GUERRA DEI DAZI, di Michele Rallo

O FINE DELLA GLOBALIZZAZIONE?

Le opinioni eretiche

di Michele Rallo

GUERRA DEI DAZI O FINE DELLA GLOBALIZZAZIONE?

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Che cosa sta succedendo? Crollo dei mercati? Recessione? Guerra commerciale planetaria?

Al netto degli atteggiamenti arroganti, delle sparate propagandistiche e, in ultima analisi, degli errori di comunicazione di Donald Trump, la risposta è NO. Molto più semplicemente, siamo in presenza di un cambio di direzione – radicale, estremo, a 180 gradi – della politica economica degli Stati Uniti, e della reazione spasmodica dei perdenti: negli stessi USA, innanzitutto, e poi nel resto del mondo.

Chi sono i perdenti? I “mercati” o, meglio, le grandi multinazionali che dominano i mercati e che dietro i mercati si mimetizzano e si nascondono. Sono loro, in primissimo luogo, ad essere penalizzate dai dazi trumpiani, perché da oggi in poi non potranno più indulgere al loro giochetto preferito: “delocalizzare”, andare a fabbricare in Cina o nel terzo mondo a costi irrisori, per poi vendere i prodotti finiti sul mercato americano a prezzi salatissimi; con ciò non soltanto realizzando profitti da capogiro, ma anche ottenendo l’effetto collaterale di mettere in ginocchio la concorrenza della piccola imprenditoria, non in grado di rivaleggiare con costi di produzione “cinesi”.

Quando giornali e telegiornali ci dicono che nel tal giorno sui mercati sono stati “bruciati” tot miliardi di dollari, non è affatto vero, perché i soldi non si “bruciano”, non si dissolvono, non si distruggono. Cambiano soltanto di mano. Quello che qualcuno perde, qualcun altro guadagna. Nello specifico, sono state soprattutto le grandi multinazionali col vizietto della delocalizzazione a perdere denaro, attraverso il deprezzamento dei loro titoli azionari. Ma quel denaro è stato al tempo stesso guadagnato da qualcun altro, per esempio attraverso l’acquisto a prezzi vantaggiosi, talora vantaggiosissimi di quelle stesse azioni, con concrete prospettive di futuri (ed ingenti) guadagni. Nel gioco dei mercati, una “giornata nera” per qualcuno corrisponde quasi sempre ad una “giornata rosa” per qualcun altro.

A prescindere dai miliardi non bruciati, comunque, quello che Trump ha avviato è un cambiamento di proporzioni gigantesche, certamente positivo, enormemente positivo. In prospettiva, naturalmente, fatti salvi gli inevitabili contraccolpi negativi nell’immediato. Così come gli effetti potrebbero essere positivi anche in Europa, se anche in Europa, invece che fare da cassa di risonanza per le doglianze dei “mercati”, si avrà il coraggio di adottare un radicale cambio di passo; meglio se bonificato da certe stupidissime “riforme” ed accompagnato dal ritorno alla collaborazione economica con la Russia.

Ma, al di là delle misure contingenti, in che cosa consiste il cambiamento trumpiano? In sintesi, nel ripudio della globalizzazione e nel ritorno al vecchio e sperimentato protezionismo. Il che vuol dire buttare a mare tutta la storia americana del XX secolo e dei primi decenni del XXI, e ritornare all’America profonda dell’Ottocento, con una ricchezza (crescente) che era riversata sul popolo, e non riservata al grande capitale speculativo, come avvenuto poi con la globalizzazione.

È stato il grande capitale speculativo anglosassone – peraltro con quartier generale a Londra e non a Washington – a determinare la fine del protezionismo USA; e a determinare anche l’affermarsi di quella politica di “libertà dei commerci” che ha impoverito il popolo americano ed ha arricchito le grandi multinazionali ed il grande capitale. Ed è stato sempre in nome della “libertà dei commerci” che l’America ha intrapreso due guerre mondiali e le altre che sono seguìte (ultima, quella camuffata da guerra russo-ucraina) con la scusa – bugiarda – di voler esportare la democrazia anglosassone in tutti gli angoli del globo terraqueo.

Ci ricordiamo dei “Quattordici Punti” con cui il Presidente Wilson dettò le regole cui il mondo avrebbe dovuto soggiacere dopo la prima guerra mondiale? Del terzo di quei punti, in particolare: «Soppressione, fino ai limiti del possibile, di tutte le barriere economiche e stabilimento di condizioni commerciali uguali per tutte le nazioni che consentono alla pace e si accordano per mantenerla.»  Era il manifesto della globalizzazione ante litteram, il grimaldello che doveva consentire all’alta finanza anglo-americana di invadere il mondo con i suoi “commerci” e con le sue manovre finanziarie. E non a beneficio del popolo americano, ma a proprio profitto, a profitto cioè di quella ristrettissima cerchia di manovratori e speculatori che dei “commerci” mondiali muovevano le fila. Ieri come oggi.

Certo, nell’immediato è difficile cogliere la vastità della rivoluzione protezionista che adesso muove i primi passi. Quello che emerge è la “guerra dei dazi” con le sue conseguenze immediate sulle economie degli altri paesi. Fino a quando gli altri paesi – a cominciare dal nostro – non si renderanno conto che un ritorno al protezionismo sarebbe certamente utile anche per loro. Che sarebbe cosa buona e giusta riversare i frutti della crescita economica sulle rispettive popolazioni, e non consentire che ad avvantaggiarsene siano i soliti magnati delle multinazionali e dell’alta finanza.

I dazi – lo ricordo – sono sempre esistiti: come strumento atto a proteggere le produzioni economiche degli Stati (anticamente anche di singoli comuni) dalla concorrenza di altri paesi. Erano uno strumento di difesa degli interessi nazionali. E la loro graduale attenuazione è andata di pari passo con la attenuazione della difesa degli interessi nazionali, a pro di una ristrettissima cerchia di manovratori dell’ipercapitalismo parassitario.

Ben venga, quindi, una ragionevole rivalutazione dei dazi, a scapito dell’alta finanza. Purché tale rivalutazione non sia limitata ad un solo paese. Purché – tanto per intenderci – invece di studiare velleitarie “vendette” che farebbero il solletico agli Stati Uniti, ci si attrezzi per ritornare al protezionismo anche dalle nostre parti, per proteggere le nostre produzioni, la nostra economia, i nostri interessi. Anche a costo di dare un dispiacere ai “mercati” e alle banche “d’affari”.