solo in modo incompleto; e questo è sempre una grave causa di debolezza, quando ci si deve difendere contro popoli nei quali è completo”. E ad esempio ricorda lo stesso episodio storico: la guerra con l’Inghilterra bel 1812ii.

Ambedue i pensatori si sono (forse) ispirati a quanto pochi anni prima, aveva cennato De Maistre sulle istituzioni europee ed inglesi in particolareiii.

Per cui la particolare conformazione della Costituzione e del diritto pubblico inglese era ricondotto, in gran parte, alla situazione geo-politica dell’Inghilterra: in analogia con Hegel e Tocqueville per l’America.

D’altro canto il rapporto tra sovranità all’esterno ed all’interno era considerato da Hegel anche nei Grundilinieniv.

2. Peraltro Hegel sottolineava il carattere politico – in quel senso . – del rapporto tra assetto interno e esterno (nemico e guerra), e lo distingueva da un mero decentramento amministrativo. Nell’opera giovanile Verfassung Deutschlands già lo scriveva, in relazione alla “costituzione” dell’Impero tedesco. Sosteneva a dimostrazione della tesi iniziale “La Germania non è più uno Stato” che “Il potere legislativo, quello giudiziario, quello spirituale, quello militare, mescolati nella maniera più disordinata e in parti le più disuguali, sono separati e congiunti, proprio variamente come la proprietà dei privati.

Attraverso dimissioni della Dieta, trattati di pace, capitolazioni elettorali, contratti domestici, deliberazioni della Corte suprema, ecc. la proprietà politica di ciascun membro del corpo statale tedesco è determinata nel modo più accurato”v, per questo ha il diritto di andare in rovinavi. Sosteneva peraltro che l’unità dello Stato non è data dall’uniformità del dirittovii né della religioneviii; ma l’essenziale per aversi uno Stato è che “una moltitudine di uomini si può chiamare uno Stato soltanto se è unita per la comune difesa della sua proprietà in generale” e “L’allestimento di questa effettiva difesa è la potenza dello Stato; esso deve da un lato essere sufficiente a difendere lo Stato contro i nemici interni ed esterni, dall’altro a mantenere se stesso contro l’impeto universale dei singoliix.

Le argomentazioni di Hegel e Tocqueville, comuni ad altri pensatori, si possono riassumere nei seguenti punti:

Che l’assetto dei rapporti o poteri pubblici – cioè la forma politica – è condizionata dalla situazione geo-politica, e, in particolare, dai nemici e dalle guerre possibili.

Che a costituire l’unità politica non è la comune religione, la lingua, e neanche le leggi ed i costumi o i commerci (cioè fattori in se non riconducibili al politico, anche se rilevanti, e spesso assai rilevanti, sul politico), ma è l’unità del popolo sotto un governo.

Che, quindi, ciò che rende debole il governo non è tanto la diversità di legge o di religione, costumi – spesso, si può aggiungere, “superata” grazie al federalismo o al decentramento – ma la divisione del potere politico. Per definire il quale occorre distinguerlo da quello non politico, ancorché pubblico: e in entrambi il criterio di distinzione è, per l’appunto, la guerra, cioè il rapporto estremo con l’hostis. È questo che può porre in gioco l’esistenza della comunità organizzata in Stato, così costituire l’extremus necessitatis casus ed essere la cartina di tornasole della vitalità di uno Stato.

Che, potenzialmente – le diversità ed i gruppi di interesse che sussistono in ogni comunità umana possono, nelle situazioni di crisi, se prevalenti, mettere in forse l’unità politica (e la capacità di difendersi). Se queste così diventano decisive, passano dal privato al pubblico – o meglio al politico (come gli interessi dei mercanti del Massachussets e del Connecticut nella guerra con l’Inghilterra).

3. La progressiva “tecnicizzazione” del diritto pubblico, cui probabilmente ha contribuito non solo il clima generale – di “onnipotenza normativa” – ma anche la specializzazione accademica, ha fatto si che quei rapporti, sopra elencati, tra situazione concreta e forma politica, fossero smarriti e, quel che più conta espunti dalle concezioni (e trattazioni) del diritto pubblico.

Ciò è stato l’effetto di due idola theatri diffusisi negli ultimi secoli.

In primo luogo l’onnipotenza del legislatore o (meglio ancora), del potere costituente. La frase di Sieyès, ricalcata da Rousseau, che la Nazione è “tutto ciò che può essere per il solo fatto di esistere” è stata, a dir poco, mal interpretata. Un sottile politico come Sieyès, oltretutto largamente tributario nelle sue concezioni della teologia cristianax non avrebbe mai pensato di poter prescindere nella fase “costituente” da ogni riferimento concreto e reale, a partire dalla situazione geopolitica, passando per i condizionamenti (e le determinanti) storici e naturali, per finire, in certi casi, alle leggi di “natura”, intendendole se non nel senso dell’ironia di Spinozaxi, come quelle della storia.

Ancora nell’insegnamento di Montesquieu lo “spirito” delle leggi (e a maggior ragione delle costituzioni) erano quei “rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose”xii, e capire le leggi, penetrarne lo “spirito”, era capire quei rapporti concreti e reali; onde, tra l’altro, scriveva che le leggi sono adatte al popolo che le ha “sviluppate” e non ad un altro.xiii Tutto il contrario quello che avvenne dopo, a partire dal tardo illuminismo fino all’età post-rivoluzionaria.

Ironizzava de Maistre che nel secolo XVIII ogni giovane acculturato, appena diplomato, aveva scritto almeno un trattato sull’educazione, una costituzione e un mondo. Incominciò a diffondersi non solo l’immagine del legislateur provvido e onnipotente, ma pure che all’onnipotenza (in diritto) del sovrano corrispondesse, in qualche misura, quella di fatto: la comunità politica era così considerata la materia da plasmare a piacimento dal legislateur. Tradizioni, costumi, condizionamenti politici, culturali e sociali erano conformabili a discrezione: la retta ragione e la bontà dei fini avrebbero creato istituzioni razionali, condivise e legittimate dal consenso generale di esseri razionali (nel senso dell’illuminismo). Gli sviluppi successivi, dalla Vandea agli insorgenti italiani ai guerrilleros spagnoli dimostrarono che la questione non era così semplice, ma il sogno utopico di costruire una società senza rispondenza alle situazioni (e ai problemi) concreti continuò; in particolare inverandosi nell’utopia radicale del marxismo collassato in pochi decennixiv.

Pertanto l’idea di poter elaborare costituzioni a tavolino (diversamente da quanto pensava Cicerone che fondava la superiorità politica di Roma sulla sua costituzione perché frutto delle esperienze e del lavoro di tante generazioni) sopravviveva e si sviluppava, anche per ragioni scientifiche, anche in un ambiente diverso: quello dei giuristi. Levatrice di ciò è stato, in gran parte, l’ideale “avalutativo” della scienza e, del pari, l’idea che, per il giurista interpretare tenendosi distante da tutto ciò che è politico (anche quando, come nel caso, l’oggetto – da studiare – è politico) è la via migliore per essere scientificamente “oggettivi”.

A leggere un manuale di diritto costituzionale o internazionale del periodo del positivismo affermato (cioè da metà del XIX secolo) i presupposti e i condizionamenti politici dell’assetto costituzionale sono di solito appena cennati; ciò che assume rilievo, pressoché esclusivo, è il dato positivo dell’elaborazione della costituzione in (un) atto organico, che il giurista può interpretare a guisa di un super codice. Come se le costituzioni fossero parti dei giuristi che contribuivano a stenderle (su carta). In questo orizzonte, largamente se non totalmente prevalente, la nota forse più stonata fu quella di Lassalle – non a caso un politico e non un giurista – che in una celebre conferenza formulava il concetto (moderno) di costituzione materiale, contrapponendolo a quel “pezzo di carta” (cioè i testi considerati dai giuristi) la cui funzione principale è, secondo Lassalle, di formulare e confermare i rapporti di forze realixv.

L’altro fatto rivelatore del mutato spirito è che se, ancora nel ‘700, si cercava lo “spirito” delle leggi, e la “forma” (in senso aristotelico-tomista, e non procedurale) dello Stato, col positivismo dalla forma – come oggetto d’interesse prevalente – si passa alle norme. Funzione del giurista è d’indagare sulle norme e su come si possa ricostruire l’unità di un sistema partendo dalle norme. Invece nel ‘700 un giurista come Vattel costruiva un sistema di diritto (interno ed internazionale) basandosi sulla forma: guerre in forma, soggetti (del diritto internazionale) in forma, rapporti formali.

Nel rapporto tra diritto interno ed internazionale il raccordo tra le due sfere (interna ed esterna) non si regge più sulla forma della struttura statale pubblica, ma si ricorre ad armamentario ed a principi e concetti propriamente giuridici. Scrive Triepel in un’opera “classica” sulle relazioni tra diritto interno e diritto internazionale: “La natura delle relazioni intercedenti fra questo diritto ed il diritto internazionale può essere molto varia. Vi possono essere norme di diritto interno la cui esistenza ovvero il cui contenuto dipende da norme di diritto internazionale; può darsi che le prime tutelino anche dalle seconde; le dette norme talora operano con concetti che si possono chiamare “di diritto internazionale”; di tutto ciò non mi è dato far qui che un semplice cenno, poiché sono appunto queste relazioni che dovremo esaminare minutamente nelle pagine che seguono”xvi. Per ricostruire queste relazioni tra norme è centrale il concetto d’ “impenetrabilità” dello Stato ( e cioè il monopolio territoriale della decisione su ciò che debba essere diritto – un elemento della forma-Stato) come di “recezione” o di “rinvio”. E’ chiaro tuttavia che impenetrabilità, rinvio, recezione presuppongono una struttura – una forma – dello Stato in grado in fatto prima che in diritto di “chiudere” il proprio territorio ad ogni potere esterno. Cioè (in primo luogo) eserciti stanziali e permanenti, flotte, efficienti difese delle frontiere e delle coste: strumenti per assicurare il monopolio della decisione politica e della forza legittima (e di conseguenza, anche se meno rilevante, del diritto applicato).

Ed è tale forma che garantisce non solo l’impenetrabilità, ma anche l’osservanza, ad esempio del diritto internazionale (cioè del diritto esterno): una tribù o anche uno Stato feudale ha probabilità assai minore di assicurare l’applicazione delle norme di un trattato internazionale di quanto ne abbia uno Stato moderno, anche un po’ malmesso come la Repubblica italiana. In uno Stato “fallito” (come ad es. la Somalia) la possibilità di far osservare il diritto internazionale (ed anche quello “interno”) è minima. Il tutto conferma l’immagine con cui Santi Romano sintetizzava il rapporto tra ordinamento e norme paragonando il primo al giocatore di scacchi, le seconde alle pedine mosse dallo stesso.

Ciò che è evidente è che quel rapporto tra norme è possibile solo se i soggetti tenuti ad applicarle hanno una forma ed esercitano un potere effettivo senza i quali il rapporto tra interno ed esterno può anche essere giuridicamente regolato e valido, ma è del tutto inutile. All’inizio del secolo scorso Schmitt, Hauriou e Santi Romano invertirono i termini del problema: è l’unità dell’ordinamento (l’istituzione) a dare unità al sistema normativo e non l’inverso.

4. Ad applicare alla situazione del mondo (contemporanea) le tesi desunte da Hegel e Tocqueville ne derivano conseguenze interessanti.

In primo luogo che a costituire una federazione, non è tanto necessaria l’omogeneità culturale delle comunità federate, ma l’unità politica. Ne deriva che la costituzione di super-Stati (differenti su tutto) sarebbe possibile ove vi fosse una effettiva unità politica. Dato che il criterio di quell’unità sono per l’appunto il monopolio della decisione sul nemico e la guerra (e la competenza a identificare il primo e dichiarare la seconda), ne consegue che occorre che la federazione per essere tale e non una mera unione di Stati anche se molto vicini culturalmente (come l’Unione europea), deve avere il monopolio dell’una e dell’altraxvii.

Pensare di realizzare un’unità di Stati, senza politico, è fermarsi all’anticamera dell’unità, senza raggiungerla mai.

Del pari l’entusiasmo politicamente corretto che accompagna ogni nuova istituzione, Ente, Tribunale purchè internazionale (Sabino Cassese ne ha contati oltre duemila) è mal speso e non vale a promuovere l’unità politica. Fin quando lo jus belli e le forze armate apparterranno agli Stati (e, in certi casi, ai movimenti di guerriglia) che vi siano Tribunali, agenzie (e monete) internazionali potrà essere edificante e spesso anche utile, ma non costituisce un fatto politico decisivo e tantomeno impedirà la guerra.

Neppure l’unità del diritto serve a produrre l’unità politica. A parte che per unificazione del diritto per lo più s’intende quello privato (o comunque non politico), è indubbio che una omogeneizzazione della normativa applicabile può essere d’aiuto agli scambi internazionali. Ciò che viene meno notato è come il diritto pubblico, e in particolare quello per essenza politico, non è oggetto di quasi nessun intervento. Si emanano norme e sottoscrivono trattati per i titoli di credito, società, strumenti finanziari e così via, ma non ci risulta che l’U.E. (ad esempio) abbia mai dato direttive sui poteri dei parlamenti, sulle competenze delle regioni degli Stati membri, sulle leggi elettorali, tanto meno sulla competenza a dichiarare la guerra. L’unico ambito del diritto pubblico su cui vi sia qualche normazione “internazionale” (oltre a quello amministrativo) è quello penale. Ma è troppo poco – e troppo evanescente – perché possa inficiare la regola che si omogeneizza il diritto privato ma non quello pubblico. Proprio perciò politicamente l’ “omogeneizzazione” giuridica è poco (o del tutto) irrilevante; per il suo carattere non-politico investe quello che Hauriou chiamava il diritto comune (Dike), contrapponendolo al diritto disciplinare (Thémis)xviii: il primo esterno ai gruppi (sociali), ai clan e alle famiglie e aggiunge “noi diremmo, oggigiorno, internazionalexix,il secondo interno a quelli.

Per cui la (comune) Dike non serve a mutarla in Themis e tantomeno a farla trasformare in qualcosa di politicamente decisivo. Piuttosto il confondere gli indubbi vantaggi che sul piano economico (degli scambi) e anche per altri ambiti dell’esistenza umana (aventi carattere privato) può avere l’omogeneità giuridica significa non percepire la peculiarità del politico e la distinzione tra pubblico e privato.

5. Un’altra considerazione occorre dedicare al problema in che modo i principi sopra ripetuti possano operare in un contesto che non è più quello “classico” degli Stati moderni (o dei di essi “tipi” come quello federale).

I “tipi” di relazioni con cui le unità politiche possono limitare la sovranità e/o l’indipendenza nella produzione ed applicazione del diritto sono diversi.

In particolare, se, come scrive Schmittxx “la federazione è un’associazione permanente, che serve al comune fine di autoconservazione politica di tutti i membri della federazione”, occorre considerare anche quei tipi di rapporti non riconducibili ad una federazione (o ad uno Stato federale).

Fatta questa premessa, occorre distinguere tra limitazioni alla sovranità, e limitazioni all’indipendenza.

Tra le limitazioni alla sovranità, tra la fine della seconda guerra mondiale a oggi, ve ne sono state (frequenti), anche a quella interna non riconducibili a quei rapporti e modelli già conosciuti e “classici” (ad esempio il protettorato). Caso clamoroso quello del quale fu “esternata” la dottrina della “sovranità limitata” degli Stati aderenti al “Patto di Varsavia”. Ma una menzione particolare (anche per gli effetti) compete alla Dichiarazione di Yalta sull’Europa liberata dove, tra le molte limitazioni enunciate v’è la seguente “Nel momento in cui, secondo l’opinione congiunta dei tre Governi, le condizioni di uno degli Stati Europei liberati o di quelli satelliti dell’Asse Europeo imponessero di intervenire, i suddetti tre Governi si consulteranno immediatamente tra loro per stabilire le misure necessarie da adottare e adempiere così agli obblighi previsti da questa dichiarazione”.

Il senso e gli effetti di tale dichiarazione sono chiari: i vincitori si riservavano il diritto d’intervento all’interno dei singoli Stati occupati, diritto ovviamente indefinito nei presupposti e nel contenuto (delle misure) e quindi determinabile a discrezione degli Stati vittoriosi : tale affermazione costituisce una limitazione alla sovranità interna, quella cioè che in molti Stati membri di una federazione, compete di solito ai medesimi e non alla federazionexxi.

Diversamente da una federazione le limitazioni alla sovranità come quelle sopra ricordate non comportano la garanzia dell’esistenza politica e della sicurezza degli Stati (federati), che Schmitt ritiene una delle conseguenze del “contratto federale”xxii.

Mentre nel patto costitutivo della federazione c’è ancora un “sinallagma” come garanzia di protezione (e obbedienza) che giustifica anche la forma “pattizia” o “contrattuale”, nelle dichiarazioni di Yalta tutto si risolve nella volontà dei vincitori (quindi egemoni in forza della vittoria e della conseguente occupazione militare) i quali dettano le condizioni di sviluppo politico degli Stati occupati, si riservano la facoltà di interpretarle/applicarle e di intervenire di conseguenza.

Non meraviglia che con la firma dei trattati di pace alcune limitazioni alla sovranità (interna) divenissero clausole del trattato stesso, come notò Vittorio Emanuele Orlando nel discorso alla Costituente contro l’approvazione del trattatoxxiii. Ciò non esclude che con un Trattato possano accordarsi quelle garanzie: tuttavia mentre nel caso della federazione ineriscono alla natura dello stesso e sono, come scrive Schmitt, la conseguenza dell’esistenza associata sia degli Stati membri che dello Stato federalexxiv, nel caso del trattato dipendono totalmente dalla volontà degli Stati contraenti (e sono soggette alle riserve comuni a tutti i trattati).

Spesso connesse alle limitazioni alla sovranità vi sono quelle all’indipendenza nell’esercizio del potere normativo o in quello di “polizia” e giudiziario. La recente normativa internazionale finalizzata alla lotta al terrorismo ce ne offre diversi esempi in cui taluno, non senza fondamento, ravvisa la formazione di una sorta di controllo degli Stati Uniti sugli altri Stati del pianeta, sviluppantesi – e questo è il carattere “originale” – non tramite eserciti e occupazioni militari ma con forme di dipendenza delle burocrazie giudiziarie e amministrative degli Stati “soggetti” al potere “imperiale”xxv dello Stato-guida.

Il che costituirebbe una forma di egemonia esercitata in un’epoca in cui si fa un gran parlare di governance, termine che difetta di quella chiarezza e distinzione di solito comune alla terminologia del periodo statale “classico”.

6. È difficile definire un’impero. Il termine è stato applicato a tante diverse forme politiche, dall’impero persiano achemenide a quello romano, dal Sacro romano Impero a quelli coloniali degli Stati europei dalla Rinascenza al secolo scorso, solo per citare quelli più familiari alla nostra cultura.

Trovare forme e tratti comuni tra Dario e Carlo Magno non è facile: tuttavia un primo tentativo di delinearne i caratteri si può iniziare partendo dai connotati tipici e salienti dello Stato moderno e notare le differenze: delimitando cioè l’Impero, in modo negativo, da ciò che è Stato.

In primo luogo nell’Impero non vi è il monopolio della decisione politica e della violenza legittima, invece connotati fondamentali dello Stato moderno, come sostenuto da Max Weber e Carl Schmitt. L’individuazione/designazione del nemico e l’esercizio dello jus belli è distribuito tra il centro e le periferie dell’Impero.

L’Anabasi offre una rappresentazione di ciò che avveniva nell’Impero achemenide: Artaserse non percepisce come ostili i preparativi del fratello Ciro di muovergli guerra perché crede che lo stesso volesse far guerra a (un altro satrapo) Tissaferne e ciò oltre a sembrargli normale non gli dispiaceva “affatto che si facessero guerra tra loro”xxvi (probabilmente perché così erano troppo impegnati per farla a lui). Ciro, per raggiungere il centro dell’impero e combattere col fratello attraversa territori, ottenendo aiuti da una parte e combattendo dall’altra; lo stesso aveva giustificato la spedizione militare come rivolta contro i Pisidi, altri sudditi dell’impero Persiano; tutta la posizione e la politica di Tissaferne nei confronti dei mercenari greci in ritirata è dominata dalla preoccupazione che possano fargli guerra nei suoi domini di satrapo.

In altre parole né monopolio dello jus belli né una situazione di pace all’interno e guerra all’esterno (l’aspirazione/situazione “statale”) facevano parte della normalità dell’Impero persiano. Lo stesso per altri imperi, segnatamente per il Sacro Romano Impero e in genere la società feudale, dove le guerre tra vassalli, comuni, e di questi (e del Papa) contro l’Imperatore costituivano la situazione normale. Contrariamente a quanto accade anche negli Stati federali, lo jus belli non è monopolizzato dal centro; si ha una situazione simile a quella descritta da Grozio, quando distingue le guerre pubbliche da quelle privatexxvii.

La seconda distinzione, tipica dello Stato moderno, è quella “spaziale” tra interno ed esterno, che ha un connotato del tutto specifico il quale delinea due “status” o situazioni differenti e, in molti casi, opposti: quello tra ordinamento (e quindi diritto) interno ed esterno.

Quello interno si basa sul potere-dovere (e le correlative responsabilità, interna ed internazionale) di mantenere la pace (e l’ordine) all’interno dello Stato; a tale scopo la sovranità è irresistibile (c’è una volontà prevalente) dai poteri “interni” e ha quindi il potere (e il dovere) per mantenere la pace. All’esterno coesistono più unità politiche, in principio uguali (non c’è una volontà prevalente) e il mezzo per far valere, realizzare far riconoscere (e regolare) i propri diritti ed interessi è il trattato e, in caso di disaccordo, la guerra. Questa, che all’interno è in linea di principio vietata e considerata attività criminale, all’esterno dell’unità politica è, in linea di principio, legittima se esercitata tra Stati sovrani. In molti imperi non è così: il legame pace-interno e guerra-esterno non è netto: non c’è uno spazio pacificato, qualitativamente opposto a quello d’oltre confine. La distinzione è, al massimo, quantitativa: le guerre interne sono, per le forze relative dei contendenti, meno pericolose e dannose (ma non è sempre sicuro) di quelle esterne. Il confine tra interno ed esterno consegue a questa separazione netta: diversamente dalle società feudali (dove i rapporti di vassallaggio e i conseguenti diritti e doveri attraversavano i confini per cui il Re d’Inghilterra era vassallo – ed aveva propri vassalli – nel Regno di Francia), nello Stato moderno il confine significa l’esclusività e l’irresistibilità (all’interno) del potere sovrano che ne esclude ogni altro della stessa natura.

In terzo luogo il rapporto tra comando/obbedienza e il connesso dovere di protezione (quest’ultimo costituente, secondo Hobbes, il fondamento dell’obbligazione politica)xxviii: nello Stato la sovranità esclude che vi sia un rapporto comando/obbedienza tra i sudditi ed altri poteri che possa prevalere sullo stesso rapporto con lo Stato. Nell’impero ciò non appare definito, onde vi possono essere diversi rapporti, potenzialmente (e spesso in atto) conflittuali tra loro.

Nella società feudale si poteva essere vassalli di più signori e quindi obbligati alla fedeltà ad entrambi: in caso di conflitto politico, o di guerra tra i seniores, la situazione che ne derivava era, a dir poco, confusa. Anche il rapporto di protezione/obbedienza conseguentemente ne veniva incrinato.

Quanto alla sovranità, chiave dello Stato moderno, in conseguenza di quanto sopra, negli imperi non appare dotata dei connotati costruiti da alcuni secoli di dottrina dello Stato moderno. Dei quali, i più importanti sono: l’illimitatezza (o irresistibilità)xxix e la generalità nel senso che il sovrano è competente a provvedere su tutto e “giudice” di tutto, anche della propria competenza.

Il primo peraltro, come scriveva Romagnosi, è un carattere essenziale che distingue nettamente e qualitativamente la sovranità da ogni altro potere di comando (tutti in qualche modo limitati e resistibili); mentre il potere “imperiale” appare differire dagli altri poteri pubblici essenzialmente per dimensioni (spaziali) e per collocazione (sta “sopra” agli altri, ma essenzialmente è un primus inter pares), cioè per differenze “quantitative” (è più potente, non è illimitatamente potente).

Del pari il potere imperiale, nato generalmente come sovrapposizione a precedenti poteri e organizzazioni politiche, ha una competenza non generale, né è giudice della propria competenza (come nella società feudale).

Raymond Aron distingue di conseguenza tre tipi di pacexxx, e, correlativamente tre tipi di guerrexxxi, anche in relazione alla esistenza di imperi.

7. La lezione desumibile da Hegel e Tocqueville è quindi utilmente applicabile alla situazione contemporanea.

In primo luogo né il diritto, né l’economia (e neppure altri “ambiti” dell’esistenza umana, come la morale o l’arte) possono costituire ex se il fondamento per l’unità politica. Anzi nel pensiero di Hegel il privato (nei passi sopra citati rapportato all’attività economica) è una causa di dissoluzione dell’unità politica: è l’ordinamento privatistico (e patrimonialistico) dell’Impero germanico a determinarne la rovina, sì da soccombere a Napoleone. La stessa tendenza del privato “all’acquisto ed al guadagno, nella prevalenza dell’interesse particolare” è l’attitudine spirituale meno idonea a costituire e consolidare uno Stato; nei Grundinien des philosophie des Rechts il concetto viene ribaditoxxxii.

Neppure l’esistenza di un’amministrazione nè di una burocrazia (e di regole per il funzionamento dell’una e dell’altra) è, di per sé, decisivo per l’unità politica: l’utopia di Saint-Simon di sostituire al governo degli uomini l’amministrazione delle cose si rivela fallace anche in ambito “internazionale”. Il moltiplicarsi di Enti, istituti, funzionari internazionali non ha fatto progredire affatto la pace, né eliminato e forse neppure ridotto le guerre. La spiegazione l’aveva già data Tocqueville quando nel passo sopra citato parla di debolezza dello Stato federale in relazione all’accentramento amministrativo (non all’amministrazione in genere, men che mai “autonoma”, come va di moda).

È l’amministrazione accentrata cioè l’apparato burocratico gerarchicamente organizzato e dipendente dal vertice politico a costituire fattore e garanzia di unità. In altre parole è un’amministrazione organizzata intorno al “presupposto” del politicoxxxiii del rapporto di comando/obbedienza, (cioè a servizio di un potere politico), a poter realizzare lo scopo, e non una qualsiasi amministrazione, solo perché dotata di bolli, timbri e registri. Senza “governo” la burocrazia (di un potere razionale-legale) porta in se solo l’idea di “regola”, ma non quella, necessaria, di “coazione”.

E del pari sia Hegel che Tocqueville attribuiscono carattere decisivo alla guerra (ed all’esistenza – ed alla scelta – del nemico). E’ questo, se ne desume, anticipando Schmitt (o seguendo Hobbes) a rivestire carattere decisivo per l’unità politica – e per l’esistenza della medesima. E’ il rapporto tra interno ed esterno, forma istituzionale e situazione concreta, in particolare geo-politica, a modellarla come vitale; ciò fino a determinare, in molti casi, la scelta tra rafforzamento del governo (per esistere come unità politica) e perdita (o compressione) delle libertà sociali ed individuali, con ricaduta nel dispotismo.

Ove si costruisca un’unità politica superiore non si sfugge al “criterio del politico”, il quale è decisivo: federazioni o unioni di Stati costruiti su burocrazie zelanti e regolamentazioni economiche (e sociali) non sono unità politiche, proprio perché mille funzionari non fanno un buon esercito.

Quanto all’altro aspetto – dell’impero o meglio degli imperi prossimi venturi – appare sicuro che, per esistere politicamente, devono avere anch’essi quel carattere anche se – a differenza dello Stato – distribuito tra centro e periferia, e perciò non monopolizzato.

Le conseguenze della “costituzione” di un potere imperiale, cioè di un potere non esclusivo ma prevalente, oscillante tra mera superiorità ed egemonia, si intravedono già nelle “nuove forme” di guerra, site al confine (concettuale) tra operazioni di polizia e guerra (vera e propria), e spesso caratterizzate da un confronto tra una potenza enorme e proprio perché tale molto vulnerabile e potenze minime e di conseguenza quasi invulnerabili: costituenti il tipo ideale (ed estremo) della guerra asimmetrica.

Il tutto non lascia intravedere uno sviluppo sicuramente pacifico: se lo jus publicum europeaum aveva ridotto le occasioni di justum bellum privandone gran parte dei soggetti “legittimati” alla guerra (dai grandi feudatari ai Comuni, alle compagnie di ventura), e costruendo lo Stato moderno come produttore di pace, non appare confortante l’idea di una “redistribuzione” dello jus belli tra diversi soggetti “regolari”e “irregolari”: una situazione neo-feudale.

Augusto dispose tre volte la chiusura del Tempio di Giano come simbolo della conseguita pax imperiale. Difficilmente in un’età imperiale, come quella che si profila nel futuro, si potrà procedere ad un atto analogo.

Teodoro Klitsche de la Grange

i V. LFS trad. it. Firenze 1941, p. 229-231 (i corsivi sono nostri).

ii “La costituzione dà al Congresso il diritto di chiamare in servizio attivo la milizia dei diversi Stati, quando si tratta di reprimere un’insurrezione o di respingere un’invasione; un altro articolo dice che, in questo caso, il Presidente degli Stati Uniti è il comandante in capo dell’esercito.

All’epoca della guerra del 1812, il Presidente ordinò alle forze militari del Nord di portarsi verso le frontiere; il Connecticut e il Massachussets, i cui interessi erano danneggiati dalla guerra, rifiutarono di inviare il loro contingente.

La costituzione, essi dissero, autorizza il governo federale a servirsi delle milizie territoriali in caso di insurrezione o di invasione; ora, nel caso presente, non c’è né insurrezione né invasione. Aggiunsero poi che la stessa costituzione, che dava all’Unione il diritto di chiamare le milizie in servizio attivo, lasciava agli Stati il diritto di nominare gli ufficiali; ne deriva, secondo loro, che in guerra nessun ufficiale dell’Unione aveva il diritto di comandare le milizie, eccetto il Presidente in persona. Ora, si trattava di servire in un esercito comandato da un altro.

Queste teorie assurde e distruttrici ricevettero non solo la sanzione dei Governatori e del corpo legislativo, ma anche quella delle Corti di giustizia di questi due Stati” e prosegue “Per quale ragione, dunque, l’Unione americana, per quanto protetta dalla relativa perfezione delle sue leggi, non si dissolve in mezzo a una grande guerra? Per la semplice ragione che non ha grandi guerre da temere.

Posta al centro di un continente immenso, in cui l’industria umana può estendersi senza limiti, l’Unione è isolata dal mondo quasi come se fosse circondata da ogni parte dall’Oceano.

Il Canada non conta che un milione d’abitanti: la sua popolazione è divisa in due nazioni nemiche. I rigori del clima limitano l’estensione del suo territorio e chiudono per sei mesi i suoi porti.

Al sud l’Unione tocca l’Impero del Messico; probabilmente è di qui che, un giorno, potranno venire grandi guerre. Ma, per lungo tempo ancora, il grado poco avanzato di civiltà, la corruzione dei costumi e la miseria impediranno al Messico di occupare un posto elevato tra le nazioni. Quanto alle potenze europee, la loro lontananza le rende poco temibili” concludendo “La grande fortuna degli Stati Uniti non è, dunque, quella d’aver trovato una costituzione federale, che permetta loro di sostenere grandi guerre, ma quella di avere una posizione geografica tale da non dover temere grandi conflitti.

Nessuno saprebbe apprezzare più di me i vantaggi del sistema federale. Vi vedo una delle più valide combinazioni in favore della prosperità e della libertà umane. Invidio la sorte idi quelle nazioni alle quali è stato permesso d’adottarlo. Ma, nondimeno, mi rifiuto di credere che dei popoli confederati possano lottare a lungo, a parità di forze, contro una nazione, dove il potere di governo è centralizzato” (i corsivi sono nostri) – v. La Démocratie en Amérique, libro I, parte I, trad. it. Torino, p. 200 ss.

iii “…il più grosso problema europeo è di sapere come si possa ridurre il potere sovrano senza distruggerlo.

Si fa presto a dire: «Ci vogliono delle leggi fondamentali, ci vuole una costituzione». Ma chi istituirà queste leggi fondamentali, e chi le farà attuare? Il gruppo o l’individuo che ne avesse la forza sarebbe sovrano, poiché sarebbe più forte del sovrano, di modo che, per l’atto stesso dell’istituzione, lo detronizzerebbe. Se la legge costituzionale è una concessione del sovrano, il problema si ripresenta. Chi impedirà che uno dei suoi successori la violi?… D’altra parte, si sa che i numerosi tentativi fatti per ridurre il potere sovrano non sono mai riusciti a far venire la voglia di imitarli. L’Inghilterra sola, favorita dall’Oceano che la circonda e da una carattere nazionale che si presta a queste esperienze, ha potuto fare qualcosa del genereDu pape, Lib. II, cap. II, trad. it. di A. Pasquali, Milano 1995, p. 158 (i corsivi sono nostri).

ivL’idealità che fa la sua comparsa nella guerra, venendosi così a trovare come in un rapporto accidentale con l’esterno, è in realtà identica all’idealità secondo cui i poteri statuali interni sono momenti organici del Tutto.

Sul piano dei fenomeni storici, questa identità si presenta, tra l’altro, nella figura per cui guerre fortunate hanno impedito irrequietudini interne e hanno consolidato la forza interna dello Stato.

Un fenomeno che rientra appunto in questo ordine è quello dei popoli che, non volendo oppure paventando sopportare una sovranità all’interno, sono stati soggiogati da altri popoli, e che si sono impegnati per la loro indipendenza con tanto minore successo e onore quanto meno si è potuto produrre al loro interno un primo serio assetto del potere statuale – popoli la cui libertà è morta per la paura di morire” (i corsivi sono nostri) LFD § 325 di V. Cicero, Milano 1996, p. 545.

v E proseguiva “da un lato questa legalità di mantenere ogni parte nella sua separazione dallo Stato, dall’altro le necessarie pretese dello Stato sul singolo membro di esso stanno nel più completo contrasto. Lo Stato richiede un centro comune, un monarca e degli stati in cui si riuniscano i diversi poteri, i rapporti con potenze straniere, le potenze militari, le finanze che hanno con esso relazione ecc.; un centro che avrebbe anche per la direzione, la necessaria potenza di affermare se stesso e le sue decisioni e di mantenere le singole parti in dipendenza da se. Atraverso il diritto invece è assicurato ai singoli Stati un’indipendenza quasi totale o addirittura totale… L’edificio statale tedesco non è null’altro che la somma dei diritti che le singole parti hanno sottratto al tutto; e questa legalità che veglia sollecitamente a che allo Stato non rimanga più alcun potere è l’essenza della costituzione” Op. cit. pag. 19.

vi E così prosegue “la Germania può essere saccheggiata e ingiuriata: il teorico del diritto statale saprà mostrare che tutto ciò è del tutto conforme ai diritti e alla prassi e che tutti i casi di infelicità sono piccolezze nei confronti dell’uso di questa legalità. Se il modo infelice in cui la guerra è stata condotta risiede nella condotta dei singoli stati, dei quali l’uno non inviò alcun contingente, moltissimi inviarono, invece che dei soldati, delle reclute arruolate appena ora, l’altro non pagò nessuna «mensilità romana», un terzo al tempo del più grande bisogno ritirò il suo contingente, molti conclusero trattati di pace e contratti di neutralità, la maggior parte ognuno alla sua maniera, annullò la difesa della Germania: allora il diritto statale dimostra che gli Stati hanno il diritto di una siffatta condotta, hanno il diritto di portare il tutto al più grande pericolo danno e sventura; e poiché questi sono diritti, i singoli e le comunità devono salvaguardare e difendere rigorosissimamente questi diritti di essere mandati in rovina. Per questo edificio giuridico dello Stato tedesco forse non esiste dunque nessuna insegna più adatta di questa: Fiat justitia, pereat Germania!”op. cit. trad it. in Scritti politici, Bari 1961 pp. 21.

vii Riguardo alle leggi propriamente civili e alla amministrazione della giustizia, né l’uguaglianza delle leggi e della procedura giuridica potrebbero rendere l’Europa uno Stato (tanto poco quanto l’uguaglianza dei pesi, delle misure e della moneta), né la loro diversità impedisce l’unità di uno Stato” perché “ i più potenti degli Stati effettivi hanno leggi assolutamente non uniformi. La Francia aveva prima della Rivoluzione una tale molteplicità di leggi che, oltre al diritto romano che valeva in molte province, in altre dominava quello burgundisco, quello britannico, ecc. e quasi ogni provincia, anzi quasi ogni città aveva una particolare legge tradizionale; uno scrittore francese disse a ragione che chi viaggiasse lungo la Francia doveva cambiare leggi tanto frequentemente quanto i cavalli dei servizi postali.

Non meno fuori dal concetto dello Stato giace la circostanza dello stabilire da quale particolare potenza, o secondo quale rapporto di partecipazione dei diversi stati o dei cittadini in generale devono essere date le leggi; Op. cit. pp. 32-22 (i corsivi sono nostri).

viii Quanto poco, prima e in sguito, la somiglianza delle religioni nella separazione in popoli potè impedire le guerre e riunirli in uno Stato, altrettanto poco nei nostri tempi la diversità della religione sgretola uno Stato. Op. cit. p. 36

ix Op. cit. p. 44 (i corsivi sono nostri)

x Mi si consenta di rinviare a quanto da me scritto in Diritto divino provvidenziale e dottrina dello Stato borghese in Behemoth n. 41, p. 25 ss.

xi v. Trattato politico, trad. it. Torino 1958, p. 205.

xii Montesquieu, Esprit des lois I, 1, 1

xiii Montesquieu, Esprit des lois, 1. I, 3: le leggi «doivent être tellement propres au peuple pour lequel elles sont faites, que c’est un trés grand hasard si celles d’une nation peuvent convenir à une autre».

xiv Era cioè proprio il contrario di quanto sosteneva Montesquieu. Ovvero che le leggi “devono essere in armonia con la natura e col principio del governo costituito, o che si vuol costituire, sia che lo formino, come fanno le leggi politiche; oppure che lo mantengano, come fanno le leggi civili.

Queste leggi debbono essere in relazione col carattere fisico del paese, col suo clima gelato, ardente o temperato; con la qualità del terreno, con la sua situazione, con la sua estensione, col genere di vita dei popoli che vi abitano, siano essi coltivatori, cacciatori o pastori: esse debbono essere in armonia col grado di libertà che la costituzione è capace di sopportare, con la religione degli abitanti, le loro disposizioni, la loro ricchezza, il loro numero, i loro commerci, costumi, maniere. Finalmente, esse hanno relazioni reciproche; con la loro origine, col fine del legislatore, con l’ordine delle cose sulle quali esse sono state costituite. Noi le dobbiamo considerare sotto tutti questi vari aspetti, ed è appunto ciò che intendo fare nella mia opera. Esaminerò tutte queste relazioni: esse, nel loro insieme, formano ciò che viene chiamato lo spirito delle leggi”. Lo spirito delle leggi deriva quindi dalle relazioni con i condizionamenti concreti e reali (tra cui i nemici e le guerre possibili) che erano considerati nei libri IX e X, che costituicono una vera miniera di intuizioni sul rapporto tra fattori geo-politici e istituzionali.

xv V. Über verfassungswesen, trad. it. in Behemoth n. 20, p. 5 ss.. E’ da notare che Lassalle muoveva una critica penetrante ai giuristi suoi contemporanei “tutte queste definizioni giuridiche formalmente simili aono altrettanto lontane quanto la precedente risposta in ordine alla costruzione di una risposta effettiva alla mia domanda. Perché tutte queste risposte contengono sempre e solo una descrizione esterna del come una costituzione viene ad esistenza e di ciò che una costituzione fa, ma non l’informazione: cosa una costituzione è. Esse indicano criteri, segni di riconoscimento, da cui si riconosce una costituzione dall’esterno e sul piano giuridico” per cui concludeva “ Gli effettivi rapporti di potere che sussistono in ogmi società sono quella forza effettivamente in vigore che determina tutte le leggi e le istituzioni giuridiche di questa società, cosicchè queste ultime essenzialmente non possono essere diverse da come sono” i corsivi sono nostri. V. op. cit. p. 5-6.

xvi H. Triepel Völkerrecht und Laudesrechts, trad. it. Torino 1913 pp. 4-5. (i corsivi sono nostri)

xvii Montesquieu considerava con favore le repubbliche federate perché federarsi è l’unico modo per dei piccoli Stati, di difendersi. “Furono queste associazioni a render fiorente per così lungo tempo la Grecia. Grazie ad esse i Romani attaccarono il mondo intero, e grazie ad esse sole il mondo intero si difese contro di loro. Quando Roma raggiunse il massimo della propria grandezza, fu per mezzo di simili associazioni poste oltre il Danubio ed il Reno, e sorte per effetto della paura, che i barbari poterono resistere… Le associazioni tra città erano in altri tempi più necessaria di quanto non lo siano oggi. Una città mal difesa correva rischi gravissimi. Essere conquistata significava la perdita non soltanto del potere esecutivo e legislativo, come avviene oggi, ma anche di tutte le proprietà individuali”. Poco dopo specificava che il non poter contrarre alleanza significa per l’appunto di non poter condurre una politica estera diversa dalla federazione Esprit des lois, Lib. IX, cap. 1-3.

xviii “Tutte le istituzioni generano un diritto disciplinare che resta al loro interno, si caratterizza per essere gerarchico e perché, davanti ai Tribunali che lo applicano, le parti non sono in posizione d’eguaglianza” Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 98.

xix Hauriou op.loc. cit., e aggiunge “Mentre Thémis ha la propria fonte nell’organizzazione sociale, Dike trova la propria nella socievolezza umana che non perde i propri diritti neppure di fronte agli stranieri, e del pari di fronte ai nemici”.

xx Verfassungslehre trad. it. di A. Caracciolo, p. 477, Milano 1984.

xxi v. sul punto C. Schmitt op.cit.p. 493: “Ma poiché le questioni dell’esistenza politica possono presentarsi diversamente nei diversi ambiti, specialmente in politica estera ed interna, allora è possibile che la decisione su una specie determinata di siffatte questioni, per esempio le questioni dell’esistenza in politica estera, abbia luogo nella federazione, mentre la decisione di altre questioni, per esempio il mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica all’interno di uno Stato membro, rimanga nello Stato membro. Questa non è una divisione della sovranità, ma deriva dalla coesistenza della federazione con i suoi membri: non si verifica una divisione, perché il caso di un conflitto, che determina la questione della sovranità, riguarda l’esistenza politica in quanto tale e la decisione nel caso singolo spetta sempre interamente all’uno o all’altro”

xxii v. op. cit., p. 480.

xxiii V. in Palomar n. 18, pp. 49 ss.

xxiv Op. cit., p. 480-481.

xxv v. gli articoli di Jean Claude Paye in Behemoth nn. 35, 37, 38.

xxvi Anabasi, I, 2.

xxvii In effetti in tali guerre, essendo “distribuito” lo jus belli, non c’è il criterio distintivo delle auctoritas cioè il diritto di dichiarare e muovere guerra, indicato da S. Tommaso e dai teologi-giuristi della Tarda Scolastica come una delle condizioni dello justum bellum.

xxviii V. Leviathan (conclusione); scrive Hobbes “E così sono giunto alla fine del mio trattato sul governo civile ed ecclesiastico, al quale hanno data occasione i disordini del tempo presente, e che è stato composto senza parzialità, senza prevenzione e senza altro scopo che di porre davanti agli occhi degli uomini la mutua relazione tra protezione ed obbedienza; alle quali la condizione della natura umana e le leggi divine – tanto naturali che positive – richiedono un’osservaznza inviolabile”, (il corsivo è nostro) trad. it. di Mario Vinciguerraq, vol. II, Bari 1974, p. 661.

xxix V. la definizione di G. D. Romagnosi in Scienza delle costituzioni, Firenze 1850 (tra i tanti che l’hanno ripetuto) v. V.E. Orlando nel discorso sopra citato alla Costituente.

xxx “Distinguo tre tipi di pace, equilibrio, egemonia, impero: in un dato spazio storico, le forze delle unità politiche o si controbilanciano o sono dominate da quelle di una di esse, oppure infine sono superate da quelle di una di esse in modo che tutte le unità, salvo una, perdono la loro autonomia e tendono a sparire in quanto centri di decisioni politiche” Paix et guerre entre les nations, trad. it. F. Airoldi Namer, Milano 1970, p. 188 (i corsivi sono nostri).

xxxi “La classificazione ternaria delle paci ci fornisce nello stesso tempo una classificazione, la più formale e la più generica, delle guerre: le guerre «perfette», conformi alla nozione politica della guerra, sono interstatali: in esse si affrontano unità politiche che si riconoscono reciprocamente esistenza e legittimità. Chiameremo soprastatali o imperiali le guerre il cui oggetto, o rigine o conseguenza, sia l’eliminazione di certi belligeranti e la formazione di un’unità al livello superiore. Chiameremo infrastatali o infraimperiali le guerre la cui posta è il mantenimento o la decomposizione di un’unità politica, nazionale o imperiale” op. cit., p. 191; si noti che Aron attribuisce allo Stato imperiale il monopolio della violenza legittima. Si può concordare a patto di chiarire che quando c’è uno Stato imperiale, questo è più Stato che Impero, e che l’essenza “statale” può essere prevalente in certe aree, e più sfumata in altre (come in molte colonie extraeuropee degli Stati europei).

xxxii Op. cit., v. (tra gli altri) §258 “Se lo Stato viene scambiato per la società civile, e se quindi la sua destinazione viene posta nella sicurezza e nella protezione della proprietà e della libertà personale, allora l’interesse dei singoli in quanto tali diviene il fine ultimo per cui essi sono uniti, e, a un tempo, il fatto di essere membro dello Stato finisce col dipendere dal capriccio individuale”, mentre “L’unione in quanto tale [degli individui nello Stato] è essa stessa l’autentico contenuto e fine, e la destinazione degli individui consiste nel condurre una vita universale: ogni loro ulteriore appagamento, attività, modo di comportarsi, ha per suo punto di partenza e risultato questo elemento sostanziale e universalmente valido”, trad. it. di V. Cicero, Milano 1996, p. 417-419.

xxxiii V. Julien Freund L’essence du politique, Paris 1965, p. 94 ss.

Stati Uniti! Percorsi paralleli…per ora_Con Gianfranco Campa

Qualsiasi formazione sociale, prima o poi, è costretta ad affrontare una situazione di crisi della propria classe dirigente e del corrispondente ceto politico. La dinamica di queste crisi è una particolare cartina di tornasole utile a definire queste fasi di transizione come un percorso di declino oppure di trasformazione attiva e rigeneratrice. Un indizio significativo è la capacità di ricambio e rinnovamento di soggetti promotori e protagonisti. Negli Stati Uniti stiamo assistendo a due tendenze apparentemente contraddittorie. Da una parte, nel campo democratico e neoconservatore, alla parziale riproposizione di personaggi in grado di proporre spartiti ormai ripetitivi e desueti; maschere consunte ormai in grado di incantare, con la loro narrazione e in un quadro di degrado morale e di corruzione di costumi sterili, fasce sempre più ristrette di pubblico; dall’altra ad una dinamica del confronto politico tra due forze che, impossibilitate a comunicare e incapaci di definire un terreno comune di gioco, ormai procedono lungo percorsi paralleli sino a creare luoghi propri e separati di comunicazione, di organizzazione sociale, propri canali di finanziamento. Una situazione che non potrà protrarsi ancora per troppo tempo, pena il disfacimento dell’attuale formazione socio-politica statunitense. Una situazione che potrà trovare una soluzione di continuità quando una delle parti avrà saputo completare la propria fase di rinnovamento e di formazione di una classe dirigente e di un ceto politico presentabile e convincente. Al momento è il movimento legato a Donald Trump ad avere più prospettive di successo e a offrire una qualche prospettiva realistica a quel paese. Il fatto che una parte dell’establishment sempre più significativa abbia preso atto di questa dicotomia e stia scegliendo, a differenza di quattro anni fa, quest’ultima componente rivela il carattere ormai strutturato del movimento. Si vedrà se a questa maggiore solidità corrisponderà altrettanta coerenza e saldezza politica. L’oggetto del contendere sono l’accettazione o meno della coesistenza in un mondo multipolare ormai consolidato e le modalità costitutive di una formazione sociale sufficientemente coesa e dinamica. Due temi sempre più presenti in quella nazione e sempre più evanescenti nel nostro amato e decadente Bel Paese. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

NB_ Abbiamo il fondato sospetto, quasi la certezza, che You Tube, in buona compagnia con piattaforme dello stesso orientamento, manipolano pesantemente i dati di accesso e la condivisione di testi e video. Suggeriamo, quindi, di digitare in maniera preferenziale la piattaforma di rumble, indicata con il link dedicato. Quando disporremo di altri mezzi attingeremo ad una fonte del tutto autonoma

https://rumble.com/vqpy3f-stati-uniti-e-i-percorsi-paralleli-con-gianfraco-campa.html

Transizione energetica e dogmatismo, di Alessandro Visalli

Si parla di leggi inesorabili del mercato; in realtà la condizione di sofferenza dei paesi europei nelle forniture energetiche è il frutto della sudditanza geopolitica e di scelte scellerate sulle modalità di fornitura e sulla gestione delle scelte di conversione ecologica. Buona lettura, Giuseppe Germinario
Dati ed informazioni.
Transizione energetica.
Settore fotovoltaico.
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Nel 2021 a livello mondiale si prevedono 180.000.000 di kW di nuova potenza installata (3 kW sono la potenza media installabile per i consumi di una famiglia) e nel 2022 se ne prevedono pochi di più. Equivalente quindi alla capacità per i consumi domestici di 60.000.000 di famiglie, una nazione come l’Italia o la Corea del Sud.
La spinta ad installare viene dagli Usa e Australia, in misura minore dall’Europa, ma soprattutto dalla Cina, nel paese asiatico si installano 25.000.000 di kW con una crescita del 60% sul 2020.
Ma molti progetti in questo momento sono rinviati per la dinamica dei prezzi delle componenti. I moduli sono cresciuti di prezzo del 15% negli Usa, ma, soprattutto, c’è molta incertezza nella catena logistica che si traduce in difficoltà a rispettare tempi e qualità delle consegne. Chiaramente per i grandi cantieri questo è un problema enorme ed un fattore di costo molto rilevante. In un impianto il costo della manodopera incide almeno al 30%.
Il prezzo dei moduli dipende da un vertiginoso incremento del costo del polisilicio con cui sono costruiti, che è aumentato da 6,3$/kg del 2020 a 37 $/kg del 2021. Si spera che comincino a scendere dal 2023-24, in concomitanza con l’aumento della produzione cinese (fuori dello Xinjiang) e la riapertura degli stabilimenti americani e tedeschi o malesi che erano stati chiusi per la concorrenza cinese.
Altri fattori di rallentamento ed incertezza sono le difficoltà di spedizione ed i relativi costi. Nel 2020 e 2021 sono aumentati del 500%, arrivando a 0,03 $/Wp (ovvero 17,5 $ per un pannello da 585 Wp), prima erano circa 3 $.
Quindi l’incremento dei costi delle altre materie prime (argento, rame, alluminio, vetro) che in alcuni casi sono letteralmente fuori controllo.
D’altra parte la stessa congiuntura mondiale (che non sono convinto essere passeggera, potendo essere invece un punto di svolta di sistema) determina alti costi dell’energia in tutto il mondo. Quindi la riattivazione di investimenti potrebbe avvenire anche rinegoziando i precontratti di vendita (per lo più gli impianti di grande taglia sono ‘bancati’ avendo in pancia un contratto di vendita di lungo periodo a sconto sul prezzo medio atteso, che con i prezzi in vertiginosa crescita di questi mesi è diventato estremamente svantaggioso per loro).
II
Mi dicono che nel libro (che non ho letto) di Diego Zanetti “Adam Smith a Mosca”, nel quale è analizzata la politica russa degli ultimi venti anni la tesi sia che nel sistema del grande paese euroasiatico sia stato sviluppato un modello a-capitalistico nel quale la salda presa dello Stato si esprime nella predominanza delle imprese statali (70% del Pil), con il monopolio della produzione ed esportazione energetica che è stata la grande battaglia di Putin al suo esordio (ricordare la lotta senza esclusione di colpi ai satrapi energetici privati) altamente tassato, e la presenza complementare di piccole e medie imprese che operano in mercati tenuti in stato molto concorrenziale (per cui i profitti sono bassi, la composizione organica del capitale non supera certi livelli e l’occupazione è alta). La conclusione sarebbe, appunto, che questo modello assomiglia a quello cinese e allo ‘sviluppo naturale’ smithiano (su questo torniamo leggendo “La ricchezza delle nazioni” prossimamente). E quindi sarebbe propriamente ‘non capitalista’ (se con questo termine si intende il dominio del capitale mobile, ovvero dell’alleanza tra alta finanza e grande industria internazionalizzata).
La politica della nazione russa sarebbe quindi rivolta essenzialmente a garantirsi un sentiero di sviluppo autonomo dal grande capitale internazionale e dalle intromissioni dell’imperialismo occidentale.
In questa direzione assume qualche interesse la vicenda che ci sta colpendo (e ci colpirà) ogni mese quando paghiamo e pagheremo le nostre bollette elettriche (e del gas). Il prezzo del gas, dopo mesi di tensione causati dalle strozzature distributive frutto dello shock pandemico mondiale, è andato in sofferenza per la ripresa delle produzioni e dei consumi in questo rimbalzo mondiale nel ’21. Alla ripresa post estiva (quando i prezzi calano per effetto della chiusura delle fabbriche) Gazprom (società monopolista pubblica russa) ha ridotto in una misura che per alcune fonti è del 70% le forniture di gas all’Europa. In parte perché le ha aumentate alla Cina e perché i contratti di lungo periodo, che garantivano la fornitura, erano stati sostituiti da contratti “spot” durante la crisi. Ciò è accaduto sui gasodotti che passano per la Bielorussia tra settembre ed ottobre, quando sono scese da 112 milioni di mc a 30. Ma anche quelle attraverso l’Ucraina sono scese da 110 ml a 85. Infine le forniture tramite l’oleodotto Yamal, che sbocca in Polonia, sono scese della metà. Quindi i prezzi ‘future’ sul mercato TTF olandese sono saliti del 100%.
La Russia si è dichiarata pronta ad aumentarle e, nello stesso momento, ha assicurato che le forniture a lungo termine sono state sempre rispettate (ma, appunto, ormai erano ridotte ad una frazione del necessario perché la Commissione uscente aveva deciso di comprare “spot” il necessario di volta in volta, per lucrare sul basso prezzo di mercato nella fase di debolezza).
Che succede?
Se ricordiamo l’analisi prima condotta, sulla centralità delle grandi aziende estrattive e distributive di Stato nella strategia di assunzione di controllo del proprio percorso di sviluppo (e, quindi, in ottica chiaramente geopolitica), si apre una chiave.
Ma, prima, ci vuole un altro tassello: la Russia ha appena completato l’allaccio del gasodotto North Stream che ha provocato negli scorsi anni le più fiere battaglie con gli Usa e i suoi alleati e le tensioni degli stessi con la Germania (terminale e quindi principale beneficiario della infrastruttura).
Il gasodotto fornisce energia direttamente dalla Russia alla Germania senza passare per la delicata regione bielorussa o ucraina. E ha la potenzialità di fornire 1/3 del fabbisogno europeo, risolvendo d’un sol colpo qualsiasi problema di forniture e, quindi, riportando i prezzi del gas (e quindi dell’energia elettrica) sotto controllo. Ciò mentre arriva l’inverno.
Facile, no?
Non proprio, perché la Ue tiene ferma la cosa in quanto vuole imporre ai Russi “l’accesso non discriminatorio alla rete” per tutti i concorrenti. Ovvero imporre che il proprietario dell’infrastruttura non possa praticare prezzi diversi ai diversi clienti, inibirne l’accesso, (il gas si può comprare, ad esempio, da un operatore o distributore italiano, anche alla fonte e far passare sui tubi pagando il servizio, se viene consentito). Ma la Russia vuole gestire il gasodotto come un proprio monopolio, avendolo costruito. La Bundesnetzagentur all’inizio del mese ha quindi minacciato multe.
La battaglia vede quindi, semplificando, la Russia che tiene sulla corda l’Europa con le forniture di gas per ottenere una piena capacità di vendita discrezionale sulla infrastruttura del North Stream. La Ue, probabilmente d’accordo con il Dipartimento di Stato, che vuole imporre allo Stato estero il rispetto della normativa europea sulla concorrenza, e quindi disattivare il potenziale geopolitico della fornitura.
Noi che, per ora, siamo in mezzo paghiamo i rincari del 40% delle
bollette.
In ogni piccola cosa non si capisce niente del mondo se non si considera quanto è interdipendente, e quanto sono grandi i conflitti per diminuire la dipendenza (ed imporla agli altri).

Concorrenza globale: la supremazia americana con un altro nome, di Alastair Crooke

Casa

11 dicembre 2021 // Le crisi

Concorrenza globale: la supremazia americana con un altro nome

L’equilibrio globale è cambiato qualitativamente, e non solo quantitativamente, scrive Alastair Crooke

Fonte: Strategic Culture Foundation, Alastair Crooke
Tradotto dai lettori del sito Les-Crises

© Foto: REUTERS / Kevin Lamarque

Parlando all’Aspen Security Forum due settimane fa, il generale Milley ha ammesso che il secolo americano è finito, una consapevolezza che avrebbe dovuto essere presa molto tempo fa, si potrebbe dire. Eppure, che sia tardi o meno, questa dichiarazione sembra segnalare un importante cambiamento strategico: “Stiamo entrando in un mondo tripolare, con Stati Uniti, Russia e Cina come grandi potenze. [e] Solo mettendo tre su due aumenta la complessità “, ha detto Milley.

Più recentemente, in un’intervista alla CNN, Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza di Biden, ha affermato che è stato un errore cercare di cambiare la Cina: “L’America non sta cercando di contenere la Cina: non è una nuova guerra fredda. Le osservazioni di Sullivan arrivano una settimana dopo che il presidente Biden ha affermato che gli Stati Uniti non stavano cercando un “conflitto fisico” con la Cina, nonostante le crescenti tensioni. “Questa è una competizione”, ha detto Biden.

Questo in effetti sembrava segnalare qualcosa di importante. Ma è davvero così? L’uso della parola “competizione” è una terminologia un po’ strana e richiede un po’ di decrittazione.

L’intervistatore della CNN Fareed Zakaria ha chiesto a Sullivan: cosa è stato ottenuto dalla Cina dopo tutto il tuo duro discorso, cosa è stato negoziato? Si potrebbe immaginare una risposta che descriva come Biden pensa di gestire al meglio questi interessi in competizione in un complesso mondo tripolare. Beh, quella non era la linea di Sullivan. “Brutta domanda”, ha detto senza mezzi termini: non chiedere informazioni sugli accordi bilaterali, chiedi cos’altro abbiamo.

Il modo corretto di guardare a questo, ha detto Sullivan, è: “Abbiamo stabilito i termini per una concorrenza effettiva in cui gli Stati Uniti siano in grado di difendere i propri valori e promuovere i propri interessi, non solo nella regione indo-pacifica, ma anche Intorno al mondo. Quando si tratta dei nostri alleati in tutto il mondo, gli Stati Uniti e l’Europa sono allineati su questioni commerciali e tecnologiche per garantire che la Cina non possa “abusare dei nostri mercati”; e poi sul fronte indo-pacifico, siamo andati avanti in modo da poter ritenere la Cina responsabile delle sue azioni. “

“Vogliamo creare la situazione in cui due grandi potenze opereranno all’interno di un sistema internazionale per il prossimo futuro – e vogliamo che i termini di quel sistema siano favorevoli agli interessi e ai valori americani: è più di una disposizione favorevole in cui il Gli Stati Uniti e i suoi alleati possono modellare le regole di condotta internazionali sui tipi di questioni che saranno fondamentalmente importanti per il popolo del nostro paese [America] e per i popoli del mondo “, ha affermato. -aggiunge.

L’obiettivo dell’amministrazione Biden non era cercare una trasformazione politica in Cina, ha detto Sullivan, ma modellare l’ordine internazionale in un modo che servisse i suoi interessi e quelli di altre democrazie che la pensano allo stesso modo: “Vogliamo le condizioni per questa coesistenza in il sistema internazionale favorevole agli interessi e ai valori americani. Vogliamo che le regole del gioco riflettano una regione indo-pacifica aperta, equa e libera, un sistema economico internazionale aperto e il rispetto dei valori e degli standard fondamentali sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani nelle istituzioni internazionali, ha dichiarato. . Sarà una competizione mentre andiamo avanti. “

Sullivan propone molto chiaramente un ordine mondiale basato su “regole di condotta internazionali” che si svilupperebbe attorno ad un interesse strategico centrale (quello dell’America), senza preoccuparsi delle conseguenze che potrebbero derivarne per gli altri. Questo “sistema internazionale aperto, equo e libero” è solo uno strumento per la globalizzazione del sistema neoliberista occidentale finanziarizzato. Josh Rogin ha scritto questa settimana: “L’internazionalismo a guida americana, nonostante i suoi difetti e i suoi passi falsi, rimane l’ultima, la migliore speranza per l’umanità. “

E per intenderci, quando sentiamo parlare di un sistema economico aperto e libero favorevole agli interessi americani, non sono gli “interessi del 99%” a essere sanciti nel sistema, ma quelli della classe finanziaria dell’1%. , che pretendono il diritto di spostare denaro e beni ovunque, in qualsiasi momento, senza restrizioni.

Il riferimento di Sullivan ai diritti umani riflette lo “spirito” dell’UE, dove la dottrina dello stato di diritto europeo è servita come dispositivo pratico per estendere l’autorità centrale dell’Unione senza riscrivere i trattati. O, in questo caso simile, che gli Stati Uniti espandano la propria autorità e procedano senza dover concludere accordi bilaterali con la Cina (o la Russia) o chiunque altro. Sullivan è stato molto chiaro su questo punto: gli accordi negoziati con la Cina non erano il “parametro di riferimento” giusto per giudicare il successo della politica statunitense.

Inizialmente, nessuno in Europa si è preoccupato molto quando la Corte europea ha “scoperto” che nei trattati dell’UE era nascosta una supremazia generale dei valori e del diritto dell’UE (sebbene a prima vista non fosse così evidente). Questa tranquilla reazione, tuttavia, è in gran parte dovuta al fatto che la competenza dell’UE era ancora piuttosto limitata all’epoca.

Successivamente, il trasferimento graduale della sovranità nazionale a un interesse strategico centralizzato (Bruxelles) divenne il principale motore di quella che è stata definita “integrazione attraverso il diritto”. Nel tempo, una lettura approfondita dei trattati (per i trattati europei, leggi la “consacrazione” di Sullivan della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo) ha offerto nuove ragioni per sottoporre le politiche nazionali democratiche a una lettura sovranazionale. “

Allo stesso modo, la Dichiarazione universale dei diritti umani offrirà probabilmente a Sullivan nuove ragioni e possibilità per armare il testo e piegare alleati e “avversari” alla disciplina di interesse strategico centrale (altrimenti nota come Washington).

Quindi, quello che sembrava segnalare un cambiamento significativo nel pensiero americano, dopo un po’ di decrittazione, si è rivelato nulla del genere. La competizione tra le grandi potenze non è altro che l’ordine globale globalista, incentrato sugli Stati Uniti e basato su regole. Gli Stati Uniti si astengono dal “trasformare” (cioè fomentare una rivoluzione colorata) il Partito Comunista Cinese, perché non possono; questo strumento si applica ancora ai piccoli pesci (es. Nicaragua).

Da un lato, abbiamo visto le conseguenze di questo approccio centralizzato alle “regole” – praticato a Bruxelles oa Washington: ne deriva una sorta di torpore soporifero. Tutte le energie sono dedicate a mantenere a galla il fragile sistema (che si tratti delle regole del gioco dell’UE o degli Stati Uniti), piuttosto che trovare soluzioni reali. Si aprono divisioni che politicamente è impossibile contenere; il risentimento aumenta; le crisi sono gestite e non risolte; giochiamo con il tempo; le riforme sono graduali e poi improvvisamente unilaterali; e, alla fine, regna l’immobilità. In Europa si chiama Merkelismo (dal nome del Cancelliere tedesco).

Dopo il tranquillo vertice del G20 a Roma e la COP26 a Glasgow, sembra che stiamo iniziando a vedere la Merkelizzazione del mondo. La sensazione che rimane è quella di un meccanismo (due in realtà se includiamo l’UE), che produce suoni convincenti di macchine ruggenti e che fa sperare in qualche risultato, ma che non porta alla fine a poco o nulla – ad eccezione di un crescente deficit democratico, con il trasferimento a una tecnocrazia sovranazionale di decisioni che prima erano di competenza dei parlamenti.

D’altra parte, per quanto grave sia (date le crisi economiche che affrontiamo), il suo più grande ” peccato ” (come ha detto Sullivan) è la sua richiesta di ” regole ” globali, il cui fondamento è semplicemente “Gli interessi e i valori degli Stati Uniti e dei suoi alleati e partner”. Sullivan sostiene che gli Stati Uniti non cercano più di trasformare il sistema cinese (il che è positivo), ma insiste sul fatto che la Cina operi all’interno di un “ordine” costruito attorno agli interessi e ai valori degli Stati Uniti – in breve[in francese nel testo, ndr]. E come ha sottolineato Sullivan, lo sforzo diplomatico americano deve mirare a costringere la Cina a conformarsi a questo sistema. Da nessuna parte si parla dei costi per gli alleati, che dovrebbero rinunciare ai rapporti con la Cina o la Russia, per compiacere Biden.

Il peccato più grande , molto semplicemente, è che il tempo di queste ambizioni arroganti sia passato. L’equilibrio globale è cambiato qualitativamente, e non solo quantitativamente. Cina e Russia – le altre due componenti del mondo tripartito del generale Milley – lo hanno detto abbastanza chiaramente: rifiutano le lezioni dell’Occidente.

Fonte: Strategic Culture Foundation, Alastair Crooke, 15-11-2021

DEL DISCORSO LUNGO E DI QUELLO CORTO, di Pierluigi Fagan

DEL DISCORSO LUNGO E DI QUELLO CORTO. Ho finito ieri di leggere “Il capitalismo della sorveglianza” di S. Zuboff, eletto fondamento della tradizione critica degli ultimi decenni assieme a Primavera silenziosa, No Logo, Impero, Il Capitale del XXI secolo etc (questo ultima lista la riferisco come di altri, non è mia). La tesi del libro è condensata -in parte- nel titolo e declinata secondo quanto riportato dalle principali recensioni che troverete facilmente sui motori di ricerca.
Ma del libro mi interessa rilevare un altro aspetto. Il libro sviluppa 539 pagine nette, al netto cioè delle note. Non è né noioso, né difficile da seguire, anzi, merito dell’autrice è quello di dipanare la matassa con accorta lentezza ritornando più volte sui punti precedenti di modo da costruire nel tempo, la struttura di ciò che intendeva comunicare. Sono quindi 539 pagine “necessarie”. Necessarie all’autrice per dirci ciò che aveva da dirci, necessarie al lettore per assorbire informazioni, tesi, concetti e struttura del discorso. Discorso riferito a fatti, molti fatti, interpretati e giudicati con parziale giustificazione del sistema mentale dell’autrice quanto ad interpretazione e giudizio. L’autrice è docente di psicologia sociale ad Harvard, ma si è immersa a fondo nell’argomento riportandoci non solo analisi ma fatti con analisi. La parte della sua immagine di mondo dedicata a questo lavoro di analisi, dichiara esplicitamente il debito di conoscenza con Marx, Durkheim, Weber, Arendt, Polanyi forse più di ogni altro.
Il punto è che, in auto-analisi, debbo rilevare una differenza di conoscenza tra quello che sapevo prima di leggerlo e dopo. La tesi mi era nota, mi era nota a grandi linee la tesi specifica della Zuboff ma mi era nota la faccenda più in generale avendone letto in più di una dozzina di testi oltre la marea di articoli che turbinano nell’argomento, già da parecchio tempo. Tuttavia, solo la lettura delle 539 pagine mi ha dato tutti i livelli del discorso fatto dalla Zuboff. È un po’ come coi concetti.
Se provenite da una vasta e profonda conoscenza di un argomento, il concetto vi permette di zippare tutta la conoscenza che risiede nella vostra mente, in un sintetico. Quel sintetico agile e limitato, lo potrete usare con altri sintetici per costruire nuovi pensieri. Nella vostra mente ci sarà l’argomento vasto ed approfondito da una parte e per certi usi, la sua condensazione nel concetto che userete per costruire altri argomenti dall’altra. Tutto ciò ha base però nella conoscenza del discorso lungo.
Dopodiché potrete scrivere una recensione per chi non ha letto il libro o addirittura citarne il concetto dentro altri discorsi. L’informazione di massa, nei media moderni o in quello ultra-moderno di Internet (social, blog etc.), veicola solo i concetti. Spesso neanche quelli, si va direttamente al giudizio. Ma cosa capisce la gente dei concetti se non è stata esposta al processo di condensazione del discorso lungo in quello breve che è appunto il concetto? O peggio cosa capisce di un giudizio se non ha neanche il concetto per non dire del discorso lungo che questo vorrebbe zippare?
Prendiamo l’ultimo Rapporto Censis. Viaggiano articoli di commento e tabelline postate sui social con commenti vari. Chi usa il testo per sostenere A, chi per sostenere B, chi per invalidare quello che sostiene B e viceversa, chi per invalidare alla radice la credibilità del Censis e dei suoi dati statistici sintetici. Stamane sono andato su loro sito ed ho letto una sintesi meno sintetica di una tabellina sul tema dell’irrazionalità, che allego. Be’ la sintesi che pure è sintetica rispetto al testo del Rapporto è molto diversa nel senso e significato rispetto ai commenti che girano nell’informazione e nella suburra social.
Di nuovo, il discorso lungo io non l’ho neanche letto visto che non ho letto il Rapporto (per anni, quando lavoravo, andavo a comprare e poi leggere il Rapporto Censis perché era la fonte principale di una vasta analisi sociale, un tipo di analisi che cinquanta anni fa facevano in molti ed in molti modi ed era parte della cultura medio-alta diffusa con fonti plurali. Negli ultimi decenni s’è fatta sempre meno, comunicata ancora meno e da ultimo, per niente, senza che nessuno se ne lamentasse). Potrei dire di conoscere abbastanza l’argomento per varie ragioni di studio e di interesse, ma ciò che mi sembrava emergere esponendomi al flusso delle informazioni, non corrisponde neanche un po’ alla pur limitata sintesi dell’articolo pubblicato dallo stesso Censis che ho letto stamane. Di nuovo, quali sono i rapporti tra i nostri discorsi brevi e quelli lunghi nel dibattito pubblico?
Oggi abbiamo folle che credono alla scienza ed altri che non ci credono a priori. Cinquanta anni fa era consenso diffuso almeno nelle vaste platee critiche (che erano più vaste delle attuali) il concetto di “non neutralità della scienza e degli scienziati”. Il che però non significava pensare a priori che qualsiasi informazione scientifica fosse una bufala ideologica. Di nuovo, il discorso lungo predispone ad assorbire informazioni, schemi interpretativi, riferimenti su cui applicare la lente critica per filtrare il tutto e discernere il grano dal loglio, facendosi una opinione. Il discorso breve invece dà l’illusione di avere un concetto, quindi una conoscenza, ma in realtà dà solo un geroglifico il cui senso e significato non si ha. Tale geroglifico inserito nel giudizio dato dalla fonte a cui prestiamo credibilità a priori, determina la nostra illusione di conoscenza.
Farò un altro esempio. Tempo fa mi sono concesso qui nel mattatoio dell’intelligenza che è facebook, un cinque minuti di polemica con una signora che sosteneva l’evidenza della bufala del problematico problema climatico, rilanciando il concetto che la CO2 era la “molecola della vita”. Come poteva la molecola della vita insidiare la vita? La signora non sapeva che non è la qualità intrinseca della CO2 ma la sua quantità il problema. La signora spedita sulla superfice di Venere dove l’eccesso di CO2 crea un effetto serra tale che al suolo ci sono 400°, si sarebbe letteralmente squagliata in pochi secondi anche se prima, per sua fortuna, sarebbe morta di collasso per colpa della sua “molecola della vita”.
Quello climatico è un discorso lungo, come quello economico, ambientale, geopolitico, politico e sociale, tecno-scientifico, filosofico o qualsivoglia altro. Questi discorsi lunghi richiedono tempo, tempo per conoscere, digerire, elaborare, sintetizzare, costruire sintesi di sintesi, dibattere con altre menti. Tempo che mediamente nessuno ha poiché nel nostro ordinamento il tempo è denaro ed il denaro è la fiche del gioco, gioco sociale che non possiamo non giocare sebbene il casinò non l’abbiamo scelto noi, ci siamo stati “gettati”.
Noi viviamo in una società che si dice dell’informazione, ma il sottostante è una società dell’ignoranza. La società dell’informazione è una società dei discorsi brevi, dei concetti (se ti va bene, più spesso delle sole “asserzioni”), dell’illusione di sapere ciò su cui esprimiamo giudizi. Questa grande illusione della società dell’informazione, che scambia la conoscenza con l’informazione, il discorso lungo con quello breve, copre una società profondamente ignorante, siamo nella palese diseguaglianza della conoscenza da cui ogni altra sopravviene.
La società è profondamente ignorante per il semplice fatto che i discorsi lunghi presuppongono il tempo ed il tempo è una risorsa scarsa passibile di usi alternativi, ma non scelti in libertà perché il contratto sociale (oggi derogato sistematicamente da élite strette tra ignoranza ed irrisolvibile conflitto di interessi) impone che più della metà del tempo di veglia sia dedicato a procurarsi le fiche del gioco, che poi è la nostra stessa esistenza; quindi, un gioco “che non si può non giocare”.
Il rischio adattivo che corriamo perché siamo capitati in un mondo sempre più complesso ovvero fatto di questioni molteplici la cui conoscenza presupporrebbe molto tempo, è che questo mondo va da una parte e dall’altra va la nostra illusione di partecipare al discorso pubblico, alimentata da asserzioni senza concetto o concetti senza conoscenza nel turbinio informativo a cui ci dedichiamo quando non abbiamo altro da fare, oltretutto convincendoci che l’informazione del discorso breve possa surrogare la conoscenza del discorso lungo.
Il che ci porterebbe ad una istanza politica prioritaria: rivendicare il tempo. Le teorie politiche critiche, ma direi “alternative allo stato di cose” perché sono svariati decenni che avremmo dovuto capire che la critica è un passivo mentre il mondo è un attivo e l’attivo non viene all’essere dal passivo (dal non essere), dovrebbero avere in cima al proprio elaborato il punto: senza il tempo non c’è conoscenza, senza conoscenza non c’è democrazia, senza democrazia falliremo l’adattamento e ne patiremo lungamente e dolorosamente le conseguenze.
Con una società dell’ignoranza dentro un’era in cui aumenta vistosamente la complessità, la predizione è facile, ma non confortante. Scusate la lunghezza.
[A chi mai interessasse, il paper del Censis: https://www.censis.it/rapport…/la-societ%C3%A0-irrazionale. Una breve aggiunta sul tema del giorno: l’irrazionale. Il concetto è ingannevole, il ragionamento irrazionale non rinuncia affatto alla razionalità, solo, la applica ad una insufficiente conoscenza. Non c’è una epidemia di illogica, c’è una epidemia di ignoranza. ]

Che succede tra la Francia e l’Egitto?, di giuseppe_gagliano/

Qui sotto un interessante articolo di Giuseppe Gagliano, tratto dalla rivista https://www.startmag.it/ riguardante un episodio di informazione pilotata in grado di condizionare ed alterare gli indirizzi di politica estera francese in tutta l’area mediorientale e mediterranea. La lettura spinge ad alcune considerazioni a più livelli di astrazione. Ci suggerisce che limitare l’analisi geopolitica al mero rapporto può essere riduttivo e fuorviante. Chi agisce non è lo Stato in quanto tale, ma sono i soggetti, siano essi individui o soprattutto gruppi, in conflitto e cooperazione tra di essi, dotati di poteri decisionali e di condizionamento, in grado di rappresentarlo, di detenere le leve operative e di influenzarle. La titolarità dell’autorità è un fattore importante di agibilità se ad essa corrisponde una coerenza ed un controllo effettivi e sostanziali degli apparati. L’impegno ufficiale e formale va di pari passo con le azioni sotto traccia, rivelatrici dei legami trasversali che attraversano la dinamica di questi centri. Nella fattispecie l’articolo rivela le dinamiche di confronto e cooperazione tra alcuni centri decisionali francesi e turchi nel plasmare i rapporti con l’Egitto e i paesi del Golfo, anch’essi attraversati da spinte e controspinte. Il tutto in logiche ancora più estese che fanno riferimento alle fazioni statunitensi, una, quella obamiana, sostenitrice delle primavere arabe, l’altra ad esse ostile. Definire per altro in questo contesto Jamal Khashoggi giornalista, non rende bene la natura di questo scontro e di quell’assassinio. Rivela altresì la permeabilità e la fragilità di quelle formazioni socio-politiche che hanno aperto indistintamente, in nome di una “società aperta” apparentemente priva di identità, i propri spazi a vere e proprie comunità chiuse in grado di condizionare pesantemente e destabilizzare all’interno l’azione politica. Ad un livello ancora inferiore di riflessione deve portare a considerare la portata del Trattato del Quirinale tra l’Italia e la Francia nelle sue implicazioni nell’area mediterranea, in particolare la Libia e l’Egitto. Il trattato in qualche maniera vorrebbe mettere molto parzialmente al riparo l’Italia dalle mire turche nel vicinato prossimo della Libia e dei Balcani, in particolare l’Albania e la Bosnia. La postura, però, è talmente subordinata da farle perdere quasi ogni capacità di mediazione, sostenendo le poche figure, tra queste il figlio di Gheddafi in grado di ricomporre il mosaico libico; l’ultima possibilità di ricostruire in tal modo una nuova capacità di influenza diretta in quell’area. Lo stesso dicasi dei rapporti con l’Egitto di Al Sisi dove l’Italia, grazie all’affare Regeni, è ridotta più o meno consapevolmente a strumento di trame altrui. La liberazione di Zaki sarà probabilmente il contentino per far cadere in ombra l’omicidio Regeni; il prezzo della gestione “dell’affaire” è stato comunque già molto pesante anche per oche giulive artefici di tal fatta di questa tragicommedia. La posta in palio più significativa riguarda la Turchia di Erdogan ed il tentativo di trasformare il suo rapporto di collaborazione conflittuale con la Russia in ostilità dichiarata; di ridurre quindi i suoi margini di iniziativa autonoma e ricondurli nell’alveo del confronto strategico con la Cina e la Russia. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Ecco perché il fondatore e direttore del Centro di ricerca sull’intelligence francese (CF2R) non condivide quanto riferito dal sito di giornalismo investigativo Disclose. L’articolo di Giuseppe Gagliano

 

Secondo quanto sostenuto da Eric Denécé, fondatore e direttore del Centro di ricerca sull’intelligence francese (CF2R), quanto riferito dal sito di giornalismo investigativo francese Disclose sarebbe viziato da numerose deficienze informative oltre che da un’impostazione palesemente unilaterale e faziosa.

In primo luogo l’autore osserva – non senza amarezza – come i documenti che sono stati forniti al sito francese provengano dal ministero delle Forze armate e, in particolare, dalla Direzione dell’intelligenza militare e dal ministero degli Affari esteri. Insomma, una vera e propria fuga di notizie fatta probabilmente da analisti che non condividono le scelte poste in essere dall’attuale amministrazione francese in relazione alla vendita di armi e al sostegno al regime egiziano di Al-Sisi.

Data la gravità della condotta posta in essere da questi informatori verrà avviata un’indagine da parte del controspionaggio soprattutto perché chi ha dato questi documenti al sito investigativo francese lo ha fatto con premeditazione cioè con la volontà di danneggiare esplicitamente le relazioni bilaterali tra Francia ed Egitto. Che lo si voglia o no queste informazioni avvantaggeranno i concorrenti della Francia.

In secondo luogo, l’autore sottolinea come il sito dei giornalisti investigativi non sia certo neutrale ma sia relativamente noto in Francia per le sue posizioni antimilitariste e soprattutto per aver sostenuto le rivoluzioni arabe in particolare quelle egiziane.

Un altro aspetto sottolineato dall’autore è il fatto che secondo il sito non vi sia alcun legame tra contrabbando e terrorismo al confine occidentale con l’Egitto. I trafficanti, invece, trasportano come e quando vogliono armi, droga, migranti e vari prodotti di contrabbando come il riso per rifornire il mercato nero.

Il quarto aspetto sottolineato dall’autore è di natura squisitamente geopolitica: egli infatti afferma che l’Egitto stia vivendo in questo momento una grave minaccia terroristica determinata anche dai numerosi traffici di armi sui confini che alimentano diversi gruppi di jihadisti.

Per tutte queste ragioni – che lo si voglia o meno – non si può escludere che questa indagine sia un vera e propria opera di destabilizzazione di natura informativa. Bisogna infatti interrogarsi sullo scopo di questa indagine.

Citiamo le parole dell’autore: “Oltre allo scooping e all’attivismo politico, Disclose mira a interrompere la vendita di armi all’Egitto… a vantaggio conscio o inconscio dei nostri concorrenti. Si tratta innegabilmente anche di un attacco diretto al regime egiziano di Al-Sisi che ha posto fine alla nefasta parentesi dei Fratelli Musulmani e che ha saputo ricostruire stretti rapporti con la Francia. Non ho alcun ricordo di Disclose e dei suoi giornalisti che difendevano i copti egiziani vittime di attacchi terroristici e persecuzioni da parte dei Fratelli musulmani o che hanno riferito come Morsi stava consegnando segreti di Stato egiziani ai suoi padrini turchi e qatarioti che lo hanno sostenuto per destabilizzare il paese, ecc. La loro indignazione è quindi molto selettiva”.

Perché in definitiva le osservazioni di Denécé sono di estremo interesse?

In primo luogo perché i lettori comuni non hanno gli strumenti né per poter verificare quanto sostenuto dal sito investigativo ma neppure per poterlo smentire. In secondo luogo è molto ingenuo pensare – come fanno molti lettori in assoluta buona fede – che da un lato ci sia la verità e che quindi le informazioni debbano essere lette come oro colato e dall’altra parte invece ci sia solo ed esclusivamente la ragion di Stato e le logiche perverse della politica internazionale.

In secondo luogo perché la vendita fatta recentemente dal presidente francese Emmanuel Macron di Rafale ha suscitato la durissima reazione del giornalisti investigativi del sito francese Disclose?

Il sito dei giornalisti investigativi francesi ricorda che dal 2015, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sono stati coinvolti nella guerra in Yemen, che ha causato quasi 400.000 vittime. Nonostante la gravità degli abusi commessi e le accuse di crimini di guerra, il tema non è stato all’ordine del giorno della visita di Macron nel Golfo venerdì 3 e sabato 4 dicembre.

Tuttavia, le armi vendute dalla Francia alle due monarchie del Golfo vengono utilizzate direttamente nel conflitto, come rivelano i documenti di “confidenzialità-difesa” ottenuti da Disclose. Queste note scritte dal Segretariato generale per la difesa e la sicurezza nazionale (SGDSN), organizzazione posta sotto l’autorità di Matignon, rivelano che lo Stato francese ha autorizzato, nel 2016, la consegna di quasi 150.000 proiettili all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti. Pur sapendo che queste munizioni sarebbero state utilizzate nella guerra in Yemen.

Il 12 maggio 2016 si è tenuta a Parigi una riunione della Commissione interministeriale top secret per lo studio delle esportazioni di materiale bellico (CIEEMG), alla presenza dei rappresentanti del ministero degli Affari esteri, della Difesa, dell’Economia e del palazzo dell’Eliseo, poi occupata da François Hollande.

Al centro dei dibattiti, la proposta di rafforzare i controlli sulle esportazioni di armi verso i Paesi coinvolti nella guerra in Yemen. Il ministero degli Esteri, allora guidato da Jean-Marc Ayrault, è favorevole. Si interroga, in particolare, sulle consegne in corso di armi Caesar all’Arabia Saudita.

“La Francia è oggetto di interrogatorio da parte del Parlamento europeo e delle Ong per presunte violazioni del Trattato sul commercio delle armi”, ha avvertito un diplomatico.

Qualunque sia l’avvertimento, il gabinetto di Jean-Yves Le Drian si oppone a ogni forma di restrizione: “Un blocco doganale di apparecchiature già oggetto di un contratto sarebbe difficile da giustificare all’Arabia. I diplomatici sono costretti a concordare con questa opinione. Le armi verranno consegnate”.

Nel dettaglio, si tratta di 41.500 proiettili della compagnia Junghas, sussidiaria di Thales, destinati alla guardia saudita; 3.000 proiettili anticarro, 10.000 proiettili fumogeni, 50.000 proiettili ad alto potenziale esplosivo e 50.000 razzi di artiglieria prodotti da Nexter all’esercito degli Emirati, nonché 346 missili anticarro dalla società MBDA all’esercito del Qatar. Importo totale dei contratti: 356,6 milioni di euro.

Non importa di quali crimini siano accusati i “partner” della Francia. Come l’assassinio dell’ottobre 2018 del giornalista saudita Jamal Khashoggi. Sabato 4 dicembre, Macron sarà il primo leader occidentale a rimettere in sella il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman, sospettato dalla comunità internazionale di aver ordinato l’omicidio.

https://www.startmag.it/mondo/che-succede-tra-la-francia-e-legitto/?fbclid=IwAR3RSddir9W7FO8m42LHWF4En0qe0RfyoDzLgOuooPaNOs9cQyC-kev7KpI

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