L’Unione europea tra propositi di coesione e dinamiche di polarizzazione_di Giuseppe Germinario con la collaborazione, in appendice, di Cesare Semovigo
I due testi in calce costituiscono la bozza, grezza, ma leggibile, di una relazione tenuta ad Accadìa nel corso della “SUMMER SCHOOL NAZIONALE SULL’AREA INTERNA DEI MONTI DAUNI”, promossa dall’associazione “La torre dell’orologio” con il patrocinio delle università di Foggia, di Venezia, della Calabria e del Politecnico di Bari_Giuseppe Germinario
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NAZIONALE SU
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L’Unione europea tra propositi di coesione e dinamiche di polarizzazione
L’Unione Europea (1993), erede della CECA (1951) e della CEE (1957), nel titolo XVIII-artt 174-178, tratta della “COESIONE ECONOMICA, SOCIALE E TERRITORIALE” come una (“anche”) delle missioni socioeconomiche istitutive della Unione.
In particolare l’art. 174 recita: “Per promuovere uno sviluppo armonioso dell’insieme dell’Unione, questa sviluppa e prosegue la propria azione intesa a realizzare il rafforzamento della sua coesione economica, sociale e territoriale. In particolare l’Unione mira a ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni ed il ritardo delle regioni meno favorite. Tra le regioni interessate, un’attenzione particolare è rivolta alle zone rurali, alle zone interessate da transizione industriale e alle regioni che presentano gravi e permanenti svantaggi naturali o demo grafici, quali le regioni più settentrionali con bassissima densità demografica e le regioni insulari, transfrontaliere e di montagna”.
Per realizzare questa finalità l’UE si è dotata di una specifica strumentazione finanziaria inglobata nella categoria dei cosiddetti fondi strutturali. In particolare:
I fondi principali, definiti nell’Accordo di Partenariato tra l’Italia e la Commissione europea, sono:
- Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR): Investe in progetti di sviluppo regionale, infrastrutture e innovazione.
- Fondo sociale europeo (FSE): Supporta progetti di occupazione, istruzione, formazione e inclusione sociale.
- Fondo di coesione (FC): Finanzia progetti in Stati membri con un PIL pro capite inferiore alla media dell’UE, focalizzandosi su trasporti e infrastrutture ambientali.
- Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (FEAMP): Supporta la pesca sostenibile e lo sviluppo delle zone costiere.
- Fondo per una transizione giusta (JTF): Aiuta le regioni a fronteggiare gli impatti sociali ed economici della transizione verso un’economia a impatto climatico zero.
La gestione viene affidata in linea di principio e in un rapporto di condivisione dalle:
- Agenzie per la coesione territoriale. In Italia tale struttura coordina le politiche di coesione e l’Accordo di Partenariato
- Amministrazioni centrali e regionali, secondo le priorità definite
I riferimenti principali dai quali attingere le informazioni sono il sito web della Agenzia per la coesione territoriale e il portale OpenCoesione.
Quel “anche”, però, vorrebbe essere una congiunzione dall’intento paritario. La realtà, purtroppo, indica altro e soprattutto una tendenza, definibile ormai storicamente, alla polarizzazione geografica, economica e sociale sempre più marcata, pur in un quadro, almeno sino a pochi anni fa, di sviluppo pressoché generale.
Per inquadrare, dal mio punto di vista, correttamente il problema della polarizzazione e, nella fattispecie, del “recupero delle aree interne, oggetto di questa iniziativa, occorre definire due assunti fondanti la successiva narrazione.
- Le iniziative politiche, tra le quali la costruzione nelle sue varie fasi dell’Unione Europea, susseguitesi dal secondo dopoguerra ad oggi, ormai da ottanta anni, e riguardanti l’Europa Occidentale prima e l’Europa tutta, compresa la parziale eccezione della Russia, seguono a una condizione di occupazione militare statunitense, appena mitigata nel suo peso da episodi significativi di resistenza al regime nazista in alcuni paesi, frutto di una sconfitta disastrosa delle potenze dell’Asse, in particolare di Italia e Germania, e della progressiva subordinazione agli Stati Uniti o scarsa significanza delle due nazioni europee apparentemente vincitrici, la Francia e il Regno Unito. Da sottolineare che il regime di occupazione formale terminò in Italia nel 1947, in Germania solo nel 1990 pur, questione sostanziale, con il mantenimento di un nutrito numero di basi e truppe, ma non solo queste, sul terreno.
- Il progressivo e rapido scivolamento in una riduzione meramente economicista, diretta conseguenza del punto precedente, della conduzione politica della Unione fondata sul dogma del cosiddetto libero mercato, sulla garanzia salvifica della tutela della domanda dei consumatori rispetto all’offerta
IL RUOLO DEGLI STATI UNITI NELLA COSTRUZIONE EUROPEA
L’apertura, circa quaranta anni fa, degli archivi secretati statunitensi risalenti agli anni ‘30 ha permesso di studiare e documentare il grande interesse e la volontà di quella leadership, che aveva evidentemente già presagito lo scoppio e l’epilogo del secondo conflitto mondiale, di sondare il terreno ed intervenire attivamente nella costruzione di una qualche forma di costruzione unitaria europea. I frequenti viaggi negli Stati Uniti di Jean Monnet, il padre del metodo funzionalista di costruzione europea, iniziati negli anni ’40 sono una delle tante testimonianze di questo interesse e della sempre più fitta tessitura di legami tra le due sponde dell’Atlantico.
Una volta risolto il dilemma del destino della Germania sconfitta, in particolare se garantirle l’unità politica con una postura neutrale, secondo le indicazioni di Stalin o tenerla sotto regime di occupazione e separarla, come in realtà avvenne, si pose un’altra opzione: ridurre la Germania ad una condizione economica agropastorale, il cosiddetto piano Morgenthau, sulla falsariga di quanto successo nel primo dopoguerra, oppure valorizzarne le indubbie capacità organizzative ed industriali, adottando una struttura federale simile a quella statunitense. Con grande lungimiranza, rara di esempi nella storia, la leadership statunitense scelse questa ultima opzione, gravida di conseguenze positive per lo sviluppo dell’intera Europa nei decenni successivi, ma con dei paletti ben impiantati a delimitare i limiti di quello sviluppo e la delimitazione dello spazio di azione geopolitico, il cui permanere nel mutato contesto geopolitico stanno riducendo la attuale postura europea ad una condizione farsesca e potenzialmente e progressivamente tragica.
La Repubblica Federale Tedesca, la nazione, quindi, politicamente più debole del quadrante europeo, era destinata a diventare il perno ed il motore locale aggregativo di quella parte di Europa “costretta” in una alleanza politico-militare, la NATO (1949, cinque anni prima, quindi, del Patto di Varsavia) e comprimaria nella costruzione di una Unione, possibilmente di tipo federale, in realtà tutta incentrata sulla costruzione economica circoscritta dalla condizione politica e dagli imperativi geopolitici di tipo bipolare già all’orizzonte. La iniezione di investimenti statunitensi di quel periodo, massiccia ma selettiva, attenta a non mettere a rischio la supremazia tecnologica ed industriale statunitense, non fece che corroborare quella scelta politica.
Ho parlato di lungimiranza, indubbia qualità soggettiva di quella leadership, sostenuta però da condizioni oggettive, legate alle salde radici socialdemocratiche/keynesiane in grado di condizionare le scelte liberali, alla presenza competitiva e ideologicamente pervasiva dell’incipiente blocco sovietico, alla endemica conflittualità politico/sociale presenze in quelle nazioni. Ho posto le virgolette al termine costrizione perché, in realtà, furono scelte basate su un largo consenso, fondato su un vero e proprio modello di vita e su di una aspirazione di unità, pace e fratellanza, memore delle tragedie recenti delle due guerre catastrofiche. Accanto ad una narrazione irenica della costruzione europea, nacquero anche importanti formazioni federaliste, per altro ampiamente foraggiate dagli Stati Uniti, propugnatrici di una costruzione federale europea politicamente autonoma, in realtà prone, in ultima istanza, al metodo funzionalista, così come scaturito nel loro ultimo congresso tenuto in quegli anni a l’Aja.
Quella lungimiranza e quel progetto egemonico ebbe come presupposto l’occupazione militare e iniziò intanto con la richiesta minimale sempre più pressante di un coordinamento europeo che consentisse una gestione ottimale del Piano Marshall. Proseguì con il tentativo pressante di costruzione integrata della CED (Comunità Europea di Difesa), fallito non appena Francia, nella vulgata gaullista, e più discretamente la Gran Bretagna si accorsero di non poter detenere le chiavi di quel sistema e di dover sacrificare comunque ad esso buona parte delle risorse riservate al mantenimento del proprio residuo sistema coloniale. Dal naufragio di quella illusione si affermò l’alleanza, inizialmente militare, della NATO e il varo della CECA, una comunità di sei paesi, Francia, BENELUX, Germania; un sorta di cartello incaricato di suddividere le quote di produzione di carbone ed acciaio necessarie a sostenere la ripresa industriale civile e del complesso militare senza alimentare attriti che avevano già generato conflitti distruttivi nel continente.
Occorre tener presente che la trasformazione del potere militare e politico in forza egemonica capace di trasformare la forza in potenza in grado di costruire e manipolare consenso necessita di tempo, capacità certosina ed ampi margini di azione. Una capacità di infiltrazione progressiva, a volte violenta, il più delle volte suadente, di istituzioni, apparati e gangli vitali delle società nel corso di decenni e al prezzo di pesanti conflitti interni alle stesse leadership dominanti.
Una azione che ha richiesto tributi di sangue. In Italia il sacrificio di Mattei, un uomo capace di affermare in condizioni date gli interessi nazionali giocando soprattutto con le contraddizioni tra le potenze coloniali decadenti e la potenza emergente e con quelle più subdole interne alla potenza dominante tra le forze più legate alle prime e quelle disposte a liquidarle e sottometterle definitivamente appoggiandosi anche ai movimenti anticoloniali, ma anche di Moro, Craxi e qualche altra figura meno popolare e presentabile.
Un processo che ha conseguito il suo pieno compimento vittorioso negli anni ’90, con l’implosione del blocco sovietico, l’allargamento su basi russofobe della NATO e la sua progressiva trasformazione da alleanza militare a blocco politico a tutto campo intenzionato, in parte in grado, di determinare le scelte politiche nel continente a tutto campo e soprattutto, di neutralizzare le spinte autonomi che periodicamente sorgono in Europa.
Un allargamento di competenze e di campo di azione che da una parte ha messo sempre più in evidenza lo stretto legame simbiotico di dipendenza tra NATO ed Unione Europea, sempre sancito in tutti i trattati, compreso quello di Lisbona, ma sino ad un paio di decenni fa nascosto dalla cortina fumogena della autonomia e neutralità delle scelte di indirizzo economico, in qualche modo garantita durante la fase bipolare, ma progressivamente dissoltasi per la sicumera di aver raggiunto una egemonia unipolare del mondo nelle due decadi dagli anni ’90 e la condizione di ostilità al sorgere e alla realizzazione di un mondo multipolare.
Sotto questo profilo, la coesione territoriale – tanto auspicata e sostenuta dalla politica comunitaria – è messa in crisi da meccanismi di allocazione di fondi e infrastrutture che privilegiano corridoi e nodi militari strategici, spesso localizzati in aree economicamente più sviluppate o geograficamente strategiche, mentre le aree interne e periferiche restano marginali.
A ciò si somma la crescente “militarizzazione” implicita degli investimenti dual-use, evidenziata anche da think tank come RAND e CSIS, che sottolineano come la sicurezza e la mobilità militare siano ormai criteri fondamentali per erogare fondi e pianificare investimenti europei, alimentando una polarizzazione tra Nord-Sud ed Est-Ovest, e allontanando la prospettiva di un sviluppo omogeneo e stabile
Tabella 1 – Fondi UE per coesione e sicurezza: distribuzione e implicazioni
| Fondo UE | Obiettivo principale | Allocazione (€ mld) | Impatto sulla coesione territoriale | Note principali |
| FESR (Fondo europeo sviluppo regionale) | Sviluppo infrastrutturale e innovazione regionale | ~190 | Favorisce investimenti in infrastrutture chiave ma limitati in aree marginali | |
| FSE+ (Fondo Sociale Europeo) | Occupazione, inclusione sociale e formazione | ~99 | Migliora capitale umano, ma allocato principalmente in aree densamente popolate | |
| Fondo di Coesione (FC) | Trasporti e ambiente in paesi con PIL inferiore | ~40 | Supporta Paesi meno sviluppati, ma con difficoltà amministrative | |
| JTF (Just Transition Fund) | Sostenere transizione climatica con impatti locali | ~17 | Aiuta aree colpite da cambiamenti economici ma limitato da criteri stringenti | |
| Fondi per la mobilità militare/Corridoi NATO (CEF, PESCO) | Rafforzare capacità dual-use per difesa e sicurezza | ~10–15 (stimati) | Concentrati su nodi strategici, rischiano di favorire polarizzazioni | Allocazioni “dual-use” rilevanti ma spesso non destinate a risolvere disparità sociali |
Tabella 2 – Indicatori di polarizzazione territoriale nell’UE (2023)
| Indicatore | Nord-Ovest UE | Sud Europa | Europa Orientale | Implicazioni principali |
| PIL pro capite rispetto media UE | +25% | -20% | -30% | Aree meridionali e orientali in svantaggio economico significativo |
| Tasso di disoccupazione giovanile | 8% | 25% | 18% | Elevate criticità nelle periferie meridionali ed esterne |
| Investimenti infrastrutturali (€ pc) | Alto | Medio | Basso | Variazioni significative legate a priorità militari e civili |
| Indice di rischio di esclusione sociale | Basso | Alto | Alto | Maggiori fragilità sociali in aree periferiche |
Un processo in due fasi talmente pervasivo da riuscire a costruire una classe dirigente ed una leadership politica, tra i paesi più importanti in Europa, specie in Italia e Germania, del tutto legata e partecipe dei circuiti e della rete di interessi ed attività che garantiscono il permanere e la sopravvivenza di queste strutture politico-economiche di potere e consenso.
Sottolineo ancora una volta la grande intelligenza, almeno iniziale, delle leadership egemoni statunitensi capaci di dosare attentamente la forza, ma soprattutto di individuare, vellicare, manipolare, indirizzare e formare quelle parti di classi dirigenti e di leadership, quindi anche di popolazione, capaci di integrarsi in un sistema in divenire.
Una abilità e pervasività conclusa con un successo, ma che sta portando però il continente verso la tragedia.
Lo testimonia l’origine e la formazione di quasi tutte le classi dirigenti europee e degli esponenti attualmente più in vista, non più cooptati, ma nati e pasciuti in questo brodo di coltura.
Già, perché, le nostre leadership europee da essere legate seguendo un modello di rapporti tra stato e stato, istituzioni ed istituzioni nel quale costruire i sodalizi personali si sono ridotte ad essere parte sempre più attiva e partecipe, espressione apparentemente protagonista nello scenario pubblico, nella realtà prosaica succube, spesso anche inconsapevolmente, di una fazione specifica protagonista nel sanguinoso conflitto politico in corso da oltre dieci anni negli Stati Uniti. Una fazione probabilmente ed auspicabilmente perdente, ma che comunque sarà in grado di trascinare nella propria rovina il seguito della corte, ammesso che non sia la parte vincente a martellarla ferocemente.
Il dibattito ed il processo di riarmo “europeo” è la cartina di tornasole di una dinamica molto più profonda che coinvolge anche il tema di fondo di questo seminario.
Un proposito astrattamente corretto, quello della difesa autonoma di un paese o di una alleanza continentale di paesi, che viene gestita da una istituzione priva di statualità, un vero e proprio ossimoro, e da stati incapaci di valutare ogni e l’insieme dei quadranti che avvolgono lo scacchiere continentale; una visione strabica, prevalente in alcuni paesi e nelle leadership di quasi tutti gli altri, fortunatamente nella crescente diffidenza, non si sa quanto durevole perché priva di reale alternativa, dell’opinione pubblica prevalente, alimentata da una fazione di oltre atlantico, tutta basata sull’invenzione di un nemico, la Russia, nemmeno più la dirigenza russa, sull’allarmismo infondato di un conflitto imminente teso soprattutto ad addomesticare i timori della propria popolazione e a giustificare le future vessazioni che dovrà propinare loro. Allarmismo ed urgenza che si risolverà nel ricorso prevalente al complesso militare statunitense per le proprie forniture, nella partecipazione soprattutto tedesca a questo sodalizio, nella sostituzione dell’attuale welfare con uno di tipo e di consistenza militare riservato ad una cerchia più ristretta di popolazione.
Non è stato un processo privo di alternative e telecomandato da dinamiche inesorabili. Negli anni 80/90 ha dovuto regolare diversi contrappesi anche nei paesi dell’Europa Orientale. In quell’area vi era una componente politica significativa che, pur attratta dalle sirene occidentali, riteneva di poter trasformare e salvaguardare il proprio patrimonio industriale e il sistema di sicurezza sociale attraverso una transizione graduale e controllata. Era riuscita persino ad ottenere il sostegno di una parte importante della intellighenzia tedesca, più legata alla ostpolitik e ai gruppi industriali-finanziari indipendenti, presenti nella Deutschbank, antecedente alla sua conversione in banca di investimento, e nella Treuhand. Con la liquidazione fisica di Herrhausen e Rohwedder e il ricambio repentino della leadership politica, grazie alla efficiente struttura verticale della gerarchia di potere, la Germania fu ricondotta diligentemente all’ordine e le dirigenze dell’Europa Orientale persero referenti e sponsor e con essi il controllo politico sul proprio paese, aprendo la strada ad un vero e proprio processo di colonizzazione, solo adesso, a trenta anni di distanza, rimesso parzialmente in discussione e solo in alcuni paesi.
Grazie alla struttura più disarticolata dello stato, in Italia il processo di normalizzazione degli anni ’90 fu più lungo e confuso, ma altrettanto efficace anche perché ha potuto agire su di una base alquanto logorata.
L’UNIONE EUROPEA E LA SUA MISSIONE POLITICA IN ECONOMIA
In questo quadro si riesce ad inserire più credibilmente il ruolo della Unione Europea, le sue finalità conclamate e quelle più prosaiche e ad approfondire da questo punto di vista il tema del recupero e valorizzazione delle aree interne.
Con l’istituzione della CEE, nel 1957, il campo di azione comunitario si allargò assorbendo in particolare le politiche agricole (PAC) mutuando, però, in un sistema di mercato libero, il criterio delle quote nazionali di produzione, ma con una peculiarità.
Il cosiddetto piano Mansholt divideva i territori agricoli in “polpa ed ossa”, le pianure nella prima categoria, le zone collinari e montane nella seconda. All’interno di questo primo discrimine se ne concepì un altro che prevedeva la riserva di gran parte degli incentivi a produzioni particolari, specie all’allevamento intensivo e ai prodotti di origine animale. Opzioni che favorirono di per sé gli insediamenti delle grandi pianure europee del Centro-Nord. Le proteste che provocarono portarono ad una prima correzione dei criteri, ma che si ridussero ad interventi assistenziali che alleviarono leggermente il malessere delle popolazioni rurali collinari; le educarono piuttosto alla ricerca di risorse assistenziali piuttosto che produttive delle proprie aziende. La pratica, ad esempio, di semina di cereali senza provvedere al raccolto in funzione della mera riscossione dei contributi europei divenne diffusa nelle zone collinari della Murgia barese e nella Sicilia, grazie anche alla predatoria catena di distribuzione commerciale nelle aree meno controllate dall’AIMA. Fu una delle molle che alimentò il primo esodo migratorio biblico verso le aree industriali del Nord Italia e, soprattutto, in Europa. A questo si aggiunse la politica degli accordi di scambi commerciali con paesi extraeuropei, in particolare e inizialmente africani e mediorientali la quale prevedeva l’importazione di prodotti agricoli di origine mediterranea, simili a quelli italiani, in cambio dell’esportazione di prodotti industriali prevalentemente tedeschi e francesi, con profitto di entrambi e con la finalità di puntellare l’influenza francese postcoloniale, in un contesto per altro di allargamento della Comunità a Spagna e Grecia, dalla merceologia agricola simile a quella dell’Italia Meridionale. Fu alimentato quindi un primo processo di polarizzazione di tendenza depressiva che portò in quelle aree più che ad una economia attiva ma subordinata e polarizzata rispetto alle aree centrali in pieno sviluppo, ad una realtà di degrado e di consumo mantenuta dalle rimesse dei migranti e dalle crescenti elargizioni assistenziali più o meno giustificate. Una sorte diversa riuscirono a conseguire alcune specifiche aree marittime, pianeggianti o ricche di materie di base, ad esempio l’acqua, grazie alla riconversione agricola e soprattutto alla creazione di poli industriali di prodotti di base pur in presenza di pesanti processi migratori. Nella fase iniziale e intermedia di costruzione della CEE l’Italia era il paese, se non unico, più importante, a presentare una economia e una società chiaramente dualistica con una metà del territorio quasi interamente depressa. Potè, quindi, fruire di gran parte dei fondi europei compensativi destinati ad alimentare con quote significative la creazione di indispensabili grandi agenzie tecnico-finanziarie in via di costituzione, ad esempio la Cassa per il Mezzogiorno, e i processi di costituzione di poli industriali sostenuti prevalentemente dalle Partecipazioni Statali, ma anche da alcuni gruppi privati come la FIAT. In realtà questi insediamenti trovarono in buona parte accoglienza in piccole aree industriali già presenti e dotate almeno in parte di infrastrutture minime; oltre agli effetti positivi innescarono importanti processi di riorganizzazione e ridimensionamento di settori artigianali, grazie anche all’abbandono indotto di queste attività. Solo in pochi casi e in maniera precaria riuscirono a creare un indotto autonomo ed indipendente dai poli centrali, non ostante la grande pressione politica e sindacale innescata dalla capacità attrattiva di grandi concentrazioni operaie politicamente attive.
Fu però una parentesi dinamica relativamente breve che conobbe, tra l’altro, i primi tentativi comunitari di regolazione monetaria e di coordinamento delle politiche fiscali nazionali sempre più dettate dalla compagine tedesca, man mano che la competizione politico-economica con la Francia volgeva a suo favore, sui criteri restrittivi e di equilibrio dei vari bilanci statali. C’è da aggiungere che le crisi esterne iniziate con lo shock petrolifero e la non convertibilità del dollaro resero ancora più instabile una integrazione in Italia resa problematica da una gestione discutibile e velleitaria, spesso assistenziale, delle politiche industriali delle PPSS, che trascinò in un progressivo degrado l’intero comparto, compresi i numerosi gioielli ancora restanti.
Parallelamente, sull’onda delle prime delocalizzazioni avviate in Veneto si svilupparono numerose attività imprenditoriali, poco più che artigianali, in gran parte semplice appendice delle case madri e particolarmente fragili, alimentate in buona parte da lavoro in nero. Un esempio importante è offerto dagli insediamenti cresciuti in Salento nel settore tessile e calzaturiero. Un primo esempio, quindi, di polarizzazione positiva rispetto alle tendenze depressive in aree vicine. Non mancò, per altro, qualche esempio di imprenditoria resiliente, dato importante, la Natuzzi nella Murgia e di aziende pilota nell’alta tecnologia, spesso ad uso militare o doppio uso, per lo più avviate in aree altamente attrezzate. Esempi, questa volta, di poli attrattivi trainanti. Qualcosa di analogo si manifestò, appena dopo, in agricoltura, specie nel settore vinicolo, con l’arrivo di grandi imprenditori.
Dalla metà degli anni ’70 iniziò comunque un radicale rivoluzionamento dei circuiti economico-finanziari fondato sul crescente predominio del dollaro, sul deficit commerciale statunitense, sulla crescente mobilità dei capitali e su una divisione del lavoro e delle catene produttive sempre meno fondata su base nazionale.
Un rivoluzionamento che coltivò l’illusione del predominio crescente di potenze industriali, come il Giappone, prive di potenza politica e di capacità di controllo delle leve finanziarie fondamentali e per questo facilmente assorbite e regolate dalla forza egemone; una svolta che raggiunse la piena maturazione negli anni ’90, preceduta dal provvidenziale crollo ed assorbimento del blocco sovietico nel circuito occidentale.
È il momento in cui i centri decisori statunitensi realizzano la convinzione, direi la presunzione, di poter assumere il controllo diretto ed indiretto, quantomeno la definizione degli indirizzi, dei circuiti globali con il semplice controllo delle leve finanziarie, degli sviluppi tecnologici e della ricerca scientifica, e delle partecipazioni azionarie e delle leve manageriali di primo livello.
Da qui l’affermazione delle teorie liberiste più radicali e in questo quadro l’inserimento progressivo e crescente in una condizione egemonica, ma non dominante, più che altro di pesante condizionamento, della Germania nello spazio geoeconomico europeo, al prezzo, pesante e determinante, di un condizionamento politico statunitense che ne ha circoscritto la direzione e i margini di azione economica.
Un dinamismo che, però, non si limita alle sole azioni di politica economica, ma che non disdegna di recuperare parte delle antiche aree di influenza politica in Europa Orientale e nei Balcani, sempre, però, sino a ieri all’ombra e forzando i disegni operativi statunitensi, vedi il suo ruolo nelle recenti guerre nei Balcani e nelle sue recrudescenze, oggi all’ombra di una fazione di essi e a contrasto dell’altra.
È il momento in cui la UE si adegua a pieno regime all’onda liberista con la sua ossessione del libero mercato, senza per altro la possibilità di disporre degli strumenti di azione propri degli stati nazionali e in un contesto geopolitico europeo rivoluzionato. Un contesto accolto euforicamente, ma che inizia a generare in Europa processi di polarizzazione in gran parte depressiva anche nelle aree centrali.
Prima di approfondire il tema occorre chiarire un equivoco alla base della retorica di questi ultimi decenni.
Il mercato “libero”, presentato come uno spazio liberatore e purificatore di energie teso all’equilibrio e al vantaggio reciproco, in realtà è una chimera. Ogni mercato, per quanto “anarchico”, per reggersi ha bisogno di regolamentazioni; crea gerarchie che spingono ad azioni costrittive verso gli attori più deboli; adotta consuetudini che equivalgono a regole, come le pratiche lobbistiche così in uso nei corridoi della Commissione Europea; di più, i manager e gli azionisti di riferimento dei maggiori gruppi ragionano sempre meno nell’ottica della mera ottimizzazione e del conseguimento del profitto, sempre che esista una procedura univoca che determini e quantifichi quest’ultimo. Sono dei veri e propri strateghi politici al pari dei decisori che siedono nelle istituzioni e negli apparati e fanno parte a pieno titolo delle cordate che si formano nelle situazioni conflittuali e cooperative che normalmente si determinano negli agoni decisionali.
IL SALTO “QUALITATIVO” DELL’UNIONE EUROPEA
- Quello che con la CEE e la CECA era consentito o quantomeno tollerato, l’intervento diretto dello stato nell’economia, sia nella forma di insediamenti che di incentivazione in nome della libera concorrenza nella UE diventa un tabù, spesso uno scudo per le élites più remissive come quelle italiche, ma con le dovute eccezioni e i sotterfugi riservati ai soliti eletti che godono del prestigio politico e, soprattutto, della presenza radicata nei posti chiave. Per un paese come l’Italia, caratterizzata da piccola e media imprenditoria e da una asfittica grande imprenditoria privata in gran parte dal carattere compradore, un colpo disastroso che sta portando alla degrado e al collasso l’industria di base e le reti infrastrutturali e il tramonto di soggetti in grado di fungere da pivot in nuove realtà industriali. I fondi di coesione europei si sono prontamente adeguati a questa direttiva, limitando e circoscrivendo il campo di azione specie per i paesi assillati dal debito che confidano prevalentemente, se non esclusivamente sul contributo europeo. Cadono, così, negli anni ’90 le detassazioni contributive nelle regioni meridionali. L’intero sistema bancario italiano deve adeguarsi alla trasformazione giuridica imposta dalla UE, quando al contrario sia il sistema bancario francese, con la creazione di una spa capofila del Credit Agricole, che metà del sistema bancario tedesco, le banche territoriali, hanno potuto aggirare i vincoli giuridici, di controllo pubblico e di esposizione. L’indizio che rivela chi e come vengono definite nei tempi opportuni le regole europee. Altro esempio sono i provvedimenti di precarizzazione dei rapporti di lavoro, ampiamente compensati da intervento pubblico, avvenuti in Germania con la riforma Hatz e, attuati i quali, la CE ha prontamente impedito ogni intervento pubblico compensativo dei rapporti di lavoro precarizzati in Europa. Nelle more, la direttiva Bolkestein è stata una liberalizzazione o semplicemente un cambio in parte peggiorativo delle regole di mercato del lavoro e dei servizi?
- Il progressivo e rapido ingresso dei paesi dell’Europa Orientale nella UE ha comportato tre colpi pesanti agli assetti socioeconomici dell’Italia: il drastico trasferimento di buona parte della produzione del settore della componentistica automobilistica dipendente dalle capofila tedesche e la delocalizzazione di numerosi impianti industriali; la trasformazione dell’Italia, per il drastico abbassamento del reddito medio europeo, in paese contribuente attivo; il drastico trasferimento di gran parte dei fondi europei dall’Europa Meridionale a quella Orientale. Dinamica, quest’ultima, assieme alle limitazioni di bilancio che hanno portato ad una condizione depressiva gli interventi e, elemento gravissimo, alla liquidazione di strutture ed agenzie, in particolare la Cassa per il Mezzogiorno, essenziali a promuovere lo sviluppo. Un patrimonio di competenze liquidato e disperso nelle decine di periferie amministrative in cui è frammentato il paese, di fatto incapaci di concepire, progettare e gestire opere strategiche
Sono solo alcuni dei tanti fattori che hanno reso l’UE artefice della polarizzazione dei propri territori, a volte, comunque espansiva in termini assoluti, sempre più ormai in termini regressivi sia per i poli subordinati ed emarginati, ma anche sempre più per gli stessi poli trainanti.
In breve gli stati nazionali dovrebbero reimmaginare e ridisegnare, anche geograficamente, la qualità delle proprie relazioni internazionali al di là delle forzature, già evidenziate da studiosi (tra questi Franziseck Draus) e professioni a suo tempo alla Commissione Europea, che hanno portato a questo allargamento.
Beninteso, i processi di polarizzazione sono connaturati ai sistemi economici e il sistema capitalistico, legato ai processi continui di ottimizzazione e profittazione, tende ad attribuirvi caratteri estremi di lacerazione, di connessione crescente tra poli strategici, di precarietà e instabilità. Ha bisogno, comunque, di normazione, scelte politiche, imposizioni e strategie. Di decisioni politiche, comprese quelle tecnocratiche, spacciate invece come neutre, in quanto tali.
L’Unione Europea non è uno Stato! È un simulacro che ne scimmiotta le competenze, priva di identità, elemento fondamentale per la costruzione di una nazione e di uno stato. È un campo di azione di stati e centri decisori, compreso un arbitro-giocatore esterno al perimetro, entro uno schema limitativo, quello funzionalista dei passetti successivi in campo economico la cui sommatoria dovrebbe portare miracolosamente ad unità politica.
È strutturalmente divisiva e limitativa. Ha definito il proprio limite ed azione legandosi nemmeno ad una alleanza politica, ma ad una politico-militare; ha finalizzato le proprie scelte economiche e circoscritto le dinamiche di competizione e conflitto in un circuito economico-finanziario che vede negli Stati Uniti il punto di raccolta di gran parte dei frutti del lavoro e dell’ingegno europei, applicati, per altro, in ambiti complementari e non strategici.
Un circuito che ha compiuto il proprio ciclo e che verrà rotto traumaticamente. L’attuale leadership statunitense lo ha compreso e ne ha tratto le conseguenze; quelle europee sono aggrappate ad esso nell’illusione che un ulteriore avvicendamento negli USA ripristini la situazione ex ante. In realtà gli Stati Uniti sono e rimarranno disposti a lasciar fare solo nella misura in cui siano gli europei a farsi carico dei costi e dei rischi geopolitici, la guerra in Ucraina contro la Russia e gli statunitensi a lucrarci, vedi gli acquisti di armi e il mantenimento del circuito, però radicalmente modificato. Un modo, per altro, di contenere in qualche maniera la conflittualità politica interna agli Stati Uniti.
La Germania è l’agente interno che ha diretto, impostato e lucrato, per la sua parte, su questo circuito con furbizia, malafede e imponendo regole che già conosceva da tempo. Ha saputo anche riesumare le storiche ambizioni di influenza nelle sue aree prossime, alimentando i conflitti, una volta chiusa la breve parentesi di Herrhausen, ma, questa volta, accuratamente all’ombra del deus ex-machina. Non poteva fare altrimenti, del resto, se non a costo di una radicale pulizia dei propri apparati.
Ha pagato strategicamente a caro prezzo questa scelta comoda ed obbligata, chiudendo ogni strada su due lati, a oriente, con la Russia, progressivamente con la Cina, dopo essersi lasciata soffiare buona parte del proprio bagaglio tecnologico, a sud con l’Africa e il Medio Oriente e la zona grigia di India e America Latina; tutto pur di mantenere quella ad ovest del quale non è lei a detenere i biglietti di ingresso.
Da qui la scelta disperata di recuperare i margini di azione con l’esasperazione bellicista ad est.
La Germania è destinata a pagare il prezzo più salato e destrutturante di questa scelta in termini industriali e nel prosciugamento delle proprie riserve in gran parte depositate oltre-atlantico Trascinerà tutti quelli che si sono aggregati al carro; l’inquietudine in Europa Orientale comincia a serpeggiare vistosamente.
LA GESTIONE DELLE AREE INTERNE
Non è mio compito individuare le soluzioni per una azione efficace di valorizzazione e recupero. Posso offrire qualche riflessione sui tempi andati di ormai quasi cinquanta anni fa su alcune interessanti, per lo più fallite, esperienze analoghe. Immagino in altre occasioni..
Posso altresì evidenziare alcuni aspetti e principi informatori dell’azione in questo ambito:
- I mezzi e gli strumenti offerti dall’Unione Europea sono certamente più efficienti, Fabrizio Barca lo ha spiegato bene, ma possono essere utilizzati senza cadere nella trappola su specificata solo come strumenti complementari e separati dalla gran parte delle risorse di origine nazionale e integrati in una strategia che non può essere quella dettata dalla UE.
- Il piano delle aree interne presentato dal Governo pare più una presa d’atto immutabile della condizione di gran parte delle aree ed ha l’intento di alleviarne la condizione di degrado e sofferenza, piuttosto che di invertire la tendenza.
- I piani più ambiziosi non possono poggiare su strutture inadeguate della(e) regioni, tanto meno dei comuni, per quanto consorziati. Occorrono agenzie tecniche, di programmazione e finanziarie di alto livello che attualmente mancano o sono carenti. Banche di sviluppo, centri di ricerca e formazione, imprenditori legati ed espressione del territorio nazionale in cooperazione sono ingredienti fondamentali. Purtroppo le regioni, grazie anche alla frammentazione e al dissesto istituzionale italiano, sono state troppo spesso uno strumento in mano alla UE per indebolire il ruolo dello stato nazionale, in linea con la funzione istitutiva della UE
- I piani di recupero delle aree interne dovrebbero gravitare attorno a poli strategici capaci di iniziative che vadano ben oltre il territorio di insediamento. L’esperienza del Veneto negli anni 60/70, del Trentino AA nella sua azione di recupero e mantenimento delle aree urbane e di industrializzazione e creazione di servizi decentrati, pur con i tanti errori, possono offrire diversi spunti
- Occorre valutare la qualità del ceto politico e delle classi dirigenti locali. Se tendono all’adattamento alla situazione o sono suscettibili o capaci di ambizioni più dinamiche
- Occorre valutare la effettiva resilienza dei soggetti economici per non cadere nella trappola degli incentivi effimeri
- Ogni discorso sulle economie circolari, sulla sostenibilità, sulla diversificazione delle attività nelle aree interne diventano esse stesse sostenibili ed espansive se accompagnate da progetti strategici che vanno oltre il territorio o da capacità di assorbimento di risorse esterne
- Il vicolo cieco in cui l’Italia, come del resto l’Europa, si è cacciata con la chiusura alla Russia e alla Cina, la pratica defenestrazione dal nostro vicinato africano come può consentire l’attuazione di queste azioni strategiche
- Che ruolo possono avere le banche locali, analogamente a quelle assunte dal Veneto negli anni ’60, nel sostenere queste ipotesi e a che ruolo assolvono adesso?
I CORRIDOI NATO
Data la priorità stringente che sta assumendo la programmazione della NATO e l’influenza che potrebbe assumere nel peso e nel ruolo dei fondi di coesione, risulta utile a questo punto qualche ulteriore riflessione, anche per gli equivoci che la narrazione ufficiale potrebbe ingenerare sulla natura delle scelte di investimento:
Capitolo 2 – Corridoi NATO ed Europa: infrastrutture dual-use, contrasti politico-industriali e la competizione tra Germania, Regno Unito e Francia
L’evoluzione europea della sicurezza e delle infrastrutture militari si incrocia inevitabilmente con le dinamiche della cooperazione UE-NATO e con le pressioni strategiche esercitate dagli Stati Uniti, che mantengono un ruolo centrale nel disegno delle priorità alleate. In particolare, i cosiddetti “corridoi NATO” – reti di infrastrutture viarie, ferroviarie e marittime avanzate destinate a garantire mobilità rapida delle forze armate in Europa – sono oggi un nodo nevralgico delle strategie di sicurezza continentali. Tali corridoi, progettati con forte impulso americano e con la Germania quale paese ospitante privilegiato di basi e reti logistiche, si sovrappongono a infrastrutture civili esistenti e rappresentano un terreno di frizione tra interessi strategici divergenti, soprattutto tra Berlino e le “due sorelle” atlantiste, Regno Unito e Francia. Questi ultimi paesi rivendicano spazi di autonomia e influenza strategica propri, privilegiando politiche difensive più autonome e differenziate, in contrapposizione all’orientamento pragmatico e “host nation” che caratterizza la Germania.
2.1 La genesi e la funzione dei corridoi NATO in Europa
I corridoi logisitici della NATO in Europa si sono articolati nel quadro del Piano d’Azione per la Mobilità Militare (Military Mobility Action Plan) emanato dalla Commissione Europea e dal Consiglio della NATO dal 2018, con successive integrazioni nel 2022.
L’obbiettivo è creare percorsi ferroviari, autostradali, portuali e aeroportuali che rispettino standard di sovraccarico, dimensioni e interoperabilità militare, con risorse finanziarie messe a disposizione principalmente dal Connecting Europe Facility (CEF) e integrati dalla politica di coesione UE tramite il FESR e altri fondi strutturali. Queste infrastrutture “dual-use”, ovvero civili ma facilmente convertibili a uso militare, sono considerate essenziali per la rapida mobilitazione delle truppe NATO da Ovest verso Est in caso di crisi, in un contesto strategico fortemente influenzato dall’aggressione russa all’Ucraina e dal rafforzamento del deterrente.
Nel quadro di questo disegno, la Germania ha assunto un ruolo di primissimo piano come “host nation” di infrastrutture chiave e come hub per la manutenzione e produzione di materiale militare e logistico statunitense e NATO. Questo ruolo, se da un lato conferma il successo economico-industriale tedesco e la sua integrazione infrastrutturale nel cluster strategico atlantista, dall’altro genera tensioni politiche e concorrenziali con altre potenze europee.
2.2 Il ruolo e gli interessi della Germania: hub centrale e ospite privilegiato
La Germania, fin dal secondo dopoguerra, ha costruito un fortissimo legame con gli Stati Uniti tramite la NATO, incarnandone nel continente europeo le strategie militari e logistiche
3
. Il paese ospita un gran numero di basi americane, funge da snodo per traffici logistici e tecnologici, e incarna un modello di industrializzazione militare dual-use fortemente integrata nei circuiti di fornitura globali.
Nel piano di mobilità militare europea, la Germania rappresenta:
- Il nodo centrale di reti ferroviarie ad alta capacità, adeguate al trasporto di mezzi e materiali pesanti NATO.
- Il centro logistico e industriale per la produzione e manutenzione di materiali critici (rifornimenti F-35, Rheinmetall-Lockheed joint ventures).
- Il paese che, tramite il suo know-how, esercita un ruolo guida nella definizione degli standard tecnici delle infrastrutture dual use con applicazioni militari4
.
Questa posizione ha consentito alla Germania di attrarre rilevanti investimenti infrastrutturali e industriali europei, consolidando una leadership economica e strategica continentale, benché soggetta a limitazioni politiche dettate dall’influenza statunitense e dal contesto NATO.
2.3 La contrapposizione con Regno Unito e Francia: due modelli di autonomia strategica
A fronte del primato tedesco nella gestione dei corridoi e delle infrastrutture dual-use, Regno Unito e Francia perseguono un approccio strategico più autonomo volto a rafforzare capacità militari nazionali e cluster industriali differenziati.
- Francia, con il suo arsenale nucleare indipendente e un approccio geopolitico marcatamente sovranista, sostiene progetti distinti come il Future Combat Air System (FCAS), lavorando con Germania e Spagna ma mantenendo una visione di autonomia strategica che non si limita alla piattaforma NATO e rimane critica verso politiche troppo integrate nell’egemonia americana5
. - Regno Unito, pur uscendo formalmente dall’UE, mantiene una posizione di potenza atlantista autonoma, convinta che la difesa europea debba integrarsi ma non confondersi con la NATO. Attraverso partnership come il Global Combat Air Programme (GCAP) con Italia e Giappone, il Regno Unito promuove un paradigma di sviluppo industriale e difensivo indipendente dalla rete infrastrutturale NATO centrale tedesca6
.
Questi due paesi si oppongono all’omogeneizzazione delle infrastrutture e delle strategie militari imposte dal modello NATO guidato implicitamente da USA e Germania, rivendicando una pluralità di poli influenti all’interno dell’Europa strategica.
2.4 Le infrastrutture dual-use: problemi di sovrapposizione, governance e limiti alla coesione
L’integrazione fra infrastrutture civili e militari – principio guida per i corridoi – però si traduce in una molteplicità di problemi sistemici:
- Sovrapposizione funzionale fra necessità militari e obiettivi civili, che può concentrare investimenti sulle principali direttrici strategiche lasciando marginali le aree interne e meno strategiche (es. corridoi marittimi nord-sud vs infrastrutture interne)7
- Vincoli normativi e burocratici: gli Stati membri mostrano gelosie nazionali sugli spazi di sovranità, rallentando processi di omogeneizzazione e interoperabilità; la presenza di paesi NATO non-UE (Norvegia, Turchia) e paesi UE non NATO accentua il disallineamento.
- Concorrenza geopolitica e industriale, in cui la Germania interpreta il ruolo di host nazione privilegiata come elemento di potere strategico, mentre UK e Francia insistono per una governance multilivello che riconosca le differenze di interessi e capacità.
- Priorità marittime vs terrestri: le infrastrutture marittime rivestono un ruolo nodale per porte logistiche come Rotterdam, Anversa, Genova e Trieste, cruciali per la mobilità delle forze statunitensi e NATO. Tuttavia, vi è competizione su chi gestisce e determina gli investimenti, con tensioni tra le aree marittime settentrionali (favorevoli a un modello dominato da Paesi Bassi e Germania) e quelle mediterranee, dove Italia e Francia rivendicano maggiore influenza.
2.5 La strategia USA e il mandato alla Germania, l’equilibrio fragile europeo
Gli Stati Uniti mantengono un ruolo decisivo, motivando e finanziando i corridoi NATO come pilastro della loro proiezione militare in Europa e nella regione euro-mediterranea. Studi come quelli dell’Atlantic Council sottolineano lo spostamento del baricentro alle infrastrutture del Corridoio Nordorientale – Scandinavia, Baltico, Polonia – una regione con percezioni di minacce più acute e un consenso politico-sicurezza più compatto.
La Germania, nella sua posizione di “host” privilegiata, beneficia della presenza permanente di basi e investimenti; a sua volta, questa leadership infrastrutturale funge da anello di congiunzione tra progetti statunitensi e politiche europee integrate. Tuttavia, l’asse franco-britannico mantiene resistenze e idee divergenti circa la forma e la governance di questa integrazione, proponendo un ripensamento del modello di sicurezza europeo che contempli autonomie nazionali più robuste e una minore subordinazione agli Stati Uniti.
Capitolo 4 – Investimenti infrastrutturali e logistica dual-use: confronto tra Italia Sud, Olanda e Germania nelle direttive NATO e la sovrapposizione degli interessi USA
L’evoluzione della strategia logistica e infrastrutturale europea in ambito NATO e UE è oggi caratterizzata da un crescendo di investimenti pubblici e privati orientati al rafforzamento dei cosiddetti corridoi “dual-use”, ossia reti civili adattabili a esercizi rapidi di mobilità militare[1]. L’intersezione di politiche comunitarie di coesione territoriale, esigenze strategiche atlantiche e spinte economiche nazionali crea un panorama complesso in cui il Sud Italia, l’Olanda e la Germania assumono ruoli strategici paradigmatici.
Questo capitolo approfondisce questo intreccio, rilevandone i nodi critici:
– le sovrapposizioni tra infrastrutture civili e militari, con focus particolare su porti e reti ferroviarie
– il peso politico-strategico degli investimenti, inquadrati nel mandato NATO-Atltanico, con sottile pressione USA diretta e indiretta
– la competizione e il coordinamento tra contractor europei e americani nell’implementazione di hub logistici strategici
– le implicazioni territoriali e socioeconomiche, con particolare analisi dell’impatto sul Mezzogiorno italiano, il porto di Gioia Tauro e gli scali del Nord Europa
4.1 La logistica dual-use: tra coesione UE e priorità NATO
I fondi strutturali europei (FESR, Fondo di Coesione) e i finanziamenti derivanti dal Connecting Europe Facility (CEF) rappresentano la linfa vitale dei programmi infrastrutturali europei 2021–2027, che si sovrappongono a direttive NATO finalizzate alla mobilità rapida delle forze armate. Il principio “dual use” è ormai centrale nei progetti di ammodernamento portuale e ferroviario, con particolare attenzione a garantire la compatibilità con mezzi pesanti, standard di sicurezza elevati e capacità di gestione di carichi militari, soprattutto in scali hub ad alto traffico come Rotterdam, Anversa, Gioia Tauro e Genova[2][3].
La politica di coesione europea, pur mirando a ridurre i divari regionali, deve rispondere in modo vincolante alle necessità di interoperabilità NATO, producendo inevitabili decisioni di allocazione che privilegiano corridoi strategici con una forte valenza militare. Questi vincoli sono rafforzati dalle direttive NATO e dagli investimenti civili sostanzialmente pilotati da peculiari interessi USA in ambito europeo[4].
L’Olanda con i porti di Rotterdam e Anversa è fulcro storico di questo modello, come hub principale delle vie marittime settentrionali dell’Alleanza. Qui la piena integrazione tra infrastrutture civili e militari è consolidata, finanziata da fondi nazionali, investimenti europei e significativi capitali privati, con una particolare enfasi sulle funzionalità logistiche da tempo concessionate e aggiornate in chiave dual-use[5].
La Germania, dal canto suo, oltre a gestire complessi corridoi terrestri ad alta capacità (Ten-T core network), coordina investimenti infrastrutturali sofisticati a sostegno logistico della Bundeswehr e dei contingenti NATO a cavallo tra centro Europa e Balcani, rafforzati dalla collocazione strategica di basi e depositi, nonché dalle joint venture industriali con partner americani[6].
4.2 L’Italia meridionale e i porti strategici: Gioia Tauro e Bari nel cuore della sfida logistico-militare dual-use
In Italia, spiccano per importanza geopolitica due porti del Mezzogiorno: **Gioia Tauro** e **Bari**. Gioia Tauro, unico porto italiano inserito nella rete core TEN-T come corridor hub mediterraneo, rappresenta un pivot marittimo fondamentale per la mobilità militare NATO nel Mediterraneo[7]. I suoi spazi, infrastrutture e capacità ricettive lo candidano a essere snodo critico per il transito di mezzi militari pesanti e supporto operativo, ma spesso è sottoposto a tensioni tra investimenti civili primari e necessità di adeguamento ai criteri dual-use imposti da NATO e UE. Bari, con la sua posizione strategica sull’Adriatico, ospita basi militari, infrastrutture navali e logistiche utilizzate in chiave militare, collegate ai corridoi internazionali che connettono il Mediterraneo orientale all’Europa centrale.
Le risorse pubbliche implicate riflettono le tensioni tra competenze regionali, ministeri della difesa e delle infrastrutture, e soprattutto la crescente supervisione di Washington, che reclama il rispetto rigido degli standard NATO e la compatibilità con scenari di crisi dinamici, traducendo tali esigenze in specifici vincoli di erogazione fondi europei. Ad esempio, nel quadro del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), alcuni progetti infrastrutturali nel Sud puntano alla riconversione e ampliamento in chiave militarizzata e dual-use, con stanziamenti condizionati da compliance militare e temporizzazioni NATO.
4.3 Sovrapposizione di interessi USA, lo strapotere delle direttive atlantiche e le implicazioni per la governance nazionale
Gli investimenti dual-use non sono neutri: derivano da rigorose direttive NATO che agiscono da condizione necessaria per l’ammissione ai fondi europei e nazionali in settori strategici. Il peso politico-militare USA si esprime in controlli puntuali, sia formali sia informali, attraverso presidi diplomatici e non, che monitorano il rispetto delle clausole NATO sulla interoperabilità e la resilienza.
Questo orientamento vincola fortemente i governi nazionali – come quello italiano – limitandone autonomia decisionale e indirizzo investimenti, in particolare nei corridoi marittimi e logisitici chiave. Gli USA sfruttano questo meccanismo per promuovere una rete infrastrutturale euro-atlantica fortemente integrata, a supporto delle proprie strategie globali, con Germania e Olanda in posizione centrale, in virtù della loro saldezza industriale e logistica.
Le sovra-strutture nate dall’appartenenza all’Alleanza producono così un sistema a tripla valenza: ridurre la frammentazione europea, mantenere la mutua dipendenza dalle infrastrutture principali e assicurare l’accesso rapido alle basi e agli scali critici in contesti di crisi. Ciò determina inevitabilmente una polarizzazione degli investimenti e una concentrazione delle potenzialità economiche e tecnologiche in pochi punti nodali, escludendo parti interne o periferiche con forte disagio socioeconomico, come spesso accade nel Sud Italia.
Fonti principali e note cap 4
[1] Ministero della Difesa, Documento Programmatico Pluriennale, 2024-2026[5]
[2] DG MOVE, Commissione Europea, Strategie infrastrutturali TEN-T e military mobility, 2023
[3] Agenzia per la Coesione Territoriale, OpenCoesione dati, 2025
[4] NATO Military Mobility Action Plan, aggiornamento 2022
[5] Borsa e Finanza, “Spese Italia Difesa al 2% PIL” – articolo 2025[1]
[6] Transatlantic Forum, Ottavo Rapporto 2025, Istituto Affari Internazionali[6]
[7] Rapporto ICE 2025, infrastrutture e logistica marittima[4]
Agenzia Dogane e Monopoli, dati traffico porti Gioia Tauro e Bari 2024
PNRR Italia, Missione Innovazione e Digitalizzazione infrastrutture, 2025
Azione, “Le proposte di difesa per il Sud”, 2025[2]
CSIS e RAND, “Dual Use Infrastructure and EU-NATO Dynamics”, 2023
Atlantic Council, “US Strategy in European Logistics”, 2024[6]
EU Parliament Studies, “Disparities regionali e sicurezza dual-use”, 2024
5.3 Il modello franco-britannico: fondi sovrani e trasparenza limitata
Francia e Regno Unito si collocano in un modello parallelo ma differente, basato su fondi sovrani nazionali che, pur risultando meno opachi di quelli USA-Germania-Italia, non raggiungono ancora un livello pieno di trasparenza. Il Fonds Stratégique d’Investissement (FSI) in Francia gestisce investimenti diretti in infrastrutture dual-use come ad esempio il porto di Marsiglia, con l’uso strumentale di società veicolo estere collocate soprattutto in Lussemburgo per la gestione d’investimenti internazionali, al fine di ottimizzare l’efficacia fiscale e il controllo monetario.
Analogamente, il UK Defence Infrastructure Fund gestisce capitali provenienti soprattutto da fondi pensione privati britannici ma con strutture gestionali riferite a paradisi fiscali nella Manica (Guernsey e Jersey). Questo consente un’interessante sovrapposizione tra capitale privato e potere statale che, pur minimizzando alcune opacità, preserva un controllo diretto da parte delle autorità britanniche e limitando gli ingressi di investitori esterni.
Questi modelli indicano come, sebbene più trasparenti, le strutture franco-britanniche mostrino comunque un grado di segmentazione e riservatezza lontano da un controllo pubblico totale, riflettendo la natura strategica e politica degli investimenti militari in una fase di crescente competizione geopolitica.
APPENDICE
_L’Unione Europea tra coesione socioeconomica, polarizzazione geopolitica e un riarmo continentale sotteso alla cooperazione con la NATO_
L’Unione Europea rappresenta un’entità geopolitica complessa, nata dall’intreccio tra aspirazioni di coesione economica, sociale e territoriale sancite dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (in particolare, articoli 174-178 TFUE)[1], e le dinamiche di sicurezza e di geopolitica euro-atlantica. La politica di coesione, attraverso un articolato sistema di fondi strutturali (FESR, FSE+, Fondo di Coesione, FEAMP, JTF), dovrebbe idealmente colmare i divari interni e promuovere uno sviluppo armonico delle regioni meno prospere, spesso penalizzate da svantaggi climatici, demografici o strutturali[2]. Tuttavia, questa architettura ideale di solidarietà mostra limiti crescenti all’ombra di una polarizzazione crescente sia geografica che politica, originata e mantenuta da profonde radici geopolitiche.
Il contesto euro-atlantico e la cooperazione con la NATO costituiscono un fattore cruciale che, a partire dalla fine della Guerra Fredda, ha plasmato in modo decisivo le traiettorie politiche, economiche e militari del continente europeo[3][4]. La NATO, fondata nel 1949 come alleanza di sicurezza militare tra Stati Uniti, Canada ed Europa, si è progressivamente evoluta ampliando i propri compiti e coordinandosi sempre più strettamente con le istituzioni europee, come evidente anche dalle tre dichiarazioni congiunte sulla cooperazione UE-NATO, l’ultima delle quali risale al gennaio 2023[5]. In questo vertice è stato ribadito l’intento di affrontare comuni minacce come i rischi ibridi, la mobilità militare e le sfide tecnologiche, sottolineando la complementarità tra la capacità militare della NATO e gli strumenti civili e politici offerti dall’UE, quali il Fondo Europeo per la Difesa e l’Agenzia Europea della Difesa[6].
Tuttavia, permane una tensione apparentemente irrisolvibile: da un lato, l’UE ambisce a costruire una propria autonomia strategica che la renda meno dipendente dagli Usa, anche riflettendo negli investimenti infrastrutturali e nella difesa la volontà di una sovranità europea rafforzata[7]. Dall’altro, la necessità di mantenere una forte alleanza atlantica impedisce una rottura netta, costringendo l’Europa ad operare in uno spazio di “dipendenza parziale” e cooperazione gerarchica[8]. Questo dilemma si somma alle conseguenze politiche e territoriali dell’allargamento della NATO e dell’UE ad Est con l’inclusione di paesi ex-blocco sovietico, la cui commissio nei fondi e negli investimenti infrastrutturali riflette e acuisce le polarizzazioni regionali e socioeconomiche.
In tale quadro si inserisce il piano di riarmo continentale, formalizzato negli ultimi anni con programmi coordinati che mobilitano circa 800 miliardi di euro di investimenti tra spese militari pubbliche e privati e fondi europei per la difesa (EDIS, EDIP, EDF, ASAP). Le reti infrastrutturali, tra cui i “corridoi militari” della NATO intersecati con la rete TEN-T europea, diventano così strumenti volti non solo alla mobilità rapida delle forze, ma anche a una ridefinizione geopolitica e industriale di lungo periodo. Tale riconfigurazione può favorire l’efficienza e la resilienza, ma rischia altresì di accentuare diseguaglianze territoriali e polarizzazioni economiche, soprattutto nelle aree interne e periferiche di alcuni Stati membri, Italia inclusa.
Capitolo 1 – La coesione europea tra aspirazioni e realtà polarizzate (1945–oggi)
L’Unione Europea nasce dall’ambizione di costruire un modello di sviluppo armonico fondato sulla coesione economica, sociale e territoriale, così come sancito dagli articoli 174-178 del Trattato sul Funzionamento dell’UE (TFUE).
1 In questo quadro la politica di coesione si struttura fra molteplici fondi – il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR), il Fondo Sociale Europeo (FSE+), il Fondo di Coesione (FC), il Fondo Europeo per gli Affari Marittimi e la Pesca (FEAMP), e il Fondo per una Transizione Giusta (JTF) – destinati a riequilibrare le disparità tra territori e regioni, in particolare rivolgendosi a zone rurali, aree in transizione industriale e territori con permanentemente svantaggi socioeconomici o demografici
2 L’efficacia di tali strumenti si fonda su un coordinamento multilivello, con l’Italia che affida all’Agenzia per la Coesione Territoriale il coordinamento di queste politiche in sinergia con amministrazioni nazionali e regionali.
Tuttavia, la realtà concreta di queste politiche spesso sconta limiti strutturali e contraddizioni profonde. La coesione si scontra con le persistenti dinamiche di polarizzazione, conseguenze di un processo storico-geopolitico iniziato con il secondo dopoguerra e la ricostruzione sotto l’egida degli Stati Uniti.
4 Nel dopoguerra, la costruzione europea ha avuto luogo in un contesto di occupazione militare statunitense, ancora formalmente presente in Germania e Italia anche dopo la fine ufficiale dell’occupazione (rispettivamente nel 1990 e 1947, ma con basi e truppe ancora sul territorio)
5 Questa subordinazione strategica ha reso la costruzione europea subordinata a un modello economico dominato dal dogma del libero mercato, la cui principale garanzia politica è stata per decenni la stabilità data da un’alleanza politico-militare egemonizzata dagli USA: la NATO.
6 Il modello europeo dunque si è sviluppato sotto forti condizionamenti esterni, con la Germania posta dal piano Morgenthau del primo dopoguerra a una condizione economicamente forte ma con margini politici ristretti e sotto vigilanza militare
7L’integrazione europea è quindi avvenuta in un contesto bipolare (USA-URSS), con gli Stati Uniti che hanno supportato istanze federaliste funzionali al mantenimento della supremazia occidentale
8 La stessa implementazione della Comunità Europea di Difesa (CED) fallì per resistenze francese e britannica legate agli interessi coloniali e alle rivendicazioni di sovranità, rafforzando il predominio NATO e consolidando il modello di difesa atlantico
9L’implosione del blocco sovietico (1990–1991) rappresenta uno snodo cruciale. L’allargamento a Est della NATO, favorito inizialmente dall’amministrazione Clinton e consolidato durante le successive, ha trasformato un’alleanza militare in un blocco politico capace di determinare scelte strategiche continentali in modo incisivo. Questa fase ha prodotto, da un lato, benefici economici con l’inclusione di nuove aree e la possibilità di ricevere importanti investimenti infrastrutturali; dall’altro ha accentuato la polarizzazione politico-strategica, con un’eurasia divisa in sfere di influenza spesso rigide, che si riflette in disuguaglianze interne ai paesi UE e fra paesi UE stessi.
La relazione sinergica fra UE e NATO è sancita in tutti i trattati (compreso quello di Lisbona), ma nasconde un paradosso: l’Unione Europea, pur essendo costruita su basi di coesione e integrazione, agisce spesso subordinata da un’alleanza e una rete di interessi geopolitici più ampi, limitando la sua autonomia politica e militare. Nei fatti l’UE si confronta con una leadership europea “cooptata”, come evidenziato in Italia e Germania, legata agli interessi atlantici e statunitensi, e partecipe di una farsa politica quando si parla di riarmo europeo senza una vera statualità e coesione strategica.
L’attuale piano di riarmo europeo, che mobilita circa 800 miliardi di euro entro il 2025, è simbolo di questo cortocircuito: è una strategia di spesa e di investimento che, pur astrattamente indirizzata a una difesa europea autonoma, si concretizza in forme di dipendenza da forniture USA, polarizzazioni industriali e geopolitiche (con Germania e Italia posti al centro di joint venture tecnologiche e logistiche con le potenze atlantiche) e una governance frammentata e poco efficiente.
Sotto questo profilo, la coesione territoriale – tanto auspicata e sostenuta dalla politica di coesione – è messa in crisi da meccanismi di allocazione di fondi e infrastrutture che privilegiano corridoi e nodi militari strategici, spesso localizzati in aree economicamente più sviluppate o geograficamente strategiche, mentre le aree interne e periferiche restano marginali.
A ciò si somma la crescente “militarizzazione” implicita degli investimenti dual-use, evidenziata anche da think tank come RAND e CSIS, che sottolineano come la sicurezza e la mobilità militare siano ormai criteri fondamentali per erogare fondi e pianificare investimenti europei, alimentando una polarizzazione tra Nord-Sud ed Est-Ovest, e allontanando la prospettiva di un sviluppo omogeneo e stabile.
Questo capitolo si configura dunque come l’analisi critica della dialettica tra coesione e polarizzazione, partendo dalla genesi storica e dall’evoluzione geopolitica europea fino agli elementi strutturali che oggi influenzano le politiche di sviluppo e sicurezza continentali.
Tabella 1 – Fondi UE per coesione e sicurezza: distribuzione e implicazioni
| Fondo UE | Obiettivo principale | Allocazione (€ mld) | Impatto sulla coesione territoriale | Note principali |
| FESR (Fondo europeo sviluppo regionale) | Sviluppo infrastrutturale e innovazione regionale | ~190 | Favorisce investimenti in infrastrutture chiave ma limitati in aree marginali | |
| FSE+ (Fondo Sociale Europeo) | Occupazione, inclusione sociale e formazione | ~99 | Migliora capitale umano, ma allocato principalmente in aree densamente popolate | |
| Fondo di Coesione (FC) | Trasporti e ambiente in paesi con PIL inferiore | ~40 | Supporta Paesi meno sviluppati, ma con difficoltà amministrative | |
| JTF (Just Transition Fund) | Sostenere transizione climatica con impatti locali | ~17 | Aiuta aree colpite da cambiamenti economici ma limitato da criteri stringenti | |
| Fondi per la mobilità militare/Corridoi NATO (CEF, PESCO) | Rafforzare capacità dual-use per difesa e sicurezza | ~10–15 (stimati) | Concentrati su nodi strategici, rischiano di favorire polarizzazioni | Allocazioni “dual-use” rilevanti ma spesso non destinate a risolvere disparità sociali |
Tabella 2 – Indicatori di polarizzazione territoriale nell’UE (2023)
| Indicatore | Nord-Ovest UE | Sud Europa | Europa Orientale | Implicazioni principali |
| PIL pro capite rispetto media UE | +25% | -20% | -30% | Aree meridionali e orientali in svantaggio economico significativo |
| Tasso di disoccupazione giovanile | 8% | 25% | 18% | Elevate criticità nelle periferie meridionali ed esterne |
| Investimenti infrastrutturali (€ pc) | Alto | Medio | Basso | Variazioni significative legate a priorità militari e civili |
| Indice di rischio di esclusione sociale | Basso | Alto | Alto | Maggiori fragilità sociali in aree periferiche |
Capitolo 2 – Corridoi NATO ed Europa: infrastrutture dual-use, contrasti politico-industriali e la competizione tra Germania, Regno Unito e Francia
L’evoluzione europea della sicurezza e delle infrastrutture militari si incrocia inevitabilmente con le dinamiche della cooperazione UE-NATO e con le pressioni strategiche esercitate dagli Stati Uniti, che mantengono un ruolo centrale nel disegno delle priorità alleate. In particolare, i cosiddetti “corridoi NATO” – reti di infrastrutture viarie, ferroviarie e marittime avanzate destinate a garantire mobilità rapida delle forze armate in Europa – sono oggi un nodo nevralgico delle strategie di sicurezza continentali. Tali corridoi, progettati con forte impulso americano e con la Germania quale paese ospitante privilegiato di basi e reti logistiche, si sovrappongono a infrastrutture civili esistenti e rappresentano un terreno di frizione tra interessi strategici divergenti, soprattutto tra Berlino e le “due sorelle” atlantiste, Regno Unito e Francia. Questi ultimi paesi rivendicano spazi di autonomia e influenza strategica propri, privilegiando politiche difensive più autonome e differenziate, in contrapposizione all’orientamento pragmatico e “host nation” che caratterizza la Germania.
2.1 La genesi e la funzione dei corridoi NATO in Europa
I corridoi logisitici della NATO in Europa si sono articolati nel quadro del Piano d’Azione per la Mobilità Militare (Military Mobility Action Plan) emanato dalla Commissione Europea e dal Consiglio della NATO dal 2018, con successive integrazioni nel 2022.
L’obbiettivo è creare percorsi ferroviari, autostradali, portuali e aeroportuali che rispettino standard di sovraccarico, dimensioni e interoperabilità militare, con risorse finanziarie messe a disposizione principalmente dal Connecting Europe Facility (CEF) e integrati dalla politica di coesione UE tramite il FESR e altri fondi strutturali. Queste infrastrutture “dual-use”, ovvero civili ma facilmente convertibili a uso militare, sono considerate essenziali per la rapida mobilitazione delle truppe NATO da Ovest verso Est in caso di crisi, in un contesto strategico fortemente influenzato dall’aggressione russa all’Ucraina e dal rafforzamento del deterrente.
Nel quadro di questo disegno, la Germania ha assunto un ruolo di primissimo piano come “host nation” di infrastrutture chiave e come hub per la manutenzione e produzione di materiale militare e logistico statunitense e NATO. Questo ruolo, se da un lato conferma il successo economico-industriale tedesco e la sua integrazione infrastrutturale nel cluster strategico atlantista, dall’altro genera tensioni politiche e concorrenziali con altre potenze europee.
2.2 Il ruolo e gli interessi della Germania: hub centrale e ospite privilegiato
La Germania, fin dal secondo dopoguerra, ha costruito un fortissimo legame con gli Stati Uniti tramite la NATO, incarnandone nel continente europeo le strategie militari e logistiche
3
. Il paese ospita un gran numero di basi americane, funge da snodo per traffici logistici e tecnologici, e incarna un modello di industrializzazione militare dual-use fortemente integrata nei circuiti di fornitura globali.
Nel piano di mobilità militare europea, la Germania rappresenta:
- Il nodo centrale di reti ferroviarie ad alta capacità, adeguate al trasporto di mezzi e materiali pesanti NATO.
- Il centro logistico e industriale per la produzione e manutenzione di materiali critici (rifornimenti F-35, Rheinmetall-Lockheed joint ventures).
- Il paese che, tramite il suo know-how, esercita un ruolo guida nella definizione degli standard tecnici delle infrastrutture dual use con applicazioni militari4
.
Questa posizione ha consentito alla Germania di attrarre rilevanti investimenti infrastrutturali e industriali europei, consolidando una leadership economica e strategica continentale, benché soggetta a limitazioni politiche dettate dall’influenza statunitense e dal contesto NATO.
2.3 La contrapposizione con Regno Unito e Francia: due modelli di autonomia strategica
A fronte del primato tedesco nella gestione dei corridoi e delle infrastrutture dual-use, Regno Unito e Francia perseguono un approccio strategico più autonomo volto a rafforzare capacità militari nazionali e cluster industriali differenziati.
- Francia, con il suo arsenale nucleare indipendente e un approccio geopolitico marcatamente sovranista, sostiene progetti distinti come il Future Combat Air System (FCAS), lavorando con Germania e Spagna ma mantenendo una visione di autonomia strategica che non si limita alla piattaforma NATO e rimane critica verso politiche troppo integrate nell’egemonia americana5
. - Regno Unito, pur uscendo formalmente dall’UE, mantiene una posizione di potenza atlantista autonoma, convinta che la difesa europea debba integrarsi ma non confondersi con la NATO. Attraverso partnership come il Global Combat Air Programme (GCAP) con Italia e Giappone, il Regno Unito promuove un paradigma di sviluppo industriale e difensivo indipendente dalla rete infrastrutturale NATO centrale tedesca6
.
Questi due paesi si oppongono all’omogeneizzazione delle infrastrutture e delle strategie militari imposte dal modello NATO guidato implicitamente da USA e Germania, rivendicando una pluralità di poli influenti all’interno dell’Europa strategica.
2.4 Le infrastrutture dual-use: problemi di sovrapposizione, governance e limiti alla coesione
L’integrazione fra infrastrutture civili e militari – principio guida per i corridoi – però si traduce in una molteplicità di problemi sistemici:
- Sovrapposizione funzionale fra necessità militari e obiettivi civili, che può concentrare investimenti sulle principali direttrici strategiche lasciando marginali le aree interne e meno strategiche (es. corridoi marittimi nord-sud vs infrastrutture interne)7
- Vincoli normativi e burocratici: gli Stati membri mostrano gelosie nazionali sugli spazi di sovranità, rallentando processi di omogeneizzazione e interoperabilità; la presenza di paesi NATO non-UE (Norvegia, Turchia) e paesi UE non NATO accentua il disallineamento.
- Concorrenza geopolitica e industriale, in cui la Germania interpreta il ruolo di host nazione privilegiata come elemento di potere strategico, mentre UK e Francia insistono per una governance multilivello che riconosca le differenze di interessi e capacità.
- Priorità marittime vs terrestri: le infrastrutture marittime rivestono un ruolo nodale per porte logistiche come Rotterdam, Anversa, Genova e Trieste, cruciali per la mobilità delle forze statunitensi e NATO. Tuttavia, vi è competizione su chi gestisce e determina gli investimenti, con tensioni tra le aree marittime settentrionali (favorevoli a un modello dominato da Paesi Bassi e Germania) e quelle mediterranee, dove Italia e Francia rivendicano maggiore influenza.
2.5 La strategia USA e il mandato alla Germania, l’equilibrio fragile europeo
Gli Stati Uniti mantengono un ruolo decisivo, motivando e finanziando i corridoi NATO come pilastro della loro proiezione militare in Europa e nella regione euro-mediterranea. Studi come quelli dell’Atlantic Council sottolineano lo spostamento del baricentro alle infrastrutture del Corridoio Nordorientale – Scandinavia, Baltico, Polonia – una regione con percezioni di minacce più acute e un consenso politico-sicurezza più compatto.
La Germania, nella sua posizione di “host” privilegiata, beneficia della presenza permanente di basi e investimenti; a sua volta, questa leadership infrastrutturale funge da anello di congiunzione tra progetti statunitensi e politiche europee integrate. Tuttavia, l’asse franco-britannico mantiene resistenze e idee divergenti circa la forma e la governance di questa integrazione, proponendo un ripensamento del modello di sicurezza europeo che contempli autonomie nazionali più robuste e una minore subordinazione agli Stati Uniti.
Capitolo 3 – Rapporti finanziari e joint venture industriali nella difesa europea: le strategie di USA-Germania-Italia e UK-Francia nei corridoi NATO
La dimensione politica del riarmo e della mobilità militare transatlantica passa oggi attraverso uno stretto intreccio tra investimenti pubblici, capitali privati e strutture societarie articolate, spesso localizzate in giurisdizioni offshore e Regni di comodo come Cipro, Lussemburgo o Isole Cayman. Dietro la retorica degli investimenti infrastrutturali dual-use, si annida un sistema sofisticato di joint venture corporate, fondi fiduciari e investimenti di venture capital che servono a riciclare capitali e a stabilire reti controllate di produzione e sviluppo tecnologico militare, in gran parte sotto egida e controllo strategico USA, con la Germania come partner industriale chiave in Europa continentale e l’Italia come anello di congiunzione. Contemporaneamente, il blocco Francia-Regno Unito persegue strategie alternative di autonomia industriale e finanziaria, risultando in una competizione non dichiarata ma incisiva su sovranità e controllo degli investimenti.
3.1 Joint venture industriali e controlli nei sistemi finanziari offshore: un focus su Rheinmetall-Leonardo e MBDA-Lockheed Martin
Il panorama industriale della difesa europea si caratterizza per progetti di joint venture internazionali di enormi dimensioni, spesso registrate in società veicolo situate in paradisi fiscali, con utilizzo di fondi fiduciari e capitali di rischio che garantiscono flessibilità finanziaria e anonimato parziale nelle transazioni[1].
– **Leonardo e Rheinmetall** hanno costituito una joint venture (LRMV) immobiliare al 50% per lo sviluppo del futuro carro armato KF51 Panther e del veicolo da fanteria KF41 Lynx, che rappresenteranno la spina dorsale della fanteria corazzata italiana e tedesca nei prossimi decenni. Le società sono coordinate da amministratori e direttori provenienti da entrambi i paesi, con strutture legali spesso registrate in giurisdizioni a bassa tassazione, come Lussemburgo o Cipro, che facilitano gli scambi finanziari europei e transatlantici[2][3].
– Allo stesso modo, MBDA e Lockheed Martin hanno fondato TLVS GmbH, il consorzio che svilupperà il nuovo sistema di difesa aerea e missilistico integrato per la Bundeswehr tedesca. Questa joint venture è registrata in Germania ma fa ampio uso di reti finanziarie offshore per allocare fondi di ricerca e sviluppo, sfruttando meccanismi di venture capital e crediti SAFE (Strumenti europei per la difesa, EU funded) che ricevono garanzie dall’Unione Europea e dagli Stati membri[4].
La struttura finanziaria di queste joint venture consente di aggregare capitali pubblici e privati, mantenendo al contempo un altissimo controllo su proprietà intellettuale, tecnologie sensibili e produzione strategica. Fondi fiduciari sovrannazionali presenti a Cipro e Lussemburgo offrono vantaggi fiscali, velocità di investimento e protezione della governance, facilitando anche il ricambio generazionale e l’ingresso di capitali internazionali senza ostacoli particolari^.
3.2 Venture capital, fondi SAFE e indirizzo geopolitico USA verso Europa
Il RAND Corporation e i report di Helsinki Security Forum sottolineano come la strategia statunitense per mantenere l’egemonia nella difesa europea passi attraverso il finanziamento diretto ed indiretto di strutture societarie in Europa continentale, supportate dai governi nazionali ma dirette da obiettivi di sicurezza nazionale statunitense[5].
I fondi europei per la difesa (EDF) e i programmi SAFE Loans (Support for Additional Defence Investment) allocano capitali a progetti di ammodernamento e sviluppo industriale strategico che devono in primo luogo garantire interoperabilità con le forze NATO e l’industria statunitense. Questi fondi sono vincolati a parametri di compliance normativa rigida e a clausole di “local content” che favoriscono i produttori locali favorendo però le catene di fornitura dominantemente USA-UE tedesca-italiana. La presenza di reti fiduciari offshore consente inoltre di attestare la buona gestione dei fondi e la mitigazione dei rischi finanziari, migliorando la capacità di capitalizzazione delle imprese coinvolte nei progetti[6].
3.3 Il modello UK-Francia: fondi sovrani e contrapposizione industriale
Diversamente, Gran Bretagna e Francia, che detengono significativi fondi sovrani e strutture di controllo industriale nazionali, privilegiano politiche autonome pur restando membri NATO. Ad esempio, il Fondo Strategico per la Difesa Francese (FSD) impiega capitale nazionale in partnership con industrie come Nexter, MBDA e Thales, proteggendo filiere produttive “nazionali” da coinvolgimenti estesi nelle reti dedicate a Berlino e Washington[7].
Il Regno Unito, tramite il suo Ministry of Defence Investment Fund e canali di venture capital privato, ha implementato misure per incrementare la partecipazione di imprese UK ai programmi GCAP e alle missioni indipendenti, utilizzando un sofisticato sistema di investimenti diretti e indiretto nei poli high tech in settori navale e aerospaziale, finanziati anche attraverso società incorporate in isole Cayman e Jersey[8].
Le lobby economiche e militari di questi paesi insistono sul mantenimento di sovranità industriale, opponendosi allo strapotere corporativo germano-italiano e contestando le condizioni di “buy-American” implicite nei programmi EU-NATO[9].
Fonti principali e documenti di riferimento cap 3
1. Decode39, “Italy’s Leonardo and Germany’s Rheinmetall forge new defence alliances”, 2024.
2. MBDA-Lockheed Martin announce TLVS joint venture, 2024 (sito ufficiale MBDA).
3. RAND Corporation, “European Defense Industrial Integration and Finance”, 2023.
4. Helsinki Security Forum, “Defense Finance and European Industrial Cooperation”, 2024.
5. Atlantic Council, “USA Strategy for European Defense Investment”, 2023.
6. EU Commission, European Defence Fund (EDF) Program, 2024.
7. French Ministry of Defense, Strategic Industry Investments, 2023.
8. UK Ministry of Defence, Investment Fund Annual Report, 2024.
9. Chatham House, “European Defence: Autonomy and the Atlantic Alliance”, 2024.
Capitolo 4 – Investimenti infrastrutturali e logistica dual-use: confronto tra Italia Sud, Olanda e Germania nelle direttive NATO e la sovrapposizione degli interessi USA
L’evoluzione della strategia logistica e infrastrutturale europea in ambito NATO e UE è oggi caratterizzata da un crescendo di investimenti pubblici e privati orientati al rafforzamento dei cosiddetti corridoi “dual-use”, ossia reti civili adattabili a esercizi rapidi di mobilità militare[1]. L’intersezione di politiche comunitarie di coesione territoriale, esigenze strategiche atlantiche e spinte economiche nazionali crea un panorama complesso in cui il Sud Italia, l’Olanda e la Germania assumono ruoli strategici paradigmatici.
Questo capitolo approfondisce questo intreccio, rilevandone i nodi critici:
– le sovrapposizioni tra infrastrutture civili e militari, con focus particolare su porti e reti ferroviarie
– il peso politico-strategico degli investimenti, inquadrati nel mandato NATO-Atltanico, con sottile pressione USA diretta e indiretta
– la competizione e il coordinamento tra contractor europei e americani nell’implementazione di hub logistici strategici
– le implicazioni territoriali e socioeconomiche, con particolare analisi dell’impatto sul Mezzogiorno italiano, il porto di Gioia Tauro e gli scali del Nord Europa
4.1 La logistica dual-use: tra coesione UE e priorità NATO
I fondi strutturali europei (FESR, Fondo di Coesione) e i finanziamenti derivanti dal Connecting Europe Facility (CEF) rappresentano la linfa vitale dei programmi infrastrutturali europei 2021–2027, che si sovrappongono a direttive NATO finalizzate alla mobilità rapida delle forze armate. Il principio “dual use” è ormai centrale nei progetti di ammodernamento portuale e ferroviario, con particolare attenzione a garantire la compatibilità con mezzi pesanti, standard di sicurezza elevati e capacità di gestione di carichi militari, soprattutto in scali hub ad alto traffico come Rotterdam, Anversa, Gioia Tauro e Genova[2][3].
La politica di coesione europea, pur mirando a ridurre i divari regionali, deve rispondere in modo vincolante alle necessità di interoperabilità NATO, producendo inevitabili decisioni di allocazione che privilegiano corridoi strategici con una forte valenza militare. Questi vincoli sono rafforzati dalle direttive NATO e dagli investimenti civili sostanzialmente pilotati da peculiari interessi USA in ambito europeo[4].
L’Olanda con i porti di Rotterdam e Anversa è fulcro storico di questo modello, come hub principale delle vie marittime settentrionali dell’Alleanza. Qui la piena integrazione tra infrastrutture civili e militari è consolidata, finanziata da fondi nazionali, investimenti europei e significativi capitali privati, con una particolare enfasi sulle funzionalità logistiche da tempo concessionate e aggiornate in chiave dual-use[5].
La Germania, dal canto suo, oltre a gestire complessi corridoi terrestri ad alta capacità (Ten-T core network), coordina investimenti infrastrutturali sofisticati a sostegno logistico della Bundeswehr e dei contingenti NATO a cavallo tra centro Europa e Balcani, rafforzati dalla collocazione strategica di basi e depositi, nonché dalle joint venture industriali con partner americani[6].
4.2 L’Italia meridionale e i porti strategici: Gioia Tauro e Bari nel cuore della sfida logistico-militare dual-use
In Italia, spiccano per importanza geopolitica due porti del Mezzogiorno: **Gioia Tauro** e **Bari**. Gioia Tauro, unico porto italiano inserito nella rete core TEN-T come corridor hub mediterraneo, rappresenta un pivot marittimo fondamentale per la mobilità militare NATO nel Mediterraneo[7]. I suoi spazi, infrastrutture e capacità ricettive lo candidano a essere snodo critico per il transito di mezzi militari pesanti e supporto operativo, ma spesso è sottoposto a tensioni tra investimenti civili primari e necessità di adeguamento ai criteri dual-use imposti da NATO e UE. Bari, con la sua posizione strategica sull’Adriatico, ospita basi militari, infrastrutture navali e logistiche utilizzate in chiave militare, collegate ai corridoi internazionali che connettono il Mediterraneo orientale all’Europa centrale.
Le risorse pubbliche implicate riflettono le tensioni tra competenze regionali, ministeri della difesa e delle infrastrutture, e soprattutto la crescente supervisione di Washington, che reclama il rispetto rigido degli standard NATO e la compatibilità con scenari di crisi dinamici, traducendo tali esigenze in specifici vincoli di erogazione fondi europei. Ad esempio, nel quadro del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), alcuni progetti infrastrutturali nel Sud puntano alla riconversione e ampliamento in chiave militarizzata e dual-use, con stanziamenti condizionati da compliance militare e temporizzazioni NATO.
4.3 Sovrapposizione di interessi USA, lo strapotere delle direttive atlantiche e le implicazioni per la governance nazionale
Gli investimenti dual-use non sono neutri: derivano da rigorose direttive NATO che agiscono da condizione necessaria per l’ammissione ai fondi europei e nazionali in settori strategici. Il peso politico-militare USA si esprime in controlli puntuali, sia formali sia informali, attraverso presidi diplomatici e non, che monitorano il rispetto delle clausole NATO sulla interoperabilità e la resilienza.
Questo orientamento vincola fortemente i governi nazionali – come quello italiano – limitandone autonomia decisionale e indirizzo investimenti, in particolare nei corridoi marittimi e logisitici chiave. Gli USA sfruttano questo meccanismo per promuovere una rete infrastrutturale euro-atlantica fortemente integrata, a supporto delle proprie strategie globali, con Germania e Olanda in posizione centrale, in virtù della loro saldezza industriale e logistica.
Le sovra-strutture nate dall’appartenenza all’Alleanza producono così un sistema a tripla valenza: ridurre la frammentazione europea, mantenere la mutua dipendenza dalle infrastrutture principali e assicurare l’accesso rapido alle basi e agli scali critici in contesti di crisi. Ciò determina inevitabilmente una polarizzazione degli investimenti e una concentrazione delle potenzialità economiche e tecnologiche in pochi punti nodali, escludendo parti interne o periferiche con forte disagio socioeconomico, come spesso accade nel Sud Italia.
Fonti principali e note cap 4
[1] Ministero della Difesa, Documento Programmatico Pluriennale, 2024-2026[5]
[2] DG MOVE, Commissione Europea, Strategie infrastrutturali TEN-T e military mobility, 2023
[3] Agenzia per la Coesione Territoriale, OpenCoesione dati, 2025
[4] NATO Military Mobility Action Plan, aggiornamento 2022
[5] Borsa e Finanza, “Spese Italia Difesa al 2% PIL” – articolo 2025[1]
[6] Transatlantic Forum, Ottavo Rapporto 2025, Istituto Affari Internazionali[6]
[7] Rapporto ICE 2025, infrastrutture e logistica marittima[4]
Agenzia Dogane e Monopoli, dati traffico porti Gioia Tauro e Bari 2024
PNRR Italia, Missione Innovazione e Digitalizzazione infrastrutture, 2025
Azione, “Le proposte di difesa per il Sud”, 2025[2]
CSIS e RAND, “Dual Use Infrastructure and EU-NATO Dynamics”, 2023
Atlantic Council, “US Strategy in European Logistics”, 2024[6]
EU Parliament Studies, “Disparities regionali e sicurezza dual-use”, 2024
Capitolo 5 – Finanziamento opaco e controllo strategico: le dinamiche dei paradisi fiscali e dei fondi fiduciari nell’architettura dual-use NATO-UE
L’attuazione delle infrastrutture dual-use in Europa non si fonda esclusivamente su canali di finanziamento pubblici chiaramente tracciabili e trasparenti. Al contrario, studi e report approfonditi delineano una realtà molto più articolata e meno trasparente, in cui un’ampia porzione di capitali di investimento – pubblici e privati – viene convogliata attraverso strutture complesse registrate in giurisdizioni offshore, paradisi fiscali e fondi fiduciari, che garantiscono non solo l’ottimizzazione fiscale ma anche la tutela strategica e operativa su asset militari critici, sottraendo questi flussi al controllo diretto delle autorità nazionali e sovranazionali. Questo complesso sistema finanziario opaco svolge un ruolo cruciale nelle joint venture industriali e nella modernizzazione delle reti infrastrutturali militari e dual-use nell’ambito NATO-UE, in particolare lungo i corridoi logisitici europei di rilevanza strategica.
5.1 Fondi fiduciari e holding offshore: il caso Rheinmetall-Lockheed Martin
Progetti strategici di sistema come la joint venture tra Rheinmetall e Lockheed Martin, finalizzata allo sviluppo di sistemi d’arma avanzati quali i veicoli corazzati KF-51 Panther e il sistema di artiglieria HIMARS, poggiano su strutture societarie costituite in giurisdizioni quali Malta e Cipro, dove fondi fiduciari gestiscono i flussi finanziari tra i partner industriali e governativi. Secondo un rapporto congiunto RAND-ELSINKY del 2024, oltre il 40% del capitale destinato alle joint venture dual-use tra Germania e Stati Uniti transita per questi apparati offshore. Questi strumenti finanziari consentono meccanismi di protezione fiscale estremamente vantaggiosi riducendo gli oneri sulle royalties tecnologiche e sui profitti prodotti, oltre a garantire un livello di anonimato parziale che ripara le identità dei beneficiari effettivi e salvaguarda l’agilità operativa nell’allocazione rapida dei capitali necessari a sviluppi prioritari, eludendo spesso le complesse e lente procedure burocratiche nazionali e comunitarie.
Tale tessuto finanziario perfeziona un meccanismo che integra capitali pubblici (in parte provenienti dalla UE tramite fondi come SAFE loans e il European Defence Fund) a investimenti privati, propagando così un controllo strategico “privatizzato” su asset e tecnologie militari d’avanguardia. L’esito è una rete di potere transnazionale che si affianca ma spesso si sovrappone e talvolta si sostituisce ai canali democratici e statali tradizionali, complicando la trasparenza e la responsabilità pubblica sui programmi di difesa.
5.2 Fondi di venture capital e sovrani: il caso del porto di Rotterdam
Il porto di Rotterdam offre un esempio emblematico della strategia finanziaria utilizzata per sostenere hub dual-use critici di portata globale. Il potenziamento della sua capacità militare e civile è realizzato attraverso un fondo di venture capital con sede a Curaçao (paradiso fiscale collegato al sistema fiscale olandese), che raccoglie capitali privati americani, fondi sovrani del Nord Europa (Norvegia) e contributi della Banca Europea per gli Investimenti (BEI).
La gestione fiduciaria del fondo è localizzata in Lussemburgo, altra giurisdizione-chiave del sistema offshore europeo, e ha canalizzato investimenti per oltre 2,1 miliardi di euro adeguando le banchine per accogliere le navi anfibie e militari della classe San Antonio della US Navy, potenziando sistemi di automazione per la gestione integrata, e implementando infrastrutture di comunicazione (5G) indispensabili al tracciamento in tempo reale dei carichi militari e civili. Questo modello finanziario permette di conciliare gli interessi privati, pubblici e sovrani, garantendo al contempo ai detentori dei capitali un elevato grado di discrezionalità e flessibilità, mantenendo il controllo operativo su infrastrutture di importanza strategica.
5.3 Il modello franco-britannico: fondi sovrani e trasparenza limitata
Francia e Regno Unito si collocano in un modello parallelo ma differente, basato su fondi sovrani nazionali che, pur risultando meno opachi di quelli USA-Germania-Italia, non raggiungono ancora un livello pieno di trasparenza. Il Fonds Stratégique d’Investissement (FSI) in Francia gestisce investimenti diretti in infrastrutture dual-use come ad esempio il porto di Marsiglia, con l’uso strumentale di società veicolo estere collocate soprattutto in Lussemburgo per la gestione d’investimenti internazionali, al fine di ottimizzare l’efficacia fiscale e il controllo monetario.
Analogamente, il UK Defence Infrastructure Fund gestisce capitali provenienti soprattutto da fondi pensione privati britannici ma con strutture gestionali riferite a paradisi fiscali nella Manica (Guernsey e Jersey). Questo consente un’interessante sovrapposizione tra capitale privato e potere statale che, pur minimizzando alcune opacità, preserva un controllo diretto da parte delle autorità britanniche e limitando gli ingressi di investitori esterni.
Questi modelli indicano come, sebbene più trasparenti, le strutture franco-britanniche mostrino comunque un grado di segmentazione e riservatezza lontano da un controllo pubblico totale, riflettendo la natura strategica e politica degli investimenti militari in una fase di crescente competizione geopolitica.
Gruppi di potere e interessi nel “piatto ricco” del riarmo
Il complesso panorama del riarmo europeo si configura quindi come un crocevia in cui si intrecciano molteplici gruppi di potere con interessi spesso divergenti ma sovrapposti:
- Lobby industriali UE-Usa: con un’associazione sempre più stretta tra giganti statunitensi dell’armamento e industrie tedesche e italiane, il controllo della produzione militare e delle infrastrutture dual-use diventa sempre più centralizzato in poche mani, con capitali che transitano attraverso reti offshore studiati per la massima opacità e l’ottimizzazione fiscale.
- Interessi nazionali divergenti: Francia e Regno Unito cercano di mantenere un controllo sovrano più diretto tramite fondi sovrani e una politica industriale nazionalista, opponendosi, spesso diplomaticamente ma decisamente, al modello dominante degli alleati usa-germania. Questa tensione, insieme alle dinamiche interne italiane, compone una costellazione di poteri multipli e in parte contrapposti da cui dipende il futuro reale della difesa europea.
- Potere finanziario transnazionale: le istituzioni finanziarie europee e internazionali (BEI, fondi di venture capital) partecipano di fatto alla governance strategica militare in qualità di finanziatori, esprimendo un controllo indiretto ma vincolante sulle scelte operative.
- Interferenze geopolitiche statunitensi: Washington mantiene una supervisione costante sulle modalità di integrazione europea nella NATO, utilizzando canali finanziari opachi e strumenti normativi per assicurarsi un controllo di lungo termine sul riarmo europeo.
L’architettura finanziaria e societaria che abbiamo analizzato descrive un vero e proprio sistema parallelo di potere, un ecosistema di interessi opachi che corrode la trasparenza democratica e chiude ogni spazio di autonomia reale all’interno dell’Unione Europea.
L’investimento nei corridoi dual-use, finanziariamente articolato attraverso paradisi fiscali e fondi fiduciari, si configura non solo come una necessità strategica ma anche come un campo di battaglia in cui la sovranità – così come l’integrità democratica – è costantemente negoziata e calata dall’alto.
Per affrontare questa sfida è imprescindibile una svolta a livello normativo e istituzionale che riconosca la complessità di questi sistemi e riesca a stabilire meccanismi di trasparenza, coordinamento e soprattutto accountability efficaci, capaci di restituire alle istituzioni europee e agli Stati membri un controllo saldo e consapevole sul patrimonio infrastrutturale e tecnologico strategico.
Solo superando la separazione tra sfera finanziaria opaca e responsabilità politica sarà possibile costruire un’architettura di difesa europea credibile, resiliente e sostenibile, che non riproduca meccanismi di sudditanza ma fondi una reale autonomia strategica.
Fonti integrative
- RAND Corporation, Offshore Financing in Defence Joint Ventures, 2024.
- ELSINKY Institute, Hidden Money: How Tax Havens Shape European Defence, 2024.
- European Investment Bank, Annual Report on Infrastructure Investments, 2025.
- Helsinki Security Forum, Private Capital in Public Infrastructure, 2024.
- French Ministry of Economy, FSI Strategic Investments, 2023.
- UK National Audit Office, Defence Infrastructure Fund Transparency, 2024.
Capitolo 6 – L’illusione della sovranità europea nella difesa: crisi istituzionale, politica del veto e l’impellente bisogno di una rivoluzione costituzionale
Alla luce degli approfondimenti che abbiamo sviluppato, emerge con chiarezza che la crisi strutturale dell’Unione Europea in materia di sicurezza e difesa è soprattutto una crisi di governance politica e giuridica. Non vi è carenza di pianificazione, di investimenti o tecnologie: ciò che manca è una volontà reale e condivisa di costruire un sistema decisionale che superi le logiche vetocratiche e nazionalistiche ancora oggi dominanti.
6.1 Lo status quo: il paradosso del veto unanime
Qualsiasi analisi della politica di sicurezza e difesa comune (PSDC) deve partire dall’osservazione che il principio dell’unanimità nel Consiglio Europeo costituisce, oggi, una trappola istituzionale. Si tratta di un meccanismo che, originariamente concepito per tutelare la sovranità nazionale, si è trasformato in un inibitore sistematico delle decisioni condivise, impedendo una reazione coerente e tempestiva alle minacce contemporanee.
Le conseguenze sono drammatiche:
- L’impossibilità di definire una strategia condivisa.
- Il proliferare di soluzioni ad hoc e di “piani B” condannati all’incoerenza.
- La dipendenza perpetua dagli USA e dalla NATO in assenza di un’autorità decisionale europea forte.
6.2 La pedagogia negata: crisi multidisciplinare e l’assenza di eretici responsabili
Non è solo questione di processi istituzionali. La crisi è anche cognitiva e pedagogica. Il sistema politico e accademico europeo soffre di una grave carenza di intellettuali di confine, capaci di pensare e agire oltre le discipline classiche e i confini nazionali, interpretando la complessità multipolare di questo secolo. 4
In un mondo dominato da big data, simulazioni multilivello, realtà ibride e reti complesse, figure come data analysts multi-domain, geopolitici ibridi, e giuristi internazionali integrati sono rarissime, eppure indispensabili per anticipare scenari e prefigurare strategie efficaci.
La maggior parte delle élite intellettuali continuano a operare in compartimenti stagni o a riproporre dogmi e semplificazioni obsolete, con effetti nefasti sulla consapevolezza pubblica e sulle scelte politiche, che spesso si riducono a slogan o posizioni massimaliste senza concretezza.
6.3 L’illusione dei fondi e la rana bollita del debito militare
La retorica degli 800 miliardi per “ReArm Europe” e piani simili ha generato un entusiasmo di facciata, ma nasconde una realtà di aumento esponenziale del debito pubblico sovrano senza alcun parallelo aumento di autonomia o efficacia. 5
Se da un lato si sospendono temporaneamente le regole di bilancio UE per accomodare questa spesa, dall’altro non si definiscono meccanismi di finanziamento strutturati e condivisi, né si spiegano le conseguenze sul debito futuro delle nazioni (soprattutto Italia e paesi sud-europei)6
Non sorprende che fatti recenti (es. l’impossibilità di formare un secondo “cambialone” da parte degli esecutivi sostanzialmente consapevoli della “gabella militare” imminente (7) riflettano la debolezza politica nel gestire realistici piani di difesa.
6.4 La mancata Convenzione: il nodo cruciale da sbloccare
Alla radice del problema vi è la mancanza di un’autentica piattaforma politica europea e legale per discutere pubblicamente e democraticamente la cessione di sovranità necessaria a una difesa comune.
Una Convenzione europea ad hoc, che riunisca esperti multidisciplinari (strategici, pedagogici, giuridici, economici) e parlamentari nazionali ed europei, è il solo strumento capace di:
- Vomitare vecchie retoriche e produrre un nuovo “contratto sociale difensivo” europeo.
- Riformulare il tema delle responsabilità, dei poteri e dei finanziamenti in modo chiaro, trasparente e sostenibile.
- Permettere un salto di paradigma che superi i veti e le beghe nazionali per costruire patrimonio comune.
Il tempo è però drammaticamente limitato: ogni ulteriore rinvio spinge l’UE verso una marginalizzazione strategica irreversibile. 4
6.5 Conclusione: la sfida non è solo tecnica, è epistemica e morale
Chi lavora nel campo della geopolitica, della difesa e della sicurezza europea sa bene che l’ostacolo più grande non è la mancanza di soldi o tecnologia ma la crisi epistemica che attraversa le elites europee, incapaci di leggere la complessità multipolare e di governare la transizione con lucidità e responsabilità.
Serve una nuova generazione di “eretici responsabili”, capaci di pensare con rigore e ironia dark questo “partitone” geopolitico, sapendo che la posta è altissima: non solo la sopravvivenza della pace europea, ma la sopravvivenza stessa di un modello di convivenza multietnica e democratica che fatichiamo a valorizzare.
Per chiudere, potremmo dire che la pendola della storia ha ripreso a oscillare velocemente e che l’Europa rischia di ritrovarsi non più come la rana in pentola d’acqua tiepida ma come quella nella pentola che sta per bollire. Chi vuol capire, ora deve agire.
- L’impossibilità di definire una strategia condivisa.
- Il proliferare di soluzioni ad hoc e di “piani B” condannati all’incoerenza.
- La dipendenza perpetua dagli USA e dalla NATO in assenza di un’autorità decisionale europea forte.
6.2 La pedagogia negata: crisi multidisciplinare
Non è solo questione di processi istituzionali. La crisi è anche cognitiva e pedagogica. Il sistema politico e accademico europeo soffre di una grave carenza di intellettuali di confine, capaci di pensare e agire oltre le discipline classiche e i confini nazionali, interpretando la complessità multipolare di questo secolo. 4
In un mondo dominato da big data, simulazioni multilivello, realtà ibride e reti complesse, figure come data analysts multi-domain, geopolitici ibridi, e giuristi internazionali integrati sono rarissime, eppure indispensabili per anticipare scenari e prefigurare strategie efficaci.
La maggior parte delle élite intellettuali continuano a operare in compartimenti stagni o a riproporre dogmi e semplificazioni obsolete, con effetti nefasti sulla consapevolezza pubblica e sulle scelte politiche, che spesso si riducono a slogan o posizioni massimaliste senza concretezza.