ELEZIONI POLITICHE! UNO SGUARDO AI PROGRAMMI, di Giuseppe Germinario

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Nella prima repubblica, quindi sino agli anni ’80, la distinzione tra i partiti avveniva analizzando soprattutto i loro programmi, in particolare quelli elettorali. Essi corrispondevano a peculiari rappresentazioni ideologiche e modelli di società. Erano le sintesi e i manifesti elaborati da gruppi dirigenti inquadrati, discussi nelle sezioni di militanti e proposti a segmenti relativamente stabili dell’elettorato. Le strategie, le tattiche, le trame e gli orditi avevano anche allora la preminenza ma erano tracciate entro perimetri più delimitati e con altra circospezione. I programmi, infatti, facevano riferimento a progetti, modelli di sviluppo e di governo del paese. Modelli per lo più fumosi e generici, privi di concretezza ma che rappresentavano, per lo meno, il tentativo di inserire le rivendicazioni secondo priorità e ambizioni di costruzione di un paese se non di una nazione. Le “riforme di struttura”, la programmazione, il “modello di sviluppo”, il ruolo delle partecipazioni statali erano la cornice positiva, per quanto generica e inconcludente, di costruzione di un paese e di una identità entro la quale inserire le politiche redistributive secondo le varie accezioni politiche. Attorno ad esse si coagulavano le iniziative e i conflitti assumendo una dimensione unitaria.

Le campagne elettorali del nuovo millennio hanno assunto progressivamente come guida, al contrario, alcuni principi fondatori dalla veste apparentemente più nobile quanto astratta: l’eguaglianza, il merito, l’ordine, la libertà, l’onestà. Ci si sarebbe aspettati un confronto politico da peripatetici; si è assistito, invece, ad un imbarbarimento, tipico delle battaglie politiche legate a principi assoluti, ma del tutto ipocrita e sempre più legato ad interessi particolaristici.

Le cause sono molteplici: la discriminante della lotta di classe, in verità sempre più sfumata e indeterminata, scissa da un’idea di emancipazione o costruzione nazionale; l’europeismo teso alla costruzione di una entità politica sulle ceneri degli stati nazionali ma priva, per manifesta volontà, incapacità e impossibilità, di un amalgama identitario sufficiente a tenere insieme in condizione autonoma un continente; l’identificazione dominante dell’idea di nazione e di sovranità con l’avventura nefasta del fascismo sono quelle che più hanno segnato le vicende politiche dell’Italia repubblicana. Sono per altro servite a nascondere il pesante retaggio della sua fondazione sino ad ora accuratamente rimosso: essere nata da una catastrofica sconfitta militare che ha liberato il paese dalla oppressione militare più odiosa, mantenendola però in una condizione analoga sotto gli attuali “liberatori”.

La campagna elettorale in corso rappresenta infine la definitiva trasformazione in mercato del bacino elettorale. Ne consegue la netta prevalenza degli aspetti redistributivi nei programmi elettorali e della campagna di denigrazione della credibilità e della coerenza ai principi delle forze politiche e dei leaders avversari.

Per esprimere un giudizio più ponderato si dovrebbe piuttosto concentrare l’attenzione su altri temi rimasti in ombra ma rivelatori dei limiti strategici dell’azione delle formazioni politiche: la riorganizzazione istituzionale, l’Unione Europea, la politica industriale e la coesione sociale.

LA RIORGANIZZAZIONE ISTITUZIONALE

È il grande buco nero creato dalla scellerata gestione delle riforme istituzionali ad opera del Partito Democratico di Renzi e culminata con la sonora sconfitta ai referendum del 2016.

È un tema dirimente perché una riforma efficace, quale non era quella proposta da Renzi, avrebbe consentito la formazione e l’operatività efficace ed incisiva di una classe dirigente attraverso una parziale ricentralizzazione e una ridefinizione della gerarchia di competenze, una responsabilizzazione dei quadri direttivi e una ridefinizione degli equilibri e della divisione dei poteri fondamentali.

Sarebbe stato un obbiettivo perseguibile solo se assecondato da un programma di rinascita nazionale e di ricostruzione identitaria sulla base dei quali compattare la formazione sociale e ricostruire i rapporti con i paesi europei più importanti. Una ambizione che sia il Partito Democratico sia Forza Italia, i due partiti nazionali superstiti, si sono costitutivamente rivelati incapaci di perseguire.

L’imbarazzo con il quale il tema viene riproposto e liquidato nel programma del PD è del resto del tutto evidente.

Non è nemmeno la mancanza più grave.

La sconfitta ha provocato naturalmente un moto opposto di reazione che ha reinnescato in particolare un confuso processo di decentramento di competenze alle regioni.

Un processo opaco e pericoloso perché poggia su una confusione ed una sovrapposizione di competenze; perché consente alle regioni la possibilità di scegliere ordinamenti organizzativi diversi su medesime attribuzioni; perché alcune pertinenze sono chiaramente al di fuori della portata e della opportunità di questi enti; perché non accompagnato da una indicazione di riduzione del numero delle regioni; perché è inserito in una consuetudine ormai consolidata di rapporti sempre più diretti e spesso concorrenziali rispetto alla Stato Centrale con gli organismi comunitari.

Per altri versi quell’esito può avere una influenza diretta sul processo di evoluzione dei due principali partiti attualmente di opposizione.

Riguardo alla Lega rischia di rallentare ed annacquare il processo di trasformazione in partito nazionale legittimando e offrendo ulteriori argomenti alla sua visione di Italia dei popoli; riguardo al M5S rafforzerebbe la sua concezione illusoria e fuorviante di istituzioni “tanto più democratiche ed efficaci quanto più prossime fisicamente e territorialmente ai cittadini”.

Un processo di evoluzione di per sé già fragile e precario per questi due partiti e in evidente regressione per gli altri vista, tra i vari aspetti, la debolezza assertiva dei programmi nella definizione dei livelli e delle procedure di competenza, nell’affermazione del ruolo di interposizione dello Stato Centrale nei rapporti tra UE e amministrazioni periferiche, nella individuazione e capacità di creazione di agenzie abilitate al coordinamento e all’assistenza tecnica in ambiti interregionali specifici come quello delle infrastrutture strategiche.

Ci sarebbero altri ambiti meritevoli di approfondimento, tra questi quello del rapporto e delle funzioni sempre più debordanti degli ordinamenti giudiziari; ma questi sembrano i più rilevanti soprattutto perché meno scontati rispetto alla coerenza ideologica delle varie formazioni politiche.

UNIONE EUROPEA

La politica europea rappresenta il contesto imprescindibile principale e prossimo entro il quale devono agire i governi nazionali.

In questo articolo si trascura coscientemente il ruolo di subordinazione della nostra collocazione atlantica entro il quale continua a delinearsi lo stesso processo unitario europeo. Questo perché è un tema del tutto ignorato o ricondotto opportunisticamente all’ordine, ancor più in questa fase cruciale, dalle forze politiche.

Sulla UE il divario tra l’enfasi retorica e le proposte politiche è netto soprattutto nel programma del PD.

Quest’ultimo, sulla scia dell’onda macroniana in Francia, ha riproposto l’obbiettivo ambizioso degli Stati Uniti d’Europa. I concreti passi principali sostenuti nel programma sono al contrario diretti al sostegno e alla partecipazione ai “rapporti di cooperazione rafforzata” tra i soli paesi effettivamente intenzionati ad accelerare i processi di integrazione; un modo di eludere così l’ostruzionismo e l’opposizione della gran parte degli altri, specie centrorientali.

Proclama di affidare agli organismi rappresentativi diretti dei cittadini europei la responsabilità e il controllo delle nuove competenze, soprattutto economiche e di finanza pubblica, quando in realtà sono i capi di governo degli stati nazionali a dover varare e gestire per lungo tempo queste competenze in un lungo processo di transizione e a doversi assumere l’onere delle garanzie e delle coperture di eventuali dissesti, ammesso che questo riesca ad andare avanti significativamente.

La parola magica attualmente in auge in casa democratica è “sublimazione” dell’interesse nazionale in quello europeo. Continua a significare in realtà che si prosegue nell’ottica di un interesse nazionale sacrificabile al superiore cospetto di un presunto interesse europeo; i restanti paesi, meschini, continuano ovviamente a vedere l’Unione Europea come un particolare campo di azione nella difesa degli interessi nazionali. Le delocalizzazioni, la vicenda Embraco, quella della sede dell’Agenzia Europea del Farmaco sono solo gli ultimi esempi di questa impostazione fallimentare che ha portato all’isolamento politico dell’Italia, alla distruttiva sottovalutazione per decenni della necessità di preservare presenze qualificate nei posti chiave delle strutture comunitarie e all’accecamento pervicace nella retorica europeista di ogni sussulto nazionale.

Le oscillazioni opportunistiche del M5S non consentono una valutazione attendibile e credibile del programma sull’argomento. I passi di avvicinamento ad un eventuale incarico di governo lo stanno effettivamente spingendo verso la progressiva accettazione dello statu quo e verso una fiducia sempre più riposta nelle capacità autoriformatorie del sistema e purificatrici dei rituali referendari e di democrazia rappresentativa senza popolo corrispondenti.

La Lega sembra avere un programma più lineare legato al recupero del principio di superiorità della giurisdizione nazionale rispetto alle deliberazioni della UE, del principio di autonomia di bilanzio rispetto ai limiti imposti dai vincoli europei. In nome dell’alleanza di centrodestra ha scelto la strada del perseguimento di trattative interne alla UE le quali consentano le modifiche di regolamenti, politiche e vincoli. Non è chiaro come questo sia possibile nell’ottica di una unione di tutti i paesi europei così discordi sulle prospettive del processo unitario e se questa trattativa sarà condotta più credibilmente sotto la spada di Damocle di una fuoriuscita dell’Italia dalla Unione. Quello che lascia perplessi è la sottovalutazione della tentacolarità del sistema comunitario e della ricchezza del campionario di politiche e strumenti in grado di garantirne l’operatività le quali vanno ben oltre il sistema monetario e i vincoli di finanza pubblica.

LA POLITICA INDUSTRIALE 

Le attività economiche, in particolare quelle industriali, sono la base creatrice della ricchezza e delle risorse necessarie alla forza e alla potenza di uno stato; uno dei fondamenti sui quali si articolano le differenziazioni di status e sociali e sui quali si base la coesione delle formazioni sociali. L’Italia negli ultimi quarant’anni ha visto logorarsi inesorabilmente l’equilibrio tra attività strategiche ed attività complementari, tra il peso e il ruolo guida della grande industria e quello delle medio-piccole, tra il controllo nazionale diretto e indiretto delle attività strategiche e lo sviluppo necessario delle capacità imprenditoriali a discapito dei primi rispetto ai secondi. Al lento e inesorabile declino dell’industria pubblica ha risposto rinunciando con leggerezza e indifferenza, in realtà con connivenza, al controllo dei settori strategici e alla quasi totalità della grande e media industria. Con questo ha esposto alla precarietà e alla subordinazione interi settori vitali per il paese, dall’agricoltura, alla distribuzione, ora al settore finanziario e a quelli trainanti nella chimica, elettronica e meccanica. Con questo ha rinunciato di fatto all’ambito più remunerativo dello sviluppo tecnologico e della ricerca scientifica; quello dell’applicazione collaudata in grande piattaforme industriali. È sempre più assente, per mancanza di soggetti e attori idonei, nei processi europei contrattati politicamente di fusione ed integrazione delle grandi imprese. Tutti i programmi di fatto ignorano o sottovalutano questi aspetti cruciali in grado di pregiudicare pesantemente il futuro del paese.

Si va dall’aperto disconoscimento del problema come deducibile dal programma del PD, salvo poi indignarsi a disastri in corso del carattere predatorio e “incivile” del comportamento delle multinazionali, come nel caso della Embraco e dell’insufficienza degli investimenti in ricerca e in prodotti innovativi. Calenda, nel caso, pur sapendo che l’accordo di tre anni fa con Whirpool prevedeva solo una deroga alla decisione di trasferimento, ha dimostrato di sape svolgere la funzione di prefica. Sta di fatto che il PD intende perseverare nella politica indifferenziata di incentivazione degli investimenti in tecnologia, utile tutt’al più a garantire al meglio la sopravvivenza e perpetuazione degli attuali settori nell’attuale suddivisione della divisione del lavoro, nonchè nell’atteggiamento di perfetta indifferenza, smentito a malincuore solo da alcune eccezioni, riguardo al controllo e vincolo nazionale di determinate imprese e settori. L’unico spazio concesso all’iniziativa politica riguarda le politiche fiscali e di infrastrutturazione. Un tema già ampiamente trattato in altri articoli.

Il programma del M5S non si distanzia di molto da questo approccio se non nell’enfasi riposta alle politiche ecologiche e di investimento nell’economia circolare e verde con riguardo al mero sostegno degli investimenti pubblici e con una considerazione pressoché inesistente della funzione della grande industria. Da stendere un velo pietoso riguardo all’attenzione sull’industria militare e sulla commistione tra ricerca scientifica militare e implicazioni nelle applicazioni civili. Decisamente approssimativo l’intento della istitituzione di di una banca per l’impresa senza una parola sul futuro di Cassa Depositi e Prestiti e senza un accenno sulla necessità di convogliarvi il risparmio nazionale. Che banca sarebbe, altrimenti? In sostanza un programmino diligentemente attinto e copiato qua e là dai vari centri studi.

La Lega di fatto si differenzia soprattutto per una enunciazione di principio sulla difesa della grande industria strategica senza ulteriori concrete considerazioni.

Colpisce, soprattutto, in tutti l’assoluta ignoranza dei pesanti influssi inibitori delle direttive comunitarie in materia di concorrenza, di investimenti in infrastrutture alla formazione di nuova grande imprenditoria nazionale. Una politica che di fatto favorisce lo statu quo degli assetti imprenditoriali e una politica di dumping fiscale dei paesi emergenti tesi ad attirare le attività senza possibilità di condizionare le scelte e la composizione imprenditoriale. Il discorso sarebbe molto lungo.

Una ignoranza del tutto comprensibile e consapevole per quanto riguarda il PD, scontata riguardo al M5S, colpevole riguardo alla Lega.

Tutto verte, quindi, su una politica di detassazione, di riduzione dei cunei fiscali, di alimentazione velleitaria della domanda interna grazie ad un trasferimento di risorse da pubblico ai cittadini, quasi che la spesa pubblica non alimenti anch’essa, almeno teoricamente, la domanda e quasi che la maggiore disponibilità dei privati alimenti di per sé gli investimenti.

LE POLITICHE DI COESIONE SOCIALE

Tralascio per mancanza di tempo l’esame su questi aspetti dei programmi di Forza Italia e di LeU. La prima perché molto simile a quella del PD, i secondi perché si riducono ad una sorta di bollettino di rivendicazione sindacale che ha come presupposto che i veri detentori del potere sono “quelli della grande finanza”.

Il discorso della coesione sociale meriterà di conseguenza un approfondimento apposito da riservare in un prossimo futuro.

Riguarda senza dubbio l’ambito culturale sedimentato e la rappresentazione ideologica di una comunità grazie al ruolo più o meno efficace svolto dalle élites nel plasmare un’identità e nel far accettare la “missione” e i modi di vivere comprese le differenziazioni, le selezioni e le particolari modalità di governo dei contrasti. Un aspetto sempre meno presente nelle enunciazioni man mano che lo sguardo politico si volge alla sinistra, ma comunque praticato vista la attenzione e il successo con i quali, nei decenni, le varie sue componenti hanno saputo egemonizzare gli spazi. Riguarda anche, ovviamente, l’ambito socio-economico, certamente più congeniale alla tradizione progressista.

Nell’intero ambito dell’arco costituzionale, con la parziale eccezione della Lega, si va facendo strada progressivamente una politica redistributiva che prescinde dal successo delle politiche industriali e dalla connessa autorevolezza politica di uno stato e di un paese che ne consentano lo sviluppo. Sulle pensioni, sul reddito di cittadinanza, sul salario garantito si sta assistendo all’affermazione di una concezione assistenzialistica e plebea, di appiattimento al ribasso della distribuzione di risorse sempre più sganciata dalla differenza di funzioni e di competenze e legata sempre più, nella articolazione, alle differenze di status e neocorporative. Sono politiche che vanno di pari passo con i processi di precarizzazione e di degrado legati alla riorganizzazione industriale specie nelle aree in declino.

Esiste certamente un livello di degrado talmente basso da pregiudicare le possibilità di rinascita di un paese; in questo caso una politica di prevalente redistribuzione egualitaria potrebbe contribuire a porre le basi minime di sviluppo e di emancipazione in una società. In una situazione di degrado seria ma non ancora generalizzata, quale quella dell’Italia, una piatta politica redistributiva contribuisce facilmente all’ulteriore declino delle motivazioni e allo sviluppo abnorme di una economia informale e precaria nemica di un paese e di una nazione forte, coesa e motivata. Sono politiche che abbiamo già visto all’opera spesso, ad esempio, nei paesi dell’America Latina con esiti alla lunga altrettanto disastrosi di quelle recessive. La grottesca fiera di promesse alla quale abbiamo assistito in questa campagna elettorale sono il segno appunto di questo declino e del carattere miserabile e ottuso della quasi totalità di questa classe dirigente. In questa condizione rischia di sopravvivere il gruppo dirigente più coeso, coerente e determinato, magari sotto mutate spoglie. C’è già pronto Macron ad offrire in Europa la necessaria nuova copertura politica.  Nella fattispecie, paradossalmente, rischia di essere appunto il gruppo dirigente maggiormente responsabile della attuale situazione del nostro paese.

Manca appena una settimana alla apertura delle danze. Non resta che aspettare trepidanti.