gli auguri di Antonio de Martini

DUE ESEMPI

Il discorso di fine anno della regina Elisabetta II mi ha dato da pensare anche perché lo ha dedicato a un tema che ho trattato poco tempo fa sul post parlando degli inglesi: il Brexit li ha divisi e la divisione dei cittadini può essere l’inizio della fine se non si ferma lo scivolamento.
Noi non l’abbiamo fermato.

Il secondo pensiero è personale: la regina non si è soffermata sui dettagli del dibattito, ma sul punto strategico vitale: l’Unità dei cittadini rispetto a tutti i grandi i problemi è la cosa essenziale, tutto il resto è “ l’intendenza” direbbe De Gaulle.

L’altro esempio, a mio avviso importante, è quello del discorso di Rouhani, il premier iraniano, a commento del bilancio.

Ha annunziato un aumento generalizzato del 20% agli impiegati statali spiegandolo con il nesso tra l’unità degli iraniani e
l’aggressione economica USA.

Dopo le grandi manifestazioni contro il carovita dello scorso anno, ha detto il premier in Parlamento, gli Stati Uniti hanno pensato fosse vicino il momento del collasso e hanno denunziato l’accordo nucleare per poter riprendere le sanzioni e provocare divisione e il crollo.

Forte delle vendite petrolifere ( giunte a 2,5 milioni di barili/giorno durante la tregua) il governo ha deciso di sacrificare le riserve per far fronte all’aumento del costo della vita provocato dalle sanzioni in nome dell’unità nazionale contro l’aggressività dello straniero.

Due forme di unità dei cittadini gestite in maniera decisamente differente da parte di due paesi che sono stati grandi imperi e hanno serbato la mentalità del considerare l’essenziale.

Noi italiani – privi di una vera rappresentanza- stiamo invece accapigliandoci per giungere dove vogliono portarci: a contrarre nuovi prestiti internazionali, sabotare il processo di unificazione europea e tornare ad essere una espressione geografica divisa tra potentati economici e militari stranieri. Divisi anche nella soggezione.

Stanno usando le stesse tecniche di monitoraggio economico e condizionamento politico che hanno usato coi persiani.
Solo che noi non abbiamo riserve ne capacità di reazione.

Dovremmo chiederci tutti cosa abbiamo fatto negli ultimo mezzo secolo per perseguire L’Unità nazionale e cosa possiamo fare in futuro.

Quanto a me, smetterò da oggi di spiegare ai cittadini i risvolti della politica estera e fare proposte a governanti sordi e ciechi. È divisivo e inutile. Cercherò qualcosa di unificante e non sul web e meno che mai su facebook.

Auguro un buon anno a tutti.

Macron, il re bambino_di Emmanuel Todd_Traduzione di Giuseppe Germinario

Emmanuel Todd: “Lo stato non può essere incarnato da un bambino … o Emmanuel Macron è ora visto come un bambino dai francesi”

Fonte: Atlantico, Emmanuel Todd , 20-12-2018

Esclusivamente per Atlantico, Emmanuel Todd ci fornisce la sua analisi del fenomeno dei giubbotti gialli. Per lo storico, i Yellow Vests rappresentano una forma di padre collettivo in un paese disorientato da un re bambino.

Atlantico: in un contesto segnato dall’emergere del movimento dei giubbotti gialli, qual è oggi la principale sfida affrontata da Emmanuel Macron?

Emmanuel Todd: Al di là di tutte le politiche economiche, sociali, politiche, europee che sorgeranno nel 2019, che sembra terribile, Emmanuel Macron sarà di fronte ad un problema di legittimità assolutamente nuova. Max Weber aveva usato il concetto di potere carismatico; un individuo, un leader, che affascina in modo subliminale e irrazionale ma che non è necessariamente un dittatore pericoloso. E mi sembra che Emmanuel Macron arricchirà le nostre tipologie del concetto di presidente anti-carismatico. Mi spiego Dobbiamo riprendere la sequenza. C’era un elemento carismatico nell’elezione di Macron, che affascinava le classi medio-alte. Ho visto questo intorno a me. Parlava con un’aria un po’ allucinatoria, in un modo che percepivo assolutamente privo di interesse, ma che, nell’ambiente piuttosto macronista in cui vivo, trasportava le persone. Era percepito come giovane e molto intelligente. Credo che la questione della sua intelligenza superiore sia risolta per tutti, tuttavia ha prodotto una crisi sociale senza precedenti in Francia. Ma rimane giovane. E, infatti, quando sentiamo parlare di lui, dei manifestanti o anche dei giornalisti, è chiaro che ora ha l’immagine di un bambino per tutti noi francesi. “È un bambino” “È un bambino cattivo, viziato.”

La possibilità teorica di un’incarnazione stabile dello stato da parte di un bambino non esiste. Nella funzione di governo c’è la funzione paterna; una banalità che non ha atteso Freud e la psicoanalisi. Il re, il presidente, il capo, devono essere un padre. E oggi siamo in una situazione strutturalmente invertita in cui il leader è un bambino e dove non è impossibile che, simmetricamente, i Gilets Gialli rappresentino una forma di padre collettivo. Perché ciò che colpisce di queste rotonde era l’età delle persone. Erano occupati, tra gli altri, da persone dai capelli bianchi, pensionati, padri nel senso generico del termine. Un paese non può vivere con una sfida che rappresenta un’immagine paterna e un leader che rappresenta l’immagine di un bambino.

Quindi, come si fa a interpretare il fatto di un movimento dagli effettivi contenuti, ma sostenuto da una larga maggioranza della popolazione, in un clima insolitamente violento?

Forse uno dei motivi della loro approvazione generale da parte della popolazione corrisponde al modello di autorità inversa. Se iGiubbotti Gialli sono il padre, allora è normale che essi sono, essi stessi, un potere carismatico collettivo e sono supportati dal 70-75% di opinione. Sono la legittimità. Il modello interpretativo funziona molto bene qui. Spiegherebbe anche la tolleranza per la violenza, la cosa più sorprendente. Sarebbe una forma simbolica di sculacciata politica. Più semplicemente: stiamo vivendo una nuova forma di potere vacante che ha tutti i tipi di applicazioni. Ci soffermiamo sull’autorità implicita dei Giubbotti Gialli, ma si pone anche  la questione di un efficace controllo dell’apparato statale da parte di Emmanuel Macron. Non conosciamo quale sia il suo livello di controllo della forza di polizia i cui leader sindacali vengono ad annunciare il primo atto delle loro rivendicazioni il giorno dopo l’atto quinto dei Gilets. Ricadiamo sull’idea che l’autorità non può essere incarnata da un bambino che a partire dai suoi attacchi verbali contro la gente comune a terra, dal caso Benalla, si è costruito anche l’immagine di un bambino violento.

La sua politica europea è in genere immatura. Emmanuel Macron, con le sue riforme radicali, voleva che i francesi si comportassero come bambini saggi e che i tedeschi gli dessero un buon punto. La politica di Emmanuel Macron è da un capo all’altro completamente infantile. L’attuale dibattito a cui stiamo assistendo sulla resistenza di Bercy rafforza questa immagine di un presidente bambino. Un presidente adulto avrebbe già decimato Bercy.

Vedi questo movimento trovare la via della strutturazione politica?

Al di là di Emmanuel Macron, ciò che abbiamo potuto vedere, specialmente negli spettacoli televisivi, è stato un rovesciamento generalizzato del rapporto dell’autorità intellettuale. Abbiamo visto macronisti, enarchi o meno, deputati LREM, persone con un minimo di istruzione e pulizia su di loro di fronte a Giubbotti Gialli emersi dalla base. Ma era così ovvio che erano più intelligenti e dinamici dei superiori istruiti che erano di fronte a loro! Siamo di nuovo qui davanti a un problema di inversione di autorità. Sono rimasto molto colpito dal livello di coerenza e determinazione di queste persone, tuttavia presentato dal sistema dei media come incoerente e incapace di unirsi. Si potrebbe immaginare l’emergere di un partito politico. Daniel Schneidermann, nei suoi commenti a RT France, tendeva verso questa ipotesi. Ma gli ultimi sondaggi di opinione non evocano questo percorso.

Durante i tuoi primi interventi su questo movimento, hai mostrato dispiacere per il fatto che i giubbotti gialli non attacchino l’Europa. Tuttavia, possiamo vedere che i giubbotti gialli sono sovrarappresentati nei cosiddetti partiti “euroscettici”. Come spiega questo paradosso?

Ho deplorato che i gilet gialli non non mettano sotto accusa direttamente, non solo l’euro come cintura monetaria europea, responsabile di gran parte dei mali dell’economia francese, ma anche l’impossibilità di una protezione commerciale nell’Unione europea. Mi dispiace che non ci sia alcun riferimento all’Europa. D’altra parte, quello che colpiva era l’abbondanza di riferimenti alla nazione rivoluzionaria. C’erano bandiere francesi ovunque, cantavano la marsigliese, c’era una richiesta esplicita della nazione come processo rivoluzionario. Questo è molto importante perché se siamo in un processo di rinascita nazionale, il movimento marcia lui stesso verso lo shock frontale con il concetto europeo.

Qualcosa viene lanciato a un livello ideologico profondo. Penso di essere stato un po’ ingenuo, un po’ techno, nella mia concezione delle cose, dicendo solo che dovevamo uscire dall’euro, che è un discorso tecnico. Quello che sta accadendo è molto più profondo e ci mette in una traiettoria di rottura con l’euro. E, naturalmente, è un processo generale in Europa. Ognuna delle nazioni europee viene rinazionalizzata: i tedeschi hanno iniziato il processo, poi gli inglesi con la Brexit, e oggi gli italiani e i francesi. Lo stile di ciascuno è caratteristico della moltiplicazione delle nazioni. Credo che ciò che dobbiamo integrare in Francia sia questa idea della rinascita della nazione rivoluzionaria.

Non ho una visione astratta delle nazioni, non voglio tornare a un’essenza del popolo come è stato fatto in precedenza in deliri nazionalisti, ma le sottostanti strutture familiari tradizionali, che hanno i loro valori legati al mondo moderno o post-moderno. La Germania rimane condizionata dai valori autoritari e ineguali della famiglia, con la sua primogenitura maschile; il liberalismo inglese si riferisce a una famiglia nucleare individualista che fa ampio uso della volontà; la tradizione rivoluzionaria francese si riferisce alla famiglia nucleare egualitaria del bacino parigino, cioè a una precoce autonomia dei bambini e ad un egualitarismo intransigente delle regole ereditarie. Negli ultimi anni, di fronte ad una inerte Francia, come ferma nella storia, con le sue classi dirigenti germanofile, il suo tasso di disoccupazione del 10%, e la sua popolazione passiva, non ero lontano dall’immaginare che la tradizionale cultura francese fosse morta. Ma il movimento dei Giubbotti Gialli, questa formidabile protesta spontanea contro lo Stato, è il risorgere della potente cultura liberale francese, approvata dalla maggioranza della popolazione. Quello che abbiamo appena riscoperto è che, all’interno dell’Unione europea, la Francia esiste ancora. E ora, i politici, se hanno un minimo di intelligenza, dovranno smettere di sognare di trasformare i francesi in tedeschi, e accettare l’idea che è sempre la Francia che si tratta di governare. Questa formidabile protesta spontanea contro lo stato è la potente rinascita della cultura liberale egualitaria francese, approvata dalla maggioranza della popolazione. Quello che abbiamo appena riscoperto è che, all’interno dell’Unione europea, la Francia esiste ancora. E ora, i politici, se hanno un minimo di intelligenza, dovranno smettere di sognare di trasformare i francesi in tedeschi, e accettare l’idea che è sempre la Francia che si tratta di governare.

Come analizzi le difficoltà della sinistra nell’incarnazione di questo movimento?

Se prendiamo gli ultimi sondaggi per le prossime europee, vediamo il Rassemblement National al 24%, Debout France all’8%, quindi France Insoumise al 9%. Quello che stiamo attraversando, forse per me, è un’altra battaglia persa. Ho combattuto per una rinascita della nazione a sinistra, ma quello che sembra emergere è l’incapacità della France Insoumise di incarnare l’idea nazionale. Si sono appena separati da Djordje Kuzmanovic che ha rappresentato questa corrente sovrana. È davvero triste per me, questa incapacità della sinistra, persino quella contestataria, di incarnare e prendere in mano l’idea di nazione.

Seguendo la logica dell’elezione di Donald Trump o Brexit, è la destra di governo che è riuscita a canalizzare e incarnare quelli che potremmo chiamare i Gilet gialli anglosassoni; questo ruolo dovrebbe quindi spettare a LR?

C’è una generalità occidentale del supporto dell’aspirazione nazionale da parte della destra, con Trump e Brexit per esempio. Ma in Francia, la servitù volontaria delle classi superiori nei confronti della Germania frammenta il modello. I LR mi sembrano sempre più vicini a LREM, probabilmente tentati da una fusione degli europeisti, vale a dire gli anti-nazionali, in un’unica forza. Questo è il significato della consultazione di Sarkozy da parte di Macron prima del suo discorso riparatore ai francesi. Noto di sfuggita che Wauquiez soffre anche della sua immagine di bambino.

Perché oggi solo le forze di destra sono in grado di occuparsi delle aspirazioni popolari? C’è un’apparente contraddizione. Ma tutto diventa sorprendente. La rappresentazione ideologica è vacillante, oscillante. Sentiamo che i giovani sovranisti di destra riprendono un discorso di lotta di classe, parlano come il Marx della “lotta di classe in Francia”. Esiste tuttavia una logica di simmetria nella confusione: la realtà socialista prima di Macron era di persone che si ritenevano di sinistra quando erano di destra. Quindi, perché non ora il contrario? L’assurdo bussa alla porta: la scienza politica avrà bisogno di un’ampia infusione di psicoanalisi, di fantascienza e umorismo.

Quindi ho difficoltà a immaginare una traduzione politica dei giubbotti gialli. Quello che osservo è piuttosto un aumento della sovranità di destra che si incarna nella DLF e nella RN e, incidentalmente, Florian Philippot al suo piccolo livello. Sarebbe pericoloso per gli europeisti rallegrarsi di questo implicito rinnovamento della scissione delle ultime elezioni presidenziali. La situazione diventa così grave che non è più certo che “il bambino” sarà rieletto.

Quali sono le particolarità francesi di questa tendenza “voto Brexit e Trump”?

La più grande di queste è in Francia la violenza dello scontro tra un mondo popolare e di classi medie che aspirano alla rinazionalizzazione e le classi superiori che raggiungono un livello eccezionale di universalismo post-nazionale. Io lo percepisco come una perversione dell’universalismo Francese sostenuto dalle sue classi superiori, un sogno umano universale per i soli potenti. “Educati in alto di tutti i paesi, unitevi!” È, naturalmente, di solito il sogno della globalizzazione, ma è probabile che in Francia, con il nostro concetto di uomo universale, il mito ha preso forme isteriche che si fonde in modo sottile con il nostro bisogno di sottomissione alla Germania. “Uomo universale borghese ben oltre il trauma del 1.940” la strada maestra per una denazionalizzazione della classe dirigente francese. O per meglio dire, il tradimento.

Come anticipi le conseguenze di questo movimento a medio-lungo termine?

Il movimento attuale può portare a qualcosa di diverso da quello che abbiamo vissuto con le elezioni politiche del 2017. L’ortodossia politologica benpensante ci dice: da una parte ci sarebbe una forza fascista xenofoba, il Rassemblement National (RN), e dall’altra una forza democratica, moderata e universalista, l’europeismo. Ma non è la realtà. è ciò che David Adler ha rivelato nel New York Times lo scorso maggio: i centristi sono i più ostili alla democrazia. La realtà del mondo è che le forze europee sono autoritarie e antidemocratiche, i vettori del fascismo 2.0. I referendum sono inutili nell’Unione e il punto di svolta per la Francia in questo campo è stato il 2005. Nel 2018, la personalità di Emmanuel Macron ha svelato una natura autoritaria e violenta dell’europeismo con la pretesa di rappresentare valori democratici e liberali. Il macronismo è un estremismo.

Mi sembra che la polarità che si instaura sia un’opposizione tra la “nazione rivoluzionaria”, con una dimensione xenofoba, evidente nella dottrina del RN “e un” impero autoritario europeo “. Democrazia xenofoba contro sistema imperiale. Nel mio ultimo libro, “Dove siamo? Sono tornato alle origini della democrazia e ho notato che era sempre, in un primo momento, più o meno xenofoba. Un particolare popolo che si organizza liberamente internamente ma contro un altro. Questo era il caso della democrazia ateniese, della democrazia americana, razzista nei confronti dei neri e degli indiani, della proto-democrazia inglese, anticattolica. D’altra parte, l’idea di uomo universale ci viene da Roma, derivata dal principio del dominio imperiale.

La polarità che si sta stabilendo in Europa è quindi un ritorno al punto di partenza. L’impero europeo agita il concetto universale, con la riserva che non tutti gli uomini sono realmente uguali nello spazio europeo. Il voto dei francesi vale meno di uno tedesco, quello di un italiano meno di uno francese, quello greco meno di tutti. Ma l’impero europeo sembra affermare un universalismo senza gradazione nel suo sogno di aprire ai profughi. Ci sentiamo paradossalmente di fronte a un ansia crescente di persone che vogliono un maggiore controllo delle frontiere, contrapposta a un crescente immigrazionismo delle classi istruite. Questa polarizzazione aggiuntiva e totalmente irragionevole è affascinante per lo storico.

Vivremo un incredibile anno 2019. Non sappiamo come cambierà la Brexit, ma è difficile immaginare che gli americani accettino un’Europa dominata dai tedeschi; non sappiamo come andranno le cose anche in Italia. La Francia è paralizzata e la Germania mostra segni di instabilità. La nostra unica certezza è che il tenore di vita continuerà a diminuire per le persone comuni. In tale contesto, si potrebbe davvero imporre l’idea che il vero confronto non sia più tra “fascismo xenofobo” e “democrazia liberale” (l’ortodossia degli ultimi vent’anni), ma tra “democrazia xenofoba” e ” impero autoritario”. E il possibile cambiamento non finisce qui: l’immigrazionismo delle élite, con demografi ufficiali del regime che continuano ad affermare che non vi è alcun problema di immigrazione o integrazione, potrebbe trasformare nelle menti di persone moderate l’originale “xenofobia” del Front National in un legittimo desiderio di un minimo di sicurezza territoriale per la popolazione francese, compresi bambini e nipoti di immigrati nordafricani. Nessuna democrazia rappresentativa è possibile senza un minimo di sicurezza territoriale. Solo l’Impero può far fronte al caos migratorio. E se, inoltre, in un tale contesto, il candidato dell’Impero europeo autoritario ha un’immagine infantile, allora non possiamo escludere la vittoria nel secondo turno delle forze combinate del RN e di Dupont-Aignan.

Quindi escludi l’ipotesi che le élite attuali tengano conto delle aspirazioni delle classi medie e medie?

Considero il peggio, ma ben inteso per evitare il peggio. L’idea che io difendo nel post scriptum al mio ultimo libro è quella di una nuova negoziazione tra la classe superiore e il mondo popolare, conla presa in carico della necessità di nazione da parte delle élite tradizionali. Se cito situazioni di polarizzazione drammatica, è, naturalmente, con la speranza che le persone diventino consapevoli dei rischi e facciano il necessario per evitarli. Sembra, tuttavia, che Emmanuel Macron sia ora un ulteriore ostacolo in questo processo. Ci si chiede se sarà in uno stato intellettuale, psicologico e di legittimità per governare nei prossimi tre anni. Si può sognare un miracolo: lo Spirito Santo che cade su Emmanuel Macron, che capirebbe che dobbiamo uscire dall’euro. Ma non vedo da nessuna parte, né in economia, o nel suo rapporto con Donald Trump, o Vladimir Putin, o il suo approccio alla Brexit, un qualsiasi elemento di flessibilità mentale e originalità. Vedo un elettroencefalogramma piatto. La mia sensazione è che lo shock liberatorio verrà a noi dal di fuori; da un cattiva gestione della Brexit che devasta l’economia europea oppure dalla Germania talmente irrigidita da costringere le classi superiori italiane e francesi alla indipendenza.

Nell’episodio dei Giubbotti Gialli, l’elemento più inquietante è stato l’aumento della violenza da entrambe le parti e la tolleranza della società francese a questa crescente violenza. L’elemento più rassicurante era la simpatia del 70-75% della popolazione per i giubbotti gialli, una simpatia che, a vari livelli, comprendeva ancora l’intera società francese, tutte le categorie sociali, che coinvolgeva persino persone che hanno votato per Emmanuel Macron. Questa solidarietà globale significa che esiste la possibilità di riconciliazione in Francia. La verità della società francese non è l’odio universale. Ma per conseguire una riconciliazione praticabile tra le élite e il popolo, dobbiamo abbandonare gli ormeggi europei, ritrovarci tra francesi, rimboccarci le maniche per riavviare l’economia e la società.

Fonte: Atlantico, Emmanuel Todd , 20-12-2018

È Huawei la prima vittima della guerra economica fra Usa e Cina?, di Giuseppe Gagliano

tratto da https://www.ilprimatonazionale.it/economia/huawei-prima-vittima-guerra-commerciale-usa-cina-99335/?fbclid=IwAR2xuRHH5orSdiqlwcMTj9Myzv0oIbEottR1e-EGUyn1n7jSmatvKuPOS54

Roma, 24 dic – Il gigante cinese delle telecomunicazioni è rimasto così deluso dagli Stati Uniti che pare stia valutando di ritirarsi da questo mercato. Huawei infatti non è la benvenuta negli Usa almeno dal 2012, anno in cui un rapporto del Senato americano indicava delle falle nella sicurezza dei suoi dispositivi. Secondo questo richiamo, inoltre, il gruppo rappresentava “una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti”, senza nemmeno fornire delle prove concrete a supporto delle accuse. Qualche mese dopo, gli sforzi delle autorità americane per impedire a Huawei di accedere al loro mercato sono aumentati. A marzo 2018, i principali operatori e distributori telefonici americani (AT&T, Verizon e BestBuy) si sono arresi alla pressione politica e hanno deciso di non vendere i cellulari o altri prodotti a marchio Huawei. Il gruppo cinese ha rinunciato così a mettere sul mercato americano il suo ultimo modello di cellulare, il Mate 10 Pro. Il vero duro colpo per Huawei è arrivato però ad agosto, con la promulgazione del Defense Authorization Act. La legge vieta alle agenzie governative statunitensi o al personale e alle strutture che desiderano lavorare con il governo di utilizzare i dispositivi Huawei, ZTE o di altre imprese cinesi. I prodotti Huawei e ZTE sono così ufficialmente banditi dal mercato pubblico americano.

A seguire, in altri Paesi alleati degli Stati Uniti, in particolare quelli appartenenti al club “Five Eyes” (Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda e Canada), si sono moltiplicati i sospetti riguardo Huawei. Il 23 agosto, l’Australia ha dichiarato il divieto a Huawei e ZTE di aprire la loro rete 5G, appellandosi al rischio di spionaggio. In ottobre il Regno Unito ha avviato un’inchiesta per valutare se il Paese fosse “troppo dipendente” da un unico fornitore per le telecomunicazioni. In un Paese dove la maggioranza degli operatori internet utilizza prodotti Huawei, il gruppo cinese sembrava direttamente preso di mira. Il 28 novembre la Nuova Zelanda ha vietato al suo operatore storico, Spark, di rifornirsi da Huawei, citando i problemi di sicurezza legati alla tecnologia 5G. Una settimana dopo anche all’operatore inglese BT è toccato rinunciare al rifornimento da Huawei per le reti 5G, citando nuovamente i problemi relativi alla sicurezza. Il giorno precedente, il titolare dell’MI6 aveva chiesto di punto in bianco ai media di bandire completamente le apparecchiature telefoniche Huawei. Infine, il 7 dicembre, Reuters ha annunciato che anche il Giappone si apprestava a ritirare Huawei e ZTE dal suo mercato pubblico sul 5G.

Le conquiste realizzate da Huawei sui mercati dei vicini alleati degli USA sembrano così franare come un castello di sabbia. L’insieme dei Paesi o delle aziende che hanno deciso di non fare più affari con il marchio cinese motivano la loro scelta indicando i rischi connessi alla sicurezza. Seppur non si citi espressamente il rischio di spionaggio, l’obiettivo sembra proprio quello di dimostrare l’inaffidabilità del gruppo. Nel Regno Unito, BT ha dichiarato che “Huawei rimane un importante fornitore di dispositivi al di fuori della rete principale, nonché un partner prezioso per l’innovazione” e ha anche annunciato di aver già ritirato, come misura di sicurezza, i componenti dello stesso marchio per le reti 3G e 4G. In Nuova Zelanda si cerca di spiegare che “non si tratta del Paese, ma dell’azienda nello specifico” e che sono i proprietari della 5G ad aver creato una rete più vulnerabile ai cyberattacchi… un altro modo per dire che Huawei non si merita fiducia su questo tipo di tecnologie sensibili. Solo l’Australia ha ufficialmente menzionato il rischio di spionaggio stimando che “le implicazioni per i fornitori (dei prodotti per le telecomunicazioni) esposti alle decisioni extragiudiziarie di un governo straniero” costituiscono un rischio per la sicurezza. Le autorità australiane si riferivano all’art. 7 della legge sui servizi segreti nazionali cinesi del 2017, secondo cui tutte le attività imprenditoriali cinesi devono cooperare con l’intelligence del proprio Paese. Huawei ha risposto negando d’intrattenere rapporti con lo Stato cinese.

Un temibile concorrente

Sia che intendano allertare i propri partner dei gravi rischi che corre la sicurezza, sia che vogliano vincere una guerra commerciale, non si può non notare lo sforzo concertato delle autorità statunitensi per indebolire Huawei. Il 23 novembre, il Wall Street Journal ha accusato gli Stati Uniti di condurre una campagna nei confronti di alcuni dei suoi alleati – tra cui l’Italia, la Germania e la Francia – al fine che questi rinuncino alla tecnologia 5G prodotta dall’azienda cinese. In un’intervista rilasciata al Journal du Dimanche il 24 novembre, l’amministratore delegato di Huawei France ha cercato di rassicurare tutti i suoi clienti europei puntando il dito contro le manovre americane: “Lavoriamo da più di dieci anni in Germania e non abbiamo mai avuto il minimo problema, esattamente come negli altri 170 Paesi dove ci siamo stabiliti. Sospetti senza fondamento come questi emergono in un clima di tensioni commerciali e geopolitiche”.

In effetti è difficile non vedere in queste misure un tentativo da parte degli Stati Uniti di indebolire un rivale temibile su un mercato che, peraltro, si prospetta promettente. Un rapporto del Senato americano del 15 novembre dedicava un intero capitolo al dominio cinese sul mercato mondiale del 5G, il quale si può descrivere come un nuovo terreno di guerra economica che va conquistato. Secondo il rapporto, “il governo cinese cerca di superare a livello industriale gli USA per aggiudicarsi una fetta più grande di benefici economici e d’innovazione tecnologica”. Malgrado la concorrenza sleale degli Stati Uniti e il rischio spionaggio, si sottolineava la necessità di superare la Cina.

Le accuse americane coincidono peraltro con i primi lanci delle reti 5G al mondo, i quali hanno avuto inizio negli Stati Uniti nell’ottobre 2018 e che, in Cina e in Europa, inizieranno rispettivamente nel 2019 nel 2025. È così che gli Stati Uniti cercano di sabotare gli sforzi di Huawei, la quale sembrava essere molto favorita in questi mercati. L’azienda, leader del 5G, ha di recente annunciato di aver siglato 22 contratti commerciali per l’installazione di questa rete: è stata l’unica a guadagnare terreno sui mercati nel 2017, passando dal 25 al 28%, strappando il trono ai suoi rivali europei, la svedese Ericsson e la finlandese Nokia. Huawei rappresenta, anche nel mercato del 5G, una minaccia crescente per il gigante americano Qualcomm. L’azienda cinese ha infatti sviluppato le proprie smart card compatibili con la tecnologia 5G, mettendo in pericolo il predominio di Qualcomm, che primeggiava ampiamente sul mercato.

La rimessa in gioco della carta dell’extraterritorialità del diritto statunitense

La campagna di destabilizzazione di Huawei sul mercato del 5G appare come un’ulteriore rappresentazione della guerra economica che Cina e Stati Uniti stanno per scatenare. Dopo aver cercato di gettare fango sulla reputazione del gigante cinese, pare che gli Stati Uniti vogliano passare alla fase successiva. Mentre il 1° dicembre aveva inizio a Buenos Aires il vertice del G20, la direttrice finanziaria cinese Meng Wanzhou veniva arrestata all’aeroporto di Vancouver su richiesta degli Stati Uniti. Meng Wanzhou, che è figlia del capo di Huawei, rischia l’estradizione negli Stati Uniti. Le ragioni ufficiali dell’arresto non sono chiare, ma, secondo Le Figaro, Huawei è accusata di violare l’embargo statunitense contro l’Iran. Lo spettro dell’extraterritorialità del diritto americano sembra così essersi abbattuta nuovamente sul suo avversario economico. Un altro esempio recente si è verificato il 22 novembre, quando la Société Générale si è vista precipitare addosso una multa da 1,35 miliardi di dollari per aver violato gli embarghi americani. Se Huawei verrà condannata, nell’arco di un anno per la Cina saranno due le società di telecomunicazioni – leader nel settore – a essere prese di mira: a giugno 2018, infatti, ZTE è stata accusata di aver violato gli embarghi del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (DOJ) all’Iran e alla Corea del Nord. ZTE ha dovuto pagare una multa da 1 miliardo di dollari e si è vista imporre la presenza nelle sue sedi di un “compliance team”, una squadra addetta al controllo della conformità, per un periodo di dieci anni.

Rispetto all’arresto di Meng Wanzhou, le autorità cinesi hanno reagito senza celare la collera, pretendendo fermamente la liberazione della cittadina. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, il consigliere all’economia alla Casa Bianca ha assicurato che il Presidente Donald Trump non fosse stato informato dell’arresto della dirigente. È quindi così che, durante il G20, si è svolto il tête-à-téte con il Presidente Xi Jinping. Una nota amara che non può accontentare la parte cinese e che sembra suonare la campana a morto per la tregua commerciale tra i due giganti.

Giuseppe Gagliano

QUOTA 500 ovvero la coalizione dei volonterosi, di Giuseppe Germinario

Con il breve ed incisivo post di ieri il sito ha raggiunto quota 500 pubblicazioni tra saggi, articoli, interviste e podcast. A due anni dalla fondazione, mi pare un risultato di tutto rispetto per quantità e soprattutto per qualità considerando soprattutto tre fattori. La redazione è composta da collaboratori in tutt’altre faccende affaccendati e ciononostante disposti a sacrificare gran parte del tempo libero allo studio teorico e all’analisi politica. Non gode di alcuna forma di finanziamento né, tanto meno, dell’accesso a strutture accademiche e di ricerca che possano agevolare un lavoro sistematico. Visti i condizionamenti e lo stato dell’arte di gran parte di quegli ambienti, quest’ultimo aspetto rappresenta certamente un grosso limite operativo ma garantisce nel contempo una libertà di azione che il conformismo vigile perennemente in azione di quelle strutture rischierebbe in qualsiasi momento di soffocare sul nascere.

Lo sparuto gruppo fondatore era appena uscito da una amara e purtroppo poco edificante conclusione del rapporto con il blog di “conflitti e strategie”. L’intento della nuova iniziativa era quello di offrire un luogo aperto di confronto che mettesse a frutto l’intuizione dell’ispiratore di quel blog, Gianfranco la Grassa, cercando di attingere in sovrappiù dalle ceneri delle grandi correnti di pensiero dei due secoli scorsi, in particolare quello marxista, quello liberale e quello del realismo politico. Da qui i contributi interni ed esterni di Longo, Morigi, de la Grange, Buffagni, Visani, Falchi, Visalli, Fagan. Tutti contributi interessanti e originali ma attualmente ancora giustapposti. I limiti oggettivi e soggettivi del coordinatore non consentono di avviare ancora un confronto serrato e di pervenire ad una sintesi comune almeno provvisoria, come deve essere del resto ogni lavoro teorico e di analisi. La complessità crescente della situazione e il ritardo teorico non sono del resto di aiuto. Di sicuro contribuisce una caratteristica prevalente a gran parte dei blog affini presenti nelle piattaforme informatiche: l’assenza, all’interno dello stesso lavoro teorico, di una finalità politica che spinga al confronto rigoroso ma fattivo. L’assoluta prevalenza dell’interesse personale e autoreferenziale nella ricerca condita spesso e volentieri da narcisismo e dominata dal mero interesse professionale. Il tempo e soprattutto la durezza dei tempi che ci attendono aiuteranno probabilmente a superare questi limiti ormai connaturati o quantomeno ad addomesticarli entro cornici più positive.

Diventa fondamentale la ricerca di spazi nelle istituzioni preposte al lavoro teorico e di analisi, l’individuazione e il contatto con quei centri di potere potenziali e consolidati sensibili a queste tematiche e agli approcci sostenuti ancora in maniera larvata e scarsamente convincente nella pletora di iniziative, il conseguimento di risorse finanziarie adeguate.

Tutte condizioni necessarie, anche se non sufficienti, a creare e fornire strumenti a nuove élite e a una nuova classe dirigente. Il cammino è immenso.

Il blog non è stato solo questo.

I contributi di Gianfranco Campa hanno aperto, senza falsa modestia, una vetrina unica in Europa sui contenuti e sui retroscena degli avvenimenti politici nel paese chiave delle dinamiche geopolitiche: gli Stati Uniti.

De Martini, da par suo, ha aperto squarci impressionanti sugli scenari mediorientali. Il suo bagaglio di esperienza e di cultura va ben oltre l’orizzonte offerto dal sito.

Il sottoscritto, con tutti i suoi limiti, Paoloni, Bonelli e Buffagni hanno saputo offrire analisi del contesto nazionale le quali, in diverse occasioni, hanno saputo centrare e innescare, vedi il caso dell’assassinio di Pamela Mastropietro, un dibattito dirompente.

Senza nessuno spirito di recriminazione e al netto della mancata utilizzazione di tecniche adeguate di promozione e diffusione, un impegno che inizia a dare lentamente frutti ma che meriterebbe un riconoscimento più esplicito ed aperto di una parte dei fruitori.

Garanzie certe sulle attività future non ce ne sono, vista la volontarietà dell’impegno e l’esposizione delle iniziative alle vicissitudini personali, anche le più banali, dei collaboratori. L’intenzione di proseguire, di crescere e di allargare la platea di volonterosi c’è. Vedremo se ci saranno le condizioni per costruire una struttura più adeguata e più operativa, quindi più proficua, senza sacrificare la libertà di ricerca e la finalità politica in apparente antitesi. Germinario Giuseppe

interrogativi inquietanti, di Giuseppe Germinario

Oggi Maria Angela Zappia Caillaux, diplomatica, rappresentante permanente dell’Italia all’ONU dal 31 luglio 2018, in quota quindi del Governo Conte e del Ministro degli Esteri Moavero, già ministro plenipotenziario e rappresentante permanente alla NATO nonchè consigliere diplomatico di Matteo Renzi, ha votato in rappresentanza dell’Italia a favore del Migration Global Compact, il documento con il quale si tenta di orientare e regolare, sarebbe meglio dire incentivare, i fenomeni migratori, in contrasto tra l’altro con la posizione statunitense.

I contenuti del documento saranno trattati in altre occasioni.

Oggi interessa ottenere risposta piuttosto a queste domande:

  1. Con quale avvallo la diplomatica ha manifestato il proprio voto? Quello del Ministro Moavero, del Presidente della Repubblica Mattarella, del Capo di Governo Conte?
  2. Nel caso di adesione improvvida, il Presidente Conte e il Ministro Moavero sono pronti e disponibili a sconfessare l’iniziativa del diplomatico e a rimuoverla?
  3. Come si esprimerà a proposito il Parlamento nella prossima votazione sull’argomento? Si assisterà ad un inedito schieramento favorevole al documento e ad una clamorosa rottura della compagine di governo su un tema così dirimente? 
  4. Se confermato si tenterà di ricacciare la Lega nell’alveo del centrodestra e il M5S o parte di esso in quello di centrosinistra sotto mutate spoglie; in alternativa si cerca di relegare quest’ultimo o parte di esso al ruolo di opposizione di comodo? Con questo, quindi, ricondurre lo scontro e il confronto politico nell’alveo classico destra/sinistra con stella polare il ritorno al classico europeismo condiviso?

PS- Per correttezza il voto ha riguardato il Global Compact sui rifugiati. Si tratta comunque di un documento parallello al GMC che comunque agisce e interferisce con esso, compresa l’esplicita accettazione di immigrati come rifugiati sulla base  di una “autocertificazione” sino a prova contraria. Esattamente come avviene ora. Da qui il dissenso USA e russo

Sbagliando s’impara Prima sconfitta, prime riflessioni_di Roberto Buffagni

Sbagliando s’impara

Prima sconfitta, prime riflessioni

 

La trattativa ancora in corso con l’UE segna la prima sconfitta del governo gialloverde. Le sconfitte sono sempre istruttive: usiamola per sbagliare meno e costruire le condizioni della vittoria.

Perché abbiamo perso?

Abbiamo perso perché abbiamo cercato lo scontro sul terreno più favorevole all’avversario, e in condizioni d’inferiorità. Una descrizione dei fatti più che condivisibile è questa di Giorgio La Malfa[1]. Il terreno più favorevole alla UE è il terreno delle regole, dei trattati e della loro “interpretazione autentica”, vulgo la risultante dei rapporti di forza interstatali e interni agli organismi UE, espressa nel linguaggio della razionalità strumentale in un reticolo inestricabile di norme. Il governo è andato a trattare sulla base di due presupposti incompatibili: a) regole, trattati e loro “interpretazione autentica”, sono legittimi benché discutibili e riformabili, come tutto è discutibile e riformabile b)  rivendicando la propria legittimità in quanto espressione della sovranità popolare.

Legittimità A, legittimità B

La legittimità A è la legittimità della UE. Essa si fonda sulla rivendicazione del possesso monopolistico di Tecnica e Scienza, nelle loro varie specificazioni di tecnica e scienza giuridica, economica, politica, etc. In parole povere, l’UE fonda la propria legittimità sulla garanzia scientifica che essa sola sa assicurare “libertà, pace, benessere e progresso per il maggior numero possibile”, in un inedito insediamento al posto di comando politico della razionalità strumentale, weberianamente intesa e ideologicamente declinata in scientismo, utilitarismo, liberalismo (in percentuali variabili). Questa è la legittimità di principio della UE. La sua legittimità di fatto è il fatto nudo e crudo che esiste da un tempo non lungo ma neppur brevissimo, e che la sua esistenza produce effetti più che considerevoli. Che siano buoni o cattivi è materia opinabile: buoni per alcuni, cattivi per altri.

La legittimità B è la legittimità del governo italiano. Essa si fonda sul consenso elettorale della maggioranza degli italiani. Questa è la sua legittimità di principio, ma anche la sua legittimità di fatto, perché è revocabile alle prossime elezioni politiche nazionali.

L’incompatibilità fra legittimità A e legittimità B non è minore dell’incompatibilità fra il principio legittimante l’ancien régime – voto per ordine, conforme la tripartizione indoeuropea tra oratores, bellatores e laboratores –  e il principio democratico e nazionale, voto per testa dei cittadini, che il Terzo Stato rivendicò nella seduta degli Stati Generali di Francia del 6 maggio 1789.

Sul piano ideale, il conflitto tra queste due fonti di legittimità mette in questione le radici stesse della civiltà europea e della modernità occidentale, schierandole in campi avversi sul Kampfplatz filosofico-politico. Sul piano pratico, il conflitto precipita in una domanda molto semplice: “chi ha l’ultima parola?”

A prima vista, la risposta a questa domanda è: “ha l’ultima parola chi dispone della forza maggiore”. Non è una risposta errata, ma è incompleta, perché la forza può presentarsi in molte forme. Nei rapporti tra Unione Europea e governi, il rapporto di forza non viene deciso dalla forza militare. L’Unione Europea non ne dispone, ma i governi che ne fanno parte, che pur ne dispongono, non vogliono né possono farne uso: non possono, perché l’uso della forza militare contro un’entità che ne è affatto priva e alla quale si aderisce formalmente è un atto di barbarie che ha costi politici insostenibili (perdita pressoché totale di consenso e legittimazione morale).

Nei rapporti fra Unione Europea e governi, ha l’ultima parola chi decide la grammatica e la sintassi del linguaggio all’interno del quale non solo l’ultima, ma tutte le parole prendono senso.

“Quando uso una parola, ” disse Humpty Dumpty in tono piuttosto sdegnato, “essa significa esattamente quello che voglio – né di più né di meno.”

 “La domanda è, ” rispose Alice, “se si può fare in modo che le parole abbiano tanti significati diversi.”

  “La domanda è, ” replicò Humpty Dumpty, “chi è che comanda – tutto qui.”[2]

 

Chi ha l’ultima parola

Un governo che tratta con l’Unione Europea entra in una camera per il condizionamento operante, o “Skinner box”.[3].

1 Skinner Box

 

 

Una camera per il condizionamento operante consente agli sperimentatori di studiare il comportamento, addestrando la cavia a compiere certe azioni, (es., spingere una leva) in risposta a stimoli specifici, quali una luce o un segnale sonoro. Quando la cavia esegue correttamente il comportamento prescritto, il meccanismo della camera gli consegna del cibo, o un’altra ricompensa. In certi casi, il meccanismo infligge una punizione in caso di risposte scorrette o omesse. Per esempio, per testare il funzionamento del condizionamento operante sugli invertebrati, gli psicologi usano uno strumento denominato heat box, “scatola bollente”. La forma è analoga a quella della Skinner box, ma la scatola è composta di due lati: uno può mutare temperatura, l’altro no. Appena l’invertebrato passa sul lato che può mutare temperatura, la scatola viene riscaldata. Alla fine, l’invertebrato sarà condizionato a restare sul lato che non si può scaldare.

Tra le applicazioni commerciali di maggior successo della Skinner box, le slot machines, o le macchine per videopoker. Il successo commerciale di slot machines e videopoker dipende dal fatto che più a lungo si gioca, più si è destinati a perdere (= successo commerciale per i fabbricanti, insuccesso per i consumatori).

 

Uomini e topi

Un giorno, qualcuno pose a Skinner la domanda: “Che differenze ci sono tra gli uomini e i topi?”. Da scienziato qual era, per rispondere alla domanda Skinner organizzò un esperimento con i suoi studenti. Si costruirono due labirinti identici, uno per i topi e uno per gli umani. La ricompensa, posta al centro del labirinto, era un pezzo di formaggio per i topi e una ricompensa in denaro (5 $) per gli umani.

Risultato: Skinner scopre che  non ci sono differenze nei tempi di apprendimento tra umani e topi. Nel giro di una giornata, entrambi sono in grado di trovare la ricompensa. Ma Skinner non si accontenta, e perfeziona l’esperimento. Elimina le ricompense dai labirinti, e ripete l’esperimento con gli stessi partecipanti: stessi uomini, stessi topi. Tutti gli umani si prestano a ripetere l’esperimento, contro una percentuale del 70% dei topi. Al terzo giorno senza ricompensa, solo il 30% dei topi ripercorre il labirinto, contro il 100% degli uomini. Dopo una settimana senza ricompense, nessun topo entra più nel labirinto, mentre un numero considerevole di uomini ancora va in cerca dei 5 dollari. Dopo un mese, c’è ancora qualche uomo che vaga nel labirinto in cerca della ricompensa.[4]

Differenza tra uomini e topi: gli uomini immaginano, sperano e si illudono; i topi, no. Come diceva Wittgenstein: “Niente è così difficile come non ingannare se stessi.”

 

“Come mi riesce difficile vedere ciò che è davanti ai miei occhi!”[5]

La trattativa tra governo italiano e UE è andata così, proprio come in una Skinner box. Siamo partiti per spezzare le reni a Bruxelles sventolando dai balconi un 2,4% tricolore, e siamo finiti a trattare affannosamente nel cuore della notte su quanti centimetri di fregatura avremmo dovuto alloggiare nelle più intime cavità del nostro corpo. Risultato (ancora indeterminato mentre scrivo): più meno gli stessi centimetri di fregatura che ci saremmo presi se fossimo stati zitti e buoni, e senza promettere nulla, senza sventolare tricolori e percentuali, senza invocare sovranità popolari e nazionali, avessimo fatto un po’ di modesto tira e molla per telefono e ci fossimo accontentati del risultato senza fare tante storie.

A chi mi contesterà che sono ingeneroso e impietoso, che è facile criticare in poltrona e difficile agire sulla linea del fuoco, rispondo che non a caso ho usato la prima persona plurale “noi”. Noi vuole dire anch’io: anch’io ho sbagliato e sottovalutato l’avversario anzi il nemico, e anch’io subisco questa sconfitta, che non è decisiva o addirittura irrimediabile, ma che lo può diventare se non cerchiamo, tutti, di trarne insegnamento per il futuro.

Il primo insegnamento da trarre da questa sconfitta è: non incoraggiare la tendenza a illudersi, nostra personale e del popolo italiano. E’ il lato in ombra della più bella e unica facoltà dell’uomo, quella che lo distingue dai topi: la capacità di immaginare e di sperare, ed è tanto funesta quanto immaginazione e speranza sono provvidenziali. Modestia e serietà, non rodomontate.

Il secondo insegnamento è: il livello principale dello scontro è metapolitico. Questa è una guerra coperta “che non osa dire il suo nome”, tra nemici che si parlano nel linguaggio dell’amicizia, tra padroni e servi che si parlano come pari. Il compito metapolitico principale è trasformarla in guerra aperta, dove sia possibile chiamare pubblicamente, faccia a faccia, nemico il nemico, padrone il padrone. E’ una battaglia difficile e lunga, prima si comincia meglio è. Quindi, se le forze politiche al governo intendono sopravvivere e raggiungere i loro obiettivi, diano vita a centri studi e think tank, facciano del loro meglio per influenzare e ingrandire la piccola parte di accademia che non è pregiudizialmente avversa, attirino intellettuali di valore e prestigio, e non mettano professori di ginnastica al MIUR e opportunisti in posizioni apicali dell’industria culturale.

Il terzo insegnamento è: sabotare la Skinner box. Sabotare la Skinner box prima di doverci rientrare (accadrà presto). Sabotare la Skinner box vuol dire: dotarsi degli strumenti legislativi e delle competenze necessarie per disattivare alcuni dei meccanismi punizione/ricompensa della UE, ad esempio abolendo il pareggio di bilancio sciaguratamente inserito in Costituzione. Non è il mio campo di competenza, ma per fortuna i competenti non mancano: per esempio, Luciano Barra Caracciolo[6], che non dubito abbia elaborato una lista delle più urgenti modifiche legislative indispensabili per migliorare i rapporti di forza tra governo italiano e UE. Sta al governo, basta telefonargli o andarlo a trovare in ufficio.

Il quarto insegnamento è un corollario del terzo: i voti sono munizioni, senza armi le munizioni non servono. Le armi decisive per lo scontro con l’UE sono i provvedimenti di legge che ci consentono di sabotare la Skinner box.

Il quinto insegnamento è: senza strategia, la tattica si risolve in opportunismo, a volte fortunato ma più spesso no. Strategia vuol dire: individuare l’obiettivo fondamentale da raggiungere, e commisurarvi i mezzi operativi per conseguirlo. Per i gialli, l’obiettivo fondamentale può essere la piena occupazione. Per i verdi, l’obiettivo fondamentale può essere la tutela delle imprese che operano principalmente sul mercato interno italiano. Sono due obiettivi compatibili, benché soggetti alle inevitabili frizioni tra imprenditoria e forza lavoro e alla divisione Nord-Sud. Costituiscono dunque una solida base per la possibile coesione del governo. Se questi sono i loro obiettivi fondamentali, si chiedano i gialli e i verdi se è possibile conseguirli all’interno della UE e dell’euro, e si diano una risposta. Secondo me no, ma quel che importa è decidere e trarne le conseguenze. In assenza di decisione, la Skinner box predispone l’arrivo del “momento Tsipras”, come cortesemente anticipato dal sen. Monti.

Conclusione

Per concludere, prendo in prestito una citazione a un politico rivoluzionario[7] per il quale non nutro simpatia ideologica, ma che qualcosetta ha pur combinato: “la frase rivoluzionaria sulla guerra rivoluzionaria può causare la rovina della rivoluzione”. Che cos’è la frase rivoluzionaria? “parole d’ordine magnifiche, attraenti, inebrianti, che non hanno nessun fondamento sotto di sé”. Come commenta l’amico Alessandro Visalli, al quale sto rubando queste ultime righe[8], le parole d’ordine sono ‘magnifiche’ perché contengono solo “sentimenti, desideri, collera, indignazione”, ma niente altro. Quando si pronunciano ‘frasi rivoluzionarie’… “si ha paura di analizzare la realtà oggettiva…se non sai adattarti, se non sei disposto a strisciare sul ventre, nel fango, non sei un rivoluzionario, ma un chiacchierone”. Ciò non significa che piaccia, ma che “non c’è altra via” che tenere conto della realtà; la “rivoluzione mondiale”, che prevedrebbe di abbandonare la costruzione del socialismo intanto dove concretamente si può tentare, per Lenin arriverà pure, ma, scrivendo nel 1918, “per ora è solo una magnifica favola, una bellissima favola”; dunque crederci nell’immediato significa che “solo nel vostro pensiero, nei vostri desideri superate le difficoltà che la storia ha fatto sorgere”.

Ciò che va fatto è del tutto diverso, dice il vecchio rivoluzionario russo: bisogna “porre alla base della propria tattica, anzitutto e soprattutto, l’analisi precisa della situazione obiettiva”.

[1] https://www.quotidiano.net/commento/deficit-pil-1.4344583

[2] LEWIS CARROLL (Charles L. Dodgson), Through the Looking-Glass (1872) , capitolo VI. Trad. mia.

[3] https://en.wikipedia.org/wiki/Operant_conditioning_chamber#Skinner_box

[4]  Richard Bandler e John Grinder, Frogs into Princes: Neurolinguistic Programming,  Real People Pr, 1981 https://www.amazon.it/Frogs-into-Princes-Linguistic-Programming/dp/0911226184

[5] E’ un’altra citazione di Ludwig Wittgenstein.

[6] Si veda ad esempio questo suo scritto: https://orizzonte48.blogspot.com/2018/01/la-presunta-supremazia-del-diritto.html

[7] Vladimir I. Lenin, Rivoluzione in occidente e infantilismo di sinistra, ed. Riuniti, 1974

[8] https://tempofertile.blogspot.com/2018/12/circa-marco-bascetta-una-formula-di.html

I NEMICI DELL’EUROPA, di Fabio Falchi_SINTESI DEL MATCH di Roberto Buffagni

I NEMICI DELL’EUROPA

https://fabiofalchicultura.blogspot.com/2018/12/le-improvvide-e-gravi-dichiarazioni-del.html?fbclid=IwAR1lbQ1kqs1rRZo_1QDe14vkea9RFTXBTyMa7zRgQ67Wjb-61rja4UnrlKo

Le improvvide e gravi dichiarazioni del ministro Salvini su Hezbollah e la politica di Israele hanno suscitato il più che comprensibile sdegno di molti italiani (tra cui non pochi sostenitori del “capitano del popolo” leghista), che non sono disposti a tollerare la pre-potenza di Israele (anche se detestano i pregiudizi antisemiti di non pochi che si definiscono  antisionisti), ma hanno pure offerto l’occasione agli “europeisti antiamericani” di sferrare un attacco durissimo contro i populisti e i cosiddetti “sovranisti”. Invero, è particolarmente significativa sotto il profilo geopolitico la posizione di coloro che considerano i “sovranisti” dei nemici dell’Europa (e della stessa Eurasia) più pericolosi dei neoliberali euro-atlantisti. Questa critica del populismo e del “sovranismo” si caratterizza  per la contrapposizione della politica degli Usa a quella della Ue, senza che sia preso in seria considerazione lo scontro in atto ai vertici della potenza d’oltreoceano.

In pratica, gli “europeisti antiamericani” prendono in esame solo un aspetto che contraddistingue oggi lo scenario geopolitico occidentale, ossia il “sovranismo”, sostenuto soprattutto da Trump e Bannon, in quanto si contrappone all’eurocrazia. In questo modo è facile dimostrare che i populisti (compresi i gilet gialli) o i “sovranisti” sono solo dei burattini della Casa Bianca, il cui scopo è mantenere l’Europa “sotto il tallone americano”, facendo a pezzi l’Ue e privilegiando i rapporti bilaterali tra gli Usa e i singoli Paesi europei.

Ovviamente costoro si guardano bene dal prendere in esame la politica degli eurocrati che ha permesso alla Nato di piantare saldamente le tende in Europa orientale o le conseguenze disastrose per l’Europa mediterranea del neomercantilismo (e del nazionalismo!) della Germania o il ruolo della Ue nel golpe neofascista di piazza Maidan, né prendono in esame la politica marcatamente “russofoba” di Bruxelles.

Agli “europeisti antiamericani” è bastato che Macron dichiarasse che per difendersi dall’America (di Trump, non della Clinton o di Robert Kagan!), dalla Russia e dalla Cina (ma senza che egli precisasse come dovrebbe essere questo esercito, chi dovrebbe comandarlo e in funzione di quali interessi dovrebbe essere costituito), per considerare Macron una sorta di “campione” dell’Europa antiamericana, come se il presidente francese (noto idolo dei “bobos” e dei “venusiani” europei per la sua difesa dei “mercati” e del peggiore melting pot) non avesse esplicitamente menzionato la Russia e la Cina tra i nemici della Ue, né fosse il “rappresentante” europeo di quel deep State americano che è così ferocemente ostile a Trump da accusare esplicitamente (Robert Kagan, Madeleine Albright, ecc.) il cowboy della Casa Bianca di essere “fascista” e amico di Putin (“peccato” imperdonabile per i neoliberali).

Non a caso l’Europa che buona parte di costoro hanno in mente è una specie di IV Reich. L’egemonia americana sul Vecchio Continente viene quindi sì criticata ma appunto in un’ottica geopolitica in sostanza non diversa da quella del III Reich. Si capisce quindi che essi vedano nell’Ue “egemonizzata” dalla Germania la possibilità di dar vita ad un nuovo Reich, dopo la catastrofica sconfitta della Germania nella Seconda guerra mondiale, che di fatto portò l’Europa occidentale ad essere dominata dall’America e quella orientale dall’Unione Sovietica. Ma è proprio la “condizione di vassallaggio” rispetto agli Stati Uniti  in cui si trova ancora l’Europa (occidentale e orientale) che impone ai gruppi (sub)dominanti europei (che sono tali in quanto non hanno intenzione di smarcarsi dall’America) di schierarsi dalla parte di Trump o di quella degli americani contro Trump, e che prova che le affermazioni di Macron sulla necessità di un esercito europeo sono mera propaganda euro-atlantista.

Nondimeno, secondo questi “europeisti” (che evidentemente non comprendono bene che cosa implichi la “condizione di vassallaggio” dell’Europa rispetto agli Stati Uniti) pure Macron può essere utile “alla causa”, dato che pare “riprendere” quel progetto di difesa europea (la Ced) che fallì (all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso) proprio per l’opposizione della Francia. Ci si “dimentica” però che la Ced era sostenuta dagli americani, i quali, una volta preso atto del fallimento del progetto di difesa europea (in funzione antisovietica), si adoperarono per far entrare la Germania federale nella Nato (il che portò pure alla nascita del Patto di Varsavia). Ben diversa era la politica di De Gaulle, che aveva compreso che l’europeismo in realtà non era altro che euro-atlantismo (proprio come l’europeismo di Macron). Certo anche la politica di De Gaulle non era esente da gravi difetti (a cominciare da uno sciovinismo anacronistico). Comunque sia, il generale francese non solo riconobbe la repubblica popolare cinese, allacciò rapporti con l’Unione Sovietica, fece uscire la Francia dal comando militare della Nato, si oppose all’intervento americano in Vietnam, criticò la politica di pre-potenza di Israele e contestò l’egemonia del dollaro, ma mirava a creare un’Europa delle patrie, ossia una Confederazione europea, rispettosa della sovranità nazionale dei diversi Paesi europei nonché delle molteplici espressioni culturali che caratterizzano il Vecchio Continente. In altri termini, De Gaulle mirava a smarcare l’Europa non dalla politica di un presidente americano ma dall’America, senza però che l’Europa tornasse ad essere minacciata dalla pre-potenza della Germania.

Questo significa allora che i “sovranisti” hanno ragione? Certamente no, né si possono ignorare i pericoli del “trumpismo”. Ma nella misura in cui la politica di Trump (benché sia detestabile soprattutto, ma non solo, per quel che riguarda il Medio Oriente) manda all’aria i disegni egemonici dell’euro-atlantismo, creando dis-ordine a livello geopolitico e indebolendo i centri di comando della Ue, “apre” nuovi scenari geopolitici, che rendono possibile una ridefinizione della politica dei singoli Paesi europei sia sotto il profilo economico che sotto quello geopolitico.

Tuttavia, il fatto che i populisti non sappiano o non vogliano approfittarne, ma preferiscano svolgere il ruolo di lacchè della Casa Bianca, privilegiando una forma di ottuso nazionalismo (senza comprendere che il multipolarismo rende necessaria una politica imperniata sui grandi spazi) e difendendo l’estremismo sionista, non implica certo che si debba fare l’apologia di un europeismo che è funzionale solo agli interessi dell’oligarchia neoliberale occidentale (ossia a quelli del gruppo dominante d’oltreoceano – che si oppone a Trump – e dei cosiddetti “europeisti”), con buona pace di chi pensa che l’orologio della storia si sia fermato nel 1945. In definitiva, i nemici più pericolosi dell’Europa non sono solo i populisti filoamericani  ma pure gli “europeisti”, che siano o non siano filoamericani, perché sia gli uni che gli altri di fatto “sognano” un’Europa senza europei.

Infatti, essere europei significa in primo luogo non essere sudditi – né dell’impero americano (“trumpista” o non “trumpista”) né del IV Reich né di qualsiasi altro impero – ma essere cittadini di una qualsiasi polis europea.  E ciascuna polis europea è contraddistinta da una storia che non si può comprendere senza comprendere la storia e le civiltà dell’Eurasia. La possibilità che le diverse poleis europee, a differenza dalle poleis dell’antica Grecia, coesistano e cooperino in unico grande spazio, superando definitivamente divisioni e opposizioni “incapacitanti”, non è diversa quindi dalla possibilità che anche l’Europa e l’Asia coesistano e cooperino in un grande spazio eurasiatico.

ROBERTO BUFFAGNI

Sintesi partita: se la UE si complimenta con il governo e accetta il compromesso, segna un punto. Se cerca l’umiliazione, si apre al contropiede (non si sa se poi siamo in grado di giocarlo e farle gol). Allo stato, è una sconfitta simbolica, non decisiva benchè seria. Diventa scontro decisivo solo se lo cerca la UE. Il che la dice lunga sul problema di fondo del governo, che è la mancanza di strategia. Se non hai strategia, l’iniziativa ce l’ha sempre l’avversario, e tu reagisci più o meno ordinatamente. Importante evitare gesti disonoranti irreversibili; salvo quelli, niente è perduto. Ci sono voluti vent’anni per sprofondare, non bastano sei mesi per tornare a galla.

DEMOCRAZIE ILLIBERALI?, di Teodoro Klitsche de la Grange

DEMOCRAZIE ILLIBERALI?

1.0 Dall’ascesa del populismo va di gran moda – dall’altra parte della “barricata” – parlare di democrazie illiberali.

Si è scoperto che “democrazia”, questo termine dalle molte definizioni, non è solo quella conosciuta nell’Occidente moderno: ma ve ne sono altre. Talk-show e commentatori, insomma, hanno ri-scoperto Benjamin Costant che, paragonando la libertà degli antichi a quella dei moderni ne evidenziava le differenti caratteristiche[1].

  1. Per lo più tale illiberalismo dei vari Orban, Trump (?), Erdogan, Putin (scusate qualche omissione) e soprattutto Salvini-Di Maio è giudicato tale perché tende a promuovere una forma democratica di governo senza quelle garanzie che fanno parte della cultura liberale (libertà di manifestazione del pensiero, di associazione, di eguaglianza giuridica, in taluni casi di libertà personale). Secondo Orban il modello è quello di una “democrazia cristiana illiberale” questa si propone “di difendere i principi originati dalla cultura cristiana, quali la dignità umana, la famiglia, la nazione. E, pertanto, mentre la democrazia liberale è a favore del multiculturalismo, è pro-immigrazione e accetta diverse forme di unione familiare, al contrario, la democrazia illiberale dà priorità alla cultura cristiana, è anti-immigrazione e poggia sui fondamenti del modello familiare cristiano”. A giudizio di Sabino Cassese “Il primo ministro ungherese ha dichiarato più volte di voler realizzare una “democrazia illiberale”. Questo è un disegno impossibile perché la democrazia non può non essere liberale, La democrazia non può fare a meno della libertà perché essa non si esaurisce, come ritengono molti, nelle elezioni. Se non c’è libertà di parola, o i mezzi di comunicazione sono nelle mani del governo, non ci si può esprimere liberamente, e quindi non si può far parte di quello spazio pubblico nel quale si formano gli orientamenti collettivi. Se la libertà di associazione e quella di riunione sono impedite o limitate, non ci si può organizzare in partiti o movimenti, e la società civile può votare, ma non organizzare consenso e dissenso. Se i mezzi di produzione sono concentrati nelle mani dello Stato, non c’è libertà di impresa, e le risorse economiche possono prendere soltanto la strada che sarà indicata dal governo. Se l’ordine giudiziario non è indipendente, non c’è uno scudo per le libertà. Se la libertà personale può essere limitata per ordine del ministro dell’interno (come è accaduto nei giorni scorsi in Italia), i diritti dei cittadini sono in pericolo. Insomma, come ha osservato già nel 1925 un grande studioso, Guido De Riggiero, nella sua Storia del liberalismo europeo. I principi democratici sono «la logica esplicazione delle premesse ideali del liberalismo»: estensione dei diritti individuali a tutti i membri della comunità e diritto del popolo di governarsi”.

Il tutto prefigura uno scontro di civiltà; come si legge sul Foglio (P. Peduzzi) del 28/08/2018 “la democrazia è diventata un patrimonio delle élite liberali, un privilegio acquisito di qualcuno a danno di altri. Se parli e difendi la democrazia sei figlio delle élite, della globalizzazione, dell’apertura, di quella cultura di mobilità e occasioni che fa parte dell’occidente: le nostre libertà non sembrano più un patrimonio comune, ma un ammennicolo di chi non comprende, o addirittura ignora e rifiuta, la volontà del popolo, la sua pancia… la democrazia liberale è un’equazione formata da due elementi principali. Uno riguarda la protezione delle persone da varie forme di tirannia – è il sistema istituzionale di divisione dei poteri. Il secondo riguarda il potere del popolo, la maggioranza che segnala qual è il proprio miglior destino” ma attualmente “lo scontro culturale si è trasformato del tutto. Da una parte ci sono dei democrati illiberali, una democrazia con pochi diritti, dall’altra c’è il liberalismo non-democratico, molti diritti senza democrazia, entità sovrazionali come l’Unione europea. In mezzo gli elettori che tra rabbia, malcontento, solitudine, intolleranze di vario tipo si muovono contro il sistema dei partiti tradizionali”. Al punto in cui siamo “la vittoria di Viktor Orban in Ungheria è la rappresentazione di questo scivolamento e della dicotomia tra democrazia e liberalismo… Il premier ungherese ha farcito la sua retorica elettorale e di governo con un piano preciso, che ha delineato lui stesso nel discorso che ha tenuto il 16 marzo scorso, in occasione del 170esimo anniversario della rivoluzione ungherese del 1848: “L’Europa, e al suo interno anche noi ungheresi, è arrivata a un punto di svolta della storia mondiale. Le forze nazionali e globaliste non avevano mai regolato i conti in modo così palese e pubblico prima d’ora. Noi, milioni di persone con forti sentimenti nazionali, siamo da una parte; le élite dei ‘cittadini del mondo’ sono dall’altra. Noi che crediamo negli stati-nazione, nella difesa dei confini, della famiglia e del valore del lavoro siamo da una parte. Contro di noi ci sono quelli che vogliono le società aperte, un mondo senza confini e senza nazioni, nuove forme di famiglia, lavori poco considerati e lavoratori a buon mercato – e sono tutti sovrastati da un esercito di burocrati nell’ombra che non devono rendere conto a nessuno. Da una parte ci sono le forze nazionali e democratiche; dall’altra le forze sovranazionali e antidemocratiche”. Tale scontro di civiltà anni fa ho pensato che fosse meglio riconducibile ad un nuovo contenuto della prevalente opposizione amico/nemico, che ha ridisegnato sia il “campo” della contesa che gli avversari[2].

La concezione della successione dei diversi discriminanti del politico e dei relativi “campi” è stata esposta da Carl Schmitt[3].

  1. Sul piano concettuale democrazia e liberalismo sono stati distinti. La prima è un regime politico, che individua nel popolo il titolare della sovranità e quindi del potere politico; il secondo una “tecnica” per la limitazione del potere. In questo senso il liberalismo può accedere a qualsiasi regime politico “puro”: monarchia, aristocrazia, democrazia e loro “combinazioni” (status mixtus); nella storia ha generato sempre degli status mixtus, ma è prevalentemente associato alla democrazia.

Secondo la critica di Schmitt all’ideologia liberale manca un qualcosa che costituisca l’unità politica; dall’altro che il liberalismo è, a intenderlo in senso ideale, non un modo di costituire il potere, ma quello di limitarlo. Onde aspettarsi di costituire una sintesi politica senza un principio politico costitutivo è vano. Come ricorda Schmitt citando Mazzini “sulla libertà non si costituisce nulla”.

Ne consegue, come scrive Schmitt nella Verfassungslehre, che “i principi della libertà borghese possono ben modificare e temperare uno Stato, ma da soli non fondano una forma politica […] Da ciò consegue che in ogni costituzione con l’elemento dello Stato di diritto è connesso e misto un secondo elemento di principi politico-formali” (il corsivo è mio).

Il liberalismo può modificare qualsiasi forma di Stato, facendolo diventare una monarchia o una democrazia liberale, ma non può eliminare il principio di forma politica su cui necessariamente lo Stato si basa. La costituzione dello Stato liberale è così necessariamente mista “nel senso che l’elemento in sé autonomo e concluso dello Stato di diritto si unisce con elementi politico-formali”.

L’errore di credere che possa esistere una costituzione liberale “pura” senza politica, né soprattutto senza elementi di forma politica era già espresso nell’art. 16 della Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del Cittadino del 1789: “Toute Sociétè dan laquelle la garantie des Droits n’est pas assurée, ni la séparation des Pouvoirs déterminée, n’a point de Constitution” (il corsivo è mio). Fu stigmatizzato già da de Bonald, che lo criticava nelle (entusiastiche) parole di adesione di M.me De Stael. Scriveva de Bonald che chiedersi se uno Stato esistente da secoli come la Francia, non avesse una costituzione, è come comandare a un arzillo ottuagenario se è costituito per vivere. Ciò perché, come avrebbero affermato circa un secolo dopo altri eminenti giuristi come Santi Romano, uno Stato esistente non ha, ma è , una costituzione. E lo stesso faceva Schmitt nel distinguere il concetto assoluto di costituzione come “concreto modo di esistere che è dato spontaneamente con ogni unità politica esistente” e la cui forma “indica qualcosa di conforme all’essere, uno status, e non qualcosa di conforme ad un principio giuridico o di normativamente dovuto”. Tuttavia “per motivi politici è spesso indicata come “vera” o “pura” costituzione solo ciò che corrisponde ad un determinato ideale di costituzione”. Ma ritiene il giurista di Pewttenberg “una costituzione che non contenesse altro che queste garanzie dello Stato borghese di diritto, sarebbe impensabile; giacché lo Stato stesso, l’unità politica, ossia ciò che è da controllare, deve pur esistere ovvero al tempo stesso essere organizzato”[4].

Pertanto è evidente che nell’espressione “democrazia liberale” il sostantivo designa la forma politica (del potere), l’aggettivo le limitazioni introdotte al medesimo potere (i principi dello Stato borghese). Onde ben può esistere una democrazia – e in effetti ne sono esistite tante – che non sia limitata dall’aggettivo. Per la precisione alcuni dei diritti, garantiti della Costituzione, non sono solo necessari alla tutela del diritto del singolo, ma anche allo stesso esercizio libero e reale delle procedure democratiche – elezioni in primo luogo – come sottolinea Cassese.

L’ “illiberalismo” non consisterebbe nella mancanza  di protezione dei diritti fondamentali, ma specificamente di alcuni di essi,  particolarmente incidenti sulla formazione dell’opinione pubblica e sulla (concreta) libertà di decisione dei componenti il corpo elettorale.

Nella tipologia dei regimi democratici descritti da Norberto Bobbio nella voce “democrazia” del Dizionario di politica, le democrazie illiberali andrebbero ricondotte alla terza specie delineata dallo studioso torinese[5].

Quindi democrazie non liberali esistono, ma sono democrazie un po’… farlocche.

Nel notissimo discorso di Gettysburg, Lincoln chiese, nel luogo dove le cannonate nordiste avevano (da poco) autorevolmente interpretato a chi appartenesse la sovranità, una “definizione” di democrazia che è il caso di considerare.

Il Presidente dopo aver esordito “i nostri avi diedero vita, su questo continente, ad una nuova nazione, concepita nella Libertà e consacrata al principio secondo cui tutti gli uomini sono creati uguali” e ritenuto che il suolo della battaglia era consacrato dagli uomini che vi erano morti, cui nulla potevano aggiungere i vivi, concludeva così “Siamo piuttosto noi a dover essere consacrati al gran compito che ci rimane di fronte: che da questi nobili caduti ci venga un’accresciuta devozione a quella causa per la quale essi diedero l’ultima piena misura della devozione; che noi qui solennemente ci si impegni a che questi morti non siano morti invano; che questa nazione, a Dio piacendo, abbia una rinascita di libertà; e che l’idea di un governo del popolo, dal popolo, per il popolo, non scompaia dalla terra”.

Lincoln ribadiva così il legame tra Nazione e democrazia, già istituito da Sieyes. Una nazione di liberi ed uguali, che proprio perché tali hanno pari opportunità di accedere a (tutte) le funzioni pubbliche ed uguali diritti politici, il cui governo doveva essere sorretto dalla volontà e dal consenso popolare, e l’attività del quale doveva essere indirizzata e perseguire l’ “interesse generale” del popolo. A cui ovviamente, apparteneva la sovranità che così costituiva un potere eminente (anche “costituente”) al di sopra la legislazione e l’apparato pubblico e il cui esercizio era inalienabile ed inappropriabile (v. anche l’art. 3 della dichiarazione dei diritti francese del 1789 “Nul corps, nul individu ne peut exercer d’autorité qui n’en émane expressément”.

L’espressione di Lincoln, nella sua icasticità, non si presta a includere i principi dello Stato borghese (anche se non li esclude): al concetto di democrazia che se ne ricava, il liberalismo accede, come scritto, quale aggettivo.

  1. Comunque è un fatto che la lotta della borghesia per il potere, si basava su due richieste fondamentali congiunte: la partecipazione alla direzione politica (elemento democratico) e garanzie dal potere politico (distinzione dei poteri e tutela dei diritti): tra i due c’è un evidente contraddizione poiché, almeno in determinate condizioni, la direzione politica, o meglio la sovranità, richiede la deroga della distinzione dei poteri che dalla tutela dei diritti fondamentali, come nello stato d’eccezione.

E, indipendentemente dallo stato d’eccezione vi sono zone del diritto pubblico in cui conciliare democrazia e tutela nei confronti del potere richiede il discostarsi da un’attuazione coerente del “compromesso” democratico-liberale: così per la giustizia politica, come anche per la giustizia amministrativa, perché a tacer d’altro, determinati atti, detti “politici” sono da sempre sottratti al sindacato giurisdizionale, ammesso in via generale[6].

Democrazia e liberalismo possono essere in contrasto, ma storicamente è solo l’unione dell’uno e dell’altro che ha consentito la nascita del moderno “Stato rappresentativo” (così denominato dai costituzionalisti d’un tempo come Orlando e Mosca) perché ha coniugato due elementi diversi – e talvolta opposti – ma politicamente sinergici. La prova storica a contrario è che, laddove si sono costruiti (nel XX secolo) regimi totalitari, alla abolizione delle forme e procedure democratiche (elezioni, pluritarismo, libertà di candidatura e di voto e così via) si è accompagnata quella dei principi dello Stato borghese: né distinzione tra i poteri, se questi competevano tutti al Fürher, né tutela dei diritti verso il potere politico (la giustizia amministrativa fu abolita dal nazismo e mai istituita degli Stati del socialismo reale). Così che del principio democratico e di quello liberale si può adottare il detto di Catullo “ncl tecum nec sine te vivere possum”.

5.0 Tuttavia, dato che risulta che in Ungheria da qualche anno (2011) è andata in vigore una nuova Costituzione, voluta da Orban – che era al governo (cui sono state apportate alcune modifiche successivamente innovazioni assai deprecate dai politici dell’U.E.).

Ad esaminare il testo di tale Costituzione, a parte la “professione nazionale”, questa non ha nulla di particolarmente diverso dall’impianto costituzionale di una democrazia liberale. Sono riconosciuti i diritti dell’uomo e del cittadino (art. XXX). L’organizzazione dello Stato si uniforma al principio di distinzione tra esecutivo, legislativo e giudiziario (art. 1-30). È prevista la Corte costituzionale (art. 24); c’è anche un “Commissario dei diritti fondamentali” per la protezione di questi (art. 30); i giudici sono indipendenti. È regolato lo stato d’eccezione (artt. 48-54) con possibile limitazione dei diritti fondamentali.

Nel complesso, e per quanto valga un testo costituzionale scritto, ovvero parecchio, ma non del tutto, e probabilmente meno dell’ordinamento costituzionale concreto (e della Costituzione materiale). appare  che sicuramente i principi dello Stato borghese di diritto sono applicati.

L’altro caso, che ha indotto il “viso dell’armi” dell’U.E. è la Polonia. Anche qui distinzione dei poteri e tutela dei diritti fondamentali sono previsti dalla Costituzione del 1997.

Tuttavia le preoccupazioni dell’U.E. sono state determinate dalle leggi del 2017 sul potere giudiziario così da avviare una procedura d’infrazione ai sensi dell’art. 7 par. 1 TUE avendo l’organo comunitario constatato l’esistenza di un evidente rischio di violazione grave e persistente dello Stato di diritto. La normativa suddetta apportava modifiche alla Corte Suprema e al Consiglio Nazionale della magistratura, che ha fatto seguito a leggi sui mezzi d’informazione, sui poteri della polizia e sul Difensore civico.

Tale normativa – che aveva generato un duro scontro tra maggioranza (del Partito “Diritto e giustizia”) e le opposizioni – concerneva l’accesso al Parlamento dei giornalisti e il rinnovo  della dirigenza dei media pubblici. La legge sui media ha previsto l’immediata sospensione di tutti i membri delle direzioni, nonché dei consigli d’amministrazione dei media pubblici. Tuttavia  non sono state riesumate le disposizioni, abolite nel 1990, “classiche” per il controllo dell’informazione: censura e monopolio pubblico, almeno dei mezzi di comunicazione via etere.

In altre parole sembra che la situazione del diritto di espressione/informazione della Polonia attuale somigli parecchio a quella dell’Italia fino agli anni ’70 (inoltrati): un monopolio dell’etere affiancato da un pluralismo della stampa.

Situazione sicuramente non ottimale, ma comunque di limitata pericolosità e che, se non genera una condizione ideale, non appare idonea a connotare addirittura come “illiberale” uno Stato che, almeno dalle disposizioni costituzionali, appare modellato sui principi dello Stato borghese di diritto.

Vero è che altro è scrivere delle commoventi e condivisibili norme nei testi costituzionali e altro dare loro attuazione nella legislazione e nella prassi amministrativa. In specie noi italiani conosciamo bene la prassi di proclamare diritti altisonanti nella costituzione per poi tradirli nella successiva attuazione.

La stufenbau nazionale è essenzialmente cartacea: la costituzione dispone X, il legislatore, profittando delle equivocità della norma superiore e/o del carattere compromissorio[7], emana la legge Z, e l’amministrazione, sulla base di questa, il provvedimento Y. Spesso tra il “prodotto finito” (cioè il comando concreto) e la norma iniziale c’è una divaricazione evidente; in diversi casi una contraddizione manifesta, se non con la lettera, con lo “spirito” della norma superiore.

Pertanto appare maggiormente trasgressiva dei principi dello Stato di diritto, in larga parte trasfusi nella Convenzione EDU – ed in effetti è la causa della mole di lavoro prodotta per l’Italia dalla Corte EDU – la violazione negli atti concreti (sentenze, provvedimenti e così via) di quanto disposto al vertice della piramide.

D’altra parte, se andiamo alla definizione di “Stato di diritto” (nel senso di democrazia liberale o di “Stato borghese di diritto”), questo si basa, oltre che su quelli cennati, sull’uguaglianza di fronte alla legge, sulla “difesa giuridica” nei confronti del potere, e sul principio di legalità.

Non c’è quindi un sostanziale discostamento di Polonia e Ungheria dai “connotati” dello Stato di diritto. E neanche dallo “Stato costituzionale di diritto” giacché le due citate costituzioni prevedono un controllo di costituzionalità esercitato da una Corte apposita sugli atti legislativi.

Tuttavia è chiaro che una approssimativa garanzia della libertà di informazione è un vulnus alla concezione liberale dello Stato, anche se le limitate compressioni di questo, paragonate alle ben più gravose limitazioni imposte in altre democrazie, non sono tali da giustificare l’espressione di “illiberali”.

Piuttosto il fatto che i leaders di Ungheria e Polonia dichiarino essi stessi di volere una “democrazia (cristiana) illiberale” (o altre consimili) ha fornito il destro per vedere nel loro comportamento molto più illiberalismo di quanto ce ne sia.

Del pari quell’ “illiberalismo” parte dall’identificazione del liberalismo con l’ideologia della globalizzazione. Il che non è vero, se non in parte, giacché la democrazia liberale risulta sempre dall’unione di un principio di forma politica (democrazia) con quelli dello Stato borghese. Senza quella, o almeno senza uno Stato che assicuri l’applicazione del diritto non c’è neanche la garanzia dei diritti, fondamentali e non.

Scriveva Hegel che “lo Stato è la realtà della libertà concreta”[8]: senza uno Stato i diritto non hanno realtà. Lo sanno bene i globalisti i quali in sostanza vogliono ancora gli Stati, ma sottoposti a poteri non statali, non democratici, e forse anche non “politici”, che cercano – e in gran parte riescono – a dominare.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Costant parlava di “libertà” più che di regimi politici; ma la distinzione tra la libertà dei moderni e quella degli antichi, corrisponde a quella tra “libertà da” e “libertà di” (Berlin) ossia tra diritti “liberali” di separazione tra Stato e società civile (Schmitt) e diritti (democratici) di partecipazione al potere. Ne riportiamo i passi fondamentali del famoso discorso di Costant, il sistema rappresentativo “è una scoperta dei moderni e vedrete, Signori, che la condizione della specie umana nell’antichità non permetteva a un’istituzione di questo tipo di introdurvisi o di stabilirvisi. I popoli antichi non potevano sentirne la necessità né apprezzarne i vantaggi. La loro organizzazione sociale li conduceva a desiderare una libertà completamente diversa da quella che questo sistema ci assicura … Chiedetevi innanzi tutto, Signori, che cosa intendano oggi con la parola libertà un inglese, un francese, un abitante degli Stati Uniti d’America. Il diritto di ciascuno di non essere sottoposto che alle leggi, di non poter essere né arrestato, né detenuto, né messo a morte, né maltrattato in alcun modo a causa dell’arbitrio di uno o più individui. Il diritto di ciascuno di dire la sua opinione, di scegliere la sua industria e di esercitarla, di disporre della sua proprietà e anche di abusarne; di andare, di venire senza doverne ottenere il permesso e senza render conto delle proprie intenzioni e della propria condotta. Il diritto di ciascuno di riunirsi con altri individui sia per conferire sui propri interessi, sia per professare il culto che egli e i suoi associati preferiscono, sia semplicemente per occupare le sue giornate o le sue ore nel modo più conforme alle sue inclinazioni, alle sue fantasie. Il diritto, infine, di ciascuno di influire sulla amministrazione del governo sia nominando tutti o alcuni dei funzionari, sia mediante rimostranze, petizioni, richieste che l’autorità sia più o meno obbligata a prendere in considerazione. Paragonate ora a questa libertà quella degli antichi. Essa consisteva nell’esercitare collettivamente ma direttamente molte funzioni dell’intera sovranità, nel deliberare sulla piazza pubblica sulla guerra e sulla pace, nel concludere con gli stranieri i trattati di alleanza, nel votare le leggi, nel pronunciare i giudizi; nell’esaminare i conti, la gestione dei magistrati, nel farli comparire dinanzi a tutto il popolo, nel metterli sotto accusa, nel condannarli o assolverli. Ma se questo era ciò che gli antichi chiamavano libertà, essi ritenevano compatibile con questa libertà collettiva l’assoggettamento completo dell’individuo all’autorità dell’insieme. Non trovate presso di loro alcuno dei godimenti che abbiamo visto far parte della libertà dei moderni. Tutte le azioni private sono sottoposte a una sorveglianza severa. Nulla è accordato all’indipendenza individuale né sotto il profilo delle opinioni, né sotto quello dell’industria, né soprattutto sotto il profilo della religione. Così presso gli antichi l’individuo, sovrano quasi abitualmente negli affari pubblici, è schiavo in tutti i suoi rapporti privati. Come cittadino egli decide della pace e della guerra; come privato è limitato, osservato, represso in tutti i suoi movimenti; come parte del corpo collettivo interroga, destituisce, condanna, spoglia, esilia, manda a morte i suoi magistrati o i suoi superiori; come sottoposto al corpo collettivo può a sua volta essere privato della sua condizione, spogliato delle sue dignità, bandito, messo a morte dalla volontà discrezionale dell’insieme di cui fa parte. Presso i moderni, al contrario, l’individuo, indipendente nella sua vita privata, persino negli Stati più liberi non è sovrano che in apparenza. La sua sovranità è limitata, quasi sempre sospesa; e se, a epoche fisse ma rare nelle quali è pur sempre circondato da precauzioni e ostacoli, esercita questa sovranità, non lo fa che per abdicarvi”. Sieyès aveva già delineato il fondamento della rappresentanza politica nel discorso all’Assemblea Nazionale del 7/09/1989 sul “Véto royal” (v. Behemoth n. 1). Distinguendo tra categorie di “diritti”, il pensatore di Losanna formulava così la distinzione essenziale tra regimi politici.

[2] Mi si consenta di rinviare al mio articolo “Sentimento politico, Zentralgebiet e criterio del politico” pubblicato in traduzione spagnola in Ciudad de los  Cesares (Santiago – Chile) n. 110 marzo 2017; ora disponibile (su stampa) in italiano negli Annali della Fondazione Spirito de Felice 2018 pp. 135 ss..

[3] Nella conferenza Das Zeitaler der Neutralsierung und Entpolitisierungen  trad. it. di P. Schiera in C. Schmitt Le categorie del politico, pp.    Bologna 1972.

[4] V. Carl Schmitt Verfassungslehre, trad. it. di A. Caracciolo Dottrina della costituzione, Milano 1983, p. 64.

[5] v. “Modelli ideali più che tipi storici sono le tre forme di democrazia analizzate da Robert Dahl nel suo libro A preface to Democratic Theory (1956); la democrazia madisoniana, che consiste soprattutto nei meccanismi di freno del potere e quini coincide con l’ideale costituzionalistico dello Stato limitato dal diritto o del governo della legge contro il governo degli uomini (in cui si è sempre manifestata storicamente la tirannia); la democrazia populistica, il cui principio fondamentale è la sovranità della maggioranza; la democrazia poliarchica, che cerca le condizioni dell’ordine democratico non in espedienti di carattere costituzionale, ma in prerequisiti sociali, cioè nel funzionamento di alcune regole fondamentali che permettono e garantiscono la libera espressione del voto, la prevalenza  delle decisioni che hanno avuto il maggior numero di voti, il controllo delle decisioni da parte degli elettori ecc.” v. voce citata, Edizione De Agostini – L’Espresso 2006, p. 513.

[6] Per la giustizia politica ricordiamo quanto scrive Schmitt “Nelle controversie, che a seconda della loro fattispecie o oggetto, quando sia attuata una forma generale di giurisdizione, debbano essere decise per competenza dai tribunali generali – civili, penali o amministrativi -, il carattere politico della questione o l’interesse politico all’oggetto della controversia può venire così fortemente in risalto che anche in uno Stato borghese di diritto deve essere presa in considerazione la caratteristica politica di questi casi. In ciò consiste il vero problema della giurisdizione politica… qui deriva sempre il caratteristica allontanamento dalla forma giurisdizionale tipica dello Stato di diritto, la considerazione del carattere politico attraverso particolarità organizzatorie o d’altro genere con le quali si attenua il principio tipico dello Stato di diritto della giurisdizione generaleVerfassungslehere trad. it. di A. Caracciolo La dottrina della Costituzione, Milano 1984 pp. 182-183; per gli atti politici mi si consenta di rinviare a quanto da me scritto in Temi e Dike nella decadenza della Repubblica in Rivoluzione liberale.

[7] Nel senso del “compromesso” formale dilatorio di Schmitt

[8] § 260 dei Lineamenti di filosofia del diritto.

ZERBINI E SCRIVANI, di Antonio de Martini

GLI ZERBINI

Un certo Boccia a nome del “mondo industriale italiano” – che come ormai tutti sappiamo non esiste quasi più – ha indirizzato al governo, con forme e toni ultimativi, una richiesta a “risolvere la crisi”.

Vogliono altri denari oltre alla montagna di aiuti già avuta negli anni e a quelli ottenuti vendendo le proprie aziende a imprese straniere o andando a produrre in paesi schiavisti dove impiegano bambini di dodici anni a un dollaro al giorno.

L’avidità non ha limiti e anche la sfacciataggine progredisce incontrastata.

Nessuno che abbia messo a posto questo signore.

In un paese col senso della realtà , i lobbisti sussurrano all’orecchio dei governi, non sbraitano come comari.

Un governo con senso della dignità o almeno della realtà, avrebbe già spedito la Guardia di Finanza a spulciare conti e corrispondenza, a lui e al coro di pseudo imprenditori che lo attorniava in TV con grinta eversiva.

In un paese col senso della realtà il sindacato sarebbe già insorto – pro o contro- a difesa delle prerogative delle istituzioni e del proprio ruolo di interlocutore primo delle imprese.

In un paese col senso della realtà la sinistra avrebbe richiamato Boccia e pallini al rispetto delle istituzioni e dei ruoli.

Al presidente Mattarella ricordo che quando si lascia “spubblicare” una istituzione, si apre la strada al non rispetto di tutte.

Non ha letto Hemingway e pensa di sapere per chi suona la campana.

I DIALOGHI SI FANNO IN DUE E I NEGOZIATI ALMENO IN TRE.
( parole chiare all’alleato)

Se volete avere un esempio da manuale di come un paese straniero governi i fatti italiani tramite scritturali d’accatto, potete leggere a pagine 15 del “ Corriere della sera” , di oggi 4 dicembre, l’articolo che Maurizio Caprara – la cui famiglia ci è ben nota- dedica ad una riunione dell’ASPEN italiana dove hanno concionato sul tema “ dialogo Stati Uniti-Italia” in cui ha parlato soltanto l’ambasciatore americano. Se parla uno solo, si chiama monologo.

Pare fosse presente anche il nostro ministro degli esteri Moavero, dei cui interventi – se ci sono stati- lo scriba non da cenno. È il destino dei servi.

In pratica, senza un minimo di contraddittorio, l’ambasciatore chiede di comprare gas liquido americano e stoccarlo in grandi quantità in “ maniera da diventare protagonisti in Europa”; di accogliere due rappresentanti del dipartimento di Giustizia USA che ci insegnino a incriminare gli hacker “ russi, cinesi e nord coreani”.

(A noi risulta – grazie a wikileaks- che siamo stati intercettati solo dalle antenne della Ambasciata USA di Roma e dal consolato USA di Milano, ma potrei sbagliare.)
Ci si fa notare che esportiamo negli Stati Uniti “ più di quanto importiamo” .

Lo trovo evidente, dato che loro hanno 300 milioni di abitanti ( di cui il 10% italiani o oriundi) e noi 60.

Il terzo “ fraterno consiglio” che sua eccellenza l’ambasciatore ci da, consiste nel “mantenere la sanzioni alla Russia per perseguire la pace in Ucraina”.

Roba che invece io credevo che bastasse non spedire navi militari negli stetti di Kerk e spendere 5 miliardi di dollari per sobillate la popolazione.

Per fortuna l’Aspen Institute ha un uditorio persino inferiore a quello dello IAI altro serbatoio propagandistico di sciocchezze antinazionali a piè di lista cui nessuno da peso.

LA RISPOSTA ITALIANA CHE È MANCATA:

1) Nella proposta USA non si parla di prezzi del gas e di costo del trasporto e nemmeno delle prospettive concrete esistenti aperte dai giacimenti mediterranei di gas e petrolio trovati nelle acque di Cipro ed egiziane, per non parlare della Libia.

Possiamo svolgere il ruolo di grimaldello, ma in un contesto più vasto che comprenda l’oleodotto transasiatico, i giacimenti mediterranei e il gas liquido USA, nonché l’elettrodotto nordafricano in progettazione.

2) Non ha detto – sua eccellenza- una parola circa il pericolo, non solo ecologico, di stoccare enormi quantità di gas e petrolio sul nostro territorio a prezzi ignoti e maggiori degli attuali.

3) verso la Russia possiamo esportare ANCHE tecnologie e non solo mozzarelle

4) Se i nord coreani ci hackerano, detto con tutta franchezza non ci perplime

5) Dialogo significa scambio di comunicazioni e – in cambio di eventuali alleanze comunque da rivisitare – vogliamo:

a) mano libera nel LEVANTE MEDITERRANEO ( giacimenti di Cipro, Libano, Egitto che siamo disposti a condividere ma non a abbandonare)

b) la piena responsabilità dell’approvvigionamento dalla Libia

c) una Co-garanzia del nostro debito pubblico in maniera da tacitare i farabutti che puntano a far lievitare il debito italiano e il suo costo.

d) Gli USA rispettino il principio di non ingerenza sancito dal Congresso di Vienna e limitino al ragionevole le loro nei fatti italiani o noi ritorneremo ad attivare i circoli di italiani e oriundi negli Stati Uniti per rafforzare le capacità di lobbying dei nostri connazionali.

e ) evitino, per quanto possibile di destinare al nostro paese diplomatici di origini mediorientali.

f) rafforzino le Nazioni Unite cessando di sabotarne i già tenui sforzi verso un ordine internazionale credibile.

G) Disponendo l’Italia di oltre il 50% dei beni culturali del mondo, va riconosciuto il suo ruolo preminente in seno all’UNESCO.

Nulla di non ottenibile da un amico e alleato. Altrimenti potremmo guardarci attorno in cerca di meglio.

IL NEMICO PRINCIPALE, di Teodoro Klitsche de la Grange

Un saggio, già pubblicato sul periodico “Rinascita” nel 2012, un po’ datato nei riferimenti, attuale negli argomenti_Giuseppe Germinario

IL NEMICO PRINCIPALE

In Italia si vota tra qualche mese, e l’ “antipolitica” la fa da padrona; prodotti dell’antipolitica sarebbero (sono?) Monti, Grillo, Di Pietro e molte altre figure secondarie. Un’affollata compagnia in cui regna il disaccordo su cosa sia l’antipolitica e cosa proponga. Se ne fa, per connotarla, talvolta una questione di stile (sobrietà, loden) talaltra di ricambio di classe politica, altra di “moralità”, o si riecheggia Saint-Simon e la sua utopia tecnocratico-economicista.

D’altra parte, per i partiti “tradizionali” (quelli che sarebbero – o farebbero parte – della politica) si profila, per definire la propria posizione, il ricorso ai consueti argomenti (non disdegnati neppure da alcune fazioni “antipolitiche”): da un lato opporsi al comunismo (defunto – per fortuna tranquillamente – da più di vent’anni), dall’altro al berlusconismo, combattere il quale sarebbe scelta di civiltà (ma anche di bon ton). Si fa anche riferimento a temi che, sia pur d’importanza fondamentale, non si definiscono per contrapposizione.

È evidente che tali posizioni sono accomunate dal distacco dai problemi concreti e reali in questo momento storico, e dall’evidente incapacità o non volontà di comprenderli chiedendo, intorno a qualche idola (o pregiudizio condiviso) un consenso del tutto inidoneo, poi, a risolvere la crisi che attanaglia l’Italia e l’Europa.

Se la politica è, in primo luogo, scelta tra l’amico e il nemico, la “politicità” dev’essere valutata in quanto porta (e consegue) a questa scelta: in un mondo dove tutti gli uomini fossero amici, solidali, ispirati da reciproci sentimenti fraterni la politica non avrebbe senso[1].

Anzi come scrive Schmitt la politica trova i suoi momenti più intesi laddove è visto, con chiara determinazione, il nemico e, di converso, quelli più pericolosi (o inutili) quando questi non è percepito (vuoi perché non “visto”, vuoi per rifiuto di ammetterne l’esistenza e così via)[2].

Occorre che si tratti tuttavia, del nemico reale (e non di un nemico immaginario o secondario) e non prendere (indicare) come nemico colui che non lo è nella concreta situazione storica.

Orbene considerare come nemico reale (cioè principale ed attuale) il comunismo, a vent’anni dall’implosione del medesimo, è fare archeologia politica. Né il collasso (avvenuto pacificamente senza nessuno che morisse per difenderlo) né le vicende successive (quante “restaurazioni” di regimi comunisti abbiamo visto in questo ventennio?) ne fanno un nemico credibile[3]. È un nemico ascrivibile alle situazioni e nelle contrapposizioni politiche del “secolo breve” e non sopravvive a queste.

Dall’altra neanche Berlusconi (e il berlusconismo) possono costituire un nemico reale, non appena si consideri la situazione concreta. Di fronte ad una crisi che coinvolge tutta l’eurozona (soprattutto, ma anche tutto il mondo occidentale), addossarne le responsabilità al cavaliere, che anzi ne è stato una “vittima”, essendo uno dei quattro leaders politici europei “detronizzati” dall’inizio (e in conseguenza) della crisi, è comicità involontaria. Se Berlusconi avesse, con la propria opera (anche con i propri errori) il potere di far tremare l’economia occidentale, sarebbe prossimo a conseguire l’onnipotenza. Ma ciò, checché ne pensino i suoi avversari (e lo stesso interessato) non è.

Quindi non può essere nemico né principale, né attuale. Quanto agli altri attori: Monti ha parlato una o due volte di “guerra”, relativamente alla crisi dell’eurozona, senza indicare il nemico, cioè l’elemento più importante. Grillo, nella varietà delle esternazioni, è orientato a ritenere nemica la classe politica e forse l’intera classe dirigente;: anche qua, anche se qualche ragione il comico ce l’ha, vale il discorso fatto per Berlusconi: non è credibile che, per quanto la si possa considerare modesta e pusilla, abbia la responsabilità di tanto sconquasso. Di Pietro muove guerra (a parole) al soggetto politico mediaticamente più esposto: dato il calo dell’ “effetto Berlusconi” indirizza il grosso delle esternazioni contro Monti e Napolitano, anch’essi nemici improbabili (perché non principali, anche se attuali).

La realtà è che fare politica, ancor più in un momento di crisi, e non indicare  cause, conflitti e i soggetti (tra cui il nemico), è, come cennato, inutile: una lunga ammuina, una sceneggiata in cui l’oggetto reale del contendere sono posizioni di (ormai) sottopotere: se (il potere, ed) il conflitto reale non è individuato (e quindi non è combattuto) chi governa come “testa di legno” o gauleiter del (realmente) potente è comunque uno strumento di questo, il collaboratore/esecutore della potestas indirecta (fin quando non si voglia appalesare directa). La situazione è nuova; nella contrapposizione che ha dominato dopo la fine del secondo conflitto mondiale, le posizioni erano chiare, e attraversavano il confine degli Stati,  com’era evidente nei regimi di democrazia liberale e pluripartitica (e occultato invece in quelli di socialismo reale): alla competizione planetaria tra due superpotenze, con ideologie contrapposte, corrispondeva un antagonismo interno tra partiti e organizzazioni sociali che si richiamavano, peraltro in modo palese, all’una o all’altra superpotenza. Il nemico (il capitalista, il comunista) era insieme interno ed esterno.

Ma se, come ora, il “nemico”, peraltro da identificare, appare come (ed esercitante un) potere supernazionale, asseritamene non politico, non ideologico (nel senso che tale termine aveva fino a qualche decennio orsono), e neppure “strutturato” (organizzato in istituzioni tra loro collegate, fino alla dipendenza), il tutto rende da un lato difficile identificare il nemico; ancor più, dall’altro, i rapporti tra questi e le forze politiche (e “non politiche” come poteri forti e così via) interne.

L’unica affermazione che si può fare  con alto grado di probabilità è che il nemico è globale, cioè è “internazionale” “superstatale”, e così tendenzialmente (anche perché la dimensione nazionale costituisce  una piccola frazione di quella globale) esterno. Non solo perché l’incidenza del capitale italiano nella finanza è una (piccola) frazione del totale, ma anche perché anche questa è sostanzialmente svincolata dal potere “interno” esercitato dallo Stato, normalmente, su basi, rapporti, attività di carattere, oggetto e regolazioni totalmente diverse, inapplicabili in tutto o in parte alla finanza globale[4].

Alle difficoltà di applicazione di misure, pensate per l’ “economia reale”, cioè che ha a che fare con res, si aggiunge quella di identificare il nemico, e quella di “classificare” le azioni intraprese dai poteri finanziari globali secondo l’attività umana alla quale devono ricondursi.

Come già scritto altrove[5], anche se l’intenzione della speculazione internazionale (e della grande maggioranza degli speculatori) è quella, ovvia, di far soldi, gli effetti sono stati sicuramente (in gran parte) politici. Sono cambiati quattro governi dell’eurozona (Grecia, Italia, Spagna, Francia); è modificato (si sta modificando) il  modo di esistenza delle popolazioni europee, in ordine al reddito, alle chances di vita, alle abitudini, e anche alle regole (principi e/o consuetudini giacché non  prescritte nella costituzione formale) della forma politica, in particolare in Italia[6].

D’altra parte neppure il fine di arricchirsi è carattere peculiare e “proprio” dell’attività economica giacché da sempre è uno degli scopi ed effetti della politica e del dominio politico (prede, tributi, riparazioni, confische a carico dei governati o dei nemici vinti)[7].

Ne consegue che l’effetto esclusivamente o principalmente economico non esclude che si tratti di nemico (politico) e non di concorrente (economico). È comunque opportuno chiarire chi e come possa identificarsi (e considerarsi) nemico.

  1. Secondo Hegel il nemico è la “differenza etica”[8]. A considerare in termini più moderni (e conseguenti all’egemonia delle ideologie negli ultimi due secoli) ciò significa che il nemico si caratterizza non tanto per la diversità di nazionalità, di religione, di interessi economici, quanto per la diversa visione ideologica, cioè sull’ordinamento futuro delle comunità umane. La differenza etica, secondo una terminologia corrente (anche in ambito giudiziario) si definisce in una differente “tavola di valori” fondamentali: da un lato libertà, individualismo, separazione dei poteri (e quanto ne consegue). Dall’altro eguaglianza, collettivismo, proprietà collettiva (e quindi concentrazione dei poteri). Altre varianti: Dio, patria, famiglia; o razza, spazio vitale, popolo superiore.

Come Max Weber ha chiarito tra i “valori” c’è lotta senza quartiere: valorizzare significa insieme svalorizzare[9].

L’effetto polemogeno della valorizzazione è stato quanto mai chiaro nel secolo scorso, ideologico per eccellenza, quindi portato a vedere i conflitti (esterni e anche interni alle unità politiche) come risultato di differenti “visioni del mondo” e conseguenti “tavole di valori”. Il tutto poneva in secondo piano che, in primo luogo, il nemico è colui che attenta alla mia esistenza (politica e, spesso, anche fisica) e alla mia indipendenza: e che i motivi delle guerre spesso – anzi quasi sempre nella storia – hanno avuto nulla (o poco) a che fare con le “tavole dei valori”. È il pericolo minacciato all’esistenza indipendente che determina la scelta del nemico reale, e non la contiguità o la distanza ideologica. Un convinto anticomunista come Churchill si alleò con Stalin contro Hitler, perché dall’altra parte della Manica stazionavano le Panzerdivisionen, mentre quelle sovietiche stavano, tranquille, ad oriente della Vistola. Ciò non toglie, che quando queste, all’esito del secondo conflitto mondiale, avanzarono fino all’Elba, Churchill identificasse nuovamente nel comunismo sovietico il nemico reale[10].

L’enfasi sulle “tavole di valori” ha portato a trascurare come la primaria esigenza di ogni sintesi (unità) politica, sia conservare la propria esistenza, capacità d’azione e protezione (dei cittadini). Di fronte a ciò differenze etiche, “tavole di valori” e rispetto delle norme sono relative: la massima romana, universalmente valida “salus rei publicae supremo lex”, va coordinata al detto “primum vivere, deinde philosophari”. Come aveva colto Max Scheler[11].

Scrive Miglio – seguendo in ciò quanto già intuiva Eschilo nelle Eumenidi – che l’esistenza del nemico è essenziale all’unità politica, al punto che “là dove il nemico non c’è, lo si inventa, lo si va a cercare. Dove il nemico poi c’è, ma non ha nessuna voglia di minacciarci, lo si immagina in modo minaccioso”[12].

Per cui c’è l’errore speculare a quello che qui stigmatizziamo: quando il nemico reale non c’è, si costruisce un nemico immaginario[13]. Cioè inesistente (o non animato da intenzione ostile). Errore capitale, al pari dell’inverso. Come sostiene Eric Werner[14] “Affinché il nemico svolga il suo ruolo di cemento, sono dunque necessarie due cose: da una parte che esista oggettivamente, ma dall’altra parte che sia anche effettivamente riconosciuto e designato come tale. E questa seconda condizione, per essere soddisfatta, ne suppone a sua volta un’altra. Bisogna che la collettività accetti di guardare in faccia la realtà, senza lasciarsi indurre in errore da discorsi seducenti”. In un caso non c’è il nemico, nell’altro non lo si riconosce. A tutto profitto del medesimo. Se la guerra è un camaleonte, come pensava Clausewitz, tale può essere anche il nemico[15]: una delle qualità dell’animaletto è la mimetizzazione, che consente di non essere percepito, quindi da un lato non essere vulnerabile, dall’altro di poter compiere atti ostili a proprio comodo.

  1. La crisi – ormai quasi secolare – del sistema Westfaliano è particolarmente acuta in relazione a chi possa essere (legittimamente) nemico. Se Rousseau poteva scrivere che la guerra è una relazione tra due Stati sovrani, nel dopoguerra seguito al secondo conflitto mondiale, la maggior parte delle guerre (circa tre quarti) sono state combattute da soggetti (o con soggetti) che non sono Stati ma partiti rivoluzionari, movimenti guerriglieri, talvolta tribù. Tuttavia ai combattenti irregolari era garantito dal diritto internazionale un trattamento, che li assimilava agli eserciti regolari. Con ciò viene depotenziata, quasi annichilita la massima del diritto romano che “sono nemici (hostes) coloro che ci hanno – o cui abbiamo – pubblicamente dichiarato guerra: gli altri sono briganti o pirati”[16].

Se il nemico non è più lo Stato (e non è più pubblico, in quanto soggetto ordinato, con organi e rappresentanti), ma può essere privato, la guerra cosa diventa?

  1. La guerra è pubblica, se non nel senso soggettivo, sicuramente in quello oggettivo, ovvero di confronto tra parti perché l’una sia costretto a compiere la volontà (e l’interesse) dell’altra; e il tutto al fine di modificare i rapporti di potere e di dominio che, già da Tucidide, sono considerati una delle “costanti” della politica. E così cambi di governi, mutamenti del modo di esistenza, aumento delle imposte onde remunerare gli interessi sul debito pubblico.

Un tempo si chiamavano tributi, indennità, riparazioni, danni di guerra, oggi spread. Se, come appare dalle notizie di stampa, le varie “manovre” economiche (prima di Tremonti, poi di Monti) ci sono costate circa 200 miliardi di euro (anche se “spalmati” in più anni) abbiamo anche l’importo (per ora) del “tributo”. Non è il caso di ripetere quanto già scritto[17] sulla guerra contemporanea, in epoca di pacifismo imperante, da due colonnelli cinesi (riprendendo le concezioni dell’antico pensiero strategico cinese e indù) nel noto volume “La guerra senza limiti”: e cioè che per la guerra non è necessario (sempre) ricorrere alla violenza: basta un embargo, impedimenti al transito di beni e servizi, manovre coordinate di borsa, attacchi informatici, e così via. D’altra parte l’uso di mezzi economici per piegare la volontà del nemico non è neppure una scoperta moderna (pur essendo stata spesso praticata nella modernità).

La situazione creatasi negli ultimi due anni, in particolare in Europa, rientra appieno nelle pratiche di guerra economica, come negli effetti politici della guerra.

  1. A questo punto, tornando al punto di partenza, è il caso di chiedersi se l’antipolitica non trovi il proprio brodo di cultura nell’assenza di guida politica. Se infatti la politica, nel nocciolo duro e nei momenti decisivi, è riconoscimento e indicazione del nemico, che senso ha una guida politica che non lo indichi e non prenda le decisioni conseguenti?

A leggere i discorsi, che nelle emergenze, sono stati pronunciati dai capi politici, si ritrova sempre l’indicazione del nemico. Dall’orazione di Calgaco prima della battaglia con Agricola, a quella di Cromwell contro la Spagna, dal Churchill delle “lacrime, sudore e sangue” all’appello di De Gaulle del 18 giugno 1940.

Certo sono tutti discorsi pronunciati in situazioni estreme, e questa non è, neppure lontanamente, paragonabile a quelle. Ciò non toglie che non vi sia il bisogno di trovarsi in circostanze drammatiche per riconoscere il nemico e prendere le misure opportune per contrastarne gli “atti ostili non violenti”, in cui consiste questo tipo di conflitto. Ma se il riconoscimento non viene fatto, non è dato neppure prendere quelle; non resta che far buon viso a cattivo gioco, riversando sui cittadini il costo emergente, come se si trattasse di un terremoto.

In tal caso, se la guida politica non indica il nemico, non prende le misure necessarie a risolvere il (determinato) conflitto, con quell’(individuato) nemico, vuol dire che non è una “guida” politica, ma tutt’al più un governo dimezzato, ridotto alla sua funzione di comando interno.

In fondo, se si considera la storia, le sintesi politiche dipendenti da altre sono state in primo luogo private del potere di riconoscere (designare) il nemico: questo a partire dalle città federate romane fino ai protettorati coloniali dei secoli passati.

In tali condizioni, con una (classe) politica che non svolge il proprio ruolo, è naturale che vi sia un rifiuto della politica. Ma non è dato intendere quanto ciò sia rifiuto della classe (politica) e quanto della politica in se, dovuto all’effetto affabulatorio delle (varie) ideologia antipolitiche, a cominciare dal marxismo (della società comunista realizzata) alle utopie tecnocratiche-economiciste, alle ipotesi di fine della storia.

  1. Se si va a votare in queste condizioni, ci si sorprende non perché l’astensionismo cresca, ma perché cresce troppo poco. Dare i suffragi a frazioni di classe politica (e aspiranti tali) che considerano solo nemici interni (quando è evidente che attori e fattori della crisi sono soprattutto esterni), appare – innanzitutto – inutile. Come parteggiare per dei duellanti che non si contendono la guida di un paese, ma come spartirsene le spoglie e accollare i costi (sotto la supervisione del vincitore).

Tuttavia per ripartire le spese di una guerra perduta, bastano degli amministratori; per lottare dei capi politici. La gente, forse inconsapevolmente, l’ha capito. E si comporta di conseguenza: che un voto dato non vale una scampagnata persa.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] V. Carl Schmitt Der Begriff des politischen, trad. it. ne Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 143 ss.

[2] v. Schmitt “Pensiero politico ed istinto politico si misurano perciò, sul piano teoretico come su quello pratico, in base alla capacità di distinguere amico e nemico. I punti più alti della grande politica sono anche i momenti in cui il nemico viene visto, con concreta chiarezza, come nemico… dovunque nella storia politica, di politica estera come di politica interna, l’incapacità o la non volontà di compiere questa distinzione appare come sintomo della fine politica” op. cit. p. 154-155.

[3] Il che non significa che non vi sia (e non vi sarà) una “sinistra”, dato che l’esistenza di forze politiche riconducibili al di essa concetto è una costante  storica; né che sia opportuno conservare istituti e norme di un’epoca (e di una visione del mondo, di una situazione politica) tramontata.

[4] Dovrebbero far oggetto di un’autonoma riflessione, a tale proposito, quelle considerazioni nel pensiero politico e giuridico degli ultimi due secoli che legano i caratteri dello Stato e del diritto “classico” alla terra, al territorio (e quindi al “confine”, che delimita il diritto applicabile). A cominciare dalle affermazioni di Louis de Bonald, che sottolineava come il capitale commerciale non avesse limiti al proprio accrescimento, a differenza della proprietà fondiaria (e feudale): con le relative conseguenze di ordine politico “I grandi patrimoni immobiliari fanno inclinare lo Stato verso l’aristocrazia, ma le grandi ricchezze mobiliari lo portano alla democrazia; e gli arricchiti, divenuti padroni dello stato, comprano il potere a buon mercato da coloro cui vendono assai cari zucchero e caffè”. Observations sur l’ouvrage de M.me la Baronne de Staël, trad. It. La Costituzione come esistenza, Roma 1985, p. 44; di M. Hauriou che ritiene il diritto e l’ordine vigente legato all’età sedentaria dell’umanità v. Precis de droit consitutionnel, p. 41 ss. e  che sia detto incidentalmente, scriveva che “le organizzazioni della società reale (positive) sono tutte disorganizzate dal denaro” e portava ad esempio l’impero romano, il basso medioevo e l’organizzazione  capitalista (a lui) contemporanea (v. La science sociale traditionnelle in Écrits sociologiques, Paris 2010, pp. 239-241); di Hegel nei paragrafi  245-248 dei Grundlinien; di Carl Schmitt che vi è tornato sopra più volte, elaborando la dicotomia terra-mare, determinante diversi tipi di esistenza, e quindi di diritto di guerra. Occorre considerare quanto questo apparato istituzionale (e concettuale) sia adatto a “proteggere” (ossia a difendere, governare e regolare) attività umane che sono esattamente l’opposto del “sedentario” del “territoriale” del “delimitato”. Un diritto elaborato per società sedentarie è – quanto meno – depotenziato dal carattere immateriale della finanza globalizzata. Su questo è interessante leggere gli interrogativi che si è posto G. Tremonti in Uscita di sicurezza (Milano 2012, in particolare pp. 20 ss.).

[5] Ci si permetta di richiamare quanto da me scritto in “Nemico, ostilità e guerra” pubblicato elettronicamente sul sito del Cestudec; su stampa in Cile su Ciudad de los Cesares n. 96; e in Francia su Catholica n. 116, pp. 63 ss., cui rinviamo.

[6] Ci si riferisce al carattere tecnico del governo Monti, il cui primo connotato è di essere tale in negativo, nel senso che i componenti dell’esecutivo non sono politici (di professione o di vocazione o d’ambedue).

Ma un governo tecnico nel senso cennato, contraddice a due principi dello Stato e della democrazia moderni: che l’apparato burocratico abbia al proprio vertice personale politico (Max Weber); e questo sia tale per “carriera” (il cursus honorum “normale” del politico, cioè l’elezione o la nomina in organi designati dal corpo elettorale, come assemblee regionali o degli enti locali, e non per aver passato un concorso pubblico). E che l’organo così composto sia riferibile alla volontà del corpo elettorale. Che è il carattere (anche) della repubblica parlamentare, cioè della forma di governo vigente. Nel caso del governo Monti a collegarla alla lettera della Costituzione (ed al carattere democratico) è solo il voto parlamentare di fiducia, dato che non risulta che alcuno dei componenti l’esecutivo sia stato mai eletto, neppure in un consiglio di quartiere.

[7] V. sul punto G. Miglio Lezioni di scienza della politica, vol. II, Bologna 2012, in particolare pp. 320 ss. (ma il tema dell’ “appropriazione” e della “rendita” politica è trattato in più punti dell’opera citata).

[8] Hegel scrive: “Quella differenza nel suo manifestarsi è la determinatezza, e questa è posta come qualcosa che va negato. Ma questo qualcosa da negare dev’essere essi stesso una totalità vivente […]. Una differenza siffatta è il nemico; e la differenza, posta in relazione, sussiste nel contempo come il proprio contrario, come il contrario dell’essere degli opposti, come il nulla del nemico, e questo nulla equivalente da entrambi i lati è il pericolo della lotta. Questo nemico può essere, per l’elemento etico, soltanto un nemico del popolo ed esso stesso un popolo. Presentandosi qui la singolarità, è per il popolo che il singolo si espone al pericolo della morte” trad. it. in Il dominio della politica, a cura di Nicolao Merker, Roma 1997, p. 174.

[9] V. sul punto anche Carl Schmitt in Die Tirannie der Werthe.

[10] Sul nemico reale v. le pagine di Carl Schmitt in Teorie des partisanen, trad. it. Milano 1981, pp. 68 ss.

[11] Il quale sosteneva, in Politica e morale (trad. it. Brescia 2011) “La politica ha a che fare, in primo luogo, con i valori vitali della collettività: non con la «felicità del maggior numero», né con i valori spirituali. Esistenza vitale e libertà vengono prima di tutto il resto”; per cui la “politica non è in alcun modo subordinata alla «legge morale»: l’agire morale è essenzialmente differente dall’agire politico, anche nel singolo. L’agire politico e quello morale, e il diritto, tuttavia sono subordinati all’ordine oggettivo dei valori (assiologia)” e proseguiva “La politica non può mai essere vincolata a «norme» (corrispondenti all’ordine dei valori). Le norme si modificano, mentre l’ordine dei valori resta fisso”. In effetti anche l’ordine dei valori si modifica, anche se molto più lentamente delle norme. Ad esempio dell’Unità d’Italia a considerare le “tavole di valori” deducibili dalle costituzioni (formali e materiali) ne abbiamo avute almeno tre, corrispondenti ai regimi liberale, fascista e repubblicano.

[12] Op. cit., p. 248; v. (tra i tanti) sul punto E Werner L’anteguerra civile, Roma, 2004, pp. 72 ss..

[13] Occorre considerare che in molte lingue indoeuropee il nemico è linguisticamente il non-amico (cioè il non appartenente alla “comunità” politica, potenzialmente ostile); v. A.A.V.V. Amicus (inimicus) hostis, Milano 1992 in particolare il saggio di A. Vitale p. 87 ss.

[14] Op. loc. cit.

[15] In effetti Clausewitz chiama camaleonte la guerra perché “in ogni momento modifica la sua natura” (v. Vom Kriege trad. it. Milano 1970, p. 40). Il nemico lo fa con l’aspetto; la guerra cambia di natura.

[16] D 118, 50, 16.

[17] V. nota 5.

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