I CALCOLI (SBAGLIATI) DI ISRAELE E STATI UNITI, di Roberto Di Giuseppe

I CALCOLI (SBAGLIATI) DI ISRAELE E STATI UNITI

E’ davvero difficile immaginare che l’attacco di Hamas al muro eretto dagli israeliani lungo il confine con la Striscia di Gaza, possa essere avvenuto senza che nessuno si sia accorto di nulla, che avamposti militari abbiano potuto essere conquistati quasi senza colpo ferire, che addirittura un rave party ad un passo dal confine con la Striscia e quindi a tiro di razzi, sia stato consentito, senza oltretutto un minimo di sorveglianza.

E’ anche più difficile credere che un simile colpo non sia stato rilevato neanche per una minima parte dai servizi di intelligenza tanto israeliani quanto statunitensi.

Come è stato detto da qualcuno, a mio avviso correttamente, tutto questo puzza tanto di 11 settembre 2001.

La mia idea è che questo attacco da parte di Hamas sia stato un “invito” da parte israeliana e statunitense.

Infatti, se ciò che credo risultasse anche vero, sarebbe stato impossibile per Israele contare su un così tempestivo sostegno a stelle e strisce senza che vi fosse stato un pieno accordo tra le due parti.

Questo significherebbe che i dirigenti di Hamas siano degli utili idioti, o peggio ancora, dei complici?

Niente affatto. Hamas ha chiarissima la strategia di fondo di Israele: la pulizia etnica della Striscia di Gaza, attraverso la progressiva espansione degli insediamenti coloniali e lo strangolamento economico-sociale dei palestinesi residenti in quel territorio.

Questa strategia, già ben nota tanto al regime nazista nella fase pre soluzione finale, quanto ai governi nord-americani nell’opera di genocidio dei pellerossa, ha tuttavia il suo tallone di Achille nel numero di persone da evacuare. Se per gli statunitensi si è trattato di un compito relativamente semplice (e che è tuttavia durata più di un trentennio), sia per i nazisti negli anni ’30-’40 che per gli israeliani ai giorni nostri, l’ostacolo posto dal numero si è rivelato un ostacolo troppo difficile da sormontare, anche in relazione alla ristrettezza del tempo a disposizione per portare a termine l’opera.

A ciò si aggiunga che mentre i nazisti hanno potuto contare sulla sostanziale arrendevolezza delle loro vittime, del tutto impreparate anche solo a concepire la determinazione e l’odio dei loro persecutori, Israele si trova invece ad affrontare un popolo determinato, combattivo e resistente, sostanzialmente inestirpabile con i mezzi ordinari di una comune politica di pulizia etnica, per quanto condotta con estrema durezza.

Questo ha comportato la necessità da parte israeliana di un decisa accelerazione.

Israele sta attraversando una fase piuttosto critica della sua storia. La sua popolazione è incerta sul suo futuro e profondamente divisa al suo interno e queste divisioni vanno sempre più polarizzandosi.

Esattamente lo stesso processo che si sta sviluppando negli Stati Uniti. USA e Israele sono, loro malgrado, indissolubilmente legati l’uno all’altro ed entrambi vedono con crescente ansia una progressiva erosione della loro influenza e della loro potenza.

Hamas e non solo Hamas vede tutto questo. Vede l’arroganza e la forza di Israele farsi sempre più intensa ed invasiva in modo inversamente proporzionale al venir meno delle sue sicurezze e non può fare altro che stare al gioco. Un gioco al massacro.

In estrema sintesi questo gioco prevede che Hamas attacchi Israele in forme finora completamente inedite e che Israele, o meglio il suo attuale governo iper-sionista, finga di essere stato colto di sorpresa. Ognuno fa i suoi calcoli. Israele forte dell’appoggio, dato per scontato, dell’Occidente collettivo, pensa di poter cogliere l’occasione per un’occupazione definitiva, manu militari, della Striscia di Gaza, dopo aver costretto la popolazione a espatriare in Egitto a forza di bombardamenti. Hamas pensa di usare questa stessa popolazione ed il suo ingente numero, per costringere il resto del mondo a prendere atto della vera natura della politica espansionistica di Israele. E’ innegabile che entrambe le parti abbiamo le mani sporche, molto sporche di sangue. A questo punto la vera partita si gioca sull’invasione di terra. Israele sa di non poter continuare all’infinito con i bombardamenti, efficaci peraltro solo sui civili. Già da più parti si levano degli altolà sempre più chiari e decisi. Inoltre le reiterate risoluzioni dell’Onu (per quanto l’Onu sia ormai poco più che un simulacro di se stesso) parlano chiaramente di una soluzione “Due popoli, due Stati”. Israele dunque, per portare avanti il suo disegno strategico, che è lo ripeto, l’espulsione totale e definitiva di tutti i palestinesi dalla Palestina, deve necessariamente invadere Gaza. Ma qui io credo, si innesti un grave errore di calcolo, dettato secondo me, dalla fretta di ricomporre un’artificiosa unità interna dinnanzi al pericolo imminente e dalla preoccupazione per i continui default del principale alleato e protettore, gli Stati Uniti. Una fretta che ha portato Israele, ovvero, lo ripeto, il suo attuale governo iper-sionista, a sottovalutare l’aumento del potenziale bellico di Hamas, sia sotto il profilo degli armamenti che sotto quello dell’addestramento del personale e del coordinamento di comando. Un attacco a Gaza comporterà inevitabilmente un bagno di sangue da entrambe le parti ed un probabilissimo allargamento del conflitto, con conseguenze del tutto imprevedibili sul futuro di Israele e forse anche del nostro.

E’ qui che si innesta la tematica dell’intervento nord-americano. A guardare le apparenze, sembra che la risposta degli Usa all’attacco di Hamas sia stata più rapida e pronta di quella dello stesso Israele. Immediato l’invio di una squadra portaerei con l’annuncio del rapido invio di una seconda, come “deterrente” verso possibili attori esterni. A mio avviso si è trattato di un’operazione concordata. Hamas, praticamente “costretto” ad attaccare, Israele che apparentemente si “lascia sorprendere” e gli Stelle a Strisce che prontamente intervengono a protezione dell’alleato proditoriamente aggredito, con l’oramai immancabile codazzo di camerieri e cameriere targati Unione Europea, opportunamente istruiti.

Il fatto è, secondo me, che gli Stati Uniti debbono cercare un diversivo per sganciarsi dalla trappola ucraina, dove stanno subendo una sconfitta storica, cento volte peggiore della ignobile fuga dall’Afganistan e in prospettiva, ancora più grave della storica sconfitta in Vietnam. Questa nuova debacle, deve essere mitigata da una decisa prova muscolare in uno settore altrettanto nevralgico dello scacchiere geopolitico, che ribadisca ad alleati ed avversari, la forza politica e militare della potenza nord-americana e allo stesso tempo sappia riportare un minimo di coesione interna messa così a dura prova dalla conduzione disastrosa del conflitto con la Russia.

Ma come spesso accade, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. La forza dell’attacco di Hamas si è dimostrata, volutamente o meno, fin troppo dirompente. L’opinione pubblica israeliana ne è rimasta profondamente scioccata ed intimorita. Al posto di una molto probabilmente auspicata e prevista, sollevazione interna anti-palestinese, sembra emergere piuttosto un certo disorientamento ed una crescente critica verso l’incapacità del governo Netanyahu nel non aver saputo prevenire un simile colpo. Da qui la necessità di questo stesso governo, di agire in fretta, senza la necessaria ponderazione. Il pesantissimo attacco aereo contro la Striscia di Gaza, va configurandosi sempre di più come un vero e proprio crimine di guerra. L’obiettivo originario di indurre la popolazione palestinese ad abbandonare il proprio territorio sotto l’effetto delle bombe, è divenuto un intento smaccato dal chiaro sapore di pulizia etnica, suscitando, come sarebbe stato facilmente prevedibile con un minimo di maggior lucidità, la reazione sempre più decisa dei paesi arabi.

La questione palestinese è notoriamente indigesta a gran parte del mondo arabo, ma tanto più per questa ragione, la pretesa israeliana di scaricare sull’Egitto il peso gravosissimo di gestire più di due milioni di palestinesi scacciati dalle loro case a colpi di bombe e di stragi di civili inermi, bambini compresi, appare semplicemente cervellotica. Più adatta semmai a spingere pericolosamente l’Egitto verso la china di una contrapposizione diretta con lo stesso Israele.

A meno che la preparazione militare di Hamas non risulti un clamoroso bluff, cosa che a me pare non molto probabile, l’attacco di terra, ancorché a mio parere inevitabile, proprio per la strategia di fondo sottesa alla politica di Israele, comporterà perdite notevolissime da entrambe le parti, che non mancheranno di avere il loro peso nel sistema delle relazioni internazionali. La forza dissuasiva della presenza militare statunitense, così ardimentosamente sbandierata, non credo sarebbe sufficiente ad impedire il coinvolgimento di altri attori esterni, proprio a causa della troppo pesante reazione aerea israeliana e di iniziative come il taglio delle forniture d’acqua e di energia elettrica, che hanno avuto il doppio effetto di apparire come una crudele quanto ingiusta punizione della popolazione civile ed allo stesso hanno mostrato al mondo come la Striscia di Gaza e la sua popolazione siano ostaggio della repressione e della prepotenza israeliana anche per i bisogni più essenziali come in una sorta di gigantesco campo di concentramento.

L’intervento diretto nord-americano quand’anche effettuato contro attori esterni come ad esempio Hezbollah, aprirebbe pur sempre uno scenario quanto mai pericoloso e denso di incognite e finirebbe comunque per compromettere in maniera definitiva la residua capacità contrattuale degli Usa rispetto al mondo arabo, già ora fortemente compromessa. Credo sia per questo tipo di considerazioni che il presidente Usa si sia espresso contro un intervento di terra da parte israeliana. Ma la rinuncia a questo intervento implicherebbe da parte di Israele l’ammissione di uno smacco politico-militare senza precedenti con conseguenze anche qui non pienamente ponderabili, ma certamente negative per lo stato sionista.

In tutto ciò, il pagliaccio di Kiev, come un vecchio saltimbanco sul viale del tramonto, riceve l’ennesimo schiaffo in faccia proprio dagli stessi israeliani che giudicano “non opportuna” la sua richiesta di visita “di solidarietà”.

Un pagliaccio che purtroppo è costato e costerà ancora centinaia di migliaia di morti tra il suo stesso popolo ed al quale la promessa di un esilio dorato in Canada per “servizi resi” potrebbe alla fin fine, non essere mantenuta.

Il mondo inizia a riordinarsi di George Friedman – 10 ottobre 2023

Il mondo inizia a riordinarsi
di George Friedman – 10 ottobre 2023Apri come PDF
Qualche mese fa ho scritto che il mondo è in procinto di riordinarsi, cosa che avviene ogni poche generazioni. Non è un processo che dipende dalle decisioni dei potenti o che può essere facilmente fermato. Nasce da pressioni economiche e politiche all’interno dei Paesi. Queste pressioni interne si trasformano in pressioni militari, poiché il sistema interno cerca di stabilizzarsi. Alcuni Paesi vivono queste situazioni come eventi dolorosi ma di routine, mentre altri si destabilizzano o si scatenano. Un altro nome per questo è progresso, che non è una marcia trionfale verso la felicità, ma una dolorosa lotta con la realtà; i dolori del progresso si trasformano in accuse contro altre persone e altre nazioni. Qualcuno deve essere responsabile dello sconvolgimento e del disorientamento del cambiamento, e il dito è sempre puntato contro gli altri e mai contro se stessi.

La base di questo ciclo attuale è stata l’Europa dei primi anni ’90, quando l’Unione Sovietica si è disintegrata e il trattato di Maastricht è stato firmato per unire il continente. Nel 2001, gli Stati Uniti hanno subito l’attacco dell’11 settembre. Nel 2013 Xi Jinping è diventato presidente della Cina. Nel ciclo della storia, uno o due decenni sono un tempo relativamente breve.

La frammentazione dell’Unione Sovietica aveva, all’epoca, lo scopo di creare una regione più efficiente. L’unificazione dell’Europa sotto l’Unione Europea mirava a ridurre le prospettive di conflitto e a creare una prosperità diffusa. La risposta degli Stati Uniti all’attacco dell’11 settembre mirava a ridurre la minaccia del terrorismo. L’elezione di Xi doveva portare la Cina sulla strada di una prosperità senza precedenti.

Nessuna di queste intenzioni si è risolta in un vero e proprio fallimento. La dissoluzione dell’Unione Sovietica ha portato alcuni paesi dell’ex Unione Sovietica e i suoi satelliti a un maggior grado di prosperità. L’unificazione europea ha portato a un periodo di relativa produttività. La risposta americana ha impedito un altro attacco di tipo 11 settembre agli Stati Uniti. E la Cina è cresciuta. Come in altri cicli, le intenzioni dei leader non sono state un completo fallimento, almeno fino al ciclo successivo.

È passata una generazione dall’inizio dell’ultimo ciclo e le linee di faglia della fase precedente sono nella fase finale del cambiamento. La Russia è impegnata nel tentativo di ricostruire l’Unione Sovietica, a partire dalla guerra in Ucraina. L’Unione Europea è profondamente divisa e Germania e Francia hanno proposto di istituzionalizzare la divisione. Negli ultimi giorni, il radicalismo islamico è tornato a farsi sentire con l’invasione di Israele da parte di Hamas. Gli Stati Uniti, dopo aver evitato altri grandi attacchi da parte di terroristi islamici, sono scivolati nella prevista fase finale del proprio ciclo, in cui le tensioni tra le persone per motivi politici, razziali, religiosi, sessuali e quant’altro domineranno i prossimi anni. E l’impennata economica della Cina ha lasciato il posto a una massiccia debolezza economica e a tensioni politiche.

Sono due i punti che sto cercando di evidenziare. In primo luogo, le nazioni contengono molti milioni di persone. Queste persone prendono decisioni che attribuiscono ai leader, perché il processo reale di milioni di persone che vivono insieme è troppo complicato da comprendere. Qualcuno deve essere incolpato, e non si può essere se stessi, quindi c’è una rabbia periodica. Secondo, e forse più significativo, il problema del nuovo periodo nasce dalla soluzione dell’ultimo periodo.

Siamo quindi in un nuovo periodo, che ha le sue origini nell’ultimo e consiste in guerra, crisi economica e rabbia reciproca. Queste sono le realtà veramente universali, a volte felici, troppo spesso tragiche. Ma sono sicuro che i greci guardavano tutto questo allo stesso modo. Possiamo evitare questi cicli? Mi piacerebbe pensarlo, ma non l’abbiamo ancora fatto.

Pensare all’intelligence

Riflessioni sulla geopolitica e dintorni.

Di

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Le notizie da Israele sono state sbalorditive e la spiegazione che molti danno a quanto accaduto è che c’è stato un “fallimento dell’intelligence”. Questo mi ricorda un lanciatore di baseball degli Yankees che aveva un no-hitter al 9° inning. Al secondo out dell’inning, un giocatore dei White Sox schiacciò una piccola e triste palla in terza base, costringendo il terza base degli Yankees a caricarsi e a girare per lanciare in prima. Il corridore superò il lancio. I giornali ignorarono la magnificenza di una partita con una sola battuta e criticarono il lanciatore per l’unica battuta. I critici non sono riusciti ad arrivare ai gradini più bassi delle leghe minori, ma si sono seduti a condannare compiaciuti un grande lanciatore.

Lanciare nelle Major è estenuante. Ma le persone che lavorano nel campo dell’intelligence hanno molto di più in gioco e molto meno controllo del processo. Potrebbero dover prendere un’immagine satellitare, poi comprenderla e analizzarla per costruire un quadro della realtà, il tutto prima che il nemico faccia il suo prossimo passo. Un’immagine satellitare, come la maggior parte delle informazioni di intelligence, non è un’immagine nitida e pulita, ma un mistero che deve essere decodificato mentre gli esperti discutono sul suo significato. Oppure prendiamo l’intelligence umana, dove un’agenzia di spionaggio può penetrare in un ufficio o in un palazzo per osservare e raccogliere informazioni, il tutto fingendo di essere tutto ciò che non è e sapendo che il nemico è in guardia per lo spionaggio. Un singolo passo falso – di solito dopo una conversazione molto dolorosa con un uomo che si guadagna da vivere facendo in modo che gli uomini rivelino la verità – potrebbe costare loro la vita.

Gaza-Israel in the Middle East
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Il fallimento è purtroppo parte integrante dell’intelligence. Una volta, reagendo a un fallimento dell’intelligence, un lettore ha suggerito che il fallimento era stato intenzionale per raggiungere un qualche scopo. La mancanza di comprensione di quanto sia difficile e pericolosa l’intelligence può portarci ad avere aspettative irragionevoli. A volte mi sono chiesto se l’intelligenza non valga la pena. Ma l’intelligenza è ciò che abbiamo. Ci dice qualcosa e nel tempo può dirci molto. La paura di essere scoperti può influenzare anche il nemico, che sa che l’intelligence del suo obiettivo finirà per svelare qualche parte importante del suo piano e che deve muoversi a velocità di fiancheggiamento per colpire prima di essere colpito. Il successo di un’operazione militare può dipendere dall’indovinare quanto tempo si ha a disposizione. E questo può portare al fallimento.

Per analizzare l’attacco di Hamas, il primo passo è capire cosa non si sa. I militari incaricheranno le organizzazioni di intelligence e diranno loro ciò di cui hanno bisogno, che di solito è molto più di quanto otterranno. Supponiamo quindi che la domanda sia se gli iraniani stessero finanziando Hamas. Come lo scoprireste? Accedere alle transazioni è difficile. Sarebbe utile penetrare nella banca nazionale, ma questo presuppone che gli iraniani usino la banca nazionale. E se ci pensate, anche scoprire chi riceve il denaro è difficile. E al momento non è una questione di grande importanza.

Israele sta combattendo contro Hamas, che tiene ostaggi che probabilmente ucciderà durante un assalto. La preoccupazione di Israele ora è quella di determinare con precisione dove si trovano gli ostaggi e quale routine è stata stabilita, e lasciare che le forze di operazioni speciali elaborino ed eseguano un piano di attacco. Il nemico tiene in ostaggio dei bambini, e per il momento questo è più importante del denaro. Gli iraniani sono una forza ostile; decidere quanto siano cattivi è accademico.

Per me, la domanda più interessante è chi ha fornito ad Hamas le armi e gli altri rifornimenti e quale percorso hanno seguito per arrivare a Gaza. Il viaggio dall’Iran è lungo, e fornire un attacco da lì comporterebbe l’attraversamento di molti confini, il che farebbe scattare molti allarmi – o almeno così Hamas dovrebbe supporre. Ma non c’è stato alcun allarme, quindi significa che i rifornimenti sono stati spostati lentamente verso una base avanzata, con i combattenti che si sono avvicinati grazie a un depistaggio. Questa è una domanda più importante del denaro, perché la risposta significherebbe che diversi alleati degli Stati Uniti sono stati coinvolti e quindi altre minacce potrebbero materializzarsi. La parola “potrebbe” è il termine ricorrente, se non fosse che Hamas ha costruito il suo arsenale a Gaza, l’Egitto e una serie di Paesi potrebbero essere coinvolti, trasformando la sfida dell’intelligence in qualcosa di monumentale.

Il problema principale non è capire se sia stato usato il denaro iraniano, ma la politica che ha permesso ad Hamas di accumulare ed equipaggiare la sua forza d’assalto, che sia avvenuta a Gaza o altrove. Come si fa a nascondere il movimento di molti uomini, che trasportano armi e si muovono in un paese molto vuoto? Questa è la mia domanda, ma non so se sia quella giusta. E questo è il problema da incubo dell’intelligence. Trovare risposte è possibile in diversi modi. Più difficile è sapere a quale domanda bisogna rispondere e mettere in funzione i collettori dei luoghi in cui si possono trovare le armi.

Il mio approccio all’intelligence si è trasformato in una previsione di ciò che accadrà, spesso tralasciando la data in cui avverrà. Mi piace pensare che sia utile avere un’idea, per quanto imprecisa, del futuro. Ma sapere quali sono le domande giuste da porre a poche ore da un attacco, e incaricare i collettori di trovare le risposte, è un lavoro che non ammette errori. Ed è qui che inizia l’incubo dell’intelligence.

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Il sostegno della Russia all’indipendenza palestinese non deve essere interpretato come una politica anti-israeliana, di ANDREW KORYBKO

Il sostegno della Russia all’indipendenza palestinese non deve essere interpretato come una politica anti-israeliana

ANDREW KORYBKO
11 OTT 2023

La comunità degli Alt-Media sta mentendo sulla politica equilibrata del Cremlino nei confronti dell’ultimo conflitto tanto quanto i media mainstream, anche se dalla posizione diametralmente opposta di dissociare falsamente la Russia da Israele mentre i loro presunti rivali cercano di associarla falsamente al terrorismo.

L’ultima guerra tra Israele e Hamas ha polarizzato l’opinione pubblica internazionale in campi diametralmente opposti, e la posizione equilibrata della Russia nei confronti di questo conflitto è una delle poche eccezioni. Sia i media mainstream (MSM) che la comunità degli Alt-Media (AMC) hanno fatto passare il suo sostegno all’indipendenza palestinese come una politica anti-israeliana, ciascuno per perseguire i propri interessi personali. La prima vuole associare la Russia al terrorismo, mentre la seconda vuole dissociare la Russia da Israele.

Questo articolo ha raccolto diverse decine di citazioni del Presidente Putin su questo conflitto, tratte dal sito ufficiale del Cremlino tra il 2000 e il 2018, per dimostrare che egli sostiene risolutamente il diritto di Israele all’autodifesa, soprattutto quando è vittima di attacchi terroristici. Questa posizione si è concretizzata nel fatto che la Russia ha permesso a Israele di bombardare impunemente l’IRGC e Hezbollah in Siria centinaia di volte dal 2015 a oggi con questo pretesto, nonostante si sia occasionalmente opposta in pubblico, cosa che è stata documentata e analizzata qui.

I precedenti articoli ipertestuali sono importanti per i lettori al fine di sfatare le false affermazioni del MSM secondo cui la Russia sostiene le recenti azioni di Hamas che sono state descritte come terrorismo. Questo è pertinente dopo che Zelensky ha avallato questa teoria del complotto, che serve solo a screditare ulteriormente la Russia agli occhi dell’Occidente e quindi a garantire un continuo sostegno agli aiuti militari a Kiev. Ha ammesso che “c’è il rischio che l’attenzione internazionale si sposti dall’Ucraina”, il che ha svelato le sue motivazioni.

Per quanto riguarda i motivi che spingono l’AMC a screditare la posizione della Russia, la maggior parte dei membri sono appassionati antisionisti che considerano la causa palestinese la più importante al mondo, ma molti sostengono anche la Russia. Molti (ma ovviamente non tutti) sono anche di sinistra e liberali, quindi predisposti a “cancellare la cultura”. Di conseguenza, sono contrari ad associarsi con coloro che non condividono pienamente le loro opinioni su qualsiasi cosa, il che spiega il dilemma in cui si sono trovati riguardo alla Russia e a Israele.

Queste persone attaccano aggressivamente chiunque non condanni senza riserve Israele e non sostenga incondizionatamente la Palestina. Secondo loro, Israele non ha diritto all’autodifesa anche dopo essere stato vittima di attacchi terroristici, poiché è una potenza occupante illegale, che secondo alcuni non ha diritto di esistere. Altri si spingono ancora più in là, chiedendo che tutti i cittadini ebrei di origine europea di Israele se ne vadano al più presto o affrontino le conseguenze potenzialmente letali di essere colonizzatori-sedimentatori di terre palestinesi legali.

Il problema che hanno riscontrato è che la Russia, che molti di loro sostengono per il suo ruolo nell’accelerare la transizione sistemica globale verso il multipolarismo e nell’erodere l’egemonia degli Stati Uniti, non condanna senza riserve Israele né sostiene con convinzione la Palestina a causa della sua posizione equilibrata. Temono che “cancellare” la Russia per questo motivo porterebbe alcuni dei loro pari a “cancellarla” in risposta, catalizzando così un’interminabile disputa interna che finirebbe per dividere e dominare gli antimperialisti.

Nell’intento di evitare questo scenario controproducente, basato sulla predisposizione di questa sinistra e di questi liberali a “cancellare la cultura”, essi hanno quindi tacitamente accettato di ignorare questo significativo disaccordo con la Russia per perseguire un “bene superiore”. Alcuni si sono spinti oltre e hanno mentito sulla posizione della Russia nei confronti di questo conflitto, al fine di generare peso, spingere la loro ideologia e/o sollecitare donazioni da parte di coloro che, tra il loro pubblico, vogliono disperatamente credere che la Russia sia contro Israele.

Sostenere l’indipendenza palestinese non è comunque una politica anti-israeliana, ma semplicemente la riaffermazione del diritto internazionale che si allinea con l’approccio russo agli affari globali. Allo stesso tempo, la Russia invita costantemente entrambe le parti a cessare il fuoco e ad esercitare l’autocontrollo. Condanna inoltre le vittime civili in Palestina e in Israele. Se la Russia avesse davvero una politica anti-israeliana, allora si limiterebbe a criticare il Paese e non attribuirebbe mai una colpa parziale alla Palestina, come ha fatto nelle seguenti dichiarazioni ufficiali:

* 7 ottobre: “Commento della portavoce del Ministero degli Esteri Maria Zakharova sulla forte escalation del conflitto palestinese-israeliano”.

– “Chiediamo alle parti palestinese e israeliana di attuare un immediato cessate il fuoco, rinunciare alla violenza, esercitare la moderazione e iniziare, con l’assistenza della comunità internazionale, un processo negoziale volto a stabilire una pace globale, duratura e a lungo attesa in Medio Oriente”.

* 9 ottobre: “Dichiarazione del Ministero degli Esteri sulla situazione nella zona di conflitto tra Palestina e Israele”.

– “Migliaia di israeliani e palestinesi sono stati feriti. Esprimiamo le nostre più sentite condoglianze alle famiglie e agli amici di tutte le persone uccise e auguriamo una pronta guarigione ai feriti”.

* 9 ottobre: “Osservazioni del Ministro degli Esteri Sergey Lavrov e risposte alle domande dei media durante una conferenza stampa congiunta con il Segretario Generale della Lega Araba Ahmed Aboul Gheit, Mosca, 9 ottobre 2023”.

– Sergey Lavrov: “Abbiamo esposto la nostra posizione secondo cui è inaccettabile commettere qualsiasi violenza, infliggere danni, uccidere civili pacifici (da entrambe le parti) o prendere in ostaggio donne e bambini”.

* 10 ottobre: “Colloqui Russia-Iraq” (tra il Presidente Putin e il Primo Ministro al-Sudani)

– Presidente Putin: “La nostra posizione è che i danni alla popolazione civile devono essere minimizzati e ridotti a zero, e chiediamo a tutte le parti in conflitto di farlo”.

* 10 ottobre: “Il Cremlino esorta entrambe le parti del conflitto arabo-israeliano a mostrare moderazione”.

– Dmitry Peskov: “È molto importante ora che entrambe le parti mostrino moderazione”.

RT ha condiviso due articoli che aggiungono ulteriore contesto al motivo per cui la Russia incolpa parzialmente Hamas per questo conflitto:

* “Dieci russi in Israele uccisi o dispersi – Ambasciata”.

* “Famoso fisico sovietico ucciso da Hamas – media”.

Chiunque faccia passare il sostegno del Paese all’indipendenza palestinese, ribadito anche in tutte queste dichiarazioni, come una politica anti-israeliana, o ignora le dichiarazioni ufficiali di cui sopra o inganna deliberatamente il proprio pubblico sulla posizione della Russia. In ogni caso, le fonti ufficiali condivise sopra, provenienti dai siti web del Ministero degli Esteri, del Cremlino, della TASS e di RT, dimostrano che la posizione della Russia è equilibrata, poiché incolpa anche Hamas per l’ultimo conflitto, non solo Israele.

Coloro che tra i membri dell’AMC continuano a manipolare la percezione della politica russa nei confronti di questo conflitto, dopo essere stati informati dei fatti precedentemente condivisi, stanno inavvertitamente eseguendo gli ordini di guerra informativa dei suoi nemici, insinuando falsamente il sostegno di Mosca agli attacchi di Hamas contro i civili. Inoltre, stanno screditando quello stesso governo agli occhi del suo popolo, fingendo che non si preoccupi dell’uccisione dei propri cittadini (doppi) durante questo conflitto, cosa che è controfattuale, come è stato indiscutibilmente dimostrato.

Queste persone possono continuare a funzionare come “utili idioti” nella guerra globale dell’informazione contro la Russia, aggrappandosi in modo disonesto alle loro false affermazioni per qualsiasi ragione personale (ad es. influenza, ideologia e/o richiesta di donazioni) o mettere le cose in chiaro condividendo finalmente tutti i fatti. È possibile sostenere la Palestina contro Israele e il ruolo della Russia nell’accelerare la transizione sistemica globale verso il multipolarismo, pur non condividendo la politica del Cremlino nei confronti dell’ultimo conflitto.

Ci sono solo tre ragioni per cui la maggior parte dell’AMC non ha adottato l’approccio precedente: 1) i top influencer ignorano davvero tutti i fatti sulla posizione della Russia; 2) sono consapevoli di quanto sopra, ma temono di essere “cancellati” dai loro colleghi di sinistra e liberali se parlano, quindi rimangono in silenzio; oppure 3) sperano egoisticamente di guadagnare qualcosa continuando a mentire al loro pubblico. Qualunque sia la ragione di ciascun top influencer, il risultato finale è che tutti quanti stanno descrivendo in modo errato la posizione della Russia.

Stando così le cose, l’AMC sta mentendo sulla politica equilibrata del Cremlino nei confronti dell’ultimo conflitto tanto quanto il MSM, anche se dalla posizione diametralmente opposta di dissociare falsamente la Russia da Israele mentre i loro presunti rivali cercano di associarla falsamente al terrorismo. Nessuno dei due sta dicendo la verità, poiché hanno motivi narrativi di interesse personale per farla girare. Di conseguenza, il cittadino medio viene lasciato confuso sulla posizione del Cremlino e tenuto all’oscuro della sua reale politica.

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LIBERTA’ O ETICA, di Paolo Galante

 

LIBERTA’ O ETICA

 

E’ palese che col rinascimento prima, e con maggior enfasi con l’illuminismo poi, nella civiltà europea ha preso sempre più piede l’idea che il valore-principe della vita umana è la libertà, scalzando così l’etica, ovverosia la realizzazione del bene comune dalla primazia di cui ancora godeva nel medioevo.

Con ciò non si vuol certo dire che in generale l’uomo di allora, e soprattutto i potenti, ponessero l’etica a fine di ogni loro azione e progetto. Però, quanto meno a livello filosofico, si concordava che scopo della vita non fosse la libertà di affermare la propria volontà, ma di conformare il proprio agire alla volontà di Dio, il cui attributo-principe è il sommo bene. Il primo posto nella scala dei valori spettava all’etica, al bene comune, non certo alla libertà individuale finalizzata al perseguimento del bene del singolo.

Secondo questa visione, la vita dell’uomo aveva il fine non in sè – realizzare il bene personale – ma in qualcos’altro di molto più grande, più grande addirittura del bene dell’umanità, il bene del creato tutto. In altre parole, fine dell’uomo era di farsi mezzo per la realizzazione della volontà del sommo bene, Dio.

E’ il caso di sottolineare che la religione, ponendo il fine della vita oltre  la sfera del piccolo bene individuale, proponeva all’uomo un approccio alla vita di natura trascendente, cioè il fine della vita trascendeva, andava oltre la sfera dell’individuale, per aprirlo ad una dimensione infinitamente più vasta, che metteva la sua vita in relazione a quella della totalità.

La concezione religiosa della vita, in quanto fondata sul fatto che la significatività dell’esistenza è data dalla tensione verso il trascendente, è di natura squisitamente dialettica. Infatti, è proprio della trascendenza mettere in rapporto l’io col suo opposto, l’altro. L’io realizza se stesso trascendendosi per andare verso l’altro. “L’io è un altro”: diceva Rimbaud.
Non siamo fatti per rimanere uguali a ciò che siamo, per coincidere lungo tutta la vita con un’identità definita così una volta per tutte. Non siamo fatti per essere e rimanere dei narcisi.

La religione, aldilà di tutte le critiche legittime – e in verità sono molte – che le si possono fare, ha però un merito innegabile e di fondamentale importanza per la salvaguardia dell’etica e della significatività dell’esistenza: estendere lo spazio della nostra progettualità ben oltre gli angusti confini della finitezza dell’io.

 

Col rinascimento, alla concezione trascendente e dialettica della vita viene assestato un duro colpo. Come già detto, il percorso che porterà a detronizzare l’etica dall’essere il principio fondamentale della vita, sostituendola con la libertà, si svolse sempre più in discesa. La libertà si emancipò così dall’etica, l’individuo dalla collettività, l’io dall’altro.

Prese così piede una concezione della vita non più fondata sul principio della complementarietà degli opposti, ma su quello antidialettico che un ente è uguale solo a se stesso, per cui ogni passo verso l’altro comporterebbe la perdita del proprio essere.

Per la dialettica, l’essere è un processo messo in moto dal contrasto fra gli opposti: si muove davanti (pro – cede) a noi. Non è cosa data – che sta nel passato cioè – ma nel futuro: sta infatti davanti.

L’antidialettica, che è la logica fondata sul principio di non contraddizione, concepisce l’essere come statico, in quanto coincidente con se stesso, totalmente contenuto entro i confini della sua definizione. Non riconoscendo che l’identità dell’essere consiste nel divenire altro, perché ciò contravverrebbe al principio di non contraddizione, lo condanna all’immobilismo, al passato, ad essere soggetto ad una ferrea necessità.

Non è un caso che nel rinascimento assistiamo anche ad un rifiorire del pensiero scientifico quale in Europa forse non si vedeva dal periodo ellenistico. La scienza, nella sua applicazione tecnologica, si fonda, infatti, sul principio di non contraddizione. Per poter applicare all’essere il pensiero necessitante della matematica – il cui linguaggio è a fondamento della tecnica – occorreva immobilizzare l’essere, necessitarlo, privarlo della libertà di contraddire se stesso divenendo altro da sè.

Ma l’essere, come sosteneva Heidegger, e non solo lui, è progetto.  In sostanza egli ha detto che maggiore è la tensione progettuale dell’individuo, più la nostra esistenza acquista significatività, più si accresce in noi il sentimento del valore dell’essere rispetto a quello del non essere. Ma la filosofia occidentale ha ristretto la progettualità alla sola sfera psichica dell’essere, escludendone quella materiale.

La fisica moderna, però, ha ormai dimostrato, contraddicendo la sua passata impostazione meccanicista, che la progettualità vale anche per la sfera materiale  dell’essere. La più profonda delle scienze della materia, la fisica, ha dimostrato che anche a fondamento della materia c’è il moto. Quindi niente è fermo, niente coincide stabilmente con se stesso.

Il principio di non contraddizione, sul quale Galileo pretendeva si fondasse il mondo (“Il mondo  è scritto in caratteri matematici”) è falso. O, meglio, è vero, cioè funziona perfettamente se il nostro scopo è privare l’essere della libertà di cambiare, per così assoggettarlo e costringerlo a cederci la sua energia.
Non è vero però, cioè non funziona se pensiamo che la grande potenza che otteniamo, piegando l’essere alla nostra volontà, accresca anche la significatività del nostro essere nel mondo.

 

Questa concezione, che col rinascimento ha fatto un notevole balzo in avanti, per convincerci che la significatività dell’essere consista nell’accrescimento della potenza, si è rivelata e, ancor più drammaticamente oggi, si rivela falsa.

La prova? Oggi, in cui la potenza messaci a disposizione della tecnica ha raggiunto livelli di efficienza inimmaginabili nel passato, viviamo anche in un tempo in cui sembriamo aver smarrito, o quanto meno percepiamo come indebolito, il sentimento della significatività della nostra ed altrui vita.

Purtroppo, l’umanità sembra non capire che l’accrescimento della potenza ha un prezzo: la diminuzione della significatività della vita. Più l’uomo vuole accaparrarsi l’energia della natura, sotttraendola agli altri viventi, più si separa dalla vita del tutto, col risultato di vivere una vita ricca sì di potenza, ma carente però di significato.
La potenza e l’etica, il bene della totalità, si escludono a vicenda.

Agli albori del rinascimento il mito di Faust ammonì l’uomo europeo che la potenza si paga con la dannazione dell’anima.

Non vi si prestò ascolto. L’uomo, sedotto dalle sirene della potenza, decise di dare un forte scossone alle catene della religione, del rispetto della tradizione, dei diritti degli altri viventi che ponevano un freno all’estrinsecazione della sua potenza. Reclamò per sé più libertà alla sua volontà di potenza. Pretese per sé vieppiù il ruolo di creatore che di creatura.

Fra parentesi, ciò – a mio avviso – sarebbe anche giusto.  E questo è anche il punto fondamentale che contesto alle religioni in genere.

Il fatto però è che il rinascimento non si pose, o, quanto meno, si pose in modo insufficiente il problema etico di stabilire a quale delle volontà, che abitano l’uomo, bisognava concedere la libertà e riconoscere la dignità di creatore: alla volontà dell’ego o a quelle più sensibili ai valori etici?

Si scelse, anche se ancora con qualche reticenza, che la libertà maggiore dovesse essere concessa alla volontà di potenza e dunque all’ego.

Certo, non si era ancora giunti al punto da disconoscere del tutto la necessità dell’etica – per questo bisognava aspettare l’illuminismo, il darwinismo biologico seguito poi da quello sociale, il liberalismo economico, il materialismo meccanicista col suo corollario della sostanziale insensatezza  della vita -.tuttavia essa venne progressivamente messa da parte, perchè coi suoi scrupoli non frenasse il dispiegamento della volontà di potenza dell’uomo.

 

Porre la libertà al primo posto nella scala dei valori in luogo dell’etica rappresentò un cambiamento di prospettiva così radicale da richiedere comunque una giustificazione che rimettesse in gioco, in qualche modo, l’etica.

Come detto, non si era ancora giunti al darwinismo biologico e sociale, per il quale è bene liberare le leggi di natura da ogni vincolo di natura etica, che ostacolano l’affermazione del più forte con la relativa soccombenza del più debole.

Di conseguenza si cercò di reintrodurre l’etica con la formula capziosa che “la libertà di una persona finisce dove incomincia quella altrui”. La formula, ad un’analisi superficiale, suona bene; sembra poggiare su un solido fondamento etico.

Non è così. La formula ricalca il concetto kantiano di etica, un’etica fondata sul dover essere. L’essere sarebbe etico non perché questa è la sua essenza, ma perché è suo dovere esserlo.

Tale concezione della libertà dell’essere e dell’etica è antidialettica. Essa infatti pone come opposta alla libertà dell’individuo la libertà dell’altro. La libertà dell’altro è per l’individuo ciò che necessita nel senso che frena, limita la sua libertà. Il conflitto fra la mia libertà e la necessità (la libertà dell’altro cioè)  non avviene più dentro di me, ma fra me ed un altro. Ponendo la necessità fuori di me, io mi alieno da essa e con ciò mi alieno anche dal conflitto dialettico, poichè non lo vivo più come lotta fra due opposti che mi appartengono, in quanto entrambi espressione del mio essere, ma come conflitto fra un polo che mi appartiene ( la mia libertà) e un altro che invece non mi appartiene (la necessità) perchè rappresentato da un altro.

Ora il conflitto è – come ci ricorda Eraclito – genitore dell’essere, ma solo se riporto dentro di me gli opposti, non se lo esteriorizzo allontanando da me ciò che mi ostacola.

 

Se il valore fondante dell’essere, come si cominciò a pensare soprattutto dal rinascimento, è la libertà, ogni limitazione ad essa, sebbene di natura etica, non può che essere sentita anche come limitazione dell’essere.

Anche il dover essere kantiano, quindi, si configura come una limitazione dell’essere. Fondare l’eticità dell’essere sul dovere è chiaro indice di sfiducia nell’eticità intrinseca all’essere stesso, in quanto si ritiene che per essere etico l’essere deve limitarsi, cioè rinunciare alla sua pienezza.

Ma così implicitamente si afferma che l’essere, senza i limiti posti dal dover essere, non è etico, dando così ragione all’Hobbes dell’”homo homini lupus”.

 

Si potrebbe obiettare che anche il Cristianesimo aveva una visione sostanzialmente negativa della natura umana, ritenendola segnata dal peccato originale.

Ma fra il Cristianesimo e le religioni da una parte, e il pensiero europeo del rinascimento, e soprattutto postrinascimentale, dall’altra c’è la differenza capitale che, mentre le prime fondano l’essere sull’etica, il secondo sulla libertà.

Per la religione è vero sì che la natura umana è segnata dal peccato, ma l’uomo ha pur sempre la possibilità di trascenderla, onde identificare il suo essere con l’anima.

Ponendo l’etica al primo posto, la religione sottopone la libertà ad un giudizio etico, il che pertanto comporta anche una disanima sulle varie volontà che si combattono per contendersi il primato all’interno della psiche umana. Per il cristianesimo non si può concedere la libertà alle volontà che sono espressione della natura peccaminosa dell’uomo; la si deve concedere invece alle volontà di natura etica, espressione dell’anelito dell’anima ad operare al servizio del sommo bene, Dio.
La natura dialettica del cristianesimo si palesa nel fatto che pone il conflitto all’interno dell’uomo fra volontà peccaminosa, in quanto volta al bene dell’ego, e volontà etica.

Entrambe le volontà aspirano alla libertà e ciascuna è perciò di ostacolo all’altra.

L’ostacolo è però interno al nostro essere e non al di fuori di esso. “Intus est adversarius”: dentro di noi è il nostro nemico. La lotta è quindi fra volontà che, pur essendo opposte (in questo caso il bene dell’ego ed il bene comune che è l’etica), appartengono ad un unico essere. La religione prende atto della natura conflittuale dell’essere, ma ha il merito di porre tale conflitto dentro di noi, riconoscendo così la natura dialettica dell’essere.

La religione prevede un processo di maturazione dell’essere, che parte innanzittutto dalla presa d’atto che siamo una pluralità di volontà confliggenti tra loro. Una volontà che si oppone ad un’altra è sentita da entrambe come necessità, in quanto una vuole togliere all’altra la libertà di manifestarsi. La religione pone l’ostacolo in noi: noi stessi siamo così la difficoltà da superare.

Non è certo facile sentire che noi stessi siamo di ostacolo alla libera estrinsecazione della volontà con cui ci identifichiamo; sentire che la necessità, che ci vuole privare della libertà, è in noi.

Ma è anche vero che il conflitto, se accettato, ci rimette in moto, permettendoci così di avere accesso all’anima, intesa nel significato etimologico di ciò che anima. L’identificarci con la volontà dell’anima ci rende liberi, perchè essa è espressione dell’autenticità del nostro essere, che consiste nell’etica.

Una volta che ci identifichiamo con la volontà dell’anima, il rispetto della libertà altrui non è più sentito come un limite alla nostra volontà. Lo sarebbe solo se ci identificassimo con la volontà dell’ego.

Chi si identifica con la volontà dell’anima non percepisce la libertà dell’altro come un limite alla sua, ma anzi come un ampliamento.

Di più: il valore che si pone al primo posto nell’esistenza è quello che riconosciamo come assoluto e quindi immodificabile. Se assegno il primato alla libertà, ne consegue che relativizzo l’etica. Essa diventa passibile di modificazione, il concetto di bene e male diventa relativo e lo diventa rispetto al valore posto come assoluto, la libertà.

E’ dunque la mia libertà a stabilire cosa è bene e cosa è male. Essendo stata scelta come valore assoluto, la libertà non è disposta a mettersi in discussione, e sarà quindi l’etica a doversi adeguare all’assoluto che è la libertà. E’ bene quindi ciò che favorisce la mia libertà, male ciò che la ostacola.

La mia libertà si assolutizza; quella degli altri di conseguenza si relativizza, piegandosi al giudizio del mio io. Parlare del rispetto della libertà altrui diventa in questo scenario pura ipocrisia.

La si può rispettare solo se la si ama. Ma la posso amare solo relativizzando la mia libertà ed assolutizzando invece l’etica. Essa è l’espressione del bene comune ed esso è la verità.

Lo è perchè l’essere è uno, è unità. Di conseguenza anche il bene è tale solo quando è uno, quando si manifesta come bene della totalità, come etica. Come l’essere è uno, così il bene è uno.

Se vogliamo accrescere in noi il sentimento della significatività dell’essere, non possiamo che assolutizzare l’etica. Ad essa spetta il primo posto nella scala dei valori. La libertà pertanto diventa secondaria, nel senso che segue l’etica come una conseguenza. E’ l’etica cioè a stabilirne il valore sulla base di quanto la libertà si conformi alla verità cioè al bene comune cioè all’etica.

 

Potrebbe sembrare che stilare una scala gerarchica, dove al primo posto compare un solo valore – ad es. l’etica o la libertà –  sia in contrasto con la dialettica, giacchè essa prevede che ci sia una contrapposizione fra due valori aventi uguale dignità ed importanza.

Ciò è vero nel caso della libertà, ma non in quello dell’etica. Infatti la libertà è cosa unilaterale, non ha in sè il proprio opposto, la necessità.

Va bene che anche i più sfegatati libertini e liberisti tendono, magari per pura ipocrisia, ad ammettere che la libertà propria non può essere assoluta, ma relativizzata dal rispetto di quelle altrui. Tuttavia questa concessione alla dialettica è estrinseca al concetto di libertà personale in quanto la necessità, evocata dalla libertà altrui, resta altra rispetto alla libertà personale: altra nel senso che la mia libertà e quella altrui, quella che per me è necessità, rimangono distinte, non si fondano cioè nell’unità conflittuale del processo dialettico. Tale processo è conflittuale perchè pone insieme due opposti.

E’ però unitario perchè il conflitto non avviene fra me ed un altro, ma è tutto interno all’unicum della mia persona.

Nel caso invece che sia l’etica al primo posto nella scala dei valori, si può a diritto affermare che tale primato è in accordo con la dialettica. L’etica infatti è di per sè un concetto bilaterale, è cioè espressione della contrapposizione fra due opposti, libertà personale e libertà altrui.

Il primo posto nella scala gerarchica non è quindi rappresentato da un solo valore, ma da due: libertà personale e libertà altrui cioè quella che per me è una necessità, in quanto è limite alla mia libertà.

Come detto, l’etica ha per scopo il bene comune, il bene di tutti, un solo, un unico bene. Il bene è concepito così come unità e ciò in accordo con l’unità dell’essere. Dunque ponendo al primo posto l’etica, si afferma implicitamente l’unità dell’essere: io e ciò che mi è altro siamo un’unità.       Certo non un’unità di fatto, non un’unità in atto. Questo lo affermano solo gli pseudospiritualisti, che nella loro ingenuità chiudono gli occhi davanti al fatto che quella della dialettica non è un’unità irenica, pacificata, non violenta, quindi statica.

Tutt’altro, è un’unità conflittuale dove gli opposti, proprio perchè tali, puntano al reciproco annientamento, minacciando così il sentimento dell’unità su cui poggia l’essere.

Tale unità permane solo se riconosco che gli opposti fanno entrambi parte di me, cioè se riconosco che il conflitto fra libertà e necessità non è fra me e l’altro da me perché riconosco che anche la necessità, ostacolante la mia libertà, appartiene a me. Riconoscere ciò è affermare la natura etica dell’essere, che l’essere si fonda sull’etica e non sulla libertà.

 

E’ esperienza comune che la vita sia di per sè conflittuale, nel senso che le volontà, con cui di volta in volta ci identifichiamo, incontrano o incontreranno sempre qualche ostacolo più o meno grande.

Sebbene ciascuno di noi sia libero di decidere se ciò che ci ostacola sia dentro o fuori di noi, tuttavia possiamo dire che ogni civiltà in merito a ciò ha elaborato una sua propria filosofia, che è fatta propria dalla grande maggioranza delle persone.

Il trapasso dal medioevo al rinascimento ha comportato un cambio di prospettiva circa il significato di libertà e di ciò che la ostacola, la necessità. Ponendo la libertà al primo posto nella scala dei valori dell’essere, dal rinascimento si cominciò ad identificare l’essere con la libertà.

Di conseguenza la necessità venne estromessa dall’essere e considerata così come altro dall’essere cioè come cosa che sta fuori dall’essere, quindi come non essere. Ciò che ostacola l’essere non è dentro l’essere stesso, ma fuori di esso.

Col rinascimento quindi principiò una concezione filosofica secondo cui il conflitto fra libertà e necessità, fra essere e non essere, non si svolge più dentro di noi, all’interno del nostro essere, ma fra noi e l’esterno.

Si pensò che se l’essere è per sua natura libero, ciò che lo ostacola non è più nell’essere, ma fuori di esso. Ciò che sta fuori del nostro essere cominciò ad essere considerato come ostacolo all’essere, quindi come non essere. Il mondo esterno, nella misura in cui ostacola il nostro essere, cominciò ad essere concepito come non essere. Di qui l’inizio della guerra con ciò che dall’esterno limita la libertà del nostro essere.

Se prima del rinascimento il cristianesimo, sottolinenado che il male è dentro di noi,  faceva sì che, in qualche modo, limitassimo la guerra contro l’esterno, occupandoci di lottare anche contro quello interno al nostro essere,   con il lento, ma inesorabile declino religioso susseguente al rinascimento, la guerra si indirizzò sempre più contro l’esterno.

 

L’idea che il nemico della nostra libertà sia esterno a noi fu ed è il motore filosofico dell’incredibile progresso scientifico di cui fu protagonista indiscussa lla civiltà europea. Fu lo stimolo indispensabile per indirizzare pensiero e creatività a produrre una tecnologia vieppiù potente, per piegare gli ostacoli esterni alla nostra volontà, onde sentirci così più liberi.

Purtroppo la scienza in generale evita di riflettere sulle motivazioni psico-filosofiche che ne stanno alla base. Continua così nel suo progetto di incessante accrescimento della potenza, nella convinzione dogmatica che grazie alla potenza si potrà sconfiggere ciò che dall’esterno ostacola la libertà dell’essere.

Che tale convinzione sia errata, credo non ci sia tanto bisogno di dimostrarlo. Gli straordinari mezzi tecnici, che la scienza ha messo a disposizione della nostra volontà di potenza, ci hanno forse reso più felici? Mai prima d’ora l’ingiustizia sulla ripartizione della ricchezza è stata più iniqua; mai la violenza contro l’uomo, contro la flora e la fauna più efferata; mai l’insensatezza del vivere più acuta.

Non sarebbe forse ora di dire chiaramente alla scienza, che si vanta di essere antidogmatica, ridicolizzando i dogmi della religione, di smetterla a sua volta col dogma che l’essere può diventare libero solo in virtù della potenza fornita dalla tecnica?

Questo, a ben vedere, è un dogma ancor più rigido di quelli delle religioni. Questi, se non possono essere provati, non possono nemmeno essere smentiti. Quello invece è smentito quotidianamente dal nichilismo che la civiltà della potenza ha portato nelle nostre vite.

Possibile che la scienza sia ancora così dogmatica da non capire che ciò che ostacola, necessita la libertà dell’essere, è almeno in parte dentro di noi (evito qui di disquisire se non lo sia totalmente)?

Quando finirà la scienza di irridere il principio di contraddizione proprio della dialettica? Quando capirà che la logica del principio d’identità, per cui l’essere è uguale a se stesso, va bene solo per creare potenza, ma non per dare significato alla vita?

Una vita che vuole rimanere sempre uguale a se stessa va bene forse per la manifestazione minerale dell’essere, per un uomo diventa un inferno.

 

Quanto alla psicologia accademica poi, sarebbe proprio il caso di non parlarne per pudore. Questa non fa altro che scimmiottare la scienza, avendone abbracciato l’impianto antidialettico, secondo cui il conflitto non è generatore dell’essere, ma muove guerra all’essere dall’esterno.

Eccola allora teorizzare che ciò che siamo a livello psichico è conseguenza di cause esterne. Nevrosi e psicosi sarebbero quindi determinate sempre da cause esterne alla psiche.

La sola questione su cui psicologi e psichiatri si accapigliano è su quale sia l’esterno che determina il nostro stato psichico.

Per la psicologia l’esterno è da intendere più come la famiglia e la società in cui una persona vive. Per la psichiatria invece l’esterno che maggiormente plasma la psiche sarebbero i processi biochimici interni al corpo. Essi sarebbero la causa, la psiche un mero effetto e pertanto cosa esterna alla causa che la produrrebbe.

L’uno e l’altro comunque concordano sul fatto che l’ostacolo alla libertà della psiche le è esterno.

 

Sarebbe anche il caso di riflettere sul fatto che la concezione antidialettica dell’essere, che esclude il conflitto degli opposti quale causa dell’essere,  oltre ad essere il fondamento del pensiero scientifico, è anche alla base dell’ideologia della non violenza che, se non dal rinascimento, comunque dall’illuminismo ha preso sempre più piede nella civiltà della tecnica.

L’antidialettica dell’ideologia della non violenza sta nel fatto che tale ideologia rifiuta la tesi che alla base dell’essere ci sia il conflitto degli opposti. Per essa l’essere è esente da conflitti ed è quindi libero.

Lascio al giudizio dei lettori decidere se la civiltà, che ha posto tra i suoi valori-cardine la non violenza, il rispetto dei diritti umani, la triade ‘libertè, egalitè, fraternitè’ sia stata e sia una civiltà pacifica, dove la violenza, quando si sia manifestata, lo abbia fatto però in termini molto contenuti!

A me pare più che evidente che questa civiltà, lungi dall’essere non violenta, grondi invece violenza da tutti i pori. E allora non sarebbe forse da chiedersi se l’errore non stia proprio nell’aver posto il conflitto fuori dall’essere? Cioè non stia nel ritenere che l’essere si fondi unicamente sulla libertà e che quindi tutto ciò che gli si oppone – e che pertanto l’essre concepisce come necessità ostacolante la sua libertà – sia esterno all’essere?

Per la filosofia dialettica il conflitto è in noi, è a fondamento del nostro essere. Libertà e necessità si combattono incessantemente in noi: siamo contemporaneamente volontà di espansione (libertà) e volontà di contrazione (necessità).

La scelta antidialettica di eliminare la necessità dall’essere, per eliminare così il conflitto dall’essere, non ha fatto altro che portare la necessità e con essa il conflitto all’esterno di ciò che noi sentiamo come il nostro essere. Ne consegue che così si sia portati ad incolpare l’esterno dei nostri conflitti.

Non c’è che dire, proprio bella la non violenza di cui si ammanta la nostra civiltà! Ha voluto liberarci dal conflitto interno al nostro essere, per metterci però in conflitto con l’esterno. Ha voluto disconoscere che la necessità è interna al nostro essere, proiettandola così nel mondo esterno.

Il risultato è che lo abbiamo privato della libertà, quindi della volontà, quindi della coscienza. Abbiamo decoscientizzato il mondo,  disanimato affinché la necessità stia tutta fuori di noi, onde affermare che la natura del nostro essere è la libertà.

Si capisce allora che Galilei poteva affermare quindi che il mondo è scritto in caratteri matematici. Questa non è un’asserzione eticamente tanto innocua, come crede la nostra scienza capace di pensare solo secondo il principio di non contraddizione.

Un mondo scritto in caratteri matematici è un mondo ridotto a pura quantità, numero; è un mondo fatto di oggetti, dove gli animali – come diceva Cartesio – sono automi privi di coscienza, dove la natura tutta è oggettivata, per cui totalmente altra rispetto alla nostra soggettività.

Grazie Galilei e tutti i tuoi sodali per la solitudine che ci avete regalato! Ci avete dato una potenza immane con cui signoreggiamo sulla natura, ma non avete tenuto conto che la paghiamo con la perdita di ogni sentimento d’amore verso di essa.

 

Pretendere di negare la natura conflittuale dell’essere non è per niente una scelta non violenta, anzi! Essa è espressione della volontà di potenza, della volontà che la nostra libertà non sia ostacolata da nessuna necessità.

Non fu certo casualità che progresso scientifico e ideologia della non violenza siano entrambi figli del pensiero antidialettico, al cui fondamento sta il sentimento di una smisurata volontà di potenza.

Scopo della potenza è di allontanare il conflitto dall’essere, dalla nostra vita cioè. Ma questa è la stolta illusione di una civiltà folle.

Rifiutare di accogliere nel nostro essere la necessità, perchè ci causerebbe conflitto, è rifiutare di operare una scelta di natura etica fra le varie volontà che si disputano la guida del nostro essere. E’ immorale concedere la libertà a qualsiasi volontà da cui decidiamo di farci guidare.

Il pensiero dialettico, affermando che la necessità è a fondamento dell’essere al pari della libertà, sottolinea il ruolo positivo della necessità, che non è quello di frenare la libertà di qualsiasi nostra volontà, ma solo di quelle volontà che più si allontanano dalla realizzazione piena dell’autentica natura dell’essere, che è l’unità. La necessità è il giudice dell’eticità della volontà con cui ci identifichiamo e quindi con cui progettiamo la realizzazione del nostro essere.

Ne consegue che necessità e libertà non sono opposti inconciliabili, come pretende il pensiero antidialettico. Lo sono solo nella misura in cui non si pongono al servizio dell’essere cioè – repetita iuvant – dell’unità intesa come bene comune, etica.

Solo assegnando il primo posto all’etica nella scala dei valori, e quindi riconoscendo che essa rappresenta il vero scopo, capace di dare una significatività autentica e non effimera all’essere, è possibile comporre il dissidio fra libertà e necessità.

Porre la libertà al primo posto è considerarla un fine, è ritenere che essa e solo essa dia significatività all’essere. Ma rifiutando il vaglio etico della necessità, abbiamo a che fare con una libertà che si configura come volontà di potenza: una libertà che ha bisogno della potenza per rimuovere qualsiasi necessità che la ostacola; una libertà antidialettica, una libertà che potremmo anche definire scientifica perchè in linea con la logica del principio di non contraddizione, con la logica del principio d’identità.

Si tratta di una libertà al servizio unicamente dell’identico e che rifiuta quindi l’altro, una libertà al servizio di un essere che vuole rimanere uguale a sè, identico e che pertanto rifiuta di diventare altro. E’ questa la libertà degli slogan di sessantottina memoria del ”Vietato vietare”, “Vogliamo tutto e subito”: la libertà di un ego bambino, per il quale essa consiste nella coincidenza fra volere ed essere. Tale ego concepisce la libertà come realizzazione immediata di ogni desiderio: la volontà deve diventare ipso facto essere, senza alcun ostacolo temporale e spaziale che ne pregiudichi l’attuazione.

 

Il concepire la libertà come identità fra volere ed essere comporta l’eliminazione di qualsiasi distanza fra di loro. La volontà, realizzandosi all’istante (cioè divenendo essere all’istante) finisce per coincidere con se stessa, perdendo così qualsiasi possibilità di tendersi oltre i chiusi con – fini della sua identità.

Assenza di tensione è però perdita della capacità di moto. Tale volontà si sente libera solo essendo immobile, perchè nessun ostacolo la allontana dalla sua realizzazione. Ma una volontà immobile diventa necessità. E’ proprio della necessità infatti impedire il moto.

 

Insomma, non si può sfuggire alla dialettica. La nostra civiltà ha voluto e continua a voler rimuovere la necessità perchè non contrasti il suo valore-guida – la libertà – e la conseguenza  è che non abbiamo fatto altro che ingrandire sempre di più il peso della necessità nella nostra vita.

Una volontà, che vuole realizzarsi immediatamente, non può che volere avvicinare ciò che desidera, in modo tale da annullarne la distanza, l’alterità, onde poterlo conglobare nel suo essere.

Ma che congloba? Ciò che è stato privato della distanza, dell’estensione, della capacità di sfuggire a ciò che vuole catturarlo, necessitarlo; congloba ciò che è stato privato della libertà; congloba la necessità, il finito. E’ una volontà quindi che vuole solo ciò che è materiale – ciò che è finito, appunto.

Ma così ci nega l’esperienza del durare, dell’andare oltre, della trascendenza, consegnandoci ad una finitezza che ci disanima, nel senso che fa venir meno la capacità di animarci, cioè di essere causa del nostro essere.

In modo più sintetico, una volontà che vuole realizzarsi, cioè diventare essere all’istante, è una volontà che coincide con se stessa, quindi una volontà immobile, finita, quindi una volontà che si fa necessità (ripetiamo che necessità significa blocco del moto, dal latino ne – cesse = non avanzare).

Il volere tutto e subito comporta dunque la fine del volere. Infatti, quanto minore è la distanza fra la volontà e la sua realizzazione, tanto minore sarà anche la tensione di tale volontà. E che cos’è la volontà se non un tendere verso?

Chi vuole tutto e subito rifiuta la necessità: rifiuta tutto ciò che si frappone fra il volere e l’essere, cioè fra la volontà e la sua realizzazione.

Non capisce però che senza l’ostacolo della necessità viene meno la tensione, che della volontà è l’anima.

E senza tensione siamo condannati a non poter uscire dalla chiusura della nostra definizione; condannati a coincidere con ciò che siamo nel presente, a vivere in un presente privo della tensione verso il futuro, il nuovo. Il futuro ci si presenterà  solo come ripetizione del presente, un futuro quindi totalmente prevedibile.

Tale modalità di futuro, a ben vedere, è poi l’ideale di futuro proprio della scienza: un futuro necessitato, perché determinato in toto da una causa che sta nel passato, nella dimensione temporale del finito. Per la scienza, è il finito che crea il futuro, e lo crea finito perché non possa così uscire dai con – fini assegnatigli e di conseguenza non diverga, cioè non si muova in direzione opposta alla nostra volontà di appropriarcene.

La scienza però non riflette sul fatto che così ci appropriamo solo di ciò che è finito, di ciò che possedendolo non fa altro che arricchirci di finitezza. La volontà di potenza è dunque volontà di finito, volontà che l’essere sia finito, in una parola nichilismo.

 

Come già detto, una libertà posta in testa alla scala dei valori non può che essere al servizio della volontà di potenza, con tutto ciò che ne consegue: la fine dell’essere.

Credo, pertanto, che solo una metanoia radicale possa salvare la civiltà attuale dal nichilismo.

E’ più che mai necessario che l’etica riassuma la primazia che le è stata sottratta; necessario che la libertà non sia al servizio di se stessa, secondo la logica scientifica del principio d’identità, ma al servizio di ciò che le è altro, cioè l’etica.

Bisogna raggiungere lo stato di coscienza per cui ci sentiamo liberi solo nella misura in cui poniamo l’etica quale scopo della nostra volontà. In altre parole, la libertà autentica non è al servizio dell’ego, ma del bene comune, l’etica.

Attenzione però che tali asserzioni si prestano facilmente ad essere fatte proprie dall’idealismo ingenuo dei buonisti e dei non violenti senza se e senza ma. L’identificarsi con una volontà avente per scopo l’etica può sembrare cosa più o meno facile, quando la contrapposizione fra io e l’altro si mantiene entro limiti che non vanno ad intaccare profondamente i confini dell’essere con cui mi identifico.

Ma quando si arriva ad una contrapposizione in cui il bene altrui diventa una minaccia verso ciò a cui sono più attaccato,  le cose si fanno ben più drammatiche.

Nella vita della natura agiscono certamente forze di carattere etico come ad es. le cure parentali, l’incredibile dedizione con cui le api si votano al bene comune dell’alveare, etc; ma è anche vero che gli esseri sono mossi dalla logica del “mors tua, vita mea”. La leonessa sarà pure una madre affettuosissima per i suoi cuccioli, pronta a sacrifici anche estremi per essi; ma nel contempo spietata con le sue prede. Verso di esse, l’essere con cui si identifica la leonessa è sordo al richiamo del bene comune. L’istinto di sopravvivenza del corpo la mette in contrapposizione con l’etica.

Ma allora la volontà che è al servizio dell’istinto di sopravvivenza è antietica? Tutto quello che mi sento di dire è che una risposta univoca è antidialettica.

Una risposta dialettica è invece sempre duplice: l’istinto di sopravvivenza è sia etico che antietico. E’ una risposta che, proprio perchè dialettica, non può che mantenere vivo il conflitto, sottolineando così l’essenza contraddittoria della vita stessa.

Da ciò l’impossibilità di poter formulare in termini chiari e precisi i criteri con cui giudicare ciò che è etico e ciò che non lo è. Non esistono di per sè come un qualcosa di oggettivo, perchè l’etica non può prescindere dall’apporto della nostra soggettività. A tal proposito Maestro Eckhardt affermò: “Non è l’azione che ci santifica, siamo noi a santificarla”. E’ lo scopo per cui facciamo qualcosa a determinarne l’eticità o meno.

Ma – si dirà – lo scopo dell’etica è cosa oggettiva: la realizzazione del bene comune. Si potrebbe quindi obiettare a Maestro Eckhardt e a coloro che ritengono che non si possa escludere la componente soggettiva circa il giudizio etico sull’agire, che sì, l’etica può essere valutata oggettivamente in base alla rispondenza o meno a un criterio oggettivo:   scopo dell’agire etico è il bene comune. Ma che il bene comune sia cosa che può essere stabilita oggettivamente non è così pacifico.

L’espressione bene comune sembra indicare un concetto oggettivo perchè l’aggettivo “comune” si riferisce alla totalità, escludendo quindi la parzialità di ciò che è soggettivo. Il bene comune quindi richiederebbe la disidentificazione del nostro essere dall’attaccamento alla finitezza della parzialità della nostra soggettività.

In termini più terra terra, ciò vuol dire che la realizzazione completa del bene comune richiede che non dobbiamo più identificare il nostro essere con la finitezza del nostro corpo; richiede di porci al di là di ciò che ci finisce, cioè la necessità, al di là della necessità massima, la morte. Ciò è possibile solo se risvegliamo in noi la nostra essenza infinita e ci identifichiamo con essa.

 

Il bene comune, l’etica, non si dà nella dimensione del finito, della materia, della corporeità, ma solo in quella dell’infinito. E d’altra parte il finito è divisione, separazione; il contrario della condivisione, dell’unione proprie del concetto di bene comune.

Il bene comune, la cui ideologia è il comunismo, è un concetto assolutamente spirituale. Infatti esso è possibile solo trascendendo il finito materiale.

Fra parentesi, ridicolo appare quindi un certo marxismo d’accatto, più engelsiano che marxiano per altro, nel voler porre in relazione il comunismo al materialismo, credendo così di poter scientificizzare il comunismo, staccandolo dal suo fondamento etico-spirituale.

Ma sia chiaro: quando abbiamo detto che il bene comune è possibile solo nella dimensione dell’infinito, ciò non vuol certo dire disconoscere il valore del finito. Bisogna fare attenzione che il fatto che il finito dev’essere trasceso non sia inteso come una rimozione del finito.

Dunque, il bene comune ha sì a che fare con la totalità – e in ciò risiede la sua natura oggettiva – ma essa non può prescindere dalla parzialità della nostra soggettività. All’unità rappresentata dalla totalità si arriva solo passando attraverso la molteplicità delle soggettività. Il bene della totalità, il bene nella sua manifestazione oggettiva non può prescindere dal bene singolo delle soggettività.

Ma come si fa a giungere ad una sintesi in cui il bene altrui (il bene oggettivo) coincida col bene personale, soggettivo? In cui il bene del leone coincida con quello della gazzella?

 

La civiltà postrinascimentale, col suo primato della libertà, concepisce il bene solo nella sua declinazione soggettiva. Per essa, il bene soggettivo non dev’essere condizionato dalla necessità, cioè dalle limitazioni imposte dal bene altrui.

Si dirà che nella nostra civiltà vige anche la norma che la libertà individuale dev’essere temperata dal rispetto di quella altrui. Ma questa, come già detto, è solo un’ipocrita dichiarazione d’intenti. Nella realtà, assegnando il primato alla libertà, è di necessità che si imponga solo la libertà del più forte, della parte più potente su quelle più deboli. Ne consegue che il conflitto fra bene comune e bene individuale non conosce sintesi – e non può esserci perchè la civiltà della potenza tecno-scientifica si fonda sul pensiero analitico – ma solo la vittoria del secondo sul primo.

 

Passiamo ora alla civiltà prerinascimentale. Essa riconosceva la primazia all’etica, il cui garante era il sommo bene, Dio. In merito al conflitto fra il bene proprio e quello altrui, dimostrava la sensibilità etica di ritenere possibile la sintesi cioè un bene più alto nel quale entrambi si riconoscessero.

Giustamente, non cadeva nell’ingenuità di pensare che l’etica potesse realizzarsi nella dimensione finita del mondo terreno. Esso era irrimediabilmente corrotto dalla grande intuizione, dogmatizzata dall’assunto del peccato originale, che il conflitto fra bene proprio e altrui non può avere risoluzione nella dimensione del finito.
In essa non c’è posto quindi per la non violenza, giacchè essa origina proprio dall’attaccamento al finito. Per la religione la fine del conflitto, la non violenza sono possibili solo nella dimensione dello spirio, cioè solo trascendendo il finito.

Le religioni peccheranno forse di ingenuità nelle loro descrizioni dell’aldilà; ma almeno non cadono nell’ingenuità, psicologicamente molto più grave, di credere al paradiso in terra. Alla fine sono molto meno ingenue dei tanti atei convinti e che però credono che nella finitezza del mondo terreno sia possibile costruire una società etica con l’azione non violenta.

Il finito genera molteplicità e quindi anche conflittualità. Una concezione materialista dell’essere, quindi, comporta che l’essere sia identificato con la parzialità, il che lo porta a confliggere col bene comune della totalità.

Il fatto che abbiamo finora optato con decisione a favore della civiltà prerinascimentale rispetto a quella successiva, colpevole di aver detronizzato l’etica a favore della libertà, non significa certo un’adesione acritica ad essa, tutt’altro.

Il cristianesimo ha senz’altro il grande merito di aver affermato che il finito è gravato dal peso del peccato originale, consistente nell’identificare l’essere con la nostra parzialità, da cui anche la parcellizzazione del bene, per cui esso non potrebbe che manifestarsi come bene privato, egoistico. Il male risiede quindi nell’attaccamento al finito; il bene nel distacco dal finito, nel trascenderlo per tendere verso l’infinità dello spirito.

Ma come ha inteso il cristianesimo il distacco, la trascendenza dal finito? Diciamo che in linea di massima ha inteso ciò in modo platonico, facendo sì che la trascendenza dal finito ne diventasse una sua rimozione. Se per il cristianesimo il finito materiale e corporeo è soggetto al male del peccato originale, per Platone è la dimensione dell’ignoranza: “Il corpo è la prigione dell’anima” e “L’anima nel corpo conosce in modo imperfetto”.

Ora, una cosa è evidente: sia la valorizzazone massima del finito propria della civiltà fondata sulla libertà, sia il suo rifiuto sono entrambe posizioni antidialettiche.

L’odierna libertina e liberista civiltà si propone di eliminare i vincoli della necessità che grava sul finito con la potenza della tecnica, il cristianesimo rimuovendo il finito, dopo averlo demonizzato col peccato originale.

Certo, rispetto al positivismo scientista, la religione ha il merito di riconoscere che la dimensione materiale è segnata dal male, e che la trascendenza dal male è possibile solo trascendendo il finito del mondo materiale.

Ma il finito non si trascende, come fece il cristianesimo, rifiutandolo. La trascendenza è un processo dialettico. Infatti il moto per andare oltre è generato solo dal conflitto fra gli opposti.

Purtroppo, il cristianesimo, nonostante differisca nettamente dalla scienza perchè pone l’etica e non l’accrescimento della potenza – come fa la scienza – quale fondamento dell’esistenza, condivide con essa un’impostazione antidialettica.

La sua opposizione alla scienza, pertanto, fu ed è più ideale che reale. Rimuovendo il finito, perché segnato dal male, il cristianesimo lo lasciò così alla scienza che lo plasmò secondo i suoi intendimenti.

Ora, non è che nella teologia cristiana non ci fossero delle intuizioni dialettiche; ci furono, solo che rimasero marginali, e certo non diedero frutti tali da pregiudicarne il sostanziale impianto antidialettico.

Una di queste fu ad es. l’interpretazione del peccato originale come una “felix culpa”. L’ossimoro della colpa felice fonda dialetticamente il male del finito con il bene della trascendenza dal finito stesso. Il finito/male è necessario perchè ci possa essere una trascendenza. Il cristianesimo purtroppo relegò l’intuizione della “felix culpa” ed altre ancora nella sfera del poetico, accostandosi a questa solo col sentimento, evitando così che tali contraddizioni si estendessero alla totalità della condizione esistenziale umana.

Ma così facendo, il cristianesimo ha completamente tralignato dalla grandiosa intuizione che dovrebbe essere a fondamento del suo messaggio: l’infinito di Dio che, incarnandosi, si fa finito.

Che è diventato tutto ciò nella dottrina ufficiale cristiana? La congiunzione degli opposti finito-infinito è stata ridotta ad evento unico, riguardante la sola figura di Cristo: solo in lui si è attuata la sintesi di finito ed infinito. Ma ciò equivale a dire che il principio dialettico si è realizzato solo in Cristo e che quindi esso non è proprio della vita stessa, che è trascendente la vita.

Il risultato, quindi, è che la dialettica non è riconosciuta come una modalità esistenziale accessibile all’uomo, che lo immetta nel cammino della trascendenza dal finito, ma come una modalità di essere propria solo di Dio.

Dunque, in sintesi, il conflitto dialettico fra gli opposti avrebbe luogo solo in Dio, e solo in lui avrebbe luogo la trascendenza, cioè il moto che trasforma la dualità conflittuale in unità. Per il cristianesimo, ed in genere per tutte le religioni, solo a Dio è possibile conciliare gli opposti: bene e male, libertà e necessità, infinito e finito.

Ora, se l’essere è uno, come ci insegna non solo la vera filosofia, ma ormai anche la fisica, allora ne consegue che per le religioni l’essere compete solo a Dio, giacchè solo lui, secondo esse, può trascendere la dualità degli opposti per creare l’unità. Dio è essere perchè è creatore; l’essenza dell’essere infatti è proprio quella di creare.

Cosa vuol dire infatti creare? Vuol dire produrre unità, e la si produce creando legami, onde contrastare le forze separanti, il cui scopo è di annullare la consistenza dell’essere. La natura dell’essere è di con – sistere, cioè di stare insieme, di costituire un’unità. Ciò però richiede un’infinita attività creatrice di legami. L’essere, Dio, è perchè crea incessantemente. Se smettesse di creare, finirebbe anche il suo essere.

 

Certo, le religioni non possono negare che l’uomo abbia l’essere; ma gli attribuiscono un essere cui manca l’essenza specifica dell’essere, quella di essere creatore di se stesso. Le religioni, ritenendo che l’essere delle creature venga loro dal creatore, affermano con ciò che alle creature l’essere venga loro da un altro da sé, da Dio cioè. L’essere viene così distinto in essere creatore ed essere creatura, essere causante, ed essere causato. Ora, nell’essere creatore la  causa e l’effetto coincidono, giacché l’essere creatore è causa di se stesso, e quindi di un altro essere creatore. In altre parole, nell’essere creatore la causa produce come effetto un altro essere creatore, un’ altra causa. Ne risulta quindi che l’essenza di tale essere è l’unità, in quanto in esso causa ed effetto sono la stessa cosa. Ben diverso è invece l’essere della creatura. Il fatto che il suo essere gli venga da un altro comporta che tale essere sia, per così dire, un essere parziale, in quanto privo della capacità di generare se stesso. Ma che significa essere parziale o, meglio, essere in modo parziale? Significa sentire che al proprio essere manca la componente fondamentale, l’essere causa di sé. Dato che l’essenza dell’essere è l’unità, ne risulta che quanto meno ci sentiamo causa di noi stessi, tanto meno sentiamo di essere in modo pieno, cioè tanto meno avvertiamo la significatività del nostro essere, perché non abbiamo realizzato la sua essenza, che è l’unità. Le religioni, dunque, mediante la separazione fra creatore e creatura, rompono il legame nell’essere, da cui un sentimento di mancanza che non può venir colmato cercando di creare un legame con gli altri esseri. L’unità dell’essere la possiamo ricostituire solo in noi, riconoscendo che noi siamo causa di noi stessi; il che, poi, si traduce nel sentire che il nostro essere e la nostra volontà coincidono, sono un’unità.

Ovviamente, le religioni potrebbero controbattere che esse anzi promuovono i legami: non predicano infatti l’amore verso il prossimo e verso Dio? Dimenticano, però, che il primo amore dev’essere verso noi stessi. Non certo un amore narcisista, un amore avente per scopo un bene individuale. Amare se stessi dovrebbe essere inteso come volontà di riconciliarci col nostro essere, volontà di realizzare in noi l’unità fra ciò che sentiamo essere motivo di conflitto nella nostra vita.

Su quanto valgano le prediche delle religioni sull’amore lasciamo ai fatti il giudizio! 2.000 anni di cristianesimo, di religione dell’amore, e qual è il risultato? Un mondo dove la violenza, l’odio, gli impulsi nichilisti mai sono stati così forti.

Con questo non voglio certo dire – e ci tengo a sottolinearlo – che senza le religioni il mondo sarebbe migliore. La mia non vuole certo essere una critica distruttiva nei confronti delle religioni; tutt’altro, vuole essere invece una critica costruttiva.

Sono convinto che senza il cristianesimo la civiltà europea sarebbe stata ancor più distruttiva. Non per niente al giorno d’oggi non si può non constatare che l’incremento del nichilismo va di concerto con la scristianizzazione della società.

L’attacco al cristianesimo mira a distruggere quel poco di etica che ancora è rimasta nella nostra società, per allentare ancora di più i freni al corso di una libertà al servizio unicamente delle forze disgreganti dell’ego.

Per fermare queste, però, sono altresì convinto che occorra rifondare l’etica su una base molto più solida di quella finora fornita dalle religioni in genere. (Per semplificare le cose, d’ora in poi limiterò la mia disanima sulle religioni al solo cristianesimo, in quanto ormai tutte le religioni sostanzialmente si fondano su una stessa concezione della vita).

 

L’errore capitale del cristianesimo è di aver rinunciato a chiarire che la nostra vita può indirizzarsi verso il sommo bene (Dio) solo mediante la scelta di vivere secondo una modalità esistenziale fondata sulla dialettica.

Il cristianesimo non nega la modalità esistenziale  dialettica, come fa lo scientismo imperante; ma la ritiene possibile solo a Dio. Solo in lui finito ed infinito possono coesistere. Solo lui può trasformare il male insito nel finito, e rappresentato dal peccato originale, nel bene della “felix culpa”.

Così facendo, però, per il cristianesimo alla dimensione materiale della vita, all’aspetto finito dell’essere non è possibile vivere in modo dialettico: il mondo materiale sarebbe retto dal principio antidialettico dell’inconciliabilità degli opposti.

Cristianesimo e scienza quindi concordano nel ritenere che il mondo materiale è antidialettico.

Differiscono però nel fatto che l’antidialetticità della scienza è radicale, mentre quella del cristianesimo è parziale.

Per la scienza, infatti, l’essere si dà solo come finito; quindi non ammette alcuna dialettica, in quanto viene addirittura negata la controparte dialettica cioè l’infinito.

Il cristianesimo invece ammette che ci sia la dimensione infinita dell’essere, rappresentata da Dio. Ammette quindi che nell’essere siano presenti gli opposti finito ed infinito. Ammette pure che l’infinito, Dio, possa congiungersi col finito, come sta ad indicare il dogma dell’incarnazione di Dio nell’uomo Gesù.

Quello però che il cristianesimo non ammette è che l’essere nella sua totalità si fondi sull’unione degli opposti. Per il cristianesimo solo in Dio è possibile la coesistenza di finito ed infinito – e anche questo poi relativamente  al solo evento dell’incarnazione, non nell’uomo. L’uomo è solo finito; l’infinito è fuori di lui, è in Dio.

Ora la modalità esistenziale dialettica si basa sull’assunto che la recoproca alterità degli opposti possa essere trascesa, riconoscendo così che l’opposto di ciò con cui mi identifico non è altro da me, ma appartiene al mio stesso essere.
Sulla base di ciò è evidente che tale modalità esistenziale, secondo il cristianesimo, non è accessibile all’uomo. Infatti per il cristianesimo Dio rimane sempre altro rispetto all’uomo; l’infinito di Dio non è in noi, non appartiene al nostro essere; il nostro essere non si fonda quindi sulla dialettica, è costituito solo di finito, privo quindi del suo opposto, l’infinito.

Come può quindi per il cristianesimo la nostra vita incamminarsi verso il sommo bene, Dio?

Come può la nostra separazione dall’infinito, che si concreta nell’attaccamento al finito psicofisico della nostra persona, essere superata se tale separazione è un dato di fatto oggettivo?

Come detto, il fatto che il cristianesimo ritenga che l’essere dell’uomo sia costituito unicamente di finito comporta l’esclusione per noi della modalità di esistenza dialettica, col risultato quindi che le nostre scelte esistenzali si fonderebbero solo sul principio di non contraddizione. Dunque anche per il cristianesimo, come per la scienza, un principio può affermarsi solo annullando il suo opposto.

La volontà di Dio, che è poi la manifestazione del sommo bene – l’etica – si realizzerebbe solo annullando la volontà di attaccamento alla nostra finitezza e quindi alla volontà di attaccamento al nostro essere, giacchè esso sarebbe composto solo di finitezza. L’infinito di Dio può realizzarsi solo annullando il finito che noi siamo.

Quanto il cristianesimo è intriso di questa logica! Per limitarci a un solo esempio, pensiamo alle farneticazioni di un Jacopone da Todi che invocava Dio di mandargli “la malsania et onne malattia”. Il suo tendere versoDio è tutto all’interno del principio di non  contraddizione: nego il mio essere perchè si realizzi quello di Dio. L’essere di Dio è altro rispetto a lui, per cui il vero e autentico essere, che sarebbe quello di Dio,  si trova fuori di lui,  e dunque rispetto a lui diventa cosa oggettiva.

Come ci si può non chiedere che razza di percorso spirituale sia quello che porta all’oggettivazione dell’essere, un percorso che si muove lungo gli stessi binari della scienza, quelli appunto che considerano l’essere unicamente come oggetto! D’altra parte non c’è affatto di che stupirsi: uno stesso approccio all’essere, quello del principio di non contraddizione, non può che portare agli stessi risultati.

La differenza tra scienza e cristianesimo sta però nel grado di oggettivazione dell’essere: nel caso della scienza è totale, in quello del cristianesimo è parziale.

Infatti l’essere di Dio è sì sentito come altro dall’uomo nella relazione che ha con esso; ma in riferimento a Dio stesso, l’essere è soggettività.

Ne consegue che, mentre nel rapporto dell’uomo con la concezione dell’essere che ha la scienza è escluso qualsiasi desiderio di legame con l’essere – non è infatti possibile legarsi a un oggetto, a meno che non lo psichicizziamo tramutandolo in un simbolo evocatore di emozioni – in quello dell’uomo con Dio – essendo Dio un soggetto –  tale desiderio c’è.

Esso fa sì che nel cristianesimo non si perda del tutto il sentimento che l’essere è anche soggetto. E non solo l’essere di Dio lo è – questo ovviamente è cosa evidente per qualsiasi religione – ma anche il nostro essere, giacchè solo se abbiamo una soggettività possiamo desiderare di legarci con un’altra.

 

A ben vedere poi, anche la tesi della scienza che l’essere sia cosa oggettiva può realizzarsi solo mercè l’azione di una soggettività. Infatti c’è pur sempre bisogno di una volontà, per interpretare e poi trasformare – o meglio illudersi di trasformare – l’essenza dell’essere da volontà creatrice a necessità creata, la cui creazione, in assenza di qualsiasi volontà, non può che essere casuale.

Chi sostenga poi che l’essere è da sempre rimane comunque all’interno della casualità. Infatti se l’essere è da sempre, vuol dire che precede la causa, per cui non può essere causato.

Qualcun altro potrebbe ancora ribattere che l’essere non è causato, ma che l’essere è causa di se stesso. In tal caso sarebbe sia causa di sè che effetto di sè, sarebbe rispetto a sè sia preesistente che postesistente.

Ma quale può essere la natura di questo legame? Beh, non si tratta certo di un legame alla parri, bensì di una sottomissione dell’uomo alla volontà di Dio.

A ben vedere poi, non si potrebbe neppure parlare di legame, perchè esso presuppone che ci siano almeno due parti distinte affinchè la forza di legame possa operare.

Ora se l’uomo rinuncia alla sua finitezza, rimane solo l’infinito di Dio, per cui non ha senso parlare di legame fra l’uomo e Dio. Non si tratta di un legame dialettico dove il due si fa uno. L’unità di questo pseudolegame è la conseguenza dell’annullamento dell’uomo, per cui rimane solo l’essere di Dio.

Ma che razza di essere è mai questo? Un essere che non è tenuto insieme dalla forza del legame, e che quindi la sua unità è data dalla potenza con cui una parte sottomette l’altra.

Quanta analogia ancora fra cristianesimo e scienza!

Per entrambi l’unità dell’essere è prodotta dalla potenza. La differenza è che, mentre per la scienza è il finito che grazie alla potenza della tecnica sottomette l’infinito, per il cristianesimo, invece, il finito che è l’uomo deve rinunciare a se stesso, alla sua potenza per sottomettersi all’infinito di Dio.

Sottomettere e sottomettersi sono sì due cose opposte; entrambe però basate sullo stesso principio, la potenza. Che l’uomo usi la potenza o che rinunci ad essa, entrambe le tesi convergono nel ritenere che è la potenza a creare l’unità dell’essere.

D’altra parte il fatto stesso che il cristianesimo inviti l’uomo a rinunciare a se stesso comporta evidentemente la rinuncia al legame e di conseguenza lo sposare la tesi che l’unità è prodotta dalla potenza.

Ora l’unità prodotta dalla potenza è l’unità fondata sul principio di non contraddizione, un’unità dove l’essere è uno perchè totalmente coincidente con se stesso, differenziandosi totalmente perciò dall’altro da sè. E’ un’unità narcisista, dove il legame – se di legame si può parlare – è quello dell’essere con se stesso; un’unità che, escludendo qualsiasi legame con l’altro, è intesa come sempre uguale a se stessa, statica, non diveniente.

L’essere, in cui l’unità si fonda sul principio di non contraddizione, è un essere totalmente necessitato (la necessità infatti è ciò che ostacola il moto), un essere oggettivato, ridotto a cosa, un essere impossibilitato a sottrarsi alla volontà manipolatrice della potenza.

 

Ritornando all’opposizione di finito ed infinito,  analizziamo ora se la rinuncia dell’uomo al finito del suo essere, come il cristianesimo ci invita a compiere, è autentica o fittizia. La risposta è che è fittizia, e la ragione è evidente.

La rinuncia dell’uomo alla sua finitezza comporta anche l’impossibilità di pensare l’essere come legame di finito ed infinito. Per il cristianesimo è mediante la rinuncia alla nostra finitezza che permettiamo all’essere autentico, quello di Dio, di manifestarsi nella sua essenza, che è l’infinitezza. Così la pensa il  cristianesimo, a rigor di logica però le cose stanno ben altrimenti. Infatti se anche per il cristianesimo l’unità dell’essere è fondata non sul legame, ma sulla potenza, se ne deduce che anche per Dio l’essere è cosa finita. Come detto infatti, la potenza su cui si fonderebbe l’essere non può che esplicitarsi sul finito.

Il cristianesimo dunque predica sì la rinuncia dell’uomo al finito, ma intendendola come rinuncia al finito del suo essere, non al finito inteso come condizione perchè la potenza – anche quella di Dio ovviamente – possa esplicarsi.

L’autentica rinuncia al finito però non consiste solo nella rinuncia alla propria finitezza, ma anche e soprattutto a considerare l’essere come finito; il che poi, per quanto detto, comporta pure la rinuncia a considerare che l’essere si fondi sulla potenza.

Fin quando l’attributo fondamentale di Dio sarà l’onnipotenza è giocoforza che si trasformi l’essere di Dio in qualcosa di finito. Anche il rinunciare al proprio essere – come ci invita a fare il cristianesimo – perchè si manifesti l’essere di Dio, ci mantiene quindi sempre all’interno di una concezione dell’essere come finito.

Fra parentesi ci sarebbe anche da aggiungere che tale concezione dell’essere non può che rendere prima o poi obsolete un po’ tutte le religioni, giacchè è il pensiero scientifico (escludendo quello disposto a mettere in discussione il proprio fondamento: il principio di non coontraddizione) il più conseguente con tale concezione.

Infatti è sotto gli occhi di tutti che più una società è progredita dal punto di vista tecno-scientifico, più tende a dereligionizzarsi. Patetica quindi la corrente modernista interna al cristianesimo nella sua illusione di una convivenza pacifica di religione e scienza.

Il cristianesimo, ritenendo che la rinuncia al finito consista nella rinuncia a identificarci col nostro essere perchè finito, intende la rinuncia al finito come rinuncia alla finitezza di un essere determinato, definito, del nostro stesso essere cioè. Ma questa è la rinuncia al finito di un essere de – finito. Non è una rinuncia al finito nella sua totalità, ma solo la rinuncia ad un finito de – finito, una rinuncia parziale dunque.

L’autentica rinuncia al finito è rinuncia a qualsiasi finito, non al finito nel suo aspetto quantitativo – definito, quindi numerabile – ma nel suo aspetto qualitativo, rinuncia alla finitezza: dunque rinuncia a considerare l’essere come finito.

Rinuncio al finito pertanto,  non considerando il mio essere come qualcosa di solo finito – altrimenti rinuncerei solo a un finito definito – ma postulando che nel mio essere ci sia anche l’aspetto infinito. In tal modo la rinuncia all’aspetto finito del mio essere non è più una rinuncia a un finito definito, ma a un finito infinito cioè rinuncia a  qualsiasi finito, quindi rinuncia alla finitezza.

La particolarità di questa rinuncia è che non è fatta secondo la logica del principio di non contraddizione, cioè una rinuncia al finito intesa come un suo annullamento, ma secondo quella della dialettica. Per essa la rinuncia al finito consiste non in un suo annullamento, ma in una sua trasformazione.

Questa però è possibile solo all’interno di una concezione dialettica del finito, concependolo anch’esso – come ogni manifestazione dell’essere d’altra parte – come dualità contenente in sè il suo opposto, l’altro da sé, cioè  l’infinito. E poichè contiene in sè l’altro da sè, il finito può diventare altro, trasformarsi.

Se per il principio di non contraddizione il finito appartiene unicamente al passato, alla dimensione della necessità, per la dialettica il finito, in quanto è sì finito, ma anche non finito,  si sporge anche nel futuro. E’ un finito quindi capace di azione, da intendersi quindi non solo come coniugato al passato, ma anche al futuro: un finito che diventa così azione del finire.

L’autentica rinuncia al finito è quella che rinuncia a concepire il finito come passato, che rinuncia a concepire il finito del nostro essere come cosa congelata in un passato, la cui necessità assoluta fa di noi delle cose.

E’ solo in virtù di questa rinuncia che il finito del nostro essere può animarsi, il che – etimologicamente parlando – vale a dire percepire l’anima che è in noi. E che cos’altro è l’anima se non la potenzialità che è in noi di trascendere la nostra finitezza? La condizione per cui ci sia la trascendenza è che ci sia pure il finito. Infatti è il finito che si trascende. Grazie alla nostra finitezza ci è quindi offerta la possibilità di trascenderla e di volgerci dunque all’infinito.

La vera rinuncia al finito non consiste nell’annullamento del finito in noi, ma nel suo trascendimento; cioè nella rinuncia all’attaccamento ai nostri limiti, alla nostra pochezza, finitezza.

 

Attenzione qui al pericolo del richiamo delle sirene della scienza. Anch’essa ci lusinga con la promessa di liberarci dai nostri limiti grazie alla potenza della tecnica.

Ma di che liberazione si tratta? La tecnica ha per scopo di accrescere la potenza del finito che noi siamo. In virtù di questa maggiore potenza a nostra disposizione abbiamo così la sensazione di essere più liberi, perchè grazie alla potenza aumenta anche la capacità della nostra volontà di realizzare i suoi desideri.

Ma la volontà di chi è maggiormente in grado di realizzare i suoi desideri? La volontà del finito con cui ci identifichiamo. E’ il nostro finito che diventa più libero. Ciò non ci libera affatto dal finito, anzi produce in noi un maggior attaccamento, identificazione col finito.

La vera liberazione dal finito si ha quando è tutto il nostro essere a liberarsi dall’attaccamento, identificazione col solo finito.

Per quanto riguarda la potenza, non si vuole qui criticare la volontà di potenza in sè. La potenza è condannabile quando a volerla è solo il finito, perchè essa dovrebbe appartenere solo al tutto. E’ condannabile quindi la potenza basata unicamente sulla logica del ‘divide et impera’, la logica analitica su cui si fonda la scienza.

Sarebbe più che mai ora che la nostra civiltà si ricordasse che esiste anche la potenza fondata sul legame, una potenza che scaturisce dall’intima convinzione dell’unità dell’essere, dalla convinzione cioè che la potenza non debba essere appannaggio della parte, che la eserciterebbe per dominare l’altro da sè, ma del tutto.

La totalità ovviamente non eserciterebbe la potenza per dominare, perchè non c’è niente aldifuori di essa su cui esercitare un dominio; la potenza si manifesterebbe quindi come sentimento di pienezza dell’essere nel senso che, legando il finito che siamo all’infinito verso cui tendiamo,  realizziamo in noi l’essenza dell’essere, che è appunto l’unità.

 

Rifocalizziamo ora l’attenzione su quella che per la nostra civiltà è la contrapposizione fra etica e libertà.

Come dicevamo, l’etica si fonda sulla tesi che il bene e l’essere coincidono solo se il bene è inteso come bene comune, un bene che si estende al tutto, alla totalità dell’essere. Ne consegue che quanto più sentiamo che il nostro essere è legato al tutto, tanto maggiore sarà la sensazione che la nostra vita è bene.

Ma che vuol dire sentire che la nostra vita è bene? Vuol dire essenzialmente sentirci liberi.

Chi ragiona secondo il principio di non contraddizione obietterà “Come può il legame renderci liberi?”. Dirà che il legame costituisce un vincolo, una limitazione, un freno all’estrinsecazione della libertà.

Ciò è vero, ma solo se identifichiamo il nostro essere con la finitezza del nostro io. Un io finito è un io che si identifica con uno spazio i cui con – fini lo de – finiscono per il fatto di renderlo diverso da tutto ciò che sta fuori. Per tale io l’unicità del suo essere consiste nella diversità, nella separatezza, quindi nella rottura dei legami. E’ ovvio quindi che per lui legame e libertà siano inconciliabili. La libertà cui aspira questo io è quella del finito che si volge al tutto con l’intento di dominarlo e non di costruire un legame finalizzato alla costruzione di un bene comune.

Libertà e legame sono conciliabili solo all’interno di una modalità dialettica di vivere l’essere cioè allorchè sentiamo che il bene del finito che noi siamo è legato al bene dell’infinito, al bene di ciò che è altro rispetto al nostro finito. Attraverso tale legame il bene diventa uno e quindi coincide con l’essere, che a sua volta è uno. Il legame, creando unità, crea contemporaneamente essere e bene, e quindi anche libertà, giacchè essa consiste proprio nel sentimento che essere è bene.

 

Se per la civiltà fondata sulla logica del principio di non contraddizione l’inconciliabilità di identità ed alterità comporta anche inconciliabilità fra ciò che sento essere il mio bene e ciò che invece è il bene altrui, quindi fra la libertà (il mio bene) e l’etica (il bene altrui), per il sentire dialettico invece non c’è libertà senza etica, non c’è bene personale senza bene comune.

Il cristianesimo ha senz’altro il merito di essere rimasto l’unica istituzione autorevole a portare avanti all’interno della nostra società l’istanza etica che il fondamento dell’essere è il bene comune cioè il bene della totalità dell’essere, il sommo bene, Dio. Per il cristianesimo il vero bene, quello che ci fa percepire la significatività del nostro essere, non è quello privato – quello teorizzato dalla concezione atomistica dell’essere propria del capitalismo – ma quello della totalità dell’essere. Solo avendo come scopo la realizzazione di esso quindi, abbiamo accesso al sentimento della significatività dell’essere.

Ma se non si può non convenire col cristianesimo che il fondamento dell’essere è l’etica, non si può nemmeno tacere – come già precedentemente detto – che a nostro giudizio il cammino proposto dal cristianesimo, affinchè viviamo in modo etico, è fallace perchè è fondato sul principio di non contraddizione, un principio non etico perchè separativo. Secondo tale principio infatti non è possibile un legame fra gli opposti: un lato dell’essere può manifestarsi soltanto escludendo il suo opposto, annullandolo cioè.

Ma se come sosteniamo noi, l’essere si fonda sulla dialettica, che consiste nel legame fra gli opposti, non è possibile annullare uno dei due; lo si può soltanto rimuovere, privandolo della libertà di azione e immobilizzandolo così entro una necessità paralizzante.

Per il principio di non contraddizione la necessità entro cui si rinchiude uno degli opposti non è solo rimozione di esso, ma un annullamento vero e proprio. E’ solo annullando un lato dell’essere. mediante la camicia di forza della necessità, che sarebbe possibile la manifestazione dell’essere. Secondo il principio di non contraddizione, l’essere non può manifestarsi come totalità cioè come unione di due poli opposti, ma solo come parzialità di un polo che annulla il suo opposto.

Tale operazione di preteso annullamento richiede il ricorso alla potenza, il cui scopo è ridurre all’impotenza un polo dell’essere – a privarlo della libertà, a necessitarlo – per far sì che il polo opposto possa essere.

La volontà di potenza su cui si fonda la nostra civiltà non è solo semplice volontà di dominio, è infinitamente di più. E’ un bisogno vitale perchè per la nostra civiltà l’essere può esistere solo annullando il suo opposto e per farlo è necessaria la potenza.

Ora siccome è impossibile annullare uno dei due opposti, giacchè l’essere si fonda proprio sul legame fra di loro, la volontà della nostra civiltà di accrescere sempre di più la potenza non può che divenire smisurata. Ciò perchè sentiamo che la potenza di cui disponiamo non è mai sufficiente per annullare il lato dell’essere che si oppone a quello con cui ci identifichiamo.

Dunque la perdita del senso del limite di cui soffre la nostra civiltà è la conseguenza del fatto che vogliamo ciò che è impossibile: vogliamo esistere in modo parziale, eliminando quel che si oppone a ciò che vogliamo essere.

 

L’etica, su cui per il cristianesimo dovrebbe improntarsi la nostra vita, non è possibile all’interno del principio di non contraddizione. Ciò perché l’etica e tale principio hanno una  concezione opposta dell’essere. Per l’etica l’essere deve comprendere la totalità; per il principio di non contraddizione solo una parzialità, escludendo quella che le è opposta. Abbiamo detto ‘deve’, coniugando così l’essere al futuro, perchè l’essere è cosa da costruire. Infatti al presente l’essere con cui ci identifichiamo si sente costantemente minacciato dal suo opposto, il polo dell’essere che rifiutiamo.

Ora mentre per l’etica l’essere, essendo fondato sulla totalità, lo si costruisce mediante un legame fra ciò con cui ci identifichiamo ed il suo opposto, per il principio di non contraddizione invece mediante l’annullamento del polo opposto a quello con cui ci identifichiamo.

Tale principio, proprio perchè ha una concezione dell’essere come cosa parziale, rende impossibile l’etica. Essa infatti ha come scopo il bene della totalità dell’essere.

Per il principio di non contraddizione invece il bene dell’essere non può che essere un bene parziale, poichè l’essere stesso sarebbe parziale.

Sulla base di quanto detto, dovrebbe essere chiaro che l’etica è possibile solo all’interno di una modalità esistenziale dialettica.

Per essere veramente credibile nel suo proposito di voler fondare la società sull’etica, il cristianesimo dovrebbe quindi rifondare innanzittutto il rapporto tra il finito del’uomo e l’infinito di Dio su basi dialettiche. Ciò implica che anche concetti come bene e male, la redenzione stessa dal male del peccato originale, radice di tutto il male successivo, debbano essere ripensati facendo riferimento alla dialettica. Mi rendo ben conto che ciò comporterebbe una tale rivoluzione delle religioni da stravolgere i fondamenti stessi della teologia.

Tanto per fare qualche esempio:

1) la concezione dialettica di bene e male, affermando che nel male c’è anche il bene e viceversa, sembrerebbe portare ad una relativizzazione dei due opposti, col rischio di confonderli rendendoli così equivalenti e rendendo di conseguenza impossibile l’etica.

2) Se finito ed infinito sono fusi insieme, allora nel finito dell’uomo c’è l’infinito di Dio e viceversa.

Certo il cristianesimo ha fatto il grande passo dialettico di affermare che l’infinito di Dio si è fuso col finito dell’uomo nella figura di Cristo e anche, seppure in modo meno manifesto, in Maria la cui finitezza, costituita dal corpo, è congiunta all’infinitezza dovuta all’assenza in lei del peccato originale.

Tuttavia si è ben guardato dall’estendere a tutti gli uomini, anzi all’essere stesso, la concezione che esso si dà solo in modo dialettico, per cui la fusione di finito ed infinito avviene anche in noi.

Ma il non averlo fatto è proprio da imputare a colpa? Rispondiamo pure, senza tema di contraddirci, sì e no. D’altra parte la dialettica si fonda sulla contraddizione, il che comporta che anche qualsiasi giudizio non può essere vero e falso in assoluto, ma solo in modo relativo.

Attenzione però che con ciò non si vuol certo affermare l’equivalenza di qualsivoglia giudizio. Ciò sarebbe devastante sia per la verità che per l’etica.

Si vuole invece dire che la verità è come un seme: germina solo nel terreno adatto ad accoglierla, in quello inadatto marcisce.

Il fatto che per la dialettica la verità sia relativa sta ad indicare che essa si dà solo come relazione, per cui necessita della presenza del due. Non certo però perchè gli opposti rimangano tali – perchè un’affermazione sia indifferentemente vera o falsa – ma perchè giungano poi ad una sintesi.

Ritornando alla domanda se il cristianesimo abbia fatto bene a non dire che la fusione di finito ed infinito, quindi di umano e divino, si è  sì realizzata in Cristo, ma è pure costitutiva, seppure per noi in modo inconscio, del nostro essere, si capisce ora meglio il perchè della contraddittoria risposta sì e no.

La relatività di tale risposta non ha per scopo l’equiparazione di sì e no, ma di affermare che le risposte sì o no hanno valore solo in relazione alle persone cui vengono date.

Quindi una rifondazione dialettica del cristianesimo non può prescindere dal detto evangelico “Non gettate le perle ai porci”. Quella che per la dialettica è una verità – ad es. la compresenza in noi di umano e divino che fa di noi dei potenziali Cristo – non lo è in modo assoluto, ma solo relativo.

La verità esiste in modo assoluto secondo la logica del principio di non contraddizione. Per esso un’affermazione è vera o falsa indipendentemente dalle persone cui è rivolta, per il fatto che ritenendo la verità come cosa oggettiva non la pone in relazione alla soggettività.

La verità dialettica è invece relativa perchè non può prescindere dal chiamare in causa anche la nostra soggettività. Il che sta a significare che la verità richiede l’intervento della nostra soggettività e quindi dellla nostra volontà. La verità dialettica è pertanto cosa da volere; non esiste di per sè, ma è da costruire e può esserlo solo se c’è l’apporto di una volontà che sceglie di vivere secondo la modalità dialettica di realizzare l’unione fra gli opposti.

Circa la compresenza in noi di umano e divino, la dialettica dirà che ciò è vero solo se noi siamo disposti a riconoscerla. E circa il fatto che, al pari di Cristo, anche noi possiamo realizzare la fusione di umano e divino, la dialettica dirà che ciò è vero solo se la nostra volontà è disposta a intraprendere questo gravoso e grandioso compito.

 

Per una rifondazione del cristianesimo su basi dialettiche, il lavoro principale non consiste tanto nel riformulare la teologia secondo i dettami del pensiero dialettico, quanto nel promuovere una modalità esistenziale dialettica, onde stimolare l’emergere in noi di un sentire dialettico.

Se questo è in difetto infatti, c’è il rischio di un fraintendimento clamoroso della dialettica stessa: il rischio di interpretare l’unità degli opposti come verità assoluta e non relativa, in altre parole come verità indipendente (ab – soluta) dalla nostra soggettività e non relativa all’apporto di essa nel fare in modo di costruire tale verità.

Per la dialettica l’unità degli opposti in sè non è né vera, nè falsa; è l’apporto della mia soggettività a decidere per il sì o per il no.      Non esiste la verità come cosa già esistente, fuori dal tempo e dallo spazio, quindi eterna ed immutabile. La verità è cosa da costruire, è un fine da raggiungere; la verità è progettuale, quindi è il frutto di una scelta, di un atto di volontà.

Attenzione però di non cadere nell’eccesso opposto di ritenere che la verità dialettica dipenda unicamente dalla nostra soggettività. E’ necessario l’apporto della nostra soggettività, questo sì, ma la volontà soggettiva non può da sola costruire la verità.

Ciò può crederlo il relativismo della nostra antidialettica civiltà. Essendo fondata sulla logica del principio di non contraddizione, la nostra civiltà non ammette legame fra oggettività e soggettività. Il risultato è che essa oscilla paurosamente fra la tesi che l’essenza dell’essere è cosa oggettiva e la tesi opposta che è cosa soggettiva.

Abbiamo quindi da una parte la scienza che nega la soggettività, riducendola a epifenomeno della materia, e dall’altra uno smisurato soggettivismo, che pretende di plasmare la totalità dell’essere secondo la volontà del nostro piccolo ego.

Dunque il fatto che la verità dialettica è progettuale dev’essere inteso che essa richiede sì l’intervento della soggettività, ma anche che la soggettività non può volere tutto ciò che vuole: deve volere relazionandosi all’oggettività, a ciò che si trova fuori di essa (ob – jectum), all’altro da sè.

In altre parole la verità dialettica richiede l’apporto non di una soggettività relativista, ma  di una relazionale; cioè non di una soggettività che si relaziona solo con se stessa per timore che qualsiasi legame la menomi della libertà, ma di una soggettività che sente che l’essenza del suo essere si realizza solo relazionandosi all’altro. Si realizza quindi attraverso il divenire della soggettività altro da sè, senza che ciò le faccia sentire di perdere la propria identità.

Mentre per la soggettività relativista la propria identità si fonda sul principio di non contraddizione (io sono io e non un altro), per quella relazionale l’identità si fonda sulla dialettica: io sono me stesso e nel contempo un altro, la mia identità consiste nel diventare altro, senza però perdere ciò di quello che ero. Da quanto detto si inferisce che il legame fra io e altro non è un dato di fatto; non esiste al presente, ma esiste al futuro cioè come realtà dinamica.

Il presente è la dimensione in cui vige la logica del principio di non contraddizione, perchè l’istantaneità del tempo presente, impedendo alle cose di tendere verso l’altro da sè, le confina in un’identità immobile.

E’ solo nella dimensione del futuro quindi che può darsi una soggettività relazionale. Ed è per il fatto che essa si apre all’alterità del futuro che può costruirsi un’identità, dove ciò che è al presente può legarsi in un’unità all’altro da sè che sarà nel futuro.

 

Ritornando alla questione della rifondazione dialettica del cristianesimo, abbiamo cercato di evidenziare la necessità di promuovere un sentire dialettico, che è poi quello della soggettività relazionale, quale condizione imprescindibile perchè i contenuti dottrinali del cristianesimo possano essere capiti ed agiti in senso spirituale. (Certo non tutti i contenuti dottrinali, perchè alcuni confliggono radicalmente col sentire dialettico). Infatti la carenza di sentire dialettico fa sì che la nostra soggettività concepisca la verità come statica, come già definita, come tutta contenuta dentro un formulario dottrinale, il che è esattamente l’opposto della spiritualità.

A tal proposito il vangelo è chiaro:”La lettera uccide, ma lo spirito vivifica”. Ciò a dire che la verità secondo lo spirito non può essere espressa solo in modo concettuale, in modo oggettivo. La verità secondo lo spirito non è cosa solo oggettiva – è la verità secondo la scienza, la verità che ha per fine la potenza, a crederlo – ma anche e soprattutto soggettiva.

La verità quindi è tale solo se si incarna in noi; solo se la accogliamo non solo nell’oggettività della mente, ma anche nella soggettività della psiche.

Ad es. l’unione di umano e divino che si è realizzata in Cristo in sè e per sè non è verità dialettica; per diventarla, occorre che anch’io mi ponga come progetto la realizzazione di tale unità. Per la dialettica infatti la verità appartiene alla totalità dell’essere. Quindi perchè l’unione di umano e divino sia vera, non basta che si realizzi fuori di me – sia pure in Cristo – bisogna che si realizzi anche nell’essere che compete alla nostra soggettività.

Mi rendo ben conto che questo è un compito immane, smisurato, che pertanto non può essere contenuto entro la misura del finito. Possiamo progettarci verso la sua realizzazione solo se il nostro essere è aperto all’infinito.

Di qui secondo me la necessità di accogliere  la dottrina della reincarnazione o quanto meno che il cristianesimo rivaluti la credenza nel purgatorio, perchè solo così il nostro essere può trascendere i limiti di una temporalità che la morte corporea ci fa credere finita. Chi crede che la morte fisica comporti anche la fine del nostro essere, ha il sentimento che il suo essere sia finito.

A poco serve poi – secondo me – che creda nell’infinità dell’essere di Dio. L’essere di Dio è pur sempre l’essere di un altro da me, un essere oggettivo. Per il sentimento dialettico l’infinità dell’essere compete all’essere sia nel suo polo oggettivo che soggettivo – quindi anche noi siamo esseri infiniti.

Con questo non intendo certo affermare l’equivalenza fra uomo e Dio. Sulla scorta di Nicola Cusano potremmo dire che nell’essere di Dio l’unità degli opposti è in atto – “Dio è coincidenza degli opposti” – mentre nell’essere dell’uomo è in potenza.

Per la dialettica dunque Dio è la meta verso cui dobbiamo progettarci. Non siamo Dio nel senso che non lo siamo al presente; siamo però chiamati a diventarlo.

Dio è l’essere perchè in lui gli opposti sono diventati uno, e l’essere è appunto uno. Il mio tendere a Dio è quindi un tendere verso l’essere, tendere verso quello stato di coscienza in cui l’essere è uno; una coscienza in cui il conflitto fra volere ed essere è superato nel senso che sentiamo  che ciò che siamo è la manifestazione di ciò che vogliamo essere.

 

A rischio di ripeterci, ribadiamo pur tuttavia che anche la più grande costruzione filosofico-teologica è destinata a rimanere lettera morta se non incontra una soggettività che sappia accoglierla cioè che sia disponibile a realizzare in sè ciò che i concetti non possono che esprimere in modo oggettivo.

Quindi una rifondazione del cristianesimo su basi dialettiche deve consistere prima che in una rifondazione delle sue basi dottrinali, in una rifondazione dell’uomo. Ciò ad indicare che la strada verso la realizzazione dello scopo ultimo del cristianesimo – la fusione del nostro essere con l’essere di Dio o in altre parole la fusione del nostro bene (l’essere coincide col bene) col bene della totalità dell’essere cioè Dio – non può che partire da noi stessi.

Infatti non è possibile comprendere il bene della totalità, il sommo bene, Dio, se prima non  comprendo in cosa consiste il mio bene. Ciò per la semplice ragione che il bene della totalità comprende anche il mio bene particolare. Non c’è totalità del bene se non vi è inclusa in essa anche il mio bene. Secondo la dialettica il bene del tutto è in relazione al nostro bene e a sua volta il nostro bene è in relazione a quello del tutto.

In altre parole l’etica ha per scopo la realizzazione di un bene comune che è nel contempo anche il nostro stesso bene; il che sta ad indicare che il bene della parte si realizza quanto più si comprenderà che coincide col bene del tutto.

Ora io non posso comprendere l’autentica natura del bene partendo dal bene dellla totalità giacchè – come detto – esso non esiste senza il contributo del mio bene particolare.

Posso conoscere la vera natura del bene solo partendo dalla riflessione su qual è il bene del mio essere. Se non ho capito come si manifesta il bene nella parzialità del mio essere, come posso capire la sua manifestazione nella totalità dell’essere? Se non ho capito la natura del bene all’interno della mia soggettività, come potrò capirla in ciò che sta fuori di me cioè capirla in modo oggettivo?

 

Purtroppo in una società come la nostra, dove il riduzionismo scientifico ha sempre più ridotto lo spazio della soggettività, era giocoforza che anche l’etica,  il bene della totalità – quindi la verità circa la natura del bene, ricordiamo che la verità è tale perchè riguarda la totalità – finisse per essere concepito in modo oggettivo.

Conseguenza di ciò è, fra le altre cose, una concezione materialista del bene: il bene relativo alla sola parte oggettiva cioè materiale del mio essere; il bene di ciò che in me è destinato alla fine, il bene del mio corpo. Un bene, che si rivolge solo a ciò che in me è finito, è un bene che non dura, è il bene della gratificazioni materiali.

Ora se essere e bene coincidono, un bene che non dura non potrà che comunicarci anche la sensazione di un essere che non dura; un essere piccolo perchè, identificandosi col bene finito delle gratificazioni materiali, è incapace di sentire la spinta interiore che lo anima a trascendere la sua finitezza.

 

La rifondazione dialettica e quindi spirituale del cristianesimo può avvenire solo seguendo un percorso opposto a quello della scienza: essa ha oggettivato l’essere, la religione invece deve ribadire l’irriducibilità della nostra soggettività,  che è un’unità che non può essere disgregata nelle parti che la costituirebbero.

Il nostro essere non è di natura oggettiva come quello di una macchina che, esso sì, può essere disgregato, perchè coincide con le parti che lo compongono.

Il nostro essere è di più della somma delle sue parti e il di più è il legame che le tiene unite. Non siamo un’unità quale risultante di una somma di parti, l’unità che siamo precede le nostre parti. Questo è poi il motivo per cui sentiamo che la molteplicità delle parti costituenti il nostro corpo e la molteplicità dei sentimenti contrastanti che viviamo in noi è pur tuttavia riconducibile all’unico essere che noi siamo.

 

Quando dicevamo che una rifondazione dialettica del cristianesimo deve partire da una riflessione sull’uomo, prima che da un ripensamento sui fondamenti teologici, dicevamo in sostanza che deve partire dalla soggettività, per arrivare poi a capire che l’unicità della nostra soggettività è un mezzo per giungere poi al fine cui siamo chiamati: prendere coscienza che l’unicità appartiene al tutto, che solo nella sua totalità l’essere è uno.

Il nostro essere non è uno per via del fatto che siamo unici, ma siamo unici perchè possiamo prendere coscienza che l’essere è uno solo in modo unico cioè legando la nostra parzialità al tutto in un modo che è solo nostro.

 

L’unicità di tale legame costituisce anche la garanzia della nostra libertà: è unico per il fatto che noi stessi e non altri l’abbiamo scelto.

Certo uno potrebbe dire che questa non è autentica libertà, perchè relativa al fatto che siamo liberi solo circa la scelta di come dev’essere il legame col tutto, non liberi di scegliere se legame dev’esserci o no.

Ma cosa sarebbe la libertà autentica? Per la logica del principio di non contraddizione la libertà è autentica quando è assoluta, quindi quando è priva di legami che la condizionino, che la relativizzino; quando non c’è niente che,  ponendosi come altro da essa, la delimiti.

Rifiutando il rapporto con l’altro però, tale libertà si priva della possibilità di diventare altro, condannandosi perciò a rimanere sempre e solo se stessa, prigioniera entro i confini di un’identità che non vuole cambiare.

L’impossibilità di cambiare è impossibilità di muoversi, cioè la condizione stessa della necessità. Ne consegue che la volontà di godere di una libertà assoluta ci porta a divenire preda della necessità, vittime del limite da cui volevamo emanciparci. Dobbiamo capire che non possiamo essere liberi senza l’altro.

Certo ciò che ci è altro ci delimita, producendoci la sensazione di essere oppressi dalla necessità, che ci vincola a rimanere entro la nostra finitezza.

Ma è anche vero che è solo accettando i limiti della nostra finitezza che ci viene offerta la possibilità di oltrepassarli, che è poi la possibilità di essere liberi. A tal proposito Spinoza era chiaro:”La libertà risiede nel riconoscimento della necessità”.

Riconoscere ciò non è ovviamente da intendere solo come una presa d’atto di una verità oggettiva. La verità dialettica infatti richiede anche la compartecipazione della soggettività. Ed essa la chiamiamo in causa solo se attribuiamo al riconoscimento della necessità anche il significato di riconoscenza verso la necessità; riconoscenza perchè è grazie alla necessità che possiamo essere liberi. Dunque è grazie al finito entro cui la necessità ci rinserra che possiamo avere accesso all’autentica libertà, quella in cui volere ed essere coincidono, l’essere di Dio.

Insomma non si arriva a Dio in modo oggettivo, partendo dalla teologia – cioè dallo studio di Dio – ma in modo soggettivo partendo dalla psicologia – dallo studio dell’anima.

Questo in fin dei conti è anche il contenuto dell’iscrizione sul tempio di Apollo a Delfi “Conosci te stesso e conoscerai l’universo e gli dei”.

Lo stesso ammaestramento lo ritroviamo poi anche nel passo dei Vangeli, laddove si dice che per giungere al regno dei cieli bisogna passare per la porta stretta.

Passare per la porta stretta sta a significare che si arriva al regno dei cieli solo passando dal finito, dalla chiusura entro cui la necessità ci confina. La necessità ci restringe, ci soffoca, rimpicciolisce il nostro spazio vitale, ponendoci di fronte all’eventualità tragica del nostro annullamento.

Ma è proprio in questa solitudine atomizzante, nella quale siamo pervasi dal sentimento della nostra nullità e quindi della nostra alterità rispetto all’essere, che ci è dato di avvertire anche il sentimento del nostro essere unici.

Questa non è certo l’unicità di chi si sente unico perchè speciale, perchè dotato di qualità che appartengono solo a lui; non è l’unicità di chi crede di essere superiore e quindi di incarnare l’essere in modo maggiore degli altri; non è l’unicità di chi identifica il suo essere particolare con l’essere della totalità, perchè crede di aver realizzato l’essenza dell’essere – cioè l’unità dell’essere – grazie al fatto di sentire che il suo essere è unico.

No, questa è l’unicità di chi sente che non è unico, perchè crede che l’unità dell’essere coincida col suo sentirsi unico; ma è unico perchè il suo cammino verso l’essere deve compierlo in modo unico, quindi da solo, senza poter contare sugli altri, perchè altrimenti il proprio cammino verso l’essere acquisterebbe un tratto oggettivo.

E quanto più cammino verso l’essere in modo oggettivo – cioè ricorrendo a una forza esterna che animi il mio percorso (come non vedere in ciò il pericolo della potenza messaci a disposizione dalla tecnica!) – tanto più vivrò l’essere in modo oggettivo cioè come posto fuori di me, come oggetto, come altro da me.

Al contrario quanto più il cammino verso l’essere lo percorro in modo unico cioè quanto meno ricorrerò ad una forza oggettiva, tanto più realizzerò che l’essere non è fuori di me, ma è in me. Sentirò che vivo nell’essere non secondo la modalità dell’avere – l’essere è cosa da afferrare perchè come oggetto è fuori di noi – ma secondo quella dell’essere, vale a dire: io non ho l’essere, ma sono l’essere.

 

Io sono l’essere! E’come dire: io sono Dio. L’essere infatti è la totalità, l’uno aldifuori del quale non c’è altro.

E’ un’affermazione che, se male interpretata, è la negazione totale dell’etica. Infatti dato che l’essere coincide col bene, è come dire che il bene esiste solo come bene del mio essere; che il bene degli altri non esiste perchè, essendo solo io l’essere, gli altri in realtà non esistono.

Mi rendo ben conto che, vivendo all’interno di una società che ormai da secoli, se non da millenni, ha plasmato il nostro sentimento verso la vita sulla logica del principio di non contraddizione, l’affermazione “io sono l’essere” è molto pericolosa.

Lo è perchè per il principio di non contraddizione, secondo la nostra società, il percorso verso l’essere non passa per il suo opposto, il nulla, ma consiste invece nel progetto di annullare tale opposto. Quindi per giungere all’essere bisognerebbe combattere contro tutto ciò che ci mortifica, tutto ciò che – incatenando la nostra libertà con le catene della necessità – produce in noi un sentimento di annientamento, di non essere; bisognerebbe eliminare qualsiasi volontà o forza contrastanti la nostra volontà, il che in pratica significa eliminare le volontà altre rispetto alla mia. E come la si eliminerebbe? Prima pensando l’altro come oggetto e dopo riducendolo tale.

Rimanendo all’interno della logica del principio di non contraddizione, è forse dunque auspicabile che interpretiamo anche il nostro essere come oggetto, perchè diversamente concluderemmo che l’essere del nostro io finito  è l’essere nella sua totalità. E’ meglio essere alienati dall’essere, considerarlo cioè come oggetto che sta fuori di noi, che essere affetti dalla megalomania di ritenersi l’Essere, di ritenere di conseguenza che solo la nostra volontà dev’essere e non quelle altrui.

Un’applicazione rigorosa del principio di non contraddizione non può che portare all’alienazione (sentire il proprio essere come oggetto) o alla megalomania (sentire che il proprio essere è soggetto e che solo la mia volontà, in quanto espressione della mia soggettività, è la volontà dell’essere).

 

Solo alla luce di una modalità esistenziale dialettica l’affermazione “io sono l’essere” è compatibile con l’etica, anzi la presa di coscienza che “noi siamo l’essere” è la realizzazione stessa dell’etica.

Per la dialettica il cammino verso l’essere passa attraverso il suo opposto, il niente; passa attraverso un sentimento di annientamento: il sentimento che il mio niente, e non il piccolo essere del mio io, è l’essere.

Si dirà “Come è mai possibile che l’essere sia il niente?”.  Come al solito tale affermazione non è comprensibile alla luce del principio di non contraddizione e alla sua   concezione dell’identità come qualcosa di statico, una concezione secondo cui A = A, cioè A è identico a sè solo non diventando altro da sè, quindi non mettendosi in moto verso l’alterità.

E’ invece comprensibile per la dialettica, per il fatto che essa concepisce l’identità in senso dinamico. Secondo la dialettica, che il niente è l’essere, non dev’essere interpretata come una verità statica, oggettiva, ma come una verità possibile. E che sia possibile dipende anche dalla mia volontà di renderla vera.
Ho detto anche, perchè la mia volontà da sola non basta. In altre parole non tutto ciò che voglio può diventare vero; lo diventa solo se la mia volontà non è al servizio della mia finitezza, ma del tutto.

La verità appartiene al tutto; ma perchè ci sia il tutto e quindi anche la verità, occorre che io dia il mio contributo a creare il tutto. Lo do facendo sì che la mia volontà e quella di tutto ciò che io non sono si uniscano, divenendo uno.

Ritornando all’affermazione che il niente è l’essere, possiamo dire che essa è una parte della verità: la parte statica, in quanto l’affermazione suddetta è coniugata al presente, il tempo dell’immediatezza, della non durata. E’ un’affermazione chiusa in se stessa, che esprime una verità atomistica, una verità assoluta nel senso che è incapace di relazionarsi con ciò che è fuori di lei, con ciò che le è altro.

“Il niente è l’essere” diventa vero in modo totale quando alla staticità, alla finitezza dell’affermazione aggiungo la dinamicità, da intendere come la progettualità di una volontà che intende realizzare l’identità di essere e niente.

In riferimento alla temporalità, la verità dialettica comporta anche una fusione di presente e futuro: una fusione per la quale una cosa è vera non se rimane identica a se stessa – quindi uguale a ciò che è nel presente – ma se diventa identica all’altro da sè che ancora non è, perchè situato nel futuro.

 

Ma ritorniamo ora all’affermazione che nella nostra società è inaccettabile sia per le coscienze laiche che per quelle religiose:”Io sono l’essere”. Abbiamo detto che essa è il fondamento stesso dell’etica.

Lo è però se interpretata in modo dialettico cioè in modo che l’identità sia fra due opposti. Per la dialettica questa affermazione è vera se riformulata così:”Io, diventando niente, realizzo in me l’essere”. Cioè non è il mio piccolo essere che può diventare l’Essere. E’ il mio niente che può diventarlo.

Ma come si diventa niente? Beh, a tal proposito la logica del principio di non contraddizione e della dialettica, come al solito, divergono.

Per la dialettica l’essere è uno perchè è relativo alla totalità nel senso che si relaziona, si lega al tutto.  Il niente (nec ens cioè assenza di essere) è la molteplicità che si produce, rompendo i legami.

Per il principio di non contraddizione più rompo i legami, più mi assolutizzo, più divento unico cioè più provo il sentimento che la mia unicità consiste nel non dipendere dalla pluralità degli altri; consiste nel sentimento che io sono uno perché sono solo io e non altro; sono un uno assoluto, un uno che non cambia diventando plurale, perchè in quanto assoluto il mio io non diventerà mai altro da sè.

Per la dialettica l’unicità così intesa non può che produrre in noi un sentimento di annientamento derivante dal fatto che, negandoci la possibilità di cambiare, di diventare altro, la nostra unicità finirà per disgregarsi, per divenire quella molteplicità che voleva evitare di essere. Infatti un’unicità che non può cambiare è un’unicità finita e come tale è destinata a finire.

In sintesi, mentre per il principio di non contraddizione l’unità, che è l’essenza dell’essere, è il risultato della rottura del legame con l’opposto; per la dialettica invece la rottura del legame con l’opposto porta al nulla. Per la dialettica si ha il nulla allorchè l’essere rifiuta di relazionarsi al nulla.

Dal che se ne deduce che come l’essere non si dà in modo assoluto, così pure il nulla non esiste di per sè; non esiste chiuso nella sua assolutezza, ma solo in relazione alla mia scelta di vivere secondo la modalità dialettica o meno. Nell’accezione dialettica quindi il nulla non esiste indipendentemente da me; esiste se io lo faccio essere. E paradossalmente lo faccio essere rifiutandolo cioè rifiutando di accoglierlo entro il mio essere per timore che lo nientifichi.

Invece chi ha fede nella dialettica scopre che il nulla è necessario perchè l’essere sia; necessario perchè ciò che il nulla nientifica non è l’essere, ma il sentimento illusorio che l’essere sia qualcosa di stabile, di costantemente uguale a sè, qualcosa che, non potendo mutare, è finito.

Il nulla nientifica la finitezza dell’essere, rivelandone così la sua infinità, il suo continuo progettarsi verso l’altro da sè, perchè solo così può legarsi all’altro, onde costituire quella totalità che è propria dell’essere.

 

Ora, stante l’identità di essere e bene, la lezione etica che viene dalla dialettica consiste essenzialmente nel riferire al bene ciò che si è detto dell’essere. Consiste nel sentire che il bene, come l’essere, è autetico solo quando si riferisce alla totalità, quando diventa bene comune, condiviso.

E la prova che questo è l’autentico bene sta nel fatto che, relazionandosi alla totalità, si relaziona con l’essere stesso, da intendere come sentimento della pienezza di significato che viviamo nella nostra esistenza. E cos’è il bene se non il sentimento della significatività del nostro essere? Il sentimento che non esistiamo per caso o come ingranaggio di una macchina perfettamente intercambiabile con un altro analogo?

Il bene è sentire che niente può sostituirci; che il non essere, il niente non può prendere il posto del nostro essere, perchè siamo indispensabili, unici; e in quanto unici, incarniamo l’essere, esso stesso unico.

Di più. In quanto indispensabili, siamo necessari, l’essere ha bisogno di noi.

Ma quale essere ne ha bisogno? Non certo l’essere che, chiudendosi all’altro, si identifica col finito entro cui sceglie di confinarsi. Rifiutando di diventare altro, il divenire di quest’essere consisterà nel ripetere se stesso, nel riprodurre copie di se stesso. Quest’essere non è certo indispensabile, perchè è perfettamente sostituibile da una delle sue copie.

Il finito produce copie dell’unicità, crea abbondanza (in latino, copia) di unicità; ma l’accrescimento quantitativo dell’unicità, lungi dal favorirla, la svilisce.

L’unicità è tale perchè è unica ed è unica perchè non ammette ripetizione.

Non è attingibile quindi all’interno della logica del principio di non contraddizione, perchè esso concepisce l’identità in modo statico: l’essere conserva la sua identità solo rimanendo uguale a se stesso.

La progettualità di questo essere non consiste in un moto verso il futuro, quindi verso la dimensione del nuovo, di ciò che ci è altro; ma in una ripetizione, quindi un moto all’indietro, verso il passato, verso ciò che è finito: un moto che non produce unicità, ma che la riproduce. La riproduzione è sempre e solo produzione di finito, quindi produzione di staticità, di immobolità, di necessità; il che è poi produzione di non essere.

Infatti l’essenza dell’essere è l’unità e i legami che la creano – come ci dice anche la fisica – sono prodotti dal moto. Dunque più concepiamo il nostro essere come finitezza, più ci sentiremo disgregare, andare verso il non essere. Sentiremo che anche il tempo della nostra vita consiste in una ripetizione. E infatti concependo l’essere come finito, progetteremo di produrre il finito; il che ovviamente ci creerà la sensazione che anche il tempo della nostra vita sia segnato dal sentimento del finito, quindi dell’impossibilità che il nuovo entri nella nostra vita, condannandoci così a sentire la nostra vita come una ripetizione del finito e di conseguenza una ripetizione del passato.

In tale ottica il passato diventa l’originale, il futuro una copia, quindi un qualcosa di inautentico. Questa che cos’è se non follia?

La nostra civiltà ha attuato un sovvertimento totale della scala dei valori. Concependo l’originale secondo la logica del principio di non contraddizione, la nostra civiltà ritiene che l’originale si trovi nell’origine, quindi nel passato.

La psicologia ufficiale non per niente ricerca nel nostro passato la causa di ciò che siamo. Secondo essa, più retrocediamo verso la nostra origine, verso il nostro passato, più siamo autentici, più siamo originali, unici, quindi più ci avviciniamo alll’essere, al sentimento della significatività del nostro esistere.

Capite la profondità di tale psicologia? Più diventiamo infantili, quindi più egoisti, più narcisisti, più diventiamo autentici, più la nostra vita diventa significativa.

La dialettica al contrario ci insegna che, per creare l’originale, bisogna andare verso il futuro cioè dove si trova l’opposto dell’origine. Il che sta a significare che l’originalità non è cosa che già esiste e che si trova nel passato. L’originalità si trova nel futuro perchè è cosa da creare.

L’originalità è ciò che ci rende unici, è quindi ciò che produce il sentimento dell’essere, la cui essenza appunto è l’essere uno, l’unicità. Più siamo originali, più siamo unici e più la nostra vita accede all’essere e al bene che, come detto, è il sentimento della significatività del nostro esistere.

La significatività della nostra esistenza, consistendo nell’originalità della nostra unicità,  non si può ritrovare nel nostro passato perchè esso, in quanto dimensione del finito, è chiuso al nuovo e quindi all’originalità. La significatività non è cosa che già esiste e che quindi ha un’esistenza indipendente dalla nostra.

In quanto connessa con l’originalità, la significatività appartiene al futuro, la dimensione del nuovo. Ora porre nella dimensione del futuro la significatività, l’originalità, l’unicità, l’essere e il bene vuol dire che nel presente esistono solo come possibilità, non come enti e concetti già esistenti e quindi definibili. Possiamo dire, sulla base della dialettica, che esistono in modo parziale, quindi in modo incompleto.

Ciò a dire che la completezza dell’essere non si dà nella dimensione istantanea del presente, che l’essere non è cosa effimera, cosa che non dura.

La completezza dell’essere ha bisogno del futuro. L’essere ha bisogno di essere completato; ha quindi bisogno del nostro contributo.

Ma quale contributo? Se come abbiamo detto, l’essere ha bisogno del futuro, il nostro contributo dovrà conformarsi sulle caratteristiche del futuro. Contribuiremo a far sì che l’essere sia (e quindi che anche la nostra vita acceda all’essere) apportando nell’essere il nuovo, quindi smettendo di vivere in modo riproduttivo cioè riproducendo il finito. Sono le macchine che riproducono il finito.

Noi siamo chiamati a creare il nuovo e il nuovo è tale quando è unico. Creiamo il nuovo allorchè facciamo nascere in noi il sentimento che il nostro essere è sempre nuovo.

Ovviamente può essere sempre nuovo solo se ci disentifichiamo dal nostro essere finito, se ci disidentifichiamo quindi dal passato. Ciò vuol dire sentire che il nostro essere non ha passato, che niente era prima di lui.

Se infatti qualcosa fosse prima di lui, quello con cui ci identifichiamo non sarebbe l’essere, perchè l’essere è uno e lo è perchè viene prima.

L’autenticità dell’essere consiste dunque nel non avere un passato cioè un qualcos’altro dall’essere che lo preceda, perchè altrimenti la primazia spetterebbe a quel qualcos’altro dall’essere cioè al non essere.

Avere la primazia vuol dire avere l’unicità. Se il non essere precede l’essere, allora è il non essere ad essere unico e quindi ad essere veramente, giacchè avrebbe l’unicità cioè l’essenza dell’essere.

Perchè l’unicità appartenga all’essere, bisogna pertanto porre l’essere prima di qualsiasi passato. In riferimento alla nostra vita, ciò significa che noi contribuiamo a creare essere quando smettiamo di identificare il nostro essere solo con il finito del passato; quando cominciamo a sentire che siamo sempre presenti, etimologicamente che siamo sempre davanti all’essere (pre – senti) e lo siamo anche nel passato. A tal proposito Spinoza ci ammaestra che “Sentiamo e sperimentiamo di essere eterni”.

Si dirà: come si fa ad essere presenti nel  passato? Lo si è nella misura in cui sentiamo che anche il nostro passato ha le caratteristiche proprie dell’essere e cioè l’unicità, l’originalità.

Ma ancora: come può essere che il passato, la dimensione del finito, della necessità, la dimensione dell’assoluto, la dimensione in cui la finitezza impedisce al passato di uscire dai suoi confini, per divenire così altro da sé, possa essere unico, originale? Sono domande queste che non si possono eludere perché credo che il modo con cui ci si concepisce e ci si relaziona all’essere dipende da come ci rapportiamo verso il passato.

La nostra civiltà ha scelto di concepire il passato come la dimensione dell’assoluto cioè come la dimensione dove il finito è assoluto, dove quindi i confini entro cui l’essere si dà sono invalicabili. Dunque per la nostra civiltà esiste una dimensione, il passato, dove non esiste il moto; dove quindi l’essere non può relazionarsi andandp verso ciò che è fuori di lui.

Ciò ovviamente comporta una scissione all’interno dell’essere fra ciò che è in modo assoluto – cioè l’essere quale si dà nel passato –  e ciò che è in modo relativo – cioè l’essere quale si dà nel futuro, un essere che ha la capacità di moto per uscire da se stesso, onde divenire altro.

La rottura dell’unità temporale, unità in cui consiste il sentimento dell’eternità, comportò anche la perdita del sentimento dell’unità dell’essere.

Perchè riemerga nelle coscienze il sentimento che l’essere è uno, bisogna quindi ricomporre la frattura dell’unità temporale che si è prodotta nelle nostre coscienze, a causa di un approccio non dialettico al nostro passato e di conseguenza anche al nostro modo di sentire il finito e la necessità.

La nostra civiltà, essendo intrisa del sentimento che l’essere si fondi sul principio di non contraddizione, concepisce il passato come un qualcosa di finito in senso assoluto.

Il passato della nostra vita diventa quindi un tempo assoluto, cioè totalmente privo di legami con ciò che siamo al presente e con ciò che saremo.

Ciò non vuol dire che il nostro passato non condizionerà ciò che saremo.  Lo  condizionerà e secondo la modalità esistenziale del principio di non contraddizione, cioè in modo che ci sentiremo incapaci di creare nella nostra vita unità fra la necessità, che appartiene alla dimensione del passato, e la libertà che appartiene invece al futuro.

Per una maggiore intelligenza del lettore, ci preme sottolineare ancora una volta che passato e futuro per la dialettica non sono soltanto due dimensioni oggettive del tempo, ma sono innanzittutto espressione di due distinti sentimenti dell’essere: il passato è l’espressione del sentimento della necessità, mentre il futuro della libertà.

L’inconciliabilità fra necessità e libertà, in cui crede la nostra civiltà, comporta di conseguenza anche un’inconciliabilità nella nostra coscienza fra il nostro passato e quel che sarà il nostro futuro.

Tale inconciliabilità si riverbera anche nel nostro sentimento dell’essere. Ne ricaveremo il sentimento che l’essere è fratto, perchè in esso ci sono due opposti inconciliabili che si escludono a vicenda: il finito – e ciò che gli è proprio cioè la necessità, il passato, l’assolutezza – e l’infinito – e ciò che gli è proprio cioè la libertà, il futuro, la relazione intesa come capacità di tendere verso il nuovo, verso l’alterità.

Tale incinciliabilità è destinata poi a divenire via via più drammatica man mano che invecchiamo, perchè nella nostra vita il passato/finito occuperà uno spazio crescente a scapito del futuro/infinito. Più debole è il sentimento dialettico di creare una relazione fra i due opposti, più si farà strada in noi il sentimento che l’essere della nostra vita è dominato dal finito, quindi dall’incapacità della libertà di valicare i limiti entro cui siamo confinati.

Ora anche una civiltà come la nostra, pur così segnata dal sentimento del finito, non può spegnere in noi il desiderio dell’infinità dell’essere, il desiderio che l’essere – come dice Spinoza – perseveri nel suo essere cioè che abbia a durare, ad estendersi nel tempo.

Dato che la carenza di sentimento dialettico della nostra civiltà fa sì che viviamo l’essere come finito, ne consegue che per noi la durata dell’essere non può che consistere nella produzione di altro finito, quindi nella produzione di altra necessità; nel vivere una vita rivolta verso il passato cioè non una vita che vive, ma una vita che rivive, una vita che si ripete. D’altra parte per la logica del principio di non contraddizione la vita è tale se è uguale a se stessa cioè se si ripete.

Ma che comporta il creare il finito? Comporta rompere i legami che rendono l’essere uno, onde frazionarlo in atomi di essere. In riferimento alla nostra vita, creare finito consiste nel produrre in noi il sentimento  di vivere il finito, di vivere il passato, di vivere una vita dove la presa della necessità è tale da finire anche la nostra libertà; consiste insomma nel produrre non essere cioè un sentimento di insignificanza del proprio esistere. Infatti quale significato può avere rivivere la vita?

La vita è significativa quando è originale, quando è unica, quando quindi si progetta verso il nuovo. Una vita è piena del sentimento dell’essere quando ha in sè l’essenza dell’essere cioè l’unicità.

Nella nostra civiltà invece si vive una vita che, in quanto copia di se stessa, è priva di unicità, una vita segnata dal sentimento del non essere.

 

Come dicevamo, è di capitale importanza che la nostra civiltà riveda il suo rapporto col passato se non vuole sprofondare nell’abisso  del non essere. Rivederlo significa smettere di rapportarsi al passato secondo la modalità del principio di non contraddizione e rapportarsi ad esso invece secondo la modalità esistenziale dialettica

Ciò comporta togliere il passato dalla condizione di finito assoluto, affinchè possa così congiungersi al futuro. In altre parole: far sì che il passato del nostro essere si unisca al futuro del nostro essere, in modo tale che percepiamo la nostra vita come un continuum; una vita che  tenendo insieme (con – tenendo) il nostro passato e il nostro futuro, produca in noi il sentimento dell’unità e quindi della significatività del nostro essere.

Ora unire passato e futuro significa anche unire ciò che è proprio del passato (la necessità) a ciò che è proprio del futuro (la libertà). Significa quindi sentire che per essere liberi, abbiamo bisogno della necessità, come a dire che ciò che ci lega, che ci vincola, che ci inchioda ad un qualcosa, ci rende anche liberi.

Ma si dirà: la necessità, per il fatto che ci lega, ci impedisce di andare verso il nuovo e quindi di provare il sentimento della libertà. Sotto la presa della necessità proviamo il sentimento che l’essere è un ripetersi, vivere il sentimento dell’impossibilità di sfuggire ad un compito che solo noi dobbiamo assolvere. La necessità quindi sembra farci provare il sentimento opposto della libertà.

Ma, a ben vedere, per il fatto che la necessità ci fa provare il sentimento di un obbligo verso qualcosa che nessuno può assolvere al posto di noi, essa ci fa pure provare il sentimento di essere insostituibili, di essere unici. Paradossalmente per chi non ha fede nella natura dialettica dell’essere, la necessità, producendo in noi il sentimento dell’unicità, ci offre l’opportunità di sentirci originali, quindi di essere aperti al nuovo, alla libertà.

Ho detto che la necessità ci offre l’opportunità della libertà, non già che ci rende liberi. Infatti per la dialettica l’unione degli opposti non avviene oggettivamente; richiede che siamo noi a volerla, richiede l’unicità della nostra scelta.

Dunque noi creiamo essere, unendo gli opposti necessità e libertà, solo se accettiamo di assolvere al compito cui la necessità ha legato il nostro essere unicamente. Accettiamo ciò nella misura in cui sentiamo che il legame della necessità non ha per scopo di immobilizzare il nostro essere, ma quello di legare il nostro essere ad uno scopo.

Ciò richiede – lo ribadiamo – il sentimento dialettico che anche la necessità non sia fine a se stessa – come pensa il principio di non contraddizione – cioè che non svolga l’azione di legare avendo come fine il legare stesso, ma che leghi con lo scopo di farci sentire unici, perchè quello scopo può essere svolto solo da noi; richiede sentire che la necessità, legandoci ad uno scopo, ci costringe ad essere liberi.

E’ evidente che tale asserzione, se interpretata alla luce del principio di non contraddizione, porta a concludere che la libertà sia un’illusione, in quanto viene negata la sua essenza: quella di essere causa del suo essere. Infatti se è la necessità a costringerci ad essere liberi, allora la causa della nostra libertà è la necessità. Quando proviamo il sentimento di essere liberi, di essere noi ad autodeterminarci, ci staremmo ingannando, dimostreremmo di non conoscere noi stessi, per il fatto che staremmo rimuovendo la vera causa del nostro essere, che sarebbe la necessità.

Per la dialettica vale esattamente il contrario:”Esse est causa sui”, l’essere è causa di se stesso; non c’è niente al di fuori di lui che lo costringa ad essere ed è perciò che l’essere è libero.

Ma come si deve intendere allora l’espressione che “la necessità ci costringe ad essere liberi”? In questo modo: la necessità ha il compito di ricordare a quella parte del nostro essere che l’ha scordato chi siamo veramente. Abbiamo rimosso che noi incarniamo l’essere, il che sta a significare che noi siamo causa di noi stessi; che ciò che siamo l’abbiamo voluto e lo vogliamo ora; che l’essenza del nostro essere è quindi la libertà. Quando la dialettica afferma  la compresenza in noi di essere e non essere intende essenzialmente ciò: noi siamo l’essere e quindi siamo causa di noi stessi, ma tendiamo ad identificare il nostro essere con quella parte che non accetta di sentirsi causa di se stessa e che quindi non accetta l’essere; tendiamo ad identificarci dunque col non essere.

E’ una tendenza comprensibile. Non è certo facile identificarci con l’essere  quando viviamo nella sofferenza. In quei casi vorremmo che la sofferenza che grava su di noi non avesse ad essere. In tal modo però non ci accorgiamo che stiamo creando non essere, che portiamo il non essere nella nostra vita e che quindi stiamo diminuendo in noi anche lo spazio della libertà.

La scelta esistenziale dialettica di accogliere la necessità consiste nell’accettare anche ciò che vorremmo non essere, nell’accettare di portare all’essere anche la necessità, sebbene essa sembri negare l’essenza del nostro essere, la libertà.

In riferimento alla dimensione temporale, portare all’essere la necessità vuol dire portare all’essere la dimensione propria della necessità, che è il passato. Ciò vuol dire sentire che anche quello che, per la parte di noi che rifiuta la necessità, è il passato, in realtà è presente; sentire che non c’è un passato, un prima rispetto al nostro essere; sentire che il nostro essere è dunque eterno. L’essere, essendo la totalità, non ammette niente fuori di lui, quindi non ammette neppure che esista una causa fuori di lui che l’abbia a determinare.

 

L’essere è libero perché è causa di sé. Ciò però non è vero solo in senso oggettivo; perché sia vero ci vuole anche l’adesione della nostra volontà. L’essere infatti è unione di oggettività e soggettività. La libertà quindi non è uno stato naturale, oggettivo dell’essere; non è cosa di cui abbiamo diritto per il fatto di essere, come la cultura libertino-liberista della nostra civiltà ci ha fatto credere.

La libertà appartiene all’essere solo se la nostra volontà lo vuole. Quindi per il pensiero dialettico la libertà, in quanto scelta soggettiva della nostra volontà, è un sentimento.

Non esiste oggettivamente, non è un oggetto che quindi esiste come esterno al nostro essere, come indipendente da noi. La libertà è uno stato dell’essere e non può quindi essere messa a disposizione del nostro essere come può esserlo un oggetto. Il sentimento della libertà può nascere solo dal nostro interno, dalla nostra soggettività.

Per la nostra civiltà, fondata sulla scelta esistenziale del principio di non contraddizione, la libertà, in quanto opposto della necessità, esiste nella misura in cui rimuoviamo la necessità. La libertà quindi sarebbe attingibile solo mediante la potenza, con la quale nientifichiamo la necessità che le impedisce di tendersi verso la sua metà. Per la nostra civiltà la necessità è non essere. Gli ostacoli alla libertà devono quindi essere eliminati, la necessità essere tolta dall’essere. Abbiamo così un essere dimezzato perché privato del suo opposto. Per la nostra civiltà dunque noi viviamo nell’essere cioè il nostro essere diventa significativo solo nella misura in cui eliminiamo la necessità dalla nostra vita.

Per la scelta esistenziale dialettica è esattamente il contrario. La significatività del nostro essere non si ottiene eliminando un qualcosa dall’essere, nello specifico eliminando ciò che ostacola la libertà che è l’essenza dell’essere.

Ritenere che sia possibile togliere qualcosa dall’essere è proprio di chi concepisce l’essere come divisibile, come privo di una forza di legame tale da creare un’unità indivisibile; è proprio di chi pensa l’essere in termini quantitativi cioè come molteplicità.

La dialettica invece pensa l’essere in termini qualitativi, nel senso che l’essere è più della somma delle sue parti; il di più è la forza di legame che rende tale somma un’unità indivisibile.

Quindi se sentiamo che la necessità ci impedisce di essere liberi, vuol dire che l’essere con cui ci identifichiamo non è l’essere dialettico, l’essere nella sua totalità di sintesi degli opposti.

 

Per la dialettica non si realizza l’essere lottando per eliminare gli ostacoli della necessità. Lo si realizza invece attraverso una lotta interiore volta a rimettere in discussione l’essere con cui ci identifichiamo. Gli ostacoli non sono fuori di noi, non sono altro rispetto al nostro essere; l’ostacolo è in noi, la necessità è dunque in noi, ed è ciò che ci fa sentire di vivere una vita bloccata, incapace di cancellare con un colpo di spugna gli ostacoli a quella che pensa di essere la sua autentica realizzazione.   La libertà di un’essere, che vuole sbarazzarsi della necessità, è però di ostacolo alla libertà dell’essere infinitamente più grande che noi siamo.

La modalità esistenziale del principio di non contraddizione, nel suo folle progetto di voler eliminare l’alterità dall’essere, ha plasmato una civiltà dove si è imposta una concezione atomistica dell’essere, un essere che tende a divenire sempre più ristretto quanto più cresce il nostro rifiuto verso gli ostacoli posti dalla necessità. E un essere più ristretto è ovviamente anche un essere meno libero.

Per ovviare a ciò, la nostra civiltà vuole accrescere sempre più la potenza per eliminare gli ostacoli che dall’esterno limitano la libertà dell’essere. Purtroppo non ha capito che la libertà e la necessità non sono fuori di noi, non esistono oggettivamente o al massimo la loro esistenza oggettiva ha una durata direttamente proporzionale al finito con cui identifichiamo il nostro essere. In altre parole quanto minore è la capacità del nostro essere di estendersi temporalmente, tanto più lo sentiremo come qualcosa di finito e quindi di oggettivo.

Non esistendo oggettivamente, è cosa vana pensare di promuoverli o contrastarli con la potenza oggettiva della tecnica.

La modalità esistenziale dialettica, concependo correttamente la libertà come stato dell’essere, sa che essa è attingibile non solo attraverso una lotta   sul piano oggettivo, ma anche su quello soggettivo. Ciò implica riferire alla nostra soggettività non solo la libertà, ma anche la necessità; sentire che anch’essa esiste perché scelta dalla nostra volontà.

Ovvio dunque che in noi non c’è una sola volontà, ma molteplici in relazione al grado di essere con cui ci identifichiamo. Quanto più vogliamo identificarci con l’essenza dell’essere – che è l’unità – tanto più saremo liberi. Quanto più piccola è la frazione di essere con cui vogliamo identificarci, tanto minore sarà la sensazione di essere liberi e tanto maggiore quella di essere necessitati.

La libertà è dunque una conquista della volontà. Non siamo liberi per natura, non nasciamo liberi. E ancora: nessun altro può darci la libertà perché essa, essendo ciò che ci rende unici, originali, ciò su cui si fonda la nostra soggettività, non può che originare da noi stessi, dalla nostra volontà.

L’autentica libertà ci rende unici perché essa appartiene all’essere, la cui essenza è l’unità: unità in senso temporale, che è l’eternità, e unità in senso spaziale, che consiste nel trascendere le divisioni poste dal finito, onde superare il sentimento di alterità.

In tale contesto potremmo definire la necessità come la custode dell’essere, come la forza con cui l’essere ci costringe ad essere fedeli alla nostra autentica natura che è la volontà di essere, quindi volontà di essere eterni ed infiniti, come lo è appunto l’essere.

Quando invece tradiamo la nostra autentica natura, allorchè vogliamo un essere finito, ecco allora che interviene la necessità a farci sentire che quell’essere finito, che vogliamo essere, produce in noi un sentimento di non essere, di insignificanza della nostra esistenza. Il compito della necessità è di farci capire che cos’è l’essere e di indicarci la strada per raggiungerlo.

 

Il merito delle religioni è di condividere con la dialettica  l’unità dell’essere; quindi l’idea che noi usciamo dalle tenebre del non essere nella misura in cui cessiamo di identificare il nostro essere con la parzialità del finito, per identificarlo col tutto.

Per il cristianesimo la dimensione del finito, che è poi la dimensione della materialità,  è caratterizzata dal fatto che essa è pervasa dal sentimento del non essere. Il finito infatti, in quanto conseguenza della rottura dell’unità dell’essere, è espressione del venir meno della forza unificante, il che porta verso la disintegrazione dell’essere e la sua annichilazione nel non essere. Dunque vivere nel finito è vivere nel sentimento del non essere, del male, del peccato.

Il messaggio del cristianesimo è quindi di accusa radicale verso la civiltà odierna che ha scelto di identificare l’essere col finito e quindi di attribuire al finito le caratteristiche proprie dell’essere cioè la libertà, il bene, il sentimento dell’unicità e dunque della propria autenticità.

Per il cristianesimo vale esattamente l’opposto: l’essere consiste nel processo di trascendimento del finito, per andare verso la meta che è Dio, il sommo bene.

Il bene, la libertà, la realizzazione della nostra unicità si rendono possibili a noi nella misura in cui viamo nel sentimento che la nostra autentica identità non è statica, ma dinamica. Cioè nella misura in cui smettiamo di identificarci  con la staticità del finito, per identificarci invece con la forza che ci spinge a varcare i confini entro i quali necessitiamo, rinchiudiamo l’essere.

E come la nostra autentica identità sta in questa forza trascendente – per usare una terminologia teologica, chiamiamola pure anima – così pure il nostro bene, la nostra libertà. Il bene, la libertà sono dunque di natura trascendente. Ciò a dire che non sono proprietà privata di chi vuole dar loro un essere finito, cioè di disporne solo per sé; la loro natura è di oltrepassare ogni finito per comunicarsi al tutto, per comunicarsi quindi all’essere.

Chi pensa di porre bene e libertà al suo servizio esclusivo, sta in realtà togliendo loro l’essere, sta trasformando ciò che pensa essere la causa della sua felicità, nella causa del sentimento dell’insignificanza del suo essere.

Bene e libertà producono il sentimento dell’essere solo se relazionati al tutto. E proprio per il fatto di avere un unico scopo – il servire il tutto – bene e libertà coincidono. Siamo liberi nella misura in cui perseguiamo il bene del tutto cioè nella misura in cui agiamo in modo etico.

La contrapposizione fra etica e libertà, che la nostra civiltà ritiene insanabile, non lo è affatto per la modalità esistenziale dialettica e neppure per il cristianesimo, nonostante le sue contraddizioni ed i limiti della sua apertura dialettica, di cui abbiamo parlato precedentemente.

La colpa più grave del cristianesimo e delle religioni in genere è di aver rotto l’unità dell’essere, non tanto distinguendo in esso l’essere di Dio e quello delle creature, quanto per il fatto di ritenere che tale distinzione sia assoluta.

La dialettica infatti ammette che ci siano distinzioni nell’essere, dovute al grado di unità fra gli opposti che riusciamo a realizzare: maggiore è la nostra capacità di fonderli i un’unità, maggiore è la nostra vicinanza all’essere; non ammette però che nell’essere possa esistere una dualità irriducibile: l’essere di Dio e l’essere delle creature.

Tuttavia è già molto che in questa civiltà, segnata dal nichilismo di una concezione per la quale l’essere si manifesta nella sua autenticità solo dandosi come un finito assoluto, un finito irrelazionale poiché totalmente chiuso in se stesso, il cristianesimo affermi che l’autenticità dell’essere abbia caratteristiche opposte. Infatti per il cristianesimo l’essere autentico cioè l’essere in cui la significatività dell’esistere si manifesta in massimo grado, Dio, ha come caratteristica la volontà di trascendere il finito sia spaziale che temporale.

Certo la distinzione fra l’essere di Dio e delle creature, rompendo l’unità dell’essere, sembra impedire la possibilità di trascendere il finito. Tuttavia il cristianesimo si salva dalla contraddizione, anche se non in modo filosoficamente corretto. L’assolutezza della distinzione fra l’essere di Dio e delle creature viene trascesa dal cristianesimo sostituendo all’essere il suo attributo primo che è il bene. Ecco così che la rottura nell’unità dell’essere viene ricomposta dall’unità del bene; per il cristianesimo infatti il bene di Dio e delle creature coincidono. Nel tutto non esistono beni distinti, beni privati, ma un solo bene che trascendendo ogni limitazione, si comunica al tutto, che così riacquisisce la sua essenza, l’unità.

A ben vedere, è forse anche bene che il cristianesimo mantenga la distinzione fra l’essere di Dio e quello dell’uomo, perché c’è il rischio che l’uomo intenda in modo errato l’unità dell’essere cioè che creda che, per il semplice fatto di esistere, il suo essere sia lo stesso che l’essere di Dio.

L’affermazione “Io sono Dio” della mistica non vale certo allorquando ci identifichiamo con un io finito. Noi non siamo Dio nell’attualità della nostra finitezza, lo siamo solo in potenza, come cosa in potere della nostra volontà. Dunque per Dio non basta esistere, bisogna volerlo.

Ma come volerlo? Per la dialettica vale sì il detto “Volere è potere”, ma il potere che il volere ci può dare dipende dall’intensità con cui la nostra volontà tende verso il suo scopo. La volontà di realizzare in noi l’essere di Dio richiede un’intensità tale da trascendere qualsiasi limite che ci separi da Dio cioè dall’essere autentico.

Siamo Dio non nella finitezza del presente, ma solo quando identifichiamo il nostro essere con la nostra anima, la forza che ci anima a trascendere la separazione del finito per legarci al tutto che è l’essere.

Ma sempre per non ingenerare equivoci, la tesi dialettica della mistica “Io sono Dio” può essere accettata dal cristianesimo se ancora una volta ricorriamo alla sostituzione dei termini. In questo caso però i termini da sostituire sono due. Al posto di Dio mettiamo il bene e al posto di “Io sono” mettiamo il tutto. Infatti  giacché l’essere è proprio del tutto, anch’io sono veramente allorchè identifico il mio essere col tutto. “Io sono Dio” diventa quindi “Il tutto è il bene”, da intendere nel senso che il bene appartiene al tutto, che il bene si manifesta trascendendo il finito entro cui l’io egoico vuole rinchiuderlo, per comunicarsi al tutto.

 

Il nemico autentico del cristianesimo non è affatto il comunismo, come sostenuto da tanti pseudopensatori o per ignoranza o in malafede, e purtroppo anche da coloro che ancora si ostinano ad associare al comunismo quelle ideologie atee e materialiste, che sono la negazione stessa dell’idea di bene comune; è invece la concezione dell’essere, quale si è venuta imponendo nella civiltà europea, soprattutto a partire dal rinascimento. Da lì ha preso sempre più piede l’idea che l’essenza dell’essere sia la finitezza; essenza che a livello materiale si è espressa nella concezione atomistica, a livello economico nel capitalismo, con la sua tesi che più si persegue il bene privato, più si contribuisce ad accrescere quello collettivo, a livello biologico con la concezione meccanicista del corpo, la cui atomizzazione ha portato alla teoria delirante del gene egoista.

La riverberazione della presunta finitezza dell’essere, nelle varie manifestazioni dell’esistenza, fa comunque capo al fatto che l’umanità odierna è pervasa, a  livello psicologico, dal sentimento di vivere un’esistenza finita . E’ infatti sulla base del sentimento che abbiamo dell’essere e del bene, suo indissolubile compagno, che progettiamo tutta la nostra vita.

Nella nostra civiltà si è imposta l’idea che essere, bene e libertà abbiano un’essenza finita, e quindi che per realizzarli nella nostra vita dobbiamo diventare sempre più individualisti, egoisti e anche infantili, perché è proprio del bambino voler godere di una libertà assoluta, di avere solo diritti senza alcun dovere che lo costringa a prendere in considerazione anche la libertà degli altri cioè di coloro che stanno fuori dai confini che lui ha stabilito per l’essere.

Non occorrono argomentazioni filosofiche per contrastare i fondamenti valoriali della nostra civiltà; sono i fatti ad accusarla, è il nichilismo verso cui ci stiamo a grandi passi incamminando.

Per allontanarlo dalla vita di noi tutti non è certo sufficiente lottare contro gli effetti nefasti che esso produce: devastazioni ecologiche, guerre, povertà, ecc.

Bisogna colpire al cuore la causa di esso, l’identificazione dell’essere col finito. Ecco allora che si fa sempre più necessaria ed urgente una rinascita della religione. E’ diventato di vitale importanza lottare per allargare i confini dell’essere e per questo c’è assolutamente bisogno di una religione; c’è bisogno che ci si dica che l’essere è eterno, che il bene non ha confini, che la libertà non appartiene all’ego, ma all’anima,  cioè che siamo liberi solo facendo emergere alla coscienza la forza che ci anima a trascenderci. C’è bisogno che ci venga detto che Dio c’è o – se a qualcuno non piace la parola Dio a causa dell’uso negativo che di Dio si è fatto – in alternativa che ci si dica che l’essere è il bene del tutto, il bene comune, e che il nostro compito è di contribuire affinché l’universo ne divenga sempre più conscio.

 

Novembre 2020      Paolo Galante

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Le forze di terra israeliane hanno paura? + Aggiornamenti sulla guerra in Ucraina, di SIMPLICIUS THE THINKER

Le cose continuano ad accelerare il passo e a rallentare apparentemente allo stesso tempo.

Dopo aver minacciato con forza un immediato assalto di terra a Gaza, l’IDF ha apparentemente perso le staffe e si è rassegnato alla dura realtà che andrebbe incontro a perdite spropositate e/o alla sconfitta. Quindi ora fingono di raccogliere le forze mentre rivalutano la situazione e le loro possibilità. Nel frattempo, sono ricorsi a bombardamenti di massa indiscriminati di civili dal cielo.

Ma sono emersi gravi problemi di mobilitazione:

Il quotidiano The Times of Israel ha reso noto che i riservisti che vengono mobilitati nei ranghi dell’esercito israeliano incontrano seri problemi perché mancano di uniformi adeguate e di altri equipaggiamenti (compresi elementi di protezione balistica individuale). Si afferma che questo problema si sta cercando di risolverlo autonomamente nella Repubblica Popolare Cinese (Aliehpress), ma anche che gli Stati Uniti hanno annunciato aiuti militari che alleggeriranno la logistica dell’esercito israeliano.
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Le Forze di Difesa Israeliane non sono pronte per la mobilitazione su larga scala dei riservisti e per l’impiego in combattimento in condizioni di guerra. I riservisti, provenienti da tutto il Paese, non sono stati riforniti di cibo, non hanno avuto l’equipaggiamento, i beni di prima necessità e l’igiene personale. I volontari hanno già annunciato una raccolta a livello nazionale degli oggetti necessari per i riservisti, che continuano ad arrivare nei punti di raccolta in tutto lo Stato di guerra.
Per coincidenza, pochi giorni fa è stata rivelata una grave carenza di mimetiche per il Corpo dei Marines degli Stati Uniti:

In un video su Instagram, il Comandante Gen. Eric Smith ha affrontato le preoccupazioni dei membri del servizio per l’impossibilità di trovare e acquistare le “mimetiche” con motivi boschivi a causa di una carenza di produzione. Ha annunciato che, poiché il problema persiste, i membri locali saranno autorizzati a indossare uniformi alternative contrarie agli standard dei Marine: “Questo problema ci accompagnerà fino all’autunno del 2024, quando il produttore potrà colmare il ritardo che si è creato dopo il COVID. Fino a quel momento, i comandanti locali, i battaglioni e gli squadroni sono autorizzati a utilizzare l’equipaggiamento FROG [flame-resistant organizational gear] o le mimetiche [color deserto] per mitigare il problema”, ha detto Smith.
Sottolineo la questione solo per evidenziare l’ipocrisia: La Russia è stata ampiamente ridicolizzata per le varie carenze in quella che è stata una mobilitazione senza precedenti, mai vista in più di mezzo secolo. All’epoca dissi che ogni paese avrebbe avuto gli stessi problemi.

 

Ora, naturalmente, vediamo che si è dimostrato vero, dato che anche Israele sta avendo problemi nell’equipaggiare le sue truppe appena richiamate.

Inoltre, Bibi ha apparentemente premesso i ritardi con la scusa di dare tempo agli americani e ai civili di evacuare Gaza. Ma questo è complicato da diversi fattori, uno dei quali è il fatto che l’Egitto ha apparentemente chiuso il checkpoint meridionale e non vuole che i rifugiati palestinesi si riversino in Egitto.

Perché? Perché il piano segreto di Israele è stato a lungo quello di spingere i palestinesi fuori da Gaza e “reinsediarli” in una nuova casa nel Sinai, rendendoli “un problema altrui” in modo che Israele possa prendere completamente il controllo di Gaza.

 

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu cova da tempo il progetto di annettere la Striscia di Gaza e trasferire i palestinesi nella penisola del Sinai in Egitto, riferisce il canale televisivo iracheno Al Sumaria, citando una registrazione audio dell’ex presidente egiziano Hosni Mubarak in cui parla di una conversazione con Netanyahu. “Netanyahu una volta ha detto… che c’è una mappa che mostra la Striscia di Gaza e il territorio vicino ai nostri confini, e ha iniziato a consultarsi se la popolazione della Striscia di Gaza si trasferisse nella Penisola del Sinai”, ha detto il canale televisivo citando Mubarak. Secondo quanto riportato, l’ex presidente egiziano avrebbe rifiutato l’offerta di Netanyahu. “Scordatevelo. Né io né chi verrà dopo di me potremo rinunciare al nostro territorio”, ha detto Mubarak.
L’Egitto lo sa e preferisce tenerli dove sono, ma consegnare loro gli aiuti umanitari attraverso il checkpoint meridionale di Rafah. Israele probabilmente non vuole che se ne vadano attraverso il checkpoint settentrionale di Erez, perché ciò significherebbe che si riverserebbero in Israele. Così i palestinesi diventano inavvertitamente una pedina in questa sorta di gioco geopolitico.

In questo momento c’è una quantità di rumore informativo senza precedenti, con un falso dopo l’altro che si diffonde di minuto in minuto. Non solo per quanto riguarda le cose che accadono all’interno di Israele, ma anche per la scena geopolitica generale che vi ruota intorno, con falsi su vari Paesi come il Pakistan che offrono assistenza militare alla Palestina, ecc. Dobbiamo quindi essere molto vigili nel non credere a tutto e nel mantenere l’informazione pulita.

In generale, però, sembra che ci sia una mobilitazione di varie forze e Paesi, anche se molto di questo può essere attribuito a conseguenze precauzionali. Quasi tutti i Paesi “mobilitano” le loro forze per proteggersi quando c’è qualcosa che bolle in pentola nelle vicinanze, come ad esempio l’Iran al confine con l’Azerbaigian nei recenti scontri.

Così ora sentiamo parlare di potenziali richiami di massa delle forze siriane, con voci di mobilitazioni greche, ecc.

 

L’intero impero si sta mobilitando; jet da combattimento britannici arrivano alla base britannica di Akrotiri a Cipro. Uno squadrone di jet da combattimento della NATO provenienti dai Paesi Bassi è atterrato in Israele. La portaerei statunitense è stata dispiegata nel Mediterraneo orientale. In pochi giorni gli Stati Uniti si sono ritirati dall’Ucraina come da Kabul.

Con il presunto invio da parte degli Stati Uniti del loro secondo gruppo di portaerei nella regione, la situazione è destinata ad essere in fibrillazione. La posizione ufficiale, espressa oggi da John Kirby, è che queste portaerei hanno uno scopo di “deterrenza”, per far riflettere chiunque possa pensare di entrare nel conflitto.

All’inizio della giornata era stata annunciata un’incursione di massa di Hezbollah, ma anche in questo caso si è rivelata una fake news o uno psyop: alcuni ritengono che forse Hezbollah abbia hackerato o messo fuori uso i sistemi di allerta israeliani nel nord.

Nel frattempo, il Presidente iraniano Raisi avrebbe parlato al telefono con Bin Salman della KSA in merito al sostegno alla Palestina. C’è la sensazione che dietro le quinte si stiano formando coalizioni per qualcosa di più grande, ma non ci sono ancora indicazioni certe che si verifichi il grande Cigno Nero che alcuni si aspettano.

Alcuni, tuttavia, vedono dei paralleli con altre epoche di polverizzazione:

La situazione è stata esacerbata all’inizio della giornata da un’esplosione di un gasdotto tra l’Estonia e la Finlandia, che è stata prontamente attribuita alla Russia. Naturalmente, Stoltenberg ha già “minacciato” la Russia di reagire.

Sempre più spesso questi incidenti danno la sensazione che qualche mano nascosta stia cercando di alimentare un conflitto importante dietro le quinte. E come abbiamo detto l’ultima volta, è ovvio quale sia il motivo. La disastrosa campagna ucraina degli Stati Uniti e dell’Occidente è completamente uscita dai binari e minaccia di affondare l’intero Occidente con essa, come ha lasciato intendere il presidente polacco quando ha descritto l’Ucraina come un uomo che affonda e che minaccia di trascinare tutti con sé.

A cavalcare l’onda della crescente tensione ci sono i sempre più frequenti – e molto inquietanti – avvisi di un qualche tipo di attacco terroristico globale di massa previsto per venerdì:

Questo fa seguito a quello che si sostiene essere il cofondatore di Hamas che ha chiesto un “giorno di rabbia” in quel periodo e che la gente scenda in strada e compia la “jihad”.

Lindsey Graham, nel frattempo, ha invocato la propria jihad invocando una “guerra religiosa” in diretta televisiva:

Considerando che continuano a emergere sempre più prove che Netanyahu ha sostenuto il finanziamento diretto di Hamas, si può fare due più due:

Come accennato l’ultima volta, c’è il potenziale per qualche falsa bandiera coordinata di massa per far esplodere le cose, una volta che le risorse strategiche statunitensi sono in posizione nella regione. Si può facilmente immaginare uno scenario in cui i gruppi di portaerei statunitensi sono posizionati nel Mediterraneo orientale e “Hamas” o qualche “gruppo sostenuto dall’Iran” compie alcune importanti “provocazioni” o “attacchi terroristici” nelle principali città, inducendo gli Stati Uniti a condurre allegramente una campagna di bombardamenti per paralizzare la Siria, l’Iran, ecc.

Una cosa interessante da notare è che il MSM ora riporta che l’Iran non sapeva dell’attacco di Hamas, e quindi probabilmente non era coinvolto.

Questo porta a chiedersi se non ci sia un disaccordo all’interno del deepstate su come procedere e quanto intensificare la situazione.

Ci sono sempre più indicazioni che si tratti di una sorta di manovra di Netanyahu/Likud per consolidare il potere. Per esempio, la rivelazione che le forze di intelligence egiziane avevano avvertito il governo di Netanyahu che “qualcosa di grosso” stava per accadere, cosa che è stata completamente ignorata.

Per la cronaca, Israele ha ufficialmente negato che ciò sia accaduto. Ma è difficile credere a qualsiasi cosa dicano.

Nel frattempo, alcune delle più importanti pubblicazioni israeliane continuano a scagliarsi contro Netanyahu, incolpandolo delle conseguenze:

Ho visto alcuni esperti del Medio Oriente affermare che il regime di Netanyahu non sopravviverà a questo conflitto, indipendentemente da chi vincerà. Che sia vero o meno, di certo ha bisogno di una percezione di vittoria decisiva dopo tutto quello che è successo.

Uno dei problemi è che, a prescindere da come finirà, anche se dovesse andare nella direzione delle più blande previsioni di escalation, questa situazione rimodellerà la regione per sempre. Per esempio, supponiamo che Israele distrugga Gaza e sconfigga Hamas, ponendo rapidamente fine a questa situazione. Da questo momento in poi, Israele avrà un nuovo peso sulla spalla e sentirà una nuova giustificazione per colpire qualsiasi cosa o chiunque. Ciò significa che, a prescindere da come finirà la vicenda, le tensioni intorno alla Siria e all’Iran probabilmente aumenteranno a prescindere.

Israele userà quanto accaduto come giustificazione per rispondere in modo sproporzionato anche alla minima provocazione percepita. Ciò significa che gli attacchi di massa contro obiettivi iraniani in Siria seguiranno per molto tempo dopo questo episodio.

Un’altra cosa importante da notare è che, mentre è di moda prevedere una grande “trappola araba” e un finale da film in cui Egitto, Siria, Giordania, Libano, Iran e così via, piombano tutti insieme e distruggono Israele, la verità è che ci sono alcuni indizi di errori ripetuti che potrebbero finire con nient’altro che la distruzione di Gaza.

Ad esempio, era una tattica araba ben nota, risalente alla guerra dello Yom Kippur, quella di stimolare un conflitto e di esagerarne gli obiettivi per cercare di costringere o obbligare altri alleati a unirsi a esso. L’Egitto ha notoriamente mentito alla Siria nel 1973 sulla portata della sua penetrazione nel Sinai per convincere la Siria a impegnarsi ad attaccare le alture del Golan.

Allo stesso modo, si può ipotizzare uno scenario in cui, invece di una campagna altamente coordinata della sfera della resistenza, si sia trattato semplicemente di un disperato appello di Hamas per cercare di convincere altri attori regionali ad unirsi all’attacco sulla base della percezione di audacia dello stesso. Ma ci sono indicazioni che l’Iran e Hezbollah non vogliano davvero partecipare a un altro grande conflitto.

Naturalmente, questo potrebbe essere irrilevante se l’Occidente e gli Stati Uniti intendono cooptare gli attacchi e usarli a loro vantaggio con un’escalation incendiaria che costringerebbe l’Iran a rispondere. Ma per ora non c’è alcuna indicazione che ciò accada o che l’Iran abbia intenzione di essere coinvolto in modo palese.

Detto questo, un numero crescente di esperti ritiene che la “linea rossa” per gli altri Paesi sia l’irruzione di Israele a Gaza o il tentativo di occuparla:

Ed è possibile che questa sia una delle cause dell’improvviso tentennamento di Israele al confine con Gaza, invece di andare avanti come hanno affermato con tanta audacia di fare nel primo giorno di eventi.

Ma una cosa che continua ad essere evidente è che gli Stati Uniti stanno usando il conflitto per spingere l’Ucraina ad andarsene. Senatore repubblicano Hawley:

John Kirby ha appena pronunciato ad alta voce la devastante parte silenziosa nella conferenza stampa di oggi, ammettendo che sono alla “fine della corda”:

Ascoltate di nuovo le sue parole. Da un lato, le voci suggerivano che Biden intendesse staccare un gigantesco assegno da 100 miliardi di dollari per lavarsi le mani dell’Ucraina, ma Kirby ora afferma molto chiaramente che: “Non è il caso di cercare di fornire un sostegno a lungo termine quando si è alla fine della corsa”.

Si tratta di un’affermazione che apre gli occhi. Forse è la prima volta che l’amministrazione ammette così apertamente che non solo non ci sono piani per un “sostegno a lungo termine” all’Ucraina, ma che tutto il sostegno in generale è già vicino alla fine.

La capacità di aiutare Kiev sta diminuendo nel tempo a causa delle risorse limitate, il conflitto sta raggiungendo un punto in cui la sua soluzione attraverso l’azione militare è impossibile, ha dichiarato il Ministro della Difesa italiano Guido Crosetto.
Il fatto che la tempistica coincida con l’inizio di questo conflitto israeliano appare chiaramente come una messaggistica intenzionale per condizionare l’opinione pubblica sul fatto che il Progetto Ucraina si stia concludendo. Sky News ha persino riferito che Zelensky potrebbe improvvisamente essere aperto ai negoziati se gli aiuti occidentali dovessero davvero terminare:

Detto questo, è probabile che si tratti solo di speculazioni, dato che la linea ufficiale è ancora quella della resistenza dell’Ucraina. Ad esempio, è stato detto che l’Ucraina intende continuare a condurre offensive anche durante l’inverno, senza alcun limite.

Secondo diversi funzionari della Difesa statunitense, il Pentagono è sempre più preoccupato per l’eventuale necessità di estendere le sue scorte di munizioni, sempre più scarse, per sostenere l’Ucraina e Israele in due guerre separate: Al momento l’Ucraina e Israele richiedono armi diverse: l’Ucraina vuole enormi quantità di munizioni per l’artiglieria, mentre Israele ha richiesto munizioni aeree a guida di precisione e intercettori Iron Dome. Ma se Israele lancia un’incursione di terra a Gaza, l’esercito israeliano creerà una nuova e del tutto inaspettata domanda di munizioni per l’artiglieria da 155 mm e di altre armi, in un momento in cui gli Stati Uniti e i loro alleati e partner sono stati messi a dura prova da oltre 18 mesi di combattimenti in Ucraina”, spiega la CNN.
E per quanto riguarda quanto sopra, si dice che Israele sia già a corto di una serie di munizioni avanzate, tra cui le intercettazioni di Iron Dome, e che ora stia pregando gli Stati Uniti di rifornirsi. Sebbene Israele sia il produttore di Iron Dome, a quanto mi risulta anche Raytheon contribuisce alla produzione di alcuni missili.

Hanno anche iniziato a scarseggiare le bombe di piccolo diametro e altre munizioni guidate, e ora si dice che ricorrano all’uso di vecchie “bombe mute” come la M117 del 1950, qui raffigurata oggi:

Il capitano Raz Peretz è il nome inciso sulla bomba. È morto di recente durante i combattimenti, e questo potrebbe indicare che l’IAF sta utilizzando anche le sue scorte di bombe non guidate M117 da 750 libbre negli attacchi in corso.
Questo dimostra una cosa che ho sostenuto fin dall’inizio: nessun esercito della NATO è preparato per un moderno conflitto cinetico. Tutte le bombe guidate lanciate da Israele possono sembrare impressionanti in video, ma possono farlo solo per pochi giorni prima di esaurirsi e chiedere a mamma USA di averne altre. Nessun Paese può fare quello che sta facendo attualmente la Russia, che sta conducendo un conflitto di quasi due anni con una massiccia produzione industriale interna che rifornisce le intere forze armate con un sostegno senza precedenti.

Ma tornando all’Ucraina, la Russia ha immediatamente approfittato degli sviluppi entrando in azione con una grande offensiva su Avdeevka. In realtà, gli ucraini sostengono che si tratta di un’offensiva su tutti i fronti, compreso quello di Kupyansk.

Il Fronte Krasnolimansky tuona. Non ricordo nulla di simile in tutto l’anno in cui ho lavorato qui da vicino”, scrive il corrispondente di guerra Igor Zhdanov. Il consumo giornaliero di proiettili per un solo cannone è di circa cento. Sui mortai è letteralmente un ordine di grandezza superiore. Estrapolando l’intera linea di contatto, si tratta di centinaia di raffiche di artiglieria e migliaia di mine sparate. Appena a nord di Kremennaya, la fanteria si è incuneata per 600 metri nella difesa delle Forze armate ucraine su un sito di 1 km lungo il fronte.
Ma i progressi più notevoli sono stati fatti oggi nel settore di Avdeevka. Purtroppo molte fonti sono state premature nell’annunciare grandi vittorie come la cattura di Berdychi, che si è rivelata non vera. Ciò accade di solito quando una squadra di ricognitori si avvicina brevemente a un insediamento, che viene poi indicato come “catturato”, anche se la squadra si ritira rapidamente.

In realtà, l’avanzata è stata solo di qualche centinaio di metri, secondo le fonti ucraine – 200-500 metri a seconda del luogo, dato che ci sono state avanzate sia dalla tenaglia meridionale che da quella settentrionale.

Qui si può vedere la scala dell’assalto, grandi colonne di veicoli blindati in movimento:

Ma hanno iniziato a subire perdite, viste dai droni ucraini:

Tuttavia, anche le perdite sono state notevolmente esagerate, con l’Ucraina che ora afferma che “un’intera brigata è stata spazzata via” con “125 carri armati distrutti”. In realtà, sembra che finora siano stati danneggiati un paio di BMP e di carri armati. I comandanti ucraini affermano che si tratta dell’offensiva più potente in quella direzione dall’inizio della SMO:

Le truppe ucraine sono state viste abbandonare le posizioni e correre per salvarsi:

Anche l’aviazione russa è stata molto attiva con i Mi-28 che hanno sparato missili guidati, che alcuni ritenevano essere i nuovi Iz a guida televisiva. 305E LMUR:

Ma è ancora troppo presto per dire quanto successo avrà, solo che possiamo vedere che è molto difficile avanzare per entrambe le parti, poiché il controllo e la supervisione del fuoco dei droni e degli ATGM è troppo potente per la moderna guerra di manovra.

Le colonne devono muoversi lentamente a causa della quantità massiccia di mine, eppure diventano bersagli facili per gli ATGM che si nascondono nelle radure delle foreste o nelle macchie di bosco, ecc.

Detto questo, credo che siano soprattutto le forze della DPR ad avanzare qui, dato che quest’area è controllata dal 1° Corpo d’Armata che è composto da unità della DPR. Il fianco meridionale della tenaglia ha battaglioni Sparta e Somali, tra le altre famose unità della DPR, così come la brigata di artiglieria Kalmius della DPR, che può essere vista qui mentre lavora su Avdeevka con i suoi 2S7M Malkas.

La cattura più significativa è stata quella del grande “cumulo di rifiuti” a sud di Krasnogorovka:

Ecco un articolo che spiega perché Avdeevka è così intrattabile.

Resta da vedere quanto sia seriamente pianificata questa offensiva. Se fosse davvero l’inizio di una spinta su larga scala, tutta autunnale-invernale, allora sarebbe un affare importante liberare Avdeevka, poiché l’intera area rappresenta una delle principali regioni da cui l’Ucraina bombarda il nord e il centro di Donetsk. Tuttavia, alcune fonti ucraine ritengono che si tratti semplicemente di attirare rinforzi dalla regione di Zaporozhye per dare respiro alle forze russe. Questo è dubbio, naturalmente, ma dobbiamo aspettare e vedere.

***
Alcuni articoli vari.

Un confronto tra le dure parole di Ursula von der Leyen nei confronti della Russia per quanto riguarda il conflitto ucraino:

Quindi sembra che “la comunità internazionale” – o il meraviglioso popolo dello “Stato di diritto” – ammetta apertamente che distruggere l’acqua, l’elettricità, ecc. sia un atto di terrorismo. Grazie per aver ammesso che il regime israeliano è un regime terroristico, Ursula. Le tue parole possono ora essere ammesse come prova nei futuri tribunali per i crimini di guerra. Dopo tutto, ecco il membro della Knesset Limor Son Har-Melech che dice apertamente: “Non ci sono innocenti a Gaza”.

Dato che è un membro ufficiale del governo israeliano, questo rappresenta una sanzione ufficiale.

Tra l’altro, anche Marco Rubio ha superato se stesso. Ascoltate qui sotto:

Il prossimo:

Un video che fa riflettere e che spiega come il sistema di difesa aerea israeliano Iron Dome possa essere in realtà una bufala completa e totale. A quanto pare non ci sono prove concrete che abbia mai intercettato qualcosa, e sembra essere nient’altro che un generatore di fuochi d’artificio che spara razzi autodistruttivi in aria per creare una simulazione di tensione – un’altra boiata multimiliardaria per il MIC:

Il narratore fa molte osservazioni valide. Le “intercettazioni” di Iron Dome non sembrano mai assomigliare a quelle reali che abbiamo visto, ad esempio in Ucraina. Come questa:

Si noti la caduta dei pezzi e l’esplosione catastrofica.

Iron Dome, invece, si autodistrugge in aria senza che sia visibile nemmeno un pezzo di detriti:

Certo, la maggior parte dei sistemi missilistici sono programmati per autodistruggersi se perdono la traccia. E poiché Iron Dome è stato progettato per essere un sistema a saturazione molto più elevata, è ovvio che ci saranno molti più missili che perderanno la traccia ed esploderanno. Si tratta di un sistema che privilegia la quantità rispetto alla qualità, almeno per come la vedo io.

Tuttavia, anche alla luce di questa comprensione, è ancora un po’ strano che il narratore lo menzioni, e potrebbe essere molto più di una vera e propria boiata di quanto immaginassi.

Detto questo, non sono convinto che i razzi di Hamas siano interamente una “bufala” e niente più che fumogeni. La verità è che i razzi Qassam sono molto più piccoli di quanto si pensi: vengono lanciati da quelli che in pratica sono dei tubi da mortaio:

In secondo luogo, le dimensioni delle loro testate sono relativamente piccole: da 5 kg a 10 kg. Per chi lo sapesse, è l’equivalente delle testate che trasportano alcuni droni FPV russi. Non si avvicina nemmeno ai sistemi missilistici più deboli della Russia, come i Grad da 122 mm, che hanno testate da 20-30 kg. Inoltre, gli esplosivi non sono uguali. Gli armamenti russi e americani utilizzano esplosivi militari altamente raffinati che, libbra per libbra, sono molto più potenti di qualsiasi cosa possa essere fatta a mano. Una testata esplosiva palestinese di 10 kg può essere equivalente a qualcosa come 3-5 kg di esplosivo militare russo o americano IMX-101, Composizione B, ecc.

Quindi non ci si può aspettare un grande botto da loro. I buoni esplosivi sono materiali piuttosto costosi. Ecco perché una delle teorie era che Hamas avrebbe usato i suoi razzi a basso costo solo per esaurire Iron Dome, dopodiché Hezbollah sarebbe entrato in azione con la roba vera: SRBM iraniani, Scud di Fatah, ecc.

Ma credo che ci sia un’alta probabilità che gran parte del video sia accurato, e che Iron Dome sia in effetti per lo più una simulazione. È probabilmente il motivo per cui Israele ha rifiutato il permesso agli Stati Uniti di inviare Iron Dome in Ucraina qualche tempo fa:

Da quanto sopra:

Per essere chiari, non stiamo chiedendo a Israele di trasferire i propri sistemi Iron Dome, che sono fondamentali per la loro sicurezza, ma semplicemente di permettere agli Stati Uniti di trasferire le nostre batterie per aiutare la popolazione dell’Ucraina”, hanno scritto.
Quindi, come si può vedere, non si chiedeva nemmeno a Israele di dare i propri, ma piuttosto di permettere agli Stati Uniti di trasferire le batterie che hanno, che credo fossero di stanza a Guam. Probabilmente Israele non voleva che l’Iron Dome fosse “esposto” in un contesto reale in cui gli venissero sparate munizioni vere e proprie, perché ciò avrebbe mandato in fumo anni di simulazioni di “strategia della tensione”.

Inoltre, questo conflitto ha già messo a nudo diverse bugie di questo tipo. Per esempio il Trophy APS (Active Protection System) sui carri armati Merkava, che si è dimostrato completamente inutile e non ha funzionato nemmeno una volta, non riuscendo a fermare gli RPG-7 russi con testate tandem come si vede qui.

Sfortunatamente per gli Stati Uniti, Trophy è il sistema ufficiale scelto per gli ultimi carri armati Abrams ed è l’unico sistema APS in uso (M1A2 SEPv2+ e la nuova piattaforma dimostrativa Abrams X).

Come ultimo aggiornamento, sembra che Scalise sia stato scelto come principale candidato alla presidenza della Camera, ma stasera non ha raggiunto il numero necessario di voti repubblicani. Dovranno votare di nuovo la prossima volta dopo le discussioni.

Sfortunatamente, Scalise è quello a favore dell’Ucraina, mentre Jordan era contrario a ulteriori aiuti all’Ucraina. Ciò significa che se Scalise riuscirà ad entrare, potrebbe avere la possibilità di consentire almeno la votazione di un qualche pacchetto di aiuti in futuro, anche se non è ancora detto che passi.

Se la frase di Kirby sulla “fine della corda” è indicativa, non sono sicuro che si possano ottenere altri aiuti per l’Ucraina ora che Israele ha un “bisogno” molto più grave. E con Zelensky che sta pianificando una visita in Israele per “mostrare solidarietà”, le cose sono destinate a diventare molto interessanti nelle prossime settimane.


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Israele Aggiornamento sullo stato di avanzamento, di Aleks

Israele
Aggiornamento sullo stato di avanzamento

Cara comunità,

posso ora confermare pienamente che ciò che sta accadendo è la piena e definitiva escalation della situazione intorno a Israele. È una cosa gravissima. Non solo per gli israeliani e i palestinesi, ma per l’intera regione. La questione non è se esploderà o meno. Esploderà su larga scala. La domanda è quanto sarà grande questa esplosione “su larga scala” e quali Paesi ne saranno coinvolti.

Le cose sono ancora troppo presto per essere analizzate, ma credo di poter fare alcune affermazioni solide dal momento che ho studiato la situazione per diversi anni. Anni fa ho studiato le operazioni delle Guardie rivoluzionarie iraniane in Siria. Durante la mia ricerca ho scavato, per caso, molto a fondo nelle operazioni, negli scopi e nell’organizzazione delle Forze Quds. Si tratta di una formazione d’élite all’interno delle Guardie rivoluzionarie iraniane. Il suo scopo e la sua organizzazione sono esattamente questi: la liberazione del popolo palestinese, quando sarà il momento. Per essere più precisi, la liberazione di Gerusalemme. Quds significa letteralmente “Gerusalemme”.

Voglio ribadire che sono del tutto neutrale nei miei servizi su questo conflitto. I miei unici interessi sono legati alla Serbia. Non abbiamo problemi né con i palestinesi né con gli israeliani.

Torniamo alle Forze Quds. Sono organizzate in diverse sezioni. Ci sono forze speciali pubblicamente conosciute. E ci sono anche agenti organizzati in modo occulto, diciamo sotto copertura, a decine di migliaia, in tutto il mondo arabo e in Israele. Il loro scopo è quello di organizzare e preparare una guerra totale dell’asse della resistenza contro Israele, in quello che è essenzialmente la maggior parte del mondo musulmano intorno a Israele. Possiamo pensare a loro come a migliaia di agenti attivi che preparano, organizzano e coordinano le milizie e i governi intorno a Israele per il colpo finale. E possiamo pensare a migliaia di cellule dormienti, che aspettano solo un segnale preparato che le spinga a eseguire una sequenza di azioni predefinite e pre-comunicate.

Azioni con un unico scopo. Porre fine a Israele. Non chiedetemi fino a che punto si spingerebbero, non ne ho idea, e meno ne so e meglio è…

Beh. Quando di recente sono iniziati gli eventi in Israele, mi sono svegliato e ho visto le notizie e le immagini. In particolare, le immagini notturne della caserma israeliana, dove tutti i soldati sono stati uccisi mentre dormivano. La disattivazione del controllo militare meridionale di Israele, l’Iron Dome, ecc. Per me è stato chiaro: le Forze Quds sono state appena attivate con lo scopo finale.

Ragazzi, questa è roba seria e pesante. Voglio dire… sono profondamente scioccato. Questo è sicuramente un evento storico, essenzialmente mentre la SMO della Russia procede verso la conclusione, e all’inizio della decolonizzazione dell’Africa. Le guerre di liberazione sono in pieno svolgimento.

Ok, cosa significa tutto questo? Innanzitutto, non ho prove a favore della teoria di Quds, ma poiché ho passato molto tempo a studiarla durante la campagna di Siria, posso essere sicuro del mio punto di vista. Il che non significa, ovviamente, che potrei sbagliarmi! Anche la data di inizio della guerra è interessante. La guerra dello Yom-Kippur è iniziata nella stessa data. È un messaggio.

Quello che è appena successo contro Israele significa solo una cosa. Israele mobiliterà tutto e distruggerà Gaza. Resta da vedere se sarà occupata o semplicemente rasa al suolo con altri mezzi, ma sarà distrutta. Chiunque abbia iniziato l’operazione in corso ha fatto un lavoro di pianificazione perfetto. E questo significa che per lui era chiaro che Gaza sarebbe stata distrutta. In effetti, faceva parte del piano. Un sacrificio.

La distruzione e/o l’occupazione di Gaza è inaccettabile per i vicini arabi. Amici miei… Possiamo aspettarci che la regione venga fatta saltare in aria molto presto.

Sì, certo. Ci sono molte teorie sul coinvolgimento di Israele. È possibile, non lo so. Ma questo non cambia la situazione. Ecco alcune teorie che potrebbero essere giuste, ma anche in questo caso non importa se lo siano o meno. Il processo è stato avviato e non può più essere fermato.

Il Mossad era a conoscenza dei piani e ha lasciato che accadesse, per consolidare il popolo e il governo israeliani. (Ho molte ragioni per credere che questo non sia vero).

Il Mossad stesso ha decifrato i codici iraniani per l’attivazione delle cellule dormienti Quds per avviare il processo prima del tempo e distruggere l’intera operazione Quds prima che potesse essere usata contro Israele in un momento peggiore. (Possibile, ma attualmente è anche un brutto momento…).

In realtà, presumo che l’Iran abbia ora tutta la sicurezza di poter sconfiggere Israele per via convenzionale, dal momento che gli Stati Uniti sono sostanzialmente disarmati. Qualsiasi mossa degli americani a sostegno di Israele sarà un disastro per gli americani. Gli Stati Uniti semplicemente non possono permettersi una guerra contro l’Iran in questo momento, poiché la maggior parte delle loro risorse logistiche sono impantanate in Ucraina e contro la Cina.

Ebbene, il conflitto si intensificherà. Il problema è solo di quale portata. Una guerra totale dei Paesi arabi e dell’Iran contro Israele o solo una scaramuccia tra Hamas e Hezbollah ai confini e a Gaza? Tutto è possibile tra questi due scenari. Non ho idea di quale si concretizzerà; spero solo in una pace duratura per l’intera regione. I popoli della regione, sia arabi/persiani che israeliani, meritano la pace dopo le eterne e perpetue guerre guidate dall’impero nella regione.

Potrei delineare i miei pensieri su una potenziale sequenza di eventi, ma non lo farò perché tutto ciò che posso immaginare ora è orribile e l’odio nella regione è grande. Potete aspettarvi immagini orribili da entrambe le parti. Ciò che accade in Ucraina non è paragonabile a ciò che potremmo vedere nel Vicino e Medio Oriente.

Noi di BMA siamo neutrali in questo conflitto e non ci schiereremo da nessuna parte, né riferiremo a favore di questa o quella fazione. Preghiamo per una pace duratura.

Il viaggio delle piante, di JEAN-BAPTISTE NOÉ

Nel corso dei secoli, ortaggi, frutta e fiori hanno visto la luce.
Articolo pubblicato sul numero 47, settembre 2023 – Occidente. Potere e dubbio.

Attraversare la pianura dell’Argolide è come camminare in un grande aranceto. Con le finestre aperte in primavera, i fiori riempiono l’aria con il loro profumo, mentre le arance si piegano sui rami degli alberi verdi. Sulla strada, sacchetti di succo d’arancia sono in vendita in piccole baracche allestite ai bordi della strada. Il profumo dei fiori d’arancio, il sapore dell’arancia spremuta: Pericle non è mai riuscito ad assaggiarlo. Gli agrumi non sono diversi dai pomodori, dai carciofi e dalle melanzane, i prodotti che oggi sono la base della cucina mediterranea, e non provengono dal Mediterraneo. Mangiare una ratatouille nel porto di Nauplia significa avere nel piatto un concentrato di globalizzazione e un’immagine dei viaggi delle persone e dei commerci.

Specie in viaggio
Tre regioni hanno fornito al mondo la stragrande maggioranza delle piante che oggi si consumano: l’Asia continentale e insulare, in particolare per gli agrumi, la canna da zucchero e il tè; l’Europa e il Medio Oriente, con la vite, il grano, le olive e i legumi; l’America, per le patate, il mais e i pomodori. Nel corso dei secoli, il commercio, gli incontri, le scoperte e gli esperimenti hanno permesso a queste piante di lasciare l’ambiente di origine, acclimatarsi in altre zone e fornire altre specie. In quanto creatori di biodiversità, gli esseri umani hanno selezionato, incrociato e migliorato le piante, consentendo loro di passare dallo stato selvatico a quello coltivato, ciò che gli storici chiamano la “rivoluzione neolitica” o l’invenzione dell’agricoltura. Un processo simile è avvenuto con gli animali, dando origine alle specie da cortile e da allevamento. È difficile immaginare l’inventiva e la creatività che sono state necessarie all’uomo per addomesticare una vite come la vite e trasformarla nelle vigorose viti che producono vino. Addomesticare la natura è sempre stata la chiave per raggiungere questo obiettivo: produrre di più e meglio, in altre parole, avere più cibo e quindi ridurre le carestie. Oltre a migliorare le piante, è stato necessario perfezionare le tecniche agricole, scavando solchi più profondi, padroneggiando il calcare e i diversi tipi di fertilizzanti, costruendo terrazze, selezionando i terreni migliori e migliorando la qualità per perfezionare il gusto.

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Vediamo piante che dall’Asia sono arrivate in America, come la canna da zucchero, oggi ampiamente coltivata nelle Indie Occidentali e in America Latina. Altre, come la patata e l’albero della gomma, sono state acclimatate in Vietnam. L’importazione di queste piante in Africa da parte dei portoghesi ha fornito alla popolazione una dieta più ricca e diversificata, che ha portato a un primo aumento della popolazione a partire dal XV secolo. Gli europei importarono cacao e arachidi, oggi colture essenziali per l’agricoltura africana. Questo commercio portò il riso asiatico in Camargue, i bufali in Italia per produrre il latte per la mozzarella e i limoni a Mentone. Furono gli inglesi a importare il tè in India e a Ceylon e i missionari cattolici a portare con sé la vite, indispensabile per celebrare la messa. È così che alcuni Paesi o regioni si ritrovano con piatti nazionali composti interamente da ingredienti stranieri, come l’aligot e il gratin dauphinois, inventati nel XIX secolo dopo l’affermazione della patata. Non c’è nulla di naturale in queste piante e in questi alimenti, ma piuttosto il costante sforzo dell’uomo per migliorare e inventare sempre nuove specie. La natura non è stata generosa ed è stato a forza di tentativi ed errori che l’uomo è riuscito a ricavare qualcosa da queste piante. Basta guardare il banco di un fruttivendolo per vedere la grande varietà di tipi di cavoli, tutti creati di recente per diversificare la dieta. La clementina corsa è stata sviluppata in Algeria da Padre Clément, e la cassoulet non sarebbe nulla senza i fagioli importati dall’America e le anatre nutrite con il mais, altra pianta americana. I paesaggi costruiti dall’uomo e il suo duro lavoro hanno permesso di addomesticare la natura e di sviluppare aree naturali che erano incolte e inadatte alla vita umana. Lungi dall’essere un aneddoto, la cucina e i suoi piatti sono la manifestazione attuale della storia dell’umanità.

Flashpoint israeliano – scaramuccia localizzata? O l’inizio di un grande cigno nero globale?_di SIMPLICIUS THE THINKER

L’irruzione in Israele ha colto molti di noi di sorpresa. Ma in un certo senso si è trattato di un’escalation di punti di infiammabilità a lungo attesi, destinata a dare il via all’epilogo del conflitto ucraino, togliendo calore a quest’ultimo.

Ci sono molti resoconti in circolazione di tutte le cose che sembrano “strane” nell’attacco di Hamas, quindi non ne racconterò ogni singolo punto in questa sede, dato che la maggior parte di voi li avrà probabilmente letti in più luoghi; cose come la violazione molto poco plausibile dei cancelli e delle difese ad alta tecnologia di Israele, i fallimenti senza precedenti del Mossad e dello Shin Bet, l’invocazione di “Pearl Harbor” da parte di Netanyahu, che è molto eloquente se si considera che anche Pearl Harbor fu un attacco a bandiera falsa con lo scopo di portare gli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale. Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale.

Ricordiamo che Hamas è stato parzialmente o interamente creato da Israele – fatto confessato da diversi alti funzionari israeliani – come contrappeso all’OLP, il gruppo politico dominante all’epoca. Non è quindi da escludere che un gruppo creato da Israele e dai servizi segreti occidentali possa essere ancora sotto il loro controllo o almeno infiltrato al punto da essere “indirizzato” nella creazione di alcuni falsi messaggi necessari che potrebbero favorire Israele nel suo complesso. Ciò è supportato dalle nuove prove che sarebbero emerse sul fatto che Hamas utilizzava armi fornite dall’Ucraina, il che indicherebbe una pipeline di armi dell’intelligence occidentale piuttosto standard, come quella dei Contras, ecc.

Il principio principale in base al quale opero è che quasi nessun evento globale avviene per puro caso, in particolare quando si colloca in una determinata sfera geopolitica collegata. E il Medio Oriente è certamente legato, in molti modi, alla Russia, alla guerra ucraina e al multipolarismo in generale.

Passiamo in rassegna alcune delle potenziali ragioni che potrebbero essere responsabili dell’accensione di un tale conflitto, proprio ora.

Come corollario al principio generale secondo cui nulla accade per caso nel mondo della politica delle grandi potenze, dobbiamo ricordare che tutto ciò che accade è generalmente legato o è un sottoprodotto – diretto o indiretto – della grande potenza o superpotenza leader; ben poco può accadere sotto la loro egida senza un qualche tipo di autorizzazione.

In questo caso ci riferiamo agli Stati Uniti, il principale egemone del mondo. Tuttavia, gli Stati Uniti non sono più l’unico grande protagonista del blocco, e quindi esamineremo le possibili ragioni che potrebbero spingere entrambe le parti a scatenare questo conflitto.

Quali sono i motivi che potrebbero spingere gli Stati Uniti a infiammare il Medio Oriente?

Sappiamo che di recente sono stati fatti grandi passi avanti verso il multipolarismo e la frattura dell’impero mondiale atlantista. Parallelamente, Israele si stava muovendo verso una seria normalizzazione con l’Arabia Saudita, che ora viene descritta dagli addetti ai lavori come “messa in pausa a tempo indeterminato” perché la KSA richiedeva a Israele varie concessioni sui palestinesi, che ora è una questione morta.

Per molti versi, tali riconciliazioni, riavvicinamenti, normalizzazioni, ecc. sono sviluppi pericolosi per l’egemone. La guerra e il conflitto sono gli strumenti più efficaci per controllare gli eventi e creare condizioni favorevoli al dominio, permettendo di creare divisioni, indebolire i Paesi intransigenti, estromettere i loro leader, ecc.

Innanzitutto dobbiamo ricordare che lo stesso Benjamin Netanyahu stava affrontando una crescente impopolarità in patria, con voci che da tempo suggerivano che persino il Mossad stesse contribuendo a organizzare proteste contro di lui (rivelate dalle fughe di notizie del Pentagono all’inizio di quest’anno).

Uno dei metodi più comunemente utilizzati da un leader “uomo forte” per affermare la propria forza, riconquistare il sostegno e consolidare il potere è quello di fomentare un qualche tipo di conflitto che possa essere utilizzato per creare restrizioni “di emergenza” agli oppositori, sopprimere la parola politica, ecc. Si tratta ovviamente di una tattica ampiamente utilizzata, da ultimo da Zelensky, e non ha bisogno di molte spiegazioni.

Si può facilmente immaginare come un Netanyahu in difficoltà cercherebbe di fomentare un conflitto per reindirizzare il patriottismo e cingersi di “gloria” distruggendo Hamas una volta per tutte, il che garantirebbe il suo potere e la sua eredità per sempre.

Estrapolando questa ipotesi, si sarebbe potuta verificare una convergenza di incentivi reciprocamente vantaggiosi. Conoscendo la situazione di Netanyahu, gli Stati Uniti e il Regno Unito potrebbero aver deciso di trovare un accordo reciproco che permetta di prendere più piccioni con una fava. Netanyahu ottiene il consolidamento del suo potere e la sua gloria, mentre gli Stati Uniti e il Regno Unito possono potenzialmente scatenare una guerra per indebolire l’Iran, ormai inarrestabilmente in ascesa.

Questo ci porta alla prossima grande motivazione. Una delle ragioni principali di questa improvvisa esplosione potrebbe essere quella di istigare una conflagrazione molto più grande per indebolire fatalmente l’Iran, che ultimamente sta acquisendo un potere geopolitico smodato. Non si tratta di una mera speculazione, ma di un’allusione aperta da parte dell’Occidente in diversi modi.

In primo luogo la nuova notizia bomba che “l’Iran ha contribuito a pianificare” l’attacco di Hamas:

E il lento aumento del coro di politici occidentali che minacciano direttamente l’Iran:

Se ricordate, nell’ultimo anno l’Occidente ha cercato di tarpare le ali all’Iran come mai prima d’ora. Questo perché l’Iran è diventato sempre più dominante in Medio Oriente, in particolare dopo tutti i riavvicinamenti avvenuti, e come risultato di quanto l’Iran sia stato strumentale in generale nelle varie guerre per l’energia, aiutando geopoliticamente la Russia in Ucraina, ecc. Le sue azioni sono aumentate enormemente e stava diventando una minaccia troppo grande.

Inoltre, il teatro siriano ha iniziato lentamente ad attivarsi, in parte a causa della guerra ucraina, come vettore degli Stati Uniti per indebolire e dividere gli sforzi russi. Ma anche perché l’Iran si è fatto strada anche lì, con gli attacchi israeliani meno efficaci e meno frequenti, mentre le truppe e le basi statunitensi sono state sottoposte a un crescente attacco da parte dei proxy iraniani.

Assad, nel frattempo, si è rafforzato, viaggiando in aereo in tutto il mondo e stringendo nuovi accordi. Ha incontrato il ministro saudita per la prima volta dal 2011, ha visitato la Cina per la prima volta dal 2004 e altre imprese simili.

Da questa lente olistica, possiamo dedurre che l’egemone statunitense potrebbe voler coinvolgere il Medio Oriente in un conflitto di grandi dimensioni per indebolire gli avversari che si stanno rafforzando sempre di più. Ufficialmente sostengono di essere dei pacificatori che sono “accecati” dagli sviluppi e cercano di limitare qualsiasi escalation:

 

Ma in realtà gli Stati Uniti hanno appena annunciato l’invio del gruppo di portaerei USS Gerald R. Ford nella regione del Mediterraneo orientale. Non si invia una tale potenza di fuoco se si intende fare la pace e ridurre le tensioni. Senza contare che gli aerei cargo C17 dell’esercito americano sono già atterrati in Israele, probabilmente trasportando nuove armi.È molto facile capire come potrebbero, ad esempio, collegare il coinvolgimento dell’Iran negli attacchi di Hamas alla percezione di una “crescente minaccia iraniana” in Siria, e includerla in una futura offensiva più ampia in cui squadroni congiunti israelo-americani possano bombardare e indebolire le forze, le infrastrutture, ecc. di Assad, per tenere a freno la Siria. Martyanov ne parla diffusamente nel suo nuovo video, comprese le prospettive militari di un simile tentativo di attacco all’Iran.

Ma naturalmente, come le minacce di Lindsey Graham di cui sopra, questo potrebbe essere portato molto più in là. Potrebbero organizzare un’intera guerra per paralizzare l’Iran, almeno le sue raffinerie di petrolio, il che paralizzerebbe l’economia iraniana e sventrerebbe la sua influenza. Pepe Escobar discute queste potenzialità nel suo nuovo post:

Ma c’è molto di più. L’indizio più evidente è la retorica israeliana di una “Pearl Harbor”. Tutti sanno cosa significa. Il progetto Ucraina è morto. Un’Asia occidentale pacifica significa ricostruzione per la Siria, riqualificazione per l’Iraq e il Libano, Iran e Arabia Saudita come parte dei BRICS 11, il partenariato strategico Russia-Cina rispettato e impegnato in tutta l’Asia occidentale. Uno dei temi chiave discussi a Valdai ai massimi livelli è stata la de-dollarizzazione. Tutto questo è un anatema per i soliti sospetti. Il Mossad e l’IDF colti di sorpresa è una fantasia infantile. Sapevano che stava arrivando. La domanda ora è se Hezbollah verrà in città.
I progetti che cita, il completo collasso del sistema dominato dall’Occidente, è un punto di snodo fondamentale. Riprendete confidenza con il mio articolo sull’Heartland e sul perché questo “passaggio intermedio” attraverso l’Iran è assolutamente fondamentale per l’egemone per conquistare il mondo.

Ora che l’Occidente è sull’orlo del baratro, potrebbe fare di tutto per cercare di neutralizzare l’Iran una volta per tutte, con un effetto domino sull’intera regione. La riduzione dell’Iran significherebbe la caduta della Siria, il che significherebbe l’espulsione della Russia e la chiusura delle sue basi, il che significherebbe l’annullamento di qualsiasi proiezione di potenza russa in quella regione, in particolare ora che le rotte settentrionali saranno completamente dominate dalla NATO, con l’adesione della Finlandia e potenzialmente della Svezia.

In ultima analisi, ciò servirebbe a uno scopo molto più ampio: ci sono sempre disegni nei disegni.

Il grande schema finale ruota attorno alla guerra in Ucraina, che a sua volta ruota attorno al futuro conflitto Cina-Taiwan.

Le ragioni per scatenare questo conflitto ora, nei confronti dell’Ucraina, potrebbero essere molteplici. Uno dei motivi principali che ci viene in mente è quello di creare una massiccia cortina fumogena per deviare la copertura del conflitto ucraino mentre l’amministrazione Biden attua silenziosamente il suo piano – di cui abbiamo discusso a lungo nell’ultimo rapporto – di mettere Zelensky sotto ghiaccio e congelare la guerra.

Diversi articoli recenti hanno evidenziato la scarsa copertura mediatica che l’Ucraina ha ricevuto negli ultimi tempi, con grafici che mostrano il lento declino, in particolare da quando è emersa la realtà del fallimento dell’offensiva. Ora è destinata a scomparire del tutto dal ciclo delle notizie, sostituita dal crescente conflitto israeliano e dalle infinite grida di indignazione per le atrocità commesse – le stesse compiute quotidianamente dall’AFU nel Donbass, che in qualche modo non riescono a raccogliere la stessa attenzione dei media.

Di recente qualcuno mi ha chiesto – non ricordo se nella sezione commenti o in una delle mail – come prevedo che in futuro riusciranno a nascondere il conflitto ucraino sotto il tappeto. Ho indicato diversi metodi potenziali, uno dei quali è che possono innescare qualche altro nuovo punto di infiammazione globale per distogliere l’attenzione. Ho anche fornito alcuni esempi, come spingere la situazione tra Azerbaigian e Armenia a diventare qualcosa di più grande, far crescere le ostilità tra Serbia e Kosovo, che stanno sobbollendo da un po’ di tempo a questa parte; ma questo è un aspetto che non avevo previsto, lo ammetto.

Per molti versi, è la più brillante di tutte. Perché niente compra l’indignazione dei media come gli attacchi a Israele, o almeno così sembra. I media non si preoccupano degli armeni assassinati, o di qualsiasi altro Paese, se è per questo. Quindi, se il vostro obiettivo principale è quello di creare la più grande cortina fumogena mediatica per distrarre completamente la copertura dell’Ucraina, allora questo è quello giusto.

Ma so cosa state pensando. Israele potrebbe fare un “rapido” lavoro di pulizia su Hamas e farla finita, riportando tutta l’attenzione sull’Ucraina.

Ecco perché, affinché questa teoria funzioni, dovrebbe probabilmente innescare un conflitto più ampio, magari coinvolgendo l’Iran. A quel punto gli Stati Uniti potrebbero anche avere una scusa per scaricare l’Ucraina, una scusa che potrebbe essere accettata dai membri più accaniti del Congresso a favore dell’Ucraina. Per esempio: “Abbiamo dovuto inviare tutti i nostri soldi per aiutare a salvare Israele”. Di certo nessuno al Congresso, di proprietà degli Stati Uniti e di Israele, si lamenterebbe del fatto che gli Stati Uniti hanno speso i loro soldi ucraini per Israele.

Questo potrebbe dare all’amministrazione Biden una scusa valida e difendibile per scaricare l’Ucraina. Tenete presente che non sto ancora sostenendo pienamente questa teoria come motivazione principale dell’attuale conflitto, ma la sto offrendo come potenziale. Io stesso non sono ancora del tutto convinto, perché sto ancora raccogliendo dati e aspettando che altri eventi ci forniscano indizi.

Ci sono altri indizi a sostegno di questa ipotesi?

Reperti A e B:

Siamo già testimoni del condizionamento dei media sulla realtà che gli Stati Uniti dovranno utilizzare le loro scorte di munizioni preziosamente prosciugate per Israele, dando priorità alla loro prima amata rispetto alla seconda appena battezzata. È facile immaginare le scuse che ne deriveranno in futuro: “Avevamo necessità più urgenti, quindi non potevamo più finanziare/fornire l’Ucraina!”.

L’assoluzione sarà data perché tutti nell’establishment statunitense comprendono l’inviolabile sacralità di Israele. Come si può incolpare qualcuno per aver dato la priorità a Israele rispetto all’Ucraina? Questo è semplicemente impensabile negli Stati Uniti.

Il prossimo:

Ricordate che nel mio ultimo articolo avevamo discusso della possibilità che gli Stati Uniti scaricassero l’Ucraina, lasciandola senza ulteriori finanziamenti, alla luce del recente riassetto della Camera?

Questo nuovo annuncio, secondo cui Biden sarebbe pronto a fare un tentativo per un regalo di 100 miliardi di dollari, senza precedenti, all’Ucraina, è molto interessante perché puzza di un’ultima ricompensa, o di un addio. Quasi come un tentativo di “lavarsi le mani” del conflitto con un’ultima tranche per pulirsi la coscienza. La maggior parte dei commentatori concorda sul fatto che si tratterebbe solo di un’acrobazia performativa e che non avrebbe alcuna possibilità di passare, ma forse è il modo in cui Biden si lava le mani per creare la percezione di aver “fatto tutto il possibile”, in modo che in seguito possa avere questo come parte della sua difesa quando l’Ucraina inevitabilmente cadrà e si troverà di fronte a critiche che metteranno fine alla sua carriera. Potrà dire: “Vedete, ho fatto del mio meglio per salvarli, ho promesso 100 miliardi di dollari ma quei viziati dei repubblicani mi hanno bloccato”.

Quindi, questo potrebbe essere l’inizio di qualcosa di grande destinato a cancellare l’Ucraina e forse anche a portare a un altro “evento” che cambierebbe il mondo e che permetterebbe all’establishment di cancellare/rubare le elezioni del 2024?

Ricordiamo che anche il grande falso allarme Covid è iniziato nel periodo di novembre dell’anno che precede le elezioni, cioè alla fine del 2019.

Infine, ci sono alcune voci agghiaccianti che sembrano suggerire che i neoconservatori potrebbero andare fino in fondo ed eseguire una nuova serie di falseflag in stile 11 settembre negli Stati Uniti per portare l’America completamente in guerra con l’Iran:

Questo non è implausibile; i neocons potrebbero aver fatto i loro calcoli e aver concluso che se non eliminano l’Iran ora, gli Stati Uniti sono condannati. Questo potrebbe essere l’inizio di una gigantesca conflagrazione che soddisferebbe alcune delle peggiori profezie per il 2024. Vale a dire che non ci saranno elezioni e che si verificherà un nuovo evento globale del Cigno Nero, simile al Covid dell’ultimo ciclo elettorale.

Ma ora passiamo all’altra possibilità principale.

E se, invece, l’intero evento fosse un’orchestrazione dell’Iran o del blocco guidato dalla Russia?

Ci sono certamente una pletora di ragioni per cui questo potrebbe essere il caso, non ultimo il fatto che l’Iran riconosce che gli Stati Uniti (e l’Occidente) sono ora criticamente più deboli perché hanno dismesso tutte le armi destinate all’Ucraina:

Abbiamo già visto in tempi recenti l’urgente preoccupazione dei membri del Congresso che gli Stati Uniti non abbiano abbastanza armi per Taiwan e che in futuro debbano scegliere tra l’Ucraina e il contrasto alla Cina. Ora, l’Iran potrebbe aver scelto di aprire un nuovo grande fronte in un momento critico in cui gli Stati Uniti sono divisi tra le varie esigenze geopolitiche.

Un altro aspetto che potrebbe far pensare a questo è l’apparente eccessiva sicurezza mostrata da Hamas. La maggior parte dei commentatori non riesce a capire perché Hamas sembri operare in modo così presuntuoso quando, sulla carta, l’IDF li sovrasta di gran lunga. Mi riferisco, ad esempio, al fatto che Hamas avrebbe rifiutato qualsiasi cessate il fuoco perché intende “andare fino in fondo”.

Mentre parliamo, gli ultimi rapporti affermano che più di 100.000 truppe israeliane si stanno dirigendo a Gaza:

Sembra inconcepibile che Hamas avvii un’operazione del genere senza un piano di emergenza, soprattutto se l’Iran ha contribuito a pianificarla. Sappiamo che Hezbollah ha già dichiarato che interverrebbe se l’IDF entrasse a Gaza.

È interessante notare che anche Erdogan ha lanciato un avvertimento diretto agli Stati Uniti:

Ricordiamo che solo pochi giorni fa gli Stati Uniti hanno abbattuto un drone turco molto costoso e di alta gamma sulla Siria, quando questo drone si sarebbe avvicinato a bombardare le forze statunitensi. Questi sviluppi sembrano parlare di un grande conflitto in corso.

Molti ritengono che Israele stia per cadere in una “trappola” tesa dall’Iran: entrerà a Gaza e Hezbollah aprirà un secondo fronte. Hamas avrebbe già esaurito gran parte dell’Iron Dome israeliano con i propri “razzi bottiglia” a basso costo, spianando così la strada agli Hezbollah per demolire Israele con una reale potenza di fuoco fornita dall’Iran sotto forma di SRBM pesanti, droni, ecc.

Il piano potrebbe poi essere segretamente favorito dall’intero blocco russo, nella consapevolezza che un conflitto di tale portata potrebbe avvantaggiare notevolmente la Russia e persino la Cina in vari modi.

Il primo e più ovvio è che distoglierebbe l’attenzione degli Stati Uniti dall’Ucraina, costringendoli a concentrarsi sulla lotta all’Iran e alle sue potenze regionali, il che permetterebbe alla Russia di finire rapidamente un’Ucraina abbandonata.

In secondo luogo, e in aggiunta al primo punto, qualsiasi conflitto di questo tipo farebbe schizzare alle stelle i prezzi del petrolio, che secondo le stime potrebbero già arrivare a 150 dollari al barile in futuro. Questo porterebbe i già esorbitanti profitti della Russia sui combustibili fossili a schizzare alle stelle, non solo stabilizzando la sua economia ma anche contribuendo a finanziare la guerra in Ucraina.

La Cina, ovviamente, potrebbe trarre un vantaggio simile dal fatto che l’attenzione degli Stati Uniti venga deviata altrove, dando alla Cina il respiro necessario per continuare a costruire e consolidare la propria forza regionale, impoverendo al contempo gli Stati Uniti e impedendo loro di finanziare/fornire Taiwan in misura sostanziale.

Questo post racchiude la teoria:

L’attuale conflitto in Palestina è geopolitico e riflette il consolidamento di uno dei principali poli mondiali. Segna la seconda fase della formazione del mondo multipolare, dopo lo SMO della Russia nel febbraio 2022. Molti tendono a concentrarsi esclusivamente su Hamas e sull’evolversi della situazione, come se questo riflettesse lo stesso piano temporale della strategia impiegata. Non fraintendetemi. Si tratta di un’operazione di armi combinate senza precedenti e nulla nel XXI secolo si avvicina a questa nella storia del conflitto. Se ha colto di sorpresa il Mossad (una delle agenzie di intelligence più potenti del mondo), cosa vi fa pensare che qualcuno di questi idioti truffatori di destra sappia cosa sta per accadere? Non si è trattato di un attacco casuale da parte di Hamas: tutto questo è stato pianificato, in piena coordinazione con l’Asse della Resistenza – e non siamo nemmeno vicini a vederne la portata e l’ampiezza. Ogni possibile risultato è stato preso in considerazione. Ricordate che ogni volta che sentite i sionisti parlare dei “grandi piani” che l’entità ha in serbo per radere al suolo Gaza. Lo hanno fatto molte volte, non ha mai funzionato. Hamas ne è uscito più forte che mai. E anche loro si aspettano qualsiasi cosa l’entità sionista abbia in serbo. Perché non si tratta solo di Hamas. Si tratta dell’intero Asse della Resistenza, con al centro l’Iran. L’Iran è una delle civiltà più antiche, grandi e sofisticate del mondo. Prima dell’era moderna, le uniche due potenze della regione erano gli Ottomani e i Safavidi persiani, che se la contendevano. Dietro questa operazione ci sono l’astuzia, il genio strategico e il materialismo escatologico dell’IRGC. E con quest’ultimo intendo dire che hanno combinato quella che è una profonda visione spirituale universale-regionale con il pragmatismo, il realismo e la concretezza della tecnologia moderna e delle tecniche di guerra irregolare iper-clausewitziana. La scala in cui si sta svolgendo non è immediatamente percepibile né nello spazio né nel tempo. Queste sono le scosse avvertite dalla resurrezione di alcuni degli imperi più antichi, splendidi e sublimi del mondo. Questa è l’operazione militare speciale delle civiltà del Medio Oriente. Allo stesso modo, non si tratta solo di Israele. È l’ultimo avamposto del Nuovo Ordine Mondiale nella regione. Israele era l’Ucraina del Medio Oriente, una vana fortezza artificiale della modernità occidentale creata per sopprimere le reali (e da tempo sopite) potenze autoctone della regione. La Russia ha risvegliato antiche potenze in tutto il mondo. Questa è la fine dell’ordine occidentale basato sulle regole”.
Quanto sopra può sembrare un po’ sdolcinato ed eccessivamente ottimista: non lo sto necessariamente approvando, almeno non ancora. Ma potrebbe benissimo essere vero.

Una delle altre ragioni è che ultimamente ci sono state troppe rivolte “casuali” contro l’ordine occidentale. Ricordiamo quante volte abbiamo discusso qui del potenziale ruolo asimmetrico della Russia nelle varie liberazioni africane che stanno attraversando il continente. Pensate che sia stato un caso che abbia portato a cose del genere?

Mi è stato chiesto molte volte, nel corso di mailbag, commenti, ecc., che cosa la Russia avesse intenzione di fare per compensare la costante guerra ibrida degli Stati Uniti nei confronti del conflitto ucraino. Ci sono certamente molti “eventi misteriosi” che stanno accadendo in tutto il mondo e che potrebbero dare una risposta.

Ecco perché non mi stupirei se l’attuale scontro fosse collegato alla guerra ibrida globale tra Est e Ovest, o tra Sud globale e atlantisti.

Ricordiamo che le grandi civiltà antiche pensano e pianificano con strategie a lungo termine. Potrebbe trattarsi di un attacco coordinato e accuratamente pianificato su tre fronti, la cui prima tappa sarebbe la Russia che elimina l’Ucraina, poi l’Iran che elimina Israele, per finire con il colpo di grazia della Cina che elimina Taiwan?

È certamente un’idea molto ambiziosa. Ma corrisponde a ciò che altre persone hanno previsto da tempo, come Zhirinovsky qui, diversi anni fa:

Un’altra potenziale ragione per cui il cartello bancario che gestisce l’Occidente ha bisogno di una grande guerra per ripulire il sistema:

Anche rispetto agli standard dell’ultimo decennio, che è stato semplicemente senza precedenti per quanto riguarda la quantità di denaro stampato dalla Federal Reserve, la settimana scorsa ha visto un’altra tiratura da capogiro.

In particolare, con tutta la de-dollarizzazione in corso, ciò può solo significare che il sistema finanziario occidentale non è mai stato in uno stato più precario. Il cartello ha bisogno di un grande conflitto globale per poter ripulire il sistema, ripulire i propri libri contabili e ricominciare la truffa dell’usura-farsa da zero.

Ma dovremo vedere come si svilupperà questo conflitto nelle prossime settimane o due per poter giudicare veramente se si tratta di un qualche piano generale iraniano in 5D, o solo di uno stratagemma a buon mercato per Netanyahu per consolidare il potere e mettere nero su bianco la sua eredità di leader storico israeliano che ha schiacciato Hamas una volta per tutte, cancellando tutte le sue malefatte e la sua corruzione in un colpo solo.


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Il crollo della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti mette a rischio il futuro dell’Ucraina, di SIMPLICIUS THE THINKER

Le cose che si stanno mettendo in moto in questo momento potrebbero segnare la brusca fine del conflitto ucraino. Naturalmente, non ci baseremo troppo su questo potenziale ottimistico, perché sappiamo tutti quanto arduamente lo Stato profondo guerrafondaio lavorerà per portare avanti i propri obiettivi. Ma è comunque importante delineare i dettagli di quanto la situazione sia potenzialmente vicina al baratro.

Il presidente della Camera Mccarthy è stato cacciato. I due candidati al suo posto sono ora il leader della maggioranza della Camera Steve Scalise (repubblicano, Louisiana) e Jim Jordan (repubblicano, Ohio). Lo stesso Trump ha ora appoggiato Jordan, il che significa che è probabile che sia un candidato sicuro.

Qual è la posizione di Jordan sull’Ucraina? Per alcuni potrebbe sembrare una risposta ovvia, ma in realtà Steve Scalise è un grande sostenitore della continuazione dei finanziamenti all’Ucraina.

L’articolo di Newsweek di oggi approfondisce proprio questo aspetto, che è la domanda più pressante nella mente di tutti. L’articolo riporta che Jordan è fortemente contrario ai finanziamenti all’Ucraina.

Jordan, membro fondatore dell’hardline conservative Freedom Caucus, ha votato contro quasi tutte le proposte di legge che offrono assistenza all’Ucraina dall’inizio dell’invasione russa nel febbraio 2022.
All’inizio della settimana Jordan ha dichiarato quanto segue:

Parlando con i giornalisti a Washington D.C. all’inizio di questa settimana, Jordan ha dichiarato che, se sarà eletto Presidente della Camera, non intende procedere con un ulteriore pacchetto di aiuti per l’Ucraina, commentando: “La questione più urgente nella mente degli americani non è l’Ucraina. È la situazione dei confini e la criminalità nelle strade”.
E:

“Perché dovremmo inviare dollari delle tasse americane all’Ucraina quando non sappiamo nemmeno quale sia l’obiettivo?”.
E ancora:

“Nessuno sa dirmi qual è l’obiettivo. È una sorta di pace negoziata? È cacciarli dall’Ucraina orientale? È cacciarli dalla Crimea?… Quindi, finché non mi dite qual è l’obiettivo, non credo che dovremmo continuare a inviare denaro lì, soprattutto quando abbiamo i problemi che abbiamo al confine, quindi questo è fondamentale”. E poi, secondo, come sono stati spesi i soldi già inviati? Che tipo di sprechi ci sono? Sono due domande fondamentali a cui credo che i contribuenti americani vogliano sapere la risposta prima di inviare lì altri soldi guadagnati con fatica”.
Tuttavia, è difficile dire se Jordan vincerà, poiché alcuni quotisti vedono Scalise ancora in vantaggio per il ruolo, con Jordan al secondo posto.

Il problema principale è che quest’anno restano solo pochi giorni di calendario per la Camera dei Rappresentanti e gli esperti ritengono che non ci sia abbastanza tempo per creare ulteriori pacchetti di aiuti per l’Ucraina, il che significherebbe che non ci potranno essere aiuti fino all’anno prossimo. Questo sarà comunque un punto irrilevante se il presidente della Camera sarà contrario all’Ucraina, soprattutto a causa della regola di Hastert, che consente al presidente della Camera repubblicano di non portare al voto alcun progetto di legge a meno che la maggioranza del suo partito non sia d’accordo. La regola funziona come segue, secondo Wiki:

Alla Camera sono necessari 218 voti per approvare un disegno di legge; se 200 democratici sono la minoranza e 235 repubblicani la maggioranza, la regola di Hastert non permetterebbe a 200 democratici e 100 repubblicani insieme di approvare un disegno di legge, perché 100 voti repubblicani sono meno della maggioranza del partito di maggioranza, quindi il Presidente della Camera non permetterebbe di votare.
In breve, dal momento che i repubblicani sono l’attuale maggioranza alla Camera, la maggioranza dei repubblicani dovrebbe essere d’accordo su una proposta di legge per il finanziamento dell’Ucraina, affinché questa possa anche solo essere proposta per il voto alla Camera. E, a seconda del sondaggio utilizzato, la maggioranza dei repubblicani sembra non sostenere più l’Ucraina.

Ieri Biden ha lasciato intendere di avere un altro asso nella manica per ottenere potenzialmente i finanziamenti, ma questa sembra una balla o una tattica per salvare la faccia. In realtà il suo bagaglio di trucchi si sta esaurendo. Per esempio, il Lend Lease è scaduto il mese scorso e l’autorità presidenziale di prelievo avrebbe ancora qualche miliardo, ma neanche lontanamente quanto la legge di finanziamento completo che intende dare all’Ucraina. La scorsa settimana il Senato ha raggiunto un accordo di “risoluzione continua” per altri 6 miliardi di dollari per l’Ucraina, ma si trattava di aiuti umanitari e governativi, non di assistenza militare, cioè di denaro per far funzionare la società ucraina, pagare i dipendenti pubblici, ecc.

Anche oggi il MoA ha svolto un lavoro approfondito sulle complessità dell’enigma dei finanziamenti. Quindi, se volete maggiori dettagli, consultate l’articolo di B. Inoltre, questo articolo di Sputnik fornisce una panoramica molto approfondita di tutti i tipi di piccole scappatoie di finanziamento che possono essere possibili.

Se non ci sono i fondi, a meno che il Presidente non intraprenda un’azione davvero drastica e non voglia dichiarare la legge marziale qui negli Stati Uniti, non se ne farà nulla”, ha detto Maloof. “Se il Congresso non approva ulteriori finanziamenti, non si farà. Ora, come ho detto, potrebbe essercene un po’, forse per scopi umanitari, ma penso che dall’altra parte ci siano molte meno azioni militari e più cinetiche”.
Ma passiamo alla prossima questione.

L’Ucraina e i suoi alleati continuano a cercare qualsiasi forma di speranza a cui aggrapparsi. In occasione di una nuova conferenza al vertice di Granada dell’UE, Zelensky aveva un’aria assolutamente affaticata e smarrita, mentalmente distrutta: gli si leggeva in faccia la situazione:

La stampa occidentale sta già riferendo che si è trattato di un altro enorme fallimento:

Sembra che tutto stia crollando per il “fronte della solidarietà” ucraino. Il sito ucraino Strana.ua riporta:

“Se gli Stati Uniti non votano per ulteriori fondi per l’Ucraina, le Forze Armate ucraine finiranno le armi in un mese e mezzo… “http://Strana.ua
Putin lo ha confermato nel suo discorso di ieri a Valdai, dove ha detto chiaramente che senza ulteriori rifornimenti l’Ucraina avrebbe avuto solo una settimana di vita.

Alti funzionari della Casa Bianca hanno ammesso in privato che mancano poche settimane prima che l’interruzione dei finanziamenti statunitensi all’#Ucraina️ si traduca in seri problemi sul campo di battaglia per le forze di Kiev, ha riferito mercoledì la CNN, citando fonti dell’amministrazione del presidente Biden.
Anche Arestovich ora dice che è praticamente finita: l’Occidente ora spingerà per un cessate il fuoco e se Zelensky si rifiuterà di firmare, sarà sostituito da qualcuno più disponibile:

Se ricordate, questo è esattamente lo scenario che avevo previsto qualche tempo fa, quando scrissi che era proprio questo il motivo per cui improvvisamente in Ucraina si sta scavando nella “corruzione” e perché Lindsey Graham ha chiesto con molta veemenza a Zelensky di attenersi ai principi democratici e di tenere le elezioni l’anno prossimo. A questi suoi gestori occidentali in realtà non importa nulla della “democrazia”, quello che stanno facendo è creare una via d’uscita, coprendo le loro scommesse. È una spada di Damocle appesa sulla testa di Zelensky come promemoria: fai quello che ti diciamo, o ti sostituiremo molto facilmente nelle “elezioni” – che hanno il potere di “truccare” in qualsiasi modo ritengano opportuno.

In effetti, finora l’intero scenario si sta svolgendo esattamente come avevo scritto fin dai primi articoli all’inizio di quest’anno. Avevo affermato che entro la fine di quest’anno, se l’Ucraina non avesse fatto progressi significativi, l’Occidente non avrebbe avuto altra scelta che scaricarla, perché non si può permettere che una “ferita incancrenita” molto sgradevole e politicamente impopolare come quella ucraina rovini il ciclo elettorale dei Democratici del 2024, dove sarà in primo piano come punto di attacco chiave per qualsiasi opposizione. Ho ipotizzato che non avrebbero avuto altra scelta se non quella di impacchettare il tutto e cercare di farlo passare sotto la luce migliore e “vittoriosa” possibile, o almeno di nasconderlo sotto il tappeto e mettere l’intera faccenda in buca.

Ora stiamo raggiungendo il fatidico periodo di fine anno e comincia a sembrare sempre più possibile che si verifichi un simile scenario.

Tenete presente che è certamente ancora possibile che questo percorso si inverta. Scalise potrebbe diventare il presidente della Camera e guidare un’importante legge di rilancio dell’undicesima ora per dare una linea di salvataggio d’emergenza di 40-60 miliardi di dollari all’Ucraina, l’Europa potrebbe radunarsi e trovare un po’ di solidarietà in seguito, ecc. Naturalmente, questo non cambierà il corso della guerra, ma continuerà a ritardare l’esito inevitabile.

Non si è parlato abbastanza della disinvolta dichiarazione di Shoigu all’ultima riunione dell’alto comando, secondo cui il piano delle forze armate russe è di terminare la SMO entro il 2025:

Un paio di cose al riguardo. In primo luogo, ho visto scrivere recentemente in articoli occidentali che Putin ha progressivamente “ridimensionato” gli obiettivi della SMO, dalla de-nazificazione alla mera protezione dei civili nelle aree localizzate. Putin stesso ha smentito tali affermazioni alla conferenza di Valdai di ieri, quando ha ribadito che la Russia sta ancora rispettando tale obiettivo. Mettendo insieme le due cose, possiamo dire che se il Ministero della Difesa prevede il completamento di tutti gli obiettivi entro il 2025, e la de-nazificazione è l’obiettivo principale, diventa ovvio che entro il 2025 è prevista l’intera capitolazione della leadership ucraina, non solo alcuni obiettivi “locali”, come il raggiungimento della sicurezza per il confine di Donetsk, o qualcosa del genere.

La cosa di cui dobbiamo renderci conto è che storicamente le traiettorie non si invertono quasi mai, perché rappresentano lo slancio dei sentimenti di centinaia di milioni di persone, la gravità di interi Paesi e dei loro sistemi politici. Non c’è quasi nessun precedente in cui la tendenza sia stata nettamente orientata verso un particolare percorso come quello attuale, ma poi sia stata “magicamente” invertita. Possiamo quindi concludere che, molto probabilmente, tutte le attuali tendenze al lento declino e alla perdita di sostegno dell’Ucraina continueranno. È difficile anche solo immaginare che l’anno prossimo l’Europa, ad esempio, trovi improvvisamente i mezzi per “tirarsi su con le proprie gambe” e dire “Ok, basta così. Ci opporremo a Putin una volta per tutte”.

Il motivo è che i loro Paesi europei si stanno sgretolando a causa degli effetti devastanti che questo conflitto ha avuto sulle economie globali. I loro stessi cittadini sono in rivolta; quante coalizioni e governi, ad esempio, sono crollati solo quest’anno? Quanti leader di primo piano sono stati estromessi dalle nazioni europee? Soprattutto dopo un altro inverno lungo e rigido, le cose non potranno che peggiorare. Ciò significa che entro la prossima primavera è molto difficile immaginare una situazione in cui una ritrovata solidarietà si formi intorno alla promessa di decine e centinaia di miliardi in più per l’Ucraina.

Come vedo le cose? Se il denaro si prosciuga completamente, l’Ucraina può “prendere in prestito” abbastanza per finanziare almeno in parte il suo governo e i servizi civili, con un regime scheletrico. Per quanto riguarda le forze armate, ci sono già pochissime spedizioni in arrivo. L’Occidente non ha nemmeno molti sistemi chiave da dare. I due più significativi sono i carri armati e l’artiglieria. Per quanto riguarda i carri armati, quasi tutto ciò che poteva essere comodamente dato è già stato dato. L’artiglieria è un settore in cui l’Occidente non ha mai concentrato molte forze, quindi nessuno dei Paesi occidentali ha avuto un particolare surplus di sistemi di artiglieria. Gli Stati Uniti non producono più nemmeno gli M777, che erano il sistema più affidabile per l’Ucraina.

Un episodio molto esplicativo è avvenuto alcuni giorni fa, quando è stato rivelato che i primissimi carri armati Leopard sono appena tornati dalla riparazione in Polonia dopo quasi quattro mesi.

BREAKING: Il primo Leopard torna in Ucraina dopo essere stato riparato in Polonia, dopo quasi 4 mesi! Oggi i media polacchi riportano la notizia del completamento delle riparazioni e del ritorno in Ucraina del primo carro armato Leopard 2A4 riparato, danneggiato durante la controffensiva estiva.È il 2 ottobre. I primi Leopard, vi ricordo, sono stati danneggiati all’inizio di giugno. Cioè, sono passati quasi QUATTRO MESI dal danno. E tutto questo perché in Ucraina non c’è, e non può esserci, una base per la loro riparazione.E da qui, tutti i Leopard danneggiati, così come i Challenger e poi gli Abrams, saranno poi trasportati in Polonia o ancora più lontano e riparati. E tutto questo richiederà MESI. Ma dovete capire che la maggior parte dei carri armati non viene distrutta immediatamente, ma viene danneggiata molte volte prima. E ogni volta le attrezzature militari della NATO devono essere portate in Europa per essere riparate. E secondo i canali ucraini, hanno più di un terzo delle loro forniture di tali “carenze”. E tutti sono attualmente in riparazione… in Polonia o negli Stati baltici. Ma il T-72 o il T-64, ad esempio, possono tornare alle stesse Forze Armate dopo circa la stessa riparazione in poche settimane. Cioè, i carri armati sembrano esserci e sono tanti e non sono stati distrutti, ma quando le Forze Armate ucraine ne hanno bisogno, in realtà non ci sono. Logistica…
Per evidenziare questo punto, date un’occhiata alla Wikipedia ufficiale per gli obici tedeschi PhZ 2000 forniti all’Ucraina. Si noti l’enorme quantità di problemi logistici, dai sistemi danneggiati alle condutture di riparazione completamente inadeguate, che probabilmente richiedono un tempo pari o superiore a quello dei Leopard di cui sopra:

Questi problemi venivano affrontati all’apice del sostegno finanziario e degli armamenti, ora immaginate quanto sarà catastrofica la situazione in un momento di scarsità, quando non ci sarà nient’altro.

Alla luce di queste battute d’arresto, alcuni si aspettano che la Russia lanci una vasta ed eroica offensiva per finire l’Ucraina indebolita e proclamare la vittoria finale globale sulla NATO. Non è esattamente quello che accadrà.

C’è un motivo per cui Shoigu ha indicato il 2025 come ultimatum per la guerra. Ricordiamo che per molto tempo la Russia ha avuto il più potente supercomputer militare del mondo, che si trova nel seminterrato del Ministero della Difesa a Mosca.

Ciò significa che il Ministero della Difesa russo ha probabilmente già giocato fino in fondo sul conflitto ucraino. Il modo in cui la situazione si sta attualmente sviluppando rende abbastanza semplice per un supercomputer stimare la traiettoria naturale e gli orari del conflitto.

Credo che il MOD abbia calcolato esattamente le cose che abbiamo discusso qui. Il deterioramento del sostegno lascerà l’esercito ucraino completamente indifeso entro il prossimo anno. Potrà continuare a subire danni semplicemente come quoziente del sadismo della sua leadership per altri mesi fino a un anno dopo, e poi nel 2025 vedrà la sua fine naturale.

Più in dettaglio, significa che la Russia userà questo inverno per scatenare la devastazione delle infrastrutture e delle retrovie ucraine. Ricordiamo che l’anno scorso la Russia ha rafforzato in modo massiccio le sue capacità di ISR spaziale con una dozzina di lanci di satelliti militari significativi, tra cui satelliti radar optoelettrici e SAR, oltre a satelliti per le comunicazioni e per il rilevamento SIGINT. Nel maggio del 2024 la Russia lancerà i suoi primi satelliti optoelettrici commerciali, simili a MAXAR. Senza contare che Roscosmos sta lanciando il progetto Gryphon, che consiste in una costellazione di 136 satelliti che “monitoreranno l’intera superficie terrestre”.

Soprattutto con la defogliazione di quest’inverno, le forze ucraine saranno sempre più un bersaglio facile per le nuove capacità ISR della Russia. Queste includono il già annunciato nuovo A-50U AWACS e il GMLRS russo, ora prodotto in serie, per il sistema Smerch/Tornado-S, che ha recentemente decimato le retrovie ucraine, le aree di sosta, ecc.

Quest’inverno si scatenerà un inferno brutale per le unità ucraine che si trovano in trincea. Nel frattempo, le forze di terra russe cresceranno rapidamente di dimensioni. Ricordiamo la mobilitazione stealth in corso da parte di Shoigu. Putin ha appena aggiornato i numeri, che ora si attestano a circa 350.000 arruolamenti totali per l’intero anno, con il mese precedente che ha registrato 50.000 adesioni (ricordiamo che i mesi precedenti avevano 15-30.000 adesioni al mese, in costante crescita).

Ricordiamo inoltre che l’obiettivo dichiarato era di avere ~420.000 nuovi arruolamenti entro la fine dell’anno, che sembra essere sulla buona strada per essere raggiunto. Ora estrapoliamo questo dato al prossimo anno. Con l’aumento della produzione russa, le capacità ISR, il completo collasso dei finanziamenti ucraini da parte dell’Occidente, tutto ciò significa che l’Ucraina sarà assalita da attacchi a lungo raggio per tutto l’inverno fino alla primavera, e a quel punto la Russia potrebbe avere altre 600-700k truppe (le ~420k alla fine di quest’anno più 40-50k al mese di arruolamenti per gennaio 2024, febbraio, marzo, aprile, ecc.)

Ciò significa che entro la primavera del 2024 la Russia potrebbe già avere un esercito di 1 milione di effettivi professionisti e a contratto (senza contare le centinaia di migliaia di coscritti che ha in più). Con questo intendo gli attuali 350-450k più gli oltre 600k che saranno aggiunti entro la primavera del 2024.

Questo significa che la Russia lancerà una massiccia offensiva in stile Operazione Urano la prossima estate? No.

Questa è la parte più importante da capire su come funzionano le operazioni militari, o il combattimento bellico in generale. La regola numero uno in guerra è che si vuole sempre combattere con il massimo svantaggio possibile rispetto al nemico. Se avete il doppio degli uomini che ha lui, è fantastico. Ma sapete cosa è ancora meglio del doppio degli uomini? Il triplo degli uomini. E cosa è meglio del triplo? Quattro volte, e così via.

Il punto è che si vuole avere un vantaggio il più grande possibile. Certo, potete lanciare un’offensiva con il doppio degli uomini e vincere lo stesso, ma questo comporterà una certa quantità di perdite per voi stessi. Se si ha poco tempo a disposizione, questo può essere un buon compromesso e si può prendere una decisione. Ma se il tempo è dalla vostra parte, perché lanciarsi con il doppio degli uomini, quando potete lanciarvi con il triplo e rendervi ancora più decisivi?

Il punto è che la Russia continuerà ad accumulare questo gigantesco esercito di terra mentre le sue industrie lavoreranno per rifornirlo di armature e armamenti. Per fare questo ci può volere tutto il 2024 in quantità sufficienti. Mentre la Russia sforna carri armati, artiglieria, armi, ecc. per questo esercito in crescita massiccia per tutto il 2024, i suoi complessi Recon-Fire e Recon-Strike lavoreranno per ridurre l’esercito ucraino, le infrastrutture, ecc. al minimo, riducendoli in polvere. Potranno farlo tranquillamente per tutto il 2024 senza doversi preoccupare di nulla, soprattutto se i finanziamenti dovessero davvero esaurirsi.

Questo blogger militare russo è d’accordo:

In sostanza, egli sostiene la necessità di mantenere l’attuale status quo, semplicemente riducendoli e ottenendo un vantaggio crescente in ogni modo possibile.

Anch’io sono favorevole a questa strategia. Un’altra ragione è che i principali tipi di armamento più efficaci per la difesa non sono in numero ridotto nell’AFU. Cioè cose come gli ATGM, i droni, le mine, ecc. non hanno alcun problema, perché sono abbastanza abbondanti nel mondo in generale. Ciò significa che un’offensiva russa può comunque subire grandi perdite non necessarie. Non c’è alcuno scopo per farlo quando è possibile ridurre metodicamente il nemico in poltiglia e poi intervenire per finire i resti in modo molto comodo e controllato.

Ritardare la guerra può potenzialmente far guadagnare tempo all’Occidente per pensare a qualche provocazione da cigno nero per disarcionare completamente la Russia in qualche modo imprevisto, come una falsa bandiera nucleare, eccetera? Certo. Ma il compromesso è comunque migliore dell’alternativa. Nessuna strategia è assolutamente perfetta: si tratta di bilanciare i pro e i contro di ciascuna. Ci sono certamente molti rischi nel prolungare il conflitto, ma le ricompense li superano, proprio come i rischi della strategia alternativa superano quelli della strategia metodica.

Vorrei anche ricordare che non credo sia possibile lanciare una massiccia offensiva “a sorpresa” al giorno d’oggi, con i tipi di ISR potenziati dall’intelligenza artificiale presenti. Ciò significa che se la Russia avesse in programma una monumentale offensiva a breve, lo sapreste, proprio come l’Occidente sapeva che la Russia era pronta a lanciare un’invasione massiccia nel febbraio 2022, perché gli accumuli di blindati senza precedenti al confine con l’Ucraina erano facilmente visibili.

Al momento, nessuna fonte da parte ucraina vede un simile accumulo, a parte uno moderato in direzione di Kupyansk. Per questo credo che la Russia continuerà a intensificare gli sforzi offensivi a Kupyansk, che potrebbero sfociare in qualcosa di più grande durante l’inverno, ma probabilmente non vedremo altro. Potrebbero esserci offensive localizzate come ad Avdeevka (forse con Wagner, come abbiamo discusso), Ugledar, ecc. ma nessuna grande guerra lampo.

Quindi, per riassumere:

Finora si stanno avverando le mie previsioni sul calo del sostegno dell’Occidente verso la fine di quest’anno. Probabilmente troveranno ancora un po’ di soldi, ma arriveranno a scaglioni decrescenti e potrebbero esaurirsi completamente entro il primo trimestre del 2024.

In tal caso, l’Ucraina si troverà di fronte a una scelta importante: opporsi ai diktat dell’Occidente e continuare a lottare con sfida, con o senza munizioni, oppure arrendersi e spingere per un cessate il fuoco con la Russia. Le opzioni saranno:

1. Se Zelensky vuole fare di sé un eroe e un martire, cosa probabile, cercherà di continuare a combattere, ma potrebbe andare incontro all’ammutinamento e al rovesciamento militare del suo governo. In caso contrario – perché la situazione non è ancora abbastanza grave – saranno costretti a trincerarsi sulla difensiva e a guadagnarsi le vittorie mediatiche semplicemente “dissanguando la Russia” in piccole schermaglie di guerriglia o in attacchi asimmetrici. Ma i loro giorni offensivi saranno finiti, perché non avranno strumenti adeguati per farlo: niente armature pesanti, poca o nessuna artiglieria, e forse anche poche armature leggere come APC, IFV, IMV, ICV, AFV, ecc.

2. L’Occidente riesce a convincerlo a implorare la Russia per un cessate il fuoco. La Russia compie gesti performativi per dimostrare di essere disponibile alla pace, ma le sue richieste non saranno minimamente soddisfatte, e a quel punto continueranno a combattere. Medvedev ha commentato questo fatto pochi giorni fa, quando ha affermato che qualsiasi negoziato dovrà partire da nuove “realtà”, il che significa, tra l’altro, nuovi territori russi:

3. Zelensky tenterà di continuare la guerra per fare la faccia coraggiosa e l’Occidente potrebbe essere costretto a invocare il piano Z per eliminarlo, sia attraverso le elezioni che in un modo “diverso”. A quel punto non farà molta differenza, perché la Russia starebbe comunque distruggendo l’AFU in modo spietato.

La cosa più importante da ricordare è che l’anno prossimo sia l’Europa che, in particolare, gli Stati Uniti potrebbero trovarsi di fronte a livelli storici e senza precedenti di sconvolgimenti sociali. Entro la metà e la fine del prossimo anno, potrebbero non essere in grado di preoccuparsi minimamente dell’Ucraina. I problemi economici dell’Europa stanno diventando disastrosi e le elezioni americane hanno forti possibilità di trasformarsi in un evento molto peggiore di quanto si possa immaginare, che potrebbe sfociare in una guerra civile o in qualcosa che vi si avvicini.

Questi scenari sono collegati perché tutto in Ucraina si basa su speranze molto fragili che legano il futuro dell’Ucraina a quello dell’Occidente. Se e quando la società e il governo ucraino percepiranno che l’Occidente stesso sta affrontando uno sconvolgimento, il vero momento della resa dei conti sarà quello in cui si renderanno conto di non avere alcuna possibilità. A quel punto, è probabile che ci saranno forti spinte verso una riconciliazione di qualche tipo con la Russia, che potrebbe concludersi con la resa o con un colpo di stato militare e un rovesciamento.

Come ultimo punto, cosa succederebbe se accadesse il contrario e l’Occidente riuscisse a dare un ultimo colpo di coda alla solidarietà e all’afflusso di aiuti all’Ucraina? Dobbiamo anche ricordare che l’Ucraina ha “in programma” di mobilitare circa 500.000 “uomini” entro la primavera.

Il problema, come ho sottolineato l’ultima volta, è che i problemi hanno già creato un tale arretrato di necessità che, anche se si raggiunge una ritrovata unità, l’Ucraina sarà ormai così “indietro” militarmente e logisticamente che difficilmente potrà fare molto per loro. Ogni grande catena di decisioni politiche ha tempi molto lunghi dall’inizio alla fine. Quando le decisioni vengono prese, i finanziamenti vengono assicurati, i tipi di armi e materiali vengono concordati, poi spediti, e poi arrivano effettivamente per essere utilizzati in prima linea, passano mesi e mesi in cui una sfortunata e denudata Ucraina subisce un sadico assalto da parte della potenza militare russa.

Proprio oggi la Pravda ucraina ha riportato quanto segue:

Migliaia di ingegneri hanno lavorato nei mesi estivi per riparare le attrezzature rotte, e migliori difese aeree potrebbero contribuire a mitigare l’impatto della guerra quando le temperature iniziano a scendere. Ma non ci sono stati né i soldi né il tempo per completare i preparativi per l’inverno”, scrive la Reuters.
Ho già detto che alcuni rapporti affermano che solo il 25% delle infrastrutture energetiche distrutte lo scorso inverno è stato riparato.

Un altro rapporto dice che:

Il presidente dell’Associazione dei datori di lavoro dell’industria leggera ucraina Alexander Sokolovsky ha lanciato l’allarme: “La Guardia nazionale ucraina ha firmato un contratto per la cucitura di uniformi invernali per 193 milioni di grivna (5,3 milioni di dollari) con la ditta “Trade-Prim”, che non ha una propria produzione di cucito e che si occupa di agricoltura. Il contratto è stato stipulato aggirando il sistema ucraino di gare per gli appalti pubblici Prozorro, ha aggiunto il capo dell’associazione, secondo il quale i fondatori dell’azienda sono seguiti da una “scia di accuse di tentativi di frode”. Sokolovsky ha detto che la Guardia Nazionale ha firmato un contratto per la fornitura di uniformi militari estive con la società intermediaria “Chevron-Kiev”, che peraltro non ha propri impianti di produzione. Secondo il capo dell’associazione, l’azienda avrebbe dovuto consegnare 48mila set, ma all’inizio di ottobre è stata in grado di consegnarne solo mille. La Guardia Nazionale ha acquistato all’estero il tessuto per cucire le uniformi a un prezzo superiore del 60% rispetto a quello offerto dai tessitori ucraini, ha aggiunto.

Ma tutto questo potrebbe essere solo un’esagerazione? L’anno scorso abbiamo sentito le stesse cose, ovvero che l’Ucraina sarà polverizzata per tutto l’inverno, che le sue infrastrutture saranno completamente distrutte e che l’esercito sarà così demoralizzato da non essere in grado di continuare a combattere.

Certamente gli esseri umani in generale sono molto più resistenti di quanto a volte crediamo. L’Ucraina non sarà necessariamente in ginocchio dopo questo inverno. Ma tutto dipenderà dalla pressione cinetica che la Russia eserciterà su di loro. Come ho detto, non mi aspetto che vengano lanciate grandi offensive, ma la Russia deve essere in grado di fare danni importanti ai mezzi dell’Ucraina, sempre più indifesi (a causa di uno scudo di difesa aerea fortemente indebolito).

Se la Russia utilizzerà l’inverno come una “pausa” da un nemico esausto, allora potrebbe dare all’AFU il tempo e lo spazio per ricostituirsi almeno per qualche tentativo di assalto performativo in primavera. La Russia deve esercitare una forte pressione con attacchi per tutto l’inverno per stabilire un ritmo adeguato per il prossimo anno.

Dopodiché, come ho detto, prevedo che l’Ucraina faccia la faccia dura per fingere stoicamente di resistere all’assalto della Russia per tutto il 2024. Proprio come un uomo affamato e moribondo può tirare fuori gli ultimi giorni per fare una sorta di dichiarazione, un’Ucraina indifesa può sopportare forse un altro anno di pesanti colpi, che coincide con la visione di Shoigu per il 2025.

Se non saranno crollati per allora, con un nuovo esercito massiccio la Russia potrebbe benissimo premere il grilletto della “grande freccia” nel 2025 per finirli con un’altra offensiva su Kiev e altrove. Tutto sta nell’ammorbidirli, nel rendere più tenera la carne, per così dire, in modo che quando arriverà il momento sia senza sforzo e non costoso.

Il punto più importante per ora è che la Russia continui a costruire il suo potenziale offensivo, continuando a logorare l’Ucraina nella sua totalità, a livello infrastrutturale, militare, ecc. La Russia sta creando una tale disparità di colpi che finirà per annullare l’enigma principale della guerra moderna, quello dell’incapacità di avanzare a causa di problemi di ISR onnipresente. L’RCS/RFS della Russia sta diventando così potente che semplicemente colpirà l’Ucraina fino a ridurla in uno stato di torpore.

Proprio ieri c’è stato un grande attacco a Kharkov, e si parla di un importante raduno di mercenari e Aidar distrutto. Ogni giorno assistiamo a potenti attacchi mirati di Iskander e Tornado-S su una serie di risorse significative, come punti di sosta di concentrazioni di truppe o grandi magazzini e depositi pieni di materiale. Alla fine si trasformerà in un’ondata travolgente che paralizzerà le forze armate ucraine.

Oggi l’importante “ufficiale di riserva” ucraino ed esperto militare Tatarigami ha scritto un messaggio di supplica a tutti i seguaci filo-ucraini, esortandoli a fermare questo perverso ottimismo “pieno di speranza” e distruttivo, che in realtà danneggia l’AFU.

Il messaggio è lungo, ma ecco solo una parte per darvi un’idea:

Senza contare che sempre più truppe ucraine continuano ad arrendersi in massa, un chiaro presagio delle cose che verranno. Solo oggi si è verificata un’altra resa di massa di circa ~20 AFU:

E se ricordate la mia saga sul canale speciale Volga 149.200, creato dalle truppe russe per consentire agli ucraini un modo sicuro di arrendersi, continuano a esserci indicazioni che un numero impressionante di truppe degli Emirati Arabi Uniti ha colto questa opportunità. L’ultima notizia proviene dalla TASS russa, che afferma che oltre 10.000 si sono già arresi dopo il lancio del canale, avvenuto a giugno.

Il numero è incredibile, ma bisogna ricordare che a questo punto la Russia non ha alcun incentivo o motivo per esagerare le sue cifre… per quale motivo? Persino l’Occidente ammette ormai regolarmente e a malincuore che la Russia sta “vincendo la guerra dell’informazione”. E nessuno può più mettere in dubbio che la Russia stia vincendo la guerra di terra. Quindi perché esagerare? La Russia non ha nulla da dimostrare né nessuno da convincere, il che rende questi numeri sbalorditivi ancora più sorprendenti. Quest’inverno, questi numeri non potranno che aumentare.

Per compensare questa situazione, l’Ucraina è costretta a mobilitare sempre più giovani o anziani, basta guardare questo nuovo patetico video di quello che sembra essere un adolescente riluttante e terrorizzato a cui viene insegnato il lancio di granate in una trincea ucraina:

O questo video di un uomo letteralmente senza gambe, arruolato dall’AFU per un servizio “limitato”, dato che probabilmente può ancora pilotare un drone o forse manovrare una torretta di qualche tipo:

Un’ultima considerazione: molti rimangono scettici sul fatto che un simile conflitto possa essere concluso in modo decisivo dalla Russia. Essi indicano una serie di guerre passate che si sono protratte all’infinito in una situazione di stallo intrattabile, che si tratti della prima guerra mondiale o della guerra Iraq-Iran degli anni ’80, più recentemente.

Ma la differenza principale è che la maggior parte di quelle guerre presentava un’estrema parità tra le due parti, con livelli di vittime molto simili, e quindi rimanevano bloccate perché nessuna delle due parti riusciva a rompere la parità in un determinato settore, che si trattasse di qualità delle truppe, produzione di materiali, ecc. Da quello che ricordo, la guerra Iran-Iraq ha avuto perdite quasi identiche da entrambe le parti.

Questa guerra non è affatto come quelle. Quello a cui stiamo assistendo è qualcosa che non è mai accaduto prima, a causa delle circostanze uniche di questo conflitto, in cui ci sono principalmente due forze completamente disallineate, ma una delle quali è artificialmente sostenuta in vari modi, e sembra essere molto al di sopra delle sue possibilità da certe metriche o prospettive.

È quasi come mettere sul ring un pugile dei pesi massimi di 240 libbre contro un ragazzino di 110 libbre che indossa una “tuta da grasso”. Sì, ci sono stati alcuni punti di questo conflitto in cui le perdite a volte sembravano vicine alla parità, per esempio alcune parti di Bakhmut (non tutte), ma in generale, la Russia sta infliggendo un rapporto di uccisioni assolutamente disgustoso che a volte è di 5:1, 10:1, e più recentemente anche di 20:1. Il totale dei morti è ora probabilmente intorno a 40:1 e 40:2. Il totale delle vittime si aggira ora probabilmente intorno ai 40-60k da parte russa e 250-500k da parte ucraina. Se l’Ucraina non ricevesse livelli storici di sostegno monetario e di armi, crollerebbe istantaneamente.

Pertanto, modellare questo conflitto sulla base di precedenti conflitti tra nemici di pari livello è completamente sbagliato e qualsiasi “conclusione” così raggiunta è assolutamente errata. Per favore, mostratemi quale parte nella Prima Guerra Mondiale o in qualsiasi altra guerra ha avuto una disparità di 30 aerei contro 3.000, 500 carri armati contro 5.000-15.000, o 5.000 granate sparate al giorno contro 50.000, ecc. Questa scala di disparità semplicemente non esiste nelle guerre precedenti, è inaudita. Ciò significa che non bisogna sorprendersi se la conclusione arriva in un modo mai visto prima, e che confonde e spezza completamente le menti degli “esperti militari” come Kofman e Lee e il resto dei dilettanti da poltrona di Twitter.

Penso che alcune persone immaginino la guerra attuale come uno stallo infruttuoso in stile Battaglia della Somme, o Verdun con il suo tentativo di “dissanguare il nemico” attraverso il logoramento. Ma come ho detto, la Prima Guerra Mondiale ha avuto parti uguali. La guerra russo-ucraina vede un gorilla di 400 libbre semplicemente seduto e ingrassato mentre un topo imbottito di cocaina gli mordicchia le dita dei piedi. Non c’è paragone.

Comunque, molto di quanto sopra può essere visualizzato in questo video. Credo che i numeri siano sbagliati nella loro totalità, ma non tanto nelle rispettive proporzioni e relazioni, il che dà comunque una prospettiva abbastanza interessante su come l’anno precedente non sia stato altro che un rafforzamento militare russo come precursore del colpo di grazia:


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DEGENERAZIONE DELLE CLASSI DIRIGENTI OCCIDENTALI, UN ESEMPIO MICA MALE, di Roberto Buffagni

DEGENERAZIONE DELLE CLASSI DIRIGENTI OCCIDENTALI, UN ESEMPIO MICA MALE.

Sulla guerra in Ucraina i commentatori, gli esperti geopolitici e militari ufficiali dell’Occidente INTERO non hanno imbroccato MAI una previsione. Hanno inanellato errore di analisi su errore di analisi, stupidaggine tecnica su stupidaggine tecnica, e possono persino permettersi di fare nuovi errori di analisi DIVERSI e magari opposti ai precedenti, dire stupidaggini DIVERSE e magari opposte alle precedenti, previsioni sballate DIVERSE e magari opposte a quelle del giorno prima senza che nessuno glielo faccia MAI notare. L’unica coerenza indefettibile che mostrano è che non CI IMBROCCANO MAI.

Poi si danno pacche sulle spalle, si assegnano a vicenda premi, medaglie, pensioni, sinecure, ricchi premi e cotillons. Non faccio nomi perché c’è il codice penale e le cause per diffamazione costano, anche se le vinci.

In compenso, le analisi più accurate e realistiche, le previsioni che si dimostrano più azzeccate provengono da commentatori confinati sui social media, di solito militari pensionati e dilettanti appassionati di storia e cose militari: per nominarne qualcuno e scusandomi con chi non menzionassi, “Big Serge”, Bernhard Horstmann del blog MoonofAlabama, Simplicius the Thinker, Lee Slusher di Deepdive; in Italia, il gen. Fabio Mini (in pensione), il gen. Marco Bertolini (in pensione), Enrico Tomaselli (un designer e curatore di arte contemporanea, dilettante di storia e di cose militari, che scrive sul blog “Giubbe Rosse”), Francesco Dall’Aglio (un medievista dell’Accademia bulgara delle Scienze, appassionato di cose militari, che scrive su Facebook) e se mi è consentito, il sottoscritto (un dilettante di storia e cose militari, di professione drammaturgo,  che scrive sul blog italiaeilmondo.com).

C’è poi il caso clamoroso e assurdo, fino a ieri inconcepibile, di John Mearsheimer, il decano degli studi geopolitici dell’Occidente, per giunta anche diplomato a West Point, le cui opere sono testi obbligatori in tutti i corsi universitari di International Relations occidentali, che in passato ha, logicamente, scritto su tutti i più importanti periodici statunitensi e occidentali, da “Foreign Affairs” al “New York Times”; e che oggi, invece, è costretto anche lui a diffondere le sue analisi (corrette) e le sue previsioni (azzeccate) sui social, con il suo substack https://mearsheimer.substack.com/ , con interviste a blogger, eccetera. Essendo un luminare, perlomeno può fare capolino nell’ufficialità fuori dall’Occidente, si veda la recente intervista a una giornalista televisiva di Hong Kong.

In sintesi la situazione è la seguente. C’è il geometra pensionato (nel caso di Mearsheimer, il celebre architetto) che osserva i lavori nel cantiere di un grattacielo di trecento metri, e si accorge che nel progetto e nell’esecuzione ci sono gravi errori strutturali. Allarmato chiama il capocantiere, glielo fa notare, cerca di spiegarglielo con abbondanza di argomentazioni tecniche e analogie con l’esperienza del passato, si accalora, si sbraccia, rischia l’incidente cardiaco: ma il capocantiere dopo un minuto e mezzo si stanca di questo vecchio che parla a vanvera e se ne va. Se il vecchio insiste lo prende a male parole, se persiste chiama i vigili urbani e lo fa accompagnare a casa, a cucinarsi una minestrina di dado e a bersi la camomilla davanti alla TV.

Però l’anno dopo il grattacielo viene giù, con tutta la gente dentro che ci rimane sotto. That’s all folks.

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