All’ombra del Re Sole, di FF e Andrea Zhok

Cosa succederà a questa insulsa e supponente classe dirigente euro-atlantista, da decenni ormai abituata ad agire all’ombra e sotto protezione, quando i loro mentori, burattinai per meglio dire, non avranno più i mezzi e forse la voglia di assecondarli? Qualche segnale è già arrivato nel recente passato. Ci penseranno le potenze rivali a mettere a nudo la reale consistenza dei loro atti solenni. Buona lettura, Giuseppe Germinario
Quos Deus perdere vult, dementat prius, di FF
Il botolo euro-atlantista, convinto, perché protetto dal suo (pre)potente padrone d’oltreoceano, di poter mordere impunemente pure chi è di taglia assai più grossa di lui, all’improvviso ha scoperto che chi di sanzioni ferisce di sanzioni può perire.
Prima la Cina e ora la Russia hanno cercato di ricordare all’UE che vi sono limiti che non si possono superare senza subirne le conseguenze, ma l’insipienza degli euro-atlantisti è ormai tale che scambiano la loro fasulla rappresentazione del mondo per il mondo reale.
Difatti, convinti di potere favorire colpi di Stato e “rivoluzioni colorate” o di potere appoggiare movimenti neofascisti e personaggi (a dir poco) “equivoci”, senza patirne le conseguenze, solo perché difenderebbero una democrazia che invero sono i primi a calpestare confondendola con una dittatura oligarchica e plutocratica (viene in mente il bue che dà del cornuto all’asino…), adesso si scandalizzano perché anziché darle rischiano di prenderle.
In sostanza, gli euro-atlantisti adesso si indignano per un “atto ostile” della Russia nei confronti dell’Europa ma che altro non è che un avvertimento che dovrebbero prendere in seria considerazione, giacché, in sostanza, significa “non fare agli altri ciò che non vorresti che gli altri facessero a te”.
Tuttavia, per gli euro-atlantisti prima di tutto conta obbedire al padrone d’oltreoceano, anche perché sono persuasi che, comunque vada, le conseguenze della loro insipienza (geo)politica non saranno loro a pagarle. Il che però non è affatto così scontato come pensano individui ridicoli che, sebbene ricoprano incarichi politici importanti, forse non sanno nemmeno con quali Paesi confina la Russia (o la Cina), per non parlare della storia della Russia (o della Cina).
Eppure è proprio la storia che dovrebbe insegnare che ogni volta che gli europei hanno sottovalutato la potenza e le capacità della Russia hanno fatto una brutta fine, benché si debba riconoscere pure che “quos Deus perdere vult, dementat prius”.
C’è speranza per tutti, di Andrea Zhok.
E’ arrivato il quarto d’ora di celebrità anche per David Sassoli.
Non gli dev’esser parso vero di ritrovarsi nella lista delle personalità cui Putin ha vietato l’ingresso in Russia.
<<Ma allora sono una personalità!>>
<<Se mi cacciano, vuol dire che esisto!>>
Si inaugura così la prima variante europeista del cogito cartesiano:
“Vetor ergo sum”
(Vengo interdetto, dunque esisto)
Cercando di battere il ferro finché è caldo, l’ex conduttore televisivo, nonché ex trombato alle elezioni comunali di Roma si è poi lanciato in un fiero “Le minacce non ci zittiranno!” che lascia trasparire il proverbiale coraggio civile che ne ha animato l’intera carriera.
Il Sassoli già si vede effigiato nell’autobiografia di prossima uscita – con prefazione di Paolo Mieli:
“Quella volta in cui Putin voleva farci tacere!”
Il momento di gloria si chiude con una citazione di Tolstoj prelevata di peso da Wikipedia: “Non c’è grandezza senza verità”.
Ecco, a proposito di verità.
Sassoli ha omesso di ricordare che, come precisato dal corpo diplomatico russo, il divieto d’accesso alla Federazione Russa è semplicemente una risposta all’analoga sanzione promossa dall’UE nei confronti di sei personalità russe il 22 marzo scorso.
Sempre a proposito di verità, Sassoli ha omesso anche di ricordare che queste sanzioni UE seguivano una sequela di sanzioni unilaterali europee a partire dal 2014, promosse a sostegno del governo ucraino nel contenzioso con la Russia sulla Crimea, e poi reiterate e ampliate in innumerevoli altre occasioni (caso Skrypal, incidente di Kerch, caso Navalny, ecc.) fino a coinvolgere 177 cittadini e 48 enti giuridici russi.
Le sanzioni includono oltre alle misure restrittive individuali (congelamento dei beni e restrizioni di viaggio), svariate sanzioni economiche (limitazione all’accesso ai mercati dei capitali primari e secondari dell’UE da parte di banche e società russe, divieti di esportazione e di importazione, limitazioni all’accesso russo a servizi e tecnologie utilizzati per la produzione e la prospezione del petrolio, ecc.)
Ecco, a ben pensare una cosa non si può negare: il Presidente del Parlamento Europeo ha tutti i titoli per esprimersi con competenza sul detto “Non c’è grandezza, senza verità”.

Roberto Esposito, Istituzione_a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Roberto Esposito, Istituzione, Il Mulino, Bologna 2021, pp. 163, € 12,00

La concezione e l’uso corrente del termine “istituzione” non lo correla alla vita e al mutamento. L’autore ritiene invece che “Compito primario delle istituzioni non è solo quello di consentire a un insieme sociale la convivenza in un dato territorio, ma anche di assicurare la continuità nel mutamento, prolungando la vita dei padri in quella dei figli…le istituzioni rispondono al bisogno degli uomini di proiettare qualcosa di sé al di là della propria vita – della propria morte – prolungando, per così dire, la prima nascita nella seconda”; e continua sottolineando le antinomie del concetto. Ad esempio tra movimento (momento istituente) e stabilità dell’istituzione. La logica dell’istituzione “tiene insieme movimento e stabilità, mutamento e permanenza, innovazione e conservazione”. Ma così è anche per altre antitesi: libertà e necessità, soggetto ed oggetto, interno ed esterno. L’autore analizza le concezioni di filosofi, sociologi, pensatori politici e, ovviamente, giuristi, essendo il concetto (e il termine) familiare soprattutto a quest’ultimi. Esposito ritiene (a ragione) che “I primi, e più influenti, teorici dell’istituzionalismo giuridico sono il francese Maurice Hauriou e l’italiano Santi Romano” e brevemente riassume i tratti fondamentali del loro pensiero (come – anche – di quello di Cesarini Sforza).

Andando a qualificare i caratteri più importanti del pensiero istituzionista, questo è vitalistico e realistico. Ed essendo la vita carica di contraddizioni, la funzione dell’istituzione è di tenerle insieme (eliminarle o sopprimerle non è nella possibilità umana). Ad esempio la contraddizione tra movimento e stabilità: Hauriou li sintetizza paragonando l’istituzione (nella specie lo Stato) ad un agmen: ad un esercito in marcia. Il quale si muove, cambia anche – in parte – posizione e compiti dei suoi reparti, ma conserva sempre l’ordine. In alcuni periodi il movimento si accelera, in altri rallenta: così si passa dai gouvernements de fait (emergenti da colpi di Stato o rivoluzioni) con trasformazioni veloci ed estese, ai gouvernements de droit consolidati, accettati e quindi meno innovativi, ma più stabili. Ma è l’ordine (nel senso dell’agmen) il loro comune denominatore.

Così nella rivoluzione (e nel partito rivoluzionario) cui dedicò una voce dei Frammenti di un dizionario giuridico, Santi Romano. Il partito rivoluzionario, pur essendo un soggetto politico non statale (ossia “movimento”) è già istituzione, anche se in fieri, fluttuante, dagli incerti confini. Ma già ha delle strutture, un vertice, una base; e delle regole, e quindi una certa effettività e più ancora un “tasso” di ordine: è un “ordinamento sia pure imperfetto, fluttuante, provvisorio”. Del pari, quando Romano individua i tratti fondamentali dell’instaurazione di un ordinamento statale, fa riferimento non a caratteri normativi come la conformità alle regole legalmente poste, allo Stufenbau, ma a elementi fattuali (o meglio non normativi), come l’effettività, la legittimità, il riconoscimento (dei sudditi) cioè la disponibilità ad obbedire. In definitiva “esistente e, per conseguenza, legittimo è solo quell’ordinamento cui non fa difetto non solo la vita attuale, ma altresì la vitalità”: il nuovo regime deve avere, per essere tale, stabilità e quindi durata. È vero, anche se riduttivo, quanto scrive Esposito che “l’istituzionalismo italiano – da Romano a Mortati – ha ricondotto il diritto alla sua radice vivente”; perché vitalismo e realismo sono caratteri tipici anche dell’istituzionalismo non italiano (come in Hauriou, Schmitt, Smend). Anche se spesso rinvenibili in giuristi non considerati istituzionalisti, ma semplicemente realisti.

Scrive l’autore nell’epilogo che “La prassi istituente reinterpreta in maniera inedita la relazione tra continuità e discontinuità, lasciandosi alle spalle sia lo storicismo progressista sia la tradizione rivoluzionaria della creazione ex nihilo”. E che la concezione de “l’ordine in movimento” sempre presente in giuristi come Hauriou e Santi Romano (e non solo) possa essere il criterio per capire le trasformazioni oggi in atto appare, in larga misura, probabile.

Teodoro Klitsche de la Grange

Lettera al Presidente, lettre à monsieur le Président_di e a cura di Giuseppe Germinario

Invito a leggere questa lettera-appello pubblicata in Francia il 22 aprile scorso. Segue qualche considerazione_Giuseppe Germinario

“Per un ritorno all’onore dei nostri governanti”: 20 generali chiedono a Macron di difendere il patriottismo

Su iniziativa di Jean-Pierre Fabre-Bernadac, ufficiale di carriera e direttore del sito di Place Armes , una ventina di generali, un centinaio di alti ufficiali e più di mille altri soldati hanno firmato un appello per un ritorno di onore e dovere all’interno della classe politica. Valeurs Actuelles diffondono, con la loro autorizzazione, la lettera intrisa di convinzione e impegno da parte di questi uomini legati al loro Paese.

Signor Presidente,
Signore e Signori del Governo,

Signore e Signori, Membri del Parlamento,

L’ora è seria, la Francia è in pericolo, diversi pericoli mortali la minacciano. Noi che, anche nella riserva, rimaniamo soldati di Francia, non possiamo, nelle attuali circostanze, restare indifferenti alle sorti del nostro bel Paese.

Le nostre bandiere tricolori non sono solo un pezzo di stoffa, simboleggiano la tradizione, attraverso i secoli, di coloro che, qualunque sia il loro colore della pelle o la loro fede, hanno servito la Francia e hanno dato la vita per essa. Su queste bandiere, troviamo in lettere d’oro le parole “Onore e Patria”. Tuttavia, il nostro onore oggi sta nella denuncia della disgregazione che colpisce la nostra patria.

– Disgregazione che, attraverso un certo antirazzismo, si manifesta con un unico scopo: creare sul nostro suolo un malessere, addirittura odio tra le comunità. Oggi alcuni parlano di razzismo, indigenismo e teorie decoloniali, ma attraverso questi termini è la guerra razziale quella che vogliono questi odiosi e fanatici partigiani. Disprezzano il nostro Paese, le sue tradizioni, la sua cultura, e vogliono vederlo dissolversi portandogli via il suo passato e la sua storia. Così attaccano, attraverso statue, antiche glorie militari e civili analizzando parole vecchie di secoli.

– Disgregazione che, con l’islamismo e le orde suburbane, porta al distacco di molteplici lembi della nazione per trasformarli in territori soggetti a dogmi contrari alla nostra costituzione. Tuttavia, ogni francese, qualunque sia il suo credo o il suo non credo, è ovunque a casa in Francia; non può e non deve esistere nessuna città, nessun distretto in cui non si applicano le leggi della Repubblica.

– Disgregazione, perché l’odio ha la precedenza sulla fraternità durante le manifestazioni in cui il potere usa la polizia come agenti ausiliari e capri espiatori di fronte ai francesi in gilet giallo che esprimono la loro disperazione. Questo mentre individui infiltrati e incappucciati saccheggiano aziende e minacciano le stesse forze di polizia. Tuttavia, questi ultimi applicano solo le direttive, a volte contraddittorie, fornite da voi, governanti.

I pericoli aumentano, la violenza aumenta di giorno in giorno. Chi avrebbe previsto dieci anni fa che un giorno un professore sarebbe stato decapitato al momento di uscire dal liceo? Tuttavia, noi, servitori della Nazione, che siamo sempre stati pronti a garantire con la vita il nostro impegno – come richiesto dal nostro stato militare, non possiamo essere di fronte a tali atti degli spettatori passivi.

Inoltre, coloro che guidano il nostro paese devono assolutamente trovare il coraggio necessario per sradicare questi pericoli. Per fare ciò, spesso è sufficiente applicare le leggi esistenti senza debolezze. Non dimenticare che, come noi, la grande maggioranza dei nostri concittadini non ne può più delle vostre colpevoli tergiversazioni.

Come ha detto il cardinale Mercier, primate del Belgio: “Quando la prudenza è ovunque, il coraggio non è da nessuna parte. ” Allora, signore e signori, basta rinvii, la situazione è seria, il lavoro è enorme; non perdete tempo e sappiate che siamo pronti a sostenere politiche che tengano conto della salvaguardia della nazione.

D’altra parte, se non si interviene, il lassismo continuerà a diffondersi inesorabilmente nella società, provocando alla fine un’esplosione e l’intervento dei nostri camerati in servizio in ​​una pericolosa missione di protezione dei nostri valori di civiltà e salvaguardia dei nostri connazionali sul territorio nazionale.

Come si vede, non è più tempo di procrastinare, altrimenti domani la guerra civile metterà fine a questo caos crescente e le morti, di cui voi sarete responsabili, si conteranno a migliaia.

I generali firmatari:

General de Corps d’Armée (ER) Christian PIQUEMAL (Legione straniera), General de Corps d’Armée (2S) Gilles BARRIE (Fanteria), Generale di divisione (2S) François GAUBERT ex governatore militare di Lille, Generale di divisione (2S ) Emmanuel de RICHOUFFTZ (fanteria), generale di divisione (2S) Michel JOSLIN DE NORAY (truppe di marina), generale di brigata (2S) André COUSTOU (fanteria), generale di brigata (2S) Philippe DESROUSSEAUX di MEDRANO (treno), aria Generale di brigata (2S) Antoine MARTINEZ (Air Force), Generale di brigata aerea (2S) Daniel GROSMAIRE (Air Force), Generale di brigata (2S) Robert JEANNEROD (Cavalleria), Brigata generale (2S) Pierre Dominique AIGUEPERSE (fanteria) generale Brigade (2S) Roland DUBOIS (Trasmissioni), gBrigadier General (2S) Dominique DELAWARDE (Fanteria), Brigadier General (2S) Jean Claude GROLIER (Artiglieria), Brigadier General (2S) Norbert de CACQUERAY (Directorate General of Armament), Brigadier General (2S) Roger PRIGENT (ALAT), Brigadier Generale (2S) Alfred LEBRETON (CAT), Medico generale (2S) Guy DURAND (Servizio sanitario dell’esercito), Contrammiraglio (2S) Gérard BALASTRE (Marina).

Il documento ha una rilevanza intrinseca sia per la qualità che per il numero dei firmatari, tutti militari di vario ordine e grado dell’armée, che per il tono sorprendentemente ultimativo impresso. Un accento che non lascia troppi spazi a vie di mezzo e tempi lunghi. Può essere l’indizio di qualcosa di grosso e di risolutivo in via di preparazione, come di una prosopopea senza esito fattivo, ma che porterà di sicuro discredito e dileggio ai promotori pur mossi dalle migliori intenzioni. Sicuramente è un grido di allarme. La situazione in Francia, pur comune a gran parte dei paesi occidentali, in realtà è particolarmente grave se addirittura un politico dall’approccio globalista e cosmopolitico del calibro del Presidente Macron, coltivato certosinamente in quegli ambienti, ha dovuto assumere occasionalmente e artatamente le vesti del sovranista; vesti che non sono con ogni evidenza le sue.
Assume un peso ancora più significativo e interessante sia per il merito esplicito e sottinteso che per il contesto che l’appello ha smosso ed entro il quale sta agendo.
  • nel merito ci rivela in primo luogo quello che sul nascere avevamo prontamente sottolineato a suo tempo in vari articoli del sito: il movimento di massa dei “Gilet Gialli” per le sue modalità operative e per la contestuale diffusione territoriale presupponeva l’esistenza di addentellati se non proprio di una direzione e indirizzo veri e propri di importanti centri decisionali e politici presenti nelle istituzioni francesi. La sorprendente denuncia, per altro più che fondata, nel documento dell’utilizzo violento, strumentale e decisamente sproporzionato di settori delle forze dell’ordine sono una sorta di certificazione di quanto sottolineato. Stigmatizza giustamente e apertamente la funzione politica dell’antirazzismo e delle rivendicazioni antidiscriminatorie prevalenti odierni, capovolgendoli paradossalmente in forme subdole di razzismo, di frammentazione e separatismo identitari tali da erodere irreversibilmente le fondamenta della coesione sociale e della nazione. L’islamismo radicale in realtà è forse la forma più scoperta e radicale di queste manifestazioni, ma ne esistono altre, concomitanti, molto più subdole, perché espressione diretta della cultura occidentale e sostenute da buona parte delle élites dominanti; anche questi, aspetti più volte evidenziati nei nostri articoli.
  • Riguardo al contesto e alle dinamiche innescate il documento ci dice analogamente molto di più del significato letterale delle parole ivi contenute. Si rivolge correttamente di fatto a tutte le forze politiche e a tutti i rappresentanti delle istituzioni. I promotori infatti hanno stigmatizzato gelidamente l’invito inopportuno e intempestivo di Marine Le Pen ad aderire al suo partito, il RN ex Front National. Una conferma dei rapporti deteriorati e di sorda diffidenza già emersi dopo pochi mesi dalle elezioni europee e a pochi mesi dal loro ingresso con la fuoriuscita di importanti esponenti di questa area dal partito della Le Pen, ma anche della funzione di eterna oppositrice di comodo di quest’ultima nel panorama politico transalpino. Si inserisce in una vasta campagna politica portata avanti da organi di informazione conservatori in Francia ben consolidati ed affermati, tra i vari questo https://www.valeursactuelles.com/clubvaleurs/politique/philippe-de-villiers-jappelle-a-linsurrection/ Segue numerose vicende significative tra le quali la clamorosa defenestrazione per via giudiziaria di Fillon, personaggio per altro inadeguato, dalla candidatura alle ultime presidenziali e le rumorose dimissioni del popolare Pierre de Villiers, fratello di Philippe, da comandante delle forze armate nel luglio del 2017 e del quale per altro brilla l’assenza tra i firmatari.

Il dibattito e gli schieramenti politici in Francia sono certamente meno delineati rispetto alla situazione offerta dagli Stati Uniti, certamente più nitidi e chiari rispetto alla frivolezza e alla irrilevanza dei temi affrontati in Italia. Si avvicina a quella americana nella frammentazione geografica e socioeconomica e nel livello politico di ostilità. Può aiutare a decifrare ciò che in realtà si muove meno consapevolmente e in drammatico ritardo anche nel nostro paese. Rivela le intenzioni politiche e le prospettive di autonomia presenti in maniera strutturata in una parte rilevante della sua classe dirigente, ma evanescenti nella nostra. Prospettive ed intenzioni da realizzare però con una qualche possibilità di successo solo a patto di dosare l’azione politica e gli obbiettivi alla reale condizione di forza del paese, ormai strettamente integrato politicamente e ormai militarmente nel campo occidentale piuttosto che essere guidata dalla illusione di grandeur di tempi ormai passati. E’ il discrimine che passa tra la eventuale ripetizione del tentativo gaullista degli anni ’60 e una sua disastrosa parodia. In Francia non mancano espressioni e autorevoli pubblicazioni dotate dell’adeguata consapevolezza della posta in palio. L’intervista a de Villiers, citata in precedenza, fa invece parte della categoria dei velleitari, forse non a caso così ampiamente promossa. Parla di insurrezione, un atto politico forte ed estremo, necessario in delimitati momenti, contingenze e ambiti di azione; in realtà pensa ad una battaglia culturale conducibile in altri ambiti che prescindono tra l’altro dalla detenzione effettiva di potere. Parla di un nemico politico, in realtà lo confonde e lo assimila ad una componente e/o un avversario, il capitalista, in particolare il rentier, in posizione dominante in ambito economico, largamente influente in ambito sociale, ma dal punto di vista politico e nelle sue varie frazioni solo parte di centri decisionali cooperanti e in conflitto tra di essi; una figura alla quale le forze politiche, anche le più “antagonistiche”, non sanno che offrire modalità diverse di regolazione piuttosto che la sua estinzione vista la inesistenza di alternative. Un limite di impostazione che accomuna paradossalmente le componenti radicali dei due versanti opposti e contrapposti. Da qui l’omologazione fuorviante ad un’unica tendenza del radicalismo islamico che, per quanto settario, ha una funzione aggregante e alternativa e del particolarismo identitario e nichilista, legato alla rivendicazione del desiderio personale come diritto e della diversità come convivenza giustapposta di gruppi separati. Il richiamo alla patria, alla nazione, alla identità nazionale rischia di ridursi ad una sterile declamazione. L’avversario politico diventa indefinito, come regolarmente accaduto con i movimenti mondialisti antiglobalisti e il più delle volte quello sbagliato o quello meno rivelante, portando il più delle volte inavvertitamente la serpe in casa. Così per de Villiers, non solo per lui, sul podio di nemico numero uno assurge l’economista Klaus Schwab, il gruppo di Davos, la cupola globalista senza avvedersi che tali gruppi certamente esistono, perpetrano propositi di cambiamento della natura umana e di controllo totalitario globale, ma solo se compatibili con le mire di controllo e di potere politico di centri decisionali, di unità statali tanto totalitari nelle intenzioni quanto costretti a prendere atto dell’esistenza di altri centri contrapposti e potenzialmente dalle mire similari. Le implicazioni di tale rappresentazione sono molteplici: si può cadere nella tentazione velleitaria di un pedissequo ritorno al passato tipico dei reazionari, nel rifiuto della tecnologia piuttosto che nella valutazione del suo utilizzo e dei principi che ne informano gli sviluppi, fermo restando che la conoscenza e l’ambizione di controllo dei processi naturali sono parte integrante dello sviluppo scientifico quali che siano i rapporti sociali e a prescindere da come questi rapporti vi entrino; si possono proporre “sante alleanze” (ad esempio tra tutti gli stati) contro una cosiddetta cupola che è in realtà parte integrante del sistema di potere di qualcuno di essi; non si riesce a percepire l’esistenza di varie “cupole” anche finanziarie al servizio di centri e stati “amici” o ritenuti tali o esenti per natura da certi esercizi di potere. La lettera, forse al di là della valutazione e delle stesse intenzioni dei firmatari, assume quindi una importanza politica enorme, specie in una Europa addomesticata ormai da oltre settanta anni. Vedremo verso quale versante penderà la propensione dei promotori; quel declivio ne determinerà la sorte. In Italia ci guardiamo bene dal raggiungere quel crinale che obbligherebbe senza scampo ad una scelta. Potrebbe essere ancora una volta la nostra salvezza da tragedie immani ma anche successi che invece la Francia ha conosciuto; sicuramente, nel migliore dei casi, si tratterebbe di una sopravvivenza di una classe dirigente, meno di un popolo, costantemente con il cappello in mano. Giuseppe Germinario

Stati Uniti, enigmi strategici_conversazione con Gianfranco Campa

Biden ha annunciato il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan dopo vent’anni di ostilità. Trump cacciato dalla porta, ma che entra dalla finestra. Per un fronte che dovrebbe chiudersi, se ne riaprono almeno due ancora più pericolosi. Intanto opzioni che durante la guerra fredda erano un tabù, strumenti di deterrenza con un semplice tweet appaiono ora fruibili con agghiacciante indifferenza. Ma negli States chi detiene il controllo delle leve?Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vg2nxl-stati-uniti-enigmi-strategici-conversazione-con-gianfranco-campa.html

SOVRANO E’ CHI DECIDE E DECIDE CHI HA IL POTERE DI DECIDERE, di Pierluigi Fagan

SOVRANO E’ CHI DECIDE E DECIDE CHI HA IL POTERE DI DECIDERE. Il 20 gennaio, Joe Biden prende ufficialmente possesso della Casa Bianca, sei giorni dopo cade il Governo Conte, tre settimane dopo, entra in carica il Governo Draghi. Tre settimane dopo si dimette da segretario PD Zingaretti e pochi giorni dopo torna dalla legione straniera francese lo sbiadito Letta. Molinari a nomina Exor quindi casa Agnelli, è già direttore di Repubblica da un anno. I primi di Aprile, il nuovo ed indaffarato Presidente del Consiglio italiano trova il tempo per far la sua prima visita estera in Libia dove si sta tentando una via di stabilizzazione ancora incerta basata su un governo di origine affaristico-tripolitana, ovvero la parte salvata dalla capitolazione contro le armate di Haftar (Egitto, Russia, Emirati Arabi, Francia), dalla Turchia. Ma qualche giorno dopo, il cauto e diplomatico Draghi dà del dittatore a Erdogan nel mentre il capo del governo libico e con lui mezzo governo si reca in Turchia a portare omaggi e prender ordini. Nel mentre, un ragazzo campano già quasi leader di un movimento politico dai contorni imprecisi, già Ministro degli Esteri di un governo che guardava con amicizia alla Russia e viepiù alla Cina, diventa il primo straniero ricevuto ufficialmente a Washington dal piccolo ma coriaceo Blinken. Il crash course atlantista di Di Maio è spettacolare: German Marshall Fund, Brooking Institute, Atlantic Council, tra quelli che si possono citare, ma -in questi casi- è norma vi siano anche incontri più riservati, brevi, chiari e precisi. NYT, infine, incorona pubblicamente Draghi come nuovo perno di una Europa rinascente ora che Merkel tramonta, la Germania diventerà oggetto di instabilità dilaniata da crisi di leadership, mentalità inadeguata ai tempi (sotto il profilo economico e monetario), capitolo Nord Stream, ambiguità filo-russe e filo-cinesi. Draghi serve anche a contenere, ma con persuasione, Macron e la strana coppia (che in verità non si ama affatto sul piano personale), oltreatlantico è già brandizzata “Dracon”. Macron viene per secondo come si vede, per esigenze di sonorità del neologismo forse, perché a sua volta indebolito dalla perdita dell’asse con Merkel e dalla prossima resa dei conti elettorali tra un anno verso la quale Le Pen sta assumendo un peso sempre più solido e potenzialmente convincente.
Se Mattarella è, per via di ordinamento giuridico, il perno condizionante ogni evoluzione di quadro politico italiano commissariato dagli Stati Uniti negli ultimi settanta a passa anni e se Draghi è il nuovo statista italiano quale l’Italia non ha più dai tempi del centro-sinistra (Andreotti, Moro, Craxi), ma con più prestigio internazionale non certo politico ma economico-bancario che conta anche di più, vorrei dire due cose su Letta, ma appena accennate.
Saprete che Letta dopo esser stato uno dei tanti vuoti a perdere delle eterne baruffe chiozzotte italiche in cui governi senza potere si alternano come in una eterna commedia dell’arte che l’Autore non sa più come terminare dilatando finti colpi di scena che ormai non hanno alcun senso, da decenni e decenni, deve aver ricevuto il saggio consiglio di andar a fare l’Erasmus della Grande Politica in Francia, diventando addirittura direttore della più prestigiosa scuola di affari politici internazionali Sciences-Po (1872). Sebbene, l’ultima versione ufficiale on line dei membri della Commissione Trilaterale, non lo riporti, fino ad un mese fa risultava attivo membro del think tank atlantista fondato nel 1973 da Rockefeller, Kissinger e Brzezinsky. Nel Comitato esecutivo, siedono Mario Monti e Paolo Magri dell’ISPI. Altri italiani sono: Dassù (vice-Ministro affari esteri governi Monti e Letta, Aspenia, Aspen Institute, Fondazione Italia USA, LUISS), Vittorio Grilli ora JP Morgan ma ai tempi di Ciampi braccio operativo di Draghi al Tesoro, l’ex ignota giornalista RAI Monica Maggioni che dopo una lunga visita negli Stati Uniti divenne uno dei pochi giornalisti autorizzati a seguire dal di dentro (embedded) l’invasione Bush dell’Iraq fino a diventare magicamente presidente della RAI sotto il governo Renzi. Abbiamo poi manager, banchieri e Tronchetti Provera e fino a poco tempo fa c’era anche Maurizio Molinari.
A due anni dalla fondazione, nel pieno della crisi degli anni ’70, la Trilateral che do per nota ai lettori nella sua essenza, ispirazione e ruolo, dà mandato a tre studiosi di fare una analisi strategica sul momento occidentale. Ne esce il famoso rapporto “La crisi della democrazia” di Cozier, Watanuki e l’ineffabile Huntington (quello dello “Scontro delle Civiltà” Garzanti, 1996), edito in Italia con prefazione di Gianni Agnelli. In sostanza, il rapporto avvertiva i committenti che per il sistema occidentale le cose andavano a mettersi in sempre più complicata prospettiva e se non si poneva rimedio alle vampate democratiche generate dai processi politici degli anni ’60 e ’70 ritenuti eccessivamente politicizzati, cioè “democratici”, gli ordini di sistema sarebbero inevitabilmente collassati. Tradotto, non era la democrazia ed esser in crisi era la crisi ad esser generata dalla democrazia o meglio se non generata, peggiorata sino alle più estreme conseguenze. Inizia così un movimento di pensiero poco noto agli studiosi che si sveglieranno solo ad anni Novanta inoltrati quando si cominciò a parlare di “post-democrazia”. Per via delle magiche sincronie tra immagini di mondo – think tank – mondo dei saperi e delle conoscenze ufficiali, l’anno dopo il rapporto Trilateral, a Stoccolma riscoprono un dimenticato economista austriaco tale Friedrich von Hayek e gli danno addirittura un Nobel (1974). Ma per esser più chiari, due anni dopo lo danno anche a Milton Friedman. Così inizia la temperie neoliberista, da analisi, strategie, narrazioni, simboli, che fertilizzano menti e consessi da cui nascono processi poi concretizzati da Thatcher prima e Reagan poi, fino al Washington Consensus (1989) e poi al WTO (1994). Analizzati dagli economisti, questi quadri teorici sono in realtà di natura politica e geopolitica.
Sul piano della teoria, possiamo farla semplice: da metà anni ’70 inizia un teorizzato processo di costante diminuzione della democrazia occidentale poiché la società politica va in conflitto con la società di mercato e la società di mercato è l’ordinatore degli Stati Uniti d’America che è l’ordinante del sistema occidentale. In Italia c’è un partito che si chiama Partito Democratico che ha oggi un segretario che va in giro a parlare di giovani, donne, diritti umani, erasmi e nuovi mondi sostenibili, il quale è membro storico di un think tank che da decenni pilota la de-democratizzazione occidentale.
Ma chi se ne frega. Tutti presi dalla critica neoliberale, anticapitalista, dai sovranismi, dai populismi, dalla critica culturale del politicamente corretto, dalla settimana di “poltrone e sofà” o da quella omofoba, dalla moneta sovrana o come fosse Antani con la scappellamento a destra (lo scappellamento è sempre “a destra”), dai palpitamenti per Putin con brividini euro-asiatici, o il fiero Johnson o il divino Trump, a nessuno viene in mente di fare una serie riflessione politica sulla democrazia. A volte si avverte un vasto a diffuso disagio sul termine, parlo di gente normale, tra noi stessi.
La democrazia è una entità concettuale sconosciuta in teoria politica. Non c’è nel pensiero liberale se non come democrazia delle élite così come nacque più di tre secoli fa in Inghilterra, non c’è nella teoria marxista (neo-post, cinquanta sfumature di Marx), è appena trainata in secondo piano da quella socialista, è aborrita da tutti gli elitisti, odiata dai conservatori, dai fascisti, dai nazionalisti, dai vari mélange di rossobrunisti, financo dai progressisti, dai né di destra-né di sinistra, seppellita dalle ambigue nebbiosità mentali dei post moderni e dei biopolitici fino ai chierici dei tre monoteismi ed i sacerdoti scientisti e gli intelligenti artificiali. Se ne occupano attivamente solo gli americani ed il loro giro largo di affiliati e se ne occupano per svuotarla sistematicamente di senso reale per usarne il brillante simulacro che è un “sotto il vestito niente”, un caso paradigmatico di conflitto schizoide tra parola e cosa.
Sovrano è chi decide in auto-nomia, cioè di chi è in grado di darsi la legge (nomos) da sé (auto) altro che Schmitt. E se ne non sei in grado, arruolati in una delle tante offerte di vociante servitù volontaria, anche quella critica, l’importante è parlar d’altro, lascia fare, lascia passare, lascia pensare, non ti preoccupare, puoi anche lamentarti tanto se non hai una teoria forte a riguardo, non capirai neanche di cosa si sta parlando.

Covid 19, come prima più di prima_intervista al dottor Giuseppe Imbalzano

La crisi pandemica prosegue senza soluzione di continuità. La sequela di provvedimenti poco coerenti tra di loro, la logica raffazzonata che guida i comportamenti e informa le direttive, la sovrapposizione di funzioni rischiano di neutralizzare quel poco di iniziative più lucide intraprese dal nuovo governo. Il fattore tempo è cruciale per un paese in una condizione di emergenza dai tempi indefiniti. Un vero e proprio ossimoro che rischia di dilapidare le residue risorse e i residui fattori di coesione indispensabili a consentire una ripresa quantomeno accettabile. La crisi pandemica ha messo completamente e contemporaneamente a nudo le troppe debolezze di un paese ormai sempre più esposto passivamente alle intemperie politiche interne e geopolitiche. E’ qualcosa di più serio di un complotto e di un piano preordinato da soggetti ben individuati o quantomeno individuabili; è una situazione di stallo e di degrado opera di una classe dirigente decadente impegnata a perpetuarsi a scapito di gran parte del nostro paese. E’ in questo contesto e con questo presupposto che si inseriscono i complessi giochi e gli enormi interessi politici di destabilizzazione, periferizzazione, colonizzazione e di degrado socioeconomico._Buon ascolto, Giuseppe Germinario

Giuseppe Imbalzano, medico, specialista in Igiene e Medicina preventiva. Direttore sanitario di ASL lombarde per 17 anni (Ussl Melegnano, Asl Milano 2, Ao Legnano, Asl Lodi, Ao Lodi, Asl Bergamo, Asl Milano 1). Direttore scientifico progetti UE (Servizi al cliente, Informatizzazione della Medicina Generale). Si è occupato di organizzazione sanitaria, prevenzione, informatica medica, etica, edilizia, umanizzazione ospedaliera e psicanalisi.

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AIUTANTI, SOPPORTATI, NEMICI_di Teodoro Klitsche de la Grange

AIUTANTI, SOPPORTATI, NEMICI

Tra i (modesti) vantaggi che le emergenze politiche, economiche e sociali possono arrecare, c’è quella di chiarire e porre in evidenza caratteri (e funzionamento) di regolarità politiche già evidenziate dalla dottrina. Così è per il Covid 19.

I sostegni dispensati dal governo Conte-bis – e in parte anche dall’attuale – dividono il grosso della popolazione italiana in tre macro-gruppi: coloro che vivono di uno stipendio pubblico/pensione, garantiti al 100%. Anzi tenuto conto delle chiacchiere sullo smart working pubblico (così diverso da quello privato), anche caratterizzato da una sostanziale identità di retribuzione a fronte di una prestazione più comoda, spesso ridotta e talvolta inesistente. Poi i dipendenti privati, con garanzie inferiori ai pubblici (tuttavia estese – causa pandemia – a quelli che non l’avevano). Infine i lavoratori autonomi, rimasti , in gran parte o totalmente senza tutela o con ristori minimi (Conte) ovvero con modesti (ma più diffusi) sostegni (Draghi).

A giustificare trattamenti così radicalmente differenziati, la retorica mainstream si è servita di tutti gli espedienti. Il primo, l’oscuramento (non parlarne e gonfiare le altre notizie). Poi la mistificazione – come enfatizzare le regole e dimenticare le (vastissime) eccezioni. Così ad esempio, i ristori ai lavoratori autonomi che non si applicavano ai pensionati (o agli iscritti) degli enti di previdenza privati (cioè a quasi tutti). Anche le usuali litanie: ce lo chiede l’Europa… siamo i più bravi ad affrontare l’emergenza (se non fosse per…qualche migliaia di morti in più degli altri) hanno trovato la propria consueta collocazione nei discorsi di propaganda.

È mancata invece totalmente l’applicazione generale e omogenea (se non identica) di quello che è uno dei principi costitutivi di qualsiasi comunità politica, ancor più se democratica, quello di solidarietà politica, sociale, economica collocato nell’art. 2 della Costituzione “più bella del mondo” (ossia tra i doveri fondamentali).

Ancorché il dovere di solidarietà abbia una funzione costitutiva delle comunità, non è quel che qui m’interessa considerare, ma è la conferma della teoria (da ultimo espressa) da Gianfranco Miglio su classe, organizzazione (e sintesi) politiche. Scrive Miglio che se configuriamo la sintesi politica come una sfera “abbiamo un nucleo centrale costituito dalla classe politica, mentre intorno si ha una classe dirigente con certi rapporti di osmosi rispetto ai ‘seguaci indifferenziati’ e, dall’altra parte, rispetto al nucleo che costituisce la classe politica stessa” e prosegue “i politologhi ritengono che fra classe politica in senso stretto e seguaci in senso lato si situi una fascia che alcuni chiamano «classe dirigente» e altri «classe politica secondaria»”; “oltre alla guerra contro il nemico, la classe politica svolge una funzione verso i propri seguaci… nei riguardi del nemico ci si attende una ‘rendita politica’ il vivere a sue spese”.

Il primo servizio reso  dalla classe politica, dopo la protezione dal nemico, “è una funzione di tutela della pace interna, che consente la sopravvivenza, mediante lo scambio, degli aggregati. Ogni aggregato vive dello scambio ‘privato’, del rapporto di ‘contratto-scambio’, di mercato ed è in attesa di rendite politiche”; il criterio di distinzione tra le une e le altre è che “nella rendita di mercato è elevata l’aleatorietà. Mentre la ragione per la quale vengono appetite le rendite politiche è data dal fatto che sono garantite”; il mezzo per approvigionarsene è la costrizione “All’esterno abbiamo le rendite politiche vere e proprie, costruite mediante un prelievo coercitivo: tutti i cittadini devono pagare le imposte, devono corrisponderle secondo un criterio proporzionale”; tali tributi “ vengono riversati come paghe pubbliche ai partiti politici, cioè a coloro che vivono al loro interno, quindi nella pubblica amministrazione”. Nella quale “Interessa piuttosto ottenere la paga pubblica. Quando si sente dire: «È meglio andare a fare il pubblico funzionario, perché almeno non ti licenziano mai», è perché la paga è garantita”: le rendite pubbliche (e così le paghe pubbliche) tendono alla garanzia assoluta del reddito, anche se “si tratta di paghe modeste in genere nel caso di paghe pubbliche garantite, laddove il sistema politico funzioni”. Basse ma non aleatorie, invece nel caso dei redditi di mercato, non c’è (teoricamente) un “tetto”, ma c’è l’aleatorietà. Nel dividere le prestazioni all’interno della sintesi politica occorre distinguere: vi sono cittadini che prestano una fedeltà passiva (scrive Miglio), cui vengono (di solito) erogati una prestazione generica, l’assicurazione dell’efficacia dell’obbligazione necessaria a “scambiare beni e prestazioni e quindi a sopravvivere”. Doveri fondamentali che, specie il secondo, sono assai compromessi dalla sgangherata burocrazia della Repubblica.

C’è poi una seconda categoria “che si crea nel caso dei seguaci attivi, cioè gli ‘aiutanti’ del potere politico. Costoro prestano ai capi politici una fedeltà attiva, ossia atti e comportamenti continuati, per far sì che coloro che detengono il potere lo conservino”, ai quali è garantita, almeno, una paga pubblica[1].

Ma, scrive il politologo lombardo “c’è una terza categoria (terza fascia) di seguaci: quelli ai quali si estorcono le risorse per erogare le paghe politiche. Sono i seguaci che potremmo definire dominati…A costoro normalmente la classe politica dà una protezione che possiamo definire ‘negativa’. È la protezione nei riguardi di se stessi: consiste nel garantire la sopravvivenza… Costoro, in cambio della sopravvivenza, devono prestare un tributo. Nei sistemi politici dei giorni nostri c’è la possibilità di un’osmosi continua fra questi due strati, tra la prima e la terza fascia, per cui di volta in volta il seguace ‘non attivo’, quello che non fa politica, può diventare temporaneamente un seguace dominato soggetto a tributo” (il corsivo è mio).

Cosa, della situazione attuale, può ricondursi, con qualche adattamento alla tripartizione di Miglio? Nel lungo periodo (cioè prima dell’emergenza pandemica) i connotati della divisione erano più sfocati (a parte le nebbie della propaganda, che contribuiscono a ciò). Così l’inefficienza della burocrazia, parte necessaria dell’aiutantato (anche se spesso non ritenuta tale), che invece ora è evidenziata perfino da coloro che hanno contribuito a renderla tale, con nomine, norme e direttive, per cui le rendite dalla stessa percepita appaiono ancor più sproporzionate alla produttività della stessa. Così per le prestazioni rese ai seguaci non attivi, come (ancora) quelle delle pubbliche amministrazioni e della giustizia. A tale proposito nel celebrare l’anno giudiziario 2021 i responsabili dei principali uffici giudiziari hanno informato che la già scarsa produttività della giustizia italiana è calata, causa pandemia, di quasi un terzo. Ma ancor più, le misure prese per fronteggiarla, hanno confermato l’intenzione ostile verso i lavoratori autonomi almeno di una frazione della classe politica; quella che si autorappresenta come “sinistra” o “centrosinistra”. La combinazione di chiusure forzate (per lo più necessarie) e ristori minimi o inesistenti, mostra (almeno) il totale disinteresse verso le condizioni di vita di buona parte degli italiani, e la (radicale) differenza rispetto agli altri, il cui trattamento, rispetto all’emergenza, è di gran lunga più favorevole.

Tale contestazione consente da un lato di confortare le considerazioni del politologo lombardo che le rendite politiche sono fattore decisivo della collocazione e dal trattamento delle classi all’interno della sintesi politica; dall’altro che la regolarità dell’amico-nemico non è limitata al campo esterno alla sintesi (cioè al rapporto con altra sintesi, ovvero, per lo più Stati esteri), ma si proietta anche all’interno, come d’altra parte, rilevato già da Schmith, e, più in generale, dal pensiero politico, soprattutto realista (Machiavelli compreso).

In conclusione: se ora appare evidente che buona parte del popolo italiano scende in piazza per affermare il proprio diritto all’esistenza economica e sociale (se non addirittura fisica), questa non è che la reazione ad una intenzione ostile (v. Clausewitz) che parte della classe politica, quella che è stata quasi sempre al governo negli ultimi dieci anni, ha manifestato e praticato, prima più occultamente e misuratamente, ora in modo più evidente e smisurato. Per cui se a tale intenzione ostile, si reagisce da parte dei dominati in modo più energico e manifesto, non se la possono prendere con i dissidenti attivi.

In fondo vale per ogni conflitto quel che Francisco Suarez pensava per la guerra: bellum defensivum semper licitum; chi si difende e difende la propria esistenza politica, economica e sociale non fa nulla di illecito.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] V. “Quale migliore, più concreta, immediata e palpabile garanzia esiste se non quella di una paga pubblica, di uno stipendio garantito politicamente? Comunque andranno le cose, comunque andrà il mercato e si evolverà la situazione economica, la paga verrà ricevuta. Al limite, la garanzia verrà assicurata anche stampando moneta non sorretta da un corrispettivo di valore e quindi si estorceranno risorse all’intera comunità per poter disporre  dei segni monetari necessari al pagamento della paga politica” Lezioni di politica, Scienze della politica, Bologna 2011, p. 334.

Multinazionali e politica_un seminario organizzato da Socint e Unical con Dario Fabbri e Mario Caligiuri

“Multinazionali e politica” è il titolo assegnato ad un seminario organizzato da Unical (Università della Calabria) e Socint (Società di intelligence) tenutosi lunedì 12 aprile. Il titolo richiama un tema ricorrente e ampiamente dibattuto negli ambienti accademici, tra gli analisti e negli ambienti politici, compresi quelli più radicali. Le chiavi di interpretazione delle dinamiche che intercorrono tra i due ambiti, offerte dai due relatori, in particolare da Dario Fabbri, sono molto meno scontate in particolare nel panorama politico italiano.

Dario Fabbri di fatto riconosce al Politico, nella accezione di ambito, una funzione prevalente la cui prerogativa è la pervasività nei vari ambiti delle attività umane, compresa quella economica, piuttosto che la sua delimitazione comprendente in pratica l’intero spazio pubblico alternativo a quello privato e nella vulgata rispetto alle imprese. Da qui la subordinazione dei soggetti economici e delle loro logiche, comprese quelle delle multinazionali, agli indirizzi e alle manifestazioni di potere politici dei quali gli apparati statali sono la più grande espressione. Non è il capitalismo, né sono i capitalisti a determinare in assoluto le scelte politiche. I loro soggetti fanno certamente parte a pieno titolo dei vari centri decisionali in cooperazione e conflitto tra di loro, capaci di innervare i gangli istituzionali pubblici e privati; ma ne sono solo una parte. Per agire in quanto capitalisti, però, necessitano di regole, norme, strumenti persuasivi e coercitivi dei quali altri sono titolari.

Sulla base di queste chiavi interpretative viene meno quella sovradeterminazione del capitalismo, tanto più dei singoli capitalisti, siano essi proprietari o manager, rispetto all’azione dei politici, specie di quelli detentori delle leve istituzionali. Laddove questa sovradeterminazione dovesse apparire si tratterebbe più che altro di un inganno e tuttalpiù della manifestazione di debolezza e dipendenza politica e geopolitica di determinate formazioni sociali rispetto alle altre. L’Unione Europea ne è l’esempio più manifesto.

Non si tratta di negare l’importanza cruciale dell’affermazione di questo rapporto sociale di produzione, come definito da Marx meglio di altri, quanto piuttosto di ricollocarlo rispetto all’essenza del politico. Il rapporto capitalistico costituisce una delle basi fondamentali sulle quali si conformano i ceti sociali e quindi le classi dirigenti e poi ancora i centri decisionali; contribuisce significativamente ad alimentarne la dinamicità e il ricambio. Tutte prerogative ampiamente riconosciute da tutti, nel bene e nel male e in grado di garantire ad esso un futuro ancora senza scadenze; riconosciute di fatto anche da coloro i quali continuano a definirsi “anticapitalisti” quando in realtà essi stessi, al pari degli avversari/nemici, propugnano di fatto la regolazione di quel modo di produzione senza per altro riuscire a ridefinire sino in fondo il legame culturale e soprattutto “sentimentale” con i propri padri, che si chiamino Marx, Lenin, Mao e così via. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

NB_ Non è stato possibile fornire una versione “You tube” della registrazione, probabilmente per la dimensione del file o per mia imperizia. La registrazione su “rumble” comprende sia l’intervento di Dario Fabbri di circa 80 minuti che il successivo di Mario Caligiuri. Per l’ascolto, premere sul link qui sotto

https://rumble.com/vfnm5n-multinazionali-e-politica-con-dario-fabbri-e-mario-caligiuri.html

IL CONFLITTO PERMANENTE COME CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE, di Pierluigi Fagan

IL CONFLITTO PERMANENTE COME CULLA DEL NUOVO MONDO MULTIPOLARE.

Le scienze sociali che usano come unità metodologica lo stato, ovvero le Relazioni Internazionali e la Geopolitica, non potendo fare esperimenti di verificazione delle teorie, si accontentano di sostenere la loro “scientificità” verificando quanto una teoria si adatti ad eventi storici pregressi. La “Storia” è l’unico dato empirico di validazione delle interpretazioni, fatto già di per sé bizzarro visto che: a) la storia è sempre una narrazione stesa su eventi ben più complessi; b) l’interpretazione ovvero la teoria è, a sua volta, un riduzione della narrazione storica.

Oltre a queste due sospensive ce ne è una ancora più determinante. Se accettiamo come quadro di riferimento macro-storico, ovvero di lunga durata,  il fatto di trovarci in una transizione epocale che ci sta portando dall’epoca moderna ad un’altra che ancora non ha nome sebbene cominci a mostrare una sostanza chiaramente complessa, questo ricorso al passato rischia di basarsi sulle pericolose “false analogie”.  Il ricorso al conforto di come si sono comportati gli stati nel passato al presentarsi di schemi di ordine di tipo multipolare è naturale vanga fatto, ma da quei confronti dovremmo trarre indicazioni molto relative, deboli, indiziali, poco probanti. Non siamo nella linea di uno sviluppo continuo della stessa traiettoria, siamo nella frattura profonda di un modo con un altro e quindi siamo in terra incognita dove la passata esperienza ha valore marginale.

Il che ci porta a dover trattare daccapo il concetto di “multipolare”, prima  in astratto, poi in concreto e nel concreto distinguendo i casi in cui applicarlo al passato o allo stato presente/futuro. Il fine è quello di trarne una interpretazione contemporanea ed una luce che tenta di fendere le nebbiosità dell’immediato futuro.

In astratto, il concetto di “multipolare” dice che in un dato spazio-tempo, si presenta una configurazione d’ordine con più di due attori statali potenti (poli), legati  tra loro da molteplici relazioni di potenziale offesa-difesa o equilibrio, equilibrio che va inteso sempre in modo dinamico. Il concetto s’inscrive nelle premesse del tipico contesto realista ovvero un mondo ritenuto anarchico (non “disordinato”, ma privo di legge superiore ed entità in grado di applicarla, anche con la forza, a tutti), competizione a somma zero (se un polo assume più potenza, qualche altro la perde), gli stati si comportano in maniera razionale, le potenze tendono a massimizzare il loro potere (fino ad oggi non si son presentate potenze che s’accontentano), nessuno stato può esser certo delle intenzioni di un concorrente, la potenza -in ultima istanza- s’intende in senso militare ed infine, il fondo “tragico” cioè la constatazione che la guerra è un modo della politica ed è storicamente una costante.

La teoria realista in Relazioni Internazionali (la dottrina liberale non la pendiamo neanche in considerazione poiché a nostro giudizio infondata e con una componente eccessivamente ideologico-normativa) ha opinioni di giudizio diverse sul sistema multipolare astratto. Per Hans Morghentau (realismo della natura umana) i sistemi multipolari tendono ad auto-stabilizzarsi e sono l’ideale per raggiungere l’equilibrio di potenza. In più, la dinamica di compensazione per la quale se un polo tende ad emergere un po’ troppo o manifesta comportamenti non equilibrati tutti gli altri si alleano per compensarlo, renderebbe questo ordine complesso ma sostanzialmente stabile o forse stabile proprio perché complesso e dinamico. Questo bilanciamento è detto “equilibrio di potenza” e se manca, porta disordine in via automatica, cioè date le premesse realiste. Kenneth Waltz (realismo difensivo) contestava decisamente questa fiducia di Morghentau, sostenendo che l’unico ordine stabile e stabilizzante è il bipolare e quello multipolare è prima o poi soggetto a rottura di simmetria, quindi catastrofe. Infine, John Mearshemeir (realismo offensivo), concorda in pratica con Waltz e poi fa una classificazione con il bipolare più stabile del multipolare ma questo poi distinto in equilibrato che è migliore della peggiore configurazione possibile ovvero il multipolare con uno o più poli superiori a gli altri, il multipolare sbilanciato. L’intera classificazione andrebbe poi dinamicizzata tra ascendenti e discendenti perché se un ordine sembra multipolare in statica ma uno dei poli era l’egemone e uno degli sfidanti sta crescendo velocemente in potenza, le cose certo cambiano. Così cambiano se si dà un occhio alle future prospettive di medio periodo. L’ordine più stabile tipo “pace perpetua” è quello unipolare dove c’è un solo polo detto “egemone”, ma è del tutto teorico in quanto non si è mai presentato nella storia del mondo con tassi demografici inferiori, figuriamoci oggi o domani con 7,5 o 10 miliardi di individui e più di 200 stati con tendenza ad aumentare. L’impero-mondo è più un fantasma metafisico, cosa che la nostra mente può pensare ma che non per questo può essere davvero.

I dolori più intensi e seri per il concetto di multipolare, arrivano però quando si passa dall’analitico al sintetico, quando si va ad applicare la teoria alla realtà empirica. Tra i casi di multipolare rinvenuti più spesso nel registro storico, compaiono l’Italia rinascimentale del centro-nord e l’Europa del XIX secolo a 5 – 7 poli (Russia, Austro-Ungheria, Francia, Inghilterra, Impero ottomano e poi Prussia/Germania ed Italia) ma si sarebbe potuto anche considerare il periodo degli Stati combattenti nella Cina del V-III secolo a.C.  o la Grecia Antica da cui invece alcuni traggono il concetto bipolare della “trappola di Tucidide” per dar lustro con tono colto ai commenti sulla competizione odierna USA (potenza di acqua quindi Atene)  vs Cina (potenza di terra quindi Sparta). Il riferimento all’Antica Grecia è oltretutto doppiamente sbagliato perché per altri versi Atene e Sparta non erano sole e quindi non era un semplice ordine bipolare ma tanto quando si prende di così gran carriera la strada dell’analogia a tutti ci costi, i costi di semplificazione si pagano in imprecisione.

Cosa c’è di così scandalosamente impreciso in questo ricorso al registro storico? La mancanza delle variabili co-essenziali per ogni ricostruzione di fase storica, il contesto e la eterogeneità degli attori.

Quanto all’eterogeneità, l’ordine multipolare diventa una costruzione strutturalista nella scuola realista americana che (si tenga conto  che tutti i pensatori e le idee che animano la disciplina delle RI, sono sempre e solo americani), come dice Mearsheimer, tratta gli stati o potenze come palle da biliardo, al limite più o meno grosse a seconda della potenza. Mearsheimer e tutti i realisti hanno buone ragioni per far diventare gli stati scatole nere di cui c’importa solo l’imput e l’output, ed è il rifiuto di seguire i liberali nelle loro assurde perorazioni sul fatto che le forme di governo interne a gli stati (democrazie vs varie configurazioni di autoritarismo) farebbero la differenza. Ma se i liberali rendono un po’ assurde le considerazioni sulla struttura a grana fine che distingue gli stati tra loro (struttura che si dovrebbe invece dettagliare per: grandi o piccoli? di terra o di mare? con che tipo di demografia, economia, mentalità e tradizioni, collocazione geografica, tradizione filosofico-religiosa e scientifica? a quale punto del loro ciclo storico? etc.), nondimeno queste strutture a grana fine vanno analizzate per capire la natura degli attori prima di portarli dentro le analogie. Gli stati non sono gli atomi della fisica realista, sono entità intenzionali ed autocoscienti.

La mancanza decisiva è però il non considerare il contesto. Tanto per dire una sola, unica e principale, questione che differenzia l’ordine multipolare del mondo di oggi rispetto a qualsivoglia porzione del mondo di ieri, è che quelle di ieri erano appunto “porzioni”, quello di oggi è un “tutto” che non ha un fuori. Non c’è un altro mondo in cui far sfogare le contraddizioni dell’attuale mondo multipolare mentre l’Italia rinascimentale era solo un ritaglio di un frame più grande in cui c’erano la Francia, la Spagna, lo Stato Pontificio, il Sacro Romano Impero ed il Mediterraneo, mentre nell’Europa del XIX secolo c’era la corsa alle colonie ed a gli imperi fuori d’Europa. Entrambe erano situazioni occorse in ambiente omogeneo (italiano o europeo) mentre oggi abbiamo attori molto più eterogenei e distanti nello spazio (tra Cina ed USA c’è un oceano, ad esempio, nonché più di due millenni e mezzo di differente longevità). Entrambe le situazioni erano a bassa interdipendenza tra gli attori mentre oggi l’interdipendenza è alta. Entrambe le situazioni erano a bassa o media demografia mentre oggi il mondo è al sua massimo storico di densità, così l’economia che con la demografia fornisce le coordinate del potere potenziale ma non ancora effettivo, ha oggi peso e dinamiche non parametrabili a ieri. E sul potere effettivo, quello delle armi, che differenza fa un multipolare atomico che ha almeno due poli legati tra loro dalla fatidica Mutual Assured Distruction (MAD) ma con un generico “rischio atomico” anche più ampio e diffuso? O anche solo la potenza annichilente dell’armamento “convenzionale” attuale rispetto a gli esempi pregressi? O come agisce il fattore reputazionale in epoca di opinioni pubbliche che fan da spettatori, prima che attori, dei giochi politici inter-nazionali ma i cui giudizi condizionano l’azione dei governi?

Insomma, siamo come detto in terra incognita, lì dove il ricorso all’esperienza precedente non è vietata ma va usata con un molto ampio beneficio d’inventario perché nell’inventario ci sono variabili che rendono falsa l’analogia.

Dirigiamoci quindi con prudenza ad esaminare la nuova versione di sistema multipolare mondiale a cui stiamo tendendo. C’è un’unica super potenza, gli USA e due potenze asimmetriche, una militare -la Russia-, l’altra economica -la Cina-. Chi usa i meccanismi tipici delle tradizioni di pensiero di RI o GP, a questo punto prevede che i poteri potenziali della demografia e della economia cinese, questione di tempo, verranno presto trasformati in potenza militare. Ma c’è qualcosa che potrebbe ostacolare questa predizione, almeno nella sua forma lineare.

Primo, memore della lezioni data dalla guerra fredda, la Cina starà ben attenta a non farsi trascinare nell’over-spending militare a scapito del reinvestimento nello sviluppo e nella ridistribuzione. Solo un analista da think tank americano può sottovalutare il problema delle eccessive diseguaglianze in un sistema di 1,4 mld di persone, errore che nessun cinese che conosca la storia cinese, farà mai.

Secondariamente, la Cina starà ben attenta a non eccitare l’altrui “dilemma della sicurezza”, ovvero quella situazione di incertezza per la quale ogni stato sa che se eccede nella crescita delle dotazioni militari, fossero anche per difesa, non essendo escludibile in alcun modo che ciò che oggi si crea per difesa domani possa esser usato per offesa, altro non fa che sollecitare pari riarmo nei vicini. Oltretutto, la Cina ha bisogno a prescindere di pace ed armonia nel suo quadrante strategico perché la sua principale linea strategica è sviluppare  reti commerciali. Inoltre è suo fine specifico proporsi come “potenza amica” in modalità “cooperazione e reciprocità” ad esempio nei confronti dell’Africa, evitando rozze intenzioni coloniali, aggressive o eccessivamente egoiste. Preoccupazione che poi andrebbe anche allargata poiché la Cina tende ad attrarre “clienti” prima nella sfera occidentale e quindi deve dare qualcosa in più o di meglio. Le dichiarazioni pubbliche di come la Cina vede le interrelazioni estere sono oggi -più o meno-  le stesse dalla Conferenza di Bandung del 1955 e per molti versi sembrano credibili, non per superiorità etica ma per intelligenza strategica di cui i cinesi sono dotati da un paio di millenni prima di von Clausewitz.

Infine, stante che la Cina non è attaccabile via mare dagli USA (potere frenante del mare) e dal Giappone, ha stretto un sostanziale accordo di cooperazione a largo raggio con la Russia (nel passato l’unico vero nemico potenziale dal punto di vista geografico e qualche volta storico) e sembra intenzionata ad avere relazioni amicali-sospettose ma in sostanziale equilibrio con l’India, la sua dotazione di potenza effettiva può limitarsi a rinforzare la marina, la presenza nello spazio, l’elettronica ed il digitale, porre qualche avamposto discreto in giro per il mondo, senza mettersi a sfornare carri armati e missili a nastro. Si tenga poi conto che la Cina è molto grande e popolosa e credo che l’ultimo desiderio dei suoi governanti sia quello di annettere altri territori e popolazioni, ingigantendo un problema già difficile di gestione della sua propria massa. Se la terra manca, meglio comprarla come stanno facendo in Africa o favorire una discreta diaspora come in Siberia orientale.

Gli altri due attori in che traiettoria stanno? La Russia, potenza di mezzo dell’Eurasia, posizione al contempo comoda e  scomoda strategicamente, è da ormai settanta anni oggetto di pressione da parte USA per rimanere avviluppata nella escalation di potenza militare che per lei si trasforma in un “a scapito” del progresso economico. Salvata dalla dotazione di energie e molte materie prime e sovrana alimentarmente, la Russia segue questa escalation per via dell’ovvio riflesso di sicurezza. Ma anche per via dell’interesse ad approfittare degli eventuali cedimenti delle vicine ex repubbliche già interne all’URSS che ha interesse a riportare sotto la sua sfera di influenza, per via del far virtù della necessità di produrre armi poiché sono anche beni per l’export (export che poi lega a sé eventuali partner), per via dell’importanza che storicamente ha all’interno del suo sistema di potere la burocrazia militare ed infine, per via della necessità di supportare alla bisogna alleati periferici a loro volta messi sotto pressione dagli americani. Fintanto che gli europei rimangono dentro il sistema occidental-atlantico, la Russia difficilmente si svincolerà da questa traiettoria. In prospettiva, in Russia si libererà molta terra (per via del riscaldamento globale), il che, in un mondo sempre più denso ed affollato e stante che la Russia è uno dei paesi a più bassa densità abitativa del mondo (nonché in assoluto il più grande), non è una cattiva prospettiva fatti salvi gli ovvi problemi di gestione, logistica ed integrazione di eventuali migrazioni. Per la stessa ragione, la regione polare prospiciente la costa settentrionale, diventa nuovo quadrante “caldo”.

Gli USA sono in una posizione di potenza effettiva, cioè militare, molto lontana dal poter esser insidiata da alcuno. Di contro, la loro pur ragguardevole demografia, è ben superata sia dalla Cina che dall’India, ma in prospettiva, insidiata  anche dalle crescite dei più periferici ovvero l’Indonesia, il Brasile, la Nigeria. Una volta che questi paesi, come sta succedendo con Cina ed India, si metteranno a convertire demografia in crescita economica, anche questo secondo aspetto che l’ha vista a lungo leader senza competitor, diventerà relativo. Si tenga poi conto di alcune altre variabili.

Una è la “rendita di cittadinanza” ovvero il contributo del più ampio sistema di cui si è polo, del sistema occidentale complessivo nella storia pregressa, del sistema asiatico e del sistema africano oggi ed in prospettiva. Il “centro del mondo” si sta già velocemente spostando verso oriente e questo tenderà a limitare le condizioni di possibilità per gli USA, a prescindere da quanto questi saranno in grado di puntellare i loro punti di forza e minimizzare quelli di debolezza.

Un’altra variabile da tener d’occhio sono  le soglie critiche, invisibili punti nei quali i sistemi che si stanno espandendo o contraendo, subiscono una accelerazione non lineare del moto tendenziale. Gli USA possono senz’altro assorbire una riduzione del loro peso di Pil sul totale mondiale ma ci sono appunto soglie oltre le quali gli effetti di contrazione non sono lineari, si pensi, ad esempio, al ruolo mondiale del dollaro ed a gli effetti a cascata che avrebbe anche solo una sua relativa limitazione.  Su questa resilienza nella contrazione, agisce poi in forma problematica, la strana configurazione della scala sociale statunitense che ha una élite assolutamente fuori norma e quindi idiosincratica ad ogni decrescita.

Poi c’è il disordine in cui chi è abituato a competere entro quadri legali e normativi, di norme visibili o invisibili ed in ambienti che per quanto anarchici hanno comunque infrastrutture ed istituzioni multilaterali, potrebbe faticare ad orizzontarsi in un ambiente molto meno regolato e supportato. Poiché -in macro- stiamo transitando da un mondo relativamente più semplice ad uno relativamente più complesso, la complessità diventa essa stessa un problema per chi intende garantirsi un potere così sproporzionato come quello a cui sono abituati gli americani. Di contro, si può anche ipotizzare un interesse ad accompagnare ed anzi, alimentare un certo disordine globale per alzare la domanda di “protezione”. Ma in questo caso, è molto dubbio il poter riuscire a prevedere e quindi governare tutte le dinamiche disordinanti che intenzionalmente si vorrebbero promuovere.

Infine, la vera palla al piede della potenza americana ovvero l’Europa, una Europa testardamente frazionata, bizantina, anziana,  viziata, sospesa in una bolla che riflette la sua eccezionale storia specifica ma la isola da un mondo del tutto nuovo che gli europei sembrano non comprendere realisticamente del tutto. A partire dall’ovvia constatazione che in un ordine multipolare così dinamico, l’Europa non è una potenza e non è neanche un soggetto in termini di politica estera oltreché essere economicamente e demograficamente frazionata, non esser cioè un “totale più della somma delle parti”. Condizione quest’ultima a cui si ritiene di poter far fronte con il vuoto slogan degli “Stati Uniti d’Europa” che non ha la minima condizione di possibilità di veder mai luce e sopratutto funzionare. Questo far fronte al grande problema adattivo di questa parte di mondo usando slogan che non vanno da nessuna parte, rinforza la diagnosi di disadattamento degli europei ai tempi che vengono.

Il mondo multipolare che si sta affermando, ha anche molte medie potenze, potenze regionali e qualche significativa piccola potenza locale in grado di ostacolare giochi che una volta i geografi imperiali britannici progettavano al calduccio dei protetti salotti londinesi sorseggiando il loro tè rituale. Per segnare le cartine del mondo, oggi servono cose un po’ più complesse che non le matite. Più in generale, questo mondo tende alla convergenza degli indici economici (veniamo dalla grande divergenza ma andiamo verso la grande convergenza tra grandi aree), crea reti regionali più dense delle reti genericamente globali, tende al pluralismo dei grandi enti internazionali (banche, investimenti, culture, tradizioni, ambiti di cooperazione, piazze finanziarie, forum diplomatici), offre alternative a quello che prima era un monopolio, pone le economie che si emancipano da posizioni primitive in grande vantaggio dinamico rispetto alle economie mature, oltre a tutte le varie e preoccupanti articolazioni del problema ambientale, semplice da citare ma molto complesso da descrivere. Infine, le grandi cornici ideologiche che legavano élite e popoli nazionali intenti nell’opera di “civilizzazione” del colonialismo e dell’ imperialismo europei, l’afflato repubblicano dei napoleonici, il fascismo, il nazismo, il comunismo ed il liberalismo con i loro antagonisti simmetrici che animarono il ‘900, sono assai depotenziate e non si vede chi altro potrebbe prenderne il posto a parte qualche gruppo di islamisti suicidi finanziati dall’Arabia Saudita. Si può come senz’altro si sta facendo con la Russia, nazificare il nemico dirigendo le fila del concerto mediatico, ma da qui a poterci far perno per convincere le opinioni pubbliche dell’inevitabilità di una guerra diretta ce ne corre.

A quale tipo di ordine multipolare ci avviamo, quindi? E come si comporterà, almeno all’inizio, il sistema multipolare in un mondo denso ed intrecciato, un sistema che per la prima volta è multi-atomico e quindi soggetto a più vincoli di “reciproca, distruzione assicurata” (sempre che si voglia continuare a sottostimare il potenziale bellico convenzionale che per molti aspetti non gli è secondo)? Il quadro prima disegnato ha sintesi nella definizione di “multipolare sbilanciato” in cui la superpotenza americana non può certo sperare di aumentare raggio ed intensità del proprio potere, non può accontentarsi di uno status quo perché comunque trascinata in basso dalla dinamica tra le parti del sistema mondiale e deve quindi resistere il più possibile nel mantenere i propri ancora significativi vantaggi, nel mentre tenta di rallentare l’ascesa degli sfidanti. Deve farlo nel quadro problematico dello stato del mondo prima accennato e con una gran proliferare di attori medi e piccoli che seguono ognuno una propria traiettoria. Ancora con una leadership solida nel potere effettivo (militare), il problema americano risiede nel potere potenziale, nel rapporto tra il suo essere meno del 5% della popolazione mondiale con un potere economico che ancora domina il 25% dell’economia mondiale anche sulla scorta di un ancor più ampio potere finanziario.

Il vincolo della reciproca distruzione assicurata, per gli USA, vale non solo verso i russi ma anche i cinesi poiché è chiaro che questi due, al di là della loro reciproca competizione per altri versi naturale essendo vicini, avendo punti di forza complementari, hanno ben chiaro il comune interesse, loro e di molti altri, a che si stabilisca un vero quadro multipolare bilanciato. La crescita della loro attuale cooperazione è di fatto un’alleanza difensiva non detta. Cina, India, Sud Est asiatico, Pakistan, le due Coree, l’Africa e il Sud America hanno tutti interesse a non imbracciare le armi nel mentre crescono economicamente e socialmente. Anche la Russia, se potesse,  avrebbe urgenza di dedicarsi di più al suo sviluppo piuttosto che dissanguarsi nella rincorsa di potenza col gigante americano. Da questo corso, non sarebbero in teoria distanti, se fossero liberi da condizionamenti di altro tipo, neanche i giapponesi e gli europei. Gli unici che davvero hanno interesse a far pesare nel quadro la super potenza di cui sono ancora proprietari sono gli Stati Uniti d’America e qualche potenza locale in Medio Oriente.  Si potrebbe leggere l’intero quadro come un film della transizione tra un assetto sbilanciato ad uno più bilanciato e quindi segnato dalla sfida economica degli ascendenti verso il discendente americano che resisterà in tutti modi. Ma come, se in ultima istanza il conflitto diretto è sconsigliato dal vincolo atomico?

Quello nel quale siamo già immersi è un sistema multipolare sbilanciato con conflitto permanente. Potremmo dar nome a questa interpretazione come nuovo “realismo complesso”, un realismo che reinterpreta le costanti storiche all’attualità del mondo di oggi profondamente diverso da quello di ieri. “Conflitto” prende qui un nuovo significato che include varie forme di confronto armato ma non è riducibile solo a quello, prende il posto della guerra tradizionale dilatando però il fronte ed il tempo della tenzone. Oggi le potenze si muovono in uno scenario multidimensionale.

Il fattore demografico, la stazza, la massa di un attore, fattore sempre importante, oggi può diventare decisivo e non solo più per alimentare la propria potenza effettiva cioè armata, ma anche per il corrispettivo di crescita economica. Diventa anche un’arma nel caso di procurate migrazioni da paesi terzi verso coloro che si vogliono mettere in difficoltà. Queste migrazioni indotte si creano facilmente con le guerre per procura che oltretutto sono un vivace mercato per la sovrapproduzione dell’industria militare di cui è dotata ogni potenza. Ogni produzione ha un mercato e se la prima è maggiore del secondo, il secondo va sollecitato ad ampliarsi e/o intensificarsi. Questo gioco periferico che non riguarda il confronto diretto tra potenze, ha poi il vantaggio di tenere occupato il nemico dietro gli alleati che combattono i nostri amici in quel specifico teatro e quindi rinforza i legami di amicizia e dipendenza interni al polo. Il mondo è pieno di minoranze, popoli senza stati, confini precari disegnati dai francesi o dagli inglesi nel periodo coloniale, il catalogo delle occasioni di conflitto potenziale è molto ampio. I popoli sono molti di più degli stati e quindi il gioco delle nazioni in cerca di sovranità è facile da attivare.  L’ideologia islamista è un potente alleato di questa strategia per chi ha lo stomaco di usarla mentre sbraita nel simularne il contenimento. Incidenti in acqua o in aria possono sempre accendere l’attenzione su qualche quadrante di mondo e mandare messaggi che sfruttano la naturale paranoia da sicurezza di qualsiasi stato, specie se potenza emergente o alleato debole del polo nemico. Gli incidenti procurati possono essere ottime scuse per elevare sdegno morale propedeutico a più prosaiche sanzioni, dazi commerciali, blocchi navali, interdizioni dello spazio aereo. Molto conflitto non è pubblico ma si avvale delle consuete reti spionistiche e contro-spionistiche ed oggi c’è tutto un campo nuovo in cui giocare a rubarsi segreti e dati, la rete di tutte le reti. C’è poi lo spazio, nuova frontiera per novelli capitani Kirk, satelliti che scrutano, lanciano raggi accecanti o distruttori, coordinano l’ingegneria e l’elettronica dei nuovi sistemi militari soprattutto missilistici e navali. Conflitto è anche mostrare nuove armi che solleticano i generali della parte avversa che chiedono fondi ulteriori per pareggiare i conti disegnando sciagure e tragedie certe ed altrimenti inevitabili, anche perché potranno far leva politica sull’opinione pubblica in stato perenne di sovreccitata paura. Anche solo nell’accezione puramente armata del “conflitto”, evitando il confronto diretto, ci sono molte occasioni in modalità indiretta. Se la linea strategica obbligata è frenare il ribilanciamento tra potenze, cosa meglio di un attrito distribuito ovunque?

Poiché però il conflitto è “multidimensionale” ecco anche la sua versione  economica e produttiva ma anche politica e di opinione. I tentativi di monopolio energetico o di materie prime tutte essenziali, anche e soprattutto quelle per lo sviluppo del digitale che ha il fronte commerciale ma anche quello militare ed aerospaziale. Seppellita la globalizzazione semplice 1.0, si va ad una rete di contrattazioni, aperture-chiusure, formazione di blocchi in un sistema dotato di vari sottosistemi, quindi più complesso. Poi c’è il conflitto finanziario, società di rating, grandi fondi in grado di scuotere il mercato a bacchetta, l’altalena dei cambi valutari, i ricatti su i debiti sovrani.

Poi c’è l’egemonia culturale, mostrarsi i migliori, i più attraenti, i più benevoli quindi far di tutto per mostrare che il nemico è tra i peggiori, fa moralmente ribrezzo, è repellente e malevolo, infingardo, non ha legittimità. Ci sono i boicottaggi, il rinserrare le fila delle proprie istituzioni multilateriali,  i propri fondi monetari, le banche per lo sviluppo, i progetti di cooperazione da cui ostracizzare il nemico ed i suoi amici. Poi c’è da far uscire scandali a ripetizione, fondi neri, paradisi fiscali improvvisamente sotto i riflettori per una settimana, uso di armi proibite, leader nemici dai dubbi gusti sessuali, storie di droghe, perversioni, bugie dette, inaffidabilità degli altrui standard, sgarbi diplomatici, fake news per avvelenare la credibilità generale di tutti indistintamente in modo da paralizzare il discorso pubblico. C’è il controllo digitale e il ricatto (quello pubblico ma molti altri di cui neanche abbiamo notizia), il divide et impera, il bait and bleed (falli scannare tra loro), il dissanguamento economico del nemico stressato in decine di micro-conflitti, il più composto bilanciamento di potenza e lo scaricabarile in cui si lascia la nemico l’ònere e l’onore di districare matasse che si sono ben aggrovigliate con le proprie mani e che si disordinano mentre l’altro tenta di metterle in ordine. Poi c’è l’arte di mettere zizzania dentro gli equilibri del nemico, militari contro politici, imprenditori contro militari, società civile contro élite, varie élite contro altre élite, eccitare i nazionalismi dormienti e poi far chiasso per ogni ingiusta repressione delle minoranze, far confliggere le diverse osservanze religiose. Sovreccitare i vicini del nemico, mettere in dubbio i legami di alleanza dentro un polo, isolarlo, stringergli le condizioni di possibilità, acuirne le contraddizioni.

Infine, per palati forti,  c’è l’angolo si dice ma non ci si crede del Dark Word, innesti uomo-macchina, psicobiologia, manipolazione del clima, agenti tossici selettivi, avvelenamenti alimentari ed epidemie progettate in laboratorio, piani segreti, oscure congreghe, centri di interesse invaginati in centri di interesse, bio-chimica aggressiva e molto molto altro che noi, pur mediamente informati, neanche immaginiamo. Prima di dubitare a priori all’entrata di questo Dark World come se il mondo fosse proprio quello proiettato sullo schermo del cinematografo che scambiamo per realtà,  collegatevi a quella vostra porzione di cervello che è inorridita a leggere il sadismo medioevale o la scientifica atrocità dei nazisti o dei khmer cambogiani, i vari stermini dei nativi, storie di schiavi, stupri, impalamenti, sqartamenti, profanazioni, eccidi, massacri, olocausti e tutta la scienza e tecnica che si è spremuta per giungere a quel risultato. L’uomo è sublime e malvagio da sempre, non c’è motivo di escludere a priori l’esistenza di una costante preparazione al conflitto anche nei dungeon del mondo degli inferi. Oltretutto, questa ricerca silenziosa del primato che darebbe qualche vantaggio non calcolato dal nemico, dà poi una cascata di benefici secondi di invenzioni sfruttabili civilmente.

lnsomma il conflitto è da intendere in forma multidimensionale e diventa permanente poiché non si apre-chiude con una guerra tradizionale, diventa la cifra stessa di un sistema multipolare che alcuni vorranno riportare a bipolare o quantomeno mantenere sbilanciato mentre altri vorranno portarlo a bilanciato per poi farsi venire l’appetito di esser loro la nuova super-potenza che lo sbilancia dandosi un vantaggio di potenza. Il vincolo atomico non porta la pace perpetua ma il conflitto permanente e diffuso a medio-alta intensità. Questa è la condizione di un pianeta a prossimi 10 miliardi di abitanti in lotta, chi per la sopravvivenza e chi per il primato gerarchico, chi per l’essere e chi per l’avere.

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Questo è il mondo multipolare a cui dovremmo adattarci, in cui ci piaccia o meno, tutte le nostre preoccupazioni ed interessi, personali e collettivi, politici ed economici, ideali e pragmatici, i nostri sogni e le paure, le speranze e le delusioni, saranno tutte per vie che molti non vedono con chiarezza e molti non vedono per niente, determinate da questo che è il gioco di tutti i giochi. Noi tutti, dentro i nostri stati, siamo le pedine. Siamo più in modalità, lunga e continua sofferenza e crescente disordine dall’esito imperscrutabile, che morte rapida e violenta da “terza guerra mondiale”. Questo è il conflitto permanente che segnerà il gioco di tutti i giochi di questa prima fase del nuovo mondo multipolare e con questo dovremmo fare realisticamente i conti scegliendo il nostro modo di stare al mondo prima che sia il mondo strattonato dai giochi di potenza, a deciderlo per noi.

Bibliografia minima:

H. Morghentau, Politica tra le nazioni, Il Mulino 1997 (introvabile)

K. Waltz, Teoria della politica internazionale, il Mulino 1987

J. Mearsheimer, La logica di potenza, UBE 2003-8

B. Milanovic, Ingiustizia globale, Luiss 2017

G. Arrighi, Caos e governo del mondo, Bruno Mondadori 2006

C. Kupchan, Nessuno controlla il mondo, il Saggiatore 2013

H. Kissinger, Ordine mondiale, Mondadori 2015

Il mito di un mondo basato su regole Pensieri dentro e intorno alla geopolitica, di George Friedman

Il mito di un mondo basato su regole

Pensieri dentro e intorno alla geopolitica.

Due concetti sono stati costantemente utilizzati negli ultimi tempi nelle discussioni sulle relazioni internazionali. Uno è un ordine internazionale liberale e il secondo è un sistema basato su regole. Nel primo, il termine “liberale” non ha molto a che fare con quello che gli americani chiamano liberalismo. Piuttosto, descrive un sistema internazionale impegnato a favore dei diritti umani, del libero scambio e dei principi correlati. Il secondo è l’idea che esista un sistema di regole concordato che governa le relazioni tra le nazioni. Insieme, si pensa che queste nozioni creino prevedibilità e decenza nel modo in cui le nazioni interagiscono tra loro.

La questione è emersa durante l’amministrazione dell’ex presidente Donald Trump, accusato di minare questi principi, ad esempio, imponendo tariffe alla Cina e mettendo in discussione il valore della NATO. La questione si ripresenta perché l’amministrazione Biden, arrivata al potere criticando le politiche del suo predecessore, ha chiarito che intende tornare a questi principi.

La domanda più importante è se sia mai esistito un ordine internazionale basato su regole o se fosse un’illusione. C’è stata a lungo una visione che il rapporto tra le nazioni non dovrebbe essere una guerra di tutti gli uni contro gli altri, ma piuttosto una cooperazione armoniosa tra gli stati. Filosofi e teologi hanno sognato di dare vita a questa visione e in varie occasioni sono stati fatti tentativi per istituzionalizzarla.

Nel 20 ° secolo, sono stati fatti due tentativi per creare un sistema di governo internazionale basato su regole e liberale. La prima è stata la Società delle Nazioni, fondata dopo la prima guerra mondiale e defunta ben prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale. Aveva delle regole, ma non c’era modo di farle rispettare, sia perché le stesse nazioni che violavano le sue regole erano membri sia, cosa più importante, perché non c’erano mezzi per farle rispettare. Adolf Hitler non è stato creato dall’ordine liberale e basato su regole, ma non ne è stato in alcun modo infastidito.

Il secondo tentativo sono state le Nazioni Unite, che sono state create per essere una Società delle Nazioni più forte. Le maggiori potenze che hanno vinto la seconda guerra mondiale sono state riconosciute come una classe speciale di nazioni e hanno ricevuto poteri speciali nel Consiglio di sicurezza. Il problema con il Consiglio di sicurezza era che sia gli Stati Uniti che l’Unione Sovietica erano membri permanenti, e l’Unione Sovietica chiedeva che ai membri permanenti fosse permesso di porre il veto alle azioni a cui si opponevano. Poiché il mondo era allora diviso tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, opposti l’uno all’altro in ogni modo possibile, il risultato era che nulla poteva essere fatto. Le Nazioni Unite non sono state in grado di far rispettare le regole e sono sprofondate in una complessa burocrazia di azioni umanitarie volte a mitigare il dolore causato dal mancato adempimento della propria missione. Tale mitigazione non era banale, ma non costituiva un sistema basato su regole.

La Guerra Fredda è stata una miscela caotica di sovversione, guerre civili, interventi e minacce di scambio nucleare. Il mondo non era affatto liberale, con l’Europa dell’Est, l’Unione Sovietica e la Cina che vivevano sotto le regole comuniste, e il Terzo Mondo, che si era liberato dall’imperialismo europeo, era intrappolato tra la manipolazione degli Stati Uniti e quella sovietica.

È difficile capire a quale sistema liberale basato su regole ci si aspetta di tornare. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, ci fu un momentaneo brivido di vedere l’era dell’Acquario salire. Ma era la stessa illusione che seguì le guerre napoleoniche, la prima e la seconda guerra mondiale. Il Congresso di Vienna, la Società delle Nazioni e le Nazioni Unite avevano tutte delle regole, ma poche furono seguite. Il Trattato di Maastricht fu firmato quando l’Unione Sovietica crollò e portò lo stato di diritto in quello che era stato uno dei luoghi più illegali del mondo: l’Europa. Ma lo stato di diritto era per l’Europa, e le regole non sono mai state così chiare come lo era il puro potere di alcuni dei suoi membri, vale a dire la Germania. È liberale ma non abbastanza liberale da comprendere l’intera esperienza europea. L’Unione europea ha regole in abbondanza e un po ‘di liberalismo per l’avvio, ma l’Europa è solo un frammento idiosincratico di un sistema globale che una volta governava.

L’era del dopo Guerra Fredda ha dato origine al radicalismo islamico, alle infinite guerre americane e all’ascesa della Cina, che aveva seguito a lungo le proprie regole, solo alcune delle quali potevano essere considerate liberali. Ad accompagnare questa epoca c’era la sensazione che ciò che contava fossero gli interessi dello stato-nazione. Ciò di cui uno Stato aveva bisogno era la sua considerazione primaria, come ottenerlo la sua ossessione. Ogni nazione determinava quanto liberalismo tollerava e, quando istruiti da estranei su come dovevano vivere, spesso rispondevano con insurrezioni.

Non può esserci stato di diritto, come disse il filosofo Thomas Hobbes, senza un Leviatano, un potere travolgente che lo imponga e lo amministri. Per un po ‘di tempo dopo il crollo sovietico, c’era la speranza che gli Stati Uniti avrebbero guidato un ordine multilaterale piuttosto che diventare il Leviatano. Gli Stati Uniti non avevano né l’interesse né la capacità di governare il mondo, ma giusto o sbagliato, non potevano sempre sfuggire ai tentativi: le potenze dominanti tendono ad agire in un certo modo se vogliono continuare a essere potenze dominanti.

E senza lo Stato di diritto, il liberalismo è sempre stato impossibile. Sono stati seguiti accordi internazionali nella misura in cui ne hanno beneficiato le nazioni e c’erano alcune organizzazioni internazionali di cui è stato utile farne parte. Ma lo stato di diritto veniva invocato quando la legge sosteneva la posizione di una nazione e il liberalismo non poteva governare un mondo che era un vasto miscuglio di credenze, tutte abbracciate appassionatamente come l’unica verità. L’ordine internazionale liberale, in altre parole, esisteva quando era conveniente. In alcuni luoghi, non è mai esistito.

L’idea che dobbiamo tornare a un’epoca gloriosa in cui le nazioni erano governate da leggi e liberalismo è una fantasia, una fantasia che ci permette di credere che possiamo tornare ad essa. È una nostalgia per cose che non sono mai state. La condizione umana lega gli esseri umani a comunità grandi e piccole che si considerano libere. Non si sottomettono a regole che non hanno stabilito, né a principi politici che non hanno creato. I greci non accettavano le regole dei persiani o il loro ordine politico. Così era allora, e così è adesso. Il mondo non cambia molto e l’unico posto in cui possiamo tornare siamo noi stessi.

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