Perché siamo privi di una cultura strategica?, di Piero Visani

Qui sotto un saggio di Piero Visani, già pubblicato nel 2013. L’interesse, ovviamente, scaturisce dall’analisi dell’approccio di fondo che ha mosso le scelte di politica estera e di intervento militare delle classi dirigenti del nostro paese piuttosto che dall’approvazione o meno delle specifiche azioni nelle particolari contingenze politiche_Giuseppe Germinario

Perché siamo privi di una cultura strategica?

https://derteufel50.blogspot.com/2013/11/perche-siamo-privi-di-una-cultura.html?fbclid=IwAR3gPdagjKsfdP0q18-25135cqqH9I3TizVy-2-p_SL2m52DW78P5jxmCEQ
Peter Pace, Edmund Giambastiani, addirittura Marilyn Quagliotti: se si guarda al vertice militare delle Forze Armate statunitensi, vale a dire al braccio armato della maggiore potenza mondiale, i cognomi di origine italiana non mancano certo e occupano posizioni di assoluto prestigio. Peter Pace è un marine, addirittura il primo che sia riuscito a raggiungere l’ambita carica di Chairman of the Joint Chiefs of Staff, l’equivalente del nostro Capo di Stato Maggiore della Difesa; Edmund Giambastiani è oggi al vertice militare della NATO, dopo essere stato ai massimi livelli dell’U. S. Navy. Marilyn Quagliotti è un generale a due stelle dell’Esercito con il prestigioso incarico di vicedirettore della DISA (Defense Information Systems Agency) e anche lei – come i suoi due più titolati colleghi e forse in misura ancora maggiore, visto che si tratta di una donna – smentisce quelli che potremmo definire i luoghi comuni sulla “ridotta attitudine militare” degli italiani. Quello che si vuole dire, in sostanza, è che non si arriva ai vertici dell’apparato militare statunitense se non si hanno qualità di un certo tipo e, tra queste, la “ridotta attitudine militare” non è certamente un requisito necessario, anzi.

Malgrado ciò, malgrado il fatto che sia possibilissimo per elementi di chiara origine italiana farsi strada fino ai massimi gradi della più importante organizzazione militare del mondo, lo stereotipo di “mandolinai e pizzaioli”, di gente inaffidabile, che non sa battersi e tanto meno lo ama, ci perseguita da tempo. A quando risale la genesi di questo dato storico negativo? Tralasciando i repentini capovolgimenti di fronte che hanno fatto la storia di casa Savoia, cioè della casata che ha svolto un ruolo determinante nella storia d’Italia, e che tuttavia si riferiscono molto più alle sue vicende preunitarie che a quelle successive, è possibile trovare parecchie tracce di inaffidabilità e di scarsa propensione al combattimento nella storia italiana. Un esempio classico di inaffidabilità politica è rappresentato dai “giri di valzer” che caratterizzarono l’Italia giolittiana, con l’appartenenza formale alla Triplice Alleanza con gli Imperi centrali e le scelte politiche successive, esattamente antitetiche, che portarono l’Italia ad entrare nella Grande Guerra dalla parte dell’Intesa. A sua volta, un esempio classico di scarsa propensione al combattimento è rappresentato dalla rotta di Caporetto[i] e dai fenomeni che si verificarono durante ed a seguito della medesima, con i ben noti casi di “sciopero militare” mai troppo indagati da un lato e strumentalmente utilizzati per coprire le macroscopiche deficienze professionali degli alti comandi e del corpo ufficiali dall’altro.

Certo è che già al momento dell’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale la tesi che gli italiani “non sapessero” o “non amassero battersi” era una voce piuttosto diffusa e radicata, se tutti gli interventisti, compresi quelli della Sinistra nazionale[ii], reclamarono con forza la scelta della via delle armi proprio per smentire, anche e soprattutto con il loro personale esempio, tale fama disonorevole. Il loro sacrificio non fu vano, non solo perché portò alla vittoria del 1918, ma anche perché consentì il lievitare nel nostro Paese di un fenomeno come quello dell’arditismo, autentica smentita vivente, con la sua valentia delle armi e la sua estetica della morte, dei troppi luoghi comuni che circolavano a carico delle qualità militari degli italiani.

Sfortunatamente per i nostri destini di Nazione, la contrapposizione tra “i soliti quattro gatti” capaci di fare miracoli con l’ardimento e l’inventiva, e un’istituzione militare burocratica, misoneista, professionalmente discutibile e tecnicamente inetta, corrosa dal carrierismo e da clientelismi di tutti i generi, è una “sottile linea rossa” che percorre la storia nazionale dal 1918 in avanti, intinta (ci si perdoni la retorica, ma è necessaria) nel sangue dei suoi figli migliori: dalle intuizioni di Giulio Dohuet sul bombardamento strategico a quelle di Teseo Tesei sulla possibilità di usare mezzi navali modestissimi come moltiplicatore di forza di un Paese povero e scarsamente industrializzato, dalle imprese grandi e piccole degli eroi, noti e meno noti, della seconda guerra mondiale a fenomeni di “estetica della guerra” come la carica del “Savoia Cavalleria” ad Isbuschenskij (estate 1942), è tutta una storia di occasioni perdute, di opportunità vanificate, di sacrifici utili solo come prove testimoniali (e solo per chi fosse in grado di apprezzarli), affondati in un sistema di colossale inefficienza, di ritardo tecnologico, di compiaciuta autoesaltazione della propria ignoranza.

Il dramma vero, tuttavia, avviene dopo ed è quell’8 settembre 1943 che, a tutti gli effetti, segna la “morte della Patria”[iii], che getta deliberatamente una “Nazione allo sbando”[iv], che invia “tutti a casa” (almeno quelli che vorranno e riusciranno a tornarci) non soltanto in senso stretto, ma in senso lato, inducendoli a confondere il loro focolare, il loro piccolo Heimat, con la loro casa unica e vera – l’Italia -, privandoli di un senso di comunità, di Nazione, di destino che non fosse riservato alla loro dimensione personalissima e privatissima, inducendo gli uni a vergognarsi del passato e gli altri a vergognarsi del futuro, creando una dimensione di guerra civile permanente che ancora non si è ricomposta – e difficilmente appare in grado di ricomporsi – in una memoria condivisa, in cui non ci sia più da vergognarsi di alcunché.

Fatto oggetto di una pesante rimozione storica, ovviamente tutt’altro che disinteressata, in quanto intorno ad esso ruota tutta la legittimità di ciò che è venuto dopo, l’8 settembre è scarsamente compreso dagli italiani non solo nei suoi effetti sul piano interno, ma anche e soprattutto su quello internazionale. Un esercito che cessa di battersi e si sfascia in preda a varie forme di dissoluzione, dall’ammutinamento[v] alla fuga di massa; una flotta che si consegna al nemico, sono tutti fenomeni che non potevano certo rafforzare la stima del mondo nei confronti delle capacità belliche degli italiani, che peraltro già durante il secondo conflitto mondiale non erano certo rifulse per colpa di una classe militare di livello professionale decisamente basso[vi] e talvolta pure di dubbia lealtà.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, si apre una nuova fase storica, ma l’8 settembre è lì e non si può toglierlo facilmente di mezzo. E’ una presenza ingombrante, ma in realtà è molto più ingombrante – per le forze politiche emerse vittoriose dagli sconvolgimenti della guerra – la presenza di forze militari nazionali in quanto tali, perché nessuno le vuole: non le vogliono i comunisti, che le considerano l’unico ostacolo vero all’auspicato passaggio dell’Italia dal blocco occidentale a quello sovietico, ma non le vogliono e si limitano a tollerarle anche i moderati raccolti intorno alla Democrazia cristiana che, come cattolici, nutrono una più o meno spiccata diffidenza (a seconda del loro livello di riferimento agli orientamenti dottrinali delle origini) nei riguardi di tutto ciò che è militare.

Su questo sfondo, l’Italia repubblicana nasce afflitta da un’anomalia che è al tempo stesso una gravissima debolezza strategica: dispone di forze militari, perché non esiste Paese al mondo degno di questo nome che non ne disponga e perché la sua posizione al confine tra due blocchi in conflitto non è tale da consentire alle sue classi dirigenti di esserne priva, ma tali forze risultano totalmente delegittimate. Delegittimate sul piano politico, perché nessuno dei grandi partiti di massa le ritiene degne di rispetto, in quanto retaggio di un passato deprecabile (quello del militarismo fascista[vii]), e delegittimate sul piano culturale non solo perché la Costituzione repubblicana “ripudia la guerra”, ma soprattutto perché nessuno, all’interno del Paese, ragiona più in termini di sovranità nazionale (di cui le Forze Armate costituiscono ovviamente la massima espressione), ma solo di appartenenza a blocchi politici, ideologici ed economici contrapposti.

L’Italia del secondo dopoguerra è dunque una Nazione priva di una cultura militare e di una cultura strategica, e, conseguentemente, di una cultura nazionale. Non riesce dunque ad immaginarsi come Nazione, il che può anche essere comprensibile, considerato l’esito avuto da oltre due decenni di retorica ultranazionalista del fascismo, ma è terribilmente problematico. Cerca nuove forme di vita e di identità, nella forse comprensibile ma certo assurda speranza di definire nuovi percorsi, di trovare nuove strade, di inventare nuovi modelli di identità nazionale.

Questo potente complesso di illusioni trova facile alimento negli anni della “Guerra fredda”, quando il blocco moderato riunito intorno alla Democrazia cristiana non ha e deve avere altra preoccupazione se non quella di consumare la sicurezza prodotta da altri, in primo luogo dagli americani. Il contributo che le è richiesto è di tipo soprattutto formale: una struttura militare per certi versi piuttosto grande, in grado di articolarsi su divisioni e brigate da schierare al confine orientale, a difesa da un potenziale attacco del Patto di Varsavia. Su quale poi sia la reale consistenza operativa di tale struttura, non è il caso di soffermarsi troppo: chiunque abbia prestato il servizio militare obbligatorio in quegli anni ricorderà la modesta efficienza dei reparti e l’assai carente (usiamo un eufemismo) livello di tensione morale che li pervadeva. Non mancavano le eccezioni in positivo, sia chiaro, ma si perdevano nel mare magnum di un’istituzione che dava palesemente prova di non credere in se stessa (e lo si vedeva benissimo).

Questa situazione di privilegio, questa possibilità di consumare a basso costo la sicurezza prodotta da altri, è venuta progressivamente a mancare nel momento in cui, con la fine della “Guerra fredda” e il collasso dell’URSS e del blocco sovietico, l’Italia, come molti altri Paesi europei, si è trovata nella necessità di trasformarsi da consumatrice a produttrice di sicurezza, di definire un interesse nazionale e delle priorità strategiche atte a tutelarlo. Per noi, infatti, si è trattato di un autentico trauma e non eravamo in alcun modo attrezzati ad affrontarlo.

Fino a quel momento, l’appartenenza ad un blocco militare come la NATO ci aveva consentito di nascondere dietro un profilo internazionale le nostre carenze puramente nazionali. Nella nuova realtà, però, quel gioco delle parti non era più riproducibile. Occorreva assumersi responsabilità in proprio e, per farlo, eravamo totalmente privi degli strumenti adatti.

Lo strumento per eccellenza, cioè le Forze Armate in quanto tali, era ancora il problema più facile da risolvere: era sufficiente riconfigurarlo sulla base delle nuove realtà del mutato quadro strategico internazionale. Malgrado ciò, c’è voluto un quindicennio prima che il nostro corpo ufficiali si piegasse all’esigenza di dotare il Paese di uno strumento militare professionale su base volontaria. C’era tutto da guadagnare, in un passaggio del genere, in termini di legittimazione funzionale, visto che sarebbe profondamente mutata in senso professionale la natura dell’organizzazione militare, ma al contrario è stato fatto ogni sforzo per evitare questo approdo, peraltro inevitabile, nella difesa di uno status quo ispirata a considerazioni le più diverse, ma certo non professionali.

I veri problemi, tuttavia, erano altri e consistevano essenzialmente nel dotare il Paese di una cultura strategica e di una cultura militare. Ma – e qui sta il punto – le due forze politicamente dominanti nel Paese, quella cattolica e quella comunista, erano impossibilitate a farlo dalla loro natura sostanzialmente a-nazionale, dal loro riferirsi ad ideologie internazionaliste profondamente diverse, ma certo prive di qualsiasi ispirazione nazionale. Occorreva trovare una soluzione che consentisse all’Italia di continuare a sviluppare una delle sue peculiarità storiche più negative, vale a dire fingere di fare quello che facevano gli altri, quando in realtà faceva qualcosa di profondamente diverso o, più probabilmente, non faceva nulla. Non c’era alcuna possibilità di sviluppare un concetto di interesse nazionale e tanto meno una cultura strategica nazionale, poiché la cosa fuoriusciva completamente dall’orizzonte culturale e si sarebbe tentati di dire anche antropologico di una classe dirigente che, per basse ragioni di bottega, aveva commesso il grave errore di identificare fascismo e Nazione, con la conseguenza che, invece di fare particolari danni al primo, ormai sconfitto, erano state inferte ferite irreparabili alla seconda, con esiti catastrofici per il futuro del Paese e della sua stessa percezione di sé. Ci sarebbe da interrogarsi a lungo se ciò sia avvenuto a caso o per una scelta politica precisa, ma non è questa la sede. Quel che conta davvero è che, nel momento in cui i mutamenti della politica internazionale richiedevano all’Italia un maggiore protagonismo in termini di produzione di sicurezza, il nostro Paese non disponeva di una cultura che gli consentisse di farlo. Semmai, era da tempo in preda ad una subcultura fatta di stereotipi negativi, di lassismo, di menefreghismo palesemente intesa a far pascere gli italiani, per di più con soddisfatto autocompiacimento, nei loro peggiori difetti, contenti di autorappresentarsi (non necessariamente di essere) nel modo peggiore possibile. E’ sufficiente pensare a certo cinema od a certa letteratura, in cui l’italiano o è cialtrone o non è, nel senso che la cialtroneria viene deliberatamente promossa come dato consustanziale, e ovviamente irrinunciabile, dell’identità nazionale[viii].

Poiché era inammissibile sottrarsi ad obblighi che scaturivano dalla nostra posizione internazionale ed anche da vincoli di alleanza e solidarietà con il mondo occidentale, la via che all’inizio degli anni Ottanta venne scelta per giustificare una sempre maggiore presenza italiana in campo internazionale, presenza affidata essenzialmente alle sue forze militari, fu quella delle “missioni di pace” che, a cominciare dal Libano (1982-1984), presero a diventare la stucchevole litania di accompagnamento di qualsiasi impegno italiano all’estero.

Come è fin troppo noto, c’era e c’è ben poco di realmente pacifico nelle missioni che hanno accompagnato il crescente impegno militare italiano all’estero degli ultimi due decenni. Nella maggior parte dei casi, erano interventi di stabilizzazione e – quel che è davvero importante rilevare e che tutti tendevano (e tendono) invece a sottorappresentare -, se la finalità di fondo era innegabilmente pacifica, non altrettanto lo erano (e non avrebbero potuto esserlo) le modalità di intervento, che, per evidenti motivi tecnici, erano invece di stampo militare tradizionale. Questo secondo aspetto è sempre stato deliberatamente nascosto, persino in occasione di eventi come la battaglia al check point “Pasta” a Mogadiscio (2 luglio 1993), mentre avrebbe dovuto essere rappresentato, anzi sovrarappresentato, anche per rispetto nei confronti dei nostri militari, dal momento che i giusti obiettivi di stabilizzazione di fondo dovevano essere talvolta ottenuti con il ricorso alle armi.

Anche se la nostra classe dirigente – politica e non – tende a negarlo (con pochissime eccezioni di rilievo, ad esempio il generale Carlo Jean), il vero problema di credibilità strategica internazionale dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale e l’8 settembre 1943 consiste nel ricostituirsi una credibilità militare. Una grande opportunità in questo senso sarebbe stata offerta dalla partecipazione di una brigata terrestre alla Guerra del Golfo del 1990-91, dato che quel conflitto, che si svolgeva all’interno di una precisa deliberazione dell’ONU, godeva di una legittimazione politica assoluta, che nessuno avrebbe potuto scalfire. Per contro, si è preferito optare ancora una volta sull’impegno aereo e su quello navale, rinunciando a quello terrestre, molto più visibile e impegnativo. O, peggio, si è preferito arrivare con una presenza terrestre in forze a cose fatte, come nel caso del secondo conflitto iracheno, svoltosi peraltro in un quadro di legittimità internazionale assai più fragile, ciò che comunque è servito, in negativo, a consolidare a nostro carico una robusta fama di profittatori. Così come lo sono serviti, sempre in negativo, i milioni di dollari pagati ai rapitori in tentativi più o meno riusciti di recupero di ostaggi, esperiti pure quando un blitz di forze speciali, condotto anche non da soli ma in stretta collaborazione con gli americani, avrebbe enormemente giovato alla nostra immagine internazionale e alla nostra stessa autostima[ix].

La motivazione che viene addotta costantemente a scusante di comportamenti così timidi, rinunciatari o addirittura sgradevoli, da parte della dirigenza politica e militare, è che il Paese, nella sua intima essenza, non avrebbe la fibra per resistere ai drammi ed alle sofferenze di un conflitto. Gli eventi di Mogadiscio e quelli ben più gravi e recenti di Nassiriya (12 novembre 2003) hanno dimostrato invece esattamente il contrario, vale a dire che l’opinione pubblica italiana non è formata da “mammoni” o da vili, ma da cittadini consapevoli che qualunque tipo di impegno internazionale impone i suoi costi, anche in termini di vite umane. In tali occasioni, quindi, non ci sono state manifestazioni di piazza contro il governo, ma un dolore sentito, commosso, composto e partecipe, che spesso ha dato luogo a partecipazioni di folla assolutamente inattese a cerimonie, ufficiali e non, di omaggio ai caduti.

Il problema della mancanza di una cultura strategica non è dunque un problema di base, ma di vertice e, in particolare, di quella che è l’autorappresentazione degli italiani da parte della cultura dominante. Quello italiano è un popolo come gli altri, con pregi e difetti. Quella che è assolutamente peculiare, al punto da costituire un’autentica anomalia, è l’incultura strategica che viene diffusa dal vertice, un vertice che a nessun livello – politico, militare o culturale – riesce ad immaginare l’Italia come Nazione e i suoi cittadini come popolo, come comunità nazionale.

Questa non è purtroppo una novità: se guardiamo alla storia unitaria, i peggiori insuccessi militari italiani, da Adua[x] a Caporetto, dalle tante sconfitte della seconda guerra mondiale all’8 settembre, non sono frutto della codardia popolare, ma della gigantesca insipienza di una classe dirigente, politica e non, che di dirigente aveva soltanto il nome ed i relativi privilegi, non certamente la capacità di acquisire competenze di vertice e tanto meno quella di assumersi le proprie responsabilità. Spesso, nella storia nazionale, le masse si trovano in situazioni difficili e disperate e, salvo pochissime eccezioni, fuggono. Ma chi le ha messe in quelle condizioni, chi le ha gettate irresponsabilmente allo sbaraglio? Chi ha commesso errori politici e tecnici macroscopici? Chi, al momento buono, non si è fatto trovare con i propri soldati a condividere la sconfitta, ma già pronto a ricostruirsi una verginità, a rifarsi una carriera, a far dimenticare le proprie colpe?

Questa irresponsabilità di vertice si è sposata, nel secondo dopoguerra, con una assoluta estraneità delle culture dominanti – cattolica e comunista – alla dimensione nazionale. E quando, nel corso degli anni Novanta, la Prima Repubblica è stata travolta dagli scandali e si è profilata per un attimo la possibilità di un cambiamento, ci si è ben presto resi conto che nessun cambiamento era possibile, dal momento che, se la dimensione politica era in crisi (poi in larga misura rientrata) non lo era per niente la dimensione metapolitica. Non a caso – e crediamo si tratti di affermazione assolutamente incontestabile – il quadro di riferimento culturale in cui si sono svolte le “missioni di pace” all’estero condotte dal governo Berlusconi è il medesimo di quelli in cui si sono svolte le missioni precedenti: lagnosa insistenza sull’ossimoro “soldati di pace”, sovrarappresentazione della “via italiana al peacekeeping” (la tesi che vuole che gli italiani – in quanto “brava gente” – siano molto più capaci di altri popoli ad entrare in relazione con le popolazioni locali: un wishful thinking che cerca di recuperare “in positivo” gli stereotipi che ci portiamo addosso in ambito internazionale – simpatici, allegroni, maniaci del calcio e delle donne, e soprattutto gente “con il cuore in mano” (che all’estero suona in realtà come “inutilmente chiassosi ed emotivi”) – per farne un punto di forza, prescindendo proprio da alcuni fattori fondamentali in certi contesti, come l’impiego della forza stessa, la credibilità e l’effettivo controllo sul territorio, e lasciando comprensibilmente cadere un velo di silenzio su pratiche non propriamente esaltanti, come l’elargizione massiccia di grandi quantità di denaro ad amici e soprattutto a nemici, potenziali e non, a fini di stabilizzazione in nostro favore delle aree affidate al nostro controllo); nessun tentativo di rilegittimazione – ovviamente graduale e progressiva – della funzione militare come funzione “guerriera”.

Sotto quest’ultimo profilo, occorre riconoscere che il governo Berlusconi, ammesso e non concesso che l’abbia cercata, non ha trovato alcuna sponda, sotto il profilo metapolitico, in ambito militare, e non solo perché, restringendo i bilanci della Difesa più ancora di quanto avessero fatto i precedenti esecutivi di centrosinistra, se ne è comprensibilmente alienato le simpatie, ma anche e soprattutto perché – e, tra tutte le anomalie fin qui riscontrate, questa è forse la maggiore – i militari italiani, a parte le solite ristrettissime eccezioni, sembrano i più contenti, da parecchio tempo a questa parte di essere ossimori viventi, di “essere non essendo”, di rinunciare consapevolmente alla loro funzione primaria (quella guerriera) per andare alla ricerca di funzioni altre che restituiscano loro una parvenza di legittimità in un contesto dove, in questo caso del tutto a ragione, percepiscono di non averne alcuna[xi]. Non è un caso che, nel nostro Paese, la più instancabile promotrice della figura risibile dei “soldati di pace” sia proprio l’istituzione militare, con qualche correttivo parziale dovuto ad una residua forma di ritegno, ma con un’insistenza degna di miglior causa. Se, infatti, una modestissima legittimazione su questo versante è stata con il tempo (forse) trovata, il problema (che, sia detto per inciso, sembra sfuggire del tutto ai militari) è che si tratta di una legittimazione a-funzionale, nel senso che sono riusciti a legittimarsi ad essere ciò che non dovrebbero essere. Non ci sembra un gran risultato.

Se si guarda a tutto questo, non è difficile approdare alla conclusione che siamo privi di una cultura strategica per il semplice fatto che siamo impossibilitati ad averne una. La cultura che in questo campo si è consolidata nel nostro Paese negli ultimi decenni è talmente solida da essere diventata – con i meccanismi tipici dei totalitarismi più raffinati, quelli “dolci” – un obbligo a cui nessuna persona di retto sentire è in grado di sottrarsi, per un automatismo di pensiero tipico delle “democrazie guidate”, che è quello per cui si è liberi di pensare ciò che ci viene chiesto di pensare. Se poi per caso questa persona fosse dotata di tanto coraggio o di tanta incoscienza, ci penserebbe il sistema di valori edificato dalla cultura dominante a sottolinearne la “diversità” (quella che si combatte a parole, quando non fa comodo evidenziarla per delegittimare l’avversario), l’estraneità, la stramberia, l’appartenenza a quella che il mondo anglossassone (che la sa lunga in materia, in quanto è l’inventore di tale sistema) è solito definire una lunatic fringe, cioè una frangia di emarginati che non è il caso di prendere troppo sul serio, in quanto lunatici, simpatico eufemismo per non dire pazzi. E’ sufficiente partecipare ad un dibattito pubblico, anche a livelli molto modesti, per constatare di persona, prima ancora di essere contrastati dal moderatore (cosa che, se si sostengono certe tesi, avviene quasi regolarmente, dovunque si sia invitati a parlare), che il problema non è ovviamente quello di esprimere liberamente le proprie idee (questo si può benissimo farlo, tanto nessuno ascolta), ma semmai essere chiamati a farlo in un contesto culturale talmente condizionato da fare apparire provenienti da un altro pianeta (ed essere trattati, per quanto cortesemente, di conseguenza).

Con questo, il cerchio si chiude, ma all’interno del cerchio non rimangono soltanto pochi malcapitati, ma un intero Paese che oggi è costretto dalla sua cultura dominante a “pensare cooperativo”, a fare continue attestazioni di becero pacifismo in una realtà che è sempre più competitiva e che potrebbe presto diventare anche conflittuale. La logica sequenziale non è uno dei punti di forza né della cultura né del carattere nazionale, ma, se venisse usata almeno una volta, potrebbe forse indurre qualche mente di funzionalità anche non superiore alla media a chiedersi quali vantaggi abbia prodotto, per l’Italia come comunità nazionale, ispirare le proprie logiche ad un “buonismo” di facciata (ché la realtà sottostante – come sappiamo – è alquanto diversa e lascia spazio a fenomeni dove il “cattivismo” malavitoso è, a tutti i livelli, assai diffuso) e ad una concezione irenica del mondo: non granché, si potrebbe dire, vista la nostra caduta a picco in tutte le più importanti classifiche internazionali, a favore di Paesi che molti italiani continuano a considerare (anche se magari, in nome del “politicamente corretto”, si astengono dal dirlo) un’accozzaglia di selvaggi.

Il fatto è che, per “pensare strategico” e per avere una cultura conseguente, occorre immaginarsi come popolo, come Nazione, come comunità di destino, non come un insieme malamente coeso di individui e interessi permanentemente in conflitto tra loro. Occorre avere un’etica della responsabilità e degli obiettivi condivisi. Occorre, in una parola, “fare sistema”, come si dice oggi, con un neologismo che può piacere o meno, ma che comunque rende bene l’idea. Sfortunatamente, poco o nulla di tutto questo sta avvenendo e la cosa non è casuale, ma frutto di crescenti ritardi culturali. Accade infatti che coloro che si ritengono all’avanguardia e che continuano a ripetere – a trent’anni di distanza – slogan che andavano bene (forse) a metà degli anni Settanta, sono ovviamente scivolati in retroguardia, anche se non se ne sono accorti. Se continuano ad avere successo, è perché detengono importanti posizioni di potere e perché i loro slogan di amore e fratellanza universali sono quelli che si sposano meglio con quell’”etica dell’irresponsabilità” che pare esercitare un’attrazione irresistibile su una significativa componente dei nostri connazionali. I fautori dell’”impegno” politico nei roaring Seventies sono diventati oggi fautori di un irenismo e di un “buonismo” che si sposa nel migliore dei modi con la paura di affrontare il mondo (e il mercato) che è tipica di chi sa che da un confronto globale ha tutto da perdere e poco o nulla da guadagnare, da chi non ha voglia di impegnarsi, di lottare, di sforzarsi, e preferisce le piccole certezze di un’esistenza garantita (che avrò per me, mio figlio – ormai è chiaro – non ne avrà alcuna: ecco uno splendido esempio di senso della comunità e della continuità…), di un anonimato, di un rifugiarsi nel cantuccio che sarebbe anche allettante, almeno per qualcuno, se potesse durare in eterno, ma che invece è frutto di un capitale faticosamente accumulato in passato ed ora in via di dissoluzione per eccesso di consumo irresponsabile.

L’”assenza dalla Storia” – il sogno neanche tanto proibito di una parte non trascurabile di italiani – è però un sogno impossibile, perché non ci si può assentare dalla dinamica storica, anche se molti provano seriamente a farlo. Su questo sfondo, la speranza che l’Italia possa cominciare a “pensare strategico” è più di un sogno, è probabilmente un’autentica utopia. Che però, come tutte le utopie, ha quanto meno il merito di indicare obiettivi, di porre traguardi. E ci si può muovere nella sua direzione per piccoli passi, senza traumi particolari, alla sola condizione di voler sottrarsi al nullismo odierno, alle parole d’ordine sbagliate, alle false verità ripetute stancamente come slogan di regimi totalitari. In caso contrario, perdurerà e ovviamente si aggraverà una condizione di vuoto culturale che è soprattutto una condizione di vuoto strategico. Quel che è certo è che, in futuro, o acquisiremo una dimensione internazionale competitiva, e tutti gli strumenti utili a farlo, tra cui una cultura strategica e una militare, o cesseremo letteralmente di esistere e ritorneremo ad essere quell’”espressione geografica” di cui parlava con disprezzo il Metternich. Il vero problema è che questa è probabilmente una prospettiva assai allettante per molti italiani.

Piero Visani

 

NOTE

 

[i] Su Caporetto, si leggano le illuminanti considerazioni di M. SILVESTRI, Caporetto. Una battaglia e un enigma, Mondadori, Milano 1984, in particolare per quanto concerne il “filo rosso” che lega l’”Italia caporetta” a quella dell’8 settembre 1943 e, per molti versi, a quella di sempre.

[ii] In proposito chi scrive, giovane laureando in Storia all’Università di Torino con una tesi di storia militare, all’inizio degli anni Settanta ebbe il privilegio di raccogliere in tal senso la testimonianza diretta di uno dei massimi storici militari italiani, Piero Pieri, ormai molto anziano ma ancora lucidissimo nel riaffermare la propria volontà, quale interventista di Sinistra, di “dimostrare al mondo che gli italiani sapevano battersi”.

[iii] Sul tema, resta fondamentale il saggio di E. GALLI DELLA LOGGIA, La morte della patria, Laterza, Roma-Bari 1996.

[iv] Sul tema si legga l’interessantissimo saggio di E. AGA ROSSI, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943, nuova edizione, Il Mulino, Bologna 1998.

[v] Sono note, ad esempio, le polemiche sulla reale natura dei fatti di Cefalonia del settembre 1943.

[vi] Si leggano, sul tema, le impietose ma in larga misura condivisibili valutazioni di G. ROCHAT, Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino 2005.

[vii] La questione meriterebbe un’indagine a parte. Quello che si può dire in questa sede è che, se il fascismo fosse stato realmente militarista, al di là di qualche modesta esibizione di facciata, avrebbe fatto ogni sforzo per ammodernare le forze armate e, soprattutto, per sottrarle al controllo di un corpo ufficiali ottusamente conservatore, misoneista e, in non pochi casi, professionalmente incompetente.

[viii] Per fare un esempio molto chiaro, si pensi all’interpretazione di uno sport molto popolare come il calcio in due film diversi, ma entrambi piuttosto noti (il secondo addirittura premiato con l’Oscar per il migliore film straniero nel 1992): Fuga per la vittoria (Escape to Victory) di John Huston (1981) e Mediterraneo di Gabriele Salvatores (1991). Nel primo, il calcio è uno strumento con il quale dei combattenti, per quanto in misura largamente prevalente civili in uniforme e non soldati di professione, cercano di ridicolizzare il nemico e al tempo stesso di farne uno strumento per sottrarsi alla prigionia; dunque è un mezzo, non un fine. Nel secondo, il calcio è la rivendicazione dell’identità nazionale: nel mezzo di una bufera planetaria, la partitella (neppure una partita regolare in uno stadio vero, come nel film precedente) in un campetto di fortuna di un’isola greca è il modo per riconoscersi, per affermare (sic) un sé, per trasmettere al mondo il messaggio: “gli altri facciano pure le guerre, noi ci facciamo la partita” e – quel che è peggio – ci riconosciamo come tali solo quando la facciamo. Qui dunque il calcio è un fine, non un mezzo; è il punto di convergenza di un’identità fragile, è l’esteriorizzazione dell’irresponsabilità più totale.

[ix] Su questo sfondo, la vicenda di Fabrizio Quattrocchi e della sua nobilissima rivendicazione a “far vedere come muore un italiano” si pone a livelli di altezza tali da risultare gravemente stridente con il resto. Il che ne accresce ovviamente la portata.

[x] Su Adua e la mancanza di preparazione e di professionalità che già in quella circostanza (ma c’erano illustri precedenti come Custoza e Lissa nel 1866) venne palesata dalla classe militare italiana, si veda D. QUIRICO, Adua. La battaglia che cambiò la storia d’Italia, Mondadori, Milano 2004.

[xi] Il tema in questione è sostanzialmente tabù nel nostro Paese, per cui, essendo chi scrive uno dei pochi che ha cercato di svilupparlo, per altro in semiclandestinità, è purtroppo costretto a ricorrere all’autocitazione: cfr. P. VISANI, Forze Armate, mass media ed opinione pubblica nell’Italia attuale. Cause e problemi di un difficile rapporto, Roma 1994

Elezioni europee 2019: quale idea d’Europa?, di Roberto Buffagni

Prolegomeni alla teologia elettorale

Elezioni europee 2019: quale idea d’Europa?

 

Le elezioni europee del 2019 hanno certo grande importanza politica, anche se il Parlamento UE dispone di limitati poteri. Ma sul piano simbolico, che con la dimensione del politico ha una relazione necessaria, le elezioni europee 2019 saranno, a mio avviso, decisive. Lo saranno, perché per la prima volta sarà messo apertamente in questione il difetto genetico della UE, cioè la fonte della sua legittimità, e per la prima volta comincerà ad entrare nel dibattito politico di massa la domanda “che senso ha l’Europa”?

Lo rileva con intelligenza Massimo Cacciari in questo recentissimo, appassionato e commosso intervento al Forum PD: https://youtu.be/RR9vCQqfIUY , che invito il lettore ad ascoltare per intero.

Questi i punti essenziali dell’intervento di Cacciari:

  1. E’ in corso, in Europa, un conflitto decisivo tra visioni del mondo e concezioni antropologiche incompatibili
  2. L’Europa atlantica delle origini è finita per la scelta sciagurata di dominio mondiale degli USA dopo la fine dell’URSS
  3. L’Europa odierna ha mancato alla sua promessa fondativa: s’è svuotata la democrazia rappresentativa, che senza una concreta eguaglianza di opportunità e una realistica prospettiva di benessere personale e sociale perde di senso, e viene sostituita da forme di “democrazia autoritaria”.
  4. Sarà ancora democratico, il nostro futuro?”
  5. Lo scontro sovranismi, populismi, nazionalismi/europeismo è analogo allo scontro tra potenze cosmopolite e potenze nazionali che condusse alla IGM. Oggi, al posto dell’impossibile guerra guerreggiata ci sarebbe la guerra economica “tra gli Staterelli” europei. Nel mondo di oggi possono competere solo Grandi Spazi.
  6. Dopo la I e la II guerra mondiale, alle prossime elezioni europee si profila la possibilità del “terzo suicidio d’Europa.”
  7. Per sventarlo, anzitutto non bisogna difendere la UE così com’è: oggi, l’Europa è indifendibile.
  8. Va proposta una nuova idea d’Europa e una riforma profonda delle sue istituzioni, abbandonato il rigorismo economico, trovata una politica estera comune anzitutto mediterranea (ne fa parte il problema migratorio).
  9. E’ necessaria l’idea dell’Europa avvenire. Qual è la missione d’Europa?
  10. La crisi d’Europa non è solo la crisi delle socialdemocrazie, ma ancor più la crisi dei partiti di ispirazione cristiana. Christenheit oder Europa[1], si diceva un tempo. Ma oggi, chi rappresenta l’ispirazione cristiana del progetto europeo?
  11. I sovranisti un’idea ce l’hanno: la nazione, il popolo. “Sono balle”, ma sono anche idee. Qual è la nostra idea?
  12. Alle due prime parole d’ordine della rivoluzione francese, libertà ed eguaglianza, i rivoluzionari aggiunsero la terza, “fraternità”, che è un principio eminentemente cristiano. Libertà ed eguaglianza non bastano, perché libertà “è una parola vuota”, e “libertà” ed “eguaglianza” sono in contraddizione reciproca.
  13. Non si può combinare l’Europa se non combini le grandi tradizioni laiche alle tradizioni della cristianità.” E’ su queste basi che si può immaginare una missione d’Europa.
  14. L’Europa non è solo razionalizzazione, tecnica, scienza, non solo democrazia come procedura democratica, ma anche cultura e umanesimo europei.
  15. Le democrazie autoritarie hanno bisogno di un nemico. Una vera democrazia rappresentativa europea, invece, deve essere una “democrazia accogliente”, che tenta di rappresentare anche l’Altro con il quale entra in rapporto: la democrazia davvero rappresentativa è forte perché riesce a dia-logare, perché il suo Logos inclusivo è infinitamente più forte della parola solipsista dei nazionalismi.

Prendo in esame il discorso di Cacciari, premettendo che non sono né  teologo né filosofo, e che dunque le mie sono soltanto osservazioni di un dilettante di buone, benché un po’ antiquate, letture.

Concordo in sostanza con la diagnosi sull’attuale situazione europea delineata da Cacciari nei primi 4 punti. Dissento sull’analogia al punto 5, tra cause della IGM e attuale conflitto tra nazionalismi ed europeismo, che mi sembra affrettata. Verisimile, invece, che a una disgregazione della UE succederebbe un “periodo di torbidi” e di guerra economica, o meglio ibrida, tra nazioni europee. Concordo sul punto 7, sulla indifendibilità della UE così com’è.

E vengo ora ai punti che mi interessano di più, vale a dire al tema della “idea” e della “missione” d’Europa. E’ senz’altro vero che ogni realtà politica (anzi, ogni realtà umana) abbisogna di una “idea” e di una “missione”, vale a dire di un senso. A maggior ragione ne abbisogna una realtà politica in fieri (e in crisi) come l’Europa, che in tutta la sua storia splendida e terribile non è mai riuscita a trasformarsi in entità politica unitaria. Ed è perfettamente vero che “Non si può combinare l’Europa se non combini le grandi tradizioni laiche alle tradizioni della cristianità” (punto 13).

Ora, la domanda logicamente conseguente alla corretta affermazione di Cacciari è: “è possibile dare forma all’Europa combinando le grandi tradizioni laiche alle tradizioni della cristianità?” Non è certo facile rispondere; ma credo che il conflitto culturale e politico epocale che si delinea e si prepara, in Europa e nel mondo, e del quale le prossime elezioni europee saranno un episodio significativo, verta proprio su questo punto chiave.

Cerco di spiegarmi meglio, nei limiti delle mie capacità e delle dimensioni di questo breve scritto.

La spia del punto problematico credo lampeggi al punto 15 del discorso di Cacciari, dove egli distingue tra democrazie autoritarie che hanno bisogno di un nemico, e una vera democrazia rappresentativa europea, che invece deve essere una “democrazia accogliente”, che vuole rappresentare anche l’Altro con il quale entra in rapporto ed eventualmente in conflitto. Il nodo che il discorso di Cacciari tenta qui di sciogliere, è la contraddizione intrinseca all’universalismo politico. L’universalismo è una cosa sul piano delle idee, dei valori, della spiritualità. Se tradotto sul piano politico, però, l’universalismo non può che incarnarsi in forze inevitabilmente particolaristiche: perché esistono solo quelle, nella realtà effettuale. Volendo, chi se ne sente all’altezza può parlare in nome dell’umanità; ma non può agire politicamente in nome dell’umanità senza incorrere in una contraddizione insolubile, perché l’azione politica implica sempre il conflitto con un nemico; ed egli è dunque costretto a postulare l’accordo universale, almeno futuro, intorno alle sue premesse. E’ per questo che Cacciari sottolinea la necessità, già avvertita dai rivoluzionari francesi, di integrare la parola d’ordine cristiana di “fraternità” (cioè di concordia, almeno sperata e promessa) alle prime due, soprattutto reattive rispetto ai principi dell’ancien régime, di libertà ed eguaglianza.

Infatti, il minimo comun denominatore delle grandi forze politiche europee e statunitensi – liberals, cattolici democratici, socialdemocratici –  che hanno dato vita all’Unione Europea, è proprio l’universalismo politico[2]; e l’Unione Europea è un progetto universalista al 100%, tant’è vero che è stato sinora impossibile definirne i confini territoriali, che ai tempi del fiducioso entusiasmo europeista qualcuno pretendeva di estendere alla Turchia, e persino a Israele: perché ha diritto di far parte dell’UE chiunque ne condivida i valori universali, cioè virtualmente tutti, dal Samoiedo al Gurkha al Masai, e non soltanto chi ne condivida le radici storiche e i confini geografici.

La “vera democrazia rappresentativa europea” di Cacciari, che al contrario delle democrazie autoritarie non ha un nemico e deve essere una “democrazia accogliente”, che vuole “rappresentare anche l’Altro con il quale entra in rapporto”, è dunque la vera democrazia universalista, che per sua logica interna tende a diventare democrazia universale, cioè mondiale; e che non persegue questo obiettivo con la forza, con la conquista imperiale del mondo, ma in virtù del proprio Logos inclusivo, “infinitamente più forte della parola solipsistica” dei nazionalismi, legati all’identità dei popoli e delle nazioni (che sono “balle”).

Ora, una grande istituzione politica e culturale che ha il suo centro in Europa, “che tenta di rappresentare anche l’Altro con il quale entra in rapporto”, e che non pensa né agisce solo in conformità alle categorie amico/nemico che definiscono il Politico – per quanto la contingenza storica la costringa a tenerne conto e a piegarvisi tatticamente – esiste già: è la Chiesa cattolica cioè universale, il primo dei due “soli” del De monarchia dantesco (l’altro è l’Impero). Alla Chiesa cattolica universale, infatti, appartiene virtualmente tutta l’umanità, perché tutti gli uomini sono creati a immagine e somiglianza di Dio, e in Cristo virtualmente figli di Dio e fratelli (teologicamente, la figliolanza divina e la fraternità effettuali conseguono alla effettuale appartenenza sacramentale alla Chiesa, cioè al battesimo).

Implicitamente, dunque, Cacciari assegna all’Europa la missione di diventare la Nuova Chiesa Universale: una potenza, certo, anche temporale e politica, ma anzitutto ideale e spirituale; che certo deve fare, anche spregiudicatamente, i conti con il potere e con il conflitto politico, e dunque con la dialettica amico/nemico; ma che si legittima in ordine alla sua virtualmente universale inclusività. Senza forzar troppo l’analogia, si può dire che Cacciari assegna all’Europa da lui auspicata la missione di diventare un Impero Spirituale Universale, così replicando, nella dialettica con gli USA, l’altro polo geopolitico imperiale occidentale, la funzione che la Chiesa cattolica svolse nella dialettica con il Sacro Romano Impero. Europa-Chiesa, USA-Impero, con relativa lotta per le investiture.

Se la mia analisi della proposta di Cacciari è corretta, la risposta alla domanda “è possibile dare forma all’Europa combinando le grandi tradizioni laiche alle tradizioni della cristianità?” è obbligata, ed è “Assolutamente no, almeno non in questa forma.”

Mi spiego. Non c’è il minimo dubbio che il cristianesimo sia universalista: chiara come il sole l’affermazione di S. Paolo, che “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.”[3] Vera, o almeno storicamente plausibile benché parziale, la tesi secondo la quale l’universalismo cristiano è la principale forza ideale sradicante che ha dissolto i legami della stirpe, del suolo, dell’ethos della polis antica. E’ per questa ragione che un pensatore di grande statura come Alain de Benoist si dichiara “pagano”: non perché sacrifichi a Zeus, ma perché, in nome della comunità e della tradizione, rifiuta l’universalismo cristiano, che considera omologo al mondialismo, al liberalismo e al capitalismo, nichilisti e dissolventi. Ed è per questa ragione di fondo che mondialismo ed europeismo trovano oggi l’appoggio politico e culturale del papa e della Chiesa cattolica: un appoggio che, come dimostra anche il discorso di Cacciari, vale, per dirla con Stalin, “molte divisioni”, anche se il cattolicesimo odierno non ha più il peso culturale e politico di quando principali promotori della UE erano esponenti cattolici come De Gasperi, Schumann, Adenauer.

Però, c’è un però. La trasposizione dell’universalismo cristiano in universalismo politico è un caso di scuola di “immanentizzazione dell’eschaton”, cioè di trasposizione sul piano immanente, storico, di un fine sovrastorico e anzi trascendente: appunto, escatologico. Per farla breve, del tentativo di realizzare in Terra il Regno dei Cieli,  dove l’uomo comprenderà e controllerà il mondo come Dio la realtà, e dove la tentazione del Serpente nel giardino dell’Eden si rivelerà come promessa veritiera: “Eritis sicut dii, scientes bonum et malum”. E siccome saremo, naturalmente, dèi buoni e misericordiosi oltre che onnipotenti, ogni conflitto cesserà, la concordia regnerà, e il leone giacerà con l’agnello.  Il maggiore studioso dello gnosticismo politico – perché di questo si tratta: della traduzione politica di una corrente di pensiero gnostica – è Eric Voegelin[4], e alle sue opere rinvio il lettore.

Sul piano teologico, l’appoggio che papa e Chiesa cattolica danno a progetti politici gnostici come il mondialismo e l’europeismo dipende da quella che Romano Amerio[5] definisce “dislocazione della divina Monotriade” (la Monotriade è la SS. Trinità). Che cosa intende con questa formula il grande teologo cattolico svizzero-italiano? Nella sua opera maggiore, Iota unum[6], Amerio scrive che “alla base del presente smarrimento [della Chiesa cattolica] vi è un attacco alla potenza conoscitiva dell’uomo, e questo attacco rimanda ultimamente alla costituzione metafisica dell’ente e ultimissimamente alla costituzione metafisica dell’Ente primo, cioè alla divina Monotriade. […] Come nella divina Monotriade l’amore procede dal Verbo, così nell’anima umana il vissuto dal pensato. Se si nega la precessione del pensato dal vissuto, della verità dalla volontà, si tenta una dislocazione della Monotriade”.

Tento una breve illustrazione del denso concetto di Amerio. Il Credo Niceno-Costantinopolitano recita: “Credo in unum Deum, Patrem omnipotentem, Factorem cæli et terræ, visibilium omnium et invisibilium, Et in unum Dominum Iesum Christum, Filium Dei unigenitum et ex Patre natum ante omnia saecula: Deum de Deo, Lumen de Lumine, Deum verum de Deo vero, genitum, non factum, consubstantialem Patri: per quem omnia facta sunt; qui propter nos homines et propter nostram salutem, descendit de cælis, et incarnatus est de Spíritu Sancto ex Maria Vírgine et homo factus est […]Credo in Spiritum Sanctum, Dominum et vivificantem, qui ex Patre Filióque procedit, qui cum Patre et Filio simul adoratur et conglorificatur, qui locutus est per prophetas.”

Sul piano filosofico, Dio Padre corrisponde all’Essere, alla Realtà (“Io sono Colui che Sono/E’” risponde il roveto ardente alla domanda di Mosè). Il Figlio “generato e non creato, della stessa sostanza del Padre” è il Logos, la Verità e la Ragione, e lo Spirito Santo “che procede dal Padre e dal Figlio” insieme (Filioque) è l’Amore, la Carità “vivificante”. I rapporti interni all’ “Ente primo”, alla “divina Monotriade”, sono dunque i seguenti: Essere/Realtà e Logos/Ragione/Verità sono consustanziali: il Logos/Ragione/Verità è generato, non creato dall’Essere/Realtà. Dio Padre non decide arbitrariamente, con un puro atto di volontà, che cosa sia bene o male, o se il fuoco debba esser caldo o freddo (così ritiene invece, ad esempio, la teologia islamica). La Ragione e la Verità, e dunque anche la ragione e la verità accessibili all’uomo, sono consustanziali all’Essere e alla Realtà. Dal loro rapporto intrinseco e consustanziale nella SS. Trinità “procede” lo Spirito Santo, l’Amore/Carità; come, per analogia, dal rapporto vero e necessario tra realtà e ragione procedono, per l’uomo, il vero amore e la vera carità. Questa definizione dogmatica della SS. Trinità fonda la possibilità e la necessità dei preambula fidei, la “religione naturale” che i padri della Chiesa riconobbero nella filosofia platonica e aristotelica, parzialmente integrandole nella dottrina cattolica.

Nella formulazione di S. Tommaso: “Veritas est adæquatio rei et intellectus”. In un linguaggio più moderno, si può dire che la verità è inscritta nella realtà oggettiva del creato come Logos, come ordine e ragione, che l’intelletto umano può riconoscerla e “adeguarvisi” perché la natura umana è “consustanziale” alla realtà/verità come la Seconda Persona della SS. Trinità è consustanziale alla Prima, e che la libertà dell’uomo consiste nella facoltà di riconoscere e adeguarsi alla verità/realtà oppure no (libero arbitrio). Si noti bene, però, che quando sceglie di non “adeguarsi al vero”, l’uomo sceglie il falso e il male, che essendo “privatio boni” (S. Agostino) non fanno parte della realtà, dell’essere e dell’ordine. L’adesione, la  adæquatio alla realtà/verità, è dunque adesione, adæquatio alla Legge divina, che è anche il Logos, l’ordine del creato. E’ dal rapporto tra Essere/Realtà e Logos/Ordine che “procede” l’Amore, la “caritas” che può sussistere soltanto “in veritate”, come recita il titolo dell’enciclica di Papa Benedetto XVI.

Per riassumere: non c’è amore senza ordine, non c’è carità senza verità, non c’è misericordia senza legge. E di conseguenza: l’amore disordinato è falso amore, la carità senza verità è falsa carità, la misericordia senza legge è falsa misericordia. La libertà non è una “parola vuota”, come dice Cacciari; è ciò che consente all’uomo di scegliere tra ordine e disordine, verità e falsità, legge e colpa/peccato. Analogicamente: come la Legge divina, con i suoi necessari correlati di divino imperio ed eterna condanna, consente il dispiegarsi della divina Carità, così la legge umana, con i suoi necessari correlati di comando e sanzione, consente il dispiegarsi dell’umana fraternità e solidarietà, anche politica.

Ecco perché Romano Amerio ha intitolato la sua opera teologica maggiore Iota unum, citando sin dal titolo il passo evangelico in cui Gesù afferma: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto.” [7]

La “dislocazione della divina Monotriade” di cui parla Amerio, insomma, consiste nel mettere l’amore al posto del Logos, la volontà prima dell’intelletto, la libertà in luogo della legge, il sentimento sopra la ragione.

La stessa identica “dislocazione” avviene, sul piano culturale, politico e sociale, nella presente civiltà capitalistica liberale occidentale. Dove non è difficile vedere come a) la legge è puramente positiva: procedurale, convenzionale e funzionale, senza rapporto “consustanziale” con la verità e la realtà, dal che consegue che, non esistendo nulla di simile alla “legge naturale”, la si può modificare indefinitamente, per consenso o con atto d’imperio b) la libertà liberale è affatto arbitraria, e dipende da una scelta insindacabile della volontà soggettiva, limitata soltanto da considerazioni di utilità, opportunità e funzionalità: il vaghissimo “non ledere la libertà altrui” (per inciso: è in questo senso che Cacciari ha ragione definendo la libertà “parola vuota”) c) il sentimento, le emozioni e i desideri –  nel linguaggio antico “le passioni” che influenzano la volontà soggettiva – tendono ad assumere valore di diritto: divorzio perché il coniuge non mi fa più battere il cuore, commissiono un bambino perché desidero un figlio, apro le frontiere a tutti perché mi commuovono i bambini migranti, etc.

Ma nel Logos, Ragione e Legge divina, si può identificare il katéchon (κατέχων), “ciò che trattiene” l’Anomos: che escatologicamente è l’Anticristo.

Il testo escatologico, densissimo, di San Paolo è il seguente: “Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti verrà l’apostasia e si rivelerà l’uomo dell’iniquità, il figlio della perdizione, l’avversario, colui che s’innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come Dio, fino a insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio. Non ricordate che, quando ancora ero tra voi, io vi dicevo queste cose? E ora voi sapete che cosa lo trattiene perché non si manifesti se non nel suo tempo. Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo colui che finora lo trattiene.[8]

La densità e l’ambiguità di questo brano, rivolto alla comunità cristiana di Tessalonica turbata da voci che davano per imminente la Parusia (il ritorno del Cristo in gloria, “per giudicare i vivi e i morti”) hanno generato un’infinita messe di interpretazioni del katéchon non solo teologiche, ma di filosofia della storia e di filosofia politica. Non sono in grado, per ragioni di competenza e di spazio, di riassumerle tutte. Molto nota e rilevante l’interpretazione di Carl Schmitt ne Il Nomos della Terra (1950)[9]. Per Schmitt, non esiste bene – bene comune politico – senza ordine. Per lui, il katéchon è la forza, non solo spirituale ma anche temporale, che impedisce al disordine di insinuarsi nell’ordine e disgregarlo. La facoltà del sovrano di intervenire in difesa dell’ordine decidendo lo stato di eccezione corrisponde alla facoltà divina di compiere miracoli, sospendendo la legge naturale. La Chiesa cattolica, vettore e garante del dogma, che è legge divina, è certo la componente spirituale del katéchon, mentre una incarnazione storica del suo aspetto temporale è senz’altro il Sacro Romano Impero. In Terra e Mare (1943)[10] Schmitt sembra individuare come katéchon ogni potenza statale che arresti la marcia del mondo verso l’anomia globale. Qui[11] una brevissima  sintesi dell’analisi schmittiana.

Cacciari, studioso di Schmitt,  ha dedicato al katéchon approfondite riflessioni sparse in diverse sue opere, ed espressamente un recente libro intitolato Il potere che frena[12].

Tento di riassumere l’interpretazione di Cacciari, ribadendo la premessa che non sono né teologo né filosofo. Una discussione seria di questi temi è over my paygrade, e mi cimento nel tentativo solo perché, in modo invero sbalorditivo, l’attualità politica più immediata e cronachistica esige almeno un tentativo di comprensione.

Nella sua opera maggiore Dell’Inizio[13] Cacciari scrive “Essere-creato è simultaneamente peccare […] ed è perciò che nell’uomo appena creato Dio punisce il peccare, ab initio” […] “La caduta degli Angeli è simultanea alla creazione, la catastrofe celeste è tutt’uno con la katabolé-ktisis per cui qualcosa ek-siste”, che è un buona formulazione della prima e fondamentale tesi del pensiero gnostico: che il mondo, e l’uomo nel mondo, sono frutto di una caduta, di una frattura; l’intera realtà in cui ci troviamo è una realtà d’esilio. “La ‘regio umbrae mortis’ che abitiamo è immagine soltanto [..] di quella tenebra in cui è Dio nei confronti di sé, della conoscenza di sé […] Dio riflette la propria incatturabilità: non può vedersi. Ma nell’istante in cui così si ‘riflette’, egli crea l’immagine stessa della creatura, la sua immagine. Il sapersi come tenebra da parte di Dio (cioè: l’attingere il fondo della propria ignoranza) è l’uomo”.  Poiché la creazione intera è l’errore di un Dio oscuro a se stesso, analogo al cattivo Demiurgo gnostico, il “futuro Regno” promesso da Cristo “equivale al suo [dell’uomo] nientificarsi: la nuova creazione è in realtà de-creazione”.

In altre parole, la dissoluzione è la salvezza. Secondo il paradigma gnostico, diritto, legge, istituzioni in genere devono essere abbattute, perché, appunto, la salvezza è la dissoluzione: “[Gesù] sembrava citare Ezechiele, ma in realtà diceva: io sono la porta attraverso cui dovrete uscire dal recinto – voi mi seguirete fuori dall’ovile [l’ovile della Legge] e questo sarà il vostro esodo vero.” […] “Come dobbiamo pensare l’Età del Figlio, se in essa durano Nicodemo e Pilato?” Cioè se dopo Cristo vigono ancora la Legge ebraica e lo jus romanum, la Legge sacra e quella civile, la Chiesa e i codici penali? Gesù non ha riscattato l’uomo dalla “ontologica miseria della Legge per cui essa è sì contro il peccato, ma ne è sempre anche una sua conseguenza, per cui essa è costretta a riconoscere la prepotenza del peccato.”

Quando Gesù dice: “Amatevi come Lui vi ha amato […] afferma, al presente, l’impossibile. La pienezza del comandamento è oltre ogni misura di quanto è realizzabile in questa Età.” Quando dice: «Amate i vostri nemici […] il nudo fatto, che si dà [ancora] nemico, è pre-potente rispetto all’amore […] puoi anche amare il tuo nemico, mai annullarlo.” Ma soprattutto, il Figlio ha detto che “nessuno, nel Presente, può dirsi buono, che non possono esservi, in esso, ‘teleioi’ [ossia gnosticamente ‘perfetti’] cosi radicalmente che neppure il Figlio si chiama ‘buono’”. Insomma: ciò che Cristo ci ha lasciato è una “fede radicalmente infirma […] che non può eliminare la struttura di peccato, la fede di chi non è ‘giusto’”.

La stessa Parola di Gesù, dunque, rimanderebbe a una rivelazione ulteriore, definitiva e perfetta, che Cacciari chiama “il tempo dell’Ultimo”.

Gesù Cristo non ha salvato l’uomo. Dobbiamo aspettare un altro liberatore. Fin qui, Cacciari ripercorre, seppur deviando spesso, il sentiero di Gioacchino da Fiore[14], con le sue tre età della storia terrena: l’età del Padre (ebraismo, Antico Testamento), l’età del Figlio (cristianesimo, Nuovo Testamento) e l’età dello Spirito Santo (età della rivelazione/apocalissi dell’Amore).

Ma chi è, per Cacciari, l’altro liberatore, il liberatore definitivo, “l’Ultimo” che verrà nel Tempo escatologico, di apocalisse, di cui Gesù è il mero annunciatore? “…perché il vero scandalo […] è […] che l’apocalisse del Figlio non abbia assunto in sé, nel suo stesso kairòs, l’apocalisse dei figli”, che Cristo non ci abbia “rivelati a noi stessi» (tale è il senso di ‘apocalypsis’). “Rivelati nella nostra natura di figli” significa “rivelati nella nostra natura di liberi, assolti da ogni Legge”.

Affrontando il tema escatologico per antonomasia, Cacciari deve interpretare anche il passo paolino sul katéchon. “Si tratta di ben altro che del semplice bisogno di fronteggiare le impazienze apocalittiche delle prime comunità […] si tratta di salvare l’incalcolabilità dell’éschaton, e dunque […] della Vita intradivina, dalla sua riduzione a forme secolarizzate di messianismo… viene l’antikeimenos, lo spirito della separazione: separazione dalla Legge […] Ma il suo contrapporsi e separare, il suo dia-bàllein (egli viene infatti secundum operationem Satanae, potenza che separa) […] non si configura affatto come un semplice ‘distruggere’ Dio. Egli non proclama affatto che ‘Dio è morto’, ma mostra se stesso come Dio.” Egli seduce con un “discorso che appare non soltanto estremamente prossimo al vero Annuncio, ma, addirittura, sua piena esplicazione. Egli predica, infatti, la libertà dalla Legge come libertà assoluta.[15]

Per concludere: il Filium Perditionis, l’Anticristo, L’Anomos è l’Ultimo Liberatore. Egli e non Cristo compirà la Liberazione, rivelerà l’essenza divina come “pleroma dell’abbandono”. Opposto a Cristo anche se “quel polo opposto alla Croce, la sua pura possibilità […], è indicato dalla Croce stessa” perché “se il Figlio ‘libera’, libera anche questa possibilità: la radicale negazione di sé è a priori possibile per il pieno erede.”

La Chiesa è incapace di capire la verità esoterica nascosta nella Buona Novella, e combatte l’Anticristo, non accettandolo come il vero Paraclito annunciato da Cristo. Ecco perché Cacciari, in un’intervista[16] a Maurizio Blondet allora inviato di “Avvenire”, poi raccolta in volume[17], esclamò a proposito di papa Giovanni Paolo II: “Il papa deve smettere di fare il katéchon!”

Conclusione provvisoria

Dopo questa analisi sommaria, che spero non avrà troppo stancato il lettore, credo si capiscano meglio alcuni punti chiave del discorso di Cacciari.

Nazioni e popoli “sono balle” perché sono realtà storiche particolari e transeunti, piccoli katéchon destinati ad esser travolti dal moto metastorico inarrestabile che sospinge il mondo verso l’apocalissi, la rivelazione ad opera dell’Anomos della nostra natura di figli, liberi dalla Legge e degli ordini civili, dalle istituzioni ecclesiali, politiche e giuridiche che fanno da katéchon, cioè “trattengono” la manifestazione dell’amore e della fraternità universali.

Libertà “è una parola vuota” perché si riempie di senso soltanto se siamo liberi di riconoscere e aderire alla verità, e la verità non è il logos, non è la legge, ma è il niente e l’amore, aspetti complementari della stessa realtà “anomica”.

Il “Logos inclusivo” della “democrazia davvero rappresentativa” non è il Logos/ragione/ordine, non è la Seconda Persona della SS. Trinità. Il Logos inclusivo della democrazia davvero rappresentativa “è infinitamente più forte della parola solipsista dei nazionalismi” perché è il logos dell’Anomos, il logos della liberazione dalla Legge, dalle istituzioni, dall’ordine civile: il logos dell’Ultimo Liberatore, al quale soltanto il katéchon, sinora, resiste. Ma il katéchon sempre più allenta la sua presa, e le catene che imprigionano il Liberatore cominciano a spezzarsi: come suggeriscono le dimissioni di papa Ratzinger.

“La Chiesa si è sempre caratterizzata anche per la sua capacità di “tenere a freno”, di arrestare – come si legge in San Paolo – l’avanzata delle forze anticristiche. Bisogna quindi chiedersi se la decisione di Ratzinger non sia una lucida dichiarazione di impotenza a reggere una funzione di ‘potere che frena’. Ratzinger dice: continuerò a essere sulla croce, facendo salva la dimensione religiosa, che rimane. Ma la dimensione del potere che frena dove va a finire? Simbolo della Chiesa è, assieme, Croce e katéchon ( la figura ben presente nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi di San Paolo: potere che frena l’avanzata dell’Anticristo, ndr). Il segno di queste dimissioni, a saperlo vedere in tutta la sua prospettiva è dunque davvero grandioso… Potremmo ipotizzare che Ratzinger si dimette perché non riesce più a contenere le potenze anticristiche, all’interno della stessa Chiesa. Come diceva Agostino, gli anticristi sono in noi. Questa è una chiave per la decisione di Ratzinger, se vogliamo leggerla in tutta la sua serietà. La sua decisione fa tutt’uno con la crisi del politico, del potere che frena.”[18]

Mi fermo qui. E’ un discorso che dovremo riprendere, perché come mi pare si possa già scorgere con chiarezza, il momento storico presente è davvero un momento di crisi e trapasso epocale, in cui alzano la voce nel campo di battaglia politico e mediatico domande che sinora si ponevano nel Kampfplatz filosofico, per dirla con Kant; o nell’arena teologica. L’Europa – l’Europa oder Christenheit, ma anche l’Europa ovvero Illuminismo, l’Europa ovvero nichilismo, eccetera – si interroga su se stessa, e lo fa, con l’umiltà dei grandi, coram populo, in mezzo alla strada, sugli schermi delle televisioni e dei pc, sulle pagine dei giornali e nelle discussioni tra amici e avversari. Prestiamo attenzione.

 

 

 

 

 

 

[1] E’ il titolo di un celebre scritto di Novalis (Georg Friedrich Philipp Freiherr von Hardenberg), elaborato nel 1799 e letto dall’Autore al Circolo Romantico di Jena, a un pubblico del quale facevano parte Schelling e Goethe. Fu pubblicato nel 1826 per iniziativa di Schlegel. E’ uno dei testi seminali del romanticismo europeo. V. https://it.wikipedia.org/wiki/La_Cristianit%C3%A0,_ovvero_l%27Europa

[2] Ne parlo più diffusamente qui: http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2016/12/la-politicaitaliana-secondo-shakespeare.html

[3] Galati 3,28

[4] https://en.wikipedia.org/wiki/Eric_Voegelin

[5] https://it.wikipedia.org/wiki/Romano_Amerio

[6] Iota unum. Studio delle variazioni Della chiesa cattolica nel secolo XX, Lindau, Torino 2009, a cura di Enrico M. Radaelli.

[7] Matteo 5,17

[8] Seconda lettera ai Tessalonicesi, 3-7

[9] Carl Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum europaeum», traduzione di Emanuele Castrucci, Milano, Adelphi 1991 (sesta ed.)

[10] Carl Schmitt Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, traduzione di Giovanni Gurisatti, Milano, Adelphi 2002 (settima ed.)

[11] https://philitt.fr/2017/10/23/le-katechon-selon-carl-schmitt-de-rome-a-la-fin-du-monde/

[12] Massimo Cacciari, Il potere che frena. Saggio di teologia politica, Milano, Adelphi 2013 (settima ed.)

[13] Massimo Cacciari, Dell’inizio, Milano, Adelphi 1990 (terza ed.)

[14] https://it.wikipedia.org/wiki/Gioacchino_da_Fiore

[15] Sottolineatura mia.

[16] https://www.esonet.org/massimo-cacciari-ii-papa-deve-smettere-di-fare-il-katechon/

[17] Maurizio Blondet, Gli Adelphi della dissoluzione, Effedieffe ed. 2013

[18] Intervista a Massimo Cacciari, http://www.vita.it/it/article/2013/03/11/cacciari-il-nuovo-papa-dovra-sfidare-lanticristo/122928/

VERSO IL CONGRESSO PD, di Antonio de Martini

VERSO IL CONGRESSO PD: AL LADRO,AL LADRO !

Per svagarmi da una angustia familiare divorante, ho voluto, per una volta, vedere, una trasmissione TV di quelle che facendo litigare i partecipanti, spiegano il mondo in un’ora e quattro intervalli pubblicitari.

Gente che credevo morta da tempo, come Ferruccio De Bortoli e Andrea Purgatori vengono utilizzati come gli orsi nelle fiere balcaniche.
Creano animazione e curiosità.

Si litiga tra politici nuovi e semi nuovi sui numeri e i decimali del PIL come se fossero veri.

Tutti indistintamente i protagonisti di questa serata – a un momento o un altro delle loro carrierette – si sono detti d’accordo sul fatto che l’evasione fiscale in Italia sia di oltre cento miliardi di euro all’anno.

Bene, se aggiungiamo questa cifra al nostro PIL ( calcolo a occhio data l’ora) il nostro rapporto debito/PIL si riduce al 90% ossia a posizioni migliori della Francia e comparabili alla Germania.

All’estero i conti li sanno fare e ne tengono conto anche se non lo dicono per ovvie ragioni speculative.

Sono meravigliato che tanti economisti di varia scuola non abbiano notato e usato questo argomento , magari solo come espediente polemico.

Nessuno ha nemmeno mai rimproverato alla Germania la promessa fatta al governatore Ciampi nel 92 di intervenire a difesa della lira attaccata da Soros ( solo da lui?) Qualora l’Italia non ce la avesse fatta.

Forte di questo impegno, ovviamente verbale, Ciampi spese 55.000 miliardi di valute pregiate a sostegno della nostra moneta in cinque giorni.
La Germania, naturalmente, il sesto giorno non intervenne e noi dovemmo svalutare di oltre il 30% diventando il malato d’Europa.

Anche di questa vicenda nessun economista fa cenno, eppure oggi
“ i mercati” dubitano di noi anche perché abbiamo perso inutilmente queste importanti riserve strategiche.

Sono comunque certo che ce la caveremo e mi spiego: nel mondo vi sono tre imperi: Cina, USA, Russia e un impero in formazione, l’Europa, che tutti vogliono resti unicamente una espressione geografica.

USA e Russia, per una volta concordi, appoggiano il nostro governo perché – comunque vada- impedisce all’Europa di diventare una potenza planetaria.

In bilico, siamo una pistola puntata alla tempia della Germania. Dentro o fuori siamo un peso.

I due grandi non ci faranno cadere e la Germania ( camuffata da Europa) non oserà attaccarci per non precipitare eventi temuti e giungere allo scontro diretto con gli USA.
Anche questo hanno paura di dirlo.

Tutti hanno interesse a tenerci a malapena a galla solo per questo, ma è sufficiente a consentirci di imparare a nuotare da soli, perché non sono i successi a fare gli uomini. Sono gli errori.
E qualcosa abbiamo appreso: ad agire da soli ( derivato del sovranismo..) e a non aspettare aiuti dal governo ( sfiducia nella sua competenza).

Il condono/pace fiscale renderà disponibili le imprese a rischiare nuovamente e il governo potrà spendere denaro fresco.

Intanto in TV Minniti – con Calenda in veste di Giovanni Battista- ruba a man salva la politica estera italiana dello scorso mezzo secolo annunciando, come fosse un suo successo, che il terrorismo internazionale ha colpito tutta Europa, ma non l’Italia.

Peccato che io l’abbia detto dal 2001 in almeno trenta articoli sul “corriere della collera” spiegando che l’unica continuità politica tra il fascismo e la Repubblica è stata la politica filo araba dell’Italia che renderebbe impopolari i terroristi, per la pubblica opinione cui tengono, attaccare proprio noi.

Proprio vero che c’è chi ruba i soldi e chi le idee.
Ognuno ruba quel che gli manca.

MULTIPOLARISMO E “PRAGMATISMO”, di Fabio Falchi

MULTIPOLARISMO E “PRAGMATISMO”

https://fabiofalchicultura.blogspot.com/2018/10/multipolarismo-e-pragmatismo.html?fbclid=IwAR2FkxZRIOgVgpP7B-1BXLecqoDzwi6g9MSQGZ5rxLF_cZI1dIEPqvaMvbw

La vittoria di Bolsonaro difficilmente potrà riportare l’America Latina ai tempi dell’operazione Condor, ma certo segna l’inizio di una nuova fase storica per il continente americano dopo la breve fase del cosiddetto “socialismo dell’America Latina”, che comunque non potrà essere cancellata. Facile prevedere perciò anche per l’America Latina un periodo contrassegnato da nuove lotte e aspri conflitti, ma si può pure ritenere che la politica degli Usa nel continente americano dipenderà sempre più dai gruppi subdominanti latino-americani.
In ogni caso, la partita decisiva nei prossimi decenni sarà (salvo che non vi siano mutamenti improvvisi e di portata mondiale) quella in Estremo Oriente, che assorbirà sempre più le limitate risorse degli Usa. Pure in Medio Oriente del resto gli Usa si vedono già costretti a dipendere sempre più dai loro alleati (Israele e Arabia Saudita – non a caso Obama, con l’accordo sul nucleare con l’Iran, aveva cercato di evitare che la politica di questi Paesi potesse compromettere gli interessi degli Usa a livello globale) e qualcosa di simile vale pure per l’Europa.
Lo scontro in atto ai vertici della potenza egemone peraltro riguarda la ridefinizione del ruolo degli Usa anche a livello geopolitico (che non si può separare dalla questione dell’economia degli Usa) e in particolare il confronto con la Russia che per la parte del gruppo dominante ostile a Trump è ancora il nemico principale, anche se al riguardo la stessa politica di Trump è tutt’altro che coerente e chiara. Di fatto, gli Usa a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso hanno cercato di risolvere il problema del loro declino relativo (Paul Kennedy) mediante l’espansione del capitalismo finanziario (Giovanni Arrighi), puntando tutto sulla globalizzazione made in Usa. Il crollo dell’Urss favorì una “accelerazione” di questa politica e la prima guerra del Golfo illuse gli Usa di potere pure ridefinire la carta geopolitica mondiale con interventi di carattere militare. Invero, questa politica – confermando il giudizio di Fernand Braudel secondo cui la prevalenza del capitalismo finanziario è il segnale dell’autunno della potenza egemone – ha favorito l’eccezionale crescita della Cina, ha generato instabilità a livello mondiale, ha indebolito il sistema socio-economico americano, ha evidenziato la debolezza del sistema militare degli Usa per quanto concerne il controllo diretto di un Paese (Afghanistan e Iraq) e ha creato un caos che è stato sfruttato sul piano geopolitico sia dalla Russia che da potenze regionali, e su quello economico (oltre alla Cina e altri Paesi asiatici) soprattutto dalla Germania, cui tutto o quasi era stato concesso per saldarla all’Atlantico dopo il crollo dell’Urss.
In questo contesto non sarà facile quindi per gli Usa gestire la crisi della Ue, che non è altro che una aggregazione di Stati nazionali in lotta tra di loro (ossia una nullità geopolitica e militare) ed è prevedibile che anche in Europa gli Usa dovranno contare sempre più su gruppi subdominanti. Tuttavia, mentre il gruppo obamiano-clintoniano (per capirsi) sostiene decisamente l’euroatlantismo in funzione antirussa, secondo la logica deterritorializzante tipica del predominio del capitalismo finanziario, viceversa la politica di Trump cerca (non senza contraddizioni) di conciliare la politica di potenza degli Usa con una forma di riterritorializzazione della politica e dell’economia che vada a vantaggio della società americana nel suo complesso.
Comunque, sia che prevalga la politica di Trump sia che prevalga quella dei suoi avversari, è inevitabile che gli Usa si imbattano nei limiti della propria potenza, limiti che dipendono sia da una “sovraesposizione imperiale” dell’America sia dalla crescita di altre potenze. In altri termini, Trump o non Trump, il multipolarismo non solo è già una realtà, ma è pure una realtà che genererà nuovi conflitti e numerose scosse di terremoto geopolitico e geo-economico. Che questo possa pure essere occasione di crescita politica ed economica per diversi Paesi lo si può concedere, ma certo sempre più si evidenzieranno i difetti dell’architettura politica ed economica della stessa Ue, i cui centri di potere sono legati a doppio filo con la parte dello Stato profondo americano ostile a Trump.
D’altronde l’Ue è imperniata sulla supremazia dell’area baltica, mentre l’area mediterranea è quella ormai che conta di più sotto il profilo geopolitico e geostrategico. E nei prossimi decenni l’“esplosione” demografica dell’Africa, potrebbe avere effetti devastanti per il continente europeo, tanto più se si considera il totale e vergognoso fallimento della Ue nel controllare l’immigrazione irregolare. In pratica, l’unica strategia degli eurocrati per quel che riguarda l’area mediterranea pare consistere nel dare carta bianca alla Francia, la cui politica nel continente africano oltre ad aver già danneggiato gravemente l’Italia è del tutto inadeguata a risolvere gli attuali problemi dell’Africa. Invero, l’ambiziosa e velleitaria politica della Francia, che da tempo non è più una grande potenza, potrà solo rendere ancora più difficili i rapporti tra l’Europa e l’Africa.
Pertanto, pare logico che la politica di un Paese come l’Italia nella presente fase storica dovrebbe essere il più possibile “pragmatica”. Nondimeno, è difficile non riconoscere che la politica dei giallo-verdi, benché sia attenta, a differenza dei governi precedenti, a difendere l’interesse nazionale, mostra già molteplici carenze sotto il profilo strategico. La mancanza di una vera strategia politica da parte dei giallo-verdi del resto è confermata dalla manovra del governo, che punta soprattutto sul consenso elettorale.
Una legislatura dura (in teoria) cinque anni. Vi era quindi tutto il tempo per rivedere la riforma delle pensioni e per introdurre il reddito di cittadinanza (al riguardo si sarebbe potuto agire in “modo graduale”) mentre essenziale sarebbe stato puntare subito su investimenti nella R&S, nelle infrastrutture e soprattutto nei settori strategici (energia, robotica, sistemi di difesa ecc.) e al tempo stesso ridefinire gli equilibri di potere nel nostro Paese, adottando nuovi dispositivi di legge e una serie di misure di carattere politico-culturale (a cominciare dal settore della comunicazione, sostenendo la piccola editoria e moltiplicando centri studi e di ricerca in funzione di un nuovo corso politico e culturale).
In questa prospettiva, lo scontro con gli eurocrati avrebbe avuto ben altro significato (e lo stesso vale per la possibile adozione di nuovi strumenti finanziari). In sostanza, barcamenarsi tra Scilla e Cariddi non significa essere “pragmatici” ma solo navigare a vista.

Identitari e globalisti 3a parte, di Teodoro Klitsche de la Grange

In calce la terza parte dell’intervento dell’autore al 30° congresso del PLI tenutosi a Roma nel maggio 2017. Offre sicuramente importanti spunti di riflessione sulle diverse chiavi di interpretazione che si stanno affermando rispetto all’agone politico dei due secoli passati. In rapida successione si pubblicherà il prosieguo_Germinario Giuseppe

1a parte

http://italiaeilmondo.com/2018/10/10/identitari-e-globalisti-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/

2a parte

http://italiaeilmondo.com/2018/10/14/identitari-e-globalisti-2a-parte-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/

Il nemico principale dei liberali italiani.

Quanto ai liberali italiani, l’individuazione del nemico principale è agevole. L’Italia è tra i primi dieci Stati del pianeta (su quasi 200) per prodotto nazionale lordo; tra i primi venti per il P.I,L. (Prodotto Individuale Lordo). Ma se passiamo a quelle classifiche dove ad essere presi in considerazione sono attività e funzioni pubbliche, raramente andiamo oltre metà (dai primi posti passiamo alle ultime file). Anche se certe graduatorie possono non apparire del tutto convincenti, le posizioni analoghe raggiunte, la distanza che le separa da quelle “private”, e la concordanza dei dati (da quelli sulla giustizia, a quelli sui tempi della p.a., da quelli sulla morosità del settore pubblico a quelli sul numero dei dipendenti in rapporto ai servizi) rendono evidente che il problema principale della società italiana è costituito dagli apparati pubblici, dal loro costo, dal rapporto di questo con il rendimento (la “macchina di Fortunato”), dalla scarsa responsabilizzazione, dalla tendenza a sottrarsi al controllo politico, a quella di approfittare delle stesse insufficienze per limitare la libertà dei cittadini e l’efficienza economica. Non stupisce che tali apparati – spesso parassitari – prelevino una quantità crescente di risorse (da un quarto del PNL di mezzo secolo fa alla quasi metà del 2015) e che tale prelievo sia aumentato durante la crisi economica (a PNL decrescente corrisponde una tassazione crescente).

Con la crisi del 2008, il “golpe” dello spread nel 2011 e la svendita dei titoli del debito pubblico, al parassitismo poliburocratico si è sommato quello della finanza (internazionale e non), rendendolo ancora più intollerabile.

Qualche anno fa un Ministro, con un’inconsapevole ironia, disse in Parlamento che “pagare le tasse è bellissimo”; da tutti i dati risulta che è sicuramente bellissimo, ma per chi ne approfitta, non per chi le paga; per quest’ultimo (cioè la grande maggioranza) è sicuramente inutile, perché ne riceve di ritorno solo una frazione di quel che da.

Anche (e soprattutto) perché, diversamente da un tedesco, francese o spagnolo, prestazioni e servizi pubblici erogati a un italiano sono generalmente di livello qualitativo e quantitativo inferiore, peraltro non in pochi casi peggiorato proprio quando ne erano aumentati i “corrispettivi”.

La difesa parlata del Welfare ha aumentato il volume quando ne calavano le prestazioni: tanto chiasso è stato in tutta evidenza programmato e gestito per occultare la prassi opposta (come diceva Aldo Bozzi, in politica le parole servono a coprire i fatti). Ciò non comporta solo un espropriazione ossia quello che Miglio chiamava “rendita politica”, declinata nella storia in tutte le forme e modi (dal saccheggio allo sfruttamento durevole dei governati), ma anche una perdita generale di libertà. E non solo economica: il parassitismo poliburocratico va riducendo anche gli spazi di libertà non economica. Ad esempio una delle vie indirette a tal fine più praticate negli ultimi vent’anni dalle élite decadenti è stato di peggiorare l’accesso alle procedure giudiziarie per la riscossione dei crediti verso le PP.AA., di guisa da procrastinarne il pagamento; o anche la riduzione ai tassi minimi degli interessi legali, che essendo lo Stato il maggior debitore, significa azzerare (o quasi) il costo – a carico dei creditori – del mantenimento del debito (e quindi incentivarlo). Se un Puviani redivivo dovesse riscrivere L’illusione finanziaria vi dedicherebbe un capitolo.

L’altro aspetto preoccupante è che le prassi predatorie, praticate dal regime decadente hanno consumato quella legittimità che, con una certa fatica, la c.d. “prima Repubblica” si era faticosamente conquistata. Anche se quella legittimità era stata lungi da essere piena, ma piuttosto ricordava – anche ai tempi di De Gasperi ed Einaudi – quella che Ferrero definiva “quasi-legittimità”, il consenso ai partiti di sistema (cioè i partiti del CLN) era comunque enormemente superiore all’attuale. In definitiva, ad impiegare l’indice elettorale, tra il 90% dei votanti degli anni ’70-’80 i partiti di “sistema” ottenevano circa l’80-90% dei suffragi (cioè il consenso di due terzi abbondanti degli elettori); oggigiorno i partiti non identitari ossia PD, spezzoni di centristi e Forza Italia ottengono circa il 45% dei voti espressi, questi pari a meno di 2/3 degli elettori. Cioè il consenso di circa il 30% dei cittadini.

Che poi la scarsa propensione a votare riduca anche il consenso dei partiti “populisti” è una magra consolazione: perché significa che recarsi a votare è considerato dagli elettori sempre più inutile. Disaffezione dalla politica che corrisponde a disillusione e spesso a disperazione per chi non vede via d’uscita e proposta credibile ad una crisi economica ed epocale.

E non ha neppure la consapevolezza e la visione delle soluzioni, né a livello di base né molto spesso a quello di vertice.

Nei partiti identitari se Lega e Fratelli d’Italia hanno una visione e un programma (abbastanza) coerente, anche se talvolta non liberale, quelli dei grillini sono assai più sfocati, equivoci, talvolta ondeggianti tra utopia e strumentalizzazione di idola consunti.

Va da se che la transizione in corso provocherà alle prossime elezioni politiche e nel Parlamento futuro, o una (risicata) maggioranza dei populisti o – meno probabile – un’altrettanta modesta maggioranza da “antico regime” ascrivibile probabilmente alla coalizione tra leghisti, Fratelli d’Italia e Forza Italia. Comunque un paese spaccato in due.

Ma in una situazione difficile i liberali possono offrire le fondamenta di soluzioni condivise malgrado il cambio di discriminante: tutela dei diritti fondamentali (del cittadino e non solo dell’uomo), distinzione dei poteri, democrazia rappresentativa, funzioni pubbliche realmente tali e non appropriate (di fatto) a corporazioni, lobbies e così via. Sono le costanti che hanno sorretto il liberalismo in quasi cinque secoli, malgrado le transizioni tra discriminanti, che hanno arricchito nella storia il bagaglio ideale e la prassi del liberalismo, facendolo diventare common sense. Chi oggi contrasta, nel mondo “occidentale” il diritto di libertà religiosa o di pensiero? Chi il diritto di voto uguale per tutti? Chi la solidarietà (fraternité) fra cittadini in uno Stato sociale (caso mai sono le forme o la misura ad essere discusse)? Anche la discriminante identità/globalizzazione sarà ricomposta e conciliata.

Fine al quale il liberalismo italiano, per la sua caratteristica storica nazionale, intesa come tutela dell’esistenza e specificità della comunità tra altre comunità di pari livello e dignità, alieno da volontà di dominio e sopraffazione è particolarmente vocato. La servilità che Orlando vedeva nel secondo dopoguerra come tara (anche delle future) classi dirigenti della Repubblica può ormai solo accompagnare ed aiutare il processo di decomposizione comunitaria.

L’essenziale è tener la testa rivolta al futuro, e non averne paura. Peggio ancora, adagiarsi sul passato. Al termine di un ciclo politico, quando la decadenza stessa è alla frutta, guardare al passato significa solo ritardare la nascita del nuovo. Evento che non dipende tanto dalla volontà umana, quanto da regolarità politiche e storiche.

Ducunt volentem fata, nolentem trahunt.

Teodoro Klitsche de la Grange

GUERRA ECONOMICA, di Piero Visani e l’arma economica in occidente di stratpol

UNA CHIOSA TEORICA E UNA RICOSTRUZIONE SUL CAMPO. La traduzione, per mancanza di tempo, è basata su di un traduttore. Appena possibile saranno corretti gli errori più vistosi_Giuseppe Germinario

Guerra economica

       E’ del tutto evidente, per chi non è (o  non vuole essere…) cieco, che ci stiamo addentrando vieppiù in un profondo scenario di guerra economica. Chi scrive non ha competenze al riguardo per esprimere pareri, ma sa bene che la guerra è, innanzi tutto, un confronto di forze morali, per le quali è comunque preferibile trovare delle baionette (o surrogati attuali).
       In secondo luogo, tale guerra deve essere accompagnata da tattiche e strategie di movimento, non statiche, per mostrare al nemico volti costantemente nuovi e capaci di rinnovarsi.
       In terzo luogo, ogni strategia seriamente definibile come tale ha bisogno di alleati, perché il “fare da sé” può essere bellissimo, ma non quando si è deboli. Ne consegue che una guerra di movimento – che spesso e volentieri potrebbe diventare guerriglia, perché, stante la nostra condizione di asimmetria, occorre ricorrere alla tattica tradizionale dei più deboli – deve cercare continuamente alleati e alleanze, in forma scoperta quando lo si vuol far sapere al nemico e in forma coperta quando gli si vuol fare male, e molto.
       Una condotta operativa del genere richiede la massima flessibilità e la massima mancanza di scrupoli, perché è una lotta per la vita, di una Nazione e di un popolo.
       Non credo che questi concetti siano ancora chiari, a molti che pur militano sul medesimo versante politico, ma è in un’ottica di guerra economica che occorre riuscire costantemente a muoversi, esattamente come fa il nemico. Ogni altra scelta non è sufficiente, anche se – a livello di linguaggio – occorre pure sviluppare un’adeguata strategia mediaticacom’è ovvio volutamente tranquillizzante. Al terrorismo dei mercati e dell’Eurolager si risponde con una “forza tranquilla” in superficie e con il contro-terrorismo sotterraneo.
 
                        Piero Visani

Il campo occidentale alla prova dell’arma economica: le lezioni del CoCom

 18 agosto 2018 STRATPOL

Appena la Repubblica federale di Germania ha formalizzato la costruzione del controverso gasdotto Nord Stream 2 16 maggio 2018, che la Polonia e gli Stati Uniti hanno sorprende espresso la loro opposizione a questo progetto. Questo gasdotto, che si estenderà sotto il Mar Baltico per 1.200 chilometri per collegare la Russia alla Germania, dovrebbe fornire a questi ultimi una fornitura di 55 miliardi di m³ di idrocarburi russi all’anno, evitando che la Russia debba pagare le tasse di transito in Ucraina e Polonia. Le autorità tedesche hanno dato il via libera al progetto nel marzo 2018, seguito dalla Finlandia in aprile, i lavori sono iniziati a maggio nella città di Lubmin.

I rappresentanti polacchi e statunitensi hanno reagito con prevedibile ostilità a questo progetto denunciandolo come una ”  minaccia alla stabilità europea  “. Così, l’incontro tra il Ministro degli Affari Esteri polacco, Jacez Czatupowitc e il Segretario di Stato Mike Pompeo 21 Maggio 2018 è stata l’occasione per la Polonia di affrontare l’argomento in particolare per garantire una possibile pressione americana su imprese europee coinvolte nella costruzione del gasdotto 1 dopo che il rappresentante degli Stati Uniti in Ucraina, Kurt Volker , ha espresso l’intenzione degli Stati Uniti di utilizzare questi metodi.

In un contesto di crescenti tensioni con la Russia sotto sanzioni e contro la possibilità di ricorrere alla rappresaglia economica americana, è necessario mettere in discussione l’esecuzione dell ‘”arma economica” alla luce di esperienze precedenti. Quindi questo articolo si concentrerà su un soggetto frainteso della guerra fredda e cioè Coordinamento Comitato per i controlli multilaterali esportazioni (COCOM) Questa organizzazione, fondata nel 1949 e collegato a un allegato dell’ambasciata degli Stati Uniti a Parigi, è stato il Il risultato di accesi dibattiti tra le potenze occidentali per controllare i trasferimenti tecnologici al blocco socialista che dipendeva da loro.

Questa politica di ” contenimento economico” e il suo strumento principale, il CoCom, sono stati mantenuti in varia misura durante la Guerra Fredda fino all’Intesa di Wassenaar nel 1994 e avrebbero pesantemente coinvolto gli Stati Uniti e i loro alleati in La NATO, non senza continue polemiche; la questione di una questione delicata e di ampia portata: gli Stati Uniti e i loro alleati potrebbero permettersi di commerciare con l’Unione Sovietica?

Se la domanda non fosse mai unanime tra le parti interessate negli Stati Uniti, potrebbe ancora meno tra i membri della CoCom.

Una strategia volta a moderare i sovietici per alcuni, oa rischiare di ”  vendere la corda  ” per gli altri, ogni paese del CoCom implementerà gradualmente la propria concezione di questo commercio secondo le sue percezioni sulla sicurezza nazionale durante la Guerra Fredda.

La presente analisi si concentrerà su questi due estremi tra i quali il CoCom si è trovato tirato durante gli anni ’80 in un contesto di “guerra fresca” caratterizzato dal desiderio degli Stati Uniti di riprendere la lotta contro il comunismo sotto la guida del presidente Ronald Reagan.

 

Commercio I / Est-Ovest, tra apertura e confronto

La lotta ideologica tra il campo occidentale e il blocco orientale durante la guerra fredda non ha consacrato un’interruzione nelle relazioni commerciali. L’equilibrio del potere era prima facie a favore degli occidentali. Infatti, qualunque sia i fautori dei miracoli del mito dell’economia socialista, la Russia sovietica ha sempre mostrato una dipendenza pronunciato nei confronti di tecnologie occidentali che erano essenziali per il suo sviluppo come è stato dimostrato diversi studi, i più notevoli sono quelli del professor Antony Sutton 2 .

Ad esempio, negli anni ’20, la NEP 3 ha permesso l’apertura di 350 concessioni in Unione Sovietica incoraggiare la creazione di società occidentali la cui capitale tecnologico è stato il principale, se non l’unico fattore ripresa economica di questo paese devastato dalla guerra civile. Le concessioni furono poi rimosse da Stalin per ricorrere a “accordi di assistenza tecnica” che concedevano ad alcune aziende occidentali l’opportunità di contribuire con il loro know-how per aiutare la realizzazione di importanti progetti industriali nell’Unione Sovietica. Il periodo del rilassamentosegnata da un allentamento delle tensioni e da un allentamento dei controlli, è stata un’opportunità per i sovietici di acquisire una moltitudine di tecnologie occidentali a vantaggio del loro potenziale economico … oltre che militare.

Come è stato una volta così ben riassunto il professor Carroll Quigley: ”  Aziende come la Russia sovietica, che, per mancanza di tradizione scientifica, ha dimostrato basso creatività tecnologica, che comunque possono essere una minaccia per la civiltà occidentale con l’uso su una scala immensa, una tecnologia quasi interamente importata da questa stessa civiltà occidentale  ” 4 .

Una breve descrizione dei principali settori militari sovietici che hanno beneficiato dei trasferimenti di tecnologia occidentali lo appoggerebbe, oltre a stabilire il fallimento della CoCom e le speranze di pace alla vigilia della presidenza Reagan:

La flotta sovietica, il più grande del mondo, è stato fatto fino al 60% delle navi costruite in Occidente, come l’80% dei loro macchinari 5 . Le tecnologie sono state ottenute da Burgmeister & Wain di Coppenaghen e Litton Industries 6 . Erano alcune di queste barche che trasportavano i missili a Cuba e fornivano equipaggiamento a Haiphong. 7

L’industria automobilistica è stata eretta con l’aiuto di aziende occidentali, come Fiat e Ford tra i 30 ei 60 anni 8 . Alcuni veicoli militari, il plagio dei modelli occidentali, furono usati in Afghanistan e contro lo sforzo bellico americano in Vietnam.

missili sovietici posizionati in Europa hanno tratto grandi benefici da un know-how occidentale oltre a quella della società statunitense Bryant di serraggio Grinder società i cui cuscinetti a sfera hanno aumentato la precisione degli attacchi sovietici e la minaccia che rappresentavano per la sicurezza europea 9 .

Avremmo potuto aggiungere a questo equilibrio i settori agricolo e chimico, ma questi dati sono sufficienti per stabilire che il commercio con l’Unione Sovietica, che alcuni avevano promosso nell’ottica “per ammorbidire” i sovietici, aveva gli effetti opposti: il L’Occidente non ha comprato la pace piuttosto “ha venduto la corda 10 “. Considerando i molti sforzi legali e informali che i sovietici hanno fatto per ottenere la tecnologia, è stato per rimediare ad una vera e propria emorragia tecnologica in Occidente che Reagan voleva rimescolare la CoCom, i cui insuccessi richiedevano certe rettifiche.

Dato bisogno di questo ossessivo i sovietici in tecnologie occidentali potrebbero essere facilmente tentati di Antony Sutton ha concluso che un trasferimento puro e radicale tecnologia di blocco potrebbe contribuire a porre le ginocchia URSS e accelerare la fine della così Guerra Fredda. Tuttavia, questa visione è ideale perché il controllo delle tecnologie implicava considerazioni multiple che trascendevano il semplice uso della coercizione o di altre misure draconiane.

 

II / Orientamenti americani alle contraddizioni occidentali

Il controllo delle esportazioni è un’iniziativa prevalentemente americana. Agli albori della guerra fredda l’usèrent Stati Uniti per fare pressione l’Unione Sovietica attraverso il ”  Control Act  ” nel 1949, ponendo le merci esportate sotto controllo, ma anche a ovest con la ”  Battaglia Act  » nel 1951 causando la perdita della protezione americana in caso di scambi con il blocco socialista. E ‘in questo contesto qu’apparu CoCom 11 , spesso paragonato a un “club” non è basata su alcun trattato o accordo e dipendente dalla buona volontà degli Stati membri di disciplinare le transazioni di tecnologia verso l’URSS, i paesi del Patto di Varsavia e della Cina popolare.

Il COCOM ha stabilito tre elenchi di merci soggette a licenza: munizioni, beni nucleari e proprietà “a doppio uso”, fornendo opportunità per le “vendite eccezionali” 12 . Infine, operando su due concetti anglosassoni di guerra economica tra cui ha alternato come necessario, ossia la leva ( ”  leva” ) e ”  Linkage  ” 13 , il primo di sfruttare un vantaggio economico politicamente, mentre che il secondo è usare le azioni economiche per fare pressione su un obiettivo.

Il controllo americano sui paesi europei fu certamente ben consolidato dopo la Seconda Guerra Mondiale quando erano troppo esangui per potersi permettere di rischiare di perdere la protezione americana, ma come fecero la loro ripresa economica, essi ottenuto un margine di manovra risultante in diverse lacune.

Ogni paese membro aveva il proprio concetto di commercio est-ovest e una legislazione commerciale che non era necessariamente in linea con le linee guida statunitensi.

Così la Francia, capitale delle simpatie mondiali verso il comunismo, ricorse al commercio est-ovest per affermare la propria sovranità e distinguersi dall’egemonia americana. Il commercio con l’Oriente godeva di un ampio consenso e la comunità degli affari poteva contare sulla benevolenza dello stato. Se la tendenza era lassista fino al 1981, la Francia, pur rafforzando i suoi controlli, ha conservato la preoccupazione per la sua sovranità.

Il Regno Unito, con le sue tradizioni commerciali, si impegnò negli scambi con l’Oriente per soddisfare le sue esigenze economiche interne. Tuttavia, l’arrivo di Margaret Thatcher nel 1979 segnò una sottomissione alla politica di controllo americana.

Il FRG era l’anello debole della CoCom. Ciò è dovuto al fatto che il suo commercio con la RDT non è stato considerato come commercio estero e ha causato perdite di tecnologie non controllate dalla CoCom.

Infine, il Giappone si distinse per il suo lassismo. La legge prevedeva la libertà di esportazione ei controlli erano riservati alle società sul suolo giapponese senza estendersi alle loro controllate estere.

Figura: Il commercio dei paesi membri del COCOM con l’URSS e nei paesi del Patto di Varsavia (fonte: RHOADES WE; COCOM, il trasferimento di tecnologia e il suo impatto è la sicurezza nazionale; Calhoun: La NPS istituzionale archivio; 1989; p.127)

Grazie alla sua natura informale, le decisioni prese nel CoCom ha erano di alcuna forma vincolante nei confronti degli Stati membri sono liberi di attuare le misure di CoCom a loro piacimento. Così due concezioni opposte del blocco: la sicurezza (stabilire controlli stabili) e le sanzioni (secondo iniziative sovietiche) 14 . Gli Stati Uniti si alternano opportunisticamente tra i due ma non sono ancora d’accordo con i suoi alleati. Se si può presumere che vi era consenso per il controllo delle esportazioni di tecnologie strategiche (non senza riserve dai paesi europei), il problema principale è la definizione di “strategica”.

Gli elenchi dei beni da porre sotto controllo possono dunque essere unanime tra i membri del COCOM, gli americani a seguito di un approccio senza compromessi, ha voluto limitare il commercio attraverso le liste espanse, mentre proattive europei preferivano conservare i loro legami commerciali con la È con liste di controllo limitate.

Entrambe le parti spesso proceduto a reciproche accuse di ipocrisia, gli europei che vogliono difendere i loro interessi economici in Oriente e non esitando a mettere in discussione le linee guida COCOM in qualsiasi invasione di esso sul loro sovranità. Gli americani erano sotto pressione dai loro industriali, che si sentivano offesi dai loro concorrenti europei con restrizioni più flessibili dai loro rispettivi paesi.

Questi elementi evidenziano un doppio paradosso derivante da una dipendenza reciproca: l’URSS, sebbene fortemente dipendente dalle tecnologie occidentali, è riuscita a tenere il passo con il campo occidentale, mentre l’altra metà Gli industriali occidentali, benché esposti alla minaccia sovietica, continuarono a perseguire o addirittura difesero il commercio di tecnologia con il blocco dell’Est mostrando una riluttante riluttanza a qualsiasi ingiunzione americana o interferenza nelle loro attività economiche.

Un’osservazione che chiama seriamente a relativizzare i concetti liberali ispirati a Montesquieu per cui ” l’effetto naturale del commercio è portare la pace ” …

III / False speranze di rafforzare i controlli

Quando Reagan assunse la presidenza nel 1981, il deterioramento delle relazioni USA-URSS era già stato consumato da Carter. L’invasione dell’Afghanistan nel 1979 suonò la campana a morto della distensione e gli Stati Uniti reagirono prendendo alcune misure repressive.

Nel 1979 è stata promulgata l’Export Administration Act (EAA) la concessione al presidente il diritto di ispezionare sulle esportazioni seguita da un embargo sul grano nel 1980. La politica di Reagan iscritti a questa tendenza, notando il fallimento del ” commerciare e progettare un nuovo approccio al commercio est-ovest da imporre ai membri della CoCom. Ciò era in linea con le raccomandazioni fatte nel 1976 dal “Rapporto Bucy” 15 che insistevano sul controllo prioritario e selettivo sulle tecnologie “a duplice uso” e limitando l’accesso alla tecnologia statunitense ai membri della CoCom. La procedura si conforma anche all’approccio del Consiglio di sicurezza nazionale(NSC) sostenendo un rafforzamento del COCOM, la necessità di convincere gli alleati dei meriti di controllo delle esportazioni, l’azione collettiva e l’aderenza Est di etica aziendale del West 16 .

La guerra economica sembrava essere un’opportunità in quanto alcuni osservatori percepivano nell’URSS la premessa di un collasso economico; il rifiuto del trasferimento tecnologico potrebbe quindi esacerbare questa fase declino e curva URSS verso compromesso in termini di consumi e investimenti, gli effetti potrebbe essere combinata con la corsa agli armamenti, causando l’URSS il knockout 17 .

Questa strategia viene dalla prospettiva americana che i contributi tecnologici al settore industriale sovietico traggono beneficio indiretto dal settore militare 18 , un concetto che rompe con la ”  compartimentalizzazione” adottata da altri paesi della CoCom per i quali il settore militare è indipendente dalle tecnologie civili dal settore economico 19 . Per quanto riguarda gli alleati, gli Stati Uniti alterneranno due tendenze: i “multilateralisti” e gli “unilateralisti”, ciascuno dei quali difende una posizione distinta all’interno del CoCom e che ispirerà l’approccio da seguire in caso di due grandi crisi

Il primo è la costruzione del gasdotto Urengoy, certamente l’esempio più rappresentativo di una gestione disastrosa di embargo multilaterale dopo un’iniziativa unilaterale.

In risposta ai disordini che si sono verificati in Polonia nel 1980, Reagan fa le sue minacce e ha deciso nel dicembre 1981 di sospendere tutte le licenze di esportazione di beni e componenti destinati a garantire la costruzione di un gasdotto siberiano 20 . Era necessario, tuttavia, obbligare i membri della CoCom a seguire questo passo. Il 18 giugno 1982 il divieto è stato esteso alle filiali di società statunitensi e alle società straniere che producono attrezzature con licenza. Ciò aveva portato alla tensione con i membri europei dei paesi COCOM cui società sono penalizzati dalla extraterritorialità di una decisione degli Stati Uniti, soprattutto perché vedono Reagan paradossalmente sollevare l’embargo sul grano 21a vantaggio dei fornitori statunitensi. I governi francese e britannico apertamente incitato le loro imprese per ignorare le linee guida di Reagan e vis-à-vis il COCOM, costringendo il presidente degli Stati Uniti di revocare l’embargo nel novembre 1982. Il gasdotto alla fine saranno costruite a beneficio della URSS.

Diverse conclusioni da trarre da questa esperienza: possiamo considerare questo incidente come prova che l’unilateralismo degli Stati Uniti ha fallito, piuttosto che ottenere il sostegno degli alleati, gli americani riuscirono a alienarli, in quanto considerate alcune variabili (dipendenza dal gas sovietico, interessi economici) come precedenza sui loro obblighi nei confronti della CoCom.

Poiché l’unilateralismo si è rivelato inadeguato alla fine di questa crisi, l’amministrazione Reagan è stata spinta al multilateralismo per rafforzare, non senza difficoltà, la CoCom dopo il 1982.

Gli Stati Uniti hanno presentato un triplice progetto alla CoCom: ampliare le liste di controllo, rafforzare le sanzioni e rafforzare la struttura istituzionale della CoCom. Gli europei erano pronti a condurre una guerra economica solo se i prodotti interessati erano di importanza militare. Così, all’incontro del 1982, 58 dei 100 prodotti proposti dagli americani furono aggiunti agli elenchi. Inoltre, l’anno successivo l’applicazione diretta dei controlli per i 10 beni prioritari soggetti a diversione e nel 1984 il divieto di esportazione di determinate apparecchiature di comunicazione.22 .

Sebbene questo sviluppo multilaterale della CoCom abbia sollevato crescenti denunce da parte dei funzionari sovietici, questo successo relativo deve essere qualificato per determinati motivi: questi rinforzi sono limitati all’interno dei confini occidentali e sono accompagnati dalla persistente riluttanza degli europei ; gli Stati Uniti hanno rinunciato all’unilateralismo, sono stati costretti a lottare con i partner disposti a seguire le nuove procedure nel lungo termine in cui nuove denunce da loro che hanno ricevuto i freni per la riesportazione di tecnologia degli Stati Uniti come una violazione delle leggi internazionali. Questi controlli interni hanno infine indebolito la volontà dei paesi della CoCom di cooperare, con europei e giapponesi che percepivano le ambizioni unilaterali unilaterali degli americani.

I difetti di questa nuova impostazione verranno scoperti presso lo scandalo Toshiba-Kongsberg nel 1987. Entrambe le società sono state vendute ai sovietici macchine utensili in licenza essenziale per la modernizzazione delle loro sommergibili nucleari di sicurezza più compromettente Europa occidentale 23 . In risposta, il Senato degli Stati Uniti, con l’ emendamento Garn, ha richiesto la chiusura del mercato statunitense a tutte le società che non rispettano le normative di CoCom come sanzioni. Paradossalmente, questa misura è stata sconfessata dall’amministrazione Reagan, che temeva che i paesi europei applicassero le stesse restrizioni alle rappresaglie delle compagnie americane. Inoltre, una tale iniziativa unilaterale avrebbe solo compromesso la CoCom 24 . La via multilaterale doveva essere favorita in cooperazione con il Giappone e la Norvegia. Le sanzioni contro Toshiba e Kongsberg-Vapenfabrik sono state efficacemente implementate in aggiunta al crescente impegno del Giappone nel controllo delle tecnologie sensibili.

L’entità di questa crisi ha portato gli altri membri della CoCom a rafforzare la loro cooperazione con gli Stati Uniti nella CoCom. Questo cambiamento potrebbe essere incoraggiante se tra il 84 e il 89, il FRG non ha violato i suoi obblighi girare consentendo al Imhausen-Chemie per costruire impianto chimico in Libia trascurando di presentare i propri prodotti per il controllo CoCom con la silenziosa complicità delle autorità federali tedesche …

L’avvento al potere di Gorbaciov e allentare le tensioni con gli Stati Uniti completeranno la spesa sarà a convincere Reagan nel 1986 per allentare la sua politica di controllo.

Conclusione: da Ronald a Donald

L’esperienza della CoCom è edificante nel contesto attuale poiché ci consente di mettere la leadershipamericana in prospettiva tra i suoi alleati economici. Se il dominio americano militare e diplomatico rimane una costante oggi nella NATO, il dominio economico è il tallone d’Achille di questa supremazia. È proprio a livello economico che tutta l’eterogeneità del campo occidentale ci viene rivelata alla luce del giorno, ogni paese membro ha specifiche specifiche economiche divergenti su cui gli interessi americani possono inciampare.

Donald Trump, che ha preso le funzioni presidente degli Stati Uniti nel 2016, si trovano di fronte alcune sfide che si affacciava il suo predecessore Reagan. Se l’uso di sanzioni economiche contro la Russia è stata applicata dopo l’annessione della Crimea alla Russia nel marzo 2014, i risultati contrastanti o addirittura controproducente ottenuto non discutere a favore di questa politica. Le relazioni economiche sono intrinsecamente reciproca, le sanzioni sono spade a doppio taglio che possono portare a un punto morto 25

Pertanto, la parte occidentale dell’Unione europea, in particolare la Germania, è più preoccupata di preservare le sue relazioni economiche con la Russia e di conseguenza meno incline ad appoggiare tutte le direttive di Washington.

Di fronte al gasdotto Nord Stream 2 , gli americani possono contare sul sostegno dei paesi membri dell’Europa dell’Est della Three Seas Initiative 26 i cui interessi, come riconosciuto dal generale L. Jones del Atlantic Council , sono ”  più in linea con la percezione americana del mondo rispetto ai nostri tradizionali alleati nell’Europa occidentale  ” 27 .

Anche se gli Stati dovessero cooperare in una politica di boicottaggio contro la Russia, la comunità imprenditoriale che è stata impiantata lì probabilmente esprimerà la sua disapprovazione.

La Russia è un caso speciale nell’approccio alle politiche di guerra economica. Qualunque cosa fosse, secondo Lenin, ”  un semi-coloniale capitalismo monopolista  ” nei giorni di zarista o ”  mercato vincolato  “, secondo Antonio Sutton sotto il comunismo. Questo paese, paradossalmente, sapeva sempre come organizzare questa dipendenza economica e tecnologica pronunciata verso l’Occidente tra i suoi beni fino a renderla reciproca.

Le prospettive economiche offerte dalla Russia e la sua posizione ineludibile sul mercato mondiale susciteranno inevitabilmente l’interesse dei giocatori stranieri che saranno guidati da un irresistibile desiderio di ritorno sugli investimenti. Più capitale dedicherai alla Russia, più saranno riluttanti a qualsiasi politica di sanzioni che renderà la Russia insolvente e metterebbe a repentaglio i loro profitti.

Pertanto, come per il gasdotto Urengoy, nulla può garantire l’annullamento della bozza di Nord Stream 2prevista per il 2019, soprattutto perché gli sforzi degli Stati Uniti per ottenere la cancellazione di Nord Stream 1 nel 2012 non hanno avuto successo.

Come ai tempi della CoCom, non vi è inoltre alcuna garanzia che la minaccia di sanzioni nei confronti di società coinvolte in progetti con la Russia potrebbe dissuaderli dal continuare le loro attività, soprattutto perché questo provvedimento è stato già bruscamente ripudiato da le proteste di Germania e Austria a giugno 2017.

Dovrebbe prendere in considerazione i risultati contrastanti della CoCom sotto Reagan non invitare Trump più circospezione nella tentazione dell’uso dell’arma economica contro la Russia di Putin?

 

Hedi ENNAJI

 

Bibliografia selettiva:

  • BERTSCH GK (sotto la direzione di); Controllo del commercio est-ovest e trasferimento tecnologico, potere, politica e politiche; ed. Duke University Press; 1988; Georgia; 508 p.
  • BUCHAN D .; Impatti strategici del commercio est-ovest; ed. boschetto; al. Hermes; Paris; 1985; 169 p.
  • HANSON P .; Commercio e tecnologia nelle relazioni sovietico-occidentali; ed. Macmillan Press LTD; Hong Kong; 1981; 271 p.
  • HOLIDAY GD; Trasferimento di tecnologia all’USSR, 1928-1937 e 1966-1975: il ruolo della tecnologia occidentale nello sviluppo economico sovietico; ed. Westview Press; Colorado; 1979; 225 p.
  • LACHAUX C., LACORNE D., LAMOUREUX C .; L’arma economica; ed. Fondazione per gli studi di difesa nazionale; al. Le 7 spade; Paris; 1987; 406 p.
  • LAÏDI S .; Storia mondiale della guerra economica; ed. Perrin; Paris; 2016 576 p.
  • MASTANDUNO M .; Contenimento economico, CoCom e politica del commercio est-ovest; ed. Cornell University Press; New York; 1992; 353 p.
  • UFFICIO DELLA VALUTAZIONE DELLA TECNOLOGIA; Tecnologia e commercio est-ovest; ed. Allanheld Osmun & co; New Jersey; 1981; 303 p.
  • PARROTT B. (sotto la direzione di); Commercio, tecnologia e relazioni sovietico-americane; ed. Indiana University Press; Bloomington; 1985; 394 p.
  • SANDBERG M.; Imparare dai capitalisti, uno studio sull’assimilazione sovietica della tecnologia occidentale; Almqvist & Wiksell International; Göteborg; 1989; 264 p.
  • SEUROT F .; Commercio est-ovest; Economica ed; Paris; 1987; 174 p.
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PASTICCIO COSMICO-STORICO, di Teodoro Klitsche de la Grange

PASTICCIO COSMICO-STORICO

Se accadrà, come Di Maio e Salvini prevedono, che alle prossime elezioni europee gli equilibri politici saranno ribaltati, soprattutto per la prevedibile, drastica riduzione dei socialisti e per l’aumento – altrettanto notevole – dei populisti il contributo decisivo a tale risultato sarà dato dagli italiani. E ciò non solo perché i partiti sovran-popul-identitari, si attestano ormai, a seguire i sondaggi post 4 marzo, a circa due terzi dell’elettorato complessivo, nè perché il nostro è l’unico paese euroccidentale ad aver un governo populista “puro”, ma perché la crescita di tali partiti sovran-popul-identitari è stata (inconsuetamente) veloce e tumultuosa.

Al contrario di altri paesi (come la Francia e l’Austria) dove l’incremento fino alle ragguardevoli – ma non maggioritarie – percentuali elettorali si è “spalmato” in un ventennio (e anche qualche anno in più), il nostro si è realizzato in pochi anni; ad essere più precisi dai sette (al minimo) ai 10 (al massimo).

In effetti, come ci è già capitato di notare, nel 2008 i 5 Stelle, e la Lega “sovranista” (cioè salviniana) non erano presenti in Parlamento; lo era la Lega bossiano-secessionista, peraltro in percentuali ridotte.

C’è da interrogarsi quindi sulle cause di un incremento così rapido e travolgente, e su quello che sia successo in quei 7-10 anni per convincere gli italiani a un rapido cambio di regime politico – o più modestamente – di sistema partitico, con il “pensionamento” della vecchia coppia centrosinistra-centrodestra.

Non è sufficiente al riguardo dare la risposta che mi è capitata di sostenere più volte: che la vecchia scriminante del politico, ossia borghese/proletario è finita da quasi trent’anni (col crollo del comunismo) e ne è in corso la sostituzione con la nuova, cioè identità/globalizzazione, perché questo non da conto della differenza italiana, essendo comune a tutti i popoli dell’ “occidente”.

Neppure l’obiezione più calzante, ossia che dal 2008 è iniziata la crisi, spiega la differenza italiana per la stessa ragione: la crisi è comune a tutta la parte più sviluppata del pianeta (che include l’occidente). Anche se in Italia ha morso (forse) più che altrove.

La spiegazione (principale) della differenza è un’altra, o meglio altre. La prima è che l’Italia stagna da venticinque anni – esattamente la durata della seconda repubblica: è l’ultima per tasso di crescita sia nell’area euro che nell’area UE. Non è solo la crisi ad averci ridotto così, ma quel che l’ha preceduta.

La seconda è l’inconsistenza e la modestia del governo Monti, non riparata ma, in larga parte condivisa da quelli che gli sono succeduti, peraltro con un centrodestra che, anche quando collocato all’opposizione, non riusciva a distinguersi adeguatamente dai governi. Anche nei tempi il grande balzo dei 5 Stelle (dallo 0 al 25%) coincide con le elezioni del 2013 il cui risultato consisteva essenzialmente in un giudizio negativo sul governo “tecnico” e su chi l’aveva sostenuto (in Parlamento) e propiziato (anche da fuori).

A tale proposito sul “golpe” del 2011 c’è ormai una vasta letteratura; anche se discordante sul punto di chi fossero i mandanti della detronizzazione di Berlusconi  e dell’intronizzazione del governo tecnico.

Chi, al riguardo sostiene l’insieme Francia-Germania-Ue, altri i poteri forti – finanziari soprattutto – non solo europei e così via. Probabilmente tutte le spiegazioni hanno qualcosa di vero (nel senso di essere concause); interessa a questo punto vedere se, almeno per la classe dirigente europea e nazionale il tutto non si risolva e si risolverà in un caso esemplare di eterogenesi dei fini.

Con tale espressione è stato chiamato il fatto che molto spesso gli effetti delle azioni degli individui e delle comunità umane non sono quelli che gli agenti si propongono, ma altri, diversi e spesso opposti. Osservazione già contenuta in S. Agostino e ripetuta, modificata, integrata e secolarizzata da tanti, da Vico a Wundt, da Hegel a Max Weber e Freund. In particolare Hegel scriveva che «dalle azioni degli uomini risulti qualcosa d’altro, in generale, da ciò che essi si propongono e … immediatamente sanno e vogliono …(essi) recano in atto quel che a loro interessa, , ma da ciò vien portato alla luce anche altro, che vi è pure implicito, ma che non è nella loro coscienza e intenzione». A seguire tale concezione  – e quella, prossima, dell’ “astuzia della ragione” – causa, non esclusiva, ma principale della débacle annunciata potrebbe essere il golpe del 2011 con la catena di eventi che ha provocato.

La considerazione su esposta induce ad una riflessione “post-hegeliana”. Scrive Hegel che gli individui cosmico-storici sono coloro che eseguono nella storia il “piano” dello spirito del mondo (Weltgeist).

In questo caso ai vari complottisti del 2011 andrebbe conferita la medaglia al merito del Weltgeist, per aver favorito l’emergere della nuova fase storico-politica, anche se (speriamo) a spese delle loro fortune personali.

Ho però seri dubbi che quanto scrive il filosofo sia da condividere sic et simpliciter. A mio avviso i governanti vanno più utilmente divisi in due categorie: quelli che hanno la capacità di vedere a lungo termine (di pre-vedere) e coloro che riescono a percepire solo nei tempi brevi. I primi costruiscono gli Stati e le loro principali istituzioni; i secondi le coalizioni di potere (partiti compresi) destinate a durare qualche anno. Nella classe dirigente italiana ed europea vedo tanti che appartengono alla seconda, nessuno alla prima. Al contrario De Gaulle e Deng-Tsiao-Ping facevano parte, e la Costituzione della V Repubblica è sopravvissuta mezzo secolo al suo fondatore, come il nuovo corso del PC cinese voluto da Deng ha salvaguardato l’unità della Cina e ne ha promosso la potenza.

Sarà, ma ho la netta impressione che le élite nazionali ed europee, in lista di sbarco, potranno essere ricordate nella storia come quelle che affossarono inconsapevolmente la costruzione dei vecchi europeisti, da Adenauer a Martino.

In questo, ma solo in questo esecutori di un disegno (forse) superiore. Magra consolazione.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

Identitari e globalisti 2a parte, di Teodoro Klitsche de la Grange

In calce la seconda parte dell’intervento dell’autore al 30° congresso del PLI tenutosi a Roma nel maggio 2017. Offre sicuramente importanti spunti di riflessione sulle diverse chiavi di interpretazione che si stanno affermando rispetto all’agone politico dei due secoli passati. In rapida successione si pubblicherà il prosieguo_Germinario Giuseppe

qui la prima parte http://italiaeilmondo.com/2018/10/10/identitari-e-globalisti-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/

I liberali e la nuova scriminante.

A ogni contrapposizione politica epocale i liberali hanno trovato una collocazione e dato una risposta. Nell’epoca delle guerre di religione i proto-liberali, dai politiques francesi (come Jean Bodin) a filosofi come Spinoza e Locke hanno risposto con la tolleranza e la libertà religiosa. Alla scriminante borghesia/monarchie assolute con l’integrazione delle istanze della classe emergente nello Stato che da assoluto diventava costituzionale (e parlamentare) e infine democratico, a quella borghese/proletario con lo Stato sociale e il “compromesso fordista”.

In una situazione in cui partiti identitari già governano qualche paese europeo, e probabilmente a breve ne governeranno altri, e in altri comunque il consenso raccolto è vicino a metà del corpo elettorale, e talvolta lo supera, il “che fare?” dei liberali italiani consiste nel ruolo che possono svolgere in un sistema politico in cui i “populisti” sono o maggioranza o comunque provvisti di un consenso quasi maggioritario. Tale da dividere grosso modo a metà l’elettorato.

I liberali italiani hanno una caratteristica storica la quale li facilita nella ricollocazione nella realtà politica contemporanea: d’essere l’unica componente del liberalismo europeo ad aver realizzato – col compromesso con la monarchia sabauda – l’unità della nazione. Mentre gli altri euro- liberali hanno trasformato lo Stato nazionale, costruito dalle monarchie in secoli di centralizzazione e riduzione dei poteri feudali, realizzando lo “Stato rappresentativo”, in Italia Cavour e la Destra storica, fondavano l’unità nazionale nello Stato liberale.

Unità nazionale, libertà politica e sociale nascevano insieme: caso unico (per una forza liberale) nella storia dell’Europa moderna. Ne deriva che al liberalismo italiano è peculiare, più che ad altri,  la specificità nazionale e, a ben vedere, anche il connotato di liberalismo idealmente  robusto.

La storia del liberalismo italiano infatti lo mostra associato sempre (almeno finché è stato forza di governo) a decisioni forti e politicamente risolute: dalle guerre d’indipendenza alla guerra civile (il c.d. brigantaggio) al “canto del cigno” del primo conflitto mondiale, non c’è alcunché di “relativista”, di “pensiero debole”, di servilità  mascherata di buone intenzioni. Da un liberale del risorgimento (come a un mazziniano) certi discorsi attuali a favore della globalizzazione sarebbero stati rifiutati come irrealistiche utopie o furbi espedienti per negare l’indipendenza e la pari dignità di Stati (e popoli) sovrani. La sovranità e l’identità  nazionale   furono sempre difese e rivendicate, così come riconosciute – con pari dignità – quelle delle altre nazioni d’Europa.

Si parla di “sovranismo” e compete ai liberali di avere sempre rivendicato (e costruito) la sovranità nazionale. Un liberale particolarmente “robusto”,                        come Orlando, diceva nello splendido discorso contro la ratifica  del Trattato di Pace che “ sovrano è un superlativo; se se ne fa un comparativola difesa    lo si annulla”.

La sovranità è l’essenziale dell’indipendenza: limitarla è conditio sine qua non della dipendenza. Da altri Stati, corporations, sette, banche, che siano: se qualcuno è più sovrano degli altri (di guisa da imporre loro limiti), ciò significa solo che quello è sovrano e gli altri no. La sovranità è assimilabile all’uguaglianza, stravolta dai maiali nella Fattoria degli animali di Orwell.  Come una sovranità “limitata” e tra disuguali si riconcili non solo con la libertà, ma anche, come notava Croce, con la dignità dei popoli, è un enigma tuttora irrisolto.

Non si capisce pertanto lo “scandalo” che ne fanno taluni a sentirne parlare: lo scandalo sarebbe, al contrario, se la si agitasse per ottenere consensi, salvo tradirla nella pratica di governo. Un “nazionalismo” ipocrita e cerchiobottista, prodigo di parole e tirchio di fatti è l’evento da scongiurare: sarebbe l’ennesima doglia (senza parto) della decadenza della Repubblica nata dalla resistenza. Doglie tutte caratterizzate da un profluvio di “idee-forza” agitate con tonitruanti dichiarazioni a copertura di prassi opposte.

L’Europa come testa di turco e capro espiatorio.

A pagare pegno per la nuova discriminante (ed il sentimento politico che ne consegue) sono state le istituzioni europee e la stessa idea di Europa, indicate quali principali responsabili della crisi, e della insufficiente, e talvolta errata, gestione di questa.

Nella realtà, anche se non poche (ma neppure troppe) responsabilità sono da ascriversi all’Unione e ad alcune scelte infelici (specie recenti) della stessa, si deve rimarcare, da un lato che la crisi è stata generata dalla finanza “spericolata”, più che altro delle banche USA (ma gli Stati Uniti l’hanno gestita molto meglio dei paesi europei), dall’altro che una volta scelta la medicina rigorista, in Italia in particolare si è fatto un uso smodato del tipo di giustificazione, già praticata , d’addebitare all’Europa politiche, scelte e prassi di governo, fatte in Italia ma accollate all’Europa. La quale è così la “testa di turco” di una classe dirigente in decadenza, la quale come tutte quelle nella stessa fase del “ciclo”, non ha né la capacità di prendere decisioni congrue né il coraggio di assumerne la responsabilità.

Onde il “ce lo chiede l’Europa”, i “compiti a casa” sono – per lo più – false giustificazioni di élites inadeguate, che hanno per queste il pregio di deviare il malcontento su falsi bersagli. L’espediente, quanto mai pericoloso, ha l’effetto di delegittimare durevolmente le istituzioni europee onde acquisire qualche anno in più di potere. Analogamente a come il giustizialismo ha consunto, a lungo andare, l’immagine (e l’autorità) della giustizia italiana. L’Europa dianzi comoda testa di turco assume, nella fase successiva, il volto (e il ruolo) del capro espiatorio. Ma non merita tale trattamento e tale sorte: non solo l’Europa “storica” dei fondatori. Da De Gasperi a Spaack, da Martino a Monet, le pratiche integrative della comunità europea hanno contrassegnato i migliori anni del dopoguerra; le stesse istituzioni, oggi così criticate hanno portato un respiro liberale e modernizzatore nel panorama catto-comunista. Alla Corte EDU, peraltro organo del Consiglio d’Europa (e non dell’Unione Europea), dobbiamo tante decisioni in difesa dei cittadini dalle soperchierie e inefficienze dei poteri pubblici (nazionali in primis). Che si finisca per buttare via il bambino con l’acqua sporca, o peggio, col tenersi questa e scartare quello, sarebbe il combinato sinergico (tutt’altro che improbabile) di due demagogie opposte, ma convergenti nel risultato: quella delle élite “in lista di sbarco” e l’altra del “nuovo che avanza”.

Economia politica ed economia cosmopolitica.

L’altro bersaglio polemico (di parte) delle demagogie convergenti è il “liberismo sfrenato”, nonché le ombre di Reagan e della Thatcher che appaiono in continuazione ai piccoli Macbeth della contemporaneità italiana.

Anche qui occorre chiarire da una parte che  “l’autonomia del politico” fa si che non possa essere subordinato all’ “economia” (ma è mediabile) ; e che la necessità contingente richiede adattamenti rispetto a modelli ottimali in astratto, ma, spesso, errati in concreto. Occorre un certo pragmatismo in economia (come in politica).

Scriveva Friedrich List che Quesnay, il quale fece sorgere per primo l’idea della libertà universale del commercio, fu anche il primo ad allargare le ricerche su tutto il genere umano, senza però tener conto del concetto di nazione.

E List capiva assai bene come tra economia «cosmopolitica» e «politica» il fundamentum distinctionis è proprio l’insopprimibilità della politica come protezione dell’esistenza e conseguimento dell’interesse generale di una comunità. Se le idee di Adam Smith sono astrattamente fondate, sono (del tutto) applicabili solo in un contesto senza guerra e senza volontà di dominio, ossia in un mondo senza politica, in cui il ruolo del potere sia quello del “guardiano notturno”.

Differente però è la realtà e il ruolo della politica. Questa ha il compito di proteggere l’esistenza (particolare) di una comunità umana (tra tante) e di conseguire il bene comune della stessa.

Ed è perciò concettualmente e (spesso) oggettivamente contrapposta al principio cosmopolitico, perché il mondo politico è un pluriverso di soggetti in conflitto (reale o potenziale). List ricordava che Thomas Cooper «nega perfino l’esistenza della nazionalità. Egli chiama la nazione una cosa inesistente che esiste solo nelle teste degli uomini politici” affermazione che l’economista tedesco considera coerente «perché è chiaro che se si ammette l’esistenza della nazione, con la sua natura ed i suoi interessi, si presenta anche la necessità di modificare l’economia della società umana in relazione a questi interessi speciali».

Per beneficiare realmente di un sistema di libero scambio internazionale occorre che gli Stati abbiano un certo grado di omogeneità e di civiltà, di legislazione e di potenza. Tutte cose non raggiunte e che quindi rendono poco praticabile il modello. Così, a fare un esempio, la delocalizzazione degli apparati industriali da un lato è conseguenza del basso costo (diretto e indiretto) della manodopera nei paesi emergenti; dall’altro di politiche fiscali assai più appetibili praticate da quelli – tipica la flat-tax, diventata realtà in quasi tutti i paesi usciti dal “socialismo reale” – che in quella hanno trovato un ulteriore incentivo per attrarre capitali.

In concreto è la combinazione tra liberalismo internazionale e fiscalismo nazionale a ingigantire la delocalizzazione. Prendersela con il primo per far dimenticare il secondo è un espediente di mediocre propaganda, che sfrutta gli idola di un anti-capitalismo di retroguardia.

Piuttosto occorre una politica che, nell’ambito del possibile e rispettosa delle differenze,  riduca la disomogeneità. Trovarla non è un compito facile: ma non cercarla significa non aver capito il proprio tempo, la situazione concreta e il nemico (politico) principale. Senza che non è possibile individuare gli obiettivi.

Per un proto-liberale dell’epoca delle guerre di religione, il nemico era l’intollerante e l’obiettivo la tolleranza; così per un liberale dell’epoca rivoluzionaria il nemico (principale) era il potere monarchico e l’obiettivo lo Stato rappresentativo; oggi occorre individuare l’avversario da battere e l’obiettivo da conseguire.

In una conversazione ad un Convegno del 2014 di recente tradotta e pubblicata in italiano  Steve Bannon, Chief Political Strategist del Presidente Trump, ha indicato tre avversari principali per un “capitalista illuminato” (termine che nell’uso che ne fa, somiglia molto a un liberale realista): il primo è (una specie di) “capitalismo di Stato, il capitalismo che si vede in Cina e in Russia”, ossia quel tipo, residuo dell’egemonia catto-comunista, che ancora permea le istituzioni italiane; questo “è una forma brutale di capitalismo che si preoccupa solo di creare ricchezze e valore per una piccola minoranza. Un secondo tipo di capitalismo che mi sembra quasi altrettanto preoccupante è quello che io chiamo il capitalismo alla Ayn Rand, oppure la Scuola oggettivista del capitalismo libertario. Questa forma di capitalismo è molto differente da quello che io chiamo «capitalismo illuminato» dell’Occidente ebraico-cristiano. È un capitalismo che davvero cerca di trasformare le persone in merce”; infine “siamo anche nelle fasi iniziali di una guerra globale contro il fascismo islamico”.

Tutt’e tre gli avversari di Bannon lo sono anche di un liberale realista: il primo perché riduce la libertà economica e individuale, il secondo perché, in una declinazione estremista, restringe il diritto delle comunità ad un’esistenza autonoma; il terzo perché nega sia la libertà, sia la separazione tra potere temporale e spirituale.

Il “liberalismo sfrenato”, oggetto di tante recenti critiche, pecca per omissione, nel non considerare l’aspetto politico nazionale, ossia il compito dello Stato di proteggere la comunità, l’esistenza ed il benessere della stessa ma non è in diretto ed insopprimibile contrasto con visione ideale e prassi di governo liberale, mentre gli altri due lo sono; soprattutto se coerentemente e generalmente applicati.

Non è poi comprensibile in che modo un mondo senza frontiere possa raggiungere una situazione di ordine. In fondo, già all’epoca della guerra di religione la regola cuius regio ejus religio, cioè la divisione territoriale delle religioni “ufficiali”, diede una forma di ordine, di cui il principio di tolleranza fu la conquista successiva. Ma “globalizzare” significa negare confini e frontiere: in una situazione in cui le differenze contano più delle concordanze, negare o limitare radicalmente il diritto delle comunità a decidere del proprio modo d’esistenza politica, religiosa, economico-sociale significa non riduzione ma moltiplicazione dei conflitti; ossia un disordine globalizzato.

 

Identitari e globalisti_1a parte, di Teodoro Klitsche de la Grange

In calce la prima parte dell’intervento dell’autore al 30° congresso del PLI tenutosi a Roma nel maggio 2017. Offre sicuramente diversi spunti di riflessione sulle diverse chiavi di interpretazione che si stanno affermando rispetto all’agone politico dei due secoli passati. In rapida successione si pubblicherà il prosieguo_Germinario Giuseppe

Come tanti, ho la sensazione che questi anni saranno decisivi per il futuro dell’Italia e dell’Europa. L’ordine, interno ed internazionale, che durava dalla fine della seconda guerra mondiale, è già arrivato alla fine da quasi trent’anni, dal dissolvimento dell’URSS e dal collasso del comunismo. Quello che doveva sostituirlo, basato su un’unica superpotenza e che comunque appariva transitorio – data l’ascesa della Cina (e non solo) – sta cambiando. E soprattutto è in corso il rinnovamento delle classi dirigenti e dei sistemi politici, con la sostituzione di distinzioni/contrapposizioni fondate sull’asse destra/sinistra, o meglio borghesia/proletariato, un altro, che (pare) quello identità/globalizzazione.

Accanto a questo c’è la decadenza dell’Italia e dell’Europa, la quale rientra nella natura delle società ed istituzioni, come oltre duemila anni fa pensavano (tra gli altri) Platone e Polibio.

La decadenza italiana s’iscrive poi in modo inequivoco nello schema “ciclico” classico. Pur essendo venuto già da quasi trent’anni il presupposto del “vecchio ordine”, cioè quello bipolare di Yalta, è stato mantenuto pressoché inalterato il regime concreto che su quella situazione storica si fondava, con qualche aggiustamento, neppure sempre migliorativo.

Che l’Italia decada è incontrovertibile; in un periodo storico quando, abituati a ritenere decisiva l’economia, il dato che il P.N.L. sia cresciuto dal 1998 ad oggi dello 0,1%, somma di modeste crescite fino al 2008, divorate da una robusta decrescita fino ad un paio di anni fa e dallo stallo successivo, ne da una prova incontestabile.

Tuttavia il problema è politico, come politiche ne sono le conseguenze: di fronte ai modesti risultati delle élites dirigenti è arrivata la risposta dei governati: di cambiare politica, la quale ha preso la forma della “cacciata” della classe di governo. Il populismo non è altro che la manifestazione di questa reazione, tante volte vista nella storia. Partiamo quindi dalla politica.

La fine dell’opposizione destra/sinistra.

Molti ritengono che la dicotomia destra/sinistra (o meglio borghesia/proletariato) sia ancora un criterio intorno al quale si distribuiscono, si riconoscono, si confrontano i partiti e i sistemi politici (e più in generale i gruppi umani che combattono per il potere). Altri, per lo più minoritari, non lo pensano. Per quanto riguarda i “populisti” nella scriminante destra/sinistra non sono inquadrabili (o non lo sono – il che è lo stesso – in modo decisivo). Un interrogativo classico, che riguarda i grillini, è se questi sono di destra o di sinistra, data l’ambiguità su tanti temi del Movimento 5 Stelle. Nella realtà la forza crescente di questi – e degli altri “populisti” – è proprio di non essere riconducibili a tale contrapposizione. Avete mai sentito un grillino parlare di “classe operaia” o di “pericolo comunista”? A me non risulta. Così neppure da parte di altri “populisti” come i leghisti o “Fratelli d’Italia” (se non raramente in tono minore). E il favore  elettorale è dovuto, per lo più, a questo. Il perché può avere una spiegazione.

Ogni epoca della storia dell’Europa moderna ha visto organizzarsi le contrapposizioni politiche in base a una scriminante generale (e prevalente): nel XVI e XVII secolo era quella religiosa, in particolare tra cattolici e protestanti; all’epoca del tardo illuminismo fu sostituita da quella tra borghesia e monarchie assolute; successivamente, nel secolo breve, ma ancora prima, superata da quella tra borghesia e proletariato. Venuto meno la quale, se ne fa avanti una nuova. E quella vecchia subisce un processo d’indebolimento politico: non riesce a suscitare più né un consenso né un dissenso decisivo: viene progressivamente depotenziata e neutralizzata. E così l’ordine che ne conseguiva. Anche le contrapposizioni “minori” (nel senso di particolari e peculiari di zone e aree determinate) nel secolo breve e in particolare dopo la conclusione della seconda guerra mondiale riuscivano a suscitare stati d’intensa ostilità fino alla guerra all’interno sia dei “due” campi, sia tra “clienti” degli stessi, per lo più non indotte dalla discriminante amico/nemico principale.

Infatti vi sono state guerre nello stesso “campo” anche se “relativizzate”: Cina/Vietnam; Vietnam/Cambogia; Cina/Russia; (gli “incidenti” sull’Ussuri) per quello comunista; Gran Bretagna/Argentina (per le Falklands/Malvine) nonché l’occupazione turca di parte di Cipro con le forti tensioni tra Grecia e Turchia. Ma tutti conflitti d’intensità minore rispetto a quello prevalente.

Così è chiaro, risalendo di qualche secolo, che se Frundsberg riuscì nel 1527 a portare un esercito di  protestanti a saccheggiare Roma (“la prostituta di Babilonia”) il tutto non gli sarebbe riuscito né una ventina di anni prima né un secolo (abbondante) dopo: prima perché la scriminante religiosa tra cristiani non c’era, dopo perché era depotenziata.

Il declino dei vecchi partiti e l’ascesa di quelli nuovi oggigiorno trova la propria causa (e spiegazione) principale (ancorché non unica) nella sostituzione della vecchia scriminante politica da parte della nuova. D’altra parte la vecchia non ha senso (o ha poco senso): a comunismo crollato, combattersi in nome del capitale o del proletariato appare come la carica di don Chisciotte contro i mulini a vento. E le masse la osservano con l’incredula indifferenza di Sancho Panza, il quale percepiva che i nemici del suo capo non erano giganti, ossia nemici reali, ma solo mulini.

Di conseguenza non li considerano nemici né impedimento (principale) alle proprie condizioni di esistenza: la percezione del nemico è riservata ad altri, e si fonda su una scriminante diversa e nuova.

La nuova scriminante.

Non è facile operare la reductio ad unitatem dell’affollato insieme dei “populisti”, anche perché è diventato il sinonimo di oppositori alle élites governanti (come definizione in negativo, questa è insufficiente a individuare connotati di “contenuti” comuni). A poco serve insistere all’uopo su aspetti “tecnici” come il rapporto tra capo e seguito, le forme e i processi in cui si articola; o il linguaggio adoperato; neppure l’appello al popolo è un differenziale esauriente, perché il popolo, almeno per sedurlo, è invocato da tutti.

A cercare il senso e i poli della nuova discriminante, adattabile, pur tenendo conto delle differenze, ai movimenti “populisti” nella generalità (o quasi) questa è la polarità identità/globalizzazione.

Il populista “tipo” del XXI secolo si colloca nel primo dei due termini dialettici e  si oppone al secondo – ed al soggetto/i globalizzatore/i.

L’identità può essere declinata in vari modi e con vari accenti: l’importante è che il populista (ci crede e) vuole proteggerla.

Alle volte movimenti populisti mettono l’accento sul profilo economico: la difesa del lavoro nazionale dall’ “esercito di riserva” del capitalismo, ormai costituito quasi esclusivamente dai migranti. E del pari, quella delle industrie dalla finanza globale (e non) o dalla concorrenza extraeuropea. Difesa dell’occupazione e del sistema industriale che, a conferma del tramonto della vecchia scriminante, sono due facce della stessa medaglia, in cui gli interessi un tempo (visti come) confliggenti tendono a solidarizzare e non a contrapporsi.

In altri casi prevale l’aspetto culturale: la globalizzazione tende ad eliminare le differenze e così le culture: il villaggio globale fagocita quelli locali e le loro particolarità, consuetudini, istituti dalla cucina su su fino al rapporto tra i sessi, la famiglia, il matrimonio. Altri sulla  religione, spesso associata alla precedente.

Altri ancora, praticamente tutti, la declinano sotto il profilo politico-istituzionale: nel senso che a decidere sul mondo e le forme dell’esistenza politica, economica e sociale debbano essere i popoli – e non i “mercati” – o meglio i soggetti (poteri) globalizzatori.

Questa istanza, la più diffusa, comporta due conseguenze.

La prima di essere una rivendicazione nazionale, non nel senso che il nazionalismo ha assunto in Europa nel XX secolo (quello che va da Corridoni a Rosenberg, tra tanti), ma in quello che aveva per un uomo del XIX secolo, e in particolare per chi ha fatto il Risorgimento italiano.

In fondo una sintesi non esauriente ma efficace del nazionalismo d’antan la formulava Mazzini nel “Manifesto del comitato nazionale italiano” in cui si può leggere “Che nessun governo è legittimo se non in quanto rappresenta il pensiero nazionale del popolo alla cui vita collettiva presiede, ed è liberamente consentito da esso”. In effetti questa è l’essenza della libertà politica nel senso più antico, ossia come libertà di una collettività umana di decidere autonomamente l’ordinamento della propria esistenza politica, economica e sociale.

Da “America first” di Trump alle rivendicazioni del Front National a quelle di Orban (e si potrebbe continuare nell’elencazione) questo è il “volto nuovo” di un nazionalismo non aggressivo, ma difensivo. Scambiare la difesa con l’aggressione è un espediente di cattiva propaganda.

Tale revival nazionalista è in primo luogo spiegabile dalle differenze con l’ideologia cosmopolita, dei diritti dell’uomo e del pacibuonismo “a prescindere”, della tecnocrazia, e, da ultimo, della prevalenza del normativo sull’esistente e dal rifiuto di tutto questo, o quanto meno dalla di esso relativizzazione. Ovviamente il cosmopolitismo con la sua (auspicata e in parte realizzata) abolizione di tutte le frontiere (spaziali, e non solo), è esattamente l’opposto di quello che ha sostenuto il nazionalismo, da quando si è profilato quale dottrina.

Da tale opposizione è chiaro che il processo di globalizzazione, accelerato dopo il crollo del comunismo, ha provocato o comunque amplificato, per contrapposizione, la controspinta nazionalista, nel senso indicato. La nuova dialettica amico/nemico si propone quindi come negazione/opposizione tra chi vuole conservare la propria specificità (identità) e chi la vuole sopprimere, o quanto meno, relativizzare.

La seconda conseguenza è che, da un lato, si percepisce (di solito) i “populisti”, che sarebbe meglio denominare identitari, come una destra riemergente: ciò ha indubbiamente una parte di verità, nella misura in cui le rivendicazioni nazionali sono state fatte proprie, in Europa, soprattutto dalle destre. Per cui chi ancora è rimasto fermo alla vecchia contrapposizione, non si è del tutto sbagliato, ma interpreta la realtà secondo i vecchi schemi. Tuttavia non lo è – o lo è assai di meno – se si considera da un canto che si tratta di nazionalismo difensivo; dall’altro che, mentre per il vecchio nazionalismo il nemico da cui difendersi o da combattere era un altro Stato, cioè l’istituzione politica di una comunità “altra”, ora è un qualcosa di indefinito, per lo più di non statale: l’Impero di Negri, i “poteri forti” e così via. I quali hanno il connotato comune di non essere (per lo più) Stati, di professarsi (per lo più) non politici, di non essere democratici (tutti), di non conoscere né riconoscere frontiere (di ogni genere). E quindi per lo più di essere non uno Stato ma una lobby, una setta, una società segreta, un partito, un gruppo religioso e così via. Il che crea delle opportunità per il liberalismo nel XXI secolo.

IL PRINCIPIO DI AUTO-ORGANIZZAZIONE IN POLITICA, di Pierluigi Fagan

Nei sistemi complessi, sostanzialmente i sistemi dinamico-vitali che si trovano tra il caos aereo e la rigidità minerale, tra cielo e terra, vige una regola di auto-organizzazione, tendono cioè a trovare una qualche forma di ordine da soli. Nel trasferire questa conoscenza al mondo umano occorre in primis osservare lo scalino dell’analogia. Lo scalino dell’analogia è l’avvertimento -quasi mai osservato- del fatto che per trasferire schemi mentali desunti dal reale da un livello all’altro, occorre prima verificare l’omogeneità dei livelli che si comparano. Ad esempio, alcuni scienziati e molti lettori o studiosi della meccanica quantistica, tendono a proiettare gli schemi osservati al livello sub atomico sul livello sovra-atomico. Sebbene ci siano alcuni fisici che sostengono l’esistenza di comportamenti quantistici anche a livello molecolare, al momento è prudente considerare quello che vediamo e sappiamo della mq, confinato al suo livello. Così, il principio di auto-organizzazione dei sistemi complessi va valutato a seconda del tipo di sistema ovvero del tipo di varietà che lo compongono. Particelle sono una cosa, atomi e molecole un’altra, cellule un’altra ancora, individui come celenterati cose a sé, diverse dagli scimpanzé a loro volta parenti di rango inferiore (in termini di complessità) dell’umano. Politica attiene all’umano e quindi ci si domanda quale sia la possibile applicazione del principio di auto-organizzazione all’umano.
Il principio di auto-organizzazione si basa in genere sul fatto che le unità componenti il sistema hanno un range limitato di opzioni di relazione verso le altre. Poiché tutte fanno parte di un unico sistema a sua volta doppiamente condizionato dalla sua struttura e storia interna e dal dovere di trovare accordo con ciò che gli è intorno (ambiente o contesto), le opzioni, che sono limitate, vengono a loro volta chiuse dal comportamento sincronico delle singole parti, tutti si adattano tra loro nel tutto comune che è il sistema che si adatta al contesto. Una applicazione “stagionale” del principio di auto-organizzazione è lo stormo di uccelli. In pratica, ogni singolo uccello ha le semplici disposizioni di tenere la distanza “x” da quello a destra, da quello a sinistra e da quello davanti. Nel complesso, basta un piccolo scarto (il lucreziano “clinamen”) nel comportamento collettivo per riorganizzare l’intero comportamento del sistema, da cui gli affascinanti disegni ad onde degli stormi migratori.
Nel livello umano, c’è una applicazione del principio di auto-organizzazione ed è proprio l’ordinatore delle nostre forme di vita associata: il mercato. E’ la famosa mezza paginetta di poco meno di mille-e-cento della sua più famosa opera, in cui Adam Smith citava la “mano invisibile”, la “mano” come metafora di ciò che mette ordine, “invisibile” perché in effetti non c’è alcuna mano. Smith diceva che il fatto che noi sia abbia tutte le mattine la bottiglia di latte nel bar sotto casa e non si debba prendere il calesse per andare in campagna a mungere una mucca, derivava dalla semplice applicazione della singola disposizione individuale a cercare il profitto. L’allevatore allora munge per noi (e per sé) la mucca e vende il latte al distributore che lo vende al negoziante che lo vende a noi, l’effetto ordine è dato da segmenti di piccole transazioni di profitto mosse dall’interesse individuale, come negli uccelli dello stormo o le formiche eusociali, sebbene noi non si sia propriamente dei tordi o degli imenotteri, potenza dell’analogia.
La cosa venne espressa dal genio di Smith nel 1776 e tra l’altro è discusso se l’espressione “mano invisibile” sia sua (improbabile che un illuminista scozzese usasse questa metafora semi-deista che fa parte più della cultura inglese) poiché se ne potrebbe rinvenire traccia nell’opera molto influente di un certo Bernard de Mandeville che nel 1705 pubblicò una deliziosa favoletta dal titolo “La favola delle api” (analogia dell’imenottero) che tanti studiosi e critici del c.d. “capitalismo” farebbero bene a leggersi per capire meglio di cosa parlano. Tra XIX e XX secolo, la faccenda del mercato come sistema auto-organizzato ed auto-regolato affascinò anche R. Wathely e L. von Mises ed infine F. von Hayek (ma anche Walras, Pareto e molti altri) che vi centrò sopra praticamente l’intera sua opera di pensiero.
Ma il punto poco a fuoco della faccenda è che tutto ciò è pertinente se e soltanto se operiamo a monte una decisione che però rimane indiscussa spesso: se questo è il modo migliore (e pare lo sia) di far funzionare il mercato, chi-dove-come-quando-e-perché ha deciso che l’intera società umana debba ruotare intorno al mercato? Tale decisione venne presa nel mondo reale ma poi anche teorizzata nell’ambito di un altro segmento di pensiero che non è molto illuminato né nello studio politico, né in quello economico che nel frattempo di sono separati. Viene preso nell’ambito dell’utilitarismo inglese (Stuart Mill – Bentham – Sidgwick e -vari- seguenti), esso si potrebbe dire la colonna centrale della riflessione etica di origine inglese, quindi anglosassone: la ricerca della felicità per il maggior numero (più o meno). Stante che gli inglesi sono la genetica del sistema anglo-sassone e questo dell’Occidente (il concetto di “sistema occidentale” è molto tardo ed è di origine anglosassone), questo tipo di etica è diventato l’etica occidentale propriamente detta.
Torniamo allora al problema dei livelli. Se volessimo discutere questa decisione di gerarchia per la quale l’economico è l’ordine della società, economico a sua volta ordinato dal principio di auto-organizzazione detto “mano invisibile”, dovremmo proporre la sudditanza dell’ordine economico all’ordine politico e quindi tornare la nostra domanda iniziale: quale sarebbe l’applicazione del principio di auto-organizzazione al politico?
Qui incontriamo lo scalino dell’analogia. Gli esseri umani non sono né imenotteri, né uccelli, né lupi, né celenterati, e nemmeno atomi o particelle sub-atomiche. Una cosa distingue (o almeno dovrebbe) l’umano dagli ordini inferiori (ci si passi questa geometria piramidale verticale della complessità): l’intenzionalità auto-cosciente. Formiche ed uccelli non decidono il loro comportamento, lo hanno prescritto geneticamente, gli atomi si compongono seguendo la poco nota ma fondamentale “regola dell’ottetto” e la particelle seguono i dettami delle forze (tre-quattro) che agiscono al loro livello.
L’ordine auto-organizzato dei sistemi umani di vita associata (le nostre società) dovrebbe venire da un difficile forma di decisione partecipata delle sue singole componenti che al contempo agiscono in parte per interesse personale, in parte per interesse collettivo, sistemico. Questo presuppone tre cose: 1) l’ordine politico domina l’ordine economico; 2) l’ordine democratico ordina l’ordine politico; 3) le singole parti del sistema (gli individui) debbono avere una doppia visione sia dell’interesse personale, sia dell’interesse collettivo.
Il problema è che praticamente nessuno si preoccupa di coltivare presso gli individui la capacità di assumere conoscenza di cosa sia (non quale sia, quello lo decideranno i singoli individui) l’interesse collettivo. Molti pensano implicitamente esso debba “emergere” dall’incontro-scontro tra i vari interessi personali ma questa idea è viziata dalla falsa analogia. L’ordine del sistema dovrebbe esser pensato dai singoli individui né più (collettivismo), né meno (individualismo) di quello personale. Quindi continuiamo ad essere imenotteri sballottati dalla mano invisibile del formicaio chiamato “società ordinata dal mercato” che però passiamo la vita a criticare inutilmente sperando si dissolva da sé o grazie ad un classe di individui coscienti di esserlo o per catastrofe o per merito di qualche semi-dio illuminato che ci salvi dalla prigionia della nostra impotenza, recludendoci in un’altra.
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