Covid e vaccini, qualcosa non quadra, con Max Bonelli

La recente ondata pandemica è stata l’occasione e il moltiplicatore di appetiti e manipolazioni di una rete di potere e di interessi da sempre all’opera, ma che ha trovato il momento opportuno per scardinare anche la sola parvenza di equilibrio di interessi e di sussunzione o quantomeno contemperamento dell’interesse privato alle esigenze e alla salute di una comunità. I redattori del sito, nella serie di articoli ed interventi, hanno sempre cercato di distinguere l’esistenza oggettiva del problema, compresa la necessità della ricerca scientifica e della problematica complessa che sottende anche nella fase di speriementazione, dalla manipolazione scandalosa della gestione, ben condita di cialtroneria e mire di pesante condizionamento; fermo restando che affrontare un problema simile comporta sempre e comunque una gestione politica ben lontana da pretese di “neutralità”. La gestione della pandemia, purtroppo, rappresenta solo un episodio di questa pesante manipolazione sempre più rude ed ostentata, espressione di élites tanto sicure di sè quanto arroccate e fragili, insensibili alle esigenze di coesione ed equilibrio sociale. In questa conversazione affrontiamo un aspetto di questa gestione in Svezia. Sottolineo che l’Italia ha vissuto situazioni ancora più paradossali, a partire dalla azione censoria e persecutoria di astanti particolarmente portati ad un proscenio da baraccone di luna park. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/v3qzc9a-postumi-di-una-pandemia-con-max-bonelli.html

Qui sotto, invece, i link di riferimento della conversazione:

https://rumble.com/v1do1rb-covid-vaccination-and-turbo-cancer-pathological-evidence-with-english-subti.html

https://vigilantnews.com/post/turbo-death-from-turbo-cancers-were-in-trouble-says-dr-ryan-cole

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I legami della Russia con Hamas sono pragmatici e non vanno interpretati come un’approvazione del gruppo, di ANDREW KORYBKO

I legami della Russia con Hamas sono pragmatici e non vanno interpretati come un’approvazione del gruppo

ANDREW KORYBKO
19 OTT 2023

Leggendo tra le righe delle dichiarazioni ufficiali della Russia su Hamas, è probabile che Mosca preferisca Fatah a questo gruppo, ma che mantenga comunque legami con quest’ultimo per ragioni pragmatiche dovute al suo controllo della Striscia di Gaza. A differenza di Hamas, Fatah non è designato come gruppo terroristico da nessuno, è riconosciuto dalla comunità internazionale come legittimo rappresentante della Palestina e riconosce il diritto all’esistenza di Israele, tutti elementi che la Russia approva.

Una delle fake news più virali che hanno proliferato nell’ecosistema dell’informazione globale dall’inizio dell’ultima guerra tra Israele e Hamas è che i legami della Russia con quest’ultimo implicano la sua approvazione. Le foto del Ministro degli Esteri Sergey Lavrov che incontra i leader politici del gruppo durante le loro visite a Mosca in passato sono state interpretate come la prova che il Cremlino ha avuto un ruolo nell’attacco furtivo di questo mese o che, per lo meno, lo favorisce rispetto a Israele. Entrambe le percezioni sono assolutamente false.

La realtà è che la Russia mantiene legami con Hamas per ragioni pragmatiche, in quanto controlla la Striscia di Gaza, che legalmente dovrebbe far parte di un futuro Stato palestinese indipendente secondo le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Queste relazioni sono puramente politiche, non militari o strategiche, e mirano a facilitare gli sforzi di Mosca per rilanciare il processo di pace in fase di stallo, con l’obiettivo di mediare idealmente una soluzione all’annoso conflitto israelo-palestinese.

I seguenti articoli spiegano l’approccio equilibrato della Russia nei confronti di questo conflitto, citando fonti ufficiali:

* “Interpretare la reazione ufficiale della Russia all’ultima guerra tra Israele e Hamas”.

* “Il sostegno della Russia all’indipendenza palestinese non dovrebbe essere interpretato come una politica anti-israeliana”.

* “La Russia ha un approccio equilibrato verso l’ultima guerra tra Israele e Hamas”.

* “Le condoglianze di Putin a Bibi per la perdita di vite israeliane screditano una delle principali narrative di disinformazione”.

* È significativo che Putin non abbia attribuito la colpa della catastrofe dell’ospedale di Gaza”.

Questi dettagli aggiungono un contesto alla condanna esplicita delle attività terroristiche di Hamas da parte dei funzionari russi.

L’11 ottobre il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha dichiarato che “naturalmente non si può fare a meno di condannare atti che non possono essere definiti altro che terrorismo” e ha poi aggiunto che “dobbiamo fermare gli attacchi terroristici”. Lo stesso giorno, l’ambasciatore russo in Israele Anatoly Viktorov ha dichiarato che “I metodi terroristici che i militanti di Hamas hanno usato nelle fasi iniziali del confronto devono certamente essere condannati; questo non è negoziabile”.

Alcuni giorni dopo, la portavoce dell’Ambasciata russa in Israele Marina Ryazanova ha dichiarato alla TASS che “il numero di cittadini russi morti, che avevano anche la cittadinanza israeliana, è salito a 16 persone” e che “gli elenchi aggiornati delle persone scomparse forniti dalla parte israeliana includono otto cittadini russi”. In altre parole, Hamas è colpevole di aver fatto strage di (doppi) cittadini russi durante il suo attacco terroristico, ma Mosca non vuole designarli come terroristi perché ciò comprometterebbe il suo previsto ruolo di mediazione.

L’ambasciatore Viktorov ha giustificato questo approccio pragmatico durante la conferenza stampa del 17 ottobre, ricordando che “in primo luogo, non vi è alcun riconoscimento internazionale di Hamas come organizzazione terroristica, <…> Hamas non è nemmeno nella lista delle organizzazioni terroristiche delle Nazioni Unite”. Allo stesso tempo, però, ha anche chiarito che “il fatto che manteniamo la comunicazione con alcuni rappresentanti di Hamas non significa in alcun modo che sosteniamo tali azioni [terroristiche]”.

Nonostante Hamas controlli la Striscia di Gaza da oltre un decennio e mezzo, è importante notare che il Presidente Putin non è convinto di aver conquistato i cuori e le menti di tutti. Durante una conferenza stampa a Bishkek, il 13 ottobre, ha affermato che “non tutti [gli abitanti di Gaza] sostengono Hamas”. Il leader russo sa anche che Hamas non è sostenuto da tutti i palestinesi, poiché quelli della Cisgiordania sono rappresentati da Fatah di Mahmoud Abbas.

L’ambasciatore palestinese in Russia Abdel Hafiz Nofal ha dichiarato ai media russi la scorsa settimana che “c’è una grande differenza tra l’Autorità Palestinese e Hamas. Sono due cose completamente diverse. L’Autorità palestinese fa parte della comunità internazionale. Abbiamo un’ambasciata in Russia, abbiamo ambasciate in tutto il mondo, siamo riconosciuti da più di 140 Paesi, quindi c’è una grande differenza tra Hamas e l’Autorità Palestinese”.

Il Presidente Putin ne è ovviamente consapevole ed è per questo che ha recentemente avuto una telefonata con il Presidente Abbas, ma non ha parlato con la controparte di Hamas del leader di Fatah, né è probabile che lo faccia dopo che il suo gruppo ha ucciso cittadini russi (doppi) durante il suo attacco terroristico. Il Presidente Putin ha anche accennato alle differenze tra i due durante la sua conferenza stampa a Pechino dopo il Belt & Road Initiative Forum, quando un giornalista gli ha chiesto di parlarne. Ecco cosa ha detto il Presidente Putin secondo il sito ufficiale del Cremlino:

“Ci sono differenze all’interno della comunità palestinese, tra la Cisgiordania e Gaza. Ma non arriverei a definirle antagoniste l’una dell’altra… Questo non significa però che non sia necessario creare contatti più stretti. Questo non significa che la comunità o la società palestinese non debba lottare per la propria unità. Certo, questo è ciò per cui i palestinesi devono lottare. Ma questo è affar loro. Non possiamo gestire questo processo”.

Leggendo tra le righe di tutte le dichiarazioni ufficiali russe su Hamas che sono state condivise finora, è probabile che Mosca preferisca Fatah a questo gruppo, ma mantiene comunque legami con quest’ultimo per ragioni pragmatiche dovute al suo controllo della Striscia di Gaza. A differenza di Hamas, Fatah non è designato come gruppo terroristico da nessuno, è riconosciuto dalla comunità internazionale come legittimo rappresentante della Palestina e riconosce il diritto all’esistenza di Israele, tutti elementi che la Russia approva.

Questa intuizione suggerisce che la Russia sostiene lo scenario di Fatah che un giorno riprenderà il controllo della Striscia di Gaza da Hamas, idealmente attraverso mezzi democratici, ma probabilmente non si opporrebbe nemmeno a che ciò avvenga all’indomani dell’ultimo conflitto. Questo non significa che la Russia voglia che Israele effettui con la forza un cambio di regime in quel paese, dato che ha dimostrato con la sua fallimentare proposta di cessate il fuoco di volere la fine dei combattimenti il prima possibile, ma solo che troverebbe comunque un modo per promuovere la pace in quel caso.

Dal momento che la distruzione di Hamas da parte di Israele non può essere data per scontata, sarebbe prematuro per la Russia tagliare i ponti con questo gruppo designandolo come terrorista, nonostante abbia compiuto indiscutibili atti di terrorismo, anche contro oltre una dozzina di cittadini russi (doppi). La priorità del Cremlino è quella di presentarsi come un attore veramente neutrale in questa ultima guerra, al fine di rilanciare il processo di pace in fase di stallo, con l’obiettivo di mediare idealmente una soluzione all’annoso conflitto israelo-palestinese.

Questo nobile obiettivo richiede il mantenimento di legami pragmatici con tutte le parti in causa, altrimenti non c’è alcuna possibilità di rompere il monopolio degli Stati Uniti sul processo di pace, che Mosca considera responsabile di non aver risolto il suddetto lungo conflitto durante il periodo di massimo splendore della sua egemonia unipolare. Le relazioni con Hamas sono quindi viste dalla Russia come un mezzo diplomatico per raggiungere questo obiettivo, non come qualcosa di più profondo, dal momento che il gruppo è respinto dal terrorismo e probabilmente preferisce Fatah se costretto a scegliere tra loro.

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Stati Uniti! Elezioni e terzo incomodo, il clima di guerra Con Gianfranco Campa

Nella campagna presidenziale ormai in corso quel che avrebbe dovuto essere una reale alternativa sta calzando le vesti del terzo incomodo a salvaguardia dello statu quo; di una leadership protagonista e ostaggio di una dinamica bellicista dalle basi mai così incerte e contraddittorie all’interno stesso del proprio territorio. Biden sarà pure un patetico e grottesco incidente di percorso nel firmamento presidenziale; appare sempre più l’incarnazione, la rappresentazione fisica della condizione di un intero ceto politico. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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SITREP 10/18/23: Mega-aggiornamento sulla guerra Israele + Ucraina

SITREP 10/18/23: Mega-aggiornamento sulla guerra Israele + Ucraina

NB_Alcuni video sono disponibili solo sul sito originale

Sembra la terza volta che inizio una rubrica con la notizia che Israele ha i piedi freddi. Ma questa volta la notizia è molto più fondata. Rapporti credibili affermano che il vero motivo della freddezza di Israele è che teme la minaccia di Hezbollah di attivare il fronte settentrionale se Israele dovesse impegnarsi nel pantano di Gaza.

Molti fanno riferimento all’esercito israeliano, relativamente massiccio, con oltre 300.000 riserve richiamate. Ma bisogna ricordare che Israele ha un sistema unico nel suo genere: è uno degli unici Paesi al mondo in cui uomini e donne vengono arruolati in egual misura per la coscrizione obbligatoria – ecco perché si vede una tale prevalenza di soldatesse israeliane di TikTok.

La statistica ufficiale dice che il 40% della forza di leva israeliana è costituita da donne, quindi quanto del loro grande esercito sia effettivamente in grado di combattere è difficile da sapere, ma probabilmente non è commisurato ai combattenti di Hezbollah su una base di uno a uno.

L’altro annuncio è che la Casa Bianca è molto “preoccupata” per la mancanza di strategia da parte di Israele in relazione a un assalto a Gaza, e vuole che l’accordo sia più “politico”. Si dice che l’ammontare degli aiuti sia in parte bloccato per questo motivo. I fattori sono molteplici:

I pianificatori militari statunitensi probabilmente sanno che un’incursione dell’IDF a Gaza potrebbe essere una trappola che si trasformerà in un enorme pantano per Israele, costringendo gli Stati Uniti a spendere quantità spropositate di denaro e materiale per fornire assistenza.

Gli Stati Uniti sanno inoltre che una volta che questo pantano si attiverà e le vittime civili cominceranno ad aumentare di settimana in settimana, la possibilità di una guerra più ampia aumenterà notevolmente, poiché Hezbollah/Iran potrebbe essere costretto a entrare e gli Stati Uniti saranno costretti ad agire per salvare la faccia. Ma non tutti negli Stati Uniti potrebbero essere entusiasti di questo, perché sanno che potrebbe far parte di una trappola molto più ampia che include Cina e Russia e che potrebbe portare a un’umiliazione su larga scala e a una perdita di prestigio per gli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti sanno che il sentimento globale si sta drasticamente rivoltando contro di loro e contro l’Occidente in generale. Creare un altro bagno di sangue a Gaza significherebbe per gli Stati Uniti perdere un sostegno critico e un’influenza geopolitica.

A proposito di quest’ultimo punto: bisogna essere consapevoli di quanto siano importanti gli spostamenti tettonici globali che si stanno verificando in questo momento. L’intero mondo arabo si sta consolidando nella solidarietà per la situazione di Gaza. I ministri iraniani e sauditi si sono incontrati di nuovo ieri a Gedda, il che è molto significativo di per sé:

Qatar, Giordania, Turchia e molti altri hanno rilasciato dichiarazioni importanti a sostegno della Palestina. Soprattutto nei confronti dell’Arabia Saudita, i movimenti sono enormi perché la KSA è sempre stata uno dei perni fondamentali che tengono a galla l’Impero Atlantico globale.

Pochi sanno che all’inizio degli anni ’70 – cosa che il periodo attuale sta iniziando a imitare molto da vicino – l’Arabia Saudita non solo ha accettato di creare il Petrodollaro, che ha portato il dollaro statunitense a dominare il mondo, ma ha anche segretamente finanziato tutto il debito degli Stati Uniti essendo il più grande acquirente di titoli del Tesoro americano in base a un accordo segreto che è rimasto segreto per 40 anni fino a poco tempo fa. Si dice che l’entità del debito statunitense detenuto segretamente dall’Arabia Saudita sia fuori scala e che se dovesse scaricarlo tutto, potrebbe potenzialmente far crollare l’intero sistema finanziario globale in un colpo solo.

Quindi il fatto che la KSA sia ora condotta sempre più tra le braccia della Russia e della Cina (ricordiamo che la KSA è ora un membro ufficiale dei BRICS, a partire dal 1° gennaio 2024), è un fatto importante. Sono stati fatti dei passi avanti verso la normalizzazione di Israele, ma ora la KSA li ha tagliati fuori e sta aumentando il suo radicamento con il blocco orientale.

L’altro motivo per cui questo è molto significativo è che se dovesse scoppiare una guerra più grande, il petrolio diventerebbe il principale parafulmine geostrategico globale. Questo perché l’Iran può creare scompiglio nei mercati globali, nei transiti attraverso i noti punti di strozzatura del Golfo Persico, ecc. Ciò è sottolineato dal fatto che il ministro iraniano ha chiesto un embargo petrolifero totale su Israele durante questo incontro:

Ministro degli Esteri iraniano: Chiediamo un embargo totale di petrolio e gas da parte dei Paesi islamici contro le nazioni che sostengono Israele”.
Per questo motivo, il ruolo dell’Arabia Saudita è particolarmente rilevante, perché avrebbe un peso ancora maggiore se le cose dovessero davvero precipitare, a causa del dominio petrolifero globale della KSA.

Questi sono alcuni dei motivi per cui gli Stati Uniti sono spaventati dai rischi e probabilmente stanno trasferendo questa paura su Israele, che ora non sa cosa fare.

In effetti, Putin ha appena annunciato un nuovo pattugliamento a tempo pieno del Mar Nero con Mig-31K, armati di Kinzhal, e sembra aver lasciato intendere che questo sia per mettere nel mirino i gruppi di portaerei statunitensi:

È un po’ strano, dato che la Russia ha avuto missili Bastion/Bal per la difesa costiera a Tartus e non ha bisogno dei Kinzhal, ma chi lo sa?

La portata delle risorse russe:

E per chi se lo stesse chiedendo, questa sarebbe l’attuale posizione delle portaerei statunitensi con il raggio d’azione dei missili antinave di Hezbollah:

Il gruppo di portaerei si sta chiaramente ancorando al di fuori del raggio d’azione. Gli Yakhont russi possono arrivare a 800-1000 km, ma si tratta solo di versioni nazionali, mentre le versioni da esportazione si fermano a 150-300 km.

Ma torniamo brevemente alla posizione degli Stati Uniti. Il problema è che il recente tour di Blinken e Biden nel Medio Oriente, a detta di tutti, si è rivelato un disastro.

Sia Blinken che Biden hanno subito gravi e umilianti rifiuti:

Nel frattempo la Giordania ha cancellato un vertice di Biden che avrebbe dovuto svolgersi insieme ai leader palestinesi ed egiziani.

Il ministro degli Esteri giordano ha invece condannato con veemenza il nuovo tentativo di “Nakba” come “atto di guerra”:

Al Consiglio per i diritti umani dell’ONU, i membri si sono persino allontanati dall’ambasciatrice statunitense:

Al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, i partecipanti si allontanano dall’ambasciatrice statunitense Michelle Taylor durante il suo discorso di protesta contro i bombardamenti di Israele sulla Striscia di Gaza.
Gli osservatori sono rimasti sconcertati dal calo senza precedenti dell’influenza e del prestigio degli Stati Uniti in Medio Oriente.

Il fatto è che mentre gli Stati Uniti continuano a inciampare nelle trappole dello zugzwang, isolandosi come il cattivo globale, la Russia e la Cina continuano a costruire un nuovo mondo. In questo momento Putin è a Pechino, ospite d’onore del terzo Forum One Belt One Road:

(Didascalia: Gli adulti entrano nella stanza)

Ma tornando a Israele, e per collegarlo al mio ultimo articolo, ricordo che ho parlato dell’inesorabile marcia di Israele verso l’estinzione finale. I numeri sono semplicemente contro di loro nel lungo periodo.

Alcune nuove statistiche lo sottolineano. Per esempio, le perdite ufficiali di vite umane sono state aggiornate e sono ora superiori a quelle degli ultimi 30-40 anni di conflitti:

L’IDF ha aggiornato le cifre relative alle vittime dei combattimenti: 303 militari e 56 poliziotti uccisi. Per fare un confronto, le perdite irrevocabili dell’IDF nelle guerre passate: 1) Seconda guerra del Libano – 121; 2) Prima intifada – 179; 3) Seconda intifada (4,5 anni) – da 215 a 315; 4) Prima guerra del Libano (la fase attiva è durata più di tre mesi; secondo il conteggio standard, Beirut è stata conquistata dalle truppe israeliane) – 350.
Inoltre, un analista ha sottolineato che dopo la guerra dello Yom Kippur del ’73, si può dire che Israele non abbia subito altro che sconfitte, in un senso o nell’altro, o dolorose situazioni di stallo, il che dimostra il lento declino delle sue capacità nei confronti degli arabi, un tempo inermi:

Dopo la guerra di ottobre del 1973 (guerra dello Yom Kippur), Israele ha subito solo sconfitte: – Guerra di ottobre 1973: Alla fine della guerra, Israele viene sconfitto dall’Egitto a Ismailia, nonché dalla Siria e dai suoi alleati a Damasco e Quneitra.- Guerra del Libano 1982-2000: Israele viene espulso da Hezbollah.- Prima Intifada: La violenza dei palestinesi costringe Israele a concedere loro l’autonomia.- Seconda Intifada: Israele perde Gaza e parte della Cisgiordania a causa della resistenza armata dei palestinesi – Guerra del Libano 2006: Israele viene respinto da Hezbollah.- Conflitto di Gaza 2006-2014: Hamas respinge ripetutamente Israele nei pressi della Striscia di Gaza.- Conflitto di Gaza 2021: Israele non osa affrontare Hamas nella Striscia di Gaza.- Guerra di Gaza 2023: Gaza libera temporaneamente parti del sud di Israele (Palestina occupata), si collega con la Cisgiordania e indebolisce Israele militarmente ed economicamente, così Israele è ora sulla difensiva.
Naturalmente la maggior parte di questi dati sono discutibili, poiché i sostenitori di Israele affermeranno che Israele ha “vinto” la maggior parte di essi in modo decisivo, quindi dipende dalla propria prospettiva.

Ma è comunque chiaro che la tendenza è al ribasso. Israele non è più in grado di ottenere le vittorie decisive di massa degli anni ’60 e precedenti. Il fatto che Hezbollah abbia accumulato quantità massicce di missili moderni e attrezzature di ogni tipo, così come la posizione ormai dominante dell’Iran, in particolare per quanto riguarda la penetrazione nel teatro siriano, proprio al confine con Israele, sono elementi molto negativi per Israele nel lungo termine.

Nonostante tutto questo, ci sono ancora buone possibilità che Israele possa “vincere” un sanguinoso massacro a Gaza. Ma la domanda è: a quale costo? Non solo si arrecherebbe un grave danno alle forze armate, all’economia, ecc. di Israele, ma i costi reputazionali e geopolitici sarebbero enormi, vista la solidarietà araba che il conflitto ha suscitato finora.

Una cosa è certa: più Israele si spinge in avanti, meno rilevante diventa l’Ucraina.

La notizia attuale è che Biden sta ancora una volta presentando una legge sugli aiuti da 100 miliardi di dollari, ma questa volta divisi tra Israele e Ucraina, anche se non ci sono informazioni sulla percentuale effettiva di divisione.

Come ultima nota sulla situazione israeliana, questa donna israeliana sostiene che le sue fonti hanno confermato che Netanyahu ha emesso un ordine deliberato di “stand down” di 7 ore a tutte le IDF all’inizio del “Diluvio di Al-Aqsa”. Se fosse vero, questo confermerebbe che l’intera faccenda è una falsa bandiera in stile Pearl Harbor e 11 settembre:

Per non parlare della donna colona israeliana che, in una nuova intervista, conferma che sono state in realtà le IDF/la polizia israeliana a massacrare la maggior parte degli “ostaggi” nell’incursione di Hamas al festival musicale:

Non solo afferma che il carro armato dell’IDF ha sparato contro l’edificio uccidendo tutti gli ostaggi all’interno, ma che le forze di polizia hanno ucciso molti di loro nel fuoco incrociato. È interessante notare che altrove il festival doveva svolgersi più lontano, ma è stato spostato in un nuovo luogo proprio vicino al confine con Gaza solo due giorni prima, il che fa pensare a una montatura.

Nel filmato originale, si vedono persino i carri armati dell’IDF già presenti, con i partecipanti al festival che si nascondono dietro di loro, il che ovviamente mette in discussione la narrazione secondo cui Hamas avrebbe fatto irruzione nell’innocente festival al solo scopo di massacrare i civili:

Infine, a proposito di carri armati israeliani, è stato notato come un’innovazione per la quale la Russia veniva un tempo ridicolizzata, sia ora diventata la norma de rigueur per tutti i militari mondiali. L’IDF ha saldato le famigerate gabbie anti-drone su tutti i suoi carri armati in vista dell’incursione a Gaza:

Ma è interessante notare che gli osservatori più attenti hanno anche visto le gabbie che ora appaiono sui carri armati delle forze armate indiane:

È solo un’altra di una lunga serie di prove che la Russia continua a innovare mentre il mondo ridicolizza e poi copia silenziosamente.

Detto questo, attualmente le gabbie russe sono molto più avanzate di tutte queste, in quanto hanno adottato ogni tipo di misura difensiva e di lungimiranza, tra cui un’attenzione particolare alle funzioni ergonomiche per quanto riguarda le uscite dei membri dell’equipaggio, nonché varie funzionalità per proteggere da tutti i tipi di proiettili come gli ATGM ad attacco dall’alto, non solo i droni, per non parlare della corazza ERA su alcune di esse.

L’IDF si prepara al confine con Gaza:

***

Passando al teatro dell’Ucraina, c’è molto di cui parlare.

Innanzitutto, abbiamo finalmente avuto la tanto attesa introduzione dei missili ATACMS, che sono stati utilizzati esattamente per lo scopo che avevo descritto, che è praticamente l’unica cosa per cui possono essere utilizzati.

Per i lettori diligenti del mio lavoro, ricorderete che ho specificamente detto che colpire l’aeroporto di Berdiansk è l’unica cosa per cui saranno utili, perché la variante con testa a grappolo non può fare molto altro, e altri aeroporti strategici più significativi sono troppo lontani per essere colpiti. Proprio così, sono andati a colpire l’aeroporto di Berdiansk, dove è di stanza l’aviazione russa ad ala rotante.

Prima di tutto questo, per poi passare a un quadro molto più ampio che la maggior parte degli analisti ha tralasciato e che spiega perché è stato usato proprio l’ATACMS.

Cosa sappiamo finora?

I proiettili ATACMS sono stati trovati, con l’interessante data di fabbricazione del 10/1996, il che dimostra che gli Stati Uniti hanno fornito all’Ucraina missili piuttosto scaduti, come sempre:

Questa variante è stata identificata come una con un raggio d’azione di soli 165 km, il che è molto indicativo.

#Ucraina: È successo qualcosa di straordinario: i resti dei missili M39 (prodotti nel 1996 e 1997) del sistema MGM-140A ATACMS Block I utilizzati dalle forze ucraine contro Berdyansk AB. Questa variante ha una gittata di circa 165 km, guida inerziale e trasporta 950 submunizioni M74.
Insieme al fatto che è stato rivelato che all’Ucraina è stato inviato solo un piccolo lotto di prova di circa 12 missili, questo è molto indicativo. Significa che Biden ha inviato un lotto limitato per soddisfare la disperazione di Zelensky. Ma non era limitato solo nel numero, ma anche nel fatto che la breve gittata continua a indicare che Biden ha paura di oltrepassare le “linee rosse” della Russia inviando la versione completa con gittata superiore ai 300 km. Il raggio d’azione di 165 km è ancora molto superiore agli 80-90 km dell’HIMARS, ma non cambia le carte in tavola (lo Storm Shadow va già molto più lontano).

L’AFU ha pubblicato un filmato di quello che si presume essere il lancio dell’ATACMS, che mostra 6 lanci in una volta sola:

Tuttavia, un altro spezzone di filmato, anch’esso ritenuto un ATACMS, ne mostrava solo tre:

La Russia stessa ha affermato che ne sono stati lanciati 6 e che ne hanno intercettati 3. È impossibile dire chi abbia ragione. Tuttavia, alcune fonti hanno affermato che i GLSDB sono stati usati insieme per saturare la difesa aerea. Le GLSDB (bombe di piccolo diametro lanciate da terra) vengono lanciate anche dagli HIMARS nello stesso modo, quindi per quanto ne sappiamo potrebbero esserci stati 6 lanci, ma 3 erano ATACMS e 3 GLSDB.

Inoltre è impossibile sapere se la Russia ne abbia effettivamente intercettato qualcuno, ed è probabile che siano stati lanciati altri oggetti per saturare ulteriormente le difese aeree, che si tratti di droni, esche MALD, HIMARS normali, Storm Shadows, ecc.

Dato che i danni si sono rivelati sproporzionatamente piccoli rispetto alla quantità di missili balistici lanciati, personalmente ritengo che metà del carico utile sia stato probabilmente intercettato. Come sempre accade, la prima volta che la Russia affronta un nuovo sistema sarà difficile, poiché i suoi sistemi AD non conoscono ancora le firme e non hanno ancora memorizzato profili dettagliati su di esse nei loro database interni.

Come abbiamo visto con lo Storm Shadow, che è svanito nell’oscurità, anche l’ATACMS alla fine verrà profilato e contrastato, sempre che continui a essere usato, il che è discutibile dato che il suo numero è molto limitato persino negli inventari statunitensi, quindi è improbabile che l’Ucraina ne riceva molti.

In precedenza ho affermato che la Russia teoricamente non dovrebbe avere problemi a intercettare gli ATACMS in generale, dato che ha intercettato in modo verificabile decine di missili Tochka-U provenienti dall’Ucraina, che viaggiano a velocità superiori rispetto agli ATACMS. Tuttavia, bisogna ricordare che l’ATACMS, pur essendo lento per gli standard dei missili balistici, rispetto all’Iskander, ecc. è comunque estremamente veloce in generale, con una velocità di 3,5 Mach. Ad esempio, lo Storm Shadow, considerato un missile da crociera molto veloce e che ha dato qualche problema alla Russia, vola a poco meno di 1 Mach.

Inoltre, poiché la variante ATACMS a grappolo esplode e rilascia grappoli, potrebbe essere ancora più difficile da colpire, poiché una volta che ciò accade, non c’è più un “missile” da colpire:

Scatto del rilascio di una vera submunizione a grappolo di un missile ATACMS.
Non si sa a quale altitudine avvenga il rilascio finale. Si potrebbe pensare che avvenga abbastanza tardi per minimizzare la diffusione del cluster, ma non si sa esattamente. Non è possibile intercettare una “nuvola” di oltre 300 minuscole submunizioni a grappolo una volta che sono già state rilasciate.Come ho detto prima, questi missili sono letteralmente inutili contro tutto ciò che è temprato, le trincee e probabilmente anche le corazze come i carri armati. Ma contro cellule aeree dalla pelle morbida che si trovano su un campo, possono creare molti danni, anche se non si tratta di una distruzione totale del mezzo. In definitiva, se dovessi tirare a indovinare, il problema è semplicemente dovuto al fatto che la Russia ha una copertura minima di S-300/400, e si affida principalmente a sistemi SHORAD come Pantsir, ecc, perché prima non aveva bisogno di sistemi missilistici anti-balistici. Un’unità di S-300/400 per la regione in generale non è probabilmente sufficiente per affrontare un attacco di saturazione, quindi per risolvere il problema potrebbe essere sufficiente spostare un’altra batteria di S-300/400 più vicina.Ma quali danni hanno causato, esattamente?Le stime attuali vanno da un minimo di 2-3 elicotteri distrutti con alcuni altri danneggiati, a un massimo di circa 9 totali distrutti/danneggiati.

Le ultime riprese satellitari dettagliate del campo d’aviazione:

Secondo una fonte filo-ucraina, i cerchi rossi potrebbero essere elicotteri distrutti, mentre quelli gialli sono “danneggiati”.

Tuttavia, da fonti russe è stato detto che alcuni degli incendi non erano elicotteri ma camion ausiliari/di rifornimento, quindi le perdite sono probabilmente sovrastimate.

Inoltre, è probabile che solo 1 o 2 degli elicotteri fossero Ka-52, dato che c’erano molti Mi-8 e simili. L’unico video noto delle conseguenze dell’attacco mostra infatti solo un Mi-8M chiaramente inquadrato, e gli spettatori parlano ripetutamente di BK (munizioni) e di serbatoi di carburante. Si possono anche vedere solo i serbatoi di carburante che bruciano:

Quindi credo che la maggior parte delle bruciature siano probabilmente munizioni, carburante e varie attrezzature ausiliarie.

Da una fonte militare ufficiale russa MilitaryHeliPilot:

Atterraggi morbidi per i nottambuli! A tutti coloro che sono preoccupati: Gli AA hanno bruciato il nemico e continueranno a farlo. Gli equipaggiamenti saranno ripristinati e ne saranno prodotti di nuovi in parallelo, come ho scritto. Non ci sono perdite tra il personale di volo, ma purtroppo ci sono perdite tra il personale di terra. Riposino i morti. E ai feriti una pronta guarigione! Tutti noi ci ritiriamo! S.Y. La situazione degli equipaggiamenti è offensiva, ma non critica. A giudicare dalle notizie dei ragazzi a terra e degli altri campi d’aviazione, abbiamo tratto delle conclusioni e preso alcune misure. Come andrà avanti lo vedremo.@milhelipilot
Afferma che la difesa aerea ha bruciato qualcosa, che nessun pilota è stato ucciso e che “alcune conclusioni” riguardanti la difesa aerea sono state fatte dal personale superiore e saranno attuate. Ricordiamo che dopo aver colpito Sebastopoli un mese fa, non ci sono stati nuovi attacchi riusciti. La Russia continua a migliorare e aggiornare le sue tattiche di difesa aerea.

Un’altra fonte russa collegata afferma quanto segue. In particolare che 2 elicotteri sono distrutti e 7 danneggiati, “molto probabilmente” da ripristinare.

Sapete che non siamo le nostre notizie fritte preferite, ma il panico e l’isteria in mattinata sul sito AA a Berdyansk, quindi abbiamo dovuto disturbare le persone che stanno correndo e volando lì. Onestamente, non so cosa e quanto è stato volato – onestamente, non lo so, ci sono alcune foto con elementi M74 da ATACMS, ma non garantiremo per la loro affidabilità, in base alla fonte.Preliminare da ciò che è noto: nessun ucciso, feriti dal personale tecnico. Sui pannelli – 2 da rottamare e 7 danneggiati, molto probabilmente, in fase di restauro, ma sarà chiaro in seguito. Per un attacco così massiccio, i fondi che sono stati risparmiati per qualcosa, ma sono stati dati come ritorsione per l’attacco al campo di aviazione di Odessa – in sostanza, una miseria.Salute ai feriti, e le fabbriche di ferro dei nostri cospiratori mondiali hanno un sacco di ferro.Un saluto speciale ai “nostri” blogger militari che hanno praticamente ucciso un intero reggimento.Osservare l’igiene dell’informazione e lavarsi le mani dopo Internet.
Questo sembra essere in gran parte in accordo con la parte dell’Ucraina, che sostiene di averne colpiti circa 9 in un modo o nell’altro. Possiamo dire che si tratta di un colpo grosso, visto che, secondo quanto riferito, il campo ospitava qualcosa come oltre 48 elicotteri. Quindi questo rappresenterebbe quasi il 20% del campo spazzato via – o almeno messo fuori servizio, temporaneamente o meno. Se così fosse, non sarebbe un brutto colpo. Ma come per i precedenti scioperi di questo tipo, è molto probabile che si tratti di un caso isolato. Chiedetevi perché.

Per coloro che sono preoccupati per le perdite, ricordate quanto segue. Prendiamo il Ka-52 come esempio, perché finora ha registrato le perdite più elevate tra i velivoli a rotore critici della Russia. I numeri ufficiali di Oryx parlano di 44 Ka-52 persi durante l’intera SMO.

Le cifre ufficiali per il 2022 erano di 16 Ka-52 consegnati dal produttore. Tuttavia, è stato dichiarato che tali cifre sono state “raddoppiate” per il 2023. Ciò significa che possiamo aspettarci 32 Ka-52 costruiti nel 2023. Sommando i dati si ottiene un totale di 48 Ka-52 costruiti tra il 2022 e il 2023. Sono 4 in più di quelli persi nella SMO, secondo le cifre probabilmente gonfiate da Oryx.

Ciò significa che non solo la Russia sta tenendo il passo con le perdite e di fatto ha un guadagno netto di elicotteri, ma le cifre del 2024 sono destinate ad aumentare ulteriormente.

E alla fine, anche se ogni singolo Ka-52 e Mi-28 andasse perso, la Russia ha quasi 800 Mi-8/Mi-17 che possono fare praticamente tutto quello che possono fare i Ka-52, avendo anch’essi diverse varianti armate come Mi-8AMTV e Mi-171SH che possono trasportare quasi tutto quello che possono fare i Kamov, dai missili Ataka guidati, ai razzi non guidati, ai moduli EW Vitebsk, ecc.

Ma come ho detto, la produzione di Ka-52 sta tenendo il passo con tutte le perdite, e quella di Mi-28 ancora di più, considerando che ne sono stati persi pochissimi (13 secondo Oryx) e che la loro produzione sarebbe triplicata piuttosto che raddoppiata, rispetto alle 12 consegne del 2022. Ciò significa che nel 2023 saranno costruiti 36 Mi-28.

E gli ultimi Ka-52 sono ora visti sfoggiare regolarmente l’impareggiabile missile Izdeliye 305e LMUR. Qui lo si vede sparare a oltre 15 km, una distanza quasi inaudita per i velivoli ad ala rotante, visto che gli Hellfire degli Apache statunitensi arrivano al massimo a 10-11 km. Guardate il video completo per vedere come è stata identificata la posizione del nemico e come è stata trasmessa agli equipaggi, mentre l’attacco è stato visto per la prima volta in una rara immagine di bordo del copilota/pilota del Ka-52 che manovra il missile verso il bersaglio da oltre 15 km:

Passiamo ora al motivo dell’importanza di questo attacco, che avevo già accennato in precedenza. Non è stato fatto semplicemente all’improvviso, ma per una ragione strategica molto intelligente.

Vedete, nell’ultimo mese ho raccontato come l’Ucraina stia accumulando forze sulla riva occidentale del Dnieper per un potenziale nuovo assalto attraverso il fiume, per rimediare al disastro dell’offensiva di Zaporozhye. E poiché Berdiansk è la più grande base di velivoli rotanti della regione, volevano metterla totalmente fuori uso proprio alla vigilia di un potenziale assalto, dato che i velivoli rotanti si sono dimostrati i più pericolosi per le avanzate ucraine.

Questo è il loro obiettivo, perché proprio nel periodo dell’attacco a Berdiansk, l’Ucraina ha lanciato una grande offensiva nella regione di Kherson, sbarcando truppe a nord del ponte Antonovsky. Rybar ha infiammato internet con una mappa, ora smentita, che mostrava l’Ucraina impegnata a conquistare un’intera città sulla riva sinistra della Russia, tra gli applausi sfrenati della blogosfera filo-ucraina.

È vero che è stato lanciato un grande assalto – persino Putin è stato costretto a commentarlo da Pechino:

Le informazioni di base sono le seguenti. Come potete vedere, nell’area appena a est del ponte Antonovsky, ci sono una serie di isolotti paludosi e disabitati tra i primi insediamenti sul lato russo. Un tempo erano ben fortificati da postazioni russe, ma sono stati spazzati via durante la distruzione della diga di Kakhovka, lasciando l’area problematica da difendere:

Come ho detto, da un po’ di tempo vi si sono trasferiti il 35° e il 36° Marines ucraini e molti altri gruppi, con attrezzature tedesche per l’attraversamento dei fiumi e per lo spostamento di blindati pesanti, carri armati, ecc. Il loro compito è quello di costruire lentamente depositi di rifornimenti su quelle isole paludose e di usarle come trampolini per lanciare assalti contro la Russia.

Ma la Russia ha contrattaccato e, secondo quanto riferito, ha inflitto gravi perdite all’AFU, che si è ritirata. Nessuna delle affermazioni di Rybar sulle città russe catturate era vera. Hanno persino distrutto le chiatte dell’UA utilizzate per cercare di trasportare le truppe

Così come le imbarcazioni americane Willard Sea Force 11M

🇷🇺🇺🇦 Un’imbarcazione pesante dell’UAF, Willard Sea Force 11M, di produzione americana, è stata colpita e ha iniziato a muoversi caoticamente in cerchio; sembra che l’equipaggio abbia riportato gravi ferite da schegge e una commozione cerebrale.
E i loro sbarchi sono stati colpiti da bombe-drone.

Ecco una compilation che mostra gli attacchi russi sul ponte ferroviario Antonovsky, più piccolo e distrutto, che si trova intorno a quest’area di geolocalizzazione: 46.673685170490785, 32.79780106117989.

Si possono vedere piccoli DRG ucraini che si aggirano mentre la Russia li ostacola dall’alto. Il ponte più piccolo che si vede collegare i due isolotti intorno al minuto 1:43 del video si trova in questa geolocalizzazione: 46.66270107665683, 32.804681250518605

Come si può vedere dal punto in cui vengono respinti, non riescono nemmeno a raggiungere il lato russo. Rybar potrebbe aver scambiato i rapporti di alcuni esploratori o DRG che si sono avvicinati all’insediamento russo. In ogni caso, si dice che le loro perdite siano di oltre 70 uomini solo ieri. Non hanno ottenuto nulla, come ha detto Putin. Tuttavia, a causa del lungo accumulo e della seria concentrazione su quest’area, si prevede che continueranno a fare mosse molto audaci, sacrificando un numero infinito di vite per assalti di carne qui, per cercare di ottenere una qualche breccia secondaria per distogliere l’attenzione.

***

Passiamo al teatro più importante di Avdeevka.

Qui le notizie sono contrastanti ma speranzose. Si inizia ancora una volta con un taglio apparentemente negativo. La parte ucraina esulta affermando che l’offensiva di Avdeevka è completamente bloccata, crollata e fallita. Questo è stato apparentemente supportato da un paio di post negativi dalla linea del fronte russo, il più notevole dei quali ha fatto scalpore nei circoli ucraini è stato il seguente dal canale russo Vozhak Z (nota: “cassette” si riferisce alle bombe a grappolo):

A prima vista sembra un’affermazione senza speranza. Ma permettetemi di tradurre. In primo luogo, non sta dicendo che l’offensiva è finita come alcuni hanno interpretato. Alla fine dice chiaramente la condizione “se” non otteniamo un uso più elevato dell’artiglieria, “rimarremo bloccati qui”. Quindi la fine contraddice in un certo senso l’incipit, ovvero che non sono ancora bloccati, ma che è semplicemente molto difficile andare avanti. Inoltre, la traduzione di cui sopra è sbagliata e Hurricanes and Sunny Days si riferisce ai sistemi MLRS Uragans e Sunburn, per i quali chiede supporto.

L’aggiornamento del giorno successivo è il seguente:

L’assalto ad Avdeevka continua. Tutto è rimasto invariato. Stiamo tenendo le fortificazioni. Lottando e morendo. Il fuoco di controbatteria è ancora forte. E questo, per quanto ne so, è il problema numero uno su tutto il fronte. Oggi siamo stati colpiti da un carro armato, mentre ci nascondevamo in una buca. Sono ancora vivo e vegeto. Non ho altro da dire in questo momento”.
Poi il prossimo:

I combattimenti per Avdeevka continuano. Stiamo mantenendo le nostre posizioni. A caro prezzo, ma le stiamo mantenendo. L’intensità dei bombardamenti nemici è diminuita drasticamente. Questo significa che non hanno una scorta infinita di munizioni. Al contrario, oggi la nostra parte è molto più brava nella guerra di contro-batteria. Oggi abbiamo individuato i punti di tiro e distrutto una piroga nemica nella zona di Tsarskaya Okhota, con all’interno un equipaggio di LNG. Meno 4 tedeschi. Questo è per Danka, bastardi! Sono ancora vivo e vegeto. L’assalto continua.
Quindi, la situazione è molto difficile, ma come potete vedere, l’assalto non è “finito” come il primo post sembrava suggerire per il tripudio selvaggio degli ucraini.

Anche per chiarire una cosa. Il motivo per cui l’assalto russo si è “fermato” è il consolidamento delle nuove posizioni conquistate, oltre al maltempo di cui si parla, che acceca anche i droni/la potenza aerea della Russia. Quando hanno conquistato nuove posizioni UA, ora devono scavare al loro interno, rinforzare le trincee che sono spesso danneggiate o distrutte dai combattimenti, poi passare alcuni giorni a rifornirle di provviste, ecc. Tutto questo richiede un po’ di tempo perché gli spostamenti devono essere minimi e tipicamente di notte.

Tra poco parleremo di dove hanno catturato le posizioni. Ma prima, ricordate che questa è solo una prospettiva da un settore ristretto della battaglia di Avdeevka. L’ultima volta ho detto che sono stati lanciati fino a 10 diversi assi di attacco. Altre truppe che scrivono da quei fronti condividono aggiornamenti molto più positivi. Eccone uno:

C’è un resoconto di un soldato (RF) dalla battaglia di Avdeevka: “Sto leggendo le notizie e non capisco da dove venga l’idea che l’offensiva sia stata un “fallimento”. Le forze della 114a brigata hanno preso il controllo del cumulo di rifiuti nell’area di KHZ, che offre un enorme vantaggio per la ricognizione e altro. Nessuno ci metterà l’artiglieria, come pensano gli esperti da poltrona, perché si tratta di una causa persa che comporterà pesanti perdite. Come abbiamo potuto perdere così tanti carri armati? Quasi tutte le strutture delle Forze Armate ucraine in direzione di Donetsk sono sotterranee + questa è una pianura che è perfettamente coperta dai nostri carri armati da lontano; le fortificazioni sono prese d’assalto solo dalla fanteria con il supporto dell’artiglieria, in modo che i nostri possano avvicinarsi molto di più alla posizione.Ecco perché sorgono delle difficoltà, perché non è assolutamente redditizio per noi sfondare tutte queste fortificazioni, e sembra fantascienza. Il successo dell’offensiva è mostrato dalla prospettiva del villaggio. Krasnohorivka verso Berdychi, dove non ci sono strutture fortificate a 12 metri di profondità, dove ogni centimetro è riempito di cemento, e in cima c’è una piccola collina di terra, come in direzione Donetsk.Ogni 100 metri coperti in direzione Experienced/Vodyany è una vittoria enorme. E soprattutto – il cumulo di rifiuti. Ora i nostri ragazzi devono guadagnare un punto d’appoggio nelle posizioni, e la ricognizione deve identificare i depositi di munizioni rimanenti e tracciare la consegna di nuove unità di attrezzature/munizioni/provviste e distruggerle.Monitorare ogni rotazione e uscita del nemico dalle posizioni e impedire qualsiasi ritiro del personale delle Forze armate ucraine. Gli obiettivi sono chiari, gli obiettivi sono adeguati, è solo questione di tempo. E dovreste dimenticarvi del calderone per il prossimo futuro se non volete vedere un sanguinoso tritacarne dei nostri ragazzi”. – (Per me sembra che la collina insanguinata sia stata presa (di nuovo) – ma non è sicuro che si terrà).
E poi un altro:

I canali TG continuano a diffondere informazioni sull’avanzata delle nostre forze sui fianchi settentrionali e meridionali di Avdiivka, questo non è vero, le nostre forze sono in posizioni occupate, si stanno prendendo una serie di misure per espandere la testa di ponte.Per capire l’entità del compito: al fine di tenere Avdievka, il comando nemico ha schierato rinforzi significativi, oltre alle forze già disponibili in direzione.Così, unità della 1a brigata arrivano a ovest del bacino di Karlovskoye.45 Le forze speciali delle Forze Armate dell’Ucraina sono state inviate in direzione del villaggio di Berdychi-Stepovoe, e il personale delle 63 forze speciali delle Forze Armate è stato trasferito dalle aree posteriori della regione di Chernigov ad Avdeevka. Il nemico ha concentrato un numero significativo di cannoni nella direzione di Avdeevsky; vengono utilizzati attivamente obici da 155 mm, la cui gittata non permette di essere soppressi in modo tempestivo dall’artiglieria a cannone. La nostra aviazione e l’artiglieria hanno nuovamente aumentato la densità del fuoco, tuttavia vi chiediamo di non affrettare i tempi.
Che cosa ha effettivamente catturato la Russia?

È vero che nella direzione dello Slag Heap si sono per lo più fermati. Credo che il motivo sia che lo Slag Heap è direttamente adiacente all’area più fortificata di tutte, che è lo stabilimento della Coca Cola (metallurgica, non bibita).

Qui si può vedere il gigantesco impianto industriale appena a sud del grande Slag Heap. Le frecce rosse rappresentano i punti in cui l’AFU sta sparando dalle sue postazioni molto resistenti nel complesso industriale, la freccia gialla i punti da cui le forze russe stanno cercando di uscire:

Si dice che il complesso industriale sia ancora più fortificato di Azovstal, perché ha ancora una linea di rifornimento aperta, mentre Azovstal è stata interamente assediata e tagliata fuori. Date queste peculiarità, si può capire perché lo Slag Heap è difficile da superare.

Ecco la vista russa del cumulo di scorie montuoso. Dietro di esso si trova il gigantesco complesso industriale che è stato trasformato in una fortezza brulicante di postazioni ATGM di ogni tipo:

Ecco una vista un po’ inversa dal complesso industriale che guarda verso le posizioni della Russia vicino alla linea gialla:

Tuttavia, poco più a nord, le forze russe avrebbero compiuto delle incursioni verso Stepove, espandendo lentamente la loro testa di ponte. Una fonte sostiene che abbiano catturato la piccola stazione ferroviaria di Stepove, anche se per ora non è confermato.

La stazione è visibile dall’icona della bandiera rossa qui sotto:

Alcune fonti sostengono che la Russia abbia conquistato alcune posizioni al di là dei binari nelle foreste e nei campi.

Inoltre, si sono espansi leggermente verso nord da quell’area:

I maggiori guadagni continuano tuttavia ad essere nella zona sud, dove la Russia ha guadagnato in più assi. Anche gli account ucraini parlano di pericolosi guadagni della Russia direttamente a sud della città di Avdeevka:

Il motivo per cui dico che questo è particolarmente pericoloso è che queste incursioni minacciano di permettere alla Russia di fare breccia nella città vera e propria, dando inizio a combattimenti strada per strada in cui il vantaggio della Russia in termini di potenza di fuoco è ancora più evidente, mentre i vantaggi dell’ISR della NATO in Ucraina sono annullati.

Se ricordate, sia Bakhmut che Lisichansk-Severodonetsk sono cadute dopo essere state circondate, ma anche quando le forze hanno iniziato a fare breccia nella città vera e propria, esercitando una pressione immensa sui difensori ucraini nei combattimenti urbani.

Il canale TG Pro Ukrainian ammette i progressi della RF a sud di Avdeevka: “A sud di Avdeevka, il nemico è riuscito a catturare parte di un punto di forza nella zona grigia. I combattimenti continuano.”➤ 48.10697, 37.77596

A 48.10697, 37.77596 si può vedere che le forze russe si stanno spingendo verso l’ultimo cavalcavia dell’incrocio prima dei confini della città. Un video di oggi lo conferma.

Mostra una variante solitaria del BMP-2M “modulo Berezhok” russo che sfreccia sull’autostrada proprio alle coordinate sopra indicate, prima del cavalcavia distrutto, per scaricare i suoi smontatori che andranno a catturare le posizioni di atterraggio nella foresta:

In realtà si stanno dirigendo verso posizioni già conquistate, quindi sono davvero rinforzi, il che dimostra che la nuova linea avanzata viene fortificata.

Ecco un’altra vista:

Offensiva ad Avdeevka: i nostri assaltano e catturano le posizioni nemiche, muovendosi forward▪️Regiment 1487 attacchi, il nemico abbandona le posizioni e chi non ha fatto in tempo a fuggire viene distrutto. Il secondo video mostra la distruzione di una postazione di mitragliatrice delle Forze Armate ucraine.▪️During l’attacco, i combattenti mobilitati hanno occupato la roccaforte nemica e si sono trincerati sotto il ponte.▪️The continua l’operazione offensiva nei pressi di Avdeevka. In diversi tratti l’avanzata è di circa 2 km. Il nemico sta cercando di fermare e respingere i nostri combattenti usando l’artiglieria e i droni kamikaze.
Ma a circa 7 km a ovest di Avdeevka, in direzione di Vodiane, la Russia ha fatto importanti progressi verso Severne.

Per quanto riguarda le perdite subite, un resoconto ucraino afferma di aver contato oltre 60-70 veicoli blindati solo nella zona settentrionale:

Tuttavia:

Anche in questo caso si tiene conto di ogni singolo veicolo “fermo” visibile dall’inizio. Molti di essi sono leggermente danneggiati o non sono stati colpiti affatto e sono semplicemente fermi.

Si tratta dell’inizio dell’offensiva e la maggior parte dei veicoli sono blindati leggeri come BMP e Tigr (Humvee russi).

Una delle fonti più autorevoli dell’Ucraina, l’ufficiale ucraino di riserva Tatarigami, ha persino ammesso che molti (la maggior parte?) dei veicoli sono in realtà vecchi, distrutti da tempo e probabilmente ucraini:

Woops…

Ciò che sottolinea il suo punto di vista è che ora ho beccato grandi account ucraini in tre diverse occasioni a pubblicare perdite attribuite in modo errato. Il primo è stato un video postato da uno dei principali account UA di un soldato della DPR che mostrava perdite, ma il video è stato confermato essere della primavera del 2023 e non vicino alla linea del fronte di Avdeevka (5 km a nord, dove i combattimenti non hanno più luogo). Fortunatamente un geolocalizzatore attento ha smentito la notizia.

La seconda volta, hanno pubblicato le perdite di un’offensiva a Novomikhailovka e hanno cercato di farle passare per Avdeevka. Certo, si trattava ancora di perdite russe, ma non dello stesso teatro, il che dimostra quanto siano disperati per alimentare la percezione di un fallimento russo ad Avdeevka.

Stranamente, nonostante le presunte perdite, alcune fonti sostengono che le perdite dell’AFU siano ancora più elevate. Questo dato non è stato verificato da me personalmente, ma è comunque interessante da notare:

Secondo le fonti occidentali, che non sono inclini a complimentarsi con le Forze Armate della RF, siamo in vantaggio di almeno un punto. I tecnici OSINT filo-ucraini hanno stimato le perdite russe in 15 carri armati, 33 veicoli da combattimento di fanteria e alcuni pezzi di artiglieria nelle prime 48 ore di combattimenti. Le perdite ucraine superano i 50 carri armati e i 100 veicoli blindati.
Ciò è confermato dal fatto che, nonostante queste grida di “massicce perdite russe”, la parte ucraina continua a ululare in agonia ad Avdeevka. Per esempio:

◾️ Rapporto ucraino dal tritacarne:◾️ militante ucraino ha inviato un messaggio al capo della Direzione principale dell’intelligence del Ministero della Difesa ucraino Budanov: – Siamo stanchi della vostra pubblicità sul nostro sangue. Ad Adeevka siamo fottuti, i russi ci fottono continuamente… grazie a lei, signor Budanov, tutti credono che qui le cose vadano bene, vorrei che venisse qui di persona e mostrasse quanto è duro.◾️ Gli ucraini in prima linea danno un resoconto diverso da quello delle autorità ucraine. Non preoccupatevi, l’Ucraina “vincerà” fino a quando non finirà gli uomini.

Questo è ulteriormente supportato da un’ondata di video che mostrano un’infinità di cadaveri e distruzioni dell’AFU ad Avdeevka, come  here, e here, e here, e here, e here, e here

In conclusione: certamente ci sono molte perdite da entrambe le parti, ma l’offensiva non è affatto finita, e alcuni credono che sia appena iniziata. L’ultima volta ho detto che avrei dato qualche settimana per giudicare i suoi progressi. Personalmente, non vedo grandi perdite di uomini da parte russa. Anche tutti i blindati colpiti, nella stragrande maggioranza dei casi si vede chiaramente nei video che i soldati ne escono illesi. In una settimana o due di offensiva, si possono contare al massimo 10-20 soldati morti in video. Considerando che l’Ucraina perde regolarmente 300-500 KIA al giorno durante i periodi di massima tensione, tali perdite sono inezie.

In secondo luogo, almeno le perdite moderate della Russia sono limitate solo al teatro di Avdeevka. L’Ucraina, invece, sta subendo perdite in quel teatro, ma anche perdite più ingenti su ogni altro fronte. Ho già descritto le enormi perdite di personale subite a Kherson.

Ma negli ultimi due giorni hanno lanciato un’altra serie di attacchi in direzione di Orekhov e Verbove e sono stati nuovamente massacrati in modo massiccio. Si possono vedere campi di decine di veicoli blindati ancora una volta distrutti – l’unica differenza è che ci sono pochissimi carri armati e soprattutto autoblindo, per ovvie ragioni.

Ecco i nuovi attacchi in direzione Orekhov e Verbove:

Perdite di personale (avviso 18+):

Video 1
Video 2

Video 3
Video 4
Video 5
Video 6

Ci sono state anche molte truppe UA catturate nei teatri di Verbove e Bakhmut, dove la Russia continua a conquistare nuove posizioni sul fianco settentrionale. Tuttavia, l’Ucraina sta espandendo leggermente le proprie posizioni sul fianco meridionale, vicino a Klescheyevka.

Inoltre, su diversi fronti, i conti ucraini continuano a strillare e i cittadini si lamentano delle perdite subite:

Qui le famiglie dei soldati dispersi hanno inscenato una protesta:

Gravi perdite anche nella regione di Kupyansk, tanto che gli ospedali di Kharkov sono disperatamente a corto di sangue, costringendo i loro stessi medici a donare sangue:

☄️☄️☄️☝️Kharkov canali telegrafici riportano una grave carenza di sangue negli ospedali per i militanti feriti – direttore dell’UcrainaSecondo le informazioni locali, i medici degli ospedali cittadini (ospedale clinico No. 4) sono costretti volontariamente e forzatamente a donare sangue e a cercare donatori tra gli amici.Negli ultimi giorni, la 14esima, la 32esima e la 115esima brigata meccanizzata delle Forze Armate ucraine hanno subito enormi perdite mediche e irrecuperabili in direzione di Kupyansk☄️☄️☄️

Come se non bastasse, i commentatori ucraini continuano a condizionare l’opinione pubblica sul fatto che questa è la fase terminale della Gioventù hitleriana e che tutti i bambini saranno mobilitati:

 

In realtà, la Pravda ucraina riferisce che ora nei ranghi dell’AFU c’è il 40% di donne in più rispetto al 2021: ci si aspetta che il numero continui a salire man mano che si esauriscono gli uomini:

Infine, qui potete vedere un resoconto in prima linea ad Avdeevka per vedere quanto sia frenetica la situazione:

Ricordiamo, come ho detto, che in ultima analisi la direzione di Avdeevka è prevalentemente composta da truppe del 1° Corpo d’Armata della DPR, anche se è conveniente chiamarle tutte “russe” a questo punto.

Come ultimo aggiornamento sul fronte, le forze russe stanno lentamente accerchiando Novomikhailovka, sul lato meridionale di Donetsk, di fronte ad Avdeevka. Hanno colpito un ponte chiave a Konstantinovka, nelle vicinanze, che taglia i rifornimenti a Novomikhailovka:

Il ponte che è stato colpito:

***

Alcuni elementi disparati e interessanti.

Ricordiamo che l’Ucraina ha cercato di negare che la Russia abbia distrutto la maggior parte della sua forza di sbarco quando ha cercato di fare la bravata di piantare una bandiera sulle coste della Crimea. Ebbene, ancora oggi i residenti continuano a trovare “galleggianti” sotto forma di forze speciali ucraine che sbarcano in Crimea:

Pic 1Pic 2Pic 3.

Il prossimo:

La Russia sta diventando sempre più un’economia di guerra in stile URSS. Le aziende vengono convertite in impianti di produzione di armi secondarie

:

Si dice che a settembre la Russia abbia prodotto 100.000 droni. Ecco un esempio nostrano:

Oggi, il primo lotto di droni FPV sviluppati a Nizhny Novgorod è partito per la zona del Distretto militare settentrionale. I droni sono stati costruiti dalla Regional Industrial Company (RPK) sulla base di progetti di volontariato con il sostegno del governo regionale. Sono in grado di estrarre a distanza o di colpire bersagli a una distanza fino a 20 km. Sono sicuro che lo sviluppo di Nizhny Novgorod aiuterà i nostri soldati durante le missioni di combattimento!

 

Il prossimo:

L’Ucraina continua a massacrare i propri combattenti arresi

:

Questa volta un drone ha colpito il retro di un pick-up russo che trasportava 4 ucraini legati e arresi:

Un aggiornamento afferma che l’autista e il passeggero russo sono sopravvissuti con commozioni cerebrali e ferite minori, ma tutti e 4 gli ucraini che si erano arresi sul retro sono morti. Resta solo da capire se si sia trattato di un’esecuzione deliberata per impedire loro di arrendersi o se il pilota del drone non li abbia identificati in tempo.

Il prossimo:

Una cosa interessante riguardo ad Avdeevka è che le truppe russe a terra hanno trovato questi strani indicatori di percorso:

Gli esperti ritengono che si tratti di sofisticati marcatori per i droni che utilizzano l’intelligenza artificiale, al fine di coordinarli sotto il pesante disturbo EW russo:

Marcatori di waypoint trovati dai soldati russi nelle direzioni di Avdeevsky e Kherson. Sono utilizzati per gli UAV ucraini dotati di intelligenza artificiale; permettono loro di navigare nello spazio se la guerra elettronica russa è attiva. Da essi è possibile determinare la traiettoria del drone.
Non ho avuto modo di commentare questo aspetto in precedenza, ma dall’inizio della controffensiva dell’AFU a giugno sono emerse numerose prove che i marcatori dei carri armati della NATO sono davvero avanzati.

Forse ricorderete che i carri armati ucraini, in particolare i Leopard, erano contrassegnati da strani simboli tattici sulla sommità delle torrette che si avvicinavano quasi a una sorta di codice QR. Alcuni ritenevano che si trattasse di contrassegni per il tracciamento dei carri armati e dei gruppi di battaglia dallo spazio o di una sorta di tracciamento avanzato dell’IA blueforce.

Ho già stabilito da tempo che la NATO sta utilizzando l’intelligenza artificiale per analizzare le immagini satellitari e identificare le posizioni e i veicoli russi. Ma di recente hanno fatto il loro debutto sempre più droni da entrambe le parti con capacità di intelligenza artificiale, quindi quest’ultima scoperta è interessante e dimostra che la guerra si sta lentamente spostando in una dimensione molto sofisticata e futuristica, che ho immaginato in questo articolo:

The Changing Face Of War – Future of the Russian SMO

The Changing Face Of War - Future of the Russian SMO

Ci sono decenni in cui non succede nulla, e ci sono settimane in cui succedono decenni”. – Vladimir Ilyich Ulyanov Nel corso della vasta storia della guerra, ci sono stati alcuni conflitti che sono serviti come punti di snodo fondamentali per il progresso della scienza militare. L’obiettivo scorciato della storia ci inganna con la visione delle guerre come monoliti statici: due si…

Leggi tutto
Il prossimo:

Collegandomi a quanto detto nell’ultimo rapporto sul fatto che Israele è potenzialmente condannato dal punto di vista demografico e alle previsioni di Zhirinovsky sulla necessità di ricreare Israele in Russia o in Ucraina, ecco che il deputato ucraino della Rada, Ilya Kiva, rafforza questa teoria sostenendo che Israele sarà ricreato nell’Ucraina occidentale:

Il prossimo:

Next:

Bombardieri russi annientano un grande impianto di riparazione di carri armati di Jabhat al-Nusra a Idlib. Questo dimostra la spaventosa potenza di fuoco che la Russia è in grado di scatenare quando la sua forza aerea è libera di operare su un nemico privo di AD:

 

Il prossimo:

Un colpo molto succoso su una coppia di autocisterne ucraine da parte di un Lancet russo:

Avanti:

Una caserma ucraina a Slavyansk è stata colpita da missili russi:

È interessante notare che il giorno dopo cominciarono ad arrivare i necrologi, a dimostrazione che il colpo aveva spazzato via molte truppe:

Il prossimo:

Una base americana è stata colpita da droni la scorsa notte e gli Stati Uniti hanno ammesso di averne potuto abbattere solo 1, mentre un altro ha colpito e ferito le truppe:

Questo dimostra che anche il potente “esercito del primo mondo” può ottenere solo il 50% su un attacco di due droni, eppure la Russia viene criticata per non essere in grado di fermare completamente gli attacchi massicci a sciame e a saturazione dei missili balistici più avanzati del mondo.

Tra l’altro, Kursk è stata colpita da un enorme sciame di droni, oltre 20-30, che hanno attaccato simultaneamente e, a detta di tutti, l’AD russa li ha abbattuti tutti. Allo stesso modo ci sono stati diversi attacchi missilistici e di droni a Sebastopoli e alla Crimea in generale, tutti abbattuti dall’AD. La Russia continua ad avere un record di alta efficienza degli AD, ma ce n’è sempre qualcuno che riesce a passare.

È interessante notare che durante il nuovo attacco a Sebastopoli la Russia ha sparato cortine fumogene per bloccare la vista delle navi come precauzione:

Il prossimo:

I droni russi continuano a cogliere i cambi di turno ucraini mentre dormono:

Avviso grafico:

Next:

 

Avanti:

Un rapporto sostiene che Biden farà un grande discorso alla nazione domani. Non sono sicuro che sia vero, ma se così fosse, preparatevi a un appello senza precedenti alle emozioni per implorare 100 miliardi di dollari di aiuti per Israele/Ucraina:

La Casa Bianca: Domani il Presidente Biden si rivolgerà alla nazione per discutere la nostra risposta agli attacchi terroristici di Hamas contro Israele e alla brutale guerra in corso della Russia contro l’Ucraina. Il discorso sarà pronunciato dallo Studio Ovale alle 20:00 ET – Axios
Infine, vi lascio con alcune vignette politiche per catturare lo zeitgeist:


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I CALCOLI (SBAGLIATI) DI ISRAELE E STATI UNITI, di Roberto Di Giuseppe

I CALCOLI (SBAGLIATI) DI ISRAELE E STATI UNITI

E’ davvero difficile immaginare che l’attacco di Hamas al muro eretto dagli israeliani lungo il confine con la Striscia di Gaza, possa essere avvenuto senza che nessuno si sia accorto di nulla, che avamposti militari abbiano potuto essere conquistati quasi senza colpo ferire, che addirittura un rave party ad un passo dal confine con la Striscia e quindi a tiro di razzi, sia stato consentito, senza oltretutto un minimo di sorveglianza.

E’ anche più difficile credere che un simile colpo non sia stato rilevato neanche per una minima parte dai servizi di intelligenza tanto israeliani quanto statunitensi.

Come è stato detto da qualcuno, a mio avviso correttamente, tutto questo puzza tanto di 11 settembre 2001.

La mia idea è che questo attacco da parte di Hamas sia stato un “invito” da parte israeliana e statunitense.

Infatti, se ciò che credo risultasse anche vero, sarebbe stato impossibile per Israele contare su un così tempestivo sostegno a stelle e strisce senza che vi fosse stato un pieno accordo tra le due parti.

Questo significherebbe che i dirigenti di Hamas siano degli utili idioti, o peggio ancora, dei complici?

Niente affatto. Hamas ha chiarissima la strategia di fondo di Israele: la pulizia etnica della Striscia di Gaza, attraverso la progressiva espansione degli insediamenti coloniali e lo strangolamento economico-sociale dei palestinesi residenti in quel territorio.

Questa strategia, già ben nota tanto al regime nazista nella fase pre soluzione finale, quanto ai governi nord-americani nell’opera di genocidio dei pellerossa, ha tuttavia il suo tallone di Achille nel numero di persone da evacuare. Se per gli statunitensi si è trattato di un compito relativamente semplice (e che è tuttavia durata più di un trentennio), sia per i nazisti negli anni ’30-’40 che per gli israeliani ai giorni nostri, l’ostacolo posto dal numero si è rivelato un ostacolo troppo difficile da sormontare, anche in relazione alla ristrettezza del tempo a disposizione per portare a termine l’opera.

A ciò si aggiunga che mentre i nazisti hanno potuto contare sulla sostanziale arrendevolezza delle loro vittime, del tutto impreparate anche solo a concepire la determinazione e l’odio dei loro persecutori, Israele si trova invece ad affrontare un popolo determinato, combattivo e resistente, sostanzialmente inestirpabile con i mezzi ordinari di una comune politica di pulizia etnica, per quanto condotta con estrema durezza.

Questo ha comportato la necessità da parte israeliana di un decisa accelerazione.

Israele sta attraversando una fase piuttosto critica della sua storia. La sua popolazione è incerta sul suo futuro e profondamente divisa al suo interno e queste divisioni vanno sempre più polarizzandosi.

Esattamente lo stesso processo che si sta sviluppando negli Stati Uniti. USA e Israele sono, loro malgrado, indissolubilmente legati l’uno all’altro ed entrambi vedono con crescente ansia una progressiva erosione della loro influenza e della loro potenza.

Hamas e non solo Hamas vede tutto questo. Vede l’arroganza e la forza di Israele farsi sempre più intensa ed invasiva in modo inversamente proporzionale al venir meno delle sue sicurezze e non può fare altro che stare al gioco. Un gioco al massacro.

In estrema sintesi questo gioco prevede che Hamas attacchi Israele in forme finora completamente inedite e che Israele, o meglio il suo attuale governo iper-sionista, finga di essere stato colto di sorpresa. Ognuno fa i suoi calcoli. Israele forte dell’appoggio, dato per scontato, dell’Occidente collettivo, pensa di poter cogliere l’occasione per un’occupazione definitiva, manu militari, della Striscia di Gaza, dopo aver costretto la popolazione a espatriare in Egitto a forza di bombardamenti. Hamas pensa di usare questa stessa popolazione ed il suo ingente numero, per costringere il resto del mondo a prendere atto della vera natura della politica espansionistica di Israele. E’ innegabile che entrambe le parti abbiamo le mani sporche, molto sporche di sangue. A questo punto la vera partita si gioca sull’invasione di terra. Israele sa di non poter continuare all’infinito con i bombardamenti, efficaci peraltro solo sui civili. Già da più parti si levano degli altolà sempre più chiari e decisi. Inoltre le reiterate risoluzioni dell’Onu (per quanto l’Onu sia ormai poco più che un simulacro di se stesso) parlano chiaramente di una soluzione “Due popoli, due Stati”. Israele dunque, per portare avanti il suo disegno strategico, che è lo ripeto, l’espulsione totale e definitiva di tutti i palestinesi dalla Palestina, deve necessariamente invadere Gaza. Ma qui io credo, si innesti un grave errore di calcolo, dettato secondo me, dalla fretta di ricomporre un’artificiosa unità interna dinnanzi al pericolo imminente e dalla preoccupazione per i continui default del principale alleato e protettore, gli Stati Uniti. Una fretta che ha portato Israele, ovvero, lo ripeto, il suo attuale governo iper-sionista, a sottovalutare l’aumento del potenziale bellico di Hamas, sia sotto il profilo degli armamenti che sotto quello dell’addestramento del personale e del coordinamento di comando. Un attacco a Gaza comporterà inevitabilmente un bagno di sangue da entrambe le parti ed un probabilissimo allargamento del conflitto, con conseguenze del tutto imprevedibili sul futuro di Israele e forse anche del nostro.

E’ qui che si innesta la tematica dell’intervento nord-americano. A guardare le apparenze, sembra che la risposta degli Usa all’attacco di Hamas sia stata più rapida e pronta di quella dello stesso Israele. Immediato l’invio di una squadra portaerei con l’annuncio del rapido invio di una seconda, come “deterrente” verso possibili attori esterni. A mio avviso si è trattato di un’operazione concordata. Hamas, praticamente “costretto” ad attaccare, Israele che apparentemente si “lascia sorprendere” e gli Stelle a Strisce che prontamente intervengono a protezione dell’alleato proditoriamente aggredito, con l’oramai immancabile codazzo di camerieri e cameriere targati Unione Europea, opportunamente istruiti.

Il fatto è, secondo me, che gli Stati Uniti debbono cercare un diversivo per sganciarsi dalla trappola ucraina, dove stanno subendo una sconfitta storica, cento volte peggiore della ignobile fuga dall’Afganistan e in prospettiva, ancora più grave della storica sconfitta in Vietnam. Questa nuova debacle, deve essere mitigata da una decisa prova muscolare in uno settore altrettanto nevralgico dello scacchiere geopolitico, che ribadisca ad alleati ed avversari, la forza politica e militare della potenza nord-americana e allo stesso tempo sappia riportare un minimo di coesione interna messa così a dura prova dalla conduzione disastrosa del conflitto con la Russia.

Ma come spesso accade, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. La forza dell’attacco di Hamas si è dimostrata, volutamente o meno, fin troppo dirompente. L’opinione pubblica israeliana ne è rimasta profondamente scioccata ed intimorita. Al posto di una molto probabilmente auspicata e prevista, sollevazione interna anti-palestinese, sembra emergere piuttosto un certo disorientamento ed una crescente critica verso l’incapacità del governo Netanyahu nel non aver saputo prevenire un simile colpo. Da qui la necessità di questo stesso governo, di agire in fretta, senza la necessaria ponderazione. Il pesantissimo attacco aereo contro la Striscia di Gaza, va configurandosi sempre di più come un vero e proprio crimine di guerra. L’obiettivo originario di indurre la popolazione palestinese ad abbandonare il proprio territorio sotto l’effetto delle bombe, è divenuto un intento smaccato dal chiaro sapore di pulizia etnica, suscitando, come sarebbe stato facilmente prevedibile con un minimo di maggior lucidità, la reazione sempre più decisa dei paesi arabi.

La questione palestinese è notoriamente indigesta a gran parte del mondo arabo, ma tanto più per questa ragione, la pretesa israeliana di scaricare sull’Egitto il peso gravosissimo di gestire più di due milioni di palestinesi scacciati dalle loro case a colpi di bombe e di stragi di civili inermi, bambini compresi, appare semplicemente cervellotica. Più adatta semmai a spingere pericolosamente l’Egitto verso la china di una contrapposizione diretta con lo stesso Israele.

A meno che la preparazione militare di Hamas non risulti un clamoroso bluff, cosa che a me pare non molto probabile, l’attacco di terra, ancorché a mio parere inevitabile, proprio per la strategia di fondo sottesa alla politica di Israele, comporterà perdite notevolissime da entrambe le parti, che non mancheranno di avere il loro peso nel sistema delle relazioni internazionali. La forza dissuasiva della presenza militare statunitense, così ardimentosamente sbandierata, non credo sarebbe sufficiente ad impedire il coinvolgimento di altri attori esterni, proprio a causa della troppo pesante reazione aerea israeliana e di iniziative come il taglio delle forniture d’acqua e di energia elettrica, che hanno avuto il doppio effetto di apparire come una crudele quanto ingiusta punizione della popolazione civile ed allo stesso hanno mostrato al mondo come la Striscia di Gaza e la sua popolazione siano ostaggio della repressione e della prepotenza israeliana anche per i bisogni più essenziali come in una sorta di gigantesco campo di concentramento.

L’intervento diretto nord-americano quand’anche effettuato contro attori esterni come ad esempio Hezbollah, aprirebbe pur sempre uno scenario quanto mai pericoloso e denso di incognite e finirebbe comunque per compromettere in maniera definitiva la residua capacità contrattuale degli Usa rispetto al mondo arabo, già ora fortemente compromessa. Credo sia per questo tipo di considerazioni che il presidente Usa si sia espresso contro un intervento di terra da parte israeliana. Ma la rinuncia a questo intervento implicherebbe da parte di Israele l’ammissione di uno smacco politico-militare senza precedenti con conseguenze anche qui non pienamente ponderabili, ma certamente negative per lo stato sionista.

In tutto ciò, il pagliaccio di Kiev, come un vecchio saltimbanco sul viale del tramonto, riceve l’ennesimo schiaffo in faccia proprio dagli stessi israeliani che giudicano “non opportuna” la sua richiesta di visita “di solidarietà”.

Un pagliaccio che purtroppo è costato e costerà ancora centinaia di migliaia di morti tra il suo stesso popolo ed al quale la promessa di un esilio dorato in Canada per “servizi resi” potrebbe alla fin fine, non essere mantenuta.

Il mondo inizia a riordinarsi di George Friedman – 10 ottobre 2023

Il mondo inizia a riordinarsi
di George Friedman – 10 ottobre 2023Apri come PDF
Qualche mese fa ho scritto che il mondo è in procinto di riordinarsi, cosa che avviene ogni poche generazioni. Non è un processo che dipende dalle decisioni dei potenti o che può essere facilmente fermato. Nasce da pressioni economiche e politiche all’interno dei Paesi. Queste pressioni interne si trasformano in pressioni militari, poiché il sistema interno cerca di stabilizzarsi. Alcuni Paesi vivono queste situazioni come eventi dolorosi ma di routine, mentre altri si destabilizzano o si scatenano. Un altro nome per questo è progresso, che non è una marcia trionfale verso la felicità, ma una dolorosa lotta con la realtà; i dolori del progresso si trasformano in accuse contro altre persone e altre nazioni. Qualcuno deve essere responsabile dello sconvolgimento e del disorientamento del cambiamento, e il dito è sempre puntato contro gli altri e mai contro se stessi.

La base di questo ciclo attuale è stata l’Europa dei primi anni ’90, quando l’Unione Sovietica si è disintegrata e il trattato di Maastricht è stato firmato per unire il continente. Nel 2001, gli Stati Uniti hanno subito l’attacco dell’11 settembre. Nel 2013 Xi Jinping è diventato presidente della Cina. Nel ciclo della storia, uno o due decenni sono un tempo relativamente breve.

La frammentazione dell’Unione Sovietica aveva, all’epoca, lo scopo di creare una regione più efficiente. L’unificazione dell’Europa sotto l’Unione Europea mirava a ridurre le prospettive di conflitto e a creare una prosperità diffusa. La risposta degli Stati Uniti all’attacco dell’11 settembre mirava a ridurre la minaccia del terrorismo. L’elezione di Xi doveva portare la Cina sulla strada di una prosperità senza precedenti.

Nessuna di queste intenzioni si è risolta in un vero e proprio fallimento. La dissoluzione dell’Unione Sovietica ha portato alcuni paesi dell’ex Unione Sovietica e i suoi satelliti a un maggior grado di prosperità. L’unificazione europea ha portato a un periodo di relativa produttività. La risposta americana ha impedito un altro attacco di tipo 11 settembre agli Stati Uniti. E la Cina è cresciuta. Come in altri cicli, le intenzioni dei leader non sono state un completo fallimento, almeno fino al ciclo successivo.

È passata una generazione dall’inizio dell’ultimo ciclo e le linee di faglia della fase precedente sono nella fase finale del cambiamento. La Russia è impegnata nel tentativo di ricostruire l’Unione Sovietica, a partire dalla guerra in Ucraina. L’Unione Europea è profondamente divisa e Germania e Francia hanno proposto di istituzionalizzare la divisione. Negli ultimi giorni, il radicalismo islamico è tornato a farsi sentire con l’invasione di Israele da parte di Hamas. Gli Stati Uniti, dopo aver evitato altri grandi attacchi da parte di terroristi islamici, sono scivolati nella prevista fase finale del proprio ciclo, in cui le tensioni tra le persone per motivi politici, razziali, religiosi, sessuali e quant’altro domineranno i prossimi anni. E l’impennata economica della Cina ha lasciato il posto a una massiccia debolezza economica e a tensioni politiche.

Sono due i punti che sto cercando di evidenziare. In primo luogo, le nazioni contengono molti milioni di persone. Queste persone prendono decisioni che attribuiscono ai leader, perché il processo reale di milioni di persone che vivono insieme è troppo complicato da comprendere. Qualcuno deve essere incolpato, e non si può essere se stessi, quindi c’è una rabbia periodica. Secondo, e forse più significativo, il problema del nuovo periodo nasce dalla soluzione dell’ultimo periodo.

Siamo quindi in un nuovo periodo, che ha le sue origini nell’ultimo e consiste in guerra, crisi economica e rabbia reciproca. Queste sono le realtà veramente universali, a volte felici, troppo spesso tragiche. Ma sono sicuro che i greci guardavano tutto questo allo stesso modo. Possiamo evitare questi cicli? Mi piacerebbe pensarlo, ma non l’abbiamo ancora fatto.

Pensare all’intelligence

Riflessioni sulla geopolitica e dintorni.

Di

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Le notizie da Israele sono state sbalorditive e la spiegazione che molti danno a quanto accaduto è che c’è stato un “fallimento dell’intelligence”. Questo mi ricorda un lanciatore di baseball degli Yankees che aveva un no-hitter al 9° inning. Al secondo out dell’inning, un giocatore dei White Sox schiacciò una piccola e triste palla in terza base, costringendo il terza base degli Yankees a caricarsi e a girare per lanciare in prima. Il corridore superò il lancio. I giornali ignorarono la magnificenza di una partita con una sola battuta e criticarono il lanciatore per l’unica battuta. I critici non sono riusciti ad arrivare ai gradini più bassi delle leghe minori, ma si sono seduti a condannare compiaciuti un grande lanciatore.

Lanciare nelle Major è estenuante. Ma le persone che lavorano nel campo dell’intelligence hanno molto di più in gioco e molto meno controllo del processo. Potrebbero dover prendere un’immagine satellitare, poi comprenderla e analizzarla per costruire un quadro della realtà, il tutto prima che il nemico faccia il suo prossimo passo. Un’immagine satellitare, come la maggior parte delle informazioni di intelligence, non è un’immagine nitida e pulita, ma un mistero che deve essere decodificato mentre gli esperti discutono sul suo significato. Oppure prendiamo l’intelligence umana, dove un’agenzia di spionaggio può penetrare in un ufficio o in un palazzo per osservare e raccogliere informazioni, il tutto fingendo di essere tutto ciò che non è e sapendo che il nemico è in guardia per lo spionaggio. Un singolo passo falso – di solito dopo una conversazione molto dolorosa con un uomo che si guadagna da vivere facendo in modo che gli uomini rivelino la verità – potrebbe costare loro la vita.

Gaza-Israel in the Middle East
(click to enlarge)

Il fallimento è purtroppo parte integrante dell’intelligence. Una volta, reagendo a un fallimento dell’intelligence, un lettore ha suggerito che il fallimento era stato intenzionale per raggiungere un qualche scopo. La mancanza di comprensione di quanto sia difficile e pericolosa l’intelligence può portarci ad avere aspettative irragionevoli. A volte mi sono chiesto se l’intelligenza non valga la pena. Ma l’intelligenza è ciò che abbiamo. Ci dice qualcosa e nel tempo può dirci molto. La paura di essere scoperti può influenzare anche il nemico, che sa che l’intelligence del suo obiettivo finirà per svelare qualche parte importante del suo piano e che deve muoversi a velocità di fiancheggiamento per colpire prima di essere colpito. Il successo di un’operazione militare può dipendere dall’indovinare quanto tempo si ha a disposizione. E questo può portare al fallimento.

Per analizzare l’attacco di Hamas, il primo passo è capire cosa non si sa. I militari incaricheranno le organizzazioni di intelligence e diranno loro ciò di cui hanno bisogno, che di solito è molto più di quanto otterranno. Supponiamo quindi che la domanda sia se gli iraniani stessero finanziando Hamas. Come lo scoprireste? Accedere alle transazioni è difficile. Sarebbe utile penetrare nella banca nazionale, ma questo presuppone che gli iraniani usino la banca nazionale. E se ci pensate, anche scoprire chi riceve il denaro è difficile. E al momento non è una questione di grande importanza.

Israele sta combattendo contro Hamas, che tiene ostaggi che probabilmente ucciderà durante un assalto. La preoccupazione di Israele ora è quella di determinare con precisione dove si trovano gli ostaggi e quale routine è stata stabilita, e lasciare che le forze di operazioni speciali elaborino ed eseguano un piano di attacco. Il nemico tiene in ostaggio dei bambini, e per il momento questo è più importante del denaro. Gli iraniani sono una forza ostile; decidere quanto siano cattivi è accademico.

Per me, la domanda più interessante è chi ha fornito ad Hamas le armi e gli altri rifornimenti e quale percorso hanno seguito per arrivare a Gaza. Il viaggio dall’Iran è lungo, e fornire un attacco da lì comporterebbe l’attraversamento di molti confini, il che farebbe scattare molti allarmi – o almeno così Hamas dovrebbe supporre. Ma non c’è stato alcun allarme, quindi significa che i rifornimenti sono stati spostati lentamente verso una base avanzata, con i combattenti che si sono avvicinati grazie a un depistaggio. Questa è una domanda più importante del denaro, perché la risposta significherebbe che diversi alleati degli Stati Uniti sono stati coinvolti e quindi altre minacce potrebbero materializzarsi. La parola “potrebbe” è il termine ricorrente, se non fosse che Hamas ha costruito il suo arsenale a Gaza, l’Egitto e una serie di Paesi potrebbero essere coinvolti, trasformando la sfida dell’intelligence in qualcosa di monumentale.

Il problema principale non è capire se sia stato usato il denaro iraniano, ma la politica che ha permesso ad Hamas di accumulare ed equipaggiare la sua forza d’assalto, che sia avvenuta a Gaza o altrove. Come si fa a nascondere il movimento di molti uomini, che trasportano armi e si muovono in un paese molto vuoto? Questa è la mia domanda, ma non so se sia quella giusta. E questo è il problema da incubo dell’intelligence. Trovare risposte è possibile in diversi modi. Più difficile è sapere a quale domanda bisogna rispondere e mettere in funzione i collettori dei luoghi in cui si possono trovare le armi.

Il mio approccio all’intelligence si è trasformato in una previsione di ciò che accadrà, spesso tralasciando la data in cui avverrà. Mi piace pensare che sia utile avere un’idea, per quanto imprecisa, del futuro. Ma sapere quali sono le domande giuste da porre a poche ore da un attacco, e incaricare i collettori di trovare le risposte, è un lavoro che non ammette errori. Ed è qui che inizia l’incubo dell’intelligence.

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Il sostegno della Russia all’indipendenza palestinese non deve essere interpretato come una politica anti-israeliana, di ANDREW KORYBKO

Il sostegno della Russia all’indipendenza palestinese non deve essere interpretato come una politica anti-israeliana

ANDREW KORYBKO
11 OTT 2023

La comunità degli Alt-Media sta mentendo sulla politica equilibrata del Cremlino nei confronti dell’ultimo conflitto tanto quanto i media mainstream, anche se dalla posizione diametralmente opposta di dissociare falsamente la Russia da Israele mentre i loro presunti rivali cercano di associarla falsamente al terrorismo.

L’ultima guerra tra Israele e Hamas ha polarizzato l’opinione pubblica internazionale in campi diametralmente opposti, e la posizione equilibrata della Russia nei confronti di questo conflitto è una delle poche eccezioni. Sia i media mainstream (MSM) che la comunità degli Alt-Media (AMC) hanno fatto passare il suo sostegno all’indipendenza palestinese come una politica anti-israeliana, ciascuno per perseguire i propri interessi personali. La prima vuole associare la Russia al terrorismo, mentre la seconda vuole dissociare la Russia da Israele.

Questo articolo ha raccolto diverse decine di citazioni del Presidente Putin su questo conflitto, tratte dal sito ufficiale del Cremlino tra il 2000 e il 2018, per dimostrare che egli sostiene risolutamente il diritto di Israele all’autodifesa, soprattutto quando è vittima di attacchi terroristici. Questa posizione si è concretizzata nel fatto che la Russia ha permesso a Israele di bombardare impunemente l’IRGC e Hezbollah in Siria centinaia di volte dal 2015 a oggi con questo pretesto, nonostante si sia occasionalmente opposta in pubblico, cosa che è stata documentata e analizzata qui.

I precedenti articoli ipertestuali sono importanti per i lettori al fine di sfatare le false affermazioni del MSM secondo cui la Russia sostiene le recenti azioni di Hamas che sono state descritte come terrorismo. Questo è pertinente dopo che Zelensky ha avallato questa teoria del complotto, che serve solo a screditare ulteriormente la Russia agli occhi dell’Occidente e quindi a garantire un continuo sostegno agli aiuti militari a Kiev. Ha ammesso che “c’è il rischio che l’attenzione internazionale si sposti dall’Ucraina”, il che ha svelato le sue motivazioni.

Per quanto riguarda i motivi che spingono l’AMC a screditare la posizione della Russia, la maggior parte dei membri sono appassionati antisionisti che considerano la causa palestinese la più importante al mondo, ma molti sostengono anche la Russia. Molti (ma ovviamente non tutti) sono anche di sinistra e liberali, quindi predisposti a “cancellare la cultura”. Di conseguenza, sono contrari ad associarsi con coloro che non condividono pienamente le loro opinioni su qualsiasi cosa, il che spiega il dilemma in cui si sono trovati riguardo alla Russia e a Israele.

Queste persone attaccano aggressivamente chiunque non condanni senza riserve Israele e non sostenga incondizionatamente la Palestina. Secondo loro, Israele non ha diritto all’autodifesa anche dopo essere stato vittima di attacchi terroristici, poiché è una potenza occupante illegale, che secondo alcuni non ha diritto di esistere. Altri si spingono ancora più in là, chiedendo che tutti i cittadini ebrei di origine europea di Israele se ne vadano al più presto o affrontino le conseguenze potenzialmente letali di essere colonizzatori-sedimentatori di terre palestinesi legali.

Il problema che hanno riscontrato è che la Russia, che molti di loro sostengono per il suo ruolo nell’accelerare la transizione sistemica globale verso il multipolarismo e nell’erodere l’egemonia degli Stati Uniti, non condanna senza riserve Israele né sostiene con convinzione la Palestina a causa della sua posizione equilibrata. Temono che “cancellare” la Russia per questo motivo porterebbe alcuni dei loro pari a “cancellarla” in risposta, catalizzando così un’interminabile disputa interna che finirebbe per dividere e dominare gli antimperialisti.

Nell’intento di evitare questo scenario controproducente, basato sulla predisposizione di questa sinistra e di questi liberali a “cancellare la cultura”, essi hanno quindi tacitamente accettato di ignorare questo significativo disaccordo con la Russia per perseguire un “bene superiore”. Alcuni si sono spinti oltre e hanno mentito sulla posizione della Russia nei confronti di questo conflitto, al fine di generare peso, spingere la loro ideologia e/o sollecitare donazioni da parte di coloro che, tra il loro pubblico, vogliono disperatamente credere che la Russia sia contro Israele.

Sostenere l’indipendenza palestinese non è comunque una politica anti-israeliana, ma semplicemente la riaffermazione del diritto internazionale che si allinea con l’approccio russo agli affari globali. Allo stesso tempo, la Russia invita costantemente entrambe le parti a cessare il fuoco e ad esercitare l’autocontrollo. Condanna inoltre le vittime civili in Palestina e in Israele. Se la Russia avesse davvero una politica anti-israeliana, allora si limiterebbe a criticare il Paese e non attribuirebbe mai una colpa parziale alla Palestina, come ha fatto nelle seguenti dichiarazioni ufficiali:

* 7 ottobre: “Commento della portavoce del Ministero degli Esteri Maria Zakharova sulla forte escalation del conflitto palestinese-israeliano”.

– “Chiediamo alle parti palestinese e israeliana di attuare un immediato cessate il fuoco, rinunciare alla violenza, esercitare la moderazione e iniziare, con l’assistenza della comunità internazionale, un processo negoziale volto a stabilire una pace globale, duratura e a lungo attesa in Medio Oriente”.

* 9 ottobre: “Dichiarazione del Ministero degli Esteri sulla situazione nella zona di conflitto tra Palestina e Israele”.

– “Migliaia di israeliani e palestinesi sono stati feriti. Esprimiamo le nostre più sentite condoglianze alle famiglie e agli amici di tutte le persone uccise e auguriamo una pronta guarigione ai feriti”.

* 9 ottobre: “Osservazioni del Ministro degli Esteri Sergey Lavrov e risposte alle domande dei media durante una conferenza stampa congiunta con il Segretario Generale della Lega Araba Ahmed Aboul Gheit, Mosca, 9 ottobre 2023”.

– Sergey Lavrov: “Abbiamo esposto la nostra posizione secondo cui è inaccettabile commettere qualsiasi violenza, infliggere danni, uccidere civili pacifici (da entrambe le parti) o prendere in ostaggio donne e bambini”.

* 10 ottobre: “Colloqui Russia-Iraq” (tra il Presidente Putin e il Primo Ministro al-Sudani)

– Presidente Putin: “La nostra posizione è che i danni alla popolazione civile devono essere minimizzati e ridotti a zero, e chiediamo a tutte le parti in conflitto di farlo”.

* 10 ottobre: “Il Cremlino esorta entrambe le parti del conflitto arabo-israeliano a mostrare moderazione”.

– Dmitry Peskov: “È molto importante ora che entrambe le parti mostrino moderazione”.

RT ha condiviso due articoli che aggiungono ulteriore contesto al motivo per cui la Russia incolpa parzialmente Hamas per questo conflitto:

* “Dieci russi in Israele uccisi o dispersi – Ambasciata”.

* “Famoso fisico sovietico ucciso da Hamas – media”.

Chiunque faccia passare il sostegno del Paese all’indipendenza palestinese, ribadito anche in tutte queste dichiarazioni, come una politica anti-israeliana, o ignora le dichiarazioni ufficiali di cui sopra o inganna deliberatamente il proprio pubblico sulla posizione della Russia. In ogni caso, le fonti ufficiali condivise sopra, provenienti dai siti web del Ministero degli Esteri, del Cremlino, della TASS e di RT, dimostrano che la posizione della Russia è equilibrata, poiché incolpa anche Hamas per l’ultimo conflitto, non solo Israele.

Coloro che tra i membri dell’AMC continuano a manipolare la percezione della politica russa nei confronti di questo conflitto, dopo essere stati informati dei fatti precedentemente condivisi, stanno inavvertitamente eseguendo gli ordini di guerra informativa dei suoi nemici, insinuando falsamente il sostegno di Mosca agli attacchi di Hamas contro i civili. Inoltre, stanno screditando quello stesso governo agli occhi del suo popolo, fingendo che non si preoccupi dell’uccisione dei propri cittadini (doppi) durante questo conflitto, cosa che è controfattuale, come è stato indiscutibilmente dimostrato.

Queste persone possono continuare a funzionare come “utili idioti” nella guerra globale dell’informazione contro la Russia, aggrappandosi in modo disonesto alle loro false affermazioni per qualsiasi ragione personale (ad es. influenza, ideologia e/o richiesta di donazioni) o mettere le cose in chiaro condividendo finalmente tutti i fatti. È possibile sostenere la Palestina contro Israele e il ruolo della Russia nell’accelerare la transizione sistemica globale verso il multipolarismo, pur non condividendo la politica del Cremlino nei confronti dell’ultimo conflitto.

Ci sono solo tre ragioni per cui la maggior parte dell’AMC non ha adottato l’approccio precedente: 1) i top influencer ignorano davvero tutti i fatti sulla posizione della Russia; 2) sono consapevoli di quanto sopra, ma temono di essere “cancellati” dai loro colleghi di sinistra e liberali se parlano, quindi rimangono in silenzio; oppure 3) sperano egoisticamente di guadagnare qualcosa continuando a mentire al loro pubblico. Qualunque sia la ragione di ciascun top influencer, il risultato finale è che tutti quanti stanno descrivendo in modo errato la posizione della Russia.

Stando così le cose, l’AMC sta mentendo sulla politica equilibrata del Cremlino nei confronti dell’ultimo conflitto tanto quanto il MSM, anche se dalla posizione diametralmente opposta di dissociare falsamente la Russia da Israele mentre i loro presunti rivali cercano di associarla falsamente al terrorismo. Nessuno dei due sta dicendo la verità, poiché hanno motivi narrativi di interesse personale per farla girare. Di conseguenza, il cittadino medio viene lasciato confuso sulla posizione del Cremlino e tenuto all’oscuro della sua reale politica.

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LIBERTA’ O ETICA, di Paolo Galante

 

LIBERTA’ O ETICA

 

E’ palese che col rinascimento prima, e con maggior enfasi con l’illuminismo poi, nella civiltà europea ha preso sempre più piede l’idea che il valore-principe della vita umana è la libertà, scalzando così l’etica, ovverosia la realizzazione del bene comune dalla primazia di cui ancora godeva nel medioevo.

Con ciò non si vuol certo dire che in generale l’uomo di allora, e soprattutto i potenti, ponessero l’etica a fine di ogni loro azione e progetto. Però, quanto meno a livello filosofico, si concordava che scopo della vita non fosse la libertà di affermare la propria volontà, ma di conformare il proprio agire alla volontà di Dio, il cui attributo-principe è il sommo bene. Il primo posto nella scala dei valori spettava all’etica, al bene comune, non certo alla libertà individuale finalizzata al perseguimento del bene del singolo.

Secondo questa visione, la vita dell’uomo aveva il fine non in sè – realizzare il bene personale – ma in qualcos’altro di molto più grande, più grande addirittura del bene dell’umanità, il bene del creato tutto. In altre parole, fine dell’uomo era di farsi mezzo per la realizzazione della volontà del sommo bene, Dio.

E’ il caso di sottolineare che la religione, ponendo il fine della vita oltre  la sfera del piccolo bene individuale, proponeva all’uomo un approccio alla vita di natura trascendente, cioè il fine della vita trascendeva, andava oltre la sfera dell’individuale, per aprirlo ad una dimensione infinitamente più vasta, che metteva la sua vita in relazione a quella della totalità.

La concezione religiosa della vita, in quanto fondata sul fatto che la significatività dell’esistenza è data dalla tensione verso il trascendente, è di natura squisitamente dialettica. Infatti, è proprio della trascendenza mettere in rapporto l’io col suo opposto, l’altro. L’io realizza se stesso trascendendosi per andare verso l’altro. “L’io è un altro”: diceva Rimbaud.
Non siamo fatti per rimanere uguali a ciò che siamo, per coincidere lungo tutta la vita con un’identità definita così una volta per tutte. Non siamo fatti per essere e rimanere dei narcisi.

La religione, aldilà di tutte le critiche legittime – e in verità sono molte – che le si possono fare, ha però un merito innegabile e di fondamentale importanza per la salvaguardia dell’etica e della significatività dell’esistenza: estendere lo spazio della nostra progettualità ben oltre gli angusti confini della finitezza dell’io.

 

Col rinascimento, alla concezione trascendente e dialettica della vita viene assestato un duro colpo. Come già detto, il percorso che porterà a detronizzare l’etica dall’essere il principio fondamentale della vita, sostituendola con la libertà, si svolse sempre più in discesa. La libertà si emancipò così dall’etica, l’individuo dalla collettività, l’io dall’altro.

Prese così piede una concezione della vita non più fondata sul principio della complementarietà degli opposti, ma su quello antidialettico che un ente è uguale solo a se stesso, per cui ogni passo verso l’altro comporterebbe la perdita del proprio essere.

Per la dialettica, l’essere è un processo messo in moto dal contrasto fra gli opposti: si muove davanti (pro – cede) a noi. Non è cosa data – che sta nel passato cioè – ma nel futuro: sta infatti davanti.

L’antidialettica, che è la logica fondata sul principio di non contraddizione, concepisce l’essere come statico, in quanto coincidente con se stesso, totalmente contenuto entro i confini della sua definizione. Non riconoscendo che l’identità dell’essere consiste nel divenire altro, perché ciò contravverrebbe al principio di non contraddizione, lo condanna all’immobilismo, al passato, ad essere soggetto ad una ferrea necessità.

Non è un caso che nel rinascimento assistiamo anche ad un rifiorire del pensiero scientifico quale in Europa forse non si vedeva dal periodo ellenistico. La scienza, nella sua applicazione tecnologica, si fonda, infatti, sul principio di non contraddizione. Per poter applicare all’essere il pensiero necessitante della matematica – il cui linguaggio è a fondamento della tecnica – occorreva immobilizzare l’essere, necessitarlo, privarlo della libertà di contraddire se stesso divenendo altro da sè.

Ma l’essere, come sosteneva Heidegger, e non solo lui, è progetto.  In sostanza egli ha detto che maggiore è la tensione progettuale dell’individuo, più la nostra esistenza acquista significatività, più si accresce in noi il sentimento del valore dell’essere rispetto a quello del non essere. Ma la filosofia occidentale ha ristretto la progettualità alla sola sfera psichica dell’essere, escludendone quella materiale.

La fisica moderna, però, ha ormai dimostrato, contraddicendo la sua passata impostazione meccanicista, che la progettualità vale anche per la sfera materiale  dell’essere. La più profonda delle scienze della materia, la fisica, ha dimostrato che anche a fondamento della materia c’è il moto. Quindi niente è fermo, niente coincide stabilmente con se stesso.

Il principio di non contraddizione, sul quale Galileo pretendeva si fondasse il mondo (“Il mondo  è scritto in caratteri matematici”) è falso. O, meglio, è vero, cioè funziona perfettamente se il nostro scopo è privare l’essere della libertà di cambiare, per così assoggettarlo e costringerlo a cederci la sua energia.
Non è vero però, cioè non funziona se pensiamo che la grande potenza che otteniamo, piegando l’essere alla nostra volontà, accresca anche la significatività del nostro essere nel mondo.

 

Questa concezione, che col rinascimento ha fatto un notevole balzo in avanti, per convincerci che la significatività dell’essere consista nell’accrescimento della potenza, si è rivelata e, ancor più drammaticamente oggi, si rivela falsa.

La prova? Oggi, in cui la potenza messaci a disposizione della tecnica ha raggiunto livelli di efficienza inimmaginabili nel passato, viviamo anche in un tempo in cui sembriamo aver smarrito, o quanto meno percepiamo come indebolito, il sentimento della significatività della nostra ed altrui vita.

Purtroppo, l’umanità sembra non capire che l’accrescimento della potenza ha un prezzo: la diminuzione della significatività della vita. Più l’uomo vuole accaparrarsi l’energia della natura, sotttraendola agli altri viventi, più si separa dalla vita del tutto, col risultato di vivere una vita ricca sì di potenza, ma carente però di significato.
La potenza e l’etica, il bene della totalità, si escludono a vicenda.

Agli albori del rinascimento il mito di Faust ammonì l’uomo europeo che la potenza si paga con la dannazione dell’anima.

Non vi si prestò ascolto. L’uomo, sedotto dalle sirene della potenza, decise di dare un forte scossone alle catene della religione, del rispetto della tradizione, dei diritti degli altri viventi che ponevano un freno all’estrinsecazione della sua potenza. Reclamò per sé più libertà alla sua volontà di potenza. Pretese per sé vieppiù il ruolo di creatore che di creatura.

Fra parentesi, ciò – a mio avviso – sarebbe anche giusto.  E questo è anche il punto fondamentale che contesto alle religioni in genere.

Il fatto però è che il rinascimento non si pose, o, quanto meno, si pose in modo insufficiente il problema etico di stabilire a quale delle volontà, che abitano l’uomo, bisognava concedere la libertà e riconoscere la dignità di creatore: alla volontà dell’ego o a quelle più sensibili ai valori etici?

Si scelse, anche se ancora con qualche reticenza, che la libertà maggiore dovesse essere concessa alla volontà di potenza e dunque all’ego.

Certo, non si era ancora giunti al punto da disconoscere del tutto la necessità dell’etica – per questo bisognava aspettare l’illuminismo, il darwinismo biologico seguito poi da quello sociale, il liberalismo economico, il materialismo meccanicista col suo corollario della sostanziale insensatezza  della vita -.tuttavia essa venne progressivamente messa da parte, perchè coi suoi scrupoli non frenasse il dispiegamento della volontà di potenza dell’uomo.

 

Porre la libertà al primo posto nella scala dei valori in luogo dell’etica rappresentò un cambiamento di prospettiva così radicale da richiedere comunque una giustificazione che rimettesse in gioco, in qualche modo, l’etica.

Come detto, non si era ancora giunti al darwinismo biologico e sociale, per il quale è bene liberare le leggi di natura da ogni vincolo di natura etica, che ostacolano l’affermazione del più forte con la relativa soccombenza del più debole.

Di conseguenza si cercò di reintrodurre l’etica con la formula capziosa che “la libertà di una persona finisce dove incomincia quella altrui”. La formula, ad un’analisi superficiale, suona bene; sembra poggiare su un solido fondamento etico.

Non è così. La formula ricalca il concetto kantiano di etica, un’etica fondata sul dover essere. L’essere sarebbe etico non perché questa è la sua essenza, ma perché è suo dovere esserlo.

Tale concezione della libertà dell’essere e dell’etica è antidialettica. Essa infatti pone come opposta alla libertà dell’individuo la libertà dell’altro. La libertà dell’altro è per l’individuo ciò che necessita nel senso che frena, limita la sua libertà. Il conflitto fra la mia libertà e la necessità (la libertà dell’altro cioè)  non avviene più dentro di me, ma fra me ed un altro. Ponendo la necessità fuori di me, io mi alieno da essa e con ciò mi alieno anche dal conflitto dialettico, poichè non lo vivo più come lotta fra due opposti che mi appartengono, in quanto entrambi espressione del mio essere, ma come conflitto fra un polo che mi appartiene ( la mia libertà) e un altro che invece non mi appartiene (la necessità) perchè rappresentato da un altro.

Ora il conflitto è – come ci ricorda Eraclito – genitore dell’essere, ma solo se riporto dentro di me gli opposti, non se lo esteriorizzo allontanando da me ciò che mi ostacola.

 

Se il valore fondante dell’essere, come si cominciò a pensare soprattutto dal rinascimento, è la libertà, ogni limitazione ad essa, sebbene di natura etica, non può che essere sentita anche come limitazione dell’essere.

Anche il dover essere kantiano, quindi, si configura come una limitazione dell’essere. Fondare l’eticità dell’essere sul dovere è chiaro indice di sfiducia nell’eticità intrinseca all’essere stesso, in quanto si ritiene che per essere etico l’essere deve limitarsi, cioè rinunciare alla sua pienezza.

Ma così implicitamente si afferma che l’essere, senza i limiti posti dal dover essere, non è etico, dando così ragione all’Hobbes dell’”homo homini lupus”.

 

Si potrebbe obiettare che anche il Cristianesimo aveva una visione sostanzialmente negativa della natura umana, ritenendola segnata dal peccato originale.

Ma fra il Cristianesimo e le religioni da una parte, e il pensiero europeo del rinascimento, e soprattutto postrinascimentale, dall’altra c’è la differenza capitale che, mentre le prime fondano l’essere sull’etica, il secondo sulla libertà.

Per la religione è vero sì che la natura umana è segnata dal peccato, ma l’uomo ha pur sempre la possibilità di trascenderla, onde identificare il suo essere con l’anima.

Ponendo l’etica al primo posto, la religione sottopone la libertà ad un giudizio etico, il che pertanto comporta anche una disanima sulle varie volontà che si combattono per contendersi il primato all’interno della psiche umana. Per il cristianesimo non si può concedere la libertà alle volontà che sono espressione della natura peccaminosa dell’uomo; la si deve concedere invece alle volontà di natura etica, espressione dell’anelito dell’anima ad operare al servizio del sommo bene, Dio.
La natura dialettica del cristianesimo si palesa nel fatto che pone il conflitto all’interno dell’uomo fra volontà peccaminosa, in quanto volta al bene dell’ego, e volontà etica.

Entrambe le volontà aspirano alla libertà e ciascuna è perciò di ostacolo all’altra.

L’ostacolo è però interno al nostro essere e non al di fuori di esso. “Intus est adversarius”: dentro di noi è il nostro nemico. La lotta è quindi fra volontà che, pur essendo opposte (in questo caso il bene dell’ego ed il bene comune che è l’etica), appartengono ad un unico essere. La religione prende atto della natura conflittuale dell’essere, ma ha il merito di porre tale conflitto dentro di noi, riconoscendo così la natura dialettica dell’essere.

La religione prevede un processo di maturazione dell’essere, che parte innanzittutto dalla presa d’atto che siamo una pluralità di volontà confliggenti tra loro. Una volontà che si oppone ad un’altra è sentita da entrambe come necessità, in quanto una vuole togliere all’altra la libertà di manifestarsi. La religione pone l’ostacolo in noi: noi stessi siamo così la difficoltà da superare.

Non è certo facile sentire che noi stessi siamo di ostacolo alla libera estrinsecazione della volontà con cui ci identifichiamo; sentire che la necessità, che ci vuole privare della libertà, è in noi.

Ma è anche vero che il conflitto, se accettato, ci rimette in moto, permettendoci così di avere accesso all’anima, intesa nel significato etimologico di ciò che anima. L’identificarci con la volontà dell’anima ci rende liberi, perchè essa è espressione dell’autenticità del nostro essere, che consiste nell’etica.

Una volta che ci identifichiamo con la volontà dell’anima, il rispetto della libertà altrui non è più sentito come un limite alla nostra volontà. Lo sarebbe solo se ci identificassimo con la volontà dell’ego.

Chi si identifica con la volontà dell’anima non percepisce la libertà dell’altro come un limite alla sua, ma anzi come un ampliamento.

Di più: il valore che si pone al primo posto nell’esistenza è quello che riconosciamo come assoluto e quindi immodificabile. Se assegno il primato alla libertà, ne consegue che relativizzo l’etica. Essa diventa passibile di modificazione, il concetto di bene e male diventa relativo e lo diventa rispetto al valore posto come assoluto, la libertà.

E’ dunque la mia libertà a stabilire cosa è bene e cosa è male. Essendo stata scelta come valore assoluto, la libertà non è disposta a mettersi in discussione, e sarà quindi l’etica a doversi adeguare all’assoluto che è la libertà. E’ bene quindi ciò che favorisce la mia libertà, male ciò che la ostacola.

La mia libertà si assolutizza; quella degli altri di conseguenza si relativizza, piegandosi al giudizio del mio io. Parlare del rispetto della libertà altrui diventa in questo scenario pura ipocrisia.

La si può rispettare solo se la si ama. Ma la posso amare solo relativizzando la mia libertà ed assolutizzando invece l’etica. Essa è l’espressione del bene comune ed esso è la verità.

Lo è perchè l’essere è uno, è unità. Di conseguenza anche il bene è tale solo quando è uno, quando si manifesta come bene della totalità, come etica. Come l’essere è uno, così il bene è uno.

Se vogliamo accrescere in noi il sentimento della significatività dell’essere, non possiamo che assolutizzare l’etica. Ad essa spetta il primo posto nella scala dei valori. La libertà pertanto diventa secondaria, nel senso che segue l’etica come una conseguenza. E’ l’etica cioè a stabilirne il valore sulla base di quanto la libertà si conformi alla verità cioè al bene comune cioè all’etica.

 

Potrebbe sembrare che stilare una scala gerarchica, dove al primo posto compare un solo valore – ad es. l’etica o la libertà –  sia in contrasto con la dialettica, giacchè essa prevede che ci sia una contrapposizione fra due valori aventi uguale dignità ed importanza.

Ciò è vero nel caso della libertà, ma non in quello dell’etica. Infatti la libertà è cosa unilaterale, non ha in sè il proprio opposto, la necessità.

Va bene che anche i più sfegatati libertini e liberisti tendono, magari per pura ipocrisia, ad ammettere che la libertà propria non può essere assoluta, ma relativizzata dal rispetto di quelle altrui. Tuttavia questa concessione alla dialettica è estrinseca al concetto di libertà personale in quanto la necessità, evocata dalla libertà altrui, resta altra rispetto alla libertà personale: altra nel senso che la mia libertà e quella altrui, quella che per me è necessità, rimangono distinte, non si fondano cioè nell’unità conflittuale del processo dialettico. Tale processo è conflittuale perchè pone insieme due opposti.

E’ però unitario perchè il conflitto non avviene fra me ed un altro, ma è tutto interno all’unicum della mia persona.

Nel caso invece che sia l’etica al primo posto nella scala dei valori, si può a diritto affermare che tale primato è in accordo con la dialettica. L’etica infatti è di per sè un concetto bilaterale, è cioè espressione della contrapposizione fra due opposti, libertà personale e libertà altrui.

Il primo posto nella scala gerarchica non è quindi rappresentato da un solo valore, ma da due: libertà personale e libertà altrui cioè quella che per me è una necessità, in quanto è limite alla mia libertà.

Come detto, l’etica ha per scopo il bene comune, il bene di tutti, un solo, un unico bene. Il bene è concepito così come unità e ciò in accordo con l’unità dell’essere. Dunque ponendo al primo posto l’etica, si afferma implicitamente l’unità dell’essere: io e ciò che mi è altro siamo un’unità.       Certo non un’unità di fatto, non un’unità in atto. Questo lo affermano solo gli pseudospiritualisti, che nella loro ingenuità chiudono gli occhi davanti al fatto che quella della dialettica non è un’unità irenica, pacificata, non violenta, quindi statica.

Tutt’altro, è un’unità conflittuale dove gli opposti, proprio perchè tali, puntano al reciproco annientamento, minacciando così il sentimento dell’unità su cui poggia l’essere.

Tale unità permane solo se riconosco che gli opposti fanno entrambi parte di me, cioè se riconosco che il conflitto fra libertà e necessità non è fra me e l’altro da me perché riconosco che anche la necessità, ostacolante la mia libertà, appartiene a me. Riconoscere ciò è affermare la natura etica dell’essere, che l’essere si fonda sull’etica e non sulla libertà.

 

E’ esperienza comune che la vita sia di per sè conflittuale, nel senso che le volontà, con cui di volta in volta ci identifichiamo, incontrano o incontreranno sempre qualche ostacolo più o meno grande.

Sebbene ciascuno di noi sia libero di decidere se ciò che ci ostacola sia dentro o fuori di noi, tuttavia possiamo dire che ogni civiltà in merito a ciò ha elaborato una sua propria filosofia, che è fatta propria dalla grande maggioranza delle persone.

Il trapasso dal medioevo al rinascimento ha comportato un cambio di prospettiva circa il significato di libertà e di ciò che la ostacola, la necessità. Ponendo la libertà al primo posto nella scala dei valori dell’essere, dal rinascimento si cominciò ad identificare l’essere con la libertà.

Di conseguenza la necessità venne estromessa dall’essere e considerata così come altro dall’essere cioè come cosa che sta fuori dall’essere, quindi come non essere. Ciò che ostacola l’essere non è dentro l’essere stesso, ma fuori di esso.

Col rinascimento quindi principiò una concezione filosofica secondo cui il conflitto fra libertà e necessità, fra essere e non essere, non si svolge più dentro di noi, all’interno del nostro essere, ma fra noi e l’esterno.

Si pensò che se l’essere è per sua natura libero, ciò che lo ostacola non è più nell’essere, ma fuori di esso. Ciò che sta fuori del nostro essere cominciò ad essere considerato come ostacolo all’essere, quindi come non essere. Il mondo esterno, nella misura in cui ostacola il nostro essere, cominciò ad essere concepito come non essere. Di qui l’inizio della guerra con ciò che dall’esterno limita la libertà del nostro essere.

Se prima del rinascimento il cristianesimo, sottolinenado che il male è dentro di noi,  faceva sì che, in qualche modo, limitassimo la guerra contro l’esterno, occupandoci di lottare anche contro quello interno al nostro essere,   con il lento, ma inesorabile declino religioso susseguente al rinascimento, la guerra si indirizzò sempre più contro l’esterno.

 

L’idea che il nemico della nostra libertà sia esterno a noi fu ed è il motore filosofico dell’incredibile progresso scientifico di cui fu protagonista indiscussa lla civiltà europea. Fu lo stimolo indispensabile per indirizzare pensiero e creatività a produrre una tecnologia vieppiù potente, per piegare gli ostacoli esterni alla nostra volontà, onde sentirci così più liberi.

Purtroppo la scienza in generale evita di riflettere sulle motivazioni psico-filosofiche che ne stanno alla base. Continua così nel suo progetto di incessante accrescimento della potenza, nella convinzione dogmatica che grazie alla potenza si potrà sconfiggere ciò che dall’esterno ostacola la libertà dell’essere.

Che tale convinzione sia errata, credo non ci sia tanto bisogno di dimostrarlo. Gli straordinari mezzi tecnici, che la scienza ha messo a disposizione della nostra volontà di potenza, ci hanno forse reso più felici? Mai prima d’ora l’ingiustizia sulla ripartizione della ricchezza è stata più iniqua; mai la violenza contro l’uomo, contro la flora e la fauna più efferata; mai l’insensatezza del vivere più acuta.

Non sarebbe forse ora di dire chiaramente alla scienza, che si vanta di essere antidogmatica, ridicolizzando i dogmi della religione, di smetterla a sua volta col dogma che l’essere può diventare libero solo in virtù della potenza fornita dalla tecnica?

Questo, a ben vedere, è un dogma ancor più rigido di quelli delle religioni. Questi, se non possono essere provati, non possono nemmeno essere smentiti. Quello invece è smentito quotidianamente dal nichilismo che la civiltà della potenza ha portato nelle nostre vite.

Possibile che la scienza sia ancora così dogmatica da non capire che ciò che ostacola, necessita la libertà dell’essere, è almeno in parte dentro di noi (evito qui di disquisire se non lo sia totalmente)?

Quando finirà la scienza di irridere il principio di contraddizione proprio della dialettica? Quando capirà che la logica del principio d’identità, per cui l’essere è uguale a se stesso, va bene solo per creare potenza, ma non per dare significato alla vita?

Una vita che vuole rimanere sempre uguale a se stessa va bene forse per la manifestazione minerale dell’essere, per un uomo diventa un inferno.

 

Quanto alla psicologia accademica poi, sarebbe proprio il caso di non parlarne per pudore. Questa non fa altro che scimmiottare la scienza, avendone abbracciato l’impianto antidialettico, secondo cui il conflitto non è generatore dell’essere, ma muove guerra all’essere dall’esterno.

Eccola allora teorizzare che ciò che siamo a livello psichico è conseguenza di cause esterne. Nevrosi e psicosi sarebbero quindi determinate sempre da cause esterne alla psiche.

La sola questione su cui psicologi e psichiatri si accapigliano è su quale sia l’esterno che determina il nostro stato psichico.

Per la psicologia l’esterno è da intendere più come la famiglia e la società in cui una persona vive. Per la psichiatria invece l’esterno che maggiormente plasma la psiche sarebbero i processi biochimici interni al corpo. Essi sarebbero la causa, la psiche un mero effetto e pertanto cosa esterna alla causa che la produrrebbe.

L’uno e l’altro comunque concordano sul fatto che l’ostacolo alla libertà della psiche le è esterno.

 

Sarebbe anche il caso di riflettere sul fatto che la concezione antidialettica dell’essere, che esclude il conflitto degli opposti quale causa dell’essere,  oltre ad essere il fondamento del pensiero scientifico, è anche alla base dell’ideologia della non violenza che, se non dal rinascimento, comunque dall’illuminismo ha preso sempre più piede nella civiltà della tecnica.

L’antidialettica dell’ideologia della non violenza sta nel fatto che tale ideologia rifiuta la tesi che alla base dell’essere ci sia il conflitto degli opposti. Per essa l’essere è esente da conflitti ed è quindi libero.

Lascio al giudizio dei lettori decidere se la civiltà, che ha posto tra i suoi valori-cardine la non violenza, il rispetto dei diritti umani, la triade ‘libertè, egalitè, fraternitè’ sia stata e sia una civiltà pacifica, dove la violenza, quando si sia manifestata, lo abbia fatto però in termini molto contenuti!

A me pare più che evidente che questa civiltà, lungi dall’essere non violenta, grondi invece violenza da tutti i pori. E allora non sarebbe forse da chiedersi se l’errore non stia proprio nell’aver posto il conflitto fuori dall’essere? Cioè non stia nel ritenere che l’essere si fondi unicamente sulla libertà e che quindi tutto ciò che gli si oppone – e che pertanto l’essre concepisce come necessità ostacolante la sua libertà – sia esterno all’essere?

Per la filosofia dialettica il conflitto è in noi, è a fondamento del nostro essere. Libertà e necessità si combattono incessantemente in noi: siamo contemporaneamente volontà di espansione (libertà) e volontà di contrazione (necessità).

La scelta antidialettica di eliminare la necessità dall’essere, per eliminare così il conflitto dall’essere, non ha fatto altro che portare la necessità e con essa il conflitto all’esterno di ciò che noi sentiamo come il nostro essere. Ne consegue che così si sia portati ad incolpare l’esterno dei nostri conflitti.

Non c’è che dire, proprio bella la non violenza di cui si ammanta la nostra civiltà! Ha voluto liberarci dal conflitto interno al nostro essere, per metterci però in conflitto con l’esterno. Ha voluto disconoscere che la necessità è interna al nostro essere, proiettandola così nel mondo esterno.

Il risultato è che lo abbiamo privato della libertà, quindi della volontà, quindi della coscienza. Abbiamo decoscientizzato il mondo,  disanimato affinché la necessità stia tutta fuori di noi, onde affermare che la natura del nostro essere è la libertà.

Si capisce allora che Galilei poteva affermare quindi che il mondo è scritto in caratteri matematici. Questa non è un’asserzione eticamente tanto innocua, come crede la nostra scienza capace di pensare solo secondo il principio di non contraddizione.

Un mondo scritto in caratteri matematici è un mondo ridotto a pura quantità, numero; è un mondo fatto di oggetti, dove gli animali – come diceva Cartesio – sono automi privi di coscienza, dove la natura tutta è oggettivata, per cui totalmente altra rispetto alla nostra soggettività.

Grazie Galilei e tutti i tuoi sodali per la solitudine che ci avete regalato! Ci avete dato una potenza immane con cui signoreggiamo sulla natura, ma non avete tenuto conto che la paghiamo con la perdita di ogni sentimento d’amore verso di essa.

 

Pretendere di negare la natura conflittuale dell’essere non è per niente una scelta non violenta, anzi! Essa è espressione della volontà di potenza, della volontà che la nostra libertà non sia ostacolata da nessuna necessità.

Non fu certo casualità che progresso scientifico e ideologia della non violenza siano entrambi figli del pensiero antidialettico, al cui fondamento sta il sentimento di una smisurata volontà di potenza.

Scopo della potenza è di allontanare il conflitto dall’essere, dalla nostra vita cioè. Ma questa è la stolta illusione di una civiltà folle.

Rifiutare di accogliere nel nostro essere la necessità, perchè ci causerebbe conflitto, è rifiutare di operare una scelta di natura etica fra le varie volontà che si disputano la guida del nostro essere. E’ immorale concedere la libertà a qualsiasi volontà da cui decidiamo di farci guidare.

Il pensiero dialettico, affermando che la necessità è a fondamento dell’essere al pari della libertà, sottolinea il ruolo positivo della necessità, che non è quello di frenare la libertà di qualsiasi nostra volontà, ma solo di quelle volontà che più si allontanano dalla realizzazione piena dell’autentica natura dell’essere, che è l’unità. La necessità è il giudice dell’eticità della volontà con cui ci identifichiamo e quindi con cui progettiamo la realizzazione del nostro essere.

Ne consegue che necessità e libertà non sono opposti inconciliabili, come pretende il pensiero antidialettico. Lo sono solo nella misura in cui non si pongono al servizio dell’essere cioè – repetita iuvant – dell’unità intesa come bene comune, etica.

Solo assegnando il primo posto all’etica nella scala dei valori, e quindi riconoscendo che essa rappresenta il vero scopo, capace di dare una significatività autentica e non effimera all’essere, è possibile comporre il dissidio fra libertà e necessità.

Porre la libertà al primo posto è considerarla un fine, è ritenere che essa e solo essa dia significatività all’essere. Ma rifiutando il vaglio etico della necessità, abbiamo a che fare con una libertà che si configura come volontà di potenza: una libertà che ha bisogno della potenza per rimuovere qualsiasi necessità che la ostacola; una libertà antidialettica, una libertà che potremmo anche definire scientifica perchè in linea con la logica del principio di non contraddizione, con la logica del principio d’identità.

Si tratta di una libertà al servizio unicamente dell’identico e che rifiuta quindi l’altro, una libertà al servizio di un essere che vuole rimanere uguale a sè, identico e che pertanto rifiuta di diventare altro. E’ questa la libertà degli slogan di sessantottina memoria del ”Vietato vietare”, “Vogliamo tutto e subito”: la libertà di un ego bambino, per il quale essa consiste nella coincidenza fra volere ed essere. Tale ego concepisce la libertà come realizzazione immediata di ogni desiderio: la volontà deve diventare ipso facto essere, senza alcun ostacolo temporale e spaziale che ne pregiudichi l’attuazione.

 

Il concepire la libertà come identità fra volere ed essere comporta l’eliminazione di qualsiasi distanza fra di loro. La volontà, realizzandosi all’istante (cioè divenendo essere all’istante) finisce per coincidere con se stessa, perdendo così qualsiasi possibilità di tendersi oltre i chiusi con – fini della sua identità.

Assenza di tensione è però perdita della capacità di moto. Tale volontà si sente libera solo essendo immobile, perchè nessun ostacolo la allontana dalla sua realizzazione. Ma una volontà immobile diventa necessità. E’ proprio della necessità infatti impedire il moto.

 

Insomma, non si può sfuggire alla dialettica. La nostra civiltà ha voluto e continua a voler rimuovere la necessità perchè non contrasti il suo valore-guida – la libertà – e la conseguenza  è che non abbiamo fatto altro che ingrandire sempre di più il peso della necessità nella nostra vita.

Una volontà, che vuole realizzarsi immediatamente, non può che volere avvicinare ciò che desidera, in modo tale da annullarne la distanza, l’alterità, onde poterlo conglobare nel suo essere.

Ma che congloba? Ciò che è stato privato della distanza, dell’estensione, della capacità di sfuggire a ciò che vuole catturarlo, necessitarlo; congloba ciò che è stato privato della libertà; congloba la necessità, il finito. E’ una volontà quindi che vuole solo ciò che è materiale – ciò che è finito, appunto.

Ma così ci nega l’esperienza del durare, dell’andare oltre, della trascendenza, consegnandoci ad una finitezza che ci disanima, nel senso che fa venir meno la capacità di animarci, cioè di essere causa del nostro essere.

In modo più sintetico, una volontà che vuole realizzarsi, cioè diventare essere all’istante, è una volontà che coincide con se stessa, quindi una volontà immobile, finita, quindi una volontà che si fa necessità (ripetiamo che necessità significa blocco del moto, dal latino ne – cesse = non avanzare).

Il volere tutto e subito comporta dunque la fine del volere. Infatti, quanto minore è la distanza fra la volontà e la sua realizzazione, tanto minore sarà anche la tensione di tale volontà. E che cos’è la volontà se non un tendere verso?

Chi vuole tutto e subito rifiuta la necessità: rifiuta tutto ciò che si frappone fra il volere e l’essere, cioè fra la volontà e la sua realizzazione.

Non capisce però che senza l’ostacolo della necessità viene meno la tensione, che della volontà è l’anima.

E senza tensione siamo condannati a non poter uscire dalla chiusura della nostra definizione; condannati a coincidere con ciò che siamo nel presente, a vivere in un presente privo della tensione verso il futuro, il nuovo. Il futuro ci si presenterà  solo come ripetizione del presente, un futuro quindi totalmente prevedibile.

Tale modalità di futuro, a ben vedere, è poi l’ideale di futuro proprio della scienza: un futuro necessitato, perché determinato in toto da una causa che sta nel passato, nella dimensione temporale del finito. Per la scienza, è il finito che crea il futuro, e lo crea finito perché non possa così uscire dai con – fini assegnatigli e di conseguenza non diverga, cioè non si muova in direzione opposta alla nostra volontà di appropriarcene.

La scienza però non riflette sul fatto che così ci appropriamo solo di ciò che è finito, di ciò che possedendolo non fa altro che arricchirci di finitezza. La volontà di potenza è dunque volontà di finito, volontà che l’essere sia finito, in una parola nichilismo.

 

Come già detto, una libertà posta in testa alla scala dei valori non può che essere al servizio della volontà di potenza, con tutto ciò che ne consegue: la fine dell’essere.

Credo, pertanto, che solo una metanoia radicale possa salvare la civiltà attuale dal nichilismo.

E’ più che mai necessario che l’etica riassuma la primazia che le è stata sottratta; necessario che la libertà non sia al servizio di se stessa, secondo la logica scientifica del principio d’identità, ma al servizio di ciò che le è altro, cioè l’etica.

Bisogna raggiungere lo stato di coscienza per cui ci sentiamo liberi solo nella misura in cui poniamo l’etica quale scopo della nostra volontà. In altre parole, la libertà autentica non è al servizio dell’ego, ma del bene comune, l’etica.

Attenzione però che tali asserzioni si prestano facilmente ad essere fatte proprie dall’idealismo ingenuo dei buonisti e dei non violenti senza se e senza ma. L’identificarsi con una volontà avente per scopo l’etica può sembrare cosa più o meno facile, quando la contrapposizione fra io e l’altro si mantiene entro limiti che non vanno ad intaccare profondamente i confini dell’essere con cui mi identifico.

Ma quando si arriva ad una contrapposizione in cui il bene altrui diventa una minaccia verso ciò a cui sono più attaccato,  le cose si fanno ben più drammatiche.

Nella vita della natura agiscono certamente forze di carattere etico come ad es. le cure parentali, l’incredibile dedizione con cui le api si votano al bene comune dell’alveare, etc; ma è anche vero che gli esseri sono mossi dalla logica del “mors tua, vita mea”. La leonessa sarà pure una madre affettuosissima per i suoi cuccioli, pronta a sacrifici anche estremi per essi; ma nel contempo spietata con le sue prede. Verso di esse, l’essere con cui si identifica la leonessa è sordo al richiamo del bene comune. L’istinto di sopravvivenza del corpo la mette in contrapposizione con l’etica.

Ma allora la volontà che è al servizio dell’istinto di sopravvivenza è antietica? Tutto quello che mi sento di dire è che una risposta univoca è antidialettica.

Una risposta dialettica è invece sempre duplice: l’istinto di sopravvivenza è sia etico che antietico. E’ una risposta che, proprio perchè dialettica, non può che mantenere vivo il conflitto, sottolineando così l’essenza contraddittoria della vita stessa.

Da ciò l’impossibilità di poter formulare in termini chiari e precisi i criteri con cui giudicare ciò che è etico e ciò che non lo è. Non esistono di per sè come un qualcosa di oggettivo, perchè l’etica non può prescindere dall’apporto della nostra soggettività. A tal proposito Maestro Eckhardt affermò: “Non è l’azione che ci santifica, siamo noi a santificarla”. E’ lo scopo per cui facciamo qualcosa a determinarne l’eticità o meno.

Ma – si dirà – lo scopo dell’etica è cosa oggettiva: la realizzazione del bene comune. Si potrebbe quindi obiettare a Maestro Eckhardt e a coloro che ritengono che non si possa escludere la componente soggettiva circa il giudizio etico sull’agire, che sì, l’etica può essere valutata oggettivamente in base alla rispondenza o meno a un criterio oggettivo:   scopo dell’agire etico è il bene comune. Ma che il bene comune sia cosa che può essere stabilita oggettivamente non è così pacifico.

L’espressione bene comune sembra indicare un concetto oggettivo perchè l’aggettivo “comune” si riferisce alla totalità, escludendo quindi la parzialità di ciò che è soggettivo. Il bene comune quindi richiederebbe la disidentificazione del nostro essere dall’attaccamento alla finitezza della parzialità della nostra soggettività.

In termini più terra terra, ciò vuol dire che la realizzazione completa del bene comune richiede che non dobbiamo più identificare il nostro essere con la finitezza del nostro corpo; richiede di porci al di là di ciò che ci finisce, cioè la necessità, al di là della necessità massima, la morte. Ciò è possibile solo se risvegliamo in noi la nostra essenza infinita e ci identifichiamo con essa.

 

Il bene comune, l’etica, non si dà nella dimensione del finito, della materia, della corporeità, ma solo in quella dell’infinito. E d’altra parte il finito è divisione, separazione; il contrario della condivisione, dell’unione proprie del concetto di bene comune.

Il bene comune, la cui ideologia è il comunismo, è un concetto assolutamente spirituale. Infatti esso è possibile solo trascendendo il finito materiale.

Fra parentesi, ridicolo appare quindi un certo marxismo d’accatto, più engelsiano che marxiano per altro, nel voler porre in relazione il comunismo al materialismo, credendo così di poter scientificizzare il comunismo, staccandolo dal suo fondamento etico-spirituale.

Ma sia chiaro: quando abbiamo detto che il bene comune è possibile solo nella dimensione dell’infinito, ciò non vuol certo dire disconoscere il valore del finito. Bisogna fare attenzione che il fatto che il finito dev’essere trasceso non sia inteso come una rimozione del finito.

Dunque, il bene comune ha sì a che fare con la totalità – e in ciò risiede la sua natura oggettiva – ma essa non può prescindere dalla parzialità della nostra soggettività. All’unità rappresentata dalla totalità si arriva solo passando attraverso la molteplicità delle soggettività. Il bene della totalità, il bene nella sua manifestazione oggettiva non può prescindere dal bene singolo delle soggettività.

Ma come si fa a giungere ad una sintesi in cui il bene altrui (il bene oggettivo) coincida col bene personale, soggettivo? In cui il bene del leone coincida con quello della gazzella?

 

La civiltà postrinascimentale, col suo primato della libertà, concepisce il bene solo nella sua declinazione soggettiva. Per essa, il bene soggettivo non dev’essere condizionato dalla necessità, cioè dalle limitazioni imposte dal bene altrui.

Si dirà che nella nostra civiltà vige anche la norma che la libertà individuale dev’essere temperata dal rispetto di quella altrui. Ma questa, come già detto, è solo un’ipocrita dichiarazione d’intenti. Nella realtà, assegnando il primato alla libertà, è di necessità che si imponga solo la libertà del più forte, della parte più potente su quelle più deboli. Ne consegue che il conflitto fra bene comune e bene individuale non conosce sintesi – e non può esserci perchè la civiltà della potenza tecno-scientifica si fonda sul pensiero analitico – ma solo la vittoria del secondo sul primo.

 

Passiamo ora alla civiltà prerinascimentale. Essa riconosceva la primazia all’etica, il cui garante era il sommo bene, Dio. In merito al conflitto fra il bene proprio e quello altrui, dimostrava la sensibilità etica di ritenere possibile la sintesi cioè un bene più alto nel quale entrambi si riconoscessero.

Giustamente, non cadeva nell’ingenuità di pensare che l’etica potesse realizzarsi nella dimensione finita del mondo terreno. Esso era irrimediabilmente corrotto dalla grande intuizione, dogmatizzata dall’assunto del peccato originale, che il conflitto fra bene proprio e altrui non può avere risoluzione nella dimensione del finito.
In essa non c’è posto quindi per la non violenza, giacchè essa origina proprio dall’attaccamento al finito. Per la religione la fine del conflitto, la non violenza sono possibili solo nella dimensione dello spirio, cioè solo trascendendo il finito.

Le religioni peccheranno forse di ingenuità nelle loro descrizioni dell’aldilà; ma almeno non cadono nell’ingenuità, psicologicamente molto più grave, di credere al paradiso in terra. Alla fine sono molto meno ingenue dei tanti atei convinti e che però credono che nella finitezza del mondo terreno sia possibile costruire una società etica con l’azione non violenta.

Il finito genera molteplicità e quindi anche conflittualità. Una concezione materialista dell’essere, quindi, comporta che l’essere sia identificato con la parzialità, il che lo porta a confliggere col bene comune della totalità.

Il fatto che abbiamo finora optato con decisione a favore della civiltà prerinascimentale rispetto a quella successiva, colpevole di aver detronizzato l’etica a favore della libertà, non significa certo un’adesione acritica ad essa, tutt’altro.

Il cristianesimo ha senz’altro il grande merito di aver affermato che il finito è gravato dal peso del peccato originale, consistente nell’identificare l’essere con la nostra parzialità, da cui anche la parcellizzazione del bene, per cui esso non potrebbe che manifestarsi come bene privato, egoistico. Il male risiede quindi nell’attaccamento al finito; il bene nel distacco dal finito, nel trascenderlo per tendere verso l’infinità dello spirito.

Ma come ha inteso il cristianesimo il distacco, la trascendenza dal finito? Diciamo che in linea di massima ha inteso ciò in modo platonico, facendo sì che la trascendenza dal finito ne diventasse una sua rimozione. Se per il cristianesimo il finito materiale e corporeo è soggetto al male del peccato originale, per Platone è la dimensione dell’ignoranza: “Il corpo è la prigione dell’anima” e “L’anima nel corpo conosce in modo imperfetto”.

Ora, una cosa è evidente: sia la valorizzazone massima del finito propria della civiltà fondata sulla libertà, sia il suo rifiuto sono entrambe posizioni antidialettiche.

L’odierna libertina e liberista civiltà si propone di eliminare i vincoli della necessità che grava sul finito con la potenza della tecnica, il cristianesimo rimuovendo il finito, dopo averlo demonizzato col peccato originale.

Certo, rispetto al positivismo scientista, la religione ha il merito di riconoscere che la dimensione materiale è segnata dal male, e che la trascendenza dal male è possibile solo trascendendo il finito del mondo materiale.

Ma il finito non si trascende, come fece il cristianesimo, rifiutandolo. La trascendenza è un processo dialettico. Infatti il moto per andare oltre è generato solo dal conflitto fra gli opposti.

Purtroppo, il cristianesimo, nonostante differisca nettamente dalla scienza perchè pone l’etica e non l’accrescimento della potenza – come fa la scienza – quale fondamento dell’esistenza, condivide con essa un’impostazione antidialettica.

La sua opposizione alla scienza, pertanto, fu ed è più ideale che reale. Rimuovendo il finito, perché segnato dal male, il cristianesimo lo lasciò così alla scienza che lo plasmò secondo i suoi intendimenti.

Ora, non è che nella teologia cristiana non ci fossero delle intuizioni dialettiche; ci furono, solo che rimasero marginali, e certo non diedero frutti tali da pregiudicarne il sostanziale impianto antidialettico.

Una di queste fu ad es. l’interpretazione del peccato originale come una “felix culpa”. L’ossimoro della colpa felice fonda dialetticamente il male del finito con il bene della trascendenza dal finito stesso. Il finito/male è necessario perchè ci possa essere una trascendenza. Il cristianesimo purtroppo relegò l’intuizione della “felix culpa” ed altre ancora nella sfera del poetico, accostandosi a questa solo col sentimento, evitando così che tali contraddizioni si estendessero alla totalità della condizione esistenziale umana.

Ma così facendo, il cristianesimo ha completamente tralignato dalla grandiosa intuizione che dovrebbe essere a fondamento del suo messaggio: l’infinito di Dio che, incarnandosi, si fa finito.

Che è diventato tutto ciò nella dottrina ufficiale cristiana? La congiunzione degli opposti finito-infinito è stata ridotta ad evento unico, riguardante la sola figura di Cristo: solo in lui si è attuata la sintesi di finito ed infinito. Ma ciò equivale a dire che il principio dialettico si è realizzato solo in Cristo e che quindi esso non è proprio della vita stessa, che è trascendente la vita.

Il risultato, quindi, è che la dialettica non è riconosciuta come una modalità esistenziale accessibile all’uomo, che lo immetta nel cammino della trascendenza dal finito, ma come una modalità di essere propria solo di Dio.

Dunque, in sintesi, il conflitto dialettico fra gli opposti avrebbe luogo solo in Dio, e solo in lui avrebbe luogo la trascendenza, cioè il moto che trasforma la dualità conflittuale in unità. Per il cristianesimo, ed in genere per tutte le religioni, solo a Dio è possibile conciliare gli opposti: bene e male, libertà e necessità, infinito e finito.

Ora, se l’essere è uno, come ci insegna non solo la vera filosofia, ma ormai anche la fisica, allora ne consegue che per le religioni l’essere compete solo a Dio, giacchè solo lui, secondo esse, può trascendere la dualità degli opposti per creare l’unità. Dio è essere perchè è creatore; l’essenza dell’essere infatti è proprio quella di creare.

Cosa vuol dire infatti creare? Vuol dire produrre unità, e la si produce creando legami, onde contrastare le forze separanti, il cui scopo è di annullare la consistenza dell’essere. La natura dell’essere è di con – sistere, cioè di stare insieme, di costituire un’unità. Ciò però richiede un’infinita attività creatrice di legami. L’essere, Dio, è perchè crea incessantemente. Se smettesse di creare, finirebbe anche il suo essere.

 

Certo, le religioni non possono negare che l’uomo abbia l’essere; ma gli attribuiscono un essere cui manca l’essenza specifica dell’essere, quella di essere creatore di se stesso. Le religioni, ritenendo che l’essere delle creature venga loro dal creatore, affermano con ciò che alle creature l’essere venga loro da un altro da sé, da Dio cioè. L’essere viene così distinto in essere creatore ed essere creatura, essere causante, ed essere causato. Ora, nell’essere creatore la  causa e l’effetto coincidono, giacché l’essere creatore è causa di se stesso, e quindi di un altro essere creatore. In altre parole, nell’essere creatore la causa produce come effetto un altro essere creatore, un’ altra causa. Ne risulta quindi che l’essenza di tale essere è l’unità, in quanto in esso causa ed effetto sono la stessa cosa. Ben diverso è invece l’essere della creatura. Il fatto che il suo essere gli venga da un altro comporta che tale essere sia, per così dire, un essere parziale, in quanto privo della capacità di generare se stesso. Ma che significa essere parziale o, meglio, essere in modo parziale? Significa sentire che al proprio essere manca la componente fondamentale, l’essere causa di sé. Dato che l’essenza dell’essere è l’unità, ne risulta che quanto meno ci sentiamo causa di noi stessi, tanto meno sentiamo di essere in modo pieno, cioè tanto meno avvertiamo la significatività del nostro essere, perché non abbiamo realizzato la sua essenza, che è l’unità. Le religioni, dunque, mediante la separazione fra creatore e creatura, rompono il legame nell’essere, da cui un sentimento di mancanza che non può venir colmato cercando di creare un legame con gli altri esseri. L’unità dell’essere la possiamo ricostituire solo in noi, riconoscendo che noi siamo causa di noi stessi; il che, poi, si traduce nel sentire che il nostro essere e la nostra volontà coincidono, sono un’unità.

Ovviamente, le religioni potrebbero controbattere che esse anzi promuovono i legami: non predicano infatti l’amore verso il prossimo e verso Dio? Dimenticano, però, che il primo amore dev’essere verso noi stessi. Non certo un amore narcisista, un amore avente per scopo un bene individuale. Amare se stessi dovrebbe essere inteso come volontà di riconciliarci col nostro essere, volontà di realizzare in noi l’unità fra ciò che sentiamo essere motivo di conflitto nella nostra vita.

Su quanto valgano le prediche delle religioni sull’amore lasciamo ai fatti il giudizio! 2.000 anni di cristianesimo, di religione dell’amore, e qual è il risultato? Un mondo dove la violenza, l’odio, gli impulsi nichilisti mai sono stati così forti.

Con questo non voglio certo dire – e ci tengo a sottolinearlo – che senza le religioni il mondo sarebbe migliore. La mia non vuole certo essere una critica distruttiva nei confronti delle religioni; tutt’altro, vuole essere invece una critica costruttiva.

Sono convinto che senza il cristianesimo la civiltà europea sarebbe stata ancor più distruttiva. Non per niente al giorno d’oggi non si può non constatare che l’incremento del nichilismo va di concerto con la scristianizzazione della società.

L’attacco al cristianesimo mira a distruggere quel poco di etica che ancora è rimasta nella nostra società, per allentare ancora di più i freni al corso di una libertà al servizio unicamente delle forze disgreganti dell’ego.

Per fermare queste, però, sono altresì convinto che occorra rifondare l’etica su una base molto più solida di quella finora fornita dalle religioni in genere. (Per semplificare le cose, d’ora in poi limiterò la mia disanima sulle religioni al solo cristianesimo, in quanto ormai tutte le religioni sostanzialmente si fondano su una stessa concezione della vita).

 

L’errore capitale del cristianesimo è di aver rinunciato a chiarire che la nostra vita può indirizzarsi verso il sommo bene (Dio) solo mediante la scelta di vivere secondo una modalità esistenziale fondata sulla dialettica.

Il cristianesimo non nega la modalità esistenziale  dialettica, come fa lo scientismo imperante; ma la ritiene possibile solo a Dio. Solo in lui finito ed infinito possono coesistere. Solo lui può trasformare il male insito nel finito, e rappresentato dal peccato originale, nel bene della “felix culpa”.

Così facendo, però, per il cristianesimo alla dimensione materiale della vita, all’aspetto finito dell’essere non è possibile vivere in modo dialettico: il mondo materiale sarebbe retto dal principio antidialettico dell’inconciliabilità degli opposti.

Cristianesimo e scienza quindi concordano nel ritenere che il mondo materiale è antidialettico.

Differiscono però nel fatto che l’antidialetticità della scienza è radicale, mentre quella del cristianesimo è parziale.

Per la scienza, infatti, l’essere si dà solo come finito; quindi non ammette alcuna dialettica, in quanto viene addirittura negata la controparte dialettica cioè l’infinito.

Il cristianesimo invece ammette che ci sia la dimensione infinita dell’essere, rappresentata da Dio. Ammette quindi che nell’essere siano presenti gli opposti finito ed infinito. Ammette pure che l’infinito, Dio, possa congiungersi col finito, come sta ad indicare il dogma dell’incarnazione di Dio nell’uomo Gesù.

Quello però che il cristianesimo non ammette è che l’essere nella sua totalità si fondi sull’unione degli opposti. Per il cristianesimo solo in Dio è possibile la coesistenza di finito ed infinito – e anche questo poi relativamente  al solo evento dell’incarnazione, non nell’uomo. L’uomo è solo finito; l’infinito è fuori di lui, è in Dio.

Ora la modalità esistenziale dialettica si basa sull’assunto che la recoproca alterità degli opposti possa essere trascesa, riconoscendo così che l’opposto di ciò con cui mi identifico non è altro da me, ma appartiene al mio stesso essere.
Sulla base di ciò è evidente che tale modalità esistenziale, secondo il cristianesimo, non è accessibile all’uomo. Infatti per il cristianesimo Dio rimane sempre altro rispetto all’uomo; l’infinito di Dio non è in noi, non appartiene al nostro essere; il nostro essere non si fonda quindi sulla dialettica, è costituito solo di finito, privo quindi del suo opposto, l’infinito.

Come può quindi per il cristianesimo la nostra vita incamminarsi verso il sommo bene, Dio?

Come può la nostra separazione dall’infinito, che si concreta nell’attaccamento al finito psicofisico della nostra persona, essere superata se tale separazione è un dato di fatto oggettivo?

Come detto, il fatto che il cristianesimo ritenga che l’essere dell’uomo sia costituito unicamente di finito comporta l’esclusione per noi della modalità di esistenza dialettica, col risultato quindi che le nostre scelte esistenzali si fonderebbero solo sul principio di non contraddizione. Dunque anche per il cristianesimo, come per la scienza, un principio può affermarsi solo annullando il suo opposto.

La volontà di Dio, che è poi la manifestazione del sommo bene – l’etica – si realizzerebbe solo annullando la volontà di attaccamento alla nostra finitezza e quindi alla volontà di attaccamento al nostro essere, giacchè esso sarebbe composto solo di finitezza. L’infinito di Dio può realizzarsi solo annullando il finito che noi siamo.

Quanto il cristianesimo è intriso di questa logica! Per limitarci a un solo esempio, pensiamo alle farneticazioni di un Jacopone da Todi che invocava Dio di mandargli “la malsania et onne malattia”. Il suo tendere versoDio è tutto all’interno del principio di non  contraddizione: nego il mio essere perchè si realizzi quello di Dio. L’essere di Dio è altro rispetto a lui, per cui il vero e autentico essere, che sarebbe quello di Dio,  si trova fuori di lui,  e dunque rispetto a lui diventa cosa oggettiva.

Come ci si può non chiedere che razza di percorso spirituale sia quello che porta all’oggettivazione dell’essere, un percorso che si muove lungo gli stessi binari della scienza, quelli appunto che considerano l’essere unicamente come oggetto! D’altra parte non c’è affatto di che stupirsi: uno stesso approccio all’essere, quello del principio di non contraddizione, non può che portare agli stessi risultati.

La differenza tra scienza e cristianesimo sta però nel grado di oggettivazione dell’essere: nel caso della scienza è totale, in quello del cristianesimo è parziale.

Infatti l’essere di Dio è sì sentito come altro dall’uomo nella relazione che ha con esso; ma in riferimento a Dio stesso, l’essere è soggettività.

Ne consegue che, mentre nel rapporto dell’uomo con la concezione dell’essere che ha la scienza è escluso qualsiasi desiderio di legame con l’essere – non è infatti possibile legarsi a un oggetto, a meno che non lo psichicizziamo tramutandolo in un simbolo evocatore di emozioni – in quello dell’uomo con Dio – essendo Dio un soggetto –  tale desiderio c’è.

Esso fa sì che nel cristianesimo non si perda del tutto il sentimento che l’essere è anche soggetto. E non solo l’essere di Dio lo è – questo ovviamente è cosa evidente per qualsiasi religione – ma anche il nostro essere, giacchè solo se abbiamo una soggettività possiamo desiderare di legarci con un’altra.

 

A ben vedere poi, anche la tesi della scienza che l’essere sia cosa oggettiva può realizzarsi solo mercè l’azione di una soggettività. Infatti c’è pur sempre bisogno di una volontà, per interpretare e poi trasformare – o meglio illudersi di trasformare – l’essenza dell’essere da volontà creatrice a necessità creata, la cui creazione, in assenza di qualsiasi volontà, non può che essere casuale.

Chi sostenga poi che l’essere è da sempre rimane comunque all’interno della casualità. Infatti se l’essere è da sempre, vuol dire che precede la causa, per cui non può essere causato.

Qualcun altro potrebbe ancora ribattere che l’essere non è causato, ma che l’essere è causa di se stesso. In tal caso sarebbe sia causa di sè che effetto di sè, sarebbe rispetto a sè sia preesistente che postesistente.

Ma quale può essere la natura di questo legame? Beh, non si tratta certo di un legame alla parri, bensì di una sottomissione dell’uomo alla volontà di Dio.

A ben vedere poi, non si potrebbe neppure parlare di legame, perchè esso presuppone che ci siano almeno due parti distinte affinchè la forza di legame possa operare.

Ora se l’uomo rinuncia alla sua finitezza, rimane solo l’infinito di Dio, per cui non ha senso parlare di legame fra l’uomo e Dio. Non si tratta di un legame dialettico dove il due si fa uno. L’unità di questo pseudolegame è la conseguenza dell’annullamento dell’uomo, per cui rimane solo l’essere di Dio.

Ma che razza di essere è mai questo? Un essere che non è tenuto insieme dalla forza del legame, e che quindi la sua unità è data dalla potenza con cui una parte sottomette l’altra.

Quanta analogia ancora fra cristianesimo e scienza!

Per entrambi l’unità dell’essere è prodotta dalla potenza. La differenza è che, mentre per la scienza è il finito che grazie alla potenza della tecnica sottomette l’infinito, per il cristianesimo, invece, il finito che è l’uomo deve rinunciare a se stesso, alla sua potenza per sottomettersi all’infinito di Dio.

Sottomettere e sottomettersi sono sì due cose opposte; entrambe però basate sullo stesso principio, la potenza. Che l’uomo usi la potenza o che rinunci ad essa, entrambe le tesi convergono nel ritenere che è la potenza a creare l’unità dell’essere.

D’altra parte il fatto stesso che il cristianesimo inviti l’uomo a rinunciare a se stesso comporta evidentemente la rinuncia al legame e di conseguenza lo sposare la tesi che l’unità è prodotta dalla potenza.

Ora l’unità prodotta dalla potenza è l’unità fondata sul principio di non contraddizione, un’unità dove l’essere è uno perchè totalmente coincidente con se stesso, differenziandosi totalmente perciò dall’altro da sè. E’ un’unità narcisista, dove il legame – se di legame si può parlare – è quello dell’essere con se stesso; un’unità che, escludendo qualsiasi legame con l’altro, è intesa come sempre uguale a se stessa, statica, non diveniente.

L’essere, in cui l’unità si fonda sul principio di non contraddizione, è un essere totalmente necessitato (la necessità infatti è ciò che ostacola il moto), un essere oggettivato, ridotto a cosa, un essere impossibilitato a sottrarsi alla volontà manipolatrice della potenza.

 

Ritornando all’opposizione di finito ed infinito,  analizziamo ora se la rinuncia dell’uomo al finito del suo essere, come il cristianesimo ci invita a compiere, è autentica o fittizia. La risposta è che è fittizia, e la ragione è evidente.

La rinuncia dell’uomo alla sua finitezza comporta anche l’impossibilità di pensare l’essere come legame di finito ed infinito. Per il cristianesimo è mediante la rinuncia alla nostra finitezza che permettiamo all’essere autentico, quello di Dio, di manifestarsi nella sua essenza, che è l’infinitezza. Così la pensa il  cristianesimo, a rigor di logica però le cose stanno ben altrimenti. Infatti se anche per il cristianesimo l’unità dell’essere è fondata non sul legame, ma sulla potenza, se ne deduce che anche per Dio l’essere è cosa finita. Come detto infatti, la potenza su cui si fonderebbe l’essere non può che esplicitarsi sul finito.

Il cristianesimo dunque predica sì la rinuncia dell’uomo al finito, ma intendendola come rinuncia al finito del suo essere, non al finito inteso come condizione perchè la potenza – anche quella di Dio ovviamente – possa esplicarsi.

L’autentica rinuncia al finito però non consiste solo nella rinuncia alla propria finitezza, ma anche e soprattutto a considerare l’essere come finito; il che poi, per quanto detto, comporta pure la rinuncia a considerare che l’essere si fondi sulla potenza.

Fin quando l’attributo fondamentale di Dio sarà l’onnipotenza è giocoforza che si trasformi l’essere di Dio in qualcosa di finito. Anche il rinunciare al proprio essere – come ci invita a fare il cristianesimo – perchè si manifesti l’essere di Dio, ci mantiene quindi sempre all’interno di una concezione dell’essere come finito.

Fra parentesi ci sarebbe anche da aggiungere che tale concezione dell’essere non può che rendere prima o poi obsolete un po’ tutte le religioni, giacchè è il pensiero scientifico (escludendo quello disposto a mettere in discussione il proprio fondamento: il principio di non coontraddizione) il più conseguente con tale concezione.

Infatti è sotto gli occhi di tutti che più una società è progredita dal punto di vista tecno-scientifico, più tende a dereligionizzarsi. Patetica quindi la corrente modernista interna al cristianesimo nella sua illusione di una convivenza pacifica di religione e scienza.

Il cristianesimo, ritenendo che la rinuncia al finito consista nella rinuncia a identificarci col nostro essere perchè finito, intende la rinuncia al finito come rinuncia alla finitezza di un essere determinato, definito, del nostro stesso essere cioè. Ma questa è la rinuncia al finito di un essere de – finito. Non è una rinuncia al finito nella sua totalità, ma solo la rinuncia ad un finito de – finito, una rinuncia parziale dunque.

L’autentica rinuncia al finito è rinuncia a qualsiasi finito, non al finito nel suo aspetto quantitativo – definito, quindi numerabile – ma nel suo aspetto qualitativo, rinuncia alla finitezza: dunque rinuncia a considerare l’essere come finito.

Rinuncio al finito pertanto,  non considerando il mio essere come qualcosa di solo finito – altrimenti rinuncerei solo a un finito definito – ma postulando che nel mio essere ci sia anche l’aspetto infinito. In tal modo la rinuncia all’aspetto finito del mio essere non è più una rinuncia a un finito definito, ma a un finito infinito cioè rinuncia a  qualsiasi finito, quindi rinuncia alla finitezza.

La particolarità di questa rinuncia è che non è fatta secondo la logica del principio di non contraddizione, cioè una rinuncia al finito intesa come un suo annullamento, ma secondo quella della dialettica. Per essa la rinuncia al finito consiste non in un suo annullamento, ma in una sua trasformazione.

Questa però è possibile solo all’interno di una concezione dialettica del finito, concependolo anch’esso – come ogni manifestazione dell’essere d’altra parte – come dualità contenente in sè il suo opposto, l’altro da sé, cioè  l’infinito. E poichè contiene in sè l’altro da sè, il finito può diventare altro, trasformarsi.

Se per il principio di non contraddizione il finito appartiene unicamente al passato, alla dimensione della necessità, per la dialettica il finito, in quanto è sì finito, ma anche non finito,  si sporge anche nel futuro. E’ un finito quindi capace di azione, da intendersi quindi non solo come coniugato al passato, ma anche al futuro: un finito che diventa così azione del finire.

L’autentica rinuncia al finito è quella che rinuncia a concepire il finito come passato, che rinuncia a concepire il finito del nostro essere come cosa congelata in un passato, la cui necessità assoluta fa di noi delle cose.

E’ solo in virtù di questa rinuncia che il finito del nostro essere può animarsi, il che – etimologicamente parlando – vale a dire percepire l’anima che è in noi. E che cos’altro è l’anima se non la potenzialità che è in noi di trascendere la nostra finitezza? La condizione per cui ci sia la trascendenza è che ci sia pure il finito. Infatti è il finito che si trascende. Grazie alla nostra finitezza ci è quindi offerta la possibilità di trascenderla e di volgerci dunque all’infinito.

La vera rinuncia al finito non consiste nell’annullamento del finito in noi, ma nel suo trascendimento; cioè nella rinuncia all’attaccamento ai nostri limiti, alla nostra pochezza, finitezza.

 

Attenzione qui al pericolo del richiamo delle sirene della scienza. Anch’essa ci lusinga con la promessa di liberarci dai nostri limiti grazie alla potenza della tecnica.

Ma di che liberazione si tratta? La tecnica ha per scopo di accrescere la potenza del finito che noi siamo. In virtù di questa maggiore potenza a nostra disposizione abbiamo così la sensazione di essere più liberi, perchè grazie alla potenza aumenta anche la capacità della nostra volontà di realizzare i suoi desideri.

Ma la volontà di chi è maggiormente in grado di realizzare i suoi desideri? La volontà del finito con cui ci identifichiamo. E’ il nostro finito che diventa più libero. Ciò non ci libera affatto dal finito, anzi produce in noi un maggior attaccamento, identificazione col finito.

La vera liberazione dal finito si ha quando è tutto il nostro essere a liberarsi dall’attaccamento, identificazione col solo finito.

Per quanto riguarda la potenza, non si vuole qui criticare la volontà di potenza in sè. La potenza è condannabile quando a volerla è solo il finito, perchè essa dovrebbe appartenere solo al tutto. E’ condannabile quindi la potenza basata unicamente sulla logica del ‘divide et impera’, la logica analitica su cui si fonda la scienza.

Sarebbe più che mai ora che la nostra civiltà si ricordasse che esiste anche la potenza fondata sul legame, una potenza che scaturisce dall’intima convinzione dell’unità dell’essere, dalla convinzione cioè che la potenza non debba essere appannaggio della parte, che la eserciterebbe per dominare l’altro da sè, ma del tutto.

La totalità ovviamente non eserciterebbe la potenza per dominare, perchè non c’è niente aldifuori di essa su cui esercitare un dominio; la potenza si manifesterebbe quindi come sentimento di pienezza dell’essere nel senso che, legando il finito che siamo all’infinito verso cui tendiamo,  realizziamo in noi l’essenza dell’essere, che è appunto l’unità.

 

Rifocalizziamo ora l’attenzione su quella che per la nostra civiltà è la contrapposizione fra etica e libertà.

Come dicevamo, l’etica si fonda sulla tesi che il bene e l’essere coincidono solo se il bene è inteso come bene comune, un bene che si estende al tutto, alla totalità dell’essere. Ne consegue che quanto più sentiamo che il nostro essere è legato al tutto, tanto maggiore sarà la sensazione che la nostra vita è bene.

Ma che vuol dire sentire che la nostra vita è bene? Vuol dire essenzialmente sentirci liberi.

Chi ragiona secondo il principio di non contraddizione obietterà “Come può il legame renderci liberi?”. Dirà che il legame costituisce un vincolo, una limitazione, un freno all’estrinsecazione della libertà.

Ciò è vero, ma solo se identifichiamo il nostro essere con la finitezza del nostro io. Un io finito è un io che si identifica con uno spazio i cui con – fini lo de – finiscono per il fatto di renderlo diverso da tutto ciò che sta fuori. Per tale io l’unicità del suo essere consiste nella diversità, nella separatezza, quindi nella rottura dei legami. E’ ovvio quindi che per lui legame e libertà siano inconciliabili. La libertà cui aspira questo io è quella del finito che si volge al tutto con l’intento di dominarlo e non di costruire un legame finalizzato alla costruzione di un bene comune.

Libertà e legame sono conciliabili solo all’interno di una modalità dialettica di vivere l’essere cioè allorchè sentiamo che il bene del finito che noi siamo è legato al bene dell’infinito, al bene di ciò che è altro rispetto al nostro finito. Attraverso tale legame il bene diventa uno e quindi coincide con l’essere, che a sua volta è uno. Il legame, creando unità, crea contemporaneamente essere e bene, e quindi anche libertà, giacchè essa consiste proprio nel sentimento che essere è bene.

 

Se per la civiltà fondata sulla logica del principio di non contraddizione l’inconciliabilità di identità ed alterità comporta anche inconciliabilità fra ciò che sento essere il mio bene e ciò che invece è il bene altrui, quindi fra la libertà (il mio bene) e l’etica (il bene altrui), per il sentire dialettico invece non c’è libertà senza etica, non c’è bene personale senza bene comune.

Il cristianesimo ha senz’altro il merito di essere rimasto l’unica istituzione autorevole a portare avanti all’interno della nostra società l’istanza etica che il fondamento dell’essere è il bene comune cioè il bene della totalità dell’essere, il sommo bene, Dio. Per il cristianesimo il vero bene, quello che ci fa percepire la significatività del nostro essere, non è quello privato – quello teorizzato dalla concezione atomistica dell’essere propria del capitalismo – ma quello della totalità dell’essere. Solo avendo come scopo la realizzazione di esso quindi, abbiamo accesso al sentimento della significatività dell’essere.

Ma se non si può non convenire col cristianesimo che il fondamento dell’essere è l’etica, non si può nemmeno tacere – come già precedentemente detto – che a nostro giudizio il cammino proposto dal cristianesimo, affinchè viviamo in modo etico, è fallace perchè è fondato sul principio di non contraddizione, un principio non etico perchè separativo. Secondo tale principio infatti non è possibile un legame fra gli opposti: un lato dell’essere può manifestarsi soltanto escludendo il suo opposto, annullandolo cioè.

Ma se come sosteniamo noi, l’essere si fonda sulla dialettica, che consiste nel legame fra gli opposti, non è possibile annullare uno dei due; lo si può soltanto rimuovere, privandolo della libertà di azione e immobilizzandolo così entro una necessità paralizzante.

Per il principio di non contraddizione la necessità entro cui si rinchiude uno degli opposti non è solo rimozione di esso, ma un annullamento vero e proprio. E’ solo annullando un lato dell’essere. mediante la camicia di forza della necessità, che sarebbe possibile la manifestazione dell’essere. Secondo il principio di non contraddizione, l’essere non può manifestarsi come totalità cioè come unione di due poli opposti, ma solo come parzialità di un polo che annulla il suo opposto.

Tale operazione di preteso annullamento richiede il ricorso alla potenza, il cui scopo è ridurre all’impotenza un polo dell’essere – a privarlo della libertà, a necessitarlo – per far sì che il polo opposto possa essere.

La volontà di potenza su cui si fonda la nostra civiltà non è solo semplice volontà di dominio, è infinitamente di più. E’ un bisogno vitale perchè per la nostra civiltà l’essere può esistere solo annullando il suo opposto e per farlo è necessaria la potenza.

Ora siccome è impossibile annullare uno dei due opposti, giacchè l’essere si fonda proprio sul legame fra di loro, la volontà della nostra civiltà di accrescere sempre di più la potenza non può che divenire smisurata. Ciò perchè sentiamo che la potenza di cui disponiamo non è mai sufficiente per annullare il lato dell’essere che si oppone a quello con cui ci identifichiamo.

Dunque la perdita del senso del limite di cui soffre la nostra civiltà è la conseguenza del fatto che vogliamo ciò che è impossibile: vogliamo esistere in modo parziale, eliminando quel che si oppone a ciò che vogliamo essere.

 

L’etica, su cui per il cristianesimo dovrebbe improntarsi la nostra vita, non è possibile all’interno del principio di non contraddizione. Ciò perché l’etica e tale principio hanno una  concezione opposta dell’essere. Per l’etica l’essere deve comprendere la totalità; per il principio di non contraddizione solo una parzialità, escludendo quella che le è opposta. Abbiamo detto ‘deve’, coniugando così l’essere al futuro, perchè l’essere è cosa da costruire. Infatti al presente l’essere con cui ci identifichiamo si sente costantemente minacciato dal suo opposto, il polo dell’essere che rifiutiamo.

Ora mentre per l’etica l’essere, essendo fondato sulla totalità, lo si costruisce mediante un legame fra ciò con cui ci identifichiamo ed il suo opposto, per il principio di non contraddizione invece mediante l’annullamento del polo opposto a quello con cui ci identifichiamo.

Tale principio, proprio perchè ha una concezione dell’essere come cosa parziale, rende impossibile l’etica. Essa infatti ha come scopo il bene della totalità dell’essere.

Per il principio di non contraddizione invece il bene dell’essere non può che essere un bene parziale, poichè l’essere stesso sarebbe parziale.

Sulla base di quanto detto, dovrebbe essere chiaro che l’etica è possibile solo all’interno di una modalità esistenziale dialettica.

Per essere veramente credibile nel suo proposito di voler fondare la società sull’etica, il cristianesimo dovrebbe quindi rifondare innanzittutto il rapporto tra il finito del’uomo e l’infinito di Dio su basi dialettiche. Ciò implica che anche concetti come bene e male, la redenzione stessa dal male del peccato originale, radice di tutto il male successivo, debbano essere ripensati facendo riferimento alla dialettica. Mi rendo ben conto che ciò comporterebbe una tale rivoluzione delle religioni da stravolgere i fondamenti stessi della teologia.

Tanto per fare qualche esempio:

1) la concezione dialettica di bene e male, affermando che nel male c’è anche il bene e viceversa, sembrerebbe portare ad una relativizzazione dei due opposti, col rischio di confonderli rendendoli così equivalenti e rendendo di conseguenza impossibile l’etica.

2) Se finito ed infinito sono fusi insieme, allora nel finito dell’uomo c’è l’infinito di Dio e viceversa.

Certo il cristianesimo ha fatto il grande passo dialettico di affermare che l’infinito di Dio si è fuso col finito dell’uomo nella figura di Cristo e anche, seppure in modo meno manifesto, in Maria la cui finitezza, costituita dal corpo, è congiunta all’infinitezza dovuta all’assenza in lei del peccato originale.

Tuttavia si è ben guardato dall’estendere a tutti gli uomini, anzi all’essere stesso, la concezione che esso si dà solo in modo dialettico, per cui la fusione di finito ed infinito avviene anche in noi.

Ma il non averlo fatto è proprio da imputare a colpa? Rispondiamo pure, senza tema di contraddirci, sì e no. D’altra parte la dialettica si fonda sulla contraddizione, il che comporta che anche qualsiasi giudizio non può essere vero e falso in assoluto, ma solo in modo relativo.

Attenzione però che con ciò non si vuol certo affermare l’equivalenza di qualsivoglia giudizio. Ciò sarebbe devastante sia per la verità che per l’etica.

Si vuole invece dire che la verità è come un seme: germina solo nel terreno adatto ad accoglierla, in quello inadatto marcisce.

Il fatto che per la dialettica la verità sia relativa sta ad indicare che essa si dà solo come relazione, per cui necessita della presenza del due. Non certo però perchè gli opposti rimangano tali – perchè un’affermazione sia indifferentemente vera o falsa – ma perchè giungano poi ad una sintesi.

Ritornando alla domanda se il cristianesimo abbia fatto bene a non dire che la fusione di finito ed infinito, quindi di umano e divino, si è  sì realizzata in Cristo, ma è pure costitutiva, seppure per noi in modo inconscio, del nostro essere, si capisce ora meglio il perchè della contraddittoria risposta sì e no.

La relatività di tale risposta non ha per scopo l’equiparazione di sì e no, ma di affermare che le risposte sì o no hanno valore solo in relazione alle persone cui vengono date.

Quindi una rifondazione dialettica del cristianesimo non può prescindere dal detto evangelico “Non gettate le perle ai porci”. Quella che per la dialettica è una verità – ad es. la compresenza in noi di umano e divino che fa di noi dei potenziali Cristo – non lo è in modo assoluto, ma solo relativo.

La verità esiste in modo assoluto secondo la logica del principio di non contraddizione. Per esso un’affermazione è vera o falsa indipendentemente dalle persone cui è rivolta, per il fatto che ritenendo la verità come cosa oggettiva non la pone in relazione alla soggettività.

La verità dialettica è invece relativa perchè non può prescindere dal chiamare in causa anche la nostra soggettività. Il che sta a significare che la verità richiede l’intervento della nostra soggettività e quindi dellla nostra volontà. La verità dialettica è pertanto cosa da volere; non esiste di per sè, ma è da costruire e può esserlo solo se c’è l’apporto di una volontà che sceglie di vivere secondo la modalità dialettica di realizzare l’unione fra gli opposti.

Circa la compresenza in noi di umano e divino, la dialettica dirà che ciò è vero solo se noi siamo disposti a riconoscerla. E circa il fatto che, al pari di Cristo, anche noi possiamo realizzare la fusione di umano e divino, la dialettica dirà che ciò è vero solo se la nostra volontà è disposta a intraprendere questo gravoso e grandioso compito.

 

Per una rifondazione del cristianesimo su basi dialettiche, il lavoro principale non consiste tanto nel riformulare la teologia secondo i dettami del pensiero dialettico, quanto nel promuovere una modalità esistenziale dialettica, onde stimolare l’emergere in noi di un sentire dialettico.

Se questo è in difetto infatti, c’è il rischio di un fraintendimento clamoroso della dialettica stessa: il rischio di interpretare l’unità degli opposti come verità assoluta e non relativa, in altre parole come verità indipendente (ab – soluta) dalla nostra soggettività e non relativa all’apporto di essa nel fare in modo di costruire tale verità.

Per la dialettica l’unità degli opposti in sè non è né vera, nè falsa; è l’apporto della mia soggettività a decidere per il sì o per il no.      Non esiste la verità come cosa già esistente, fuori dal tempo e dallo spazio, quindi eterna ed immutabile. La verità è cosa da costruire, è un fine da raggiungere; la verità è progettuale, quindi è il frutto di una scelta, di un atto di volontà.

Attenzione però di non cadere nell’eccesso opposto di ritenere che la verità dialettica dipenda unicamente dalla nostra soggettività. E’ necessario l’apporto della nostra soggettività, questo sì, ma la volontà soggettiva non può da sola costruire la verità.

Ciò può crederlo il relativismo della nostra antidialettica civiltà. Essendo fondata sulla logica del principio di non contraddizione, la nostra civiltà non ammette legame fra oggettività e soggettività. Il risultato è che essa oscilla paurosamente fra la tesi che l’essenza dell’essere è cosa oggettiva e la tesi opposta che è cosa soggettiva.

Abbiamo quindi da una parte la scienza che nega la soggettività, riducendola a epifenomeno della materia, e dall’altra uno smisurato soggettivismo, che pretende di plasmare la totalità dell’essere secondo la volontà del nostro piccolo ego.

Dunque il fatto che la verità dialettica è progettuale dev’essere inteso che essa richiede sì l’intervento della soggettività, ma anche che la soggettività non può volere tutto ciò che vuole: deve volere relazionandosi all’oggettività, a ciò che si trova fuori di essa (ob – jectum), all’altro da sè.

In altre parole la verità dialettica richiede l’apporto non di una soggettività relativista, ma  di una relazionale; cioè non di una soggettività che si relaziona solo con se stessa per timore che qualsiasi legame la menomi della libertà, ma di una soggettività che sente che l’essenza del suo essere si realizza solo relazionandosi all’altro. Si realizza quindi attraverso il divenire della soggettività altro da sè, senza che ciò le faccia sentire di perdere la propria identità.

Mentre per la soggettività relativista la propria identità si fonda sul principio di non contraddizione (io sono io e non un altro), per quella relazionale l’identità si fonda sulla dialettica: io sono me stesso e nel contempo un altro, la mia identità consiste nel diventare altro, senza però perdere ciò di quello che ero. Da quanto detto si inferisce che il legame fra io e altro non è un dato di fatto; non esiste al presente, ma esiste al futuro cioè come realtà dinamica.

Il presente è la dimensione in cui vige la logica del principio di non contraddizione, perchè l’istantaneità del tempo presente, impedendo alle cose di tendere verso l’altro da sè, le confina in un’identità immobile.

E’ solo nella dimensione del futuro quindi che può darsi una soggettività relazionale. Ed è per il fatto che essa si apre all’alterità del futuro che può costruirsi un’identità, dove ciò che è al presente può legarsi in un’unità all’altro da sè che sarà nel futuro.

 

Ritornando alla questione della rifondazione dialettica del cristianesimo, abbiamo cercato di evidenziare la necessità di promuovere un sentire dialettico, che è poi quello della soggettività relazionale, quale condizione imprescindibile perchè i contenuti dottrinali del cristianesimo possano essere capiti ed agiti in senso spirituale. (Certo non tutti i contenuti dottrinali, perchè alcuni confliggono radicalmente col sentire dialettico). Infatti la carenza di sentire dialettico fa sì che la nostra soggettività concepisca la verità come statica, come già definita, come tutta contenuta dentro un formulario dottrinale, il che è esattamente l’opposto della spiritualità.

A tal proposito il vangelo è chiaro:”La lettera uccide, ma lo spirito vivifica”. Ciò a dire che la verità secondo lo spirito non può essere espressa solo in modo concettuale, in modo oggettivo. La verità secondo lo spirito non è cosa solo oggettiva – è la verità secondo la scienza, la verità che ha per fine la potenza, a crederlo – ma anche e soprattutto soggettiva.

La verità quindi è tale solo se si incarna in noi; solo se la accogliamo non solo nell’oggettività della mente, ma anche nella soggettività della psiche.

Ad es. l’unione di umano e divino che si è realizzata in Cristo in sè e per sè non è verità dialettica; per diventarla, occorre che anch’io mi ponga come progetto la realizzazione di tale unità. Per la dialettica infatti la verità appartiene alla totalità dell’essere. Quindi perchè l’unione di umano e divino sia vera, non basta che si realizzi fuori di me – sia pure in Cristo – bisogna che si realizzi anche nell’essere che compete alla nostra soggettività.

Mi rendo ben conto che questo è un compito immane, smisurato, che pertanto non può essere contenuto entro la misura del finito. Possiamo progettarci verso la sua realizzazione solo se il nostro essere è aperto all’infinito.

Di qui secondo me la necessità di accogliere  la dottrina della reincarnazione o quanto meno che il cristianesimo rivaluti la credenza nel purgatorio, perchè solo così il nostro essere può trascendere i limiti di una temporalità che la morte corporea ci fa credere finita. Chi crede che la morte fisica comporti anche la fine del nostro essere, ha il sentimento che il suo essere sia finito.

A poco serve poi – secondo me – che creda nell’infinità dell’essere di Dio. L’essere di Dio è pur sempre l’essere di un altro da me, un essere oggettivo. Per il sentimento dialettico l’infinità dell’essere compete all’essere sia nel suo polo oggettivo che soggettivo – quindi anche noi siamo esseri infiniti.

Con questo non intendo certo affermare l’equivalenza fra uomo e Dio. Sulla scorta di Nicola Cusano potremmo dire che nell’essere di Dio l’unità degli opposti è in atto – “Dio è coincidenza degli opposti” – mentre nell’essere dell’uomo è in potenza.

Per la dialettica dunque Dio è la meta verso cui dobbiamo progettarci. Non siamo Dio nel senso che non lo siamo al presente; siamo però chiamati a diventarlo.

Dio è l’essere perchè in lui gli opposti sono diventati uno, e l’essere è appunto uno. Il mio tendere a Dio è quindi un tendere verso l’essere, tendere verso quello stato di coscienza in cui l’essere è uno; una coscienza in cui il conflitto fra volere ed essere è superato nel senso che sentiamo  che ciò che siamo è la manifestazione di ciò che vogliamo essere.

 

A rischio di ripeterci, ribadiamo pur tuttavia che anche la più grande costruzione filosofico-teologica è destinata a rimanere lettera morta se non incontra una soggettività che sappia accoglierla cioè che sia disponibile a realizzare in sè ciò che i concetti non possono che esprimere in modo oggettivo.

Quindi una rifondazione del cristianesimo su basi dialettiche deve consistere prima che in una rifondazione delle sue basi dottrinali, in una rifondazione dell’uomo. Ciò ad indicare che la strada verso la realizzazione dello scopo ultimo del cristianesimo – la fusione del nostro essere con l’essere di Dio o in altre parole la fusione del nostro bene (l’essere coincide col bene) col bene della totalità dell’essere cioè Dio – non può che partire da noi stessi.

Infatti non è possibile comprendere il bene della totalità, il sommo bene, Dio, se prima non  comprendo in cosa consiste il mio bene. Ciò per la semplice ragione che il bene della totalità comprende anche il mio bene particolare. Non c’è totalità del bene se non vi è inclusa in essa anche il mio bene. Secondo la dialettica il bene del tutto è in relazione al nostro bene e a sua volta il nostro bene è in relazione a quello del tutto.

In altre parole l’etica ha per scopo la realizzazione di un bene comune che è nel contempo anche il nostro stesso bene; il che sta ad indicare che il bene della parte si realizza quanto più si comprenderà che coincide col bene del tutto.

Ora io non posso comprendere l’autentica natura del bene partendo dal bene dellla totalità giacchè – come detto – esso non esiste senza il contributo del mio bene particolare.

Posso conoscere la vera natura del bene solo partendo dalla riflessione su qual è il bene del mio essere. Se non ho capito come si manifesta il bene nella parzialità del mio essere, come posso capire la sua manifestazione nella totalità dell’essere? Se non ho capito la natura del bene all’interno della mia soggettività, come potrò capirla in ciò che sta fuori di me cioè capirla in modo oggettivo?

 

Purtroppo in una società come la nostra, dove il riduzionismo scientifico ha sempre più ridotto lo spazio della soggettività, era giocoforza che anche l’etica,  il bene della totalità – quindi la verità circa la natura del bene, ricordiamo che la verità è tale perchè riguarda la totalità – finisse per essere concepito in modo oggettivo.

Conseguenza di ciò è, fra le altre cose, una concezione materialista del bene: il bene relativo alla sola parte oggettiva cioè materiale del mio essere; il bene di ciò che in me è destinato alla fine, il bene del mio corpo. Un bene, che si rivolge solo a ciò che in me è finito, è un bene che non dura, è il bene della gratificazioni materiali.

Ora se essere e bene coincidono, un bene che non dura non potrà che comunicarci anche la sensazione di un essere che non dura; un essere piccolo perchè, identificandosi col bene finito delle gratificazioni materiali, è incapace di sentire la spinta interiore che lo anima a trascendere la sua finitezza.

 

La rifondazione dialettica e quindi spirituale del cristianesimo può avvenire solo seguendo un percorso opposto a quello della scienza: essa ha oggettivato l’essere, la religione invece deve ribadire l’irriducibilità della nostra soggettività,  che è un’unità che non può essere disgregata nelle parti che la costituirebbero.

Il nostro essere non è di natura oggettiva come quello di una macchina che, esso sì, può essere disgregato, perchè coincide con le parti che lo compongono.

Il nostro essere è di più della somma delle sue parti e il di più è il legame che le tiene unite. Non siamo un’unità quale risultante di una somma di parti, l’unità che siamo precede le nostre parti. Questo è poi il motivo per cui sentiamo che la molteplicità delle parti costituenti il nostro corpo e la molteplicità dei sentimenti contrastanti che viviamo in noi è pur tuttavia riconducibile all’unico essere che noi siamo.

 

Quando dicevamo che una rifondazione dialettica del cristianesimo deve partire da una riflessione sull’uomo, prima che da un ripensamento sui fondamenti teologici, dicevamo in sostanza che deve partire dalla soggettività, per arrivare poi a capire che l’unicità della nostra soggettività è un mezzo per giungere poi al fine cui siamo chiamati: prendere coscienza che l’unicità appartiene al tutto, che solo nella sua totalità l’essere è uno.

Il nostro essere non è uno per via del fatto che siamo unici, ma siamo unici perchè possiamo prendere coscienza che l’essere è uno solo in modo unico cioè legando la nostra parzialità al tutto in un modo che è solo nostro.

 

L’unicità di tale legame costituisce anche la garanzia della nostra libertà: è unico per il fatto che noi stessi e non altri l’abbiamo scelto.

Certo uno potrebbe dire che questa non è autentica libertà, perchè relativa al fatto che siamo liberi solo circa la scelta di come dev’essere il legame col tutto, non liberi di scegliere se legame dev’esserci o no.

Ma cosa sarebbe la libertà autentica? Per la logica del principio di non contraddizione la libertà è autentica quando è assoluta, quindi quando è priva di legami che la condizionino, che la relativizzino; quando non c’è niente che,  ponendosi come altro da essa, la delimiti.

Rifiutando il rapporto con l’altro però, tale libertà si priva della possibilità di diventare altro, condannandosi perciò a rimanere sempre e solo se stessa, prigioniera entro i confini di un’identità che non vuole cambiare.

L’impossibilità di cambiare è impossibilità di muoversi, cioè la condizione stessa della necessità. Ne consegue che la volontà di godere di una libertà assoluta ci porta a divenire preda della necessità, vittime del limite da cui volevamo emanciparci. Dobbiamo capire che non possiamo essere liberi senza l’altro.

Certo ciò che ci è altro ci delimita, producendoci la sensazione di essere oppressi dalla necessità, che ci vincola a rimanere entro la nostra finitezza.

Ma è anche vero che è solo accettando i limiti della nostra finitezza che ci viene offerta la possibilità di oltrepassarli, che è poi la possibilità di essere liberi. A tal proposito Spinoza era chiaro:”La libertà risiede nel riconoscimento della necessità”.

Riconoscere ciò non è ovviamente da intendere solo come una presa d’atto di una verità oggettiva. La verità dialettica infatti richiede anche la compartecipazione della soggettività. Ed essa la chiamiamo in causa solo se attribuiamo al riconoscimento della necessità anche il significato di riconoscenza verso la necessità; riconoscenza perchè è grazie alla necessità che possiamo essere liberi. Dunque è grazie al finito entro cui la necessità ci rinserra che possiamo avere accesso all’autentica libertà, quella in cui volere ed essere coincidono, l’essere di Dio.

Insomma non si arriva a Dio in modo oggettivo, partendo dalla teologia – cioè dallo studio di Dio – ma in modo soggettivo partendo dalla psicologia – dallo studio dell’anima.

Questo in fin dei conti è anche il contenuto dell’iscrizione sul tempio di Apollo a Delfi “Conosci te stesso e conoscerai l’universo e gli dei”.

Lo stesso ammaestramento lo ritroviamo poi anche nel passo dei Vangeli, laddove si dice che per giungere al regno dei cieli bisogna passare per la porta stretta.

Passare per la porta stretta sta a significare che si arriva al regno dei cieli solo passando dal finito, dalla chiusura entro cui la necessità ci confina. La necessità ci restringe, ci soffoca, rimpicciolisce il nostro spazio vitale, ponendoci di fronte all’eventualità tragica del nostro annullamento.

Ma è proprio in questa solitudine atomizzante, nella quale siamo pervasi dal sentimento della nostra nullità e quindi della nostra alterità rispetto all’essere, che ci è dato di avvertire anche il sentimento del nostro essere unici.

Questa non è certo l’unicità di chi si sente unico perchè speciale, perchè dotato di qualità che appartengono solo a lui; non è l’unicità di chi crede di essere superiore e quindi di incarnare l’essere in modo maggiore degli altri; non è l’unicità di chi identifica il suo essere particolare con l’essere della totalità, perchè crede di aver realizzato l’essenza dell’essere – cioè l’unità dell’essere – grazie al fatto di sentire che il suo essere è unico.

No, questa è l’unicità di chi sente che non è unico, perchè crede che l’unità dell’essere coincida col suo sentirsi unico; ma è unico perchè il suo cammino verso l’essere deve compierlo in modo unico, quindi da solo, senza poter contare sugli altri, perchè altrimenti il proprio cammino verso l’essere acquisterebbe un tratto oggettivo.

E quanto più cammino verso l’essere in modo oggettivo – cioè ricorrendo a una forza esterna che animi il mio percorso (come non vedere in ciò il pericolo della potenza messaci a disposizione dalla tecnica!) – tanto più vivrò l’essere in modo oggettivo cioè come posto fuori di me, come oggetto, come altro da me.

Al contrario quanto più il cammino verso l’essere lo percorro in modo unico cioè quanto meno ricorrerò ad una forza oggettiva, tanto più realizzerò che l’essere non è fuori di me, ma è in me. Sentirò che vivo nell’essere non secondo la modalità dell’avere – l’essere è cosa da afferrare perchè come oggetto è fuori di noi – ma secondo quella dell’essere, vale a dire: io non ho l’essere, ma sono l’essere.

 

Io sono l’essere! E’come dire: io sono Dio. L’essere infatti è la totalità, l’uno aldifuori del quale non c’è altro.

E’ un’affermazione che, se male interpretata, è la negazione totale dell’etica. Infatti dato che l’essere coincide col bene, è come dire che il bene esiste solo come bene del mio essere; che il bene degli altri non esiste perchè, essendo solo io l’essere, gli altri in realtà non esistono.

Mi rendo ben conto che, vivendo all’interno di una società che ormai da secoli, se non da millenni, ha plasmato il nostro sentimento verso la vita sulla logica del principio di non contraddizione, l’affermazione “io sono l’essere” è molto pericolosa.

Lo è perchè per il principio di non contraddizione, secondo la nostra società, il percorso verso l’essere non passa per il suo opposto, il nulla, ma consiste invece nel progetto di annullare tale opposto. Quindi per giungere all’essere bisognerebbe combattere contro tutto ciò che ci mortifica, tutto ciò che – incatenando la nostra libertà con le catene della necessità – produce in noi un sentimento di annientamento, di non essere; bisognerebbe eliminare qualsiasi volontà o forza contrastanti la nostra volontà, il che in pratica significa eliminare le volontà altre rispetto alla mia. E come la si eliminerebbe? Prima pensando l’altro come oggetto e dopo riducendolo tale.

Rimanendo all’interno della logica del principio di non contraddizione, è forse dunque auspicabile che interpretiamo anche il nostro essere come oggetto, perchè diversamente concluderemmo che l’essere del nostro io finito  è l’essere nella sua totalità. E’ meglio essere alienati dall’essere, considerarlo cioè come oggetto che sta fuori di noi, che essere affetti dalla megalomania di ritenersi l’Essere, di ritenere di conseguenza che solo la nostra volontà dev’essere e non quelle altrui.

Un’applicazione rigorosa del principio di non contraddizione non può che portare all’alienazione (sentire il proprio essere come oggetto) o alla megalomania (sentire che il proprio essere è soggetto e che solo la mia volontà, in quanto espressione della mia soggettività, è la volontà dell’essere).

 

Solo alla luce di una modalità esistenziale dialettica l’affermazione “io sono l’essere” è compatibile con l’etica, anzi la presa di coscienza che “noi siamo l’essere” è la realizzazione stessa dell’etica.

Per la dialettica il cammino verso l’essere passa attraverso il suo opposto, il niente; passa attraverso un sentimento di annientamento: il sentimento che il mio niente, e non il piccolo essere del mio io, è l’essere.

Si dirà “Come è mai possibile che l’essere sia il niente?”.  Come al solito tale affermazione non è comprensibile alla luce del principio di non contraddizione e alla sua   concezione dell’identità come qualcosa di statico, una concezione secondo cui A = A, cioè A è identico a sè solo non diventando altro da sè, quindi non mettendosi in moto verso l’alterità.

E’ invece comprensibile per la dialettica, per il fatto che essa concepisce l’identità in senso dinamico. Secondo la dialettica, che il niente è l’essere, non dev’essere interpretata come una verità statica, oggettiva, ma come una verità possibile. E che sia possibile dipende anche dalla mia volontà di renderla vera.
Ho detto anche, perchè la mia volontà da sola non basta. In altre parole non tutto ciò che voglio può diventare vero; lo diventa solo se la mia volontà non è al servizio della mia finitezza, ma del tutto.

La verità appartiene al tutto; ma perchè ci sia il tutto e quindi anche la verità, occorre che io dia il mio contributo a creare il tutto. Lo do facendo sì che la mia volontà e quella di tutto ciò che io non sono si uniscano, divenendo uno.

Ritornando all’affermazione che il niente è l’essere, possiamo dire che essa è una parte della verità: la parte statica, in quanto l’affermazione suddetta è coniugata al presente, il tempo dell’immediatezza, della non durata. E’ un’affermazione chiusa in se stessa, che esprime una verità atomistica, una verità assoluta nel senso che è incapace di relazionarsi con ciò che è fuori di lei, con ciò che le è altro.

“Il niente è l’essere” diventa vero in modo totale quando alla staticità, alla finitezza dell’affermazione aggiungo la dinamicità, da intendere come la progettualità di una volontà che intende realizzare l’identità di essere e niente.

In riferimento alla temporalità, la verità dialettica comporta anche una fusione di presente e futuro: una fusione per la quale una cosa è vera non se rimane identica a se stessa – quindi uguale a ciò che è nel presente – ma se diventa identica all’altro da sè che ancora non è, perchè situato nel futuro.

 

Ma ritorniamo ora all’affermazione che nella nostra società è inaccettabile sia per le coscienze laiche che per quelle religiose:”Io sono l’essere”. Abbiamo detto che essa è il fondamento stesso dell’etica.

Lo è però se interpretata in modo dialettico cioè in modo che l’identità sia fra due opposti. Per la dialettica questa affermazione è vera se riformulata così:”Io, diventando niente, realizzo in me l’essere”. Cioè non è il mio piccolo essere che può diventare l’Essere. E’ il mio niente che può diventarlo.

Ma come si diventa niente? Beh, a tal proposito la logica del principio di non contraddizione e della dialettica, come al solito, divergono.

Per la dialettica l’essere è uno perchè è relativo alla totalità nel senso che si relaziona, si lega al tutto.  Il niente (nec ens cioè assenza di essere) è la molteplicità che si produce, rompendo i legami.

Per il principio di non contraddizione più rompo i legami, più mi assolutizzo, più divento unico cioè più provo il sentimento che la mia unicità consiste nel non dipendere dalla pluralità degli altri; consiste nel sentimento che io sono uno perché sono solo io e non altro; sono un uno assoluto, un uno che non cambia diventando plurale, perchè in quanto assoluto il mio io non diventerà mai altro da sè.

Per la dialettica l’unicità così intesa non può che produrre in noi un sentimento di annientamento derivante dal fatto che, negandoci la possibilità di cambiare, di diventare altro, la nostra unicità finirà per disgregarsi, per divenire quella molteplicità che voleva evitare di essere. Infatti un’unicità che non può cambiare è un’unicità finita e come tale è destinata a finire.

In sintesi, mentre per il principio di non contraddizione l’unità, che è l’essenza dell’essere, è il risultato della rottura del legame con l’opposto; per la dialettica invece la rottura del legame con l’opposto porta al nulla. Per la dialettica si ha il nulla allorchè l’essere rifiuta di relazionarsi al nulla.

Dal che se ne deduce che come l’essere non si dà in modo assoluto, così pure il nulla non esiste di per sè; non esiste chiuso nella sua assolutezza, ma solo in relazione alla mia scelta di vivere secondo la modalità dialettica o meno. Nell’accezione dialettica quindi il nulla non esiste indipendentemente da me; esiste se io lo faccio essere. E paradossalmente lo faccio essere rifiutandolo cioè rifiutando di accoglierlo entro il mio essere per timore che lo nientifichi.

Invece chi ha fede nella dialettica scopre che il nulla è necessario perchè l’essere sia; necessario perchè ciò che il nulla nientifica non è l’essere, ma il sentimento illusorio che l’essere sia qualcosa di stabile, di costantemente uguale a sè, qualcosa che, non potendo mutare, è finito.

Il nulla nientifica la finitezza dell’essere, rivelandone così la sua infinità, il suo continuo progettarsi verso l’altro da sè, perchè solo così può legarsi all’altro, onde costituire quella totalità che è propria dell’essere.

 

Ora, stante l’identità di essere e bene, la lezione etica che viene dalla dialettica consiste essenzialmente nel riferire al bene ciò che si è detto dell’essere. Consiste nel sentire che il bene, come l’essere, è autetico solo quando si riferisce alla totalità, quando diventa bene comune, condiviso.

E la prova che questo è l’autentico bene sta nel fatto che, relazionandosi alla totalità, si relaziona con l’essere stesso, da intendere come sentimento della pienezza di significato che viviamo nella nostra esistenza. E cos’è il bene se non il sentimento della significatività del nostro essere? Il sentimento che non esistiamo per caso o come ingranaggio di una macchina perfettamente intercambiabile con un altro analogo?

Il bene è sentire che niente può sostituirci; che il non essere, il niente non può prendere il posto del nostro essere, perchè siamo indispensabili, unici; e in quanto unici, incarniamo l’essere, esso stesso unico.

Di più. In quanto indispensabili, siamo necessari, l’essere ha bisogno di noi.

Ma quale essere ne ha bisogno? Non certo l’essere che, chiudendosi all’altro, si identifica col finito entro cui sceglie di confinarsi. Rifiutando di diventare altro, il divenire di quest’essere consisterà nel ripetere se stesso, nel riprodurre copie di se stesso. Quest’essere non è certo indispensabile, perchè è perfettamente sostituibile da una delle sue copie.

Il finito produce copie dell’unicità, crea abbondanza (in latino, copia) di unicità; ma l’accrescimento quantitativo dell’unicità, lungi dal favorirla, la svilisce.

L’unicità è tale perchè è unica ed è unica perchè non ammette ripetizione.

Non è attingibile quindi all’interno della logica del principio di non contraddizione, perchè esso concepisce l’identità in modo statico: l’essere conserva la sua identità solo rimanendo uguale a se stesso.

La progettualità di questo essere non consiste in un moto verso il futuro, quindi verso la dimensione del nuovo, di ciò che ci è altro; ma in una ripetizione, quindi un moto all’indietro, verso il passato, verso ciò che è finito: un moto che non produce unicità, ma che la riproduce. La riproduzione è sempre e solo produzione di finito, quindi produzione di staticità, di immobolità, di necessità; il che è poi produzione di non essere.

Infatti l’essenza dell’essere è l’unità e i legami che la creano – come ci dice anche la fisica – sono prodotti dal moto. Dunque più concepiamo il nostro essere come finitezza, più ci sentiremo disgregare, andare verso il non essere. Sentiremo che anche il tempo della nostra vita consiste in una ripetizione. E infatti concependo l’essere come finito, progetteremo di produrre il finito; il che ovviamente ci creerà la sensazione che anche il tempo della nostra vita sia segnato dal sentimento del finito, quindi dell’impossibilità che il nuovo entri nella nostra vita, condannandoci così a sentire la nostra vita come una ripetizione del finito e di conseguenza una ripetizione del passato.

In tale ottica il passato diventa l’originale, il futuro una copia, quindi un qualcosa di inautentico. Questa che cos’è se non follia?

La nostra civiltà ha attuato un sovvertimento totale della scala dei valori. Concependo l’originale secondo la logica del principio di non contraddizione, la nostra civiltà ritiene che l’originale si trovi nell’origine, quindi nel passato.

La psicologia ufficiale non per niente ricerca nel nostro passato la causa di ciò che siamo. Secondo essa, più retrocediamo verso la nostra origine, verso il nostro passato, più siamo autentici, più siamo originali, unici, quindi più ci avviciniamo alll’essere, al sentimento della significatività del nostro esistere.

Capite la profondità di tale psicologia? Più diventiamo infantili, quindi più egoisti, più narcisisti, più diventiamo autentici, più la nostra vita diventa significativa.

La dialettica al contrario ci insegna che, per creare l’originale, bisogna andare verso il futuro cioè dove si trova l’opposto dell’origine. Il che sta a significare che l’originalità non è cosa che già esiste e che si trova nel passato. L’originalità si trova nel futuro perchè è cosa da creare.

L’originalità è ciò che ci rende unici, è quindi ciò che produce il sentimento dell’essere, la cui essenza appunto è l’essere uno, l’unicità. Più siamo originali, più siamo unici e più la nostra vita accede all’essere e al bene che, come detto, è il sentimento della significatività del nostro esistere.

La significatività della nostra esistenza, consistendo nell’originalità della nostra unicità,  non si può ritrovare nel nostro passato perchè esso, in quanto dimensione del finito, è chiuso al nuovo e quindi all’originalità. La significatività non è cosa che già esiste e che quindi ha un’esistenza indipendente dalla nostra.

In quanto connessa con l’originalità, la significatività appartiene al futuro, la dimensione del nuovo. Ora porre nella dimensione del futuro la significatività, l’originalità, l’unicità, l’essere e il bene vuol dire che nel presente esistono solo come possibilità, non come enti e concetti già esistenti e quindi definibili. Possiamo dire, sulla base della dialettica, che esistono in modo parziale, quindi in modo incompleto.

Ciò a dire che la completezza dell’essere non si dà nella dimensione istantanea del presente, che l’essere non è cosa effimera, cosa che non dura.

La completezza dell’essere ha bisogno del futuro. L’essere ha bisogno di essere completato; ha quindi bisogno del nostro contributo.

Ma quale contributo? Se come abbiamo detto, l’essere ha bisogno del futuro, il nostro contributo dovrà conformarsi sulle caratteristiche del futuro. Contribuiremo a far sì che l’essere sia (e quindi che anche la nostra vita acceda all’essere) apportando nell’essere il nuovo, quindi smettendo di vivere in modo riproduttivo cioè riproducendo il finito. Sono le macchine che riproducono il finito.

Noi siamo chiamati a creare il nuovo e il nuovo è tale quando è unico. Creiamo il nuovo allorchè facciamo nascere in noi il sentimento che il nostro essere è sempre nuovo.

Ovviamente può essere sempre nuovo solo se ci disentifichiamo dal nostro essere finito, se ci disidentifichiamo quindi dal passato. Ciò vuol dire sentire che il nostro essere non ha passato, che niente era prima di lui.

Se infatti qualcosa fosse prima di lui, quello con cui ci identifichiamo non sarebbe l’essere, perchè l’essere è uno e lo è perchè viene prima.

L’autenticità dell’essere consiste dunque nel non avere un passato cioè un qualcos’altro dall’essere che lo preceda, perchè altrimenti la primazia spetterebbe a quel qualcos’altro dall’essere cioè al non essere.

Avere la primazia vuol dire avere l’unicità. Se il non essere precede l’essere, allora è il non essere ad essere unico e quindi ad essere veramente, giacchè avrebbe l’unicità cioè l’essenza dell’essere.

Perchè l’unicità appartenga all’essere, bisogna pertanto porre l’essere prima di qualsiasi passato. In riferimento alla nostra vita, ciò significa che noi contribuiamo a creare essere quando smettiamo di identificare il nostro essere solo con il finito del passato; quando cominciamo a sentire che siamo sempre presenti, etimologicamente che siamo sempre davanti all’essere (pre – senti) e lo siamo anche nel passato. A tal proposito Spinoza ci ammaestra che “Sentiamo e sperimentiamo di essere eterni”.

Si dirà: come si fa ad essere presenti nel  passato? Lo si è nella misura in cui sentiamo che anche il nostro passato ha le caratteristiche proprie dell’essere e cioè l’unicità, l’originalità.

Ma ancora: come può essere che il passato, la dimensione del finito, della necessità, la dimensione dell’assoluto, la dimensione in cui la finitezza impedisce al passato di uscire dai suoi confini, per divenire così altro da sé, possa essere unico, originale? Sono domande queste che non si possono eludere perché credo che il modo con cui ci si concepisce e ci si relaziona all’essere dipende da come ci rapportiamo verso il passato.

La nostra civiltà ha scelto di concepire il passato come la dimensione dell’assoluto cioè come la dimensione dove il finito è assoluto, dove quindi i confini entro cui l’essere si dà sono invalicabili. Dunque per la nostra civiltà esiste una dimensione, il passato, dove non esiste il moto; dove quindi l’essere non può relazionarsi andandp verso ciò che è fuori di lui.

Ciò ovviamente comporta una scissione all’interno dell’essere fra ciò che è in modo assoluto – cioè l’essere quale si dà nel passato –  e ciò che è in modo relativo – cioè l’essere quale si dà nel futuro, un essere che ha la capacità di moto per uscire da se stesso, onde divenire altro.

La rottura dell’unità temporale, unità in cui consiste il sentimento dell’eternità, comportò anche la perdita del sentimento dell’unità dell’essere.

Perchè riemerga nelle coscienze il sentimento che l’essere è uno, bisogna quindi ricomporre la frattura dell’unità temporale che si è prodotta nelle nostre coscienze, a causa di un approccio non dialettico al nostro passato e di conseguenza anche al nostro modo di sentire il finito e la necessità.

La nostra civiltà, essendo intrisa del sentimento che l’essere si fondi sul principio di non contraddizione, concepisce il passato come un qualcosa di finito in senso assoluto.

Il passato della nostra vita diventa quindi un tempo assoluto, cioè totalmente privo di legami con ciò che siamo al presente e con ciò che saremo.

Ciò non vuol dire che il nostro passato non condizionerà ciò che saremo.  Lo  condizionerà e secondo la modalità esistenziale del principio di non contraddizione, cioè in modo che ci sentiremo incapaci di creare nella nostra vita unità fra la necessità, che appartiene alla dimensione del passato, e la libertà che appartiene invece al futuro.

Per una maggiore intelligenza del lettore, ci preme sottolineare ancora una volta che passato e futuro per la dialettica non sono soltanto due dimensioni oggettive del tempo, ma sono innanzittutto espressione di due distinti sentimenti dell’essere: il passato è l’espressione del sentimento della necessità, mentre il futuro della libertà.

L’inconciliabilità fra necessità e libertà, in cui crede la nostra civiltà, comporta di conseguenza anche un’inconciliabilità nella nostra coscienza fra il nostro passato e quel che sarà il nostro futuro.

Tale inconciliabilità si riverbera anche nel nostro sentimento dell’essere. Ne ricaveremo il sentimento che l’essere è fratto, perchè in esso ci sono due opposti inconciliabili che si escludono a vicenda: il finito – e ciò che gli è proprio cioè la necessità, il passato, l’assolutezza – e l’infinito – e ciò che gli è proprio cioè la libertà, il futuro, la relazione intesa come capacità di tendere verso il nuovo, verso l’alterità.

Tale incinciliabilità è destinata poi a divenire via via più drammatica man mano che invecchiamo, perchè nella nostra vita il passato/finito occuperà uno spazio crescente a scapito del futuro/infinito. Più debole è il sentimento dialettico di creare una relazione fra i due opposti, più si farà strada in noi il sentimento che l’essere della nostra vita è dominato dal finito, quindi dall’incapacità della libertà di valicare i limiti entro cui siamo confinati.

Ora anche una civiltà come la nostra, pur così segnata dal sentimento del finito, non può spegnere in noi il desiderio dell’infinità dell’essere, il desiderio che l’essere – come dice Spinoza – perseveri nel suo essere cioè che abbia a durare, ad estendersi nel tempo.

Dato che la carenza di sentimento dialettico della nostra civiltà fa sì che viviamo l’essere come finito, ne consegue che per noi la durata dell’essere non può che consistere nella produzione di altro finito, quindi nella produzione di altra necessità; nel vivere una vita rivolta verso il passato cioè non una vita che vive, ma una vita che rivive, una vita che si ripete. D’altra parte per la logica del principio di non contraddizione la vita è tale se è uguale a se stessa cioè se si ripete.

Ma che comporta il creare il finito? Comporta rompere i legami che rendono l’essere uno, onde frazionarlo in atomi di essere. In riferimento alla nostra vita, creare finito consiste nel produrre in noi il sentimento  di vivere il finito, di vivere il passato, di vivere una vita dove la presa della necessità è tale da finire anche la nostra libertà; consiste insomma nel produrre non essere cioè un sentimento di insignificanza del proprio esistere. Infatti quale significato può avere rivivere la vita?

La vita è significativa quando è originale, quando è unica, quando quindi si progetta verso il nuovo. Una vita è piena del sentimento dell’essere quando ha in sè l’essenza dell’essere cioè l’unicità.

Nella nostra civiltà invece si vive una vita che, in quanto copia di se stessa, è priva di unicità, una vita segnata dal sentimento del non essere.

 

Come dicevamo, è di capitale importanza che la nostra civiltà riveda il suo rapporto col passato se non vuole sprofondare nell’abisso  del non essere. Rivederlo significa smettere di rapportarsi al passato secondo la modalità del principio di non contraddizione e rapportarsi ad esso invece secondo la modalità esistenziale dialettica

Ciò comporta togliere il passato dalla condizione di finito assoluto, affinchè possa così congiungersi al futuro. In altre parole: far sì che il passato del nostro essere si unisca al futuro del nostro essere, in modo tale che percepiamo la nostra vita come un continuum; una vita che  tenendo insieme (con – tenendo) il nostro passato e il nostro futuro, produca in noi il sentimento dell’unità e quindi della significatività del nostro essere.

Ora unire passato e futuro significa anche unire ciò che è proprio del passato (la necessità) a ciò che è proprio del futuro (la libertà). Significa quindi sentire che per essere liberi, abbiamo bisogno della necessità, come a dire che ciò che ci lega, che ci vincola, che ci inchioda ad un qualcosa, ci rende anche liberi.

Ma si dirà: la necessità, per il fatto che ci lega, ci impedisce di andare verso il nuovo e quindi di provare il sentimento della libertà. Sotto la presa della necessità proviamo il sentimento che l’essere è un ripetersi, vivere il sentimento dell’impossibilità di sfuggire ad un compito che solo noi dobbiamo assolvere. La necessità quindi sembra farci provare il sentimento opposto della libertà.

Ma, a ben vedere, per il fatto che la necessità ci fa provare il sentimento di un obbligo verso qualcosa che nessuno può assolvere al posto di noi, essa ci fa pure provare il sentimento di essere insostituibili, di essere unici. Paradossalmente per chi non ha fede nella natura dialettica dell’essere, la necessità, producendo in noi il sentimento dell’unicità, ci offre l’opportunità di sentirci originali, quindi di essere aperti al nuovo, alla libertà.

Ho detto che la necessità ci offre l’opportunità della libertà, non già che ci rende liberi. Infatti per la dialettica l’unione degli opposti non avviene oggettivamente; richiede che siamo noi a volerla, richiede l’unicità della nostra scelta.

Dunque noi creiamo essere, unendo gli opposti necessità e libertà, solo se accettiamo di assolvere al compito cui la necessità ha legato il nostro essere unicamente. Accettiamo ciò nella misura in cui sentiamo che il legame della necessità non ha per scopo di immobilizzare il nostro essere, ma quello di legare il nostro essere ad uno scopo.

Ciò richiede – lo ribadiamo – il sentimento dialettico che anche la necessità non sia fine a se stessa – come pensa il principio di non contraddizione – cioè che non svolga l’azione di legare avendo come fine il legare stesso, ma che leghi con lo scopo di farci sentire unici, perchè quello scopo può essere svolto solo da noi; richiede sentire che la necessità, legandoci ad uno scopo, ci costringe ad essere liberi.

E’ evidente che tale asserzione, se interpretata alla luce del principio di non contraddizione, porta a concludere che la libertà sia un’illusione, in quanto viene negata la sua essenza: quella di essere causa del suo essere. Infatti se è la necessità a costringerci ad essere liberi, allora la causa della nostra libertà è la necessità. Quando proviamo il sentimento di essere liberi, di essere noi ad autodeterminarci, ci staremmo ingannando, dimostreremmo di non conoscere noi stessi, per il fatto che staremmo rimuovendo la vera causa del nostro essere, che sarebbe la necessità.

Per la dialettica vale esattamente il contrario:”Esse est causa sui”, l’essere è causa di se stesso; non c’è niente al di fuori di lui che lo costringa ad essere ed è perciò che l’essere è libero.

Ma come si deve intendere allora l’espressione che “la necessità ci costringe ad essere liberi”? In questo modo: la necessità ha il compito di ricordare a quella parte del nostro essere che l’ha scordato chi siamo veramente. Abbiamo rimosso che noi incarniamo l’essere, il che sta a significare che noi siamo causa di noi stessi; che ciò che siamo l’abbiamo voluto e lo vogliamo ora; che l’essenza del nostro essere è quindi la libertà. Quando la dialettica afferma  la compresenza in noi di essere e non essere intende essenzialmente ciò: noi siamo l’essere e quindi siamo causa di noi stessi, ma tendiamo ad identificare il nostro essere con quella parte che non accetta di sentirsi causa di se stessa e che quindi non accetta l’essere; tendiamo ad identificarci dunque col non essere.

E’ una tendenza comprensibile. Non è certo facile identificarci con l’essere  quando viviamo nella sofferenza. In quei casi vorremmo che la sofferenza che grava su di noi non avesse ad essere. In tal modo però non ci accorgiamo che stiamo creando non essere, che portiamo il non essere nella nostra vita e che quindi stiamo diminuendo in noi anche lo spazio della libertà.

La scelta esistenziale dialettica di accogliere la necessità consiste nell’accettare anche ciò che vorremmo non essere, nell’accettare di portare all’essere anche la necessità, sebbene essa sembri negare l’essenza del nostro essere, la libertà.

In riferimento alla dimensione temporale, portare all’essere la necessità vuol dire portare all’essere la dimensione propria della necessità, che è il passato. Ciò vuol dire sentire che anche quello che, per la parte di noi che rifiuta la necessità, è il passato, in realtà è presente; sentire che non c’è un passato, un prima rispetto al nostro essere; sentire che il nostro essere è dunque eterno. L’essere, essendo la totalità, non ammette niente fuori di lui, quindi non ammette neppure che esista una causa fuori di lui che l’abbia a determinare.

 

L’essere è libero perché è causa di sé. Ciò però non è vero solo in senso oggettivo; perché sia vero ci vuole anche l’adesione della nostra volontà. L’essere infatti è unione di oggettività e soggettività. La libertà quindi non è uno stato naturale, oggettivo dell’essere; non è cosa di cui abbiamo diritto per il fatto di essere, come la cultura libertino-liberista della nostra civiltà ci ha fatto credere.

La libertà appartiene all’essere solo se la nostra volontà lo vuole. Quindi per il pensiero dialettico la libertà, in quanto scelta soggettiva della nostra volontà, è un sentimento.

Non esiste oggettivamente, non è un oggetto che quindi esiste come esterno al nostro essere, come indipendente da noi. La libertà è uno stato dell’essere e non può quindi essere messa a disposizione del nostro essere come può esserlo un oggetto. Il sentimento della libertà può nascere solo dal nostro interno, dalla nostra soggettività.

Per la nostra civiltà, fondata sulla scelta esistenziale del principio di non contraddizione, la libertà, in quanto opposto della necessità, esiste nella misura in cui rimuoviamo la necessità. La libertà quindi sarebbe attingibile solo mediante la potenza, con la quale nientifichiamo la necessità che le impedisce di tendersi verso la sua metà. Per la nostra civiltà la necessità è non essere. Gli ostacoli alla libertà devono quindi essere eliminati, la necessità essere tolta dall’essere. Abbiamo così un essere dimezzato perché privato del suo opposto. Per la nostra civiltà dunque noi viviamo nell’essere cioè il nostro essere diventa significativo solo nella misura in cui eliminiamo la necessità dalla nostra vita.

Per la scelta esistenziale dialettica è esattamente il contrario. La significatività del nostro essere non si ottiene eliminando un qualcosa dall’essere, nello specifico eliminando ciò che ostacola la libertà che è l’essenza dell’essere.

Ritenere che sia possibile togliere qualcosa dall’essere è proprio di chi concepisce l’essere come divisibile, come privo di una forza di legame tale da creare un’unità indivisibile; è proprio di chi pensa l’essere in termini quantitativi cioè come molteplicità.

La dialettica invece pensa l’essere in termini qualitativi, nel senso che l’essere è più della somma delle sue parti; il di più è la forza di legame che rende tale somma un’unità indivisibile.

Quindi se sentiamo che la necessità ci impedisce di essere liberi, vuol dire che l’essere con cui ci identifichiamo non è l’essere dialettico, l’essere nella sua totalità di sintesi degli opposti.

 

Per la dialettica non si realizza l’essere lottando per eliminare gli ostacoli della necessità. Lo si realizza invece attraverso una lotta interiore volta a rimettere in discussione l’essere con cui ci identifichiamo. Gli ostacoli non sono fuori di noi, non sono altro rispetto al nostro essere; l’ostacolo è in noi, la necessità è dunque in noi, ed è ciò che ci fa sentire di vivere una vita bloccata, incapace di cancellare con un colpo di spugna gli ostacoli a quella che pensa di essere la sua autentica realizzazione.   La libertà di un’essere, che vuole sbarazzarsi della necessità, è però di ostacolo alla libertà dell’essere infinitamente più grande che noi siamo.

La modalità esistenziale del principio di non contraddizione, nel suo folle progetto di voler eliminare l’alterità dall’essere, ha plasmato una civiltà dove si è imposta una concezione atomistica dell’essere, un essere che tende a divenire sempre più ristretto quanto più cresce il nostro rifiuto verso gli ostacoli posti dalla necessità. E un essere più ristretto è ovviamente anche un essere meno libero.

Per ovviare a ciò, la nostra civiltà vuole accrescere sempre più la potenza per eliminare gli ostacoli che dall’esterno limitano la libertà dell’essere. Purtroppo non ha capito che la libertà e la necessità non sono fuori di noi, non esistono oggettivamente o al massimo la loro esistenza oggettiva ha una durata direttamente proporzionale al finito con cui identifichiamo il nostro essere. In altre parole quanto minore è la capacità del nostro essere di estendersi temporalmente, tanto più lo sentiremo come qualcosa di finito e quindi di oggettivo.

Non esistendo oggettivamente, è cosa vana pensare di promuoverli o contrastarli con la potenza oggettiva della tecnica.

La modalità esistenziale dialettica, concependo correttamente la libertà come stato dell’essere, sa che essa è attingibile non solo attraverso una lotta   sul piano oggettivo, ma anche su quello soggettivo. Ciò implica riferire alla nostra soggettività non solo la libertà, ma anche la necessità; sentire che anch’essa esiste perché scelta dalla nostra volontà.

Ovvio dunque che in noi non c’è una sola volontà, ma molteplici in relazione al grado di essere con cui ci identifichiamo. Quanto più vogliamo identificarci con l’essenza dell’essere – che è l’unità – tanto più saremo liberi. Quanto più piccola è la frazione di essere con cui vogliamo identificarci, tanto minore sarà la sensazione di essere liberi e tanto maggiore quella di essere necessitati.

La libertà è dunque una conquista della volontà. Non siamo liberi per natura, non nasciamo liberi. E ancora: nessun altro può darci la libertà perché essa, essendo ciò che ci rende unici, originali, ciò su cui si fonda la nostra soggettività, non può che originare da noi stessi, dalla nostra volontà.

L’autentica libertà ci rende unici perché essa appartiene all’essere, la cui essenza è l’unità: unità in senso temporale, che è l’eternità, e unità in senso spaziale, che consiste nel trascendere le divisioni poste dal finito, onde superare il sentimento di alterità.

In tale contesto potremmo definire la necessità come la custode dell’essere, come la forza con cui l’essere ci costringe ad essere fedeli alla nostra autentica natura che è la volontà di essere, quindi volontà di essere eterni ed infiniti, come lo è appunto l’essere.

Quando invece tradiamo la nostra autentica natura, allorchè vogliamo un essere finito, ecco allora che interviene la necessità a farci sentire che quell’essere finito, che vogliamo essere, produce in noi un sentimento di non essere, di insignificanza della nostra esistenza. Il compito della necessità è di farci capire che cos’è l’essere e di indicarci la strada per raggiungerlo.

 

Il merito delle religioni è di condividere con la dialettica  l’unità dell’essere; quindi l’idea che noi usciamo dalle tenebre del non essere nella misura in cui cessiamo di identificare il nostro essere con la parzialità del finito, per identificarlo col tutto.

Per il cristianesimo la dimensione del finito, che è poi la dimensione della materialità,  è caratterizzata dal fatto che essa è pervasa dal sentimento del non essere. Il finito infatti, in quanto conseguenza della rottura dell’unità dell’essere, è espressione del venir meno della forza unificante, il che porta verso la disintegrazione dell’essere e la sua annichilazione nel non essere. Dunque vivere nel finito è vivere nel sentimento del non essere, del male, del peccato.

Il messaggio del cristianesimo è quindi di accusa radicale verso la civiltà odierna che ha scelto di identificare l’essere col finito e quindi di attribuire al finito le caratteristiche proprie dell’essere cioè la libertà, il bene, il sentimento dell’unicità e dunque della propria autenticità.

Per il cristianesimo vale esattamente l’opposto: l’essere consiste nel processo di trascendimento del finito, per andare verso la meta che è Dio, il sommo bene.

Il bene, la libertà, la realizzazione della nostra unicità si rendono possibili a noi nella misura in cui viamo nel sentimento che la nostra autentica identità non è statica, ma dinamica. Cioè nella misura in cui smettiamo di identificarci  con la staticità del finito, per identificarci invece con la forza che ci spinge a varcare i confini entro i quali necessitiamo, rinchiudiamo l’essere.

E come la nostra autentica identità sta in questa forza trascendente – per usare una terminologia teologica, chiamiamola pure anima – così pure il nostro bene, la nostra libertà. Il bene, la libertà sono dunque di natura trascendente. Ciò a dire che non sono proprietà privata di chi vuole dar loro un essere finito, cioè di disporne solo per sé; la loro natura è di oltrepassare ogni finito per comunicarsi al tutto, per comunicarsi quindi all’essere.

Chi pensa di porre bene e libertà al suo servizio esclusivo, sta in realtà togliendo loro l’essere, sta trasformando ciò che pensa essere la causa della sua felicità, nella causa del sentimento dell’insignificanza del suo essere.

Bene e libertà producono il sentimento dell’essere solo se relazionati al tutto. E proprio per il fatto di avere un unico scopo – il servire il tutto – bene e libertà coincidono. Siamo liberi nella misura in cui perseguiamo il bene del tutto cioè nella misura in cui agiamo in modo etico.

La contrapposizione fra etica e libertà, che la nostra civiltà ritiene insanabile, non lo è affatto per la modalità esistenziale dialettica e neppure per il cristianesimo, nonostante le sue contraddizioni ed i limiti della sua apertura dialettica, di cui abbiamo parlato precedentemente.

La colpa più grave del cristianesimo e delle religioni in genere è di aver rotto l’unità dell’essere, non tanto distinguendo in esso l’essere di Dio e quello delle creature, quanto per il fatto di ritenere che tale distinzione sia assoluta.

La dialettica infatti ammette che ci siano distinzioni nell’essere, dovute al grado di unità fra gli opposti che riusciamo a realizzare: maggiore è la nostra capacità di fonderli i un’unità, maggiore è la nostra vicinanza all’essere; non ammette però che nell’essere possa esistere una dualità irriducibile: l’essere di Dio e l’essere delle creature.

Tuttavia è già molto che in questa civiltà, segnata dal nichilismo di una concezione per la quale l’essere si manifesta nella sua autenticità solo dandosi come un finito assoluto, un finito irrelazionale poiché totalmente chiuso in se stesso, il cristianesimo affermi che l’autenticità dell’essere abbia caratteristiche opposte. Infatti per il cristianesimo l’essere autentico cioè l’essere in cui la significatività dell’esistere si manifesta in massimo grado, Dio, ha come caratteristica la volontà di trascendere il finito sia spaziale che temporale.

Certo la distinzione fra l’essere di Dio e delle creature, rompendo l’unità dell’essere, sembra impedire la possibilità di trascendere il finito. Tuttavia il cristianesimo si salva dalla contraddizione, anche se non in modo filosoficamente corretto. L’assolutezza della distinzione fra l’essere di Dio e delle creature viene trascesa dal cristianesimo sostituendo all’essere il suo attributo primo che è il bene. Ecco così che la rottura nell’unità dell’essere viene ricomposta dall’unità del bene; per il cristianesimo infatti il bene di Dio e delle creature coincidono. Nel tutto non esistono beni distinti, beni privati, ma un solo bene che trascendendo ogni limitazione, si comunica al tutto, che così riacquisisce la sua essenza, l’unità.

A ben vedere, è forse anche bene che il cristianesimo mantenga la distinzione fra l’essere di Dio e quello dell’uomo, perché c’è il rischio che l’uomo intenda in modo errato l’unità dell’essere cioè che creda che, per il semplice fatto di esistere, il suo essere sia lo stesso che l’essere di Dio.

L’affermazione “Io sono Dio” della mistica non vale certo allorquando ci identifichiamo con un io finito. Noi non siamo Dio nell’attualità della nostra finitezza, lo siamo solo in potenza, come cosa in potere della nostra volontà. Dunque per Dio non basta esistere, bisogna volerlo.

Ma come volerlo? Per la dialettica vale sì il detto “Volere è potere”, ma il potere che il volere ci può dare dipende dall’intensità con cui la nostra volontà tende verso il suo scopo. La volontà di realizzare in noi l’essere di Dio richiede un’intensità tale da trascendere qualsiasi limite che ci separi da Dio cioè dall’essere autentico.

Siamo Dio non nella finitezza del presente, ma solo quando identifichiamo il nostro essere con la nostra anima, la forza che ci anima a trascendere la separazione del finito per legarci al tutto che è l’essere.

Ma sempre per non ingenerare equivoci, la tesi dialettica della mistica “Io sono Dio” può essere accettata dal cristianesimo se ancora una volta ricorriamo alla sostituzione dei termini. In questo caso però i termini da sostituire sono due. Al posto di Dio mettiamo il bene e al posto di “Io sono” mettiamo il tutto. Infatti  giacché l’essere è proprio del tutto, anch’io sono veramente allorchè identifico il mio essere col tutto. “Io sono Dio” diventa quindi “Il tutto è il bene”, da intendere nel senso che il bene appartiene al tutto, che il bene si manifesta trascendendo il finito entro cui l’io egoico vuole rinchiuderlo, per comunicarsi al tutto.

 

Il nemico autentico del cristianesimo non è affatto il comunismo, come sostenuto da tanti pseudopensatori o per ignoranza o in malafede, e purtroppo anche da coloro che ancora si ostinano ad associare al comunismo quelle ideologie atee e materialiste, che sono la negazione stessa dell’idea di bene comune; è invece la concezione dell’essere, quale si è venuta imponendo nella civiltà europea, soprattutto a partire dal rinascimento. Da lì ha preso sempre più piede l’idea che l’essenza dell’essere sia la finitezza; essenza che a livello materiale si è espressa nella concezione atomistica, a livello economico nel capitalismo, con la sua tesi che più si persegue il bene privato, più si contribuisce ad accrescere quello collettivo, a livello biologico con la concezione meccanicista del corpo, la cui atomizzazione ha portato alla teoria delirante del gene egoista.

La riverberazione della presunta finitezza dell’essere, nelle varie manifestazioni dell’esistenza, fa comunque capo al fatto che l’umanità odierna è pervasa, a  livello psicologico, dal sentimento di vivere un’esistenza finita . E’ infatti sulla base del sentimento che abbiamo dell’essere e del bene, suo indissolubile compagno, che progettiamo tutta la nostra vita.

Nella nostra civiltà si è imposta l’idea che essere, bene e libertà abbiano un’essenza finita, e quindi che per realizzarli nella nostra vita dobbiamo diventare sempre più individualisti, egoisti e anche infantili, perché è proprio del bambino voler godere di una libertà assoluta, di avere solo diritti senza alcun dovere che lo costringa a prendere in considerazione anche la libertà degli altri cioè di coloro che stanno fuori dai confini che lui ha stabilito per l’essere.

Non occorrono argomentazioni filosofiche per contrastare i fondamenti valoriali della nostra civiltà; sono i fatti ad accusarla, è il nichilismo verso cui ci stiamo a grandi passi incamminando.

Per allontanarlo dalla vita di noi tutti non è certo sufficiente lottare contro gli effetti nefasti che esso produce: devastazioni ecologiche, guerre, povertà, ecc.

Bisogna colpire al cuore la causa di esso, l’identificazione dell’essere col finito. Ecco allora che si fa sempre più necessaria ed urgente una rinascita della religione. E’ diventato di vitale importanza lottare per allargare i confini dell’essere e per questo c’è assolutamente bisogno di una religione; c’è bisogno che ci si dica che l’essere è eterno, che il bene non ha confini, che la libertà non appartiene all’ego, ma all’anima,  cioè che siamo liberi solo facendo emergere alla coscienza la forza che ci anima a trascenderci. C’è bisogno che ci venga detto che Dio c’è o – se a qualcuno non piace la parola Dio a causa dell’uso negativo che di Dio si è fatto – in alternativa che ci si dica che l’essere è il bene del tutto, il bene comune, e che il nostro compito è di contribuire affinché l’universo ne divenga sempre più conscio.

 

Novembre 2020      Paolo Galante

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Le forze di terra israeliane hanno paura? + Aggiornamenti sulla guerra in Ucraina, di SIMPLICIUS THE THINKER

Le cose continuano ad accelerare il passo e a rallentare apparentemente allo stesso tempo.

Dopo aver minacciato con forza un immediato assalto di terra a Gaza, l’IDF ha apparentemente perso le staffe e si è rassegnato alla dura realtà che andrebbe incontro a perdite spropositate e/o alla sconfitta. Quindi ora fingono di raccogliere le forze mentre rivalutano la situazione e le loro possibilità. Nel frattempo, sono ricorsi a bombardamenti di massa indiscriminati di civili dal cielo.

Ma sono emersi gravi problemi di mobilitazione:

Il quotidiano The Times of Israel ha reso noto che i riservisti che vengono mobilitati nei ranghi dell’esercito israeliano incontrano seri problemi perché mancano di uniformi adeguate e di altri equipaggiamenti (compresi elementi di protezione balistica individuale). Si afferma che questo problema si sta cercando di risolverlo autonomamente nella Repubblica Popolare Cinese (Aliehpress), ma anche che gli Stati Uniti hanno annunciato aiuti militari che alleggeriranno la logistica dell’esercito israeliano.
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Le Forze di Difesa Israeliane non sono pronte per la mobilitazione su larga scala dei riservisti e per l’impiego in combattimento in condizioni di guerra. I riservisti, provenienti da tutto il Paese, non sono stati riforniti di cibo, non hanno avuto l’equipaggiamento, i beni di prima necessità e l’igiene personale. I volontari hanno già annunciato una raccolta a livello nazionale degli oggetti necessari per i riservisti, che continuano ad arrivare nei punti di raccolta in tutto lo Stato di guerra.
Per coincidenza, pochi giorni fa è stata rivelata una grave carenza di mimetiche per il Corpo dei Marines degli Stati Uniti:

In un video su Instagram, il Comandante Gen. Eric Smith ha affrontato le preoccupazioni dei membri del servizio per l’impossibilità di trovare e acquistare le “mimetiche” con motivi boschivi a causa di una carenza di produzione. Ha annunciato che, poiché il problema persiste, i membri locali saranno autorizzati a indossare uniformi alternative contrarie agli standard dei Marine: “Questo problema ci accompagnerà fino all’autunno del 2024, quando il produttore potrà colmare il ritardo che si è creato dopo il COVID. Fino a quel momento, i comandanti locali, i battaglioni e gli squadroni sono autorizzati a utilizzare l’equipaggiamento FROG [flame-resistant organizational gear] o le mimetiche [color deserto] per mitigare il problema”, ha detto Smith.
Sottolineo la questione solo per evidenziare l’ipocrisia: La Russia è stata ampiamente ridicolizzata per le varie carenze in quella che è stata una mobilitazione senza precedenti, mai vista in più di mezzo secolo. All’epoca dissi che ogni paese avrebbe avuto gli stessi problemi.

 

Ora, naturalmente, vediamo che si è dimostrato vero, dato che anche Israele sta avendo problemi nell’equipaggiare le sue truppe appena richiamate.

Inoltre, Bibi ha apparentemente premesso i ritardi con la scusa di dare tempo agli americani e ai civili di evacuare Gaza. Ma questo è complicato da diversi fattori, uno dei quali è il fatto che l’Egitto ha apparentemente chiuso il checkpoint meridionale e non vuole che i rifugiati palestinesi si riversino in Egitto.

Perché? Perché il piano segreto di Israele è stato a lungo quello di spingere i palestinesi fuori da Gaza e “reinsediarli” in una nuova casa nel Sinai, rendendoli “un problema altrui” in modo che Israele possa prendere completamente il controllo di Gaza.

 

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu cova da tempo il progetto di annettere la Striscia di Gaza e trasferire i palestinesi nella penisola del Sinai in Egitto, riferisce il canale televisivo iracheno Al Sumaria, citando una registrazione audio dell’ex presidente egiziano Hosni Mubarak in cui parla di una conversazione con Netanyahu. “Netanyahu una volta ha detto… che c’è una mappa che mostra la Striscia di Gaza e il territorio vicino ai nostri confini, e ha iniziato a consultarsi se la popolazione della Striscia di Gaza si trasferisse nella Penisola del Sinai”, ha detto il canale televisivo citando Mubarak. Secondo quanto riportato, l’ex presidente egiziano avrebbe rifiutato l’offerta di Netanyahu. “Scordatevelo. Né io né chi verrà dopo di me potremo rinunciare al nostro territorio”, ha detto Mubarak.
L’Egitto lo sa e preferisce tenerli dove sono, ma consegnare loro gli aiuti umanitari attraverso il checkpoint meridionale di Rafah. Israele probabilmente non vuole che se ne vadano attraverso il checkpoint settentrionale di Erez, perché ciò significherebbe che si riverserebbero in Israele. Così i palestinesi diventano inavvertitamente una pedina in questa sorta di gioco geopolitico.

In questo momento c’è una quantità di rumore informativo senza precedenti, con un falso dopo l’altro che si diffonde di minuto in minuto. Non solo per quanto riguarda le cose che accadono all’interno di Israele, ma anche per la scena geopolitica generale che vi ruota intorno, con falsi su vari Paesi come il Pakistan che offrono assistenza militare alla Palestina, ecc. Dobbiamo quindi essere molto vigili nel non credere a tutto e nel mantenere l’informazione pulita.

In generale, però, sembra che ci sia una mobilitazione di varie forze e Paesi, anche se molto di questo può essere attribuito a conseguenze precauzionali. Quasi tutti i Paesi “mobilitano” le loro forze per proteggersi quando c’è qualcosa che bolle in pentola nelle vicinanze, come ad esempio l’Iran al confine con l’Azerbaigian nei recenti scontri.

Così ora sentiamo parlare di potenziali richiami di massa delle forze siriane, con voci di mobilitazioni greche, ecc.

 

L’intero impero si sta mobilitando; jet da combattimento britannici arrivano alla base britannica di Akrotiri a Cipro. Uno squadrone di jet da combattimento della NATO provenienti dai Paesi Bassi è atterrato in Israele. La portaerei statunitense è stata dispiegata nel Mediterraneo orientale. In pochi giorni gli Stati Uniti si sono ritirati dall’Ucraina come da Kabul.

Con il presunto invio da parte degli Stati Uniti del loro secondo gruppo di portaerei nella regione, la situazione è destinata ad essere in fibrillazione. La posizione ufficiale, espressa oggi da John Kirby, è che queste portaerei hanno uno scopo di “deterrenza”, per far riflettere chiunque possa pensare di entrare nel conflitto.

All’inizio della giornata era stata annunciata un’incursione di massa di Hezbollah, ma anche in questo caso si è rivelata una fake news o uno psyop: alcuni ritengono che forse Hezbollah abbia hackerato o messo fuori uso i sistemi di allerta israeliani nel nord.

Nel frattempo, il Presidente iraniano Raisi avrebbe parlato al telefono con Bin Salman della KSA in merito al sostegno alla Palestina. C’è la sensazione che dietro le quinte si stiano formando coalizioni per qualcosa di più grande, ma non ci sono ancora indicazioni certe che si verifichi il grande Cigno Nero che alcuni si aspettano.

Alcuni, tuttavia, vedono dei paralleli con altre epoche di polverizzazione:

La situazione è stata esacerbata all’inizio della giornata da un’esplosione di un gasdotto tra l’Estonia e la Finlandia, che è stata prontamente attribuita alla Russia. Naturalmente, Stoltenberg ha già “minacciato” la Russia di reagire.

Sempre più spesso questi incidenti danno la sensazione che qualche mano nascosta stia cercando di alimentare un conflitto importante dietro le quinte. E come abbiamo detto l’ultima volta, è ovvio quale sia il motivo. La disastrosa campagna ucraina degli Stati Uniti e dell’Occidente è completamente uscita dai binari e minaccia di affondare l’intero Occidente con essa, come ha lasciato intendere il presidente polacco quando ha descritto l’Ucraina come un uomo che affonda e che minaccia di trascinare tutti con sé.

A cavalcare l’onda della crescente tensione ci sono i sempre più frequenti – e molto inquietanti – avvisi di un qualche tipo di attacco terroristico globale di massa previsto per venerdì:

Questo fa seguito a quello che si sostiene essere il cofondatore di Hamas che ha chiesto un “giorno di rabbia” in quel periodo e che la gente scenda in strada e compia la “jihad”.

Lindsey Graham, nel frattempo, ha invocato la propria jihad invocando una “guerra religiosa” in diretta televisiva:

Considerando che continuano a emergere sempre più prove che Netanyahu ha sostenuto il finanziamento diretto di Hamas, si può fare due più due:

Come accennato l’ultima volta, c’è il potenziale per qualche falsa bandiera coordinata di massa per far esplodere le cose, una volta che le risorse strategiche statunitensi sono in posizione nella regione. Si può facilmente immaginare uno scenario in cui i gruppi di portaerei statunitensi sono posizionati nel Mediterraneo orientale e “Hamas” o qualche “gruppo sostenuto dall’Iran” compie alcune importanti “provocazioni” o “attacchi terroristici” nelle principali città, inducendo gli Stati Uniti a condurre allegramente una campagna di bombardamenti per paralizzare la Siria, l’Iran, ecc.

Una cosa interessante da notare è che il MSM ora riporta che l’Iran non sapeva dell’attacco di Hamas, e quindi probabilmente non era coinvolto.

Questo porta a chiedersi se non ci sia un disaccordo all’interno del deepstate su come procedere e quanto intensificare la situazione.

Ci sono sempre più indicazioni che si tratti di una sorta di manovra di Netanyahu/Likud per consolidare il potere. Per esempio, la rivelazione che le forze di intelligence egiziane avevano avvertito il governo di Netanyahu che “qualcosa di grosso” stava per accadere, cosa che è stata completamente ignorata.

Per la cronaca, Israele ha ufficialmente negato che ciò sia accaduto. Ma è difficile credere a qualsiasi cosa dicano.

Nel frattempo, alcune delle più importanti pubblicazioni israeliane continuano a scagliarsi contro Netanyahu, incolpandolo delle conseguenze:

Ho visto alcuni esperti del Medio Oriente affermare che il regime di Netanyahu non sopravviverà a questo conflitto, indipendentemente da chi vincerà. Che sia vero o meno, di certo ha bisogno di una percezione di vittoria decisiva dopo tutto quello che è successo.

Uno dei problemi è che, a prescindere da come finirà, anche se dovesse andare nella direzione delle più blande previsioni di escalation, questa situazione rimodellerà la regione per sempre. Per esempio, supponiamo che Israele distrugga Gaza e sconfigga Hamas, ponendo rapidamente fine a questa situazione. Da questo momento in poi, Israele avrà un nuovo peso sulla spalla e sentirà una nuova giustificazione per colpire qualsiasi cosa o chiunque. Ciò significa che, a prescindere da come finirà la vicenda, le tensioni intorno alla Siria e all’Iran probabilmente aumenteranno a prescindere.

Israele userà quanto accaduto come giustificazione per rispondere in modo sproporzionato anche alla minima provocazione percepita. Ciò significa che gli attacchi di massa contro obiettivi iraniani in Siria seguiranno per molto tempo dopo questo episodio.

Un’altra cosa importante da notare è che, mentre è di moda prevedere una grande “trappola araba” e un finale da film in cui Egitto, Siria, Giordania, Libano, Iran e così via, piombano tutti insieme e distruggono Israele, la verità è che ci sono alcuni indizi di errori ripetuti che potrebbero finire con nient’altro che la distruzione di Gaza.

Ad esempio, era una tattica araba ben nota, risalente alla guerra dello Yom Kippur, quella di stimolare un conflitto e di esagerarne gli obiettivi per cercare di costringere o obbligare altri alleati a unirsi a esso. L’Egitto ha notoriamente mentito alla Siria nel 1973 sulla portata della sua penetrazione nel Sinai per convincere la Siria a impegnarsi ad attaccare le alture del Golan.

Allo stesso modo, si può ipotizzare uno scenario in cui, invece di una campagna altamente coordinata della sfera della resistenza, si sia trattato semplicemente di un disperato appello di Hamas per cercare di convincere altri attori regionali ad unirsi all’attacco sulla base della percezione di audacia dello stesso. Ma ci sono indicazioni che l’Iran e Hezbollah non vogliano davvero partecipare a un altro grande conflitto.

Naturalmente, questo potrebbe essere irrilevante se l’Occidente e gli Stati Uniti intendono cooptare gli attacchi e usarli a loro vantaggio con un’escalation incendiaria che costringerebbe l’Iran a rispondere. Ma per ora non c’è alcuna indicazione che ciò accada o che l’Iran abbia intenzione di essere coinvolto in modo palese.

Detto questo, un numero crescente di esperti ritiene che la “linea rossa” per gli altri Paesi sia l’irruzione di Israele a Gaza o il tentativo di occuparla:

Ed è possibile che questa sia una delle cause dell’improvviso tentennamento di Israele al confine con Gaza, invece di andare avanti come hanno affermato con tanta audacia di fare nel primo giorno di eventi.

Ma una cosa che continua ad essere evidente è che gli Stati Uniti stanno usando il conflitto per spingere l’Ucraina ad andarsene. Senatore repubblicano Hawley:

John Kirby ha appena pronunciato ad alta voce la devastante parte silenziosa nella conferenza stampa di oggi, ammettendo che sono alla “fine della corda”:

Ascoltate di nuovo le sue parole. Da un lato, le voci suggerivano che Biden intendesse staccare un gigantesco assegno da 100 miliardi di dollari per lavarsi le mani dell’Ucraina, ma Kirby ora afferma molto chiaramente che: “Non è il caso di cercare di fornire un sostegno a lungo termine quando si è alla fine della corsa”.

Si tratta di un’affermazione che apre gli occhi. Forse è la prima volta che l’amministrazione ammette così apertamente che non solo non ci sono piani per un “sostegno a lungo termine” all’Ucraina, ma che tutto il sostegno in generale è già vicino alla fine.

La capacità di aiutare Kiev sta diminuendo nel tempo a causa delle risorse limitate, il conflitto sta raggiungendo un punto in cui la sua soluzione attraverso l’azione militare è impossibile, ha dichiarato il Ministro della Difesa italiano Guido Crosetto.
Il fatto che la tempistica coincida con l’inizio di questo conflitto israeliano appare chiaramente come una messaggistica intenzionale per condizionare l’opinione pubblica sul fatto che il Progetto Ucraina si stia concludendo. Sky News ha persino riferito che Zelensky potrebbe improvvisamente essere aperto ai negoziati se gli aiuti occidentali dovessero davvero terminare:

Detto questo, è probabile che si tratti solo di speculazioni, dato che la linea ufficiale è ancora quella della resistenza dell’Ucraina. Ad esempio, è stato detto che l’Ucraina intende continuare a condurre offensive anche durante l’inverno, senza alcun limite.

Secondo diversi funzionari della Difesa statunitense, il Pentagono è sempre più preoccupato per l’eventuale necessità di estendere le sue scorte di munizioni, sempre più scarse, per sostenere l’Ucraina e Israele in due guerre separate: Al momento l’Ucraina e Israele richiedono armi diverse: l’Ucraina vuole enormi quantità di munizioni per l’artiglieria, mentre Israele ha richiesto munizioni aeree a guida di precisione e intercettori Iron Dome. Ma se Israele lancia un’incursione di terra a Gaza, l’esercito israeliano creerà una nuova e del tutto inaspettata domanda di munizioni per l’artiglieria da 155 mm e di altre armi, in un momento in cui gli Stati Uniti e i loro alleati e partner sono stati messi a dura prova da oltre 18 mesi di combattimenti in Ucraina”, spiega la CNN.
E per quanto riguarda quanto sopra, si dice che Israele sia già a corto di una serie di munizioni avanzate, tra cui le intercettazioni di Iron Dome, e che ora stia pregando gli Stati Uniti di rifornirsi. Sebbene Israele sia il produttore di Iron Dome, a quanto mi risulta anche Raytheon contribuisce alla produzione di alcuni missili.

Hanno anche iniziato a scarseggiare le bombe di piccolo diametro e altre munizioni guidate, e ora si dice che ricorrano all’uso di vecchie “bombe mute” come la M117 del 1950, qui raffigurata oggi:

Il capitano Raz Peretz è il nome inciso sulla bomba. È morto di recente durante i combattimenti, e questo potrebbe indicare che l’IAF sta utilizzando anche le sue scorte di bombe non guidate M117 da 750 libbre negli attacchi in corso.
Questo dimostra una cosa che ho sostenuto fin dall’inizio: nessun esercito della NATO è preparato per un moderno conflitto cinetico. Tutte le bombe guidate lanciate da Israele possono sembrare impressionanti in video, ma possono farlo solo per pochi giorni prima di esaurirsi e chiedere a mamma USA di averne altre. Nessun Paese può fare quello che sta facendo attualmente la Russia, che sta conducendo un conflitto di quasi due anni con una massiccia produzione industriale interna che rifornisce le intere forze armate con un sostegno senza precedenti.

Ma tornando all’Ucraina, la Russia ha immediatamente approfittato degli sviluppi entrando in azione con una grande offensiva su Avdeevka. In realtà, gli ucraini sostengono che si tratta di un’offensiva su tutti i fronti, compreso quello di Kupyansk.

Il Fronte Krasnolimansky tuona. Non ricordo nulla di simile in tutto l’anno in cui ho lavorato qui da vicino”, scrive il corrispondente di guerra Igor Zhdanov. Il consumo giornaliero di proiettili per un solo cannone è di circa cento. Sui mortai è letteralmente un ordine di grandezza superiore. Estrapolando l’intera linea di contatto, si tratta di centinaia di raffiche di artiglieria e migliaia di mine sparate. Appena a nord di Kremennaya, la fanteria si è incuneata per 600 metri nella difesa delle Forze armate ucraine su un sito di 1 km lungo il fronte.
Ma i progressi più notevoli sono stati fatti oggi nel settore di Avdeevka. Purtroppo molte fonti sono state premature nell’annunciare grandi vittorie come la cattura di Berdychi, che si è rivelata non vera. Ciò accade di solito quando una squadra di ricognitori si avvicina brevemente a un insediamento, che viene poi indicato come “catturato”, anche se la squadra si ritira rapidamente.

In realtà, l’avanzata è stata solo di qualche centinaio di metri, secondo le fonti ucraine – 200-500 metri a seconda del luogo, dato che ci sono state avanzate sia dalla tenaglia meridionale che da quella settentrionale.

Qui si può vedere la scala dell’assalto, grandi colonne di veicoli blindati in movimento:

Ma hanno iniziato a subire perdite, viste dai droni ucraini:

Tuttavia, anche le perdite sono state notevolmente esagerate, con l’Ucraina che ora afferma che “un’intera brigata è stata spazzata via” con “125 carri armati distrutti”. In realtà, sembra che finora siano stati danneggiati un paio di BMP e di carri armati. I comandanti ucraini affermano che si tratta dell’offensiva più potente in quella direzione dall’inizio della SMO:

Le truppe ucraine sono state viste abbandonare le posizioni e correre per salvarsi:

Anche l’aviazione russa è stata molto attiva con i Mi-28 che hanno sparato missili guidati, che alcuni ritenevano essere i nuovi Iz a guida televisiva. 305E LMUR:

Ma è ancora troppo presto per dire quanto successo avrà, solo che possiamo vedere che è molto difficile avanzare per entrambe le parti, poiché il controllo e la supervisione del fuoco dei droni e degli ATGM è troppo potente per la moderna guerra di manovra.

Le colonne devono muoversi lentamente a causa della quantità massiccia di mine, eppure diventano bersagli facili per gli ATGM che si nascondono nelle radure delle foreste o nelle macchie di bosco, ecc.

Detto questo, credo che siano soprattutto le forze della DPR ad avanzare qui, dato che quest’area è controllata dal 1° Corpo d’Armata che è composto da unità della DPR. Il fianco meridionale della tenaglia ha battaglioni Sparta e Somali, tra le altre famose unità della DPR, così come la brigata di artiglieria Kalmius della DPR, che può essere vista qui mentre lavora su Avdeevka con i suoi 2S7M Malkas.

La cattura più significativa è stata quella del grande “cumulo di rifiuti” a sud di Krasnogorovka:

Ecco un articolo che spiega perché Avdeevka è così intrattabile.

Resta da vedere quanto sia seriamente pianificata questa offensiva. Se fosse davvero l’inizio di una spinta su larga scala, tutta autunnale-invernale, allora sarebbe un affare importante liberare Avdeevka, poiché l’intera area rappresenta una delle principali regioni da cui l’Ucraina bombarda il nord e il centro di Donetsk. Tuttavia, alcune fonti ucraine ritengono che si tratti semplicemente di attirare rinforzi dalla regione di Zaporozhye per dare respiro alle forze russe. Questo è dubbio, naturalmente, ma dobbiamo aspettare e vedere.

***
Alcuni articoli vari.

Un confronto tra le dure parole di Ursula von der Leyen nei confronti della Russia per quanto riguarda il conflitto ucraino:

Quindi sembra che “la comunità internazionale” – o il meraviglioso popolo dello “Stato di diritto” – ammetta apertamente che distruggere l’acqua, l’elettricità, ecc. sia un atto di terrorismo. Grazie per aver ammesso che il regime israeliano è un regime terroristico, Ursula. Le tue parole possono ora essere ammesse come prova nei futuri tribunali per i crimini di guerra. Dopo tutto, ecco il membro della Knesset Limor Son Har-Melech che dice apertamente: “Non ci sono innocenti a Gaza”.

Dato che è un membro ufficiale del governo israeliano, questo rappresenta una sanzione ufficiale.

Tra l’altro, anche Marco Rubio ha superato se stesso. Ascoltate qui sotto:

Il prossimo:

Un video che fa riflettere e che spiega come il sistema di difesa aerea israeliano Iron Dome possa essere in realtà una bufala completa e totale. A quanto pare non ci sono prove concrete che abbia mai intercettato qualcosa, e sembra essere nient’altro che un generatore di fuochi d’artificio che spara razzi autodistruttivi in aria per creare una simulazione di tensione – un’altra boiata multimiliardaria per il MIC:

Il narratore fa molte osservazioni valide. Le “intercettazioni” di Iron Dome non sembrano mai assomigliare a quelle reali che abbiamo visto, ad esempio in Ucraina. Come questa:

Si noti la caduta dei pezzi e l’esplosione catastrofica.

Iron Dome, invece, si autodistrugge in aria senza che sia visibile nemmeno un pezzo di detriti:

Certo, la maggior parte dei sistemi missilistici sono programmati per autodistruggersi se perdono la traccia. E poiché Iron Dome è stato progettato per essere un sistema a saturazione molto più elevata, è ovvio che ci saranno molti più missili che perderanno la traccia ed esploderanno. Si tratta di un sistema che privilegia la quantità rispetto alla qualità, almeno per come la vedo io.

Tuttavia, anche alla luce di questa comprensione, è ancora un po’ strano che il narratore lo menzioni, e potrebbe essere molto più di una vera e propria boiata di quanto immaginassi.

Detto questo, non sono convinto che i razzi di Hamas siano interamente una “bufala” e niente più che fumogeni. La verità è che i razzi Qassam sono molto più piccoli di quanto si pensi: vengono lanciati da quelli che in pratica sono dei tubi da mortaio:

In secondo luogo, le dimensioni delle loro testate sono relativamente piccole: da 5 kg a 10 kg. Per chi lo sapesse, è l’equivalente delle testate che trasportano alcuni droni FPV russi. Non si avvicina nemmeno ai sistemi missilistici più deboli della Russia, come i Grad da 122 mm, che hanno testate da 20-30 kg. Inoltre, gli esplosivi non sono uguali. Gli armamenti russi e americani utilizzano esplosivi militari altamente raffinati che, libbra per libbra, sono molto più potenti di qualsiasi cosa possa essere fatta a mano. Una testata esplosiva palestinese di 10 kg può essere equivalente a qualcosa come 3-5 kg di esplosivo militare russo o americano IMX-101, Composizione B, ecc.

Quindi non ci si può aspettare un grande botto da loro. I buoni esplosivi sono materiali piuttosto costosi. Ecco perché una delle teorie era che Hamas avrebbe usato i suoi razzi a basso costo solo per esaurire Iron Dome, dopodiché Hezbollah sarebbe entrato in azione con la roba vera: SRBM iraniani, Scud di Fatah, ecc.

Ma credo che ci sia un’alta probabilità che gran parte del video sia accurato, e che Iron Dome sia in effetti per lo più una simulazione. È probabilmente il motivo per cui Israele ha rifiutato il permesso agli Stati Uniti di inviare Iron Dome in Ucraina qualche tempo fa:

Da quanto sopra:

Per essere chiari, non stiamo chiedendo a Israele di trasferire i propri sistemi Iron Dome, che sono fondamentali per la loro sicurezza, ma semplicemente di permettere agli Stati Uniti di trasferire le nostre batterie per aiutare la popolazione dell’Ucraina”, hanno scritto.
Quindi, come si può vedere, non si chiedeva nemmeno a Israele di dare i propri, ma piuttosto di permettere agli Stati Uniti di trasferire le batterie che hanno, che credo fossero di stanza a Guam. Probabilmente Israele non voleva che l’Iron Dome fosse “esposto” in un contesto reale in cui gli venissero sparate munizioni vere e proprie, perché ciò avrebbe mandato in fumo anni di simulazioni di “strategia della tensione”.

Inoltre, questo conflitto ha già messo a nudo diverse bugie di questo tipo. Per esempio il Trophy APS (Active Protection System) sui carri armati Merkava, che si è dimostrato completamente inutile e non ha funzionato nemmeno una volta, non riuscendo a fermare gli RPG-7 russi con testate tandem come si vede qui.

Sfortunatamente per gli Stati Uniti, Trophy è il sistema ufficiale scelto per gli ultimi carri armati Abrams ed è l’unico sistema APS in uso (M1A2 SEPv2+ e la nuova piattaforma dimostrativa Abrams X).

Come ultimo aggiornamento, sembra che Scalise sia stato scelto come principale candidato alla presidenza della Camera, ma stasera non ha raggiunto il numero necessario di voti repubblicani. Dovranno votare di nuovo la prossima volta dopo le discussioni.

Sfortunatamente, Scalise è quello a favore dell’Ucraina, mentre Jordan era contrario a ulteriori aiuti all’Ucraina. Ciò significa che se Scalise riuscirà ad entrare, potrebbe avere la possibilità di consentire almeno la votazione di un qualche pacchetto di aiuti in futuro, anche se non è ancora detto che passi.

Se la frase di Kirby sulla “fine della corda” è indicativa, non sono sicuro che si possano ottenere altri aiuti per l’Ucraina ora che Israele ha un “bisogno” molto più grave. E con Zelensky che sta pianificando una visita in Israele per “mostrare solidarietà”, le cose sono destinate a diventare molto interessanti nelle prossime settimane.


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Israele Aggiornamento sullo stato di avanzamento, di Aleks

Israele
Aggiornamento sullo stato di avanzamento

Cara comunità,

posso ora confermare pienamente che ciò che sta accadendo è la piena e definitiva escalation della situazione intorno a Israele. È una cosa gravissima. Non solo per gli israeliani e i palestinesi, ma per l’intera regione. La questione non è se esploderà o meno. Esploderà su larga scala. La domanda è quanto sarà grande questa esplosione “su larga scala” e quali Paesi ne saranno coinvolti.

Le cose sono ancora troppo presto per essere analizzate, ma credo di poter fare alcune affermazioni solide dal momento che ho studiato la situazione per diversi anni. Anni fa ho studiato le operazioni delle Guardie rivoluzionarie iraniane in Siria. Durante la mia ricerca ho scavato, per caso, molto a fondo nelle operazioni, negli scopi e nell’organizzazione delle Forze Quds. Si tratta di una formazione d’élite all’interno delle Guardie rivoluzionarie iraniane. Il suo scopo e la sua organizzazione sono esattamente questi: la liberazione del popolo palestinese, quando sarà il momento. Per essere più precisi, la liberazione di Gerusalemme. Quds significa letteralmente “Gerusalemme”.

Voglio ribadire che sono del tutto neutrale nei miei servizi su questo conflitto. I miei unici interessi sono legati alla Serbia. Non abbiamo problemi né con i palestinesi né con gli israeliani.

Torniamo alle Forze Quds. Sono organizzate in diverse sezioni. Ci sono forze speciali pubblicamente conosciute. E ci sono anche agenti organizzati in modo occulto, diciamo sotto copertura, a decine di migliaia, in tutto il mondo arabo e in Israele. Il loro scopo è quello di organizzare e preparare una guerra totale dell’asse della resistenza contro Israele, in quello che è essenzialmente la maggior parte del mondo musulmano intorno a Israele. Possiamo pensare a loro come a migliaia di agenti attivi che preparano, organizzano e coordinano le milizie e i governi intorno a Israele per il colpo finale. E possiamo pensare a migliaia di cellule dormienti, che aspettano solo un segnale preparato che le spinga a eseguire una sequenza di azioni predefinite e pre-comunicate.

Azioni con un unico scopo. Porre fine a Israele. Non chiedetemi fino a che punto si spingerebbero, non ne ho idea, e meno ne so e meglio è…

Beh. Quando di recente sono iniziati gli eventi in Israele, mi sono svegliato e ho visto le notizie e le immagini. In particolare, le immagini notturne della caserma israeliana, dove tutti i soldati sono stati uccisi mentre dormivano. La disattivazione del controllo militare meridionale di Israele, l’Iron Dome, ecc. Per me è stato chiaro: le Forze Quds sono state appena attivate con lo scopo finale.

Ragazzi, questa è roba seria e pesante. Voglio dire… sono profondamente scioccato. Questo è sicuramente un evento storico, essenzialmente mentre la SMO della Russia procede verso la conclusione, e all’inizio della decolonizzazione dell’Africa. Le guerre di liberazione sono in pieno svolgimento.

Ok, cosa significa tutto questo? Innanzitutto, non ho prove a favore della teoria di Quds, ma poiché ho passato molto tempo a studiarla durante la campagna di Siria, posso essere sicuro del mio punto di vista. Il che non significa, ovviamente, che potrei sbagliarmi! Anche la data di inizio della guerra è interessante. La guerra dello Yom-Kippur è iniziata nella stessa data. È un messaggio.

Quello che è appena successo contro Israele significa solo una cosa. Israele mobiliterà tutto e distruggerà Gaza. Resta da vedere se sarà occupata o semplicemente rasa al suolo con altri mezzi, ma sarà distrutta. Chiunque abbia iniziato l’operazione in corso ha fatto un lavoro di pianificazione perfetto. E questo significa che per lui era chiaro che Gaza sarebbe stata distrutta. In effetti, faceva parte del piano. Un sacrificio.

La distruzione e/o l’occupazione di Gaza è inaccettabile per i vicini arabi. Amici miei… Possiamo aspettarci che la regione venga fatta saltare in aria molto presto.

Sì, certo. Ci sono molte teorie sul coinvolgimento di Israele. È possibile, non lo so. Ma questo non cambia la situazione. Ecco alcune teorie che potrebbero essere giuste, ma anche in questo caso non importa se lo siano o meno. Il processo è stato avviato e non può più essere fermato.

Il Mossad era a conoscenza dei piani e ha lasciato che accadesse, per consolidare il popolo e il governo israeliani. (Ho molte ragioni per credere che questo non sia vero).

Il Mossad stesso ha decifrato i codici iraniani per l’attivazione delle cellule dormienti Quds per avviare il processo prima del tempo e distruggere l’intera operazione Quds prima che potesse essere usata contro Israele in un momento peggiore. (Possibile, ma attualmente è anche un brutto momento…).

In realtà, presumo che l’Iran abbia ora tutta la sicurezza di poter sconfiggere Israele per via convenzionale, dal momento che gli Stati Uniti sono sostanzialmente disarmati. Qualsiasi mossa degli americani a sostegno di Israele sarà un disastro per gli americani. Gli Stati Uniti semplicemente non possono permettersi una guerra contro l’Iran in questo momento, poiché la maggior parte delle loro risorse logistiche sono impantanate in Ucraina e contro la Cina.

Ebbene, il conflitto si intensificherà. Il problema è solo di quale portata. Una guerra totale dei Paesi arabi e dell’Iran contro Israele o solo una scaramuccia tra Hamas e Hezbollah ai confini e a Gaza? Tutto è possibile tra questi due scenari. Non ho idea di quale si concretizzerà; spero solo in una pace duratura per l’intera regione. I popoli della regione, sia arabi/persiani che israeliani, meritano la pace dopo le eterne e perpetue guerre guidate dall’impero nella regione.

Potrei delineare i miei pensieri su una potenziale sequenza di eventi, ma non lo farò perché tutto ciò che posso immaginare ora è orribile e l’odio nella regione è grande. Potete aspettarvi immagini orribili da entrambe le parti. Ciò che accade in Ucraina non è paragonabile a ciò che potremmo vedere nel Vicino e Medio Oriente.

Noi di BMA siamo neutrali in questo conflitto e non ci schiereremo da nessuna parte, né riferiremo a favore di questa o quella fazione. Preghiamo per una pace duratura.

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