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Inizia la definizione della prossima narrazione di fine anno: la Russia affronterà l'”esaurimento” nel 2026_di Simplicius

Inizia la definizione della prossima narrazione di fine anno: la Russia affronterà l'”esaurimento” nel 2026

Esaminiamo le affermazioni dei media e analizziamo alcuni numeri per valutare le prospettive della Russia per il 2026 rispetto alle attuali affermazioni.

29 dicembre
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Sta lentamente prendendo forma la narrazione successiva dei media, secondo cui la Russia sta iniziando a “sfinirsi”, il che culminerà – naturalmente – in una sorta di crollo nel 2026. Si tratta ovviamente di una vecchia narrazione riproposta ora che l’Ucraina stessa si trova nella sua forma meno invidiabile di sempre, senza alcuna prospettiva di miglioramento.

È interessante notare che, ormai da due anni, personalità e pubblicazioni di spicco affermano che il 2026 sarà l'”anno chiave” oltre il quale la Russia non sarà più in grado di sostenersi, e questo da diverse prospettive. Dal punto di vista economico, i cosiddetti “venti contrari” della Russia alla fine prevarranno e la sua economia “surriscaldata” inizierà a subire diffusi “collassi strutturali” o addirittura il collasso totale.

Dal punto di vista militare, la Russia avrebbe esaurito tutte le sue armi entro il 2026 e non sarebbe più in grado di effettuare “attacchi di manovra”, mentre la capacità di reclutamento delle truppe diminuirebbe, costringendo Putin a lanciare finalmente quella “mobilitazione” su larga scala che rimanda da così tanto tempo, con conseguenti sconvolgimenti sociali di massa e persino un colpo di stato.

Dato che siamo alla fine del 2025, è il momento giusto per dare un’occhiata ad alcune di queste proiezioni e vedere come stanno realmente le cose per entrambe le parti in vista del 2026.

Di particolare importanza è anche il fatto che il conflitto ucraino si stia avvicinando a una tappa fondamentale: l’11 gennaio 2026 il conflitto sarà durato esattamente 1.418 giorni dal suo inizio, il 22 febbraio 2022. 1.418 è la durata esatta della guerra sul fronte orientale tra Germania e URSS, dal 22 giugno 1941 all’8 maggio 1945. Pertanto, in una certa misura, è naturale che alcuni inizino a mettere in discussione le prospettive di longevità della Russia in questo conflitto.

Molte nuove pubblicazioni dei media tradizionali stanno iniziando a usare la parola “esaurimento”, l’ultima delle quali è il Sunday Times:

https://www.thetimes.com/world/russia-ukraine-war/article/exhaustion-most-likely-end-ukraine-war-thwxd0qvg

Utilizzano la pratica ormai standard di mascherare l’esaurimento quasi terminale dell’Ucraina con descrizioni false o esagerate delle “stesse” afflizioni della Russia. Questa è stata la tattica principale dell’Occidente nell’ammettere qualsiasi colpa o debolezza dell’Ucraina: quando lo fanno, assicurarsi sempre che la Russia venga accusata di soffrire delle stesse cose o di peggio , in modo da “attenuare il colpo” e non demoralizzare troppo il pubblico occidentale; dopotutto, è questo pubblico che dovrà sborsare i soldi delle tasse guadagnati con fatica per continuare a finanziare la macchina da guerra e il braccio armato dell’Occidente.

La coscrizione assomiglia sempre più a un reclutamento forzato. La famigerata pratica ucraina della “busificazione”, in base alla quale i reclutatori radunano forzatamente gli uomini in età di leva e li trasportano in autobus agli uffici di leva, non solo ha spinto molti a fuggire dal Paese, ma sta anche causando una carenza di manodopera nell’economia civile. La diserzione è diffusa, con oltre 160.000 casi penali aperti, anche se in alcuni casi questo è semplicemente un modo per i soldati di trasferirsi da un’unità all’altra.

L’articolo sopra riportato, ad esempio, elenca i motivi per cui gli ucraini stanno perdendo ottimismo e speranza in un esito positivo della guerra, ma poi maschera il tutto affermando che l’economia russa sta perdendo slancio e “stagnerà” nel 2026.

Qui si può evidenziare un punto di palese ipocrisia da parte delle pubblicazioni occidentali. L’articolo osserva che l’economia russa cresce solo grazie alle esigenze di produzione per la difesa:

Il PIL è ufficialmente cresciuto dell’1% quest’anno, ma ciò è dovuto in gran parte alla produzione bellica: attrezzature edili destinate a essere distrutte a breve. Sebbene Putin continui a cercare di risollevare la situazione, l’economia di base è già in recessione e probabilmente ristagnerà nel 2026.

Ciò è ovviamente considerato una grave debolezza. Eppure, allo stesso tempo, l’ultimo rapporto del Financial Times dichiara con orgoglio che tutte le economie europee dipendono interamente dalla spesa per la difesa tedesca:

https://archive.ph/CPUrF

Dalla frase iniziale:

Secondo un sondaggio del Financial Times, le speranze dell’Europa di un ritorno alla crescita nel 2026 si basano in gran parte sulla spesa tedesca per infrastrutture e difesa, finanziata dal debito per un valore di 1.000 miliardi di euro .

Tuttavia, gli 88 economisti intervistati sono divisi sul fatto che la spinta fiscale di Berlino porterà a una “rinascita europea” o svanirà tra radicate debolezze strutturali e incertezza geopolitica.

Quindi, l’economia russa guidata dalla guerra significa che la Russia sta crollando, ma l’economia europea guidata dalla guerra preannuncia una prossima rinascita della potenza economica europea… giusto.

Per non parlare del fatto patetico che tutta l’Europa sta cercando solo la Germania per salvarla, e tutto questo è in qualche modo destinato a reggere il confronto, in termini ottici, con la sola Russia.

L’articolo del Times conclude pigramente, senza un singolo dato reale che possa essere anche solo lontanamente convincente, che tutto ciò significa che la Russia sarà “esausta” nel 2026, portando a un conflitto completamente congelato, ignorando ovviamente il fatto che i progressi della Russia stanno letteralmente accelerando verso vette mai viste prima:

Anche se la guerra dovesse continuare per tutto il 2026, sarà sempre più difficile mantenerla al livello attuale. Le scelte che tutti dovranno fare si faranno sempre più dolorose: per Putin (se mobilitare i riservisti) o per Zelensky (se abbassare l’età della leva obbligatoria).

Anche senza un accordo, la guerra potrebbe diminuire di ritmo e intensità, almeno sul campo. Con l’avanzare della stanchezza, entrambe le parti potrebbero essere disposte ad accettare compromessi attualmente considerati impossibili.

Ad esempio: da dove prendono che Putin dovrà “mobilitare i riservisti”?

Anche l’ucraino Budanov ha ribadito ieri che la Russia non ha problemi a mobilitare circa 410.000 uomini all’anno e che lo farà di nuovo nel 2026, mentre molte regioni russe stanno riducendo i bonus di reclutamento a causa del sovrannumero. Ricordo che in precedenza avevo condiviso la voce secondo cui 400.000+ uomini sarebbero la cifra massima annuale che la Russia può gestire, con molti uffici di reclutamento che, a quanto pare, rifiutano personale perché la capacità del poligono di addestramento semplicemente non è sufficiente per addestrare più truppe al mese di quelle che già arrivano. Temo che più la Russia si avvicinerà a una vittoria visibilmente netta, più il reclutamento aumenterà e le cose potrebbero accelerare notevolmente.

Ci sono però opinioni contrastanti. Biletsky di Azov ha appena affermato che la Russia, per la prima volta in assoluto, non sta compensando le sue perdite attraverso il reclutamento:

Colonnello Andriy Biletsky Fondatore del Battaglione Azov:

“Per la prima volta da molto tempo, negli ultimi mesi, secondo tutti i dati di intelligence, compresi quelli degli alleati occidentali, il rafforzamento del personale nelle Forze armate russe non compensa le perdite”,

Da notare il suo passaggio alle caratterizzazioni in linea con il messaggio dell'”esaurimento” russo, che ancora una volta maschera l’esaurimento dell’Ucraina con paragoni con la Russia che soffre “della stessa” condizione:

“Noi e i russi siamo come pugili al dodicesimo round. Pensiamo alla nostra condizione e alla nostra stanchezza, tipo: ‘Ora crollo, e basta’. Ma credo che i russi siano più o meno nelle stesse condizioni.”

“I russi si trovano in una situazione catastrofica per quanto riguarda tutti i principali tipi di armi, veicoli blindati, sistemi di artiglieria, ecc.”

“Attualmente i russi hanno molto più successo negli attacchi aerei contro l’Ucraina che in prima linea.”

“Sì, [l’Ucraina] ha avuto delle battute d’arresto, ci sono state delle ritirate, certo. Ma quanto è ragionevole il prezzo da pagare per i russi?”

“Stanno esaurendo le energie. La qualità del personale è da tempo estremamente scarsa, ma anche l’addestramento al combattimento si sta oggettivamente deteriorando ulteriormente con il passare dei mesi”.

– Colonnello Andriy Biletsky

Ricordiamo che questo è l’unico blog in cui si ottiene una visione imparziale da entrambe le parti, non una propaganda di parte unilaterale. Quindi, dobbiamo esaminare le parole e le statistiche da entrambe le parti per calibrare correttamente l’analisi.

La sua affermazione secondo cui la Russia “sta perdendo slancio” sul fronte è particolarmente sospetta. Proprio oggi sono state finalmente annunciate le conquiste totali di Gulyaipole e Mirnograd. Allo stesso tempo, nuove trasmissioni da Kupyansk suggeriscono che la situazione potrebbe migliorare per i russi lì. L’Ucraina ha in genere perso una grande città all’anno negli anni precedenti: Mariupol nel 2022, Bakhmut nel 2023, Avdeevka nel 2024, sebbene alcuni contino anche Severodonetsk e Lisichansk per il 2022.

Ora, nel 2025, l’Ucraina ha perso Pokrovsk, Mirnograd, Seversk, Gulyaipole e una serie di città più piccole come Velyka Novosilka e Volchansk a nord. Una serie di città rimane in attesa di essere conquistate, come Konstantinovka, Kupyansk, Stepnogorsk, Novopavlovka e la prossima ad essere probabilmente conquistata, dati i rinnovati avanzamenti russi degli ultimi due giorni: Krasny Lyman.

Ciò, contrariamente a quanto affermato da Biletsky, non indica alcun “rallentamento” sul fronte. Persino Roepcke è scioccato dalla recente velocità.

A proposito, ci sono altri due grossi problemi nelle affermazioni di Biletsky. Innanzitutto, afferma la seguente frase semplicemente assurda:

Le perdite oggettive del nemico sono almeno 6, a volte 8 volte superiori alle nostre. Non abbiamo una differenza così grande in termini di uomini da sostenere perdite 6-8 volte maggiori e riuscire a condurre una campagna del genere per lungo tempo.

Affermare che la Russia subisce uno sfavorevole rapporto perdite di 8:1 rispetto all’Ucraina non fa altro che screditare il resto della sua argomentazione.

Ciò che lo scredita ancora di più , tuttavia, è il fatto che una ricerca superficiale delle sue precedenti dichiarazioni può trovare perle come questa. dall’inizio del 2025:

L’esercito russo sta cadendo a pezzi: la sua capacità offensiva del 2024 è stata spazzata via

In una recente intervista con Yanina Sokolova, Andriy Biletsky, fondatore del reggimento “Azov” e comandante della 3a brigata d’assalto ucraina, ha affermato che la Russia ha completamente bruciato il suo potenziale offensivo dal 2024 e non ne ha costruito uno nuovo.

❝L’esercito russo oggi è notevolmente più debole rispetto all’anno scorso❞, ha sottolineato Biletsky.

Questa affermazione risale al giugno 2025, molto prima che la Russia fosse pronta a conquistare tutti gli attuali territori o a dare il via alla sua “offensiva estiva” nella regione di Zaporozhye-Dnipro. Possiamo quindi constatare che le sue precedenti valutazioni si sono già rivelate infondate, il che offusca le sue attuali dichiarazioni.

Altre pubblicazioni adottano un approccio leggermente diverso. Anche Politico invoca lo spirito di “esaurimento”, ma almeno identifica accuratamente la minaccia che siano l’Europa e l’Occidente ad essere “sfiniti” – o, per usare le loro parole, dissanguati – dalla Russia, piuttosto che il contrario:

https://www.politico.eu/article/russia-kremlin-donald-tusk-atm-poland-financial-losses/

Possiamo vedere quanto detto sopra in azione: politicamente, l’Europa non è mai stata così debole, mentre la Russia non è mai stata così forte. Non c’è praticamente alcun tumulto politico in Russia, e non esiste nemmeno un’opposizione credibile a Putin, a differenza degli anni precedenti, in cui almeno un candidato fasullo come Navalny è stato ancora proposto dall’Occidente, il che è riuscito a suscitare qualche modesta protesta e qualche azione degna di nota.

Ora, non esiste praticamente alcuna argomentazione credibile a sostegno del fatto che la Russia possa battere l’Europa nella corsa politica al ribasso. Dal punto di vista economico, ci sono argomenti a favore di tensioni diverse in entrambe le parti. Ad esempio, conosciamo i ben noti problemi dell’UE, in particolare la deindustrializzazione tedesca.

Oggi sono circolate notizie secondo cui la Russia sta subendo un crollo della produzione industriale:

https://www.yahoo.com/news/articles/big-business-russia-reports-most-100000773.html

Sebbene quanto sopra provenga da pubblicazioni ucraine, le statistiche ufficiali sono state pubblicate sulla pagina federale russa Rosstat e citate dal servizio russo TASS :

Nel complesso, la produzione metallurgica in Russia è diminuita del 4,1% su base annua a novembre 2025 e dello 0,3% rispetto a ottobre 2025. Allo stesso tempo, la produzione metallurgica è diminuita del 3,8% negli undici mesi del 2025.

Ma quanto è grave questo problema? Difficile dirlo, dato che le fonti russe sembrano minimizzarlo, mentre quelle occidentali fanno naturalmente il contrario, esagerandolo enormemente.

Inoltre, ci sono molte contro-storie. Il rublo, ad esempio, è stato nuovamente dichiarato da Bloomberg la valuta più forte del mondo, anche se ancora una volta con l’ormai d’obbligo avvertimento: “a quale costo?” :

https://www.bloomberg.com/news/articles/2025-12-24/ruble-s-world-beating-rally-poses-new-risk-for-russian-economy

Il paragone con la crisi economica europea è discutibile; ciò che non è discutibile è che la capacità russa di resistere alle difficoltà supera di gran lunga quella europea. Questo perché, culturalmente e civilmente, il popolo russo sta ora raggiungendo l’apice in termini di orgoglio, solidarietà e unità nazionale. Gli europei stanno vivendo il periodo opposto: un periodo di assoluto nadir, di demoralizzata sfiducia nei confronti dei loro governi. Ciò significa che, anche se le situazioni fossero paragonabili, la Russia rimane destinata a superare l’Europa nella “corsa al ribasso”.

Anche per quanto riguarda l’Ucraina, i dati recenti sono bidirezionali. Ad esempio, una nuova statistica sulle vittime del famoso canale televisivo ucraino Gorushko afferma che le vittime russe hanno raggiunto il picco di circa 2.000 morti a settimana:

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A quanto pare, la loro metodologia conta anche i necrologi, come MediaZona.

Detto questo, anche se fosse vero, si tratterebbe di 8.000 morti al mese, con una stima equivalente di “feriti irreversibili”, per un totale di, diciamo, circa 16.000. Il consolidato reclutamento russo di oltre 30.000 unità al mese copre facilmente anche questa cifra, e questo è solo lo scenario peggiore, facendo l’avvocato del diavolo e prendendo per oro colato questi resoconti; le perdite reali della Russia potrebbero essere molto inferiori.

Inoltre, il più scrupoloso documentatore delle perdite di veicoli, il russofobo Andrew Perpetua, ha recentemente condiviso un altro aggiornamento sulle perdite documentate di dicembre, che mostra come la Russia continui ad avere la meglio negli scambi :

Dall’utente X Su_57R :

La ripartizione delle perdite di attrezzature per dicembre 2025 mostra un andamento preoccupante per l’Ucraina.

Pur essendo sulla difensiva, l’Ucraina è riuscita a perdere più equipaggiamento della Russia. Questa è una tendenza che ho notato durante l’estate.

Ecco i numeri “importanti” della prima linea:

Russia:
Veicoli blindati – 115
Carri armati – 81
Artiglieria – 153
Veicoli logistici – 1.040

Ucraina:
Veicoli blindati – 387
Carri armati – 51
Artiglieria – 157
Veicoli logistici – 1.192

Rapporti:

Veicoli blindati – 1:3.3 (favorito dalla Russia)
Carri armati – 1:1,5 (favorito dall’Ucraina)
Artiglieria – rapporto sostanzialmente 1:1
Veicoli logistici – 1:1.1 (Leggermente a favore della Russia)

Queste sono le perdite confermate solo visivamente. Il conteggio proviene da una fonte fortemente filo-ucraina: Andrew Perpetua.

Il resoconto di Warspotting rileva che le perdite di equipaggiamento della Russia per il 2025 ammontano al 60% di quelle del 2024, come riportato da un articolo di X :

Warspotting mostra che le perdite di equipaggiamento ammontano a circa il 60% del 2024 (considerando il ritardo e circa 500 in più a venire). I carri armati sono a 519 quest’anno contro i 1139 dello scorso anno, e i veicoli corazzati sono a 1316 quest’anno contro i 3073 dello scorso anno.

Nella sua recente visita al fronte, Putin ha raddoppiato l’impegno con ancora più fervore del solito, rilasciando la sua dichiarazione più audace finora sulla posizione delle forze armate russe. Ha affermato che, a causa della rapidità delle recenti avanzate russe, la Russia non ha alcun interesse a vedere l’AFU ritirarsi volontariamente dai territori occupati, che la Russia ora prenderà comunque con la forza:

Parafrasando per chiarezza: “Putin: Con l’accelerazione dell’avanzata, l’offerta all’Ucraina di ritirarsi da quattro regioni – sul tavolo dal giugno 2024 – è di fatto diventata obsoleta. La Russia raggiungerà tutti i suoi obiettivi con la forza”.

Se dovessimo interpretare correttamente le parole di Putin, ciò significa che non sta più giocando a fare il bravo ragazzo e che non gliene importa niente delle precedenti offerte di ramoscelli d’ulivo e dei “gesti di buona volontà”. Chiaramente, conoscendo i numeri e le capacità interne delle Forze Armate e dell’economia russa, Putin crede con più convinzione che mai che la Russia continuerà a portare avanti le sue offensive senza ostacoli fino al 2026.

Il quotidiano tedesco Die Welt ha riecheggiato questo sentimento nel suo ultimo articolo di ieri, intitolato “Verità dolorose”:

https://www.welt.de/debatte/plus6943def59ecfb47154d587e7/ukraine-konflikt-schmerzhafte-wahrheiten.html

Fin dalla frase iniziale, il testo inizia con una nota dolorosamente sincera:

L’Ucraina perderà la guerra contro la Russia: gli europei devono ammetterlo, anche se fa male. L’unica cosa che conta ora è impedire che accada il peggio.

È tempo di affrontare la realtà – con lucidità, senza sosta, dolorosamente. L’Ucraina perderà la guerra contro la Russia. Il Paese è coinvolto in una guerra di logoramento contro l’aggressore russo, che sta lentamente ma inesorabilmente minando la sua forza.

L’articolo prosegue passando in rassegna la serie di sviluppi sfavorevoli in Ucraina, tra cui la diminuzione degli aiuti.

Inoltre, Kiev sta affrontando la bancarotta nazionale. Gli europei hanno fornito 20 miliardi di euro in aiuti economici bilaterali in quasi quattro anni. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, si tratta di un terzo di quanto necessario all’Ucraina per mantenere la sua indipendenza. Il nuovo prestito da 90 miliardi di euro dell’UE darà a Kiev un po’ di respiro per un po’. Ma cosa succederà dopo?

Incredibilmente, gli autori del Welt proseguono, inconsapevolmente o meno, giustificando la guerra esistenziale della Russia con una chiarezza raramente riscontrabile nei giornali occidentali:

Putin vede la debolezza dell’Europa con freddezza glaciale

La guerra non finirà nemmeno dopo. La Russia continuerà a combattere, non importa quanto gli europei apprezzino il suono dei propri echi. Può sembrare ridicolo e assurdo (e lo è!), ma Mosca vede la sua guerra di aggressione contro l’Ucraina come una lotta per la propria esistenza. Si sente circondata dalla NATO, si vede stretta in una morsa a causa dell’espansione verso est dell’Alleanza Atlantica e non si lascerà scoraggiare dall’avanzare, se necessario, metro dopo metro, anno dopo anno. Continuerà su questa strada. Gli psichiatri sanno che, per quanto gentilmente e ragionevolmente si spieghi ai pazienti paranoici che le loro paure sono deliranti, non abbandoneranno le loro illusioni, non importa quanto ne soffrano loro stessi.

Naturalmente, macchiano la loro stessa perspicacia liquidando rozzamente queste minacce della NATO come semplici “deliri” psichiatrici per la Russia. Ciononostante, il cinismo dell’autore ha una nitidezza ammirevolmente toccante:

Con gelida freddezza, Putin vede che l’Europa è attualmente di terz’ordine in termini militari, ferma nella migliore delle ipotesi a credere nei propri slogan. Osserva con sobrietà la discordia all’interno dell’UE. Quando si tratta di Ucraina e Russia, non sono solo Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia ad essere alleati incerti, ma anche Spagna e Portogallo. La Francia, da parte sua, ha avuto difficoltà economiche e difficilmente è in grado di offrire ulteriore assistenza. Allo stesso tempo, il capo del Cremlino osserva l’uomo alla Casa Bianca. Sa che Donald Trump vuole la pace, se necessario a spese dell’Ucraina. Farà poco o nulla per aiutare Kiev in questa guerra di logoramento russo-ucraina.

L’autore dichiara che il tempo stringe sia per l’Ucraina che per l’Europa, e che c’è poco che si possa fare se non che gli europei riconoscano di essere isolati e in qualche modo si uniscano, o almeno questa è l’impressione che lascia l’articolo. In realtà, l’autore non ha risposte, ma si conclude con una nota poeticamente appropriata che riassume al meglio la situazione:

Quindi, il prossimo anno sarà scomodo. I fatti sono deprimenti, soprattutto a ridosso del Natale. Ma come scrisse Thomas Mann, “A lungo termine, una verità dannosa è meglio di una bugia utile”.

Questa dolorosa verità è un boccone amaro da ingoiare per l’Occidente, e continuerà a scendere a fatica nel ventriglio occidentale per tutto il 2026, poiché non c’è vera speranza che ciò che è già successo continui così da entrambe le parti. L’economia russa mostrerà qualche preoccupante cedimento in mezzo ad altri “sorprendenti sprazzi” di ottimismo. L’esercito continuerà a farsi strada a colpi di martellante nella regione di Zaporozhye, verso la cruciale battaglia di Slavjansk-Kramatorsk che potrebbe essere al centro dell’attenzione nel 2026 e segnare l’ultimo, massacrante momento di Stalingrado per l’AFU – o forse, più precisamente, la battaglia di Minsk del ’44 e il crollo del Gruppo d’Armate Centro.

La cosa più importante da ricordare: le elezioni di medio termine negli Stati Uniti si terranno nel novembre 2026, il che distoglierà l’attenzione degli Stati Uniti dall’Ucraina, in particolare nei confronti di Trump personalmente. Questo riorientamento inizierà probabilmente anche molti mesi prima delle elezioni di medio termine vere e proprie, con l’Ucraina che probabilmente passerà in secondo piano o, al contrario, verrà evidenziata dagli oppositori come un grave “fallimento” di Trump e dei suoi repubblicani nel periodo precedente alle elezioni, il che potrebbe stimolare altre azioni sfavorevoli nei confronti dell’Ucraina.

Tutto sommato, le cose continueranno sulla stessa strada, con la situazione in continuo peggioramento per l’Ucraina e l’Europa. Ma restate sintonizzati per il riepilogo finale di fine anno, in cui probabilmente entrerò nei dettagli più specifici sulle previsioni per il 2026.


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Il barattolo delle mance resta un anacronismo, un esempio arcaico e spudorato di doppio guadagno, per coloro che non riescono proprio a fare a meno di elargire ai loro umili autori preferiti una seconda, avida e generosa dose di generosità.

Polonia e Ungheria sono minacciate dall’Ucraina, ma rimangono ancora divise da essa_di Andrew Korybko

Le minacce dei sauditi contro lo Yemen meridionale rivelano le loro motivazioni geopolitiche

Andrew Korybko28 dicembre
 
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Si aspettano di ottenere uno Stato cliente su almeno una parte dello Yemen come ricompensa per aver combattuto gli Houthi.

Il Consiglio di transizione meridionale (STC) ha affermato che l’Arabia Saudita ha effettuato attacchi aerei di avvertimento in prossimità delle sue forze, che hanno seguito questo gruppo separatista dello Yemen meridionale respingendo la richiesta dei sauditi di ritirarsi dalle province orientali di Hadhramout e Mahra. Ricordiamo che l’STC, che fa parte del Consiglio di leadership presidenziale (PLC) e il cui leader è il suo vicepresidente, ha preso il controllo di quelle province allineate con l’Arabia Saudita all’inizio di dicembre nell’ambito di un’operazione anti-contrabbando.

Il ripristino de facto dello Yemen del Sud ha cambiato drasticamente le dinamiche del conflitto” evitando quello che fino ad allora era stato considerato un fatto compiuto, ovvero la triforcazione dello Yemen tra il nord controllato dagli Houthi, il sud controllato dall’STC e l’est controllato de facto dall’Arabia Saudita. Si prevedeva che sarebbe seguita “una pressione non cinetica da parte dei sauditi (ad esempio, coercizione economica e guerra dell’informazione) per condividere il potere con il PLC auto-esiliato”, ma ora i sauditi stanno chiaramente intensificando la loro azione in senso cinetico.

Il portavoce della coalizione guidata dall’Arabia Saudita ha appena minacciato che “Qualsiasi movimento militare che violi [la richiesta saudita che l’STC si ritiri dall’est, avanzata con il pretesto di un allentamento delle tensioni] sarà affrontato direttamente e immediatamente”. Ciò mette in luce l’obiettivo di Riyadh di ottenere uno Stato cliente nello Yemen orientale, sia come nuova provincia saudita, sia come Stato nominalmente indipendente, sia come Stato di fatto indipendente in confederazione con lo Yemen meridionale, sia come Stato formalmente autonomo all’interno dello Yemen unito.

Nel perseguire tale obiettivo geopolitico, sembrano disposti a intraprendere una guerra interna alla coalizione contro l’STC, a costo di ampliare ulteriormente il divario tra Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (gli Emirati sostengono l’STC) e forse incoraggiando gli Houthi a lanciare un’offensiva in questo clima di turbolenza, a meno che non raggiungano un accordo con loro. A questo proposito, è effettivamente possibile che esista un accordo segreto tra i sauditi e i loro nemici Houthi, sostenuti dall’Iran, che potrebbe essere stato raggiunto direttamente tra Riyadh e Teheran.

Nessuno dei due vuole che gli Emirati Arabi Uniti espandano la loro influenza regionale ancora più di quanto non abbiano già fatto attraverso la restaurazione dello Yemen del Sud, motivo per cui l’Iran potrebbe aver accettato di dire agli Houthi di non sfruttare una guerra intra-coalizione in cambio dell’accordo dei sauditi di lasciare in pace il Nord se riconquistano l’Est. Lo Yemen del Nord, controllato dagli Houthi e sostenuto dall’Iran, funzionerebbe quindi come uno Stato indipendente de facto, mentre non è chiaro quale sarebbe esattamente lo status politico dell’Est, come spiegato nei due paragrafi precedenti.

Hadhramout è il centro dell’industria petrolifera dello Yemen, quindi la potenziale perdita di quella provincia da parte dell’STC renderebbe difficile per lo Yemen meridionale diventare finanziariamente autosufficiente, rendendolo così dipendente dall’est controllato dall’Arabia Saudita in qualsiasi confederazione o dagli Emirati se l’est e il sud prendessero strade separate. In tal caso, lo Yemen del Sud avrebbe difficoltà a ripristinare la sua piena sovranità, infliggendo così un duro colpo agli obiettivi di questo gruppo genuinamente popolare e alimentando forse un profondo risentimento nei confronti dei sauditi.

Se i sauditi procederanno con gli attacchi aerei contro l’STC e le forze alleate nel Regno effettueranno un’invasione dell’Est in parallelo, allora la coalizione potrebbe dividersi in modo irreparabile, proprio come potrebbero fare l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, con quest’ultimo risultato che aumenterebbe le tensioni regionali. Questo palese gioco di potere metterebbe quindi a nudo le motivazioni geopolitiche dei sauditi, dimostrando che hanno sempre contato di ottenere uno Stato cliente su almeno una parte dello Yemen come ricompensa per aver combattuto gli Houthi.

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La rivalità di Israele con la Turchia ha giocato un ruolo importante nel riconoscimento del Somaliland

Andrew Korybko27 dicembre
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Israele ottiene una profondità strategica in prossimità delle strutture somale della Turchia per monitorarle e, se necessario, distruggerle se emergono prove che vengono utilizzate per scopi nucleari, come i suoi media ora sospettano sia lo scopo dietro il suo spazioporto pianificato e la cooperazione militare con il Pakistan in quella zona.

Israele è appena diventato il primo Stato membro delle Nazioni Unite a riconoscere il Somaliland . Alcuni osservatori occasionali ritengono che ciò sia dovuto al desiderio di avere una presenza alleata in prossimità dello Yemen del Nord, alleato dell’Iran e controllato dagli Houthi, e/o in vista di un’eventuale accoglienza di un gran numero di abitanti di Gaza da parte del Somaliland. Per quanto riguarda la prima ipotesi, Israele ha già dimostrato di poter colpire lo Yemen del Nord senza difficoltà, quindi non ha bisogno di una base regionale per farlo, mentre il secondo presunto imperativo non è più una priorità.

Il presente articolo sostiene che la vera ragione per cui Israele ha inaspettatamente compiuto questa mossa in questo preciso momento è in realtà dovuta alla sua rivalità con la Turchia. Gli osservatori occasionali probabilmente non lo sanno, ma oggi la Turchia esercita un’influenza praticamente su ogni sfera di rilievo in Somalia, il che dà credito a uno scenario di sicurezza nazionale allarmante dal punto di vista di Israele, che verrà discusso a breve. Prima di arrivare a questo punto, è importante esaminare brevemente l’influenza che la Turchia esercita in quel Paese.

L’Agenzia turca per la cooperazione e il coordinamento, la sua versione dell’USAID, ha implementato più di 500 progetti dall’inizio delle sue operazioni nel 2011. La Turkiye ha anche addestrato le forze somale dall’apertura della sua base TURKSOM, la più grande all’estero, nel 2017. La loro cooperazione economica e militare è stata poi rafforzata attraverso un patto correlato all’inizio del 2024 , che modernizzerà la Marina somala in cambio della concessione da parte della Somalia del 90% delle sue entrate energetiche offshore da parte della Turkiye .

Entro la fine dell’anno, la Somalia ha confermato che la Turchia sta costruendo uno spazioporto sul suo territorio, che, secondo un precedente rapporto , potrebbe avere il duplice scopo di sito di test per missili balistici (il Mediterraneo orientale è troppo congestionato perché la Turchia possa testare tali armi dal proprio territorio, a differenza dell’Oceano Indiano occidentale). All’inizio di quest’estate, il Pakistan, partner di fatto minore della Turchia, ha firmato un accordo di addestramento militare simile con la Somalia, rappresentando così una notevole convergenza dei loro interessi militari in quel Paese.

Tutto ciò ha portato al popolare articolo di Israel Hayom, pubblicato all’inizio di dicembre, su come “il silenzioso gioco di potere della Turchia nel Mar Rosso trasformi la Somalia in un suo rappresentante “, che ha discusso un allarmante scenario di sicurezza nazionale che contestualizza la decisione israeliana di occupare il Somaliland. Secondo l’articolo, la Turchia sta costruendo una “seconda geografia strategica” in Somalia per testare armi nucleari e sistemi di lancio (sotto la copertura del suo spazioporto), che potrebbe ottenere grazie all’uranio nigerino e alle competenze missilistiche e nucleari pakistane.

Sebbene alcuni potrebbero deridere questa affermazione, i ringraziamenti che Netanyahu ha rivolto al capo del Mossad nel suo post sul riconoscimento del Somaliland da parte di Israele suggeriscono che la sua decisione sia stata effettivamente motivata da gravissime considerazioni di sicurezza nazionale, molto probabilmente quelle relative a quanto descritto sopra. Riconoscendo il Somaliland, Israele potrebbe ottenere una profondità strategica in prossimità delle strutture somale della Turchia per monitorarle e, se necessario, distruggerle qualora emergessero prove del loro utilizzo a fini nucleari.

Dal Somaliland, Israele potrebbe anche orchestrare campagne politiche per indebolire la presa (probabilmente egemonica) della Turchia sulla Somalia, come mezzo per scongiurare preventivamente questo scenario peggiore attraverso mezzi non cinetici, che il Somaliland potrebbe consentire poiché ciò contribuisce a garantire la propria sicurezza. La conclusione è che Israele ha riconosciuto il Somaliland più per ragioni legate alla sua rivalità con la Turchia che con l’Iran, e data la posta in gioco, la Turchia potrebbe presto incoraggiare la Somalia a fomentare ulteriori conflitti con il Somaliland.

La valutazione di Tulsi secondo cui Putin non vuole conquistare tutta l’Ucraina è assolutamente corretta

Andrew Korybko22 dicembre
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Ci sono logiche ragioni militari e strategiche per cui non è affatto interessato a tutto questo.

La direttrice dell’intelligence nazionale, Tulsi Gabbard, ha risposto a un rapporto della Reuters in cui si affermava che “Putin non ha abbandonato i suoi obiettivi di conquistare tutta l’Ucraina e rivendicare parti d’Europa appartenute all’ex impero sovietico”. Tulsi ha condannato tale affermazione come una “menzogna” per indebolire gli sforzi di pace di Trump e rischiare così una possibile guerra russo-americana. Ha inoltre affermato che “le prestazioni della Russia sul campo di battaglia indicano che attualmente non ha la capacità di conquistare e occupare tutta l’ Ucraina , per non parlare dell’Europa”.

La sua valutazione è assolutamente corretta per le ragioni che ora spiegheremo. Innanzitutto, Putin ha autorizzato l’operazione speciale dopo che la diplomazia non è riuscita a neutralizzare le minacce provenienti dall’Ucraina provenienti dalla NATO, motivo per cui la Russia è stata costretta a ricorrere alla forza. A differenza di quanto molti “filo-russi non russi” affermano oggi sui social media, ” la ‘guerra di logoramento’ è stata improvvisata e non era un piano della Russia fin dall’inizio “, avvenuta solo perché Regno Unito e Polonia hanno inaspettatamente sabotato l’accordo di pace della primavera del 2022.

Un sostegno senza precedenti da parte della NATO ha portato alla suddetta “guerra di logoramento” e alla conseguente situazione di stallo su ampie parti del fronte per periodi prolungati. Come è stato valutato già nell’estate di luglio 2022, ” Tutte le parti del conflitto ucraino si sono sottovalutate a vicenda “, motivo per cui questo sostegno ha colto di sorpresa i pianificatori russi, ma anche perché non è riuscito a infliggere una sconfitta strategica alla Russia. Queste 20 critiche costruttive all’operazione speciale russa del novembre 2022 sono rilevanti anche oggi.

Anche se la Russia riuscisse a ottenere una svolta a lungo attesa su tutto il fronte, qualsiasi territorio in cui si insediasse, oltre alle quattro regioni contese, servirebbe probabilmente solo a fare leva per costringere l’Ucraina ad accettare ulteriori richieste di pace di Putin in cambio del ritiro da quelle regioni. Espandere le rivendicazioni territoriali della Russia attraverso l’organizzazione di referendum in nuove regioni richiederebbe il controllo di una porzione significativa del loro territorio, con un numero altrettanto significativo di persone ancora presenti pronte a partecipare.

Nessuna delle due cose può essere data per scontata, soprattutto perché la popolazione locale non fuggirà come rifugiati nel cuore dell’Ucraina o attraverso la linea del fronte in Russia, da qui l’inaffidabilità di questo scenario. Le conseguenze strategiche potrebbero anche essere sproporzionatamente gravi se questo dovesse mai verificarsi, poiché Trump potrebbe essere indotto a intensificare il coinvolgimento degli Stati Uniti nel conflitto dopo aver avuto la sensazione che Putin gli abbia mancato di rispetto facendo ciò durante i colloqui di pace o forse lo abbia persino manipolato partecipandovi solo per guadagnare tempo.

Trump ha criticato duramente Biden per la completa perdita dell’Afghanistan da parte degli Stati Uniti, quindi è improbabile che lasci che Putin conquisti tutta l’Ucraina, nella fantasia politica che un giorno questo diventi possibile. Un’escalation del coinvolgimento degli Stati Uniti nella risposta potrebbe portare all’approvazione dell’ingresso degli alleati della NATO in Ucraina per aver tracciato una “linea rossa” il più a est possibile e minacciare una “ritorsione” diretta contro la Russia se tali forze venissero attaccate lungo il percorso. Putin ha fatto tutto il possibile per evitare la Terza Guerra Mondiale fino a questo momento, quindi è improbabile che la rischi improvvisamente in tal caso.

C’è anche la minaccia di un’insurrezione terroristica in tutta l’Ucraina occidentale, se le forze russe dovessero mai arrivare fin lì, il che potrebbe essere costoso per il Cremlino in termini di vite umane, risorse e opportunità, un problema che Putin probabilmente cercherebbe di evitare. Considerando tutto ciò, dalle difficoltà militari alle conseguenze strategiche sproporzionatamente gravi della rivendicazione di territori al di fuori delle regioni contese, Tulsi ha quindi assolutamente ragione nel valutare che Putin non voglia conquistare tutta l’Ucraina.

La Polonia sta espandendo la sua influenza sui Paesi Baltici attraverso l’autostrada “Via Baltica”

Andrew Korybko28 dicembre
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La “linea di difesa dell’UE” in costruzione, che si riferisce alla combinazione della “linea di difesa del Baltico” e dello “Scudo orientale” della Polonia lungo il confine orientale della NATO, potrebbe quindi essere rafforzata dallo schieramento di truppe guidate dalla Polonia, visto che la Polonia sarebbe fondamentale per la sopravvivenza di queste tre in un’eventuale guerra con la Russia.

Il presidente polacco Karol Nawrocki ha inaugurato l’ultimo tratto dell’autostrada ” Via Baltica ” tra la Polonia e gli Stati baltici a fine ottobre, in un evento con la sua controparte lituana, ed entrambi hanno sottolineato il duplice scopo militare di questo megaprogetto, alludendo allo ” Schengen militare “. La “Via Baltica” è una delle iniziative di punta dell'” Iniziativa dei Tre Mari ” (3SI), molte delle quali integrano la più recente iniziativa “Schengen militare” volta a facilitare il flusso di truppe e attrezzature verso est, in direzione della Russia.

La Polonia prevede che il 3SI acceleri la rinascita del suo status di Grande Potenza, a lungo perduto, che la porterà a guidare il contenimento della Russia in tutta l’Europa centrale e orientale (CEE) una volta terminato il conflitto ucraino. È il membro ex comunista più popoloso della NATO, con il terzo esercito più grande del blocco , è appena diventata un’economia da mille miliardi di dollari e punta ora a un seggio nel G20 , e ha una storia di leadership regionale durante l’era del Commonwealth/”Rzeczpospolita”, quindi queste ambizioni non sono illusorie.

Partendo da quest’ultimo punto, la maggior parte degli osservatori occasionali ignora che il Commonwealth si estendeva a nord fino a parti della Lettonia, che rimase sotto il suo controllo fino alla Terza Partizione del 1795. Prima di allora, aveva addirittura controllato circa metà dell’Estonia dal 1561 al 1629, dopodiché fu ceduta alla Svezia. Basti dire che quello che oggi è lo stato nazionale della Lituania faceva parte anche della “Repubblica delle Due Nazioni”, come era ufficialmente conosciuta il Commonwealth, conferendo così alla Polonia un’impronta sostanziale nella storia baltica.

Le intuizioni condivise nei due paragrafi precedenti consentono al lettore di comprendere meglio ciò che Nawrocki ha detto ai media lituani durante il suo primo viaggio da presidente in quel Paese lo scorso settembre, ovvero: “Noi polacchi, e io come presidente della Polonia, siamo consapevoli di essere responsabili di intere regioni dell’Europa centrale, compresi gli Stati baltici e la Lituania. Grazie a questa visita e alla nostra cooperazione, sentiamo di star costruendo anche il nostro potenziale militare in modo solidale, con il sostegno oltreoceano”.

La “Via Baltica” e la complementare ” Rail Baltica “, entrambe in ritardo ( soprattutto la seconda ), serviranno alla Polonia per realizzare questa dimensione della sua visione di Grande Potenza, come chiarito da Nawrocki. Il “ritorno in Asia orientale” degli Stati Uniti post-Ucraina per contenere più energicamente la Cina potrebbe comportare il ridispiegamento di alcune truppe dall’Europa centro-orientale, ma la Polonia probabilmente sostituirebbe il ruolo ridotto degli Stati Uniti attraverso la sua continua militarizzazione e l’accesso logistico militare ai Paesi Baltici, guidato dal 3SI.

La ” Linea di Difesa dell’UE ” in costruzione, che si riferisce alla combinazione della “Linea di Difesa Baltica” e dello “Scudo Orientale” polacco lungo il confine orientale della NATO, potrebbe quindi essere rafforzata dal dispiegamento di truppe a guida polacca, visto che la Polonia sarebbe fondamentale per la sopravvivenza di queste tre forze in un’eventuale guerra con la Russia. In tale scenario, dall’Estonia fino alla triplice frontiera polacco-bielorusso-ucraino, l’avversario numero uno della Russia non sarebbe necessariamente la NATO nel suo complesso, ma la Polonia. Ciò avrebbe implicazioni importanti.

In breve, sebbene la Polonia sia strettamente alleata dell’Asse anglo-americano per motivi di obiettivi anti-russi condivisi, non è una loro marionetta e potrebbe acquisire un’autonomia strategica ancora maggiore sotto la guida di Nawrocki. Dopotutto, ha sorpreso molti dichiarando di essere pronto a dialogare con Putin se la sicurezza della Polonia dipendesse da questo, aprendo così la porta a un futuro modus vivendi polacco-russo . Tale intesa potrebbe essere la chiave per mantenere la pace nell’Europa centro-orientale dopo la fine del conflitto ucraino.

Perché Trump ha bombardato l’ISIS in Nigeria a Natale?

Andrew Korybko26 dicembre
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Potrebbe non trattarsi di un attacco isolato per scopi politici interni, bensì dell’inizio di una campagna volta a strappare la Nigeria ai BRICS e a ripristinare il suo ruolo di garante regionale dell’Occidente.

Trump ha sorpreso il mondo annunciando a Natale che gli Stati Uniti avevano bombardato “la feccia terroristica dell’ISIS nel nord-ovest della Nigeria”, il cui governo aveva collaborato all’operazione. Questo dopo aver attirato l’attenzione globale sul massacro di cristiani nel nord della Nigeria lo scorso autunno, che all’epoca era stato analizzato qui . Si concludeva che gli Stati Uniti “potrebbero avere il diritto di colpire occasionalmente gli islamisti lì, almeno una base militare, la Nigeria che prende le distanze dai BRICS e la Nigeria che svolge il ruolo di garante dell’Occidente”.

Allo stato attuale, il primo di questi obiettivi è stato raggiunto. Aspettare fino a Natale per bombardare l’ISIS in Nigeria è stato probabilmente un calcolo politico di Trump per ottenere il massimo gradimento dalla sua base. La tempistica rende anche difficile per i suoi oppositori criticarlo. Questo potrebbe quindi essere più di un attacco isolato per scopi di politica interna. Sebbene siano esclusi gli attacchi statunitensi sul terreno, sono possibili altri attacchi, che potrebbero essere condotti in coordinamento con le operazioni terrestri nigeriane nella zona.

La nuova Strategia per la Sicurezza Nazionale dichiara che “dobbiamo rimanere cauti nei confronti della ripresa dell’attività terroristica islamista in alcune parti dell’Africa, evitando al contempo qualsiasi presenza o impegno americano a lungo termine”, quindi ha senso lavorare in coordinamento con le forze locali invece di cercare unilateralmente di contrastare queste minacce. Una presenza militare statunitense non ufficiale, possibilmente composta da forze speciali e/o agenti dell’intelligence, potrebbe contribuire a coordinare una campagna nel nord della Nigeria e quindi raggiungere il secondo obiettivo identificato.

In cambio dell’aiuto alla Nigeria per sconfiggere almeno alcuni dei terroristi che stanno già causando problemi da un po’ di tempo, cosa che le forze armate nazionali non sono state finora in grado di fare a causa della corruzione e della scarsa leadership, gli Stati Uniti si aspettano probabilmente un accesso privilegiato alla loro emergente industria mineraria . Questo è stato anche accennato nell’analisi collegata nell’introduzione e si collega al terzo obiettivo, ovvero la presa di distanza della Nigeria dai BRICS, nel senso che gli Stati Uniti precedono la Cina in questa opportunità.

Il raggiungimento dei tre obiettivi precedenti porterebbe al quarto e ultimo, grazie al quale la Nigeria potrebbe ripristinare il suo ruolo di leadership regionale sotto l’egida americana. Gli Stati Uniti sono a disagio con l’Alleanza/Confederazione Saheliana, alleata della Russia, i cui membri – Burkina Faso, Mali e Niger – hanno appena annunciato un battaglione militare congiunto dopo il loro ultimo vertice per affrontare al meglio le minacce terroristiche. Mentre i loro obiettivi antiterrorismo promuovono formalmente gli interessi statunitensi, l’esempio multipolare da loro fornito non lo fa.

La serie di colpi di stato militari patriottici che hanno travolto quei paesi ha eliminato l’influenza francese e quindi occidentale dalle loro forze armate e dai loro vertici politici. Questo, a sua volta, ha aperto enormi opportunità minerarie per la Russia, tra cui l’uranio in Niger, che confina con la Nigeria settentrionale afflitta da conflitti. Pertanto, si dovrebbe presumere che gli Stati Uniti intendano “guidare da dietro le quinte” mentre la Nigeria riafferma l’influenza occidentale sul Sahel per suo conto, ma probabilmente dopo un po’ di tempo e non immediatamente.

È prematuro prevedere se questo potrebbe portare a un’invasione nigeriana del Niger sostenuta dagli Stati Uniti, come quella che si prospettava subito dopo il colpo di stato di quest’ultimo nell’estate del 2023. Dopotutto, cooptare la sua giunta o orchestrare un altro colpo di stato sarebbero modi più semplici per recidere i rapporti con l’Alleanza/Confederazione del Sahel. Detto questo, gli attacchi anti-ISIS degli Stati Uniti sono stati condotti in prossimità del confine nigerino, quindi è possibile che possano estendersi oltre tale confine per ammorbidire il Niger in vista di un’invasione nigeriana sostenuta dagli Stati Uniti.

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Polonia e Ungheria sono minacciate dall’Ucraina, ma restano ancora divise

Andrew Korybko25 dicembre
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Gli ultranazionalisti ucraini e gli agenti dell’intelligence che si sono infiltrati nelle loro società sotto la copertura dei rifugiati potrebbero compiere atti di terrorismo contro di loro, che potrebbero essere evitati con una più stretta cooperazione tra i loro servizi di sicurezza, ma restano comunque divisi dall’Ucraina, a suo vantaggio geopolitico.

La Polonia e gli altri paesi dell’UE, come l’Ungheria, che ospitano rifugiati ucraini, sono destinati ad affrontare ulteriori problemi dopo la fine del conflitto. A febbraio 2025, i dati ufficiali della polizia mostravano che gli ucraini avevano commesso più crimini in Polonia rispetto a qualsiasi altro straniero. Alcuni sono stati anche accusati di aver compiuto crimini per la sicurezza nazionale per conto della Russia, cosa che la Russia ha negato, mentre i suoi media hanno invece insinuato che si tratti di ultranazionalisti anti-polacchi (fascisti) o agenti dell’intelligence ucraina.

Qualunque sia la verità, l’ex presidente Andrzej Duda ha avvertito in un’intervista al Financial Times all’inizio del 2025 che ” le truppe ucraine traumatizzate potrebbero rappresentare una minaccia per la sicurezza di tutta l’Europa “. Lo scorso autunno, ” l’ambasciatore ucraino in Polonia ha ammesso che i suoi connazionali non vogliono assimilarsi “, poco prima che uno dei principali organi di stampa online del suo paese prevedesse che ” una lobby ucraina etnica potrebbe presto prendere forma nel Sejm polacco “, il che potrebbe rappresentare una seria minaccia per la Polonia.

Invece di cercare di contrastarli, il Ministro degli Esteri Radek Sikorski ha incoraggiato gli ucraini a “distruggere” l’oleodotto Druzhba che riforniva Ungheria e Slovacchia di petrolio russo, guadagnandosi così il soprannome di ” Osama Bin Sikorski ” dalla portavoce del Ministero degli Esteri russo Maria Zakharova. Come spiegato nella precedente analisi con link, questo potrebbe ritorcersi contro la Polonia, incitando al terrorismo contro di essa quegli ultranazionalisti che rivendicano le sue zone sud-orientali, dove un tempo vivevano molti slavi orientali ortodossi.

Tornando al suo post, alcuni degli ultranazionalisti ucraini e/o agenti dell’intelligence che si sono infiltrati nell’UE sotto la copertura dei rifugiati potrebbero attaccare le infrastrutture di Druzhba in Ungheria, sapendo che potrebbero quindi trovare rifugio in Polonia, proprio come il sospetto del Nord Stream che si è rifiutato di estradare in Germania . Sebbene Polonia e Ungheria abbiano un millennio di storia comune e quasi 700 anni di amicizia , il duopolio al potere in Polonia oggi disprezza l’Ungheria per la sua politica pragmatica nei confronti della Russia.

Seguendo l’esempio di Sikorski, potrebbero quindi chiudere un occhio su questi “rifugiati” che pianificano un simile attacco dal loro territorio e/o tramando disordini per la Rivoluzione Colorata in Ungheria in vista delle prossime elezioni parlamentari di primavera. A proposito di questo scenario, il omologo ungherese di Sikorski, Peter Szijjarto, ha avvertito a metà agosto che l’UE potrebbe guidare questa iniziativa, il che è avvenuto il giorno dopo che i Servizi segreti esteri russi avevano messo in guardia sul ruolo che gli ucraini avrebbero potuto svolgere nel favorire un cambio di regime nel Paese.

L’UE, l’Ucraina e la Polonia vogliono tutte che Viktor Orbán se ne vada, obiettivo che potrebbe essere favorito dal sabotaggio dell’oleodotto Druzhba da parte di “rifugiati” (ultranazionalisti e/o agenti dell’intelligence) in Ungheria prima delle prossime elezioni, con le relative conseguenze economiche che potrebbero scatenare proteste pianificate su larga scala. Per essere chiari, nulla di tutto ciò potrebbe concretizzarsi, ma il punto è che un simile scenario è comunque credibile per le ragioni spiegate. Il controspionaggio ungherese farebbe naturalmente bene a rimanere vigile.

Un più stretto coordinamento tra i servizi di sicurezza polacchi e ungheresi per contrastare queste minacce provenienti dai “rifugiati” ucraini è improbabile, a causa dell’odio condiviso tra il Primo Ministro liberal-globalista Donald Tusk e il nuovo Presidente conservatore Karol Nawrocki per la sua politica pragmatica nei confronti della Russia. Un riavvicinamento tra loro attraverso il Gruppo di Visegrad è quindi irrealistico, lasciando i loro Paesi vulnerabili a queste minacce ibride e mantenendoli divisi a vantaggio geopolitico dell’Ucraina.

Il fallito tentativo dell’UE di rubare i beni sequestrati alla Russia è stato autolesionista

Andrew Korybko23 dicembre
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Si può sostenere che abbia causato danni irreparabili alla reputazione del blocco come luogo sicuro in cui gli stranieri di tutto il mondo potevano depositare e investire i propri beni finanziari, dopo che alcuni membri influenti non hanno lasciato dubbi sul loro desiderio di rubare i suoi beni, segnalando così che un giorno avrebbero potuto provare a rubare anche quelli di altri paesi.

La scorsa settimana è stato valutato che ” la nuova politica dell’UE nei confronti dei beni sequestrati alla Russia non mira ad aiutare l’Ucraina “, dopo che membri influenti del blocco hanno deciso di confiscare direttamente almeno una parte dei beni sequestrati alla Russia per donarli all’Ucraina o di utilizzarne almeno una parte come garanzia per un prestito. Come è stato scritto, il vero scopo era negare agli Stati Uniti l’accesso a questi fondi per progetti congiunti con la Russia, come previsto dal punto 14 del presunto accordo di pace in 28 punti di Trump , non armare l’Ucraina o ricostruirla.

Nonostante i loro sforzi, la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e il suo connazionale Cancelliere tedesco Friedrich Merz non sono riusciti a raggiungere un consenso su questa mossa senza precedenti, che avrebbe provocato l’ira degli Stati Uniti, come spiegato nell’analisi precedente. Hanno invece raggiunto un compromesso in base al quale i membri – ad eccezione di Repubblica Ceca, Ungheria e Slovacchia – aumenteranno il debito comune per finanziare un prestito di 90 miliardi di euro all’Ucraina nei prossimi due anni, perpetuando così il conflitto .

Si è trattato di un tentativo di “salvare la faccia” dopo le loro enormi trattative di 16 ore su questo tema, poiché nessun risultato avrebbe messo a nudo l’impotenza dell’Unione. Eppure, l’Economist ha concluso subito dopo che gli Stati Uniti continueranno a vederla così, dato che i suoi due politici più potenti alla fine non hanno ottenuto ciò che volevano. Per aggiungere la beffa al danno inflitto alla reputazione della Cancelliera tedesca, il Financial Times ha poi citato una fonte che affermava che “Macron ha tradito Merz” non appoggiando il complotto di quest’ultimo.

Il fallito tentativo dell’UE di rubare i beni sequestrati alla Russia è stato quindi un’autolesionistica screditazione per lui e per von der Leyen personalmente, ma anche per l’UE nel suo complesso, poiché ha presumibilmente arrecato un danno irreparabile alla reputazione dell’Unione come luogo sicuro in cui gli stranieri di tutto il mondo potevano depositare e investire i propri beni finanziari. Anche se i beni sequestrati alla Russia non sono stati (ancora?) rubati, non c’è più alcun dubbio che membri influenti dell’UE avessero l’intenzione di farlo, infrangendo così la suddetta percezione.

Come scritto nell’analisi linkata nell’introduzione, “Gli investitori stranieri potrebbero essere indotti a temere che i loro asset non siano più al sicuro e potrebbero quindi ritirarli dalle banche dell’UE e non depositarvi più quelli futuri. L’Unione potrebbe quindi perdere centinaia di miliardi di dollari, forse più di mille miliardi o anche di più nel tempo”. Dopotutto, poiché hanno cercato di rubare gli asset della Russia, potrebbero anche cercare di rubare gli asset di altri Paesi con cui potrebbero un giorno avere problemi.

A differenza della Russia, tuttavia, gli stati relativamente meno significativi potrebbero non avere la possibilità di raggiungere un accordo simile a quello proposto dagli Stati Uniti, in base al quale una quota di questi beni verrebbe restituita sotto forma di investimenti congiunti, se altre condizioni fossero soddisfatte. Ciononostante, l’UE dovrebbe comunque attraversare il Rubicone autorizzando il furto dei beni sequestrati a quei paesi e, cosa importante, difendere questa decisione in tribunale quando viene contestata legalmente, con una sentenza favorevole che infliggerebbe un colpo mortale alla reputazione dell’Unione.

I principali paesi non occidentali come Cina e India, che sono i possibili bersagli di un’aggressione politica europea (e forse di altre forme) dopo la Russia, potrebbero non voler correre questo rischio e potrebbero quindi iniziare a trasferire parte dei loro beni basati nell’UE e non depositarne altri (almeno su larga scala) in futuro. Resta da vedere quanto sia stato finanziariamente dannoso il fallito tentativo dell’UE di rubare i beni sequestrati alla Russia, ma non c’è dubbio che sia stato un atto autolesionista, il che in ogni caso danneggia la reputazione del blocco.

Le prossime elezioni parlamentari in Armenia si preannunciano come un altro punto critico

Andrew Korybko29 dicembre
 
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La potenziale destituzione democratica di Pashinyan potrebbe complicare e forse persino sospendere il TRIPP, colmando così il vuoto geostrategico attraverso il quale la Turchia dovrebbe esercitare l’influenza occidentale lungo l’intera periferia meridionale della Russia. Allo stesso modo, il suo mantenimento al potere manterrebbe aperto questo vuoto.

Carnegie Europe ha pubblicato a metà novembre un articolo intitolato “Le elezioni in Armenia sono una questione di politica estera“, che spiega candidamente perché il primo ministro Nikol Pashinyan “avrà bisogno dell’aiuto dell’Europa, degli Stati Uniti e dei paesi vicini della regione”. Rimanere al potere, sostiene Carnegie Europe, consentirà di “portare avanti la sua ambiziosa politica estera” che vede l’Armenia allontanarsi dalla Russia per avvicinarsi all’Occidente. L’aiuto delle parti sopra citate è quindi inquadrato come un sostegno a una democrazia alleata per difendersi dall’ingerenza russa.

La realtà è che questo aiuto, i cui dettagli saranno descritti, equivale a un’ingerenza nel senso che è inteso ad aiutare il partito al potere a conquistare il favore dell’opinione pubblica in vista delle prossime elezioni. Si sottintende che l’Azerbaigian dovrebbe revocare la sua richiesta all’Armenia di rimuovere un riferimento indiretto al Karabakh dalla sua costituzione, in modo da facilitare la conclusione di un accordo di pace che rafforzerebbe la posizione di Pashinyan. Baku ha tuttavia mantenuto ferma questa richiesta, motivo per cui potrebbe spettare ad altri partner aiutarlo.

È qui che risiede il ruolo che la Turchia potrebbe svolgere se aprisse le frontiere e normalizzasse le relazioni con l’Armenia, anche se quest’ultima non dovesse concludere l’accordo di pace con l’Azerbaigian. La sfida, tuttavia, è che Ankara non vuole offendere Baku ricompensando Yerevan quando quest’ultima non ha fatto ciò che Baku le chiede. Pertanto, gli Stati Uniti e l’Unione Europea potrebbero essere gli unici a poter aiutare Pashinyan, accelerando l’attuazione della “Trump Route for International Peace & Prosperity” (TRIPP).

Ciò potrebbe portare dividendi tangibili al popolo armeno, come il miglioramento del tenore di vita del loro Paese, in gran parte impoverito, che potrebbe poi portarlo a schierarsi con il suo partito durante le elezioni. L’importanza del suo mantenimento al potere e del completamento della svolta anti-russa del suo Paese è paragonabile alla vittoria del governo moldavo alle elezioni presidenziali dello scorso anno e a quelle parlamentari di questa primavera. Il proseguimento del corso geopolitico di ciascun Paese contribuisce a esercitare pressione sulla Russia.

Non è quindi una coincidenza che “Un think tank statunitense consideri l’Armenia un attore chiave per contenere la Russia“, secondo quanto valutato all’inizio di novembre dal suo presidente e da un direttore di uno dei suoi principali istituti, come spiegato nella precedente analisi collegata tramite hyperlink. La tempistica del loro articolo, pubblicato proprio prima di quello di Carnegie Europe, suggerisce che sia in corso un’operazione di guerra dell’informazione volta a predisporre l’opinione pubblica occidentale ad accettare e poi sostenere un’ingerenza de facto in Armenia attraverso i mezzi descritti.

In parole povere, la potenziale destituzione democratica di Pashinyan potrebbe complicare e forse persino sospendere il TRIPP, colmando così il vuoto geostrategico attraverso il quale la Turchia dovrebbe iniettare l’influenza occidentale lungo tutta la periferia meridionale della Russia. Tuttavia, gli enormi interessi geostrategici dell’Occidente potrebbero predeterminare la vittoria del partito al potere con le buone o con le cattive, poiché potrebbero cercare di replicare il modello di ingerenza moldavo di successo o richiedere un nuovo voto come in Romania se il risultato non fosse di loro gradimento.

Per questi motivi, le prossime elezioni parlamentari in Armenia si preannunciano come un altro punto critico, proprio come quelle recenti in Moldavia, e il partito di governo filo-occidentale può anche contare sul sostegno dei suoi alleati stranieri. Questa ingerenza di fatto inclina ulteriormente l’equilibrio a sfavore dell’opposizione populista-nazionalista conservatrice, che viene perseguitata dallo Stato con vari falsi pretesti. Il futuro quindi non sembra certo roseo per l’Armenia, ma è ancora prematuro scriverne l’elogio funebre.

La strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti invia segnali contrastanti all’India

Andrew Korybko24 dicembre
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Se gli Stati Uniti pongono vincoli di sicurezza al miglioramento dei rapporti con l’India, in particolare se chiedono all’India di contenere la Cina nel Mar Cinese Meridionale, allora è probabile che l’India rifiuterà questa proposta per evitare di diventare un rappresentante degli Stati Uniti.

Il peggioramento dei rapporti tra India e Stati Uniti sotto Trump 2.0 è stato uno degli esiti di politica estera più inaspettati della sua seconda presidenza finora, e questa analisi sostiene che sia dovuto alla sua volontà di punire l’India per essersi rifiutata di sottomettersi agli Stati Uniti. I legami tra Pakistan e Stati Uniti si sono invece rafforzati, nonostante fossero molto problematici sotto Trump 1.0, tanto che si è parlato della possibilità che il Pakistan conceda agli Stati Uniti un porto commerciale per ristabilire la propria presenza regionale, il che potrebbe avere un duplice scopo militare.

Questo contesto spiega perché la nuova Strategia per la Sicurezza Nazionale ( NSS ) di Trump 2.0 sia stata una sorpresa per gli osservatori dell’Asia meridionale. Il Pakistan viene menzionato solo una volta e solo nel contesto del controverso vanto di Trump di aver mediato un cessate il fuoco tra esso e l’India, nonostante il Pakistan sia stato finora il fulcro della politica regionale di questa seconda amministrazione. L’India, tuttavia, viene menzionata altre tre volte nel documento, la successiva delle quali riguarda il Quad.

Nelle loro parole, “Dobbiamo continuare a migliorare le relazioni commerciali (e di altro tipo) con l’India per incoraggiare Nuova Delhi a contribuire alla sicurezza indo-pacifica, anche attraverso una continua cooperazione quadrilaterale con Australia, Giappone e Stati Uniti (‘il Quad’)”. Hanno poi proposto che “l’America dovrebbe allo stesso modo arruolare i nostri alleati e partner europei e asiatici, tra cui l’India, per consolidare e migliorare le nostre posizioni congiunte nell’emisfero occidentale e, per quanto riguarda i minerali critici, in Africa”.

In relazione a ciò, “dovremmo formare coalizioni che utilizzino i nostri vantaggi comparati in ambito finanziario e tecnologico per costruire mercati di esportazione con i paesi cooperanti. I partner economici americani non dovrebbero più aspettarsi di ottenere profitti dagli Stati Uniti attraverso sovraccapacità e squilibri strutturali, ma piuttosto perseguire la crescita attraverso una cooperazione gestita legata all’allineamento strategico e ricevendo investimenti statunitensi a lungo termine”. Ciò può essere interpretato come un’allusione alle presunte pratiche commerciali “sleali” dell’India .

L’ultimo riferimento riguardava il “mantenere aperte le rotte [del Mar Cinese Meridionale], libere da ‘pedaggi’ e non soggette a chiusure arbitrarie da parte di un singolo Paese. Ciò richiederà non solo ulteriori investimenti nelle nostre capacità militari, in particolare navali, ma anche una forte cooperazione con ogni Paese che rischia di soffrire, dall’India al Giappone e oltre, se questo problema non verrà affrontato”. In altre parole, basandosi sul secondo riferimento relativo al Quad, gli Stati Uniti vogliono che l’India svolga un ruolo militare più attivo nel Mar Cinese Meridionale.

Mettendo insieme tutto questo, l’NSS degli Stati Uniti invia segnali contrastanti all’India. Da un lato, la vistosa omissione del Pakistan, se non nel contesto della vanagloria di Trump sulla mediazione del cessate il fuoco di primavera, dovrebbe far piacere all’India, a patto che ritenga che ciò preannunci una ricalibrazione politica. Dall’altro, ciò è apparentemente condizionato all’intensificazione della cooperazione indiana con il Quad, alla cooperazione con gli Stati Uniti sugli accordi minerari africani, all’apertura dei propri mercati a maggiori esportazioni statunitensi e al contenimento della Cina nel Mar Cinese Meridionale.

Sono possibili progetti congiunti in paesi terzi, così come l’abbassamento dei dazi sulle importazioni statunitensi da parte dell’India, ma il ruolo del Quad è stato oscurato dall’AUKUS (e dalla sua informale espansione di tipo NATO dell’AUKUS+ ), mentre l’incipiente riavvicinamento sino-indo-indiano rende l’India riluttante a contenere la Cina al di fuori dell’Asia meridionale. Se gli Stati Uniti impongono vincoli di sicurezza al miglioramento dei legami con l’India, in particolare se esigono che l’India contenga la Cina nel Mar Cinese Meridionale, allora è probabile che l’India rifiuterà questa proposta per evitare di diventare un rappresentante degli Stati Uniti.

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L’UE tra illusioni, contraddizioni e derive geopolitiche: il canto del cigno europeo_di Éric Juillot

L’UE tra illusioni, contraddizioni e derive geopolitiche: il canto del cigno europeo

Mentre si profila la prospettiva di un allargamento dell’Unione europea sotto forma di una fuga in avanti sconsiderata, la volontà della Commissione di sequestrare i beni russi congelati per sostenere l’Ucraina suscita giustamente qualche resistenza, mentre la Germania, nella speranza di ripristinare un po’ della sua competitività, danneggia il mercato unico sovvenzionando massicciamente il consumo elettrico delle sue industrie. Ultime notizie da Bruxelles.

Articolo Politica

pubblicato il 24/12/2025 Di Éric Juillot

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Ursula von der Leyen ha fatto dell’allargamento dell’Unione europea una priorità dei suoi due mandati. Sta spingendo per l’integrazione nell’UE del maggior numero possibile di Stati, dato che sei di essi, balcanici, vedono chiaramente avvicinarsi questa prospettiva, mentre la candidatura dell’Ucraina si profila all’orizzonte.

Una fuga in avanti mortale

Sebbene negli ambienti europeisti si manifesti talvolta preoccupazione per gli ostacoli che restano da superare prima di un effettivo allargamento, nessuno ne contesta il principio. L’apertura dell’Unione europea a nuovi Stati è spontaneamente percepita come una prova inconfutabile della vitalità del progetto europeista in un momento in cui è fondamentale rassicurarsi al riguardo, tanto più che le forze che lo contestano si intensificano e l’ideologia che lo sostiene si affievolisce. Tutto converge quindi per spingere i suoi sostenitori in una vera e propria cecità strategica sulla questione dell’allargamento.

Va tuttavia osservato che, lungi dal rilanciare la dinamica comunitaria, il processo di allargamento dell’UE rischia di accelerarne il crollo definitivo.

Ci sono diverse ragioni per questo. In primo luogo, un numero maggiore di Stati rende ancora più problematica l’insolubile questione della governabilità dell’UE. Al di là della sua complessità istituzionale, del peso della tecnocrazia e della mancanza di legittimità del Parlamento, il processo decisionale in seno al Consiglio a 29 o 31 Stati sarà ancora più complicato che a 27, anche in caso di estensione dei settori interessati dalla maggioranza qualificata (al posto dell’unanimità).

Le autorità francesi, che sostengono l’idea che un approfondimento debba costituire il presupposto indispensabile per qualsiasi allargamento, non brillano tuttavia per il loro discernimento. L’approfondimento presuppone infatti il rilancio di un progetto istituzionale di cui nessuno vuole più sentir parlare, a causa del ricordo traumatico dei referendum francesi e olandesi del 2005, ma anche perché l’influenza ideologica che potrebbe rendere desiderabile questo progetto è ormai troppo debole. Esso richiederebbe nuove rinunce alla sovranità da parte degli Stati, rinunce che oggi non sono più politicamente accettabili.

In queste condizioni, un’Unione Europea allargata rischia di diventare vittima della diversità dell’Europa e dell’eterogeneità dei rapporti con il mondo propri di ciascuno Stato. Coloro che temono la possibile integrazione di un «cavallo di Troia» difensore di una potenza terza e minacciosa non fanno altro che constatare i limiti del progetto europeista, che non ha più la forza di coprire e diluire queste differenze in un grande insieme comunitario. Il moltiplicarsi delle crisi di ogni tipo che caratterizzano la nostra epoca è destinato ad accentuare queste divergenze fino a renderle inconciliabili, e gli appelli al risveglio dell’«Europa», che si moltiplicano nel momento in cui essa intona il suo canto del cigno, non possono cambiare nulla, poiché non tengono conto della realtà.

Ma c’è di peggio. L’elemento determinante, quello che sottilmente dà impulso alla dinamica dell’allargamento a tutti i costi, rivela allo stesso tempo l’inutilità del progetto. La costruzione europea costituisce infatti un’impresa dalla pretesa storica nel cuore di un’epoca che ha perso la capacità e persino la comprensione di essa. Il regime di storicità che si è instaurato negli ultimi decenni è infatti di tipo presentista; è caratterizzato dalla cancellazione del passato e dall’oblio del futuro. La continuità dei tempi non è più assicurata, perché il passato ha perso la sua forza istituzionale – le società non vi attingono più il loro fondamento – e il futuro ha perso la dimensione chiara e radiosa che lo animava in precedenza. Al suo posto rimane solo un futuro dai contorni nel migliore dei casi incerti, nel peggiore apertamente minacciosi.

L’epoca è quindi, essenzialmente, quella di un presente perpetuo all’interno del quale la coscienza e l’azione propriamente storiche sono fuori portata, ed è in questo contesto civile quasi sterile che il progetto europeista cerca di svilupparsi. Se questo contesto ha permesso all’UE, per decenni, di diventare un surrogato di potenza, alla fine del percorso, ogni tentativo di illudersi più a lungo avvicina a una realtà sulla quale il pallone comunitario finirà per schiantarsi.

Il prossimo allargamento segue questa logica. È inevitabile perché, in un’epoca presentista, il movimento è fine a se stesso; costituisce una versione degradata del cambiamento, simile a un simulacro, che rassicura e addormenta tanto più quanto più è debole la sua portata operativa. Giunta al termine, la costruzione europea manifesta un’ultima volta il suo vigore tentando, con l’allargamento, di proiettare un pallido bagliore verso un futuro dal quale spera, a torto, di trarre una qualche forza motrice.

Prima la Germania!

Le scelte energetiche della Germania, indipendentemente dal ragionamento che le ha determinate, hanno contribuito ad aumentare i costi di produzione delle sue industrie, al punto da penalizzarne oggi la competitività. L’uscita dal nucleare era economicamente sostenibile solo a condizione di poter continuare a disporre a lungo di gas russo abbondante e a basso costo. La guerra in Ucraina ha deciso diversamente, costringendo la Germania a farne a meno.

Di fronte alla crisi economica in cui è globalmente impantanata e mentre la sua base industriale si sgretola rapidamente, la Germania è oggi costretta a sovvenzionare sul proprio territorio il prezzo dell’elettricità per i settori che ne consumano di più. Questa decisione spettacolare, annunciata pochi giorni fa, testimonia la gravità della situazione e il pragmatismo di cui è capace il governo tedesco, quando le circostanze lo richiedono. Una scelta del genere, che graverà sulle finanze pubbliche per diversi miliardi di euro all’anno, rappresenta infatti una rottura con il dogma dell’austerità di bilancio quasi perpetua su cui la Germania ha costruito la sua credibilità sui mercati finanziari negli ultimi decenni. È un esempio, tra gli altri, del “cambiamento epocale” annunciato dal precedente cancelliere Olaf Scholz nel 2022.

Sebbene la Germania disponga di un margine finanziario ben superiore a quello degli altri Stati dell’UE, non è certo che il ricorso massiccio all’arma fiscale possa far uscire l’economia tedesca dall’impasse, poiché si tratta in fin dei conti di un sostegno congiunturale, a fronte di un declino in gran parte strutturale.

Inoltre, indipendentemente dai risultati finali, questa decisione è altamente problematica a livello comunitario. Innanzitutto, perché è difficile capire come possa essere giustificata dal punto di vista giuridico. Il mercato unico europeo si basa sul dogma della concorrenza «libera e non falsata», che la decisione tedesca colpisce in pieno. Come al solito, le autorità di Bruxelles si trovano in una situazione insostenibile. In qualità di custode dei trattati, la Commissione è certamente abituata a contorsioni giuridiche e argomentazioni speciose per fingere almeno di farli rispettare. Deve infatti evitare di scontrarsi troppo frontalmente con gli Stati, per non alimentare un’ondata di sfiducia nell’opinione pubblica interessata.

Tuttavia, questa decisione non riguarda solo la Commissione; gli Stati membri dell’UE, “partner” oltre che concorrenti, avrebbero buoni motivi per ritenersi lesi e persino attaccati nei loro interessi economici dalla Germania. Tanto più che non è la prima volta che si verifica una situazione del genere.

Vent’anni fa, infatti, Gerard Schröder, allora cancelliere, avviò un vasto processo di regressione sociale – le riforme “Hartz” – e di contenimento salariale per aumentare la competitività della Germania nel mercato unico e trarre il massimo vantaggio dalla rinuncia della Francia alla sua sovranità monetaria, poiché l’euro le impediva di ricorrere all’arma della svalutazione per proteggersi dall’eccessiva competitività del suo vicino. Prima la Germania! All’epoca, con grande costernazione dei sostenitori dell’euro, questo era il fondamento di quella che gli economisti hanno pudicamente definito la «strategia non cooperativa» di Berlino. Vent’anni dopo, nulla è cambiato, anzi.

Come reagirà la Francia a questa grave violazione del funzionamento del mercato unico? Logicamente, Emmanuel Macron dovrebbe scagliarsi contro il governo tedesco su questo tema. Ma la preoccupazione di preservare ciò che resta di una “coppia franco-tedesca” in stato di morte clinica lo spingerà senza dubbio alla cautela, a scapito dell’interesse superiore del Paese. Perché ciò che la Germania intende preservare è in particolare il suo surplus commerciale nei confronti della Francia. Ha lavorato per anni allo smantellamento del settore elettronucleare francese – un’ambizione sostenuta dalla sua volontà di far regredire il nucleare civile ovunque fosse possibile, unita alla speranza di far perdere alla Francia uno dei suoi rari vantaggi comparativi, ovvero l’energia a basso costo –, ma questa battaglia, combattuta a livello dell’UE, è stata persa.

Sebbene sia influenzata da numerosi fattori determinanti, la decisione presa dalla Germania costituisce una nuova offensiva alla quale sarebbe difficile non opporsi se l’orizzonte di pensiero europeista dei leader francesi non minasse la loro capacità di difendere l’interesse nazionale. La reazione futura della Francia in merito dirà molto sulla persistenza di questo modo di vedere le cose o sul suo indebolimento.

Volerà, non volerà?

Da diversi mesi la Commissione sta cercando di convincere gli Stati membri a sequestrare i beni congelati della Russia per sostenere finanziariamente l’Ucraina. La cosa più incredibile di questa proposta non è il fatto che i 27 siano stati, come al solito, divisi al momento di prendere una decisione in merito, ma che non sia stata respinta fin da subito e all’unanimità. Perché non solo è difficile da difendere dal punto di vista morale e giuridico, ma è anche, e forse ancora di più, di una rara stupidità. L’UE vorrebbe compromettere gravemente la propria credibilità, ma non agirebbe in altro modo, e le conseguenze di una tale decisione si rivelerebbero nel tempo così controproducenti da minacciare la sua coesione e il suo cuore ideologico.

La coesione dell’UE sarebbe infatti compromessa dalle ripercussioni concrete che inevitabilmente avrebbe il sequestro autoritario dei beni russi. Sia sul piano geopolitico che su quello finanziario, l’UE si troverebbe coinvolta in una tempesta ingestibile, fatta di contromisure da parte della Russia e, soprattutto, di una diffusa sfiducia del resto del mondo nei confronti dell’UE, che perderebbe il suo status di piazza finanziaria sicura per i capitali.

A questo proposito, la posizione molto ferma assunta dal direttore di Euroclear, la struttura finanziaria belga incaricata dal 2022 di gestire tali beni – posizione sostenuta e ribadita di recente dal governo belga – ha il merito di essere lucida e realistica. Euroclear non può permettersi di compromettere la propria reputazione di integrità per 200 miliardi di euro di attività russe, quando ne gestisce altri 40.000 provenienti da tutto il mondo. Queste evidenze sono tali da far riflettere i capi di Stato e di governo, che avrebbero tutto l’interesse a meditare sulle lezioni del fallimento delle sanzioni europee a causa della maggiore efficacia delle controsanzioni russe sulle rispettive economie. Potrebbero anche pensare a preservare il futuro, piuttosto che creare un nuovo pomo della discordia che potrebbe rovinare le relazioni con la Russia molto tempo dopo il ritorno della pace.

Ma c’è di peggio: agendo in questo modo, l’UE si renderebbe colpevole di un vero e proprio furto, che nessuna arguzia giuridica, nessuna manipolazione comunicativa potrebbe nascondere o giustificare. Ciò comprometterebbe gravemente ciò che essa è, o meglio ciò che pretende di essere, ovvero una garante dello Stato di diritto in Europa e oltre, nonché, dal 2022, una difensore incrollabile di un ordine internazionale «basato su regole».

Fino a prova contraria, gli atti di predazione caratterizzati non fanno parte di tali regole, né tantomeno dei «valori» con cui l’UE si ammanta per attestare la propria superiorità ontologica. Tuttavia, è necessario sottolineare che questi valori, nonostante la loro applicazione fluttuante, l’ipocrisia che spesso ne presiede l’attuazione e gli effetti di facciata che hanno come prima virtù quella di autorizzare, costituiscono per l’UE il suo bene più prezioso, poiché non c’è nient’altro che possa fondare ideologicamente la sua esistenza.

Se oggi è tentata di rimetterli in discussione, è perché cerca disperatamente un modo per operare la sua trasformazione geopolitica. Crede di averlo trovato comportandosi come fanno alcuni Stati, ma così facendo rischia di perdere su entrambi i fronti. Da un lato, la distruzione certa delle fondamenta ideologiche dei valori e delle regole che oggi ne garantiscono la stabilità; dall’altro, un’impossibile trasformazione in Stato, essendo la sua natura del tutto incompatibile con la sostanza geopolitica, anche quando la guerra all’estremità orientale dell’Europa rappresenta un contesto favorevole.

È quindi difficile immaginare una proposta più autodistruttiva di questa per l’UE. Il fatto stesso che sia stata formulata deve essere visto come un disperato tentativo di ridare vigore a un progetto europeo ormai in fase terminale, nonché come un errore intrinseco alla lettura semplicistica del conflitto russo-ucraino in cui le élite europee si sono impantanate sin dall’inizio.

SITREP 26/12/25: L’AFU fugge da Gulyaipole, mentre la Russia inciampa nella torbida Kupyansk_di Simplicius

SITREP 26/12/25: L’AFU fugge da Gulyaipole, mentre la Russia inciampa nella torbida Kupyansk

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La notizia più importante della scorsa settimana sono stati gli attacchi della Russia nella regione di Odessa e Nikolaev. Questi hanno preso di mira sia le infrastrutture della rete energetica sia, cosa più sorprendente, quelle dei trasporti e ferroviarie, in quello che sembra essere un tentativo di isolare Odessa dalla logistica occidentale.

Panico nella regione di Odessa dopo gli attacchi al ponte sul Dniester, vicino al villaggio di Mayaki. Gli attacchi al ponte e al ponte di Zatoka sono in corso da 9 giorni consecutivi. Il sud della regione potrebbe essere isolato dagli ultimi porti funzionanti, attraverso i quali viene rifornita di benzina la parte centrale dell’Ucraina e la regione di Odessa. Gli imprenditori locali si stanno già offrendo di trasportare persone dall’altra parte per 10.000 grivne.
Il panico si sta diffondendo su entrambi i lati del ponte, con persone che fanno rifornimento di carburante e cibo e lunghe code alle stazioni di servizio di Odessa. Altre fonti riferiscono che la “febbre” durerà per 1-2 settimane, finché la logistica non sarà riorganizzata attraverso Moldavia e Romania. A quel punto, potrebbero comparire attraversamenti su pontoni a Mayaki.

Altri resoconti ucraini:

Questo filmato risale alla settimana scorsa e mostra i tedeschi russi che colpiscono con precisione i ponti Sarata o Zatoka e altri attraversamenti ferroviari nella regione di Odessa:

Bombe plananti assistite da jet russi e droni Geran-2 colpiscono il ponte Zatoka nella regione di Odessa.

Altri due video provengono da altri valichi ferroviari nella regione di Odessa. La Russia sta intensificando la pressione sulla regione in seguito agli attacchi ucraini alle navi russe nel Mar Nero.

Bisogna tenere presente che lo scopo di tali attacchi non è quello di abbattere il ponte, cosa che i Geran non sono abbastanza forti per fare, ma piuttosto quello di mettere in ginocchio la ferrovia ripetutamente, anche dopo che è stata ripetutamente riparata.

Proprio oggi, il massimo esperto dell’AFU Serhiy “Flash” Beskrestnov ha scritto questo aggiornamento urgente sulla situazione, menzionando gli attacchi alle squadre di riparazione e fornendo la seguente mappa:

Secondo l’esperto di droni Flash, la Russia sta cercando di chiudere la ferrovia Kovel-Kiev per interrompere i viaggi tra Ucraina e Polonia.

Due giorni fa, i Geranium hanno attaccato un treno, poi una squadra di riparazione; l’altro ieri, un ponte ferroviario; e la scorsa notte, un deposito di locomotive.

Sono emersi video di traffico intenso, code, carenza di carburante e persino proteste per le interruzioni di corrente. Ma al momento possiamo solo ipotizzare perché esattamente il Ministero della Difesa russo abbia deciso di iniziare a colpire le infrastrutture di trasporto proprio ora. La ragione principale degli attacchi in generale, in particolare alla rete energetica, sembra essere stata la “risposta” “occhio per occhio” agli attacchi dell’Ucraina alle petroliere russe della “flotta ombra” sia nel Mar Nero che nel Mediterraneo; ma la rappresaglia russa sembra andare oltre.

Gli attacchi al ponte sull’autostrada Odessa-Reni potrebbero bloccare il 60% delle importazioni di carburante in Ucraina, il che porterà ad un aumento dei prezzi e a una carenza di benzina, ha affermato il fondatore del gruppo Prime, Dmitry Levushkin.

Gli analisti russi hanno cercato una spiegazione del perché attacchi così su larga scala contro ponti e infrastrutture di trasporto nella regione non si siano verificati molto tempo fa, cosa con cui sono d’accordo e su cui ho scritto ampiamente in precedenza:

Molti si sono chiesti cosa abbia impedito loro di attaccare questi ponti nel 2022.
Nel 2022, le Forze Armate russe non disponevano di Geran o FAB con UMPK, che sono armi economiche. È estremamente costoso colpire i ponti con i missili Kalibr e Kh-101. Ogni missile costa almeno 130 milioni di rubli e ne occorrono molti. Un ponte di grandi dimensioni richiede diverse decine di missili, il che equivale a quasi sei mesi di produzione all’epoca.
Attualmente, è possibile lanciare 10-20 Geran al giorno contro questi ponti, sebbene non causino danni critici. I FAB con UMPK possono essere lanciati a decine con grande efficacia, ma questo è pericoloso per gli aerei che penetrano nella zona di difesa aerea nemica.

L’ultima parte è vera riguardo al pericolo di avvicinare i Su-34 abbastanza da poter sganciare i FAB dotati di kit di bombe plananti UMPK. Tuttavia, la Russia ha implementato i nuovi FAB con una portata di 200-300 km. Come si può vedere di seguito, questo consentirebbe di colpire Odessa da ben oltre la sicurezza della Crimea stessa:

L’unico problema è che non sappiamo in quanti esemplari la Russia abbia finora prodotto questi kit a lungo raggio e possiamo solo supporre che il numero non sia ancora elevato.

Un’altra spiegazione per ciò che la Russia ha fatto di recente in generale in Ucraina è la suddivisione del Paese in più regioni disconnesse, almeno in termini di rete elettrica. Detto questo, non dovremmo esagerare: una rapida occhiata alla situazione energetica di Odessa, anche a partire dalla fine del 2024, ha mostrato alcuni degli stessi articoli “urgenti” e “allarmanti” su come l’intera regione fosse stata disconnessa dagli attacchi. Non ci si dovrebbe aspettare che la Russia vinca magicamente la guerra mettendo in ginocchio l’Ucraina solo attraverso questi attacchi alla rete energetica; in fin dei conti, solo i progressi sul campo di battaglia possono garantire la vera vittoria.

Detto questo, diamo un’occhiata alla situazione in prima linea.

L’altra notizia più importante è stato il sorprendente e continuo crollo della Russia nella direzione di Kupyansk:

Ciò che inizialmente era iniziato come una ritirata tattica “incerta” si è ora apparentemente trasformato in un grave crollo difensivo da parte russa, con il contrattacco ucraino che avrebbe riconquistato gran parte della parte occidentale di Kupyansk, sulla riva destra del fiume Oskol.

Certo, le fonti di entrambe le parti sono discordanti sulla situazione precisa. Molte fonti legate all’esercito russo continuano a sostenere che le “avanzate fantasma” dell’Ucraina non hanno fatto altro che creare una vasta zona grigia nella parte occidentale della città, con sacche di resistenza russa rimaste, ma senza un vero e proprio consolidamento da parte delle truppe ucraine.

Video che mostra le truppe russe che evacuano il loro comandante ferito durante la ritirata da Kupyansk:

Molte fonti russe sostengono che Zelensky abbia gettato tutto in questo “tritacarne” simile a Kursk per creare un’enorme occasione di pubbliche relazioni. Tonnellate di unità d’élite dell’AFU e mercenari sono state inviate lì, e la parte russa afferma che stanno morendo a frotte. Se questo è vero, allora la situazione è probabilmente molto simile a quella di Kursk, tuttavia non spiega ancora l’incapacità della Russia di prepararsi o anticipare un simile attacco. Solo il terreno estremamente impervio fornisce una spiegazione plausibile, dato che la “testa di ponte” russa è sopravvissuta sul lato occidentale dell’Oskol tramite pontoni e altri attraversamenti dubbi, e una volta che la forza principale è stata minacciata, i russi molto probabilmente si sono ritirati tatticamente con la sicurezza al primo posto per non rimanere intrappolati.

Un altro rapporto russo “positivo” afferma:

“A Kupyansk

Stiamo mantenendo la nostra presenza in città. Il nemico attacca costantemente. I ragazzi mantengono saldamente la difesa. La situazione è estremamente difficile, ma non ancora critica.

I nostri equipaggi di droni stanno lavorando a pieno regime, sia in città che lungo l’intera linea di contatto di Kupyansk. Stiamo facendo del nostro meglio per interrompere i rinforzi e le rotazioni nemiche.

Nella stessa Kupyansk, la 68a Divisione fucilieri motorizzati ha già radunato un gran numero di militari delle Forze armate ucraine.

A Kupyansk-Uzlovoe, Novoosinovo, Kovsharovka e Kurilovka, ogni minuto si lavora anche su mezzi pesanti, pick-up e sistemi missilistici anticarro.

A Glushkovka, il punto di controllo dei droni e il sistema di difesa aerea nemici sono stati distrutti. Pubblicherò tutti i filmati non appena possibile.

Incrociate le dita per i nostri ragazzi.”

Un altro importante analista militare russo scrive a proposito della situazione:

In questo caso, il termine 122° si riferisce al 122° reggimento fucilieri motorizzati della 68a divisione fucilieri motorizzati della Guardia del 6° CAA del distretto militare di Leningrado.

Radov ha poi elencato le tattiche responsabili del successo dell’AFU in questo contrattacco, affermando che le unità ucraine hanno utilizzato la nuova tattica russa di “infiltrazione” contro di essa; ovvero si sono infiltrate gradualmente in piccoli gruppi con l’aiuto di droni. Ciò è stato facilitato principalmente dal fatto che Kupyansk è circondata da numerose foreste, il che ha permesso alle unità dell’AFU di creare una forte presenza segreta appena fuori città, sotto copertura. Questa è stata in realtà la ragione principale del crollo di Kharkov in generale intorno a Izyum e verso est nel ’22: questa regione settentrionale è ricca di foreste, il che offre alle unità ucraine molti vantaggi nell’accumulare forze in segreto.

Un esempio della fitta zona boschiva nella periferia occidentale della città, da cui precisamente provengono le forze ucraine infiltratesi:

Ci sono molti forti echi della controffensiva di Kharkov del 2022, e i russi saranno ora costretti a riconquistare Kupyansk per la terza volta .

Rybar ha redatto un rapporto in cui attribuisce la responsabilità di quanto accaduto ai “falsi rapporti” dei comandanti russi in questa regione. Ho già detto che il raggruppamento settentrionale qui ha subito alcuni degli errori più gravi e, in generale, ha ottenuto i risultati peggiori di tutti gli altri raggruppamenti. Mentre il raggruppamento meridionale e quello centrale hanno conquistato vaste aree delle regioni di Zaporozhye e Donbass negli ultimi due anni, questo raggruppamento settentrionale è rimasto sostanzialmente bloccato nell’area circostante Kupyansk per tutto il tempo, con scarsi progressi.

Da Rybar:

Un combattente russo, che si dice sia sul fronte di Kupyansk, aggiunge:

“Kupiansk. La città non si è arresa. Potrebbe essere necessario prenderla una terza volta.” La situazione a Kupiansk è la prospettiva di un combattente da questa prospettiva. È generalmente accurata. Le nostre forze sono isolate e la situazione è disperata.

Un altro soldato russo segnalato interviene dal fronte di Kupyansk:

Con il canale militare russo che ha pubblicato il commento sopra:

Kupjansk… Probabilmente tutto è descritto in questi rapporti. A dire il vero, leggendo le parole del mio compagno di combattimento, mi viene un nodo alla gola. Non si lamenta mai, ma è pieno di coraggio, eroismo e audacia. La situazione, per usare un eufemismo, non è delle migliori. Ma questi ragazzi non si ritireranno e, sfortunatamente, nessuno conosce i loro nomi e non hanno ricevuto alcuna onorificenza per la presa di Kupjansk. E tutti i problemi sono legati al fatto che hanno fatto rapporto, ma le riserve non sono state rinforzate e ora i ragazzi stanno respingendo ondate di attacchi con le stesse forze che sono rimaste lì! Ma qualcuno indossa già con orgoglio la medaglia di Eroe della Russia!

Stanno tenendo la difesa, non chiedono premi, non si lamentano della mancanza di rinforzi. Stanno solo facendo il loro dovere.

E da qualche parte lì, in uffici caldi, persone che non hanno mai combattuto condividono la gloria e si appropriano dei successi altrui. Non si preoccupano di chi combatte per ogni centimetro di terra a costo della propria vita. Ciò che conta sono il giornalismo e le ambizioni personali.

Pioniere della Riserva

L’ironia è che questa regione è amministrata da uno degli eserciti più d’élite della Russia, la 1ª Armata Corazzata della Guardia dei distretti militari occidentali e ora di Mosca. Questa era la crème de la crème dei raggruppamenti d’armate russi prima della guerra, e includeva la 4ª Divisione Corazzata della Guardia e la 47ª Divisione Corazzata, che essenzialmente avrebbero dovuto essere i raggruppamenti corazzati più forti della Russia, incaricati di difendere Mosca dalle incursioni NATO occidentali. Storicamente erano equipaggiati con il miglior equipaggiamento, inclusi i T-80U, e furono le prime e uniche unità a ricevere i T-90M.

Nel frattempo, il raggruppamento di maggior successo, che sta attraversando le regioni di Zaporozhye e Dnipro vicino a Gulyaipole, è soprannominato “Eastern Express” e corrisponde al “modesto” Distretto Militare dell’Estremo Oriente. Nello specifico, questo include la 35ª Armata Interforze dell’Oblast’ dell’Amur, la 36ª Armata Interforze della Buriazia, la 29ª Armata Interforze di Chita, in Siberia, e la 5ª Armata Interforze di Ussuriysk, nel Territorio del Litorale, all’estremità del Pacifico.

Ecco quindi l’ironia: i viziati ragazzi di Mosca, dotati delle migliori attrezzature, vengono sconfitti, mentre i combattivi Buriati, Siberiani e Estremo Oriente battono ogni record di velocità terrestre per avanzare. Vi suona familiare?

In definitiva, Zelensky sembra aver lanciato strategicamente questa controffensiva per umiliare Putin, che aveva appena annunciato la “conquista completa” di Kupyansk. Zelensky ci è riuscito, in una certa misura, e il Ministero della Difesa russo ha nuovamente perso credibilità annunciando con orgoglio questa “conquista totale”. Detto questo, se i resoconti russi sulle perdite sproporzionate delle Forze Armate Aeree (AFU) per un obiettivo di pubbliche relazioni sono veritieri, allora possiamo aspettarci lo stesso finale di Kursk e Sumy, con le forze russe che alla fine ristabiliscono il controllo dopo aver concesso un periodo di tempo alle Forze Armate Aeree eccessivamente zelanti per esaurirsi. Questo è particolarmente vero se i resoconti russi secondo cui gran parte dell’avanzata delle Forze Armate Aeree non è altro che la creazione di zone grigie piuttosto che un vero e proprio controllo su una parte della città.

Infine, su questo punto, non possiamo aspettarci che la Russia abbia successo ovunque e in ogni momento. È un gioco di quattro passi avanti e uno indietro. La Russia ha appena conquistato Seversk, Pokrovsk, Mirnograd (per la maggior parte) e presto anche Gulyaipole, entro un giorno o due. Molti altri insediamenti più piccoli cadono ogni giorno, quindi una singola battuta d’arresto in un’area non è affatto catastrofica, ma semplicemente evidenzia debolezze e ribadisce che questa è pur sempre una guerra in cui alcune battaglie potrebbero essere perse a causa di errori nel quadro generale delle vittorie in corso.

Se non fosse per la difficile situazione del fiume Oskol che taglia in due la città e la regione in generale, tutto questo probabilmente non sarebbe mai accaduto.

Altrove, la Russia continua a ottenere successi, in particolare nella direzione di Gulyaipole.

Ricorderete che, in alcuni rapporti precedenti, avevo previsto che la Russia avrebbe conquistato la successiva zona importante oltre il fiume Haichur, fino alla successiva linea difensiva a nord di Orekhov. Le forze dell'”Eastern Express” hanno già sfondato completamente l’Haichur e stanno accelerando verso ovest, come avevamo previsto.

Si noti la linea gialla che corre a nord di Gulyaipole (cerchiata in giallo). Questa strada era la precedente LoC russa e le forze russe ora la stanno superando ampiamente, con i principali salienti sulle linee Dobropillya e Andriivka:

In basso a sinistra della mappa si può vedere Orekhov, con la principale via di rifornimento che corre a nord verso Zalyvne, Ternivka e infine Novomykolaivka, non visibile su questa mappa. Come si può vedere, le forze russe nei salienti sopra indicati sono già a quasi un quarto del percorso verso questa prossima linea di difesa e MSR.

Il “Far Eastern Express” si dirige verso Zaporizhia. La 37a Brigata Motorizzata di Fucilieri della Guardia ha conquistato il villaggio di Kosovtsevo, nella regione di Zaporizhia.

Nella città di Gulyaipole, l’AFU è completamente crollata. Al momento in cui scrivo, circolano notizie della presa totale della città, con le forze russe geolocalizzate che avrebbero piantato una bandiera ai suoi estremi confini occidentali, sebbene ciò non sia ancora stato pienamente confermato dai principali cartografi.

Dal famoso cartografo russo Creamy Caprice:

26.12.25 Gulyaypole

Presa di Gulyaypole.

Le unità delle Forze armate russe stanno avanzando nelle zone residenziali per oltre 1,5 km e stanno prendendo nuove posizioni nella periferia occidentale della città, sotto il fuoco delle Forze armate ucraine.

Geolocalizzazione: 47.660768, 36.224185

Per usare una mappa migliore, li collocheremmo qui e in pratica segneremmo la completa conquista della città:

I canali nemici segnalano una crisi nella gestione delle unità delle Forze Armate ucraine a Gulyai-Pole. Nella 102ª Brigata di Truppe Separate, alcuni ufficiali stanno incoraggiando i loro subordinati ad abbandonare le loro posizioni senza permesso, a ritirarsi o ad arrendersi. C’è una mancanza di coordinamento in città e ci sono stati casi in cui le posizioni della 102ª Brigata sono state attaccate dalle loro stesse truppe.
Nel tentativo di mantenere il controllo della città, vengono inviate in città unità d’assalto della 1ª, 225ª e 33ª brigata meccanica BTG 154ª.

In effetti, le truppe ucraine si stanno ritirando così rapidamente che, a quanto pare, per la prima volta in assoluto la Russia ha catturato il quartier generale di un battaglione attivo dell’AFU, con tutti i suoi equipaggiamenti e le sue attrezzature:

Le forze russe hanno catturato il posto di comando di un battaglione di difesa territoriale ucraino in via Sobornaya a Guliaipole.

L’edificio ospitava il quartier generale del 1° Battaglione di linea della 106ª Brigata di difesa territoriale, che fu trasferito al comando della 102ª Brigata di difesa territoriale.

Gli ucraini hanno ammesso ufficialmente la sconfitta, ma hanno trovato varie scuse .

Ci furono molte altre piccole avanzate russe, ma per ora ci limiteremo alle azioni principali, poiché l’articolo è già troppo lungo.

Solo un’eccezione. Le forze russe apparentemente hanno condotto un assalto corazzato su larga scala a nord di Pokrovsk sulla linea Dobropillya (non la Dobropillya menzionata in precedenza sulla linea Gulyaipole, che non è correlata).

L’AFU dichiara perdite ingenti e ha pubblicato questo video, sebbene sia incerto come sempre a causa del loro “editing creativo”. Tuttavia, poiché gli assalti corazzati di grandi dimensioni stanno diventando sempre più rari, è comunque interessante da vedere per ragioni storiche; di particolare interesse sono i diversi tipi di nuove gabbie e le aggiunte anti-drone ai veicoli corazzati:

Commento russo:

Sotto il fuoco nemico, i nostri marines stanno sbarcando truppe in direzione di Shakhova-Sofiyivka-Dobropil, il 22 dicembre. Apprendiamo i dettagli. Ci sono state perdite parziali o totali di 6 carri armati, 9 BMP, 5 BTR, 1 BREM e 10 ATV. Nonostante l’incubo di tali attacchi di gruppi corazzati, è l’unico modo per schierare immediatamente grandi gruppi di fanteria per un assalto decisivo e un’avanzata, piuttosto che inviare 2 persone al giorno.

Ad esempio, in altri luoghi sono stati avvistati diversi carri armati russi che apparentemente utilizzavano container come gabbie anti-drone:

Sebbene i canali ucraini abbiano riso, alcuni hanno abilmente suggerito che questa potrebbe essere una difesa ingegnosa contro la minaccia dei droni guidati dall’intelligenza artificiale, ormai in rapida crescita. I container interrompono il “profilo” del carro armato, il che impedirebbe ai sistemi di intelligenza artificiale addestrati sui classici profili dei carri armati di colpire i veicoli in modalità automatica. Non è diverso da come i russi dipingevano forme strane sui loro aerei, coprendoli con pneumatici di gomma, ecc., per interrompere il rilevamento assistito dall’intelligenza artificiale dei satelliti NATO.

Qui Sladkov mostra un’altra delle recenti protezioni in stile “Dandelion” per i carri armati russi:

Un altro sguardo recente alle mostruosità d’acciaio che ora vanno in battaglia dalla parte russa:

Ultimi elementi:

A proposito delle offensive di Zaporozhye, ecco un video ucraino che mostra la nuova, imponente linea difensiva principale che si sta costruendo nella regione:

Il Servizio speciale statale dei trasporti ucraino ha pubblicato i risultati del suo lavoro: sono stati costruiti 2130 punti di forza per plotoni, sono stati costruiti più di 3000 km di fossati anticarro, sono stati installati più di 1000 km di “piramidi”, sono stati installati 16000 km della linea di sbarramento “Egoza” e sono stati installati 4,3 mila km di ostacoli a bassa visibilità.

Si dice che si trovi da qualche parte nella zona di confine tra Zapo e Dnipro, esattamente dove le truppe dell'”Eastern Express” stanno avanzando oltre Gulyaipole.

Budanov ha fornito alcune informazioni rivelatrici sui piani della Russia per la coscrizione obbligatoria nel 2026, provenienti dalla fonte ufficiale ucraina:

Il piano di mobilitazione della Russia per il 2025 prevedeva il reclutamento di 403.000 persone, cifra raggiunta all’inizio di dicembre. Pertanto, nel 2025 i russi supereranno il piano di reclutamento delle truppe.

Ha affermato che la principale fonte di rifornimento dell’esercito russo sono i soldati a contratto.

Secondo Budanov, entro il 2026 il piano di mobilitazione dei russi prevede il reclutamento di 409.000 persone. Alla domanda se la Russia incontri problemi nel processo di reclutamento di personale per la guerra, Kirill Budanov ha risposto:

“Certo. Per questo motivo, aumentano periodicamente l’importo dei pagamenti una tantum: varia a seconda della regione, ma si tratta di importi significativi. È così che attirano le persone ad arruolarsi nell’esercito”, ha detto.

Infine, mentre scriviamo, si è verificato un altro massiccio attacco russo con missili da crociera e droni contro le centrali elettriche ucraine, dando priorità a Kiev, con segnalazioni che sostengono che Kiev abbia perso l’elettricità.


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CINA e STATI UNITI, due piani di sicurezza nazionale a confronto_di Giuseppe Germinario

CINA e STATI UNITI, DUE PIANI DI SICUREZZA NAZIONALE A CONFRONTO

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Il dibattito politico-strategico internazionale di quest’ultimo mese si è incentrato quasi esclusivamente sul NSS (National Security Strategy) statunitense. È passato infatti in secondo piano il fatto che anche i governi cinese, nel maggio scorso e  russo, due mesi fa, hanno a loro volta presentato un documento analogo. Il corollario di questa relativa “attenzione” è stato una produzione asfittica di analisi comparate dei tre documenti delle tre principali realtà geopolitiche.

Una disattenzione in qualche modo comprensibile nei riguardi di quello russo, tutto incentrato sulla situazione interna e sulla gestione in particolare delle differenze etniche e di nazionalità presenti nella Federazione Russa. Non che l’amministrazione russa abbia trascurato i temi della coesione sociale, dello sviluppo economico e della diversificazione produttiva interni al paese, della postura geopolitica e della strategia militare. Tutt’altro! Li ha semplicemente esposti in documenti nettamente separati e a se stanti.

Colpisce, invece, l’enfasi all’approccio “olistico” che promana dai due documenti cinese e statunitense, nel primo ostentato e dichiarato continuamente, quasi ossessivamente, nel secondo più sotteso.

Tre impostazioni diverse quindi  che, a loro modo, rivelano tre impostazioni ed urgenze diverse: quella russa, apparentemente più regionale, se così si può parlare di un paese diffuso in quattro continenti, non fosse altro perché assillato fondatamente dalla sicurezza  dei propri confini e confortato ormai da una economia sviluppata  e dinamica che può e potrà contare su risorse proprie addirittura ridondanti.

Le altre due dal carattere esattamente speculare nella loro acuta attenzione alla collocazione geopolitica e al nesso tra politica estera e situazione interna.

Della situazione russa continueremo ad approfondire in altre occasioni.

Il sito, per altro, ha riservato una attenzione costante e originale, sin dalla sua nascita, alla situazione e alle posizioni e tendenze presenti negli Stati Uniti.

L’attuale leadership statunitense, tornata al governo da circa un anno, ma non ancora saldamente al potere, se mai ci riuscirà pienamente e stabilmente, ha compreso il nesso tra la sua insostenibile sovraesposizione internazionale, così poco selettiva, l’approccio universalistico dell’eccezionalismo americano, il globalismo predicato e la allarmante fragilità interna della propria formazione sociale. Una fragilità provocata ed alimentata dalle precedenti leadership al governo, ma detentrici ancora di significative leve di potere, le quali hanno consentito di “parassitare” il proprio paese ad opera di forze esterne di cui sono espressione. Una narrazione, quella di un paese parassitato, per altro poco credibile agli occhi del resto del mondo, con qualche fondamento in situazioni di decadenza imperiale, tesa comunque ad identificare e additare un nemico esterno, anche se, per il momento, di natura diversa rispetto alle narrazioni precedenti e ad additare e delegittimare, pur con buone ragioni, l’avversario politico interno come nemico.

Ne consegue un radicale cambiamento, almeno nelle intenzioni, delle priorità e delle modalità di esercizio dell’impegno politico e di ottenimento dei risultati, quindi, in ordine decrescente:

  1. Difesa ed impermeabilità dei propri confini nazionali ed epurazione degli immigrati illegali e in condizione precaria. Ricostruzione della base industriale del paese fondata sui primati tecnologici dei quali dispone il paese e ripristino su basi nuove della coesione sociale fondata sulla valorizzazione dei ceti produttivi
  2. Delimitazione, nei limiti del possibile, dell’intervento diretto e proattivo e nelle sue più svariate forme al proprio “giardino di casa”, esteso dalla Groenlandia all’America Latina. Dovrebbe essere questo, quindi, lo spazio di confronto più diretto con Russia e Cina, ma in condizioni molto diverse rispetto solo a pochi decenni fa. La Russia e soprattutto la Cina hanno avuto il tempo di tessere importanti relazioni politiche ed economiche con i paesi di quel continente, grazie anche alla “complicità” statunitense nei passati processi di deindustrializzazione di quelle aree; le élites politiche locali non sono più, per altro, di stretta e totale emanazione nordamericana
  3. Il confronto con le maggiori potenze emerse, Cina e Russia, viene, per meglio dire si vorrebbe trasformare in un rapporto di accesa competizione però  di lunga durata e di cooperazione tattica in attesa del riaccumulo delle forze necessarie a sostenere un eventuale confronto aperto
  4. Sussunzione sempre più rigorosa delle strategie e politiche economiche, delle stesse catene di produzione alle strategie politiche, geopolitiche e militari. Di fatto le catene di produzione dei settori strategici devono coinvolgere la sola cerchia dei paesi più fidati, lasciando libero il commercio e le catene di produzione dei soli settori complementari

Da questo la riconsiderazione di una nuova stratificazione del sistema di alleanze, di un ruolo più proattivo, nelle rispettive aree, dei soggetti da aggregare e/o riaggregare, di una qualità diversa delle modalità operative e di esercizio della politica estera, diplomatica, economica e militare.

Tutti propositi e schemi attuativi che prevedono una fase transitiva di scompaginamento del sistema consolidato di relazioni inquadrabile in una definizione particolare e spregiudicata, tipicamente trumpiana, di multilateralismo.

Si osserva curiosamente l’utilizzo di un primo termine comune, il multilateralismo, alle due opzioni strategiche speculari  cinese e statunitense.

L’altro tratto comune a quello cinese, che risalta nella NSS, è la trasformazione della cosiddetta politica di aiuti, legata alla famigerata attività delle ONG,  in quella di investimenti produttivi, a quanto pare anche con forme di compartecipazione delle élites locali nella gestione. L’Africa e l’America Latina sono i continenti maggiormente deputati a ricevere queste attenzioni. Se per i cinesi, la pratica degli investimenti produttivi ed infrastrutturali sono stati sin dall’inizio fondativi delle relazioni economiche, per gli Stati Uniti potrebbe rivelarsi un ritorno al passato remoto, rispetto alle politiche quasi esclusivamente  direttamente finanziarie-predatorie o assistenziali dei tempi recenti. Resteranno da verificare quote, modalità e pretese a svelare le reali intenzioni.

Ci sono, però degli aspetti che in qualche maniera caratterizzano diversamente questi due tratti “comuni”:

  1. Se è vero che la NSS presuppone una iniziale, scompaginante dinamica molecolare e variabile delle relazioni con i singoli paesi, è altrettanto vero che l’obbiettivo dell’attuale leadership statunitense è quello di ricostruire il più rapidamente possibile nuove reti  di alleanze a strutture concentriche con i paesi e le leadership più affini politicamente e culturalmente, il documento parla appunto di civiltà di fatto giustapposte, nella fascia più prossima al centro di gravità. Gli esempi di questa prima fascia sono sicuramente l’AUKUS, l’area della “pax silica” ( Giappone, Olanda, Gran Bretagna, Taiwan in via ufficiosa, Corea del Sud, Singapore, Australia, Emirati Arabi Uniti, Israele e, presumo, Arabia Saudita). Sono paesi, in quest’ultimo caso,  ai quali è riservato il privilegio a vario titolo e grado  della compartecipazione ai grandi progetti strategici economico-scientifici-militari, quali l’intelligenza artificiale e il ciclo di hardware connesso. Sono paesi che sono particolarmente istigati e che sono delegati ad assumere un ruolo di guida periferica e regionale delle gestione della competizione e dello scontro in primo luogo con la Cina, ma sempre sulla base di relazioni primarie strategiche di tipo bilaterale tra il paese capofila, gli Stati Uniti e ciascuno di essi. E sempre con la consapevolezza dell’incertezza e mutevolezza, della diffidenza che caratterizza questa fase di transizione. A sottolineare quanto questa contezza sia ben più radicata di come traspaia nel NSS può essere sufficiente questa rivelazione: il documento del NSS  sottolinea più volte il rischio concreto, a causa delle élites che lo governano e dei conseguenti processi migratori incontrollati, che i paesi dell’Europa e della UE, in particolare i più rilevanti (Regno Unito, Francia, Germania, Italia) cambino di natura e perdano l’impronta specifica della loro civiltà, allontanandole, grazie al prevalere di forze islamiche radicali ormai annidate,  in maniera ostile dagli attuali profondi legami che consentono strette collaborazioni e sinergie anche militari. Due di questi, Regno Unito e Francia, dispongono di arsenale atomico proprio. Ebbene, la Casa Bianca e il Dipartimento della Guerra hanno incaricato il Dipartimento di Stato di preparare un piano di sicurezza entro il 2028 cui seguirà un piano operativo del Pentagono e dei servizi segreti , da completare entro il 2035, che prevede l’utilizzo di un gran numero di forze speciali, già presenti in loco, per sequestrare e rimuovere l’arsenale atomico intero, intanto del Regno Unito. Se ne parlerà più diffusamente in altre occasioni.  A corollario, già adesso gli Stati Uniti stanno limitando pesantemente i visti di accesso dalla Gran Bretagna. Il recente divieto di ingresso negli USA dell’ex commissario UE, Breton, rappresenta un altro indizio della fondatezza di questi propositi
  2. Esiste una seconda fascia, in fase avanzata di formazione, di “alleati” deputati ad essere particolarmente spremuti e spogliati, nella loro doppia funzione di paesi tributari e di paesi di prima linea disposti ad assumere il ruolo suicida ed autolesionista di gestione diretta del confronto militare regionale. I paesi della UE, nella quasi totalità, sono deputati consapevolmente ad immolarsi a questo sacrificio!
  3. La terza fascia è costituita dai terreni di caccia: 1)- l’Africa in particolare, dove sarà possibile una competizione ed un conflitto con non tracimi in uno scontro generalizzato incontrollato, ma con un fattore di ulteriore imprevedibilità rispetto a qualche decennio fa: la presenza di élites locali più indipendenti e consapevoli degli spazi di agibilità offerti dalla presenza di forze multipolari;e le regioni artiche 2)- la regione caucasica, turcomanna (kazaki, ect) ed artica, pericolosamente vicine queste tre ultime ai confini delle potenze competitrici
  4. Una quarta fascia, quella destinata ad assumere un ruolo di comprimari di un mondo multipolare e ad arricchire gli spazi di agibilità ed imprevedibilità, costituita al momento in particolare da India, Turchia, Iran, Brasile(?), interessata a protrarre il più possibile, in questo tendenzialmente più consonanti  con Russia e Cina, una fase di transizione scevra da alleanze politiche rigidamente ben definite

La sottolineatura, sia pure ancora approssimativa di questi quattro punti,  serve a definire meglio i fondamenti culturali, le caratteristiche comuni e le differenze dell’impostazione “olistica” dei due documenti e delle terminologie e degli schemi adottati, ma anche delle “ipocrisie” presenti soprattutto nel documento cinese.

  • Se la natura sottesa, sotto traccia, dell’impostazione olistica del documento statunitense deriva dal fondamento pragmatico-empirico del bagaglio culturale anglosassone, l’impostazione ribadita continuamente  nel documento cinese, deriva dall’attenzione e dall’appartenenza al “tutto” del bagaglio culturale confuciano e dalla schema peculiare del bagaglio comunista di procedere rigorosamente nell’esposizione e nello schema mentale dal generale al particolare. Impostazioni corroborate dalla formazione professionale stessa delle due classi dirigenti e in particolare dei due presidenti
  • La maggiore insistenza, di fatto l’ossessione, che spinge i redattori cinesi ad affermare la dinamica multilaterale di soggetti atomizzati non vincolati specificatamente in alleanze consolidate nasce da una aspirazione, probabilmente al momento genuina, e consapevolezza che un sistema rigido di alleanze, specie in uno schema tripolare, costituisca il prodromo di un conflitto generalizzato catastrofico
  • Il multilateralismo nella accezione cinese consiste in una relazione paritaria tra stati che consenta rapporti compromissori e diplomatici non condizionati da alleanze politico-militari e da identità ideologiche, ma regolati da istituzioni internazionali rette da procedure consensuali. La visione di un paese in espansione che deve alimentare con le esportazioni il suo imponente apparato produttivo industriale e il suo fabbisogno di materie prime ed energetiche da importare. La natura e i limiti dei BRICS sono il prodotto più evidente di questa visione, tipica di una élite libera dai cascami interni di un retaggio imperialistico recente e nutrita, quindi, di una visione progressiva di sviluppo della propria formazione sociale
  • Una visione che induce e funge da supporto  ad una contrapposizione dualistica e semplicistica, di fatto impregnata di ipocrisia, tra le forze positive propugnatrici della globalizzazione foriera di vantaggi comuni e relazioni regolamentate pacifiche, di cui la Cina si pone come paladina e le forze protezionistiche, fautrici di azioni unilaterali e arbitrarie, de stabilizzatrici, impersonate in particolare dagli Stati Uniti. Da qui la riesumazione delle mirabilie della teoria dei vantaggi comparati di David Ricardo che consente di proclamare tutti vincitori nell’agone internazionale. La realtà impone una interpretazione più prosaica del sistema di relazioni di un paese e della sua classe dirigente, la Cina, capace di utilizzare con grande abilità pratiche protezionistiche e aperture di mercato selettive in funzione delle esportazioni e di sfruttare  gli spazi offerti  dal contesto di una globalizzazione alimentata da una classe dirigente statunitense talmente presuntuosa ed accecata dalla propria missione da ritenere possibile il controllo egemonico globale grazie al proprio complesso e sofisticato predominio militare, tecnologico, politico-culturale, finanziario e di direzione manageriale, rinunciando alla propria base produttiva nazionale e ad una sufficiente coesione della propria formazione sociale nazionale. Una dinamica che sta producendo nel mondo nuovi perdenti e nuovi vincitori nonché nuovi squilibri destabilizzanti che non tarderanno a produrre nuovi conflitti e nuove ricomposizioni pur in un quadro tendenziale  di sviluppo medio. Un paese, gli Stati Uniti, che fonda la propria esistenza e predominio su un debito colossale e su una rendita militar finanziaria, e un paese che fonda gran parte della sua potenza detenendo il 40% delle esportazioni mondiali, con tutti gli scompensi che tale attivo comporta e tutte le dipendenze dalle rotte commerciali e dalle basi di estrazione che induce sono entrambi, per il momento a diverso grado, fattori che alimentano nuovi squilibri, contraddizioni e conflitti nonché nuove gerarchie.
  • A leggere tra le righe del documento cinese la nebbia degli enunciati irenici è attraversata ampiamente, anche se in maniera strisciante, dalla luce del realismo di una classe dirigenze che sottolinea il tema del controllo interno flessibile e pone, nello stesso documento,  allo stesso livello il tema della sicurezza e dell’espansione, del controllo e dello sviluppo interno delle attività e delle tecnologie strategiche, del controllo e della sicurezza delle rotte commerciali, della regolamentazione con una propria giurisdizione delle relazioni internazionali specifiche, di una selettiva apertura interna consentita dall’acquisizione sufficiente di potenza e predominio tenologico-finanziario. Anche se sottaciuti, i problemi creati dal procedere difficoltoso della “belt and road”, dal recupero di ingenti crediti ai paesi terzi e delle garanzie draconiane imposte, dalla natura ovviamente interessata degli investimenti infrastrutturali all’estero esistono ed indurranno prima o poi alla accentuazione di politiche di influenza.

Per concludere, ferma restando la diversa natura e qualità delle attuali politiche estere dei due paesi, sono innegabili le affinità presenti nei due documenti. Entrambi colgono il nesso tra politica estera e politica interna, ma uno, quello cinese, per affermarlo pienamente, l’altro per liberarsene e ricostituirlo su nuove basi. Entrambi fautori di una politica listiana (da Friedrich List); per uno, quello statunitense, è una grande novità averla  enunciata  e praticata apertamente e violentemente, piuttosto che in maniera subdola; con dinamiche e condizioni operative diverse dovute ad una realtà espansiva più lineare, quella cinese, e una di arretramento e riassestamento, quella statunitense.

Oltre che per le ragioni culturali già citate, il nesso è apertamente proclamato in quello cinese perché il confronto e scontro politico è più controllato grazie alla fase espansiva del sistema e alla attuale maggiore funzionalità dell’assetto istituzionale, più flessibile di quanto la narrazione occidentale racconti, in grado però di nascondere potenzialmente anche a se stesso per troppo tempo le pecche e le tare; un tema, comunque, ben presente nella dirigenza cinese, sempre più attenta ai criteri di selezione e di verifica dei risultati. E’ presente, ma sottinteso, in quello statunitense preda di un violento scontro politico interno dall’esito incerto  e di un crescente disordine e riassetto  istituzionale.

Gli Stati Uniti, dal canto loro, devono trattare se non risolvere un paradosso ed affrontare un rischio supplementare.

  • Il paradosso è  determinato dagli strumenti disponibili per innescare e realizzare il processo di reindustrializzazione. Parte di questi sono gli stessi che hanno determinato questa situazione e che dovranno essere a loro volta ridimensionati e ricondotti a modalità di controllo e funzioni diverse: i circuiti finanziari e la funzione del dollaro. Un paradosso di per sé, ma anche perché contribuisce a rendere fluida ed instabile la composizione del blocco sociale che sostiene l’attuale amministrazione
  • Il rischio è legato alla parziale consegna, alla porticina lasciata socchiusa, obtorto collo, della gabbia entro cui vivono i propri uccellini, alias i propri alleati. Si sa che gli uccellini abituati in gabbia, difficilmente riescono ad apprezzare il valore della libertà ed approfittare delle opportunità, la porticina socciusa, appunto, di quella gabbia. I paesi europei sono l’esempio più deprimente. Non è detto, però, che le attuali dinamiche interne alla NATO, così oltranziste e legate ad una fazione precisa dello schieramento politico statunitense, non producano una propria nemesi. Qualche uccellino potrebbe tentare l’avventura in proprio.

La Cina, d’altro canto, corre rischi di diversa natura, in primo luogo che sorgano rapidamente altri paesi intenzionati a perseguire, con altri strumenti, le stesse finalità di riorganizzazione e di riequilibrio perseguite dagli Stati Uniti e con questo rimettere in discussione i tempi e le modalità di riequilibrio della postura decisi dalla dirigenza cinese. Il contenzioso che si sta riaprendo nelle aree “periferiche” del mondo potrebbe aprire nuovi spazi in questa direzione.

Per concludere, una visione conciliativa ed irenica di una classe dirigente, pur nella sua probabile ipocrisia, è sostenuta sicuramente dall’humus culturale e dalla tradizione del paese, ma può essere “aggiustata” e capovolta dalle dinamiche geopolitiche esterne suscettibili di cambiare la direzione e ribaltare gli equilibri interni alla stessa classe dirigente.

Una preoccupazione latente nel documento cinese. Una preoccupazione, quindi, di stabilità interna, anch’essa, che accomuna i due paesi, l’uno, la Cina, impegnata a costruire un welfare universale quanto meno carente e discriminatorio al momento, l’altro, gli Stati Uniti, a ricostruire attraverso il tentativo di reindustrializzazione quel ceto medio produttivo indispensabile a garantire dinamismo e coesione. Una preoccupazione mascherata da un trionfalismo da “magnifiche sorti e progressive” tipiche della sicumera statunitense.

Due documenti che annunciano di fatto una progressiva separazione di aree e standard operativi, una competizione accesa e ambiti di cooperazione condizionata, piuttosto che di accordi strategici.

Gli Stati Uniti sanzionano i funzionari dell’UE per la repressione della libertà di espressione, ampliando notevolmente il divario tra Stati Uniti ed Europa_di Simplicius

Gli Stati Uniti sanzionano i funzionari dell’UE per la repressione della libertà di espressione, ampliando notevolmente il divario tra Stati Uniti ed Europa

Simplicius 25 dicembre
 
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Ieri, per la prima volta, gli Stati Uniti hanno annunciato sanzioni contro funzionari europei associati al Digital Services Act dell’UE e all’Online Safety Act del Regno Unito, in particolare per aver oltrepassato i limiti nel tentativo di censurare gli americani extraterritorialmente sul suolo statunitense.

Questi tentativi di censura sono stati messi in atto attraverso una fitta rete di ONG che hanno collaborato con varie istituzioni statunitensi, tra cui l’amministrazione Biden, per “segnalare” i contenuti americani e creare “liste nere” di “trasgressori” americani destinati alla rimozione dalle piattaforme e ad altre forme di soppressione illegale della libertà di espressione.

Sottosegretario agli Affari Pubblici degli Stati Uniti Sarah Rogers:

I nostri obiettivi sono stranieri, ma noterete che alcuni hanno collaborato con i burocrati statunitensi alla repressione della libertà di parola in stile Murthy. Non preoccupatevi: anche noi al @StateDept perseguiamo la trasparenza, la verità e la riconciliazione.

Sebbene si tratti di un passo importante, il sottosegretario alla diplomazia pubblica Sarah Rogers ha specificatamente sottolineato che queste cosiddette “sanzioni” non sono del tipo ad alto impatto come il Magnitsky Act, che mira a privare i soggetti interessati dei servizi bancari e a rovinarli finanziariamente, spesso applicato agli interessi russi, ma piuttosto semplici restrizioni sui visti, almeno per ora , che impediscono semplicemente ai funzionari sanzionati di visitare gli Stati Uniti o espellono quelli che già si trovano nel Paese.

L’elenco completo degli ex funzionari sanzionati. Il più importante tra loro è Thierry Breton, un pezzo grosso della Commissione europea sotto il regime corrotto della von der Leyen e uno dei “menti” della stessa “Legge sui servizi digitali”.

Un’altra era Josephine Ballon di HateAid, un’organizzazione che vigila sui “discorsi di incitamento all’odio”; ecco la sua opinione succintamente “democratica” sulla libertà di espressione:

Naturalmente, tutti i massimi esponenti dell’Unione Europea hanno ricevuto l’ordine di iniziare a organizzare una difesa disperata dei cosiddetti “valori europei”:

Ma come al solito, l’ultimo “assalto all’Europa” da parte dell’amministrazione Trump ha rivelato o messo in evidenza due aspetti fondamentali.

In primo luogo, il fatto che il divario tra Stati Uniti ed Europa si stia ampliando, poiché l’amministrazione Trump sembra comprendere che il Deep State si è ritirato su posizioni più difendibili nell’UE, dopo essere stato almeno in parte ostacolato e respinto negli Stati Uniti. E così ora, l’amministrazione Trump ritiene che debba essere perseguito e tagliato alla radice in Europa stessa, almeno secondo la plausibile ipotesi di Richard Werner:

Questa controversia in atto sta portando alla luce la guerra in corso tra Trump e lo Stato profondo, almeno in Europa: dopo aver dovuto cedere terreno negli Stati Uniti, lo Stato profondo americano si è ritirato nella sua fortezza più grande: la Germania e l’UE, dove si è trincerato, traendo i suoi poteri legali dagli Statuti di occupazione del 1945 in Germania e dal suo controllo sulla dittatoriale Commissione europea sin da quando la CIA ha creato queste istituzioni dell’UE (con Jean Monnet, Schuman, Spaak ecc. e il Movimento europeo, tutti asset della CIA).

In questo caso specifico, possiamo fare riferimento al “Complesso industriale della censura” – termine coniato da Mike Benz – che è una sorta di sovrapposizione di molte ONG globaliste e altri “interessi particolari” che hanno creato una sorta di rete internazionale in grado sia di influenzare che di operare in qualsiasi nazione occidentale.

Le élite hanno espresso il loro shock per questo sviluppo, sconvolte dal fatto che gli Stati Uniti possano osare creare una frattura tra i diversi rami dello Stato profondo globale:

Ma la seconda cosa che ho menzionato e che gli ultimi sviluppi hanno rivelato è la totale ipocrisia delle élite europee che fingono di scandalizzarsi. Si indignano per l’«attacco» alle loro cosiddette libertà quando gli Stati Uniti osano fare proprio ciò che queste stesse élite europee hanno allegramente inflitto a molte nazioni meno fortunate, in particolare alla Russia.

Ad esempio, confrontiamo l’agitazione di Kaja Kallas con le sue precedenti richieste di vietare i viaggi ai russi:

In effetti, se ci pensate bene, l’indignazione melodrammatica generale per il cambiamento di posizione dell’amministrazione Trump nei confronti dell’Europa è piuttosto “ricca”.

Prendiamo questo recente titolo che sostiene che solo ora, dopo aver profanato il sacro “giardino europeo”, gli Stati Uniti finalmente siano passati nella categoria dei “maligni”:

Pensate a quanto ciò sia offensivo per il resto del mondo reale, che esiste al di fuori della fortezza neocolonialista del “giardino” edenico di Borrell. Decenni di interferenze nelle elezioni globali, invasioni di decine di paesi del terzo mondo, in particolare del Medio Oriente, distruzione di nazioni e milioni di vite umane, tutto in nome di una “libertà” inventata: tutto bene e accettabile: gli Stati Uniti erano il “faro splendente” della democrazia.

Ma ora che il drago americano liberato ha rivolto il suo alito infuocato sulla sacra Europa, tra le élite in preda al panico si è scatenato un improvviso scoppio di digrignare di denti e stringere le perle. Che evidente malignità! Si può vedere il palese razzismo eurocentrico trasparire nei disperati tentativi di proteggere quella fortezza finale e inviolabile dei privilegi dell’élite globale che è il sacro “giardino” europeo dalla punizione più straziante e impensabile: la parità di trattamento.

Benvenuti nell’età dell’oro, cari europei: sotto il pontefice massimo Trump, anche voi siete diventati la giungla.

Ora prostratevi e implorate perdono.

Un addio appropriato da parte di un utente X:

La morsa si sta stringendo sulla classe dirigente dell’UE, distaccata e egocentrica.
L’Europa ribolle di rabbia mentre i cittadini vedono le loro nazioni soffocare sotto il peso della corruzione, della censura, dell’immigrazione di massa, del fanatismo ideologico e del fallimento istituzionale.
Bruxelles è diventata un bunker sigillato di arroganza, sordo alla realtà e ostile al proprio popolo.
Tagliandosi fuori dalla strada, dalla responsabilità e dal buon senso, l’UE ha firmato la propria condanna a morte. Ciò che rimane è una struttura vuota e decadente che barcolla verso il collasso.

Ricordate solo che, quando le cose vanno male, c’è solo una cosa che i marci eurocrati sanno fare, come sempre: raddoppiare la posta in gioco.

Il rapporto di oggi è breve per darvi la possibilità di godervi il Natale senza troppa fatica mentale. Detto questo, un ultimo punto.

Ora che è arrivato il Natale, l’Occidente sta naturalmente ricorrendo a una propaganda di basso livello per criticare la Russia che non ha accettato il disperato tentativo di “tregua natalizia” di Zelensky, con persino il Papa che ha manifestato il suo “disappunto” nei confronti della Russia per unirsi al coro dei suoi padroni globalisti:

Link Twitter

L’unico piccolo problema è che la precedente proposta di tregua natalizia avanzata dalla Russia nel 2023 è stata categoricamente respinta sia da Zelensky, sia da Biden, sia dagli europei:

https://en.wikipedia.org/wiki/2023_Russian_Christmas_truce_proposal
https://en.wikipedia.org/wiki/2023_Russian_Christmas_truce_proposal

La sera dello stesso giorno, il presidente russo Vladimir Putin ha incaricato il ministro della Difesa russo Sergei Shoigu di dichiarare un cessate il fuoco temporaneo di 36 ore lungo l’intera linea di contatto tra le truppe russe e ucraine da mezzogiorno (12:00 ora di Mosca; 09:00 UTC) del 6 gennaio fino alla mezzanotte (24:00/00:00 ora di Mosca; 21:00 UTC) tra il 7 e l’8 gennaio 2023.

La proposta di tregua è stata respinta dalle autorità ucraine, che l’hanno definita una “trappola cinica”. Nonostante fosse stato dichiarato il cessate il fuoco, esso ha avuto scarso effetto poiché i combattimenti sono continuati.

Sempre da Wiki:

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha affermato che la proposta di tregua era solo una “pausa” per le forze russe e un’occasione per loro di riorganizzarsi. Alla richiesta dei giornalisti di commentare l’iniziativa di Putin, ha osservato che la Russia ha continuato a bombardare “ospedali, asili e chiese” ucraini il giorno di Natale 2022 (“il 25”) e a Capodanno. “Penso che lui [Putin] stia cercando di prendere fiato”, ha aggiunto Biden.

Questo è tutto.

Per unirsi allo spirito festivo natalizio, Zelensky ha persino dato prova della sua eleganza in un’offerta ufficiale in cui ha condiviso il suo grande desiderio natalizio… che Putin muoia; questo oltre alla sua descrizione dei russi come non umani in altre parti del discorso.

Zelensky auspica la morte di Putin nel suo messaggio natalizio:

Mio caro popolo, fin dai tempi antichi gli ucraini credevano che nella notte di Natale i cieli si aprissero.

E se confidano loro i propri sogni, questi si avvereranno sicuramente.

Oggi abbiamo tutti un unico sogno. E abbiamo un unico desiderio per tutti:

“Che muoia”, come tutti dicono a se stessi.

L’ultima volta Zelensky ha espresso lo stesso augurio nei confronti del presidente americano con la sua frase “alcuni vivono, altri muoiono”, questa volta è toccato alla Russia. Sembra che l’oscurità abbia divorato il vecchio Zelensky e che i pensieri di morte ora opprimano regolarmente la fragile psiche del povero leader ucraino. In alcune tradizioni si dice addirittura che augurare del male agli altri possa segnare lo stesso destino.

Non preoccuparti però, se quanto detto sopra ti ha un po’ rattristato, l’italiana Meloni ha un messaggio natalizio che sicuramente ti tirerà su il morale:

Buon Natale a tutti!


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Una sconfitta tedesca_di WS

Mi  aspettavo appunto   che anche Simplicius  cogliesse   “la novità”    accaduta   qualche  giorno fa  a Bruxelles;  per la prima  volta , credo , nella  storia della U€,    il  blocco  “  €urogermanico”   è  stato politicamente   sconfitto    da  un “blocco”  “antigermanico ”       abilmente manovrato  sì dalla Meloni,  ma all’interno del quale  è stato  determinante il ruolo della Francia    con la sua  appendice belga  .
Il fatto  è stata    registrato   soprattutto dai  giornali inglesi  che ora  attaccano la Francia e Macron per aver presumibilmente “pugnalato alle spalle” Merz .

E  questa   della “ indignazione inglese” è la parte più gustosa  di  questo  avvenimento;  ci indica le linee di faglia che si stanno formando nell’ €urolager.

Tra  Francia  e  Germania  non si tratta nella fattispecie di un conflitto politico, perché sia Macron che Merz sono entrambi “ funzionari  del Kapitale “,  burattini degli stessi banksters;  rivela piuttosto   il riemergere   di   una faglia geopolitica antica   almeno 1200 anni   che appunto gli inglesi hanno sempre  saputo   sfruttare  bene  a proprio vantaggio   da  secoli  ,  e che  ovviamente    corrisponde  ai relativi ” st(r) ati profondi” dei due paesi. “St(r)ati profondi  che i due presidenti  attuali  non potevano far altro che  rappresentare.

Ma  è veramente una “sconfitta  tedesca”? Beh  qui in seguito propongo una lettura alternativa. Lo  so che è fantasiosa  ed improbabile; per una   volta, però,  voglio dire  qualcosa  di “ottimistico”.

Ricapitolando,  le relazioni   franco -tedesche   sono sempre state  cruciali nella  storia  europea , e l’  “ €urolager”  ha funzionato tanto bene proprio poggiando  su di un  direttorio franco-tedesco con due Kapò ” specializzati”, il primo per i servizi e la proiezione militare e il secondo per il controllo economico.

 Ma questo duo doveva lavorava sempre nell’ interesse dello stesso padrone:  “il Grande kapitale”.

 Ma è evidente che  questo   duo  sia  sempre   stato  un matrimonio sbilanciato a sfavore della Germania cui spettava  sempre  di fare in modo che la Francia non affondasse economicamente nella sua grandeur.

La  Germania  infatti  resta l’osservato  speciale dei banksters    (  e mi sembra ovvio),  sempre  tenuta ad un livello  di controllo ben  superiore  alle  altre  due potenze  sconfitte, Giappone  ed Italia.

Nella fattispecie  al Giappone è stato permesso  di  essere una potenza  subnucleare; ha accumulato  grandi scorte  di plutonio.  La  Germania non ne detiene nemmeno un grammo  perché non  gli è stato  concesso di processare il proprio combustibile nucleare  esaurito; ha dovuto sempre   trasferirlo  alla   Francia  pagandole   profumatamente il servizio.

 Il motivo è che,  al contrario  di quello   giapponese,  il nucleare  civile  tedesco  sorto  dopo la crisi  del ‘73   era  complemente “ castrato”  fin  da l’ inizio;  prova   evidente  di un disegno  strategico  che  vedeva  nel Giappone una  risorsa  “bankesters”  per una futura  WW  “ revanchista” in Asia contro  Russia / Cina . Disegno che  adesso    comincia ad  evidenziarsi   non solo   nel rapido  riarmo giapponese, quanto  addirittura  nella  proclamata intenzione giapponese   di dotarsi  di  armi nucleari, cosa  che  , a mio parere,   il Giappone  potrebbe  fare  in pochi mesi,  sempre che non lo abbia già sostanzialmente fatto.

Alla   Germania invece  non è stato concesso  di  avere  una propria filiera nucleare e    tra l’altro questo spiegherebbe  l’ improvvisa  decisione  tedesca  di uscire dal nucleare dopo la stesa  dei  due gasdotti Nord  Stream.  Politicamente ed economicamente era molto più  redditizio      trafficare  con la Russia  che   sostenere la potenza nucleare  francese, pagandola pure.

è vero che  fare  il Kapò    economico   dell’ €urolager porta  enormi  vantaggi  alle  esportazioni tedesche , ma  è altrettanto  vero  che   questo  flusso  di soldi  che entra in  Germania     grazie  all’ €uromarco svalutato  deve pure uscirne per  sostenere   i suoi  “vincitori”: la  finanza “angloamericana”  e   la pomposa “grandeur”   del suo  cameriere  francese.

La Germania   quindi , per  “il Padrone”  è solo un  gigante    castrato,  del quale,  per  quanto   appunto  “ canti  soavemente”,  non ci si può fidare  pensando  che  sia anche  “contento”.

Da  questo punto di vista le “ demenziali” mosse  tedesche  assumono  quindi una luce  diversa; la  decisione   dei padroni  de  “l’ eurolager”  di usare  l’€uropa   contro  la Russia  potrebbe  essere  per  questo “ castrone”  una  occasione di  recuperare  libertà  ed  attributi.

Infatti  più  l’€uropa  va in guerra, più  essa  diventa innefficiente e più la Germania è giustificata      a NON pagare   il  consueto  tributo  ai suoi  vincitori, per mettere  invece  quei soldi      nel  PROPRIO   riarmo.

“ Riarmo “ ovviamente  CONTRO   “l’ orso  russo”,  secondo la “narrazione”   del Padrone    de  l”eurolager”.

“Orso”  però   con cui   poi   si potrebbe   trattare  una PROPRIA   “  zona  di influenza”, grazie  ai profondi legami  che  ancora  sussistono, anche se  ben nascosti.

E  per  questo ovviamente  occorre    che lo stato di  guerra  si prolunghi    A BASSA  INTENSITA ‘ affinché la Germania  abbia  il  tempo di rendere irreversibile     la sua  transizione  a “grande potenza “ , proprio  come  la Russia non ha alcun interesse  a  finire “la guerra “  adesso.

E i primi  a   cogliere  la   stonatura  di questa  “canzone  tedesca”  non possono    che  essere i francesi     i quali     vedono   non solo   rinascere  il “gendarme  tedesco”,  ma anche rimpicciolire  il proprio   ruolo  di “  gendarme ” ANCHE  per l’inaridirsi   del   flusso  finanziario   da  Berlino a Parigi.

 E l’ altro  giorno  a  Bruxelles la Francia  ha  dato appunto  un “  segnale”  di insoddisfazione  e sicuramente   ha fatto anche un test  per  capire  da  che parte realmente vada la Germania.

Così,   quella  che   a prima vista può  sembrare una “sconfitta  tedesca”,  potrebbe   essere il tassello da inserire  in una guerra in cui, evento mirabile  della  storia, i tedeschi   perdono “  tutte le battaglie “  ma  “vincono  la  guerra” .

 Io lo  so  che questo è poco probabile perché  i tedeschi  sono   per loro  natura    impediti   alla   guerra   tridimensionale ,   cosa in cui   invece   eccellono  i nostri   e loro “ padroni “. Ma non  sarebbe   divertente ?

Gli  eventi recenti di Bruxelles   ci dicono  comunque che  già  diversi  ne “l’ €urolager”  hanno   capito   che   QUESTA  guerra in Ucraina l’ €uropa l’ ha già persa  e  seppur   i padroni   dell’ €urolager   vorrebbero andare  avanti    “rilanciando” , per ogni    detenuto  e , Kapò  di questo lager   si  tratta  già ora  di    definire il proprio individuale interesse sia  nella futura   escalation     sia  nella ammissione della sconfitta. In questa ipotesi  dovranno valutare anche  la  propria  posizione nei nuovi possibili  equilibri  determinati  da  questo fallimento.

Chissà,  forse il 18 dicembre  2025  potrebbe  essere  più memorabile    di quanto adesso  appaia.

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La distruzione dell’ex Jugoslavia: il caso della Croazia e delle relazioni serbo-croate_di Vladislav Sotirovic

La distruzione dell’ex Jugoslavia: il caso della Croazia e delle relazioni serbo-croate

L’esistenza della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia (RSFJ) di Broz si basava principalmente sull’instaurazione della sua dittatura personale e sul culto della personalità, nonché sul sostegno materiale, politico e finanziario incondizionato delle cosiddette democrazie occidentali, ma soprattutto degli Stati Uniti d’America (USA) dopo la rottura di Stalin con Tito nel 1948[1] fino alla morte del presidente a vita della RSFJ. L’ideologia del comunismo nazionale di Broz-Kardelj, basata sulla banale pratica dell’autogoverno (quasi) socialista, ha svolto il ruolo di cemento ideologico in uno Stato multinazionale e fondamentalmente disunito che è durato quanto il suo dittatore. [2] Gli Stati Uniti mantennero artificialmente in vita la Jugoslavia per ben dieci anni dopo la morte ufficiale (e non provata) del caporale austro-ungarico e autoproclamato maresciallo Tito (1980), fino a quando le basi geopolitiche delle relazioni internazionali cambiarono radicalmente con la scomparsa dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS), del Patto di Varsavia e dell’unificazione dei due Stati tedeschi (1989-1991).[3] Dato che la Jugoslavia era diventata superflua nei piani politico-militari americani per il dopoguerra fredda, fu lasciata affondare nella sanguinosa guerra civile del 1991-1995, che è solo una parte delle guerre storiche delle civiltà nei Balcani e nello spazio globale. [4]

La politica (quasi) jugoslava di “fratellanza e unità” di Josip Broz Tito (1892-1980) aveva come obiettivo principale la preparazione politica ed economica della disintegrazione del paese dopo la sua morte secondo il modello amministrativo-territoriale: tutte le repubbliche socialiste e entrambe le province autonome dovevano diventare Stati indipendenti con la conseguenza finale di una Grande Croazia (patria di Broz) etnicamente pura e riconosciuta a livello internazionale e di una Piccola Serbia ridotta ai confini della “Serbia di Bismarck” nel periodo successivo al Congresso di Berlino del 1878 fino alle guerre balcaniche del 1912-1913. Pertanto, Broz creò province autonome solo in Serbia (secondo la Costituzione del 1974, di fatto repubbliche veramente indipendenti) e fece di tutto per impedire che venisse alla luce la verità sull’orribile etnocidio contro i serbi nell’ISC dopo il 1945[5] e, infine, per verificarlo e legalizzarlo.

Dopo la morte di Broz (4 maggio 1980), gli albanesi del Kosovo furono i primi a dare inizio allo smantellamento violento e organizzato della RSFY nella primavera del 1981[6] con l’intenzione finale di separare la provincia del Kosovo dalla Serbia, compiere la pulizia etnica dei serbi e di tutti gli altri non albanesi e ripristinare la Grande Albania di Mussolini/Hitler della Seconda Guerra Mondiale. Il terrore organizzato e sistematico degli albanesi del Kosovo contro la popolazione serba della provincia[7], così come il separatismo albanese in Kosovo dopo la morte di Broz, furono direttamente alimentati e incoraggiati politicamente dai leader di Croazia e Slovenia come il modo più efficace per continuare il funzionamento della federazione jugoslava asimmetrica di Broz, in cui la Repubblica Socialista di Slovenia e la Repubblica Socialista di Croazia avevano una posizione politica, economica e finanziaria privilegiata rispetto a tutte le altre repubbliche, ma soprattutto rispetto alla Repubblica Socialista di Serbia, all’interno della quale le due province autonome (Vojvodina e Kosovo) fungevano da meccanismo ottimale per preservare questo stato asimmetrico di relazioni e politica inter-repubblicane. La proposta dei neoeletti governi “democratici” di Slovenia e Croazia[8] di ristrutturare la federazione jugoslava in una confederazione di sei “Stati sovrani”, ognuna delle quali avrebbe avuto un proprio esercito e missioni diplomatiche[9], non era altro che una proposta di riconoscimento de facto dell’indipendenza delle repubbliche jugoslave, ma entro i confini creati nella Titoslavia del 1945, che avvantaggiava principalmente una Croazia più grande di Broz, ma anche una Slovenia più grande. Questa proposta di confederazione asimmetrica aveva anche la funzione politica di essere creata in modo tale da essere sicuramente respinta come oggettivamente inaccettabile dalla Serbia e dalle altre repubbliche jugoslave, fornendo così un motivo formale a Lubiana e Zagabria per dichiarare l’indipendenza della Slovenia e della Croazia dal resto della Jugoslavia, cosa che avvenne il 25 giugno 1991, segnando anche l’inizio di una sanguinosa guerra civile.

La letteratura accademica occidentale, così come i mass media e gli ambienti politici occidentali, accusano generalmente le politiche “nazionaliste” di Slobodan Milošević (1941-2006) come principale, e persino unico, ispiratore della dissoluzione della RSFJ. [10] Slobodan Milošević, tuttavia, non è certamente più colpevole della scomparsa dell’ex Stato comune e dello scoppio della guerra civile rispetto ad altri leader delle repubbliche jugoslave, in particolare il dottor Franjo Tuđman (1922-1999) e la sua Unione Democratica Croata (CDU), ma è certamente vero che ha condotto la sua lotta politica per l’unificazione amministrativa della Repubblica di Serbia, la sua posizione politica ed economica paritaria nella federazione jugoslava e la protezione dei serbi sia in Kosovo che in tutta la Jugoslavia, ma soprattutto in Croazia, dove i neonazisti ustascia salirono al potere nella primavera del 1990, appena rivestiti delle vesti della democrazia e dei “valori europei”. Tuttavia, Milošević ha (ab)usato tale situazione e il clima politico generale in Jugoslavia per instaurare un regime autoritario personale e l’etnopopulismo in Serbia[11] , ma la stessa politica autoritaria ed etnopopolare è stata introdotta da Franjo Tuđman in Croazia, attuando la sua politica di serbofobia (non solo serbofobia) e l’ideologia ustascia risalente al periodo della seconda guerra mondiale. [12]

La leadership politica della Serbia è direttamente accusata dalle stesse fonti di aver tentato di realizzare l’idea di una Grande Serbia durante il periodo della dissoluzione della Jugoslavia[13] sulle basi ideologiche del Načertanije di Ilija Garašanin (1812‒1874) del 1844. [14] Slobodan Milošević (1941-2006) avrebbe voluto diventare il nuovo Josip Broz Tito di tutta la Jugoslavia, cosa che in sostanza non è da escludere, ma che non è nemmeno dimostrabile con prove concrete. A differenza di lui, Franjo Tuđman (1922‒1999) aveva molto probabilmente come obiettivo personale e politico principale quello di rimanere nella storia croata come il nuovo Poglavnik (leader supremo/Führer) nazionale che aveva restaurato l’ISC di Pavelić della Seconda Guerra Mondiale entro i suoi confini “etnostorici” e, se possibile, finalmente ripulito etnicamente dai serbi. La storiografia croata di questo periodo, principalmente per ragioni politiche piuttosto che scientifiche, fece un grande passo avanti accusando direttamente l’élite politica e nazionale serba di attuare il concetto ideologico-storico non solo di una Grande Serbia, ma anche di una Serbia genocida in cui non ci sarebbe stato posto per i non serbi, e questo concetto può essere presumibilmente rintracciato storicamente in una serie ideologica collegata dall’articolo “Serbi tutti e ovunque” di Vuk Stefanović Karadžić (1787-1864) del 1836 (stampato nel 1849) fino al Memorandum dell’Accademia Serba delle Scienze e delle Arti (SASA, originariamente SANU) del 1986. [15]

Tuttavia, almeno per quanto riguarda il ruolo della parte croata nella dissoluzione della Jugoslavia, il nuovo governo CDU (originariamente HDZ) a Zagabria non era altro, per la stragrande maggioranza dei serbi in tutto il paese, che una reincarnazione dell’ISC (originariamente NDH) di Pavelić, responsabile dell’uccisione dei serbi, e dell’ideologia ottocentesca del Partito croato dei diritti (CPR, originariamente HSP, l’ideologia nazista-ustascia del XX secolo) del “sangue e suolo” nella risoluzione della “questione serba” non solo nelle aree della già Grande Croazia di Broz, ma anche nell’intera area a ovest del fiume Drina, che è stata rivendicata come spazio etnico-storico esclusivamente croato sin dai tempi di Ante Starčević (1823-1896), padre dell’ultranazionalismo croato e della politica di genocidio dei serbi. In sostanza, l’ideologia e la politica CPR-ustascia dell’HDZ di Tuđman nella risoluzione della “questione serba” a ovest del fiume Drina durante e dopo lo scioglimento della SFRY si basava sull’ideologia e sulla politica di genocidio contro i serbi a ovest del fiume Drina fin dal XIX secolo nei circoli clericali e nazionalisti-sciovinisti croati. [16] Che la CDU al potere fosse una copia dell’ISC di Pavelić era chiaro ai serbi non solo dalla retorica degli organi ufficiali dello Stato croato, ma anche dalla simbologia ustascia utilizzata durante la seconda guerra mondiale, nonché dalla posizione ufficiale del partito e dello Stato nei confronti del leader dell’ISC Ante Pavelić (1889-1959), il “macellaio dei Balcani” che guidò lo Stato in cui fino a 750.000 serbi furono uccisi nel modo più brutale.[17] Non c’è quindi da stupirsi che i serbi della Croazia, che vivevano in masse compatte, principalmente nelle zone di Banija, Lika e Kordun, furono semplicemente costretti ad auto-organizzarsi a livello nazionale, ovvero a proclamare prima la Regione Autonoma Serba (SAR, originariamente SAO) Krayina il 21 dicembre 1990 e poi, il 28 febbraio 1991, ad adottare la Risoluzione sulla separazione della Repubblica di Croazia e della SAR Krayina, che rimase in Jugoslavia.[18]

Dopo la dichiarazione di indipendenza della Repubblica di Croazia il 25 giugno 1991, le formazioni armate ben equipaggiate della Croazia (con circa 200.000 fucili a canna lunga)[19], assistite dalle milizie di partito e da vari “cani da guerra” croati e stranieri, attaccarono con tutte le loro forze gli insediamenti serbi nella zona della SAR Krayina, ma anche le caserme dell’Esercito Popolare Jugoslavo (YPA, originariamente JNA), avendo il sostegno diplomatico e politico delle “democrazie” occidentali, e soprattutto della Germania unita, che sfruttò la crisi e la guerra jugoslava per imporsi come leader dell’intera Comunità Europea (dal 1992, Unione Europea). [20] Iniziò così formalmente la guerra civile quadriennale nei territori della Repubblica Socialista di Croazia, anche se i combattimenti tra le forze di difesa territoriale serbe e le unità di milizia di riserva con la polizia regolare croata e i paramilitari erano iniziati già prima. Il 1° agosto 1991 iniziarono i combattimenti a Dalj, Erdut, Osijek, Darda, Vukovar e Kruševo. I croati combatterono per l’integrazione territoriale della Croazia titoista e per espellere il maggior numero possibile di serbi, mentre i serbi locali combatterono per la separazione territoriale dalla Croazia come unico modo per salvare le loro vite dal genocidio che stava per arrivare.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex professore universitario

Ricercatore presso il Centro di studi geostrategici

Belgrado, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com

Riferimenti:

[1] La posizione ufficiale della storiografia titista jugoslava e della propaganda politico-statale secondo cui Tito ruppe con Stalin nel 1948 è errata, poiché Stalin interruppe definitivamente i rapporti con Broz in quanto cliente occidentale ed espulse lui e la sua Jugoslavia dall’Informburo. Anche l’affermazione secondo cui Broz avrebbe confutato tutte le calunnie dell’Informburo contenute nella risoluzione del 28 giugno 1948 al quinto congresso del Partito comunista jugoslavo (21-28 luglio 1948) è errata. [Branislav Ilić, Vojislav Ćirković (urednici/eds.), Hronologija revolucionarne delatnosti Josipa Broza Tita, Beograd: Export-Press, 1978, 123]. Sulla Titoslavia di quel periodo, cfr. [Алекс Н. Драгнић, Титова обећана земља – Југославија, Београд: Чигоја штампа, 2004].

[2] Sul carattere psicopolitico del culto della personalità e della dittatura di Broz, si veda [Владимир Адамовић, Три диктатора, Стаљин, Хитлер, Тито: Психополитичка паралела, Београд: Informatika, 2008, 445−610].

[3] Jeffrey Haynes, Peter Hough, Shahin Malik, Lloyd Pettiford, World Politics, Londra−New York: Routledge, Taylor & Francis Group, 2011, 34−43.

[4] Victor Roudometof, “Nationalism, Globalization, Eastern Orthodoxy: ‘Unthinking’ the ‘Clash of Civilizations’ in Southeast Europe”, European Journal of Social Theory, 2 (2), 1999, 233−247; Samuel P. Hungtington, The Clash of Civilization and the Remaking of World Order, Londra: The Free Press, 2002; Ignas Kapleris, Antanas Meištas, Istorijos egzamino gidas: Nauja programa nuo A iki Ž, Vilnius: Leidykla “Briedis”, 2013, 387. Le potenze occidentali hanno svolto un ruolo diretto nella dissoluzione della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia alimentando l’intolleranza religiosa e interetnica, nonché le passioni nazionalistiche nel territorio della Jugoslavia [Veljko Kadijević, Moje viđenje raspada: Vojska bez države, Belgrado: Politika, 1993, 40]. Per informazioni sul ruolo dei fattori internazionali nel processo di disgregazione della Jugoslavia e nelle guerre che ne sono seguite nel suo territorio, si veda [Richard H. Ullman (ed.), The World and Yugoslavia’s Wars, New York: A Council on Foreign Relations, 1996] . L’antagonismo occidentale nei confronti della Serbia e dei serbi in un contesto storico è stato forse definito al meglio da H. Sitton-Watson nel 1911, quando scrisse che «la vittoria dell’idea pan-serba significherebbe la vittoria della cultura orientale su quella occidentale» [Trajan Stojanović, Balkanski svetovi: Prva i poslednja Evropa, Belgrado: Equilibrium, 1997, 377].

[5] Per informazioni sul serbocidio nell’ISC e sulla cooperazione diretta della Chiesa cattolica romana con il regime nazista ustascia nell’ISC, si veda [Марко Аурелио Ривели, Надбискуп геноцида: Монсињор Степинац, Ватикан и усташка диктатура у Хрватској, 1941−1945, Никшић: Јасен, 1999].

[6] Радослав Ђ. Гаћиновић, Насиље у Југославији, Београд: ЕВРО, 2002, 243.

[7] Per il terrore albanese documentato contro i serbi del Kosovo nella SFRY, vedi [Јеврем Дамњановић, Косовска голгота, Интервју, Специјално издање, Београд: Политика, 22 ottobre 1988].

[8] Il fatto che i governi di Slovenia e Croazia nel 1990 fossero stati formalmente eletti in modo democratico dopo le prime elezioni parlamentari del dopoguerra è servito e continua a servire come principale alibi per il blocco “anti-serbo” sia in Jugoslavia che all’estero per la difesa dichiarata delle politiche di Lubiana e Zagabria nel processo di smembramento della RSFJ. Tuttavia, va sottolineato che tutti i governi delle altre repubbliche jugoslave nello stesso 1990 furono eletti in modo altrettanto democratico quanto i governi della Slovenia e della Croazia. Inoltre, Adolf Hitler salì al potere nella Repubblica di Weimar nel gennaio 1933 in modo estremamente democratico, almeno da un punto di vista puramente formale e giuridico.

[9] Susan L. Woodward, Balkan Tragedy: Chaos and Dissolution after the Cold War, Washington, DC: The Brookings Institution, 1995, 132.

[10] Si veda, ad esempio: [Louis Sell, Slobodan Milosevic and the Destruction of Yugoslavia, Durham−Londra: Duke University Press, 2003; Richard Overy, XX amžiaus pasaulio istorijos atlasas, Vilnius: Leidykla “Briedis”, 2008, 144; Kimberly L. Sullivan, Slobodan Milosevic’s Yugoslavia, Minneapolis, MN: Twenty-First Century Books, 2010; Adam Lebor, Milosevic: A Biography, Londra−Berlino−New York−Sydney: Bloomsbury, 2012].

[11] Bernd J. Fišer, Balkanski diktatori: Diktatori i autoritarni vladari jugoistočne Evrope, Belgrado: IPS, Belgrado−IP Prosveta, Belgrado , 2007, 481−539.

[12] Jill A. Irvine, “Ultranationalist Ideology and State-Building in Croatia, 1990−1996”, Problems of Post-Communism, 44 (4), 1997, 30−43. Tuttavia, l’ideologia ustascia riguardo alla “questione serba” in Croazia è completamente contraddittoria rispetto alla sua soluzione pratica durante l’ISC, dato che gli ustascia, così come lo stesso Poglavnik Ante Pavelić, sostenevano che in Croazia ci fossero essenzialmente pochissimi veri serbi perché la stragrande maggioranza dei “serbi” croati erano in realtà croati di etnia croata di fede ortodossa [Irina Lyubomirova Ognyanova, “Nazionalismo e politica nazionale nello Stato Indipendente di Croazia (1941-1945)”, bozza del documento presentato alla Convenzione Speciale “Nazionalismo, identità e cooperazione regionale: compatibilità e incompatibilità”, organizzata dal Centro per l’Europa centro orientale e balcanica, Università di Bologna, Forlì, Italia, 4-9 giugno 2002, 5]. Tuttavia, nella pratica, durante l’ISC, il regime ustascia cercò di eliminare in un modo o nell’altro tutti i cristiani ortodossi sia in Croazia che in Bosnia-Erzegovina, il che suggerisce che gli ustascia fossero principalmente l’esercito crociato del Vaticano. Il regime di Tuđman ha affrontato un problema simile nel nuovo ISC “democratico” degli anni ’90.

[13] Richard W. Mansbach, Kirsten L. Taylor, Introduction to Global Politics, Londra-New York: Routledge, Taylor & Francis Group, 2012, 442.

[14] Per quanto riguarda il Načertanije di Garašanin, si veda [Радош Љушић, Књига о Нечертанију: Национални и државни програм Кнежевине Србије (1844), Београд: БИГЗ, 1993]. Per quanto riguarda Ilija Garašan come statista, si veda [Дејвид Мекензи, Илија Гарашанин: Државник и дипломата, Београд: Просвета, 1987].

[15] Ante Beljo et al. (a cura di), Serbia from Ideology to Agression, Croatian Information Centre, Zagabria−Londra−New York−Toronto−Sydney: Zagrebačka tiskara, 1992. Per le verità, i malintesi e gli abusi del concetto e dell’ideologia della Grande Serbia, cfr. [Василије Ђ. Крестић, Марко Недић (уредници/eds.), Велика Србија: Истине, заблуде, злоупотребе, Зборник радова са Међународног научног скупа одржаног у Српској академији наука и уметности у Београду од 24−26. октобра 2002. године, Београд: Српска књижевна задруга, 2003]. Sul legame reciproco tra il Načertanije di Garašanin e l’articolo di Vuk “Serbi tutti e ovunque” vedi [Vladislav B. Sotirović, Srpski komonvelt: Lingvistički model definisanja srpske nacije Vuka Stefanovića Karadžića i projekat Ilije Garašanina o stvaranju lingvistički određene države Srba, Vilnius: privatno izdanje, 2011]. Entrambe le opere erano una risposta diretta all’ideologia e alla politica nazionalista e sciovinista del Movimento Illirico croato sulla croatizzazione dei serbi cattolici romani e ijekaviani e sulla creazione della Grande Illiria, ovvero la Grande Croazia [Vladislav B. Sotirović, The Croatian National (“Illyrian”) Revival Movement and the Serbs: Dal 1830 al 1847, Saarbrücken: LAP LAMBERT Academic Publishing, 2015].

[16] Sulla genesi dell’idea e dell’ideologia del serbocidio tra i croati nel contesto della creazione di una Grande Croazia con i suoi confini orientali fino al fiume Drina, cfr. [Василије Ђ. Крестић, Геноцидом до велике Хрватске, Јагодина: Гамбит, 2002].

[17] Richard W. Mansbach, Kirsten L. Taylor, Introduction to Global Politics, Londra−New York: Routledge, Taylor & Francis Group, 2012, 442. Ad esempio, il Partito croato dei diritti (CPR) – tacito partner di coalizione del partito leader CDU – adottò il 17 giugno 1991 la cosiddetta Carta di giugno, che chiedeva apertamente il ripristino dell’ISC nazista di Pavelic entro i confini orientali fino ai territori serbi settentrionali di Subotica e Zemun, al fiume Drina, Sandžak (Raška) nella Serbia meridionale e la baia di Kotor in Montenegro. L’affermazione che tutta la Bosnia-Erzegovina e il Montenegro (“Croazia Rossa” – Croazia rubea, nell’ideologia ultranazionalista croata) siano storicamente ed etnograficamente terre croate, dal tempo del principe Trpimir e del re Tomislav (X secolo) fino ai giorni nostri, è chiaramente sottolineata dal quotidiano croato NarodGlasilo za demografsku osnovu i duhovni preporod hrvatskog naroda del 1998. [Василије Ђ. Крестић, Геноцидом до велике Хрватске, Јагодина: Гамбит, 2002, додатак] . Dall’estate del 1990, il CPR/HSP ha organizzato le sue unità paramilitari (naziste ustascia) delle Forze di Difesa Croate – CDF (originariamente HOS), che dall’ottobre 1991 sono state in gran parte integrate nelle formazioni regolari dell’esercito croato. Il CDF/HOS sosteneva apertamente l’estremismo nazista ustascia, utilizzava la simbologia ustascia e glorificava il Poglavnik/Führer Ante Pavelić dell’ISC. [Ivo Goldstein, Croatia: A History, Londra: C. Hurst & Co, 1999, 225].

[18] Вељко Ђурић Мишина, Република Српска Крајина: Десет година послије, Београд: Добра воља, 2005, 16−19.

[19] Le formazioni armate croate (così come quelle slovene) furono quindi equipaggiate con le più moderne armi leggere e attrezzature militari e addestrate da esperti militari austriaci e tedeschi per svolgere azioni rapide ed efficaci contro l’YPA. Allo stesso tempo, come forma di guerra speciale contro l’YPA e la SFRY, fu preparata e attuata una diserzione di massa dalle unità dell’YPA, in modo che rimanessero vuote e quindi impreparate a svolgere azioni più serie [Радослав Ђ. Гаћиновић, Насиље у Југославији, Београд: ЕВРО, 2002, 260].

[20] Ad esempio, sull’incitamento diretto e il finanziamento del separatismo da parte degli albanesi del Kosovo da parte della Germania, cfr. [Matthias Küntzel, Der Weg in den Krieg: Deutschland, die NATO und das Kosovo, Berlino: Elefanten Press, 2000]. Nel processo di disintegrazione della politica estera della SFRY, è certo che la diplomazia della Germania unita è stata la più pronta e, in modo convincente, la più efficace. Con la frammentazione dello Stato jugoslavo nelle sue repubbliche come Stati “indipendenti”, Berlino stava realizzando il suo vecchio progetto geopolitico di “penetrazione verso sud-est” (Drang nach Südost) in condizioni di pace [Славољуб Шушић, Пробни камен за Европу, Београд: Војноиздавачки завод, 1999, 177]. Tuttavia, questa penetrazione geopolitica ed economica tedesca nell’Europa sud-orientale è solo una parte del progetto geopolitico strategico della Questione Orientale dell’Occidente e in particolare della Germania, che dovrebbe essere inteso come la lotta geostrategica per trasformare la Russia in una sfera coloniale occidentale, e non come la questione della sopravvivenza del Sultanato ottomano in Europa, come è stato finora considerato negli ambienti accademici [Срђан Перишић, Нова геополитика Русије, Београд: Медија центар „Одбрана“, 2015, 56−60 ]. Per una Germania unita e rafforzata, la brutale disintegrazione della Jugoslavia e la pacifica scomparsa dell’URSS facevano parte di un progetto a lungo termine di revisione dei risultati di entrambe le guerre mondiali [Славољуб Шушић, Геополитички кошмар Балкана, Београд: Војноиздавачки завод, 2004, 116−122].

The Destruction of ex-Yugoslavia: The Case of Croatia and Serbo-Croat Relations

The existence of Broz’s SFRY (Titoslavia) was based primarily on the establishment of his personal dictatorship and personality cult, as well as the wholehearted material, political, and financial support of the Western so-called democracies, but primarily the United States of America (USA) since Stalin’s break with Tito in 1948.[1] until the very death of the president-for-life of the SFRY. Broz-Kardelj’s ideology of national communism, based on the banal practice of (quasi)socialist self-government, played the role of ideological cement in a multinational and fundamentally disunited state that lasted as long as its dictator.[2] The US artificially maintained Yugoslavia for a full ten years after the official (and unproven) death of the Austro-Hungarian corporal and self-proclaimed marshal Tito (1980), until the geopolitical basis of international relations fundamentally changed with the disappearance of the Union of Soviet Socialist Republics (USSR), the Warsaw Pact, and the unification of the two German states (1989‒1991).[3] Given that Yugoslavia became unnecessary in American military-political plans for the post-Cold War era, it was left to sink into the bloody civil war of 1991‒1995, which is only part of the historical wars of civilizations in the Balkans and the global space.[4]

The (quasi) Yugoslav policy of “brotherhood and unity” of Josip Broz Tito (1892‒1980) had as its main goal the political and economic preparation of the disintegration of the country after his death according to the administrative-territorial template: all socialist republics and both autonomous provinces were to become independent states with the ultimate consequence of an internationally recognized ethnically pure Greater Croatia (Broz’s homeland) and Lesser Serbia reduced to the borders of “Bismarck’s Serbia” in the period after the Berlin Congress of 1878 until the Balkan Wars of 1912‒1913. Therefore, Broz created autonomous provinces only in Serbia (according to the 1974 Constitution, in fact, truly independent republics) and did everything to prevent the truth about the horrific ethnocide against Serbs in the ISC after 1945[5] , and finally to verify and legalize it.  

After Broz’s death (May 4th, 1980), the Kosovo Albanians were the first to begin the organized violent dismantling of the SFRY in the spring of 1981[6] with the ultimate intention of separating Kosovo province from Serbia, ethnically cleansing Serbs and all other non-Albanians, and restoring Mussolini/Hitler’s Greater Albania of the Second World War. Organized and systematic terror by Kosovo Albanians against the Serbian population of the province[7] as well as Albanian separatism in Kosovo after Broz’s death, were directly fueled and politically encouraged by the leaderships of Croatia and Slovenia as the most effective way to continue the functioning of Broz’s asymmetrical Yugoslav federation, in which the Socialist Republic of Slovenia and the Socialist Republic of Croatia had a privileged political, economic and financial position in relation to all other republics, but especially in relation to the Socialist Republic of Serbia, within which the two autonomous provinces (Vojvodina and Kosovo) served as the best mechanism for preserving this asymmetrical state of inter-republic relations and politics. Proposal of the newly elected “democratic” governments of Slovenia and Croatia[8] on the restructuring of the Yugoslav federation into a confederation of six “sovereign states”, each of which would have its own armies and diplomatic missions[9] was nothing else than a proposal for de facto recognition of the independence of the Yugoslav republics but within the borders created in Titoslavia in 1945, which primarily benefited a greater Broz’s Croatia but also a greater Slovenia. This proposal for an asymmetrical confederation also had its political function of being created on such a way to be surely rejected as objectively unacceptable by Serbia and other Yugoslav republics, and thus providing a formal reason for Ljubljana and Zagreb to declare the independence of Slovenia and Croatia from the rest of Yugoslavia, which happened on June 25th, 1991, which also marked the beginning of a bloody civil war.

Western academic literature, as well as Western mass media and political circles, generally directly accuse the “nationalist” policies of Slobodan Milošević (1941‒2006) as the main, and even the sole, inspirer of the breakup of the SFRY.[10] Slobodan Milošević, however, is certainly not more guilty of the disappearance of the former common state and the outbreak of civil war than other leaders of the Yugoslav republics, especially Dr. Franjo Tuđman (1922‒1999) and his Croatian Democratic Union (CDU), but it is certainly true that he led his political struggle for the administrative unification of the Republic of Serbia, its equal political and economic position in the Yugoslav federation, and the protection of Serbs both in Kosovo and throughout Yugoslavia, but especially in Croatia, where neo-Nazi Ustashi came to power in the spring of 1990 just redressed in the garb of democracy and „European values“. However, Milošević (mis)used such a situation and general political atmosphere in Yugoslavia to establish personal authoritarian rule and ethnopopulism in Serbia[11] , but the same authoritarian and ethnopopular politics Franjo Tuđman introduced in Croatia, implementing his policy of Serbophrenia (not only Serbophobia) and Ustashi ideology from the time of the Second World War.[12]    

The political leadership of Serbia is directly accused by the same sources of attempting to realize the idea of ​​a Greater Serbia during the period of the breakup of Yugoslavia[13] on the ideological foundations of Ilija Garašanin’s (1812‒1874) Načertanije from 1844.[14] Slobodan Milošević (1941‒2006) allegedly wanted to become the new Josip Broz Tito of the whole of Yugoslavia, which is not excluded in essence, but is not factually provable either. Unlike him, Franjo Tuđman (1922‒1999) very likely had as his main personal and political goal to remain recorded in Croatian history as the new national Poglavnik (supreme leader/Führer) who restored Pavelić’s ISC from the Second World War within its “ethnohistorical” borders and, if possible, finally ethnically cleansed of Serbs. Croatian historiography in this period, primarily for political rather than scientific reasons, went a big step further by directly accusing the Serbian political and national elite of implementing the ideological-historical concept of not only a Greater Serbia but also a genocidal Serbia in which there would be no place for non-Serbs, and this concept can allegedly be traced historically in a connected ideological series from the article “Serbs all and everywhere” by Vuk Stefanović Karadžić (1787‒1864) from 1836 (printed in 1849) up to the Memorandum of the Serbian Academy of Sciences and Arts (SASA, originally  SANU) in 1986.[15]

However, at least as far as the role of the Croatian side in the breakup of Yugoslavia is concerned, the new CDU (originally HDZ) government in Zagreb was, for the vast majority of Serbs throughout the country, nothing more than a reincarnation of Pavelić’s Serb-killing ISC (originally NDH) and the 19th century’s ideology of Croatian Party of Rights (CPR, originally HSP, the 20th century Nazi-Ustashi ideology) of “blood and soil” in resolving the “Serbian question” not only in the areas of Broz’s already Greater Croatia, but also in the entire area west of the Drina River, which has been claimed as an exclusively Croatian ethno-historical space since Ante Starčević (1823‒1896), a father of Croatian ultra-nationalizm and the policy of genocide on Serbs. In essence, the CPR-Ustashi ideology and policy of Tuđman’s HDZ in resolving the “Serbian question” west of the Drina River during and after the dissolution of the SFRY was based on the ideology and policy of genocide against Serbs west of the Drina River since the 19th century in Croatian clerical and nationalistic-chauvinist circles.[16] That the ruling CDU was a copy of Pavelić’s ISC was clear to Serbs not only from the rhetoric of official Croatian state bodies, but also from the used Ustashi symbolism from the Second World War, as well as the official party’s and state stance towards the ISC’s leader Ante Pavelić (1889−1959) – the “Balkan Butcher” who headed the state in which up to 750,000 Serbs were killed in the most brutal manner.[17] Therefore, it is no wonder that the Serbs from Croatia who lived in compact masses there, primarily in the areas of Banija, Lika, and Kordun, were simply forced to self-organize nationally, i.e., to first proclaim the Serbian Autonomous Region (SAR, originally SAO) Krayina on December 21st, 1990, and on February 28th, 1991, to adopt the Resolution on the separation of the Republic of Croatia and the SAR Krayina, which remained in Yugoslavia.[18]

After the declaration of independence of the Republic of Croatia on June 25th, 1991, the well-equipped armed formations of Croatia (with around 200,000 long barrels)[19] assisted by party militias and various Croatian and foreign “dogs of war”, they attacked with all their might Serbian settlements in the SAR Krayina area, but also the barracks of the Yugoslav People’s Army (YPA, originally JNA), having diplomatic and political support in the Western “democracies”, and above all in a united Germany, which used the Yugoslav crisis and war to impose itself as the leader of the entire European Community (since 1992, the European Union).[20] Thus formally began the four-year civil war in the territories of the Socialist Republic of Croatia, although fighting between the Serbian territorial defense forces and reserve militia units with Croatian regular police and paramilitaries had been waged earlier. On August 1st, 1991, fighting began in Dalj, Erdut, Osijek, Darda, Vukovar, and Kruševo. The Croats fought for the territorial integration of Titoist Croatia and to expel as many Serbs from it, while local Serbs fought for territorial separation from Croatia as the only way to save their lives from the newly coming genocide.  

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex-University Professor

Research Fellow at Centre for Geostrategic Studies

Belgrade, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com


References:

[1] The official position of Yugoslav Titoist historiography and state-political propaganda that Tito broke with Stalin in 1948 is incorrect as Stalin finally severed relations with Broz as a Western client and expelled him and his Yugoslavia from the Informburo. The claim that Broz refuted all the Informburo slanders from the Resolution of June 28th, 1948, at the Fifth Congress of the Communist Party of Yugoslavia (July 21st‒28th, 1948) is also incorrect.  [Branislav Ilić, Vojislav Ćirković (urednici/eds.), Hronologija revolucionarne delatnosti Josipa Broza Tita, Beograd: Export-Press, 1978, 123]. About Titoslavia from that period, see [Алекс Н. Драгнић, Титова обећана земља – Југославија, Београд: Чигоја штампа, 2004].   

[2] On the psychopolitical character of Broz’s cult of personality and dictatorship, see [Владимир Адамовић, Три диктатора, Стаљин, Хитлер, Тито: Психополитичка паралела, Београд: Informatika, 2008, 445−610].

[3] Jeffrey Haynes, Peter Hough, Shahin Malik, Lloyd Pettiford, World Politics, London−New York: Routledge, Taylor & Francis Group, 2011, 34−43.

[4] Victor Roudometof, “Nationalism, Globalization, Eastern Orthodoxy: ‘Unthinking’ the ‘Clash of Civilizations’ in Southeast Europe”, European Journal of Social Theory, 2 (2), 1999, 233−247; Samuel P. Hungtington, The Clash of Civilization and the Remaking of World Order, London: The Free Press, 2002; Ignas Kapleris, Antanas Meištas, Istorijos egzamino gidas: Nauja programa nuo A iki Ž, Vilnius: Leidykla “Briedis”, 2013, 387. Western powers played a direct role in the dissolution of the SFRY by fueling religious and interethnic intolerance as well as nationalist passions in the territory of Yugoslavia [Veljko Kadijević, Moje viđenje raspada: Vojska bez države, Beograd: Politika, 1993, 40]. For information on the role of international factors in the process of the breakup of Yugoslavia and the wars that followed in its territory, see [Richard H. Ullman (ed.), The World and Yugoslavias Wars, New York: A Council on Foreign Relations, 1996]. Western antagonism towards Serbia and Serbs in a historical context was perhaps best defined by H. Sitton-Watson in 1911 when he wrote that “the victory of the Pan-Serbian idea would mean the victory of Eastern culture over Western culture” [Trajan Stojanović, Balkanski svetovi: Prva i poslednja Evropa, Beograd: Equilibrium, 1997, 377].

[5] For information on Serbocide in the ISC and the direct cooperation of the Roman Catholic Church with the Nazi Ustashi regime in the ISC, see [Марко Аурелио Ривели, Надбискуп геноцида: Монсињор Степинац, Ватикан и усташка диктатура у Хрватској, 1941−1945, Никшић: Јасен, 1999].    

[6] Радослав Ђ. Гаћиновић, Насиље у Југославији, Београд: ЕВРО, 2002, 243.

[7] For documented Albanian terror against Kosovo Serbs in the SFRY, see [Јеврем Дамњановић, Косовска голгота, Интервју, Специјално издање, Београд: Политика, October 22nd, 1988].

[8] This fact that the governments of Slovenia and Croatia in 1990 were formally elected democratically after the first post-war parliamentary elections served and continues to serve as the main alibi for the “anti-Serbian” bloc both in Yugoslavia and abroad for the declarative defense of the policies of Ljubljana and Zagreb in the process of breaking up the SFRY. However, it must be emphasized that all the governments of all other Yugoslav republics in the same 1990 were just as democratically elected as the governments of Slovenia and Croatia. Moreover, Adolf Hitler came to power in the Weimar Republic in January 1933 in an extremely democratic manner, at least from a purely formal and legal perspective.

[9] Susan L. Woodward, Balkan Tragedy: Chaos and Dissolution after the Cold War, Washington, DC: The Brookings Institution, 1995, 132.

[10] See, for instance: [Louis Sell, Slobodan Milosevic and the Destruction of Yugoslavia, Durham−London: Duke University Press, 2003; Richard Overy, XX amžiaus pasaulio istorijos atlasas, Vilnius: Leidykla “Briedis”, 2008, 144; Kimberly L. Sullivan, Slobodan Milosevic’s Yugoslavia, Minneapolis, MN: Twenty-First Century Books, 2010; Adam Lebor, Milosevic: A Biography, London−Berlin−New York−Sydney: Bloomsbury, 2012].

[11] Bernd J. Fišer, Balkanski diktatori: Diktatori i autoritarni vladari jugoistočne Evrope, Beograd: IPS, Beograd−IP Prosveta, Beograd , 2007, 481−539.

[12] Jill A. Irvine, “Ultranationalist Ideology and State-Building in Croatia, 1990−1996”, Problems of Post-Communism, 44 (4), 1997, 30−43. However, the Ustashi ideology regarding the “Serbian question” in Croatia is completely contradictory in relation to its practical solution during the ISC, given that the Ustashi, as well as Poglavnik Ante Pavelić himself, claimed that in Croatia there were essentially very few true Serbs because the vast majority of Croatian “Serbs” were in fact ethnic Croats of the Orthodox faith [Irina Lyubomirova Ognyanova, “Nationalism and National Policy in Independent State of Croatia (1941−1945)”, draft of the paper presented at the Special Convention Nationalism, Identity and Regional Cooperation: Compatibilities and Incompatibilities, organized by the Centro per l’Europa centro orientale e balcanica, University of Bologna, Forli, Italy, June 4−9th, 2002, 5]. However, in practice during the ISC, the Ustashi regime sought to eliminate in one way or another all Orthodox Christians in both Croatia and Bosnia-Herzegovina, which suggests that the Ustashi were primarily the Vatican’s crusading army. Tuđman’s regime faced a similar problem in the new „democratic“ ISC in the 1990s.     

[13] Richard W. Mansbach, Kirsten L. Taylor, Introduction to Global Politics, London−New York:  Routledge, Taylor & Francis Group, 2012, 442.

[14] About Garašanin’s Načertanije, see [Радош Љушић, Књига о Нечертанију: Национални и државни програм Кнежевине Србије (1844), Београд: БИГЗ, 1993]. About Ilija Garašan’s as a statesman, see [Дејвид Мекензи, Илија Гарашанин: Државник и дипломата, Београд: Просвета, 1987].

[15] Ante Beljo et al. (eds.), Serbia from Ideology to Agression, Croatian Information Centre, Zagreb−London−New York−Toronto−Sydney: Zagrebačka tiskara, 1992. For the truths, misconceptions and abuses of the concept and ideology of Greater Serbia, see [Василије Ђ. Крестић, Марко Недић (уредници/eds.), Велика Србија: Истине, заблуде, злоупотребе, Зборник радова са Међународног научног скупа одржаног у Српској академији наука и уметности у Београду од 24−26. октобра 2002. године, Београд: Српска књижевна задруга, 2003]. On the mutual connection between Garašanin’s Načertanije and Vuk’s article “Serbs All and Everywhere” see [Vladislav B. Sotirović, Srpski komonvelt: Lingvistički model definisanja srpske nacije Vuka Stefanovića Karadžića i projekat Ilije Garašanina o stvaranju lingvistički određene države Srba, Vilnius: privatno izdanje, 2011]. Both works were a direct response to the national-chauvinist ideology and policy of the Croatian Illyrian Movement about the Croatization of Roman Catholic and Ijekavian Serbs and the creation of Greater Illyria, i.e. Greater Croatia [Vladislav B. Sotirović, The Croatian National (“Illyrian”) Revival Movement and the Serbs: From 1830 to 1847, Saarbrücken: LAP LAMBERT Academic Publishing, 2015].  

[16] On the genesis of the idea and ideology of Serbocide among Croats in the context of the creation of a Greater Croatia with its eastern borders till the Drina River, see [Василије Ђ. Крестић, Геноцидом до велике Хрватске, Јагодина: Гамбит, 2002].

[17] Richard W. Mansbach, Kirsten L. Taylor, Introduction to Global Politics, London−New York:  Routledge, Taylor & Francis Group, 2012, 442. For example, the Croatian Party of Rights (CPR) – a tacit coalition partner of the leading CDU, adopted the so-called June Charter on June 17th, 1991, which openly demanded the restoration of Pavelic’s Nazi ISC within its eastern borders as far as northern Serbian territories of Subotica and Zemun, the Drina River, Sandžak (Raška) in southern Serbia and the Bay of Kotor in Montenegro. The claim that all of Bosnia-Herzegovina and Montenegro (“Red Croatia” – Croatia rubea, in Croatian ultra-nationalistic ideology) are historically and ethnographically Croatian lands, from the time of Prince Trpimir and King Tomislav (the 10th century) to the present day, is clearly emphasized by the Croatian newspaper NarodGlasilo za demografsku osnovu i duhovni preporod hrvatskog naroda from 1998. [Василије Ђ. Крестић, Геноцидом до велике Хрватске, Јагодина: Гамбит, 2002, додатак]. Since the summer of 1990, the CPR/HSP has organized its paramilitary (Nazi Ustashi) units of the Croatian Defense Forces – CDF (originally HOS), which have been largely integrated into the regular formations of the Croatian Army since October 1991. CDF/HOS openly advocated Nazi Ustashi extremism, used Ustashi symbolism and glorified the Poglavnik/Führer Ante Pavelić of the ISC. [Ivo Goldstein, Croatia: A History, London: C. Hurst & Co, 1999, 225].

[18] Вељко Ђурић Мишина, Република Српска Крајина: Десет година послије, Београд: Добра воља, 2005, 16−19.

[19] Croatian (as well as Slovenian) armed formations were then equipped with the most modern light weapons and military equipment and trained by Austrian and German military experts to carry out quick and effective actions against the YPA. At the same time, as a form of special war against the YPA and the SFRY, mass desertion from YPA units was prepared and carried out, so that they would remain unfilled and therefore unprepared for carrying out more serious actions [Радослав Ђ. Гаћиновић, Насиље у Југославији, Београд: ЕВРО, 2002, 260].

[20] For example, on the direct incitement and financing of separatism by Kosmet Albanians by Germany, see [Matthias Küntzel, Der Weg in den Krieg: Deutschland, die NATO und das Kosovo, Berlin: Elefanten Press, 2000]. In the process of the foreign policy disintegration of the SFRY, it is certain that the diplomacy of the united Germany was the most prompt and convincingly the most effective. By breaking up the Yugoslav state into its republics as “independent” states, Berlin was realizing its old geopolitical project of “penetration to the Southeast” (Drang nach Südost) in peacetime conditions [Славољуб Шушић, Пробни камен за Европу, Београд: Војноиздавачки завод, 1999, 177]. However, this German geopolitical and economic penetration into southeastern Europe is only part of the strategic geopolitical project of the Eastern Question of the West and especially Germany, which should be understood as the geostrategic struggle to transform Russia into a Western colonial sphere, and not the issue of the survival of the Ottoman Sultanate in Europe, as has been considered so far in academic circles [Срђан Перишић, Нова геополитика Русије, Београд: Медија центар „Одбрана“, 2015, 56−60 ]. For a united and strengthened Germany, the brutal disintegration of Yugoslavia and the peaceful disappearance of the USSR were part of a long-term project of revising the results of both world wars [Славољуб Шушић, Геополитички кошмар Балкана, Београд: Војноиздавачки завод, 2004, 116−122].

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Rassegna stampa tedesca 67a puntata a cura di Gianpaolo Rosani

Risalta il drastico cambio di retorica dell’editoriale. Il punto di vista di Mosca trova spazio nella
propaganda occidentale. Le sanzioni non servono e tutto ciò che finora è stato fatto per l’Ucraina non
serve a fermare i russi. Non perché la Russia è una malvagia dittatura, ma perché si tratta di un
problema esistenziale. D’improvviso, la “brutale aggressione non provocata e del tutto ingiustificata
dell’Ucraina da parte della dittatura russa” trova invece una giustificazione: Mosca si sente accerchiata.
Ne segue che è inutile continuare con il sostegno finanziario, l’Ucraina non potrà che perdere in una
guerra di logoramento. Perché questo cambio? (commento estratto da @ClaraStatello su Telegram 22.12.2025)

21.12.2025
LIBERTÀ DI OPINIONE – EDITORIALE
Verità dolorose
Le forze dell’Ucraina stanno diminuendo, la Russia resiste e l’America volta le spalle: non sono buone
premesse per gli europei per essere ottimisti, afferma Jacques Schuster

È ora di affrontare la realtà, con lucidità, senza pietà, anche se dolorosa. L’Ucraina perderà la guerra contro
la Russia. Il Paese è impantanato in una guerra di logoramento contro l’aggressore russo, che lentamente
ma inesorabilmente sta prosciugando le sue forze.

Gli Stati Uniti devono concentrarsi nuovamente sui loro interessi fondamentali, così come li intende
Trump. Il governo degli Stati Uniti guarda con disprezzo alle élite liberali dell’UE, ovvero ai governi
e alle istituzioni, e sostiene persino i partiti di destra e di estrema destra nel Vecchio Continente. E
così l’Europa occupa solo il terzo posto nella lista delle priorità del documento. Mentre Rutte e
anche il ministro degli Esteri tedesco Johann Wadephul continuano a puntare sul partenariato,
dall’altra parte dell’Atlantico sembra che non sia più così. Una sorpresa per l’opinione pubblica
tedesca ed europea? Non proprio. Piuttosto un momento di radicale onestà.

13-19.12.2025
L’Europa in affanno
Gli Stati Uniti dicono addio al liberalismo occidentale. Cosa prevede la nuova strategia di sicurezza
statunitense e come reagisce l’Europa?

Di Leon Holly e Tanja Tricarico
Chi giovedì pomeriggio ha ascoltato il segretario generale della NATO Mark Rutte ha potuto constatare dal
vivo come si intenda tenere a freno l’agitazione suscitata dalla strategia di sicurezza nazionale degli Stati
Uniti. Durante la sua visita a Berlino, Rutte non ha dato alcun segno che il 4 dicembre gli Stati Uniti avessero
ufficialmente chiesto il divorzio dall’Europa con il loro nuovo documento sulla sicurezza.

L’Europa è stata a lungo il figlio viziato della politica mondiale: moralmente superiore, ma in caso
di emergenza dipendente dalla protezione dei genitori americani. Il 2026 è l’anno in cui il figlio
dovrà andarsene di casa. Non è una tragedia, ma un’emancipazione attesa da tempo. Assistiamo
a sviluppi tecnologici affascinanti, alcuni dei quali anche in Germania. E in realtà tutti gli economisti
prevedono che l’economia tedesca tornerà a crescere, almeno un po’. A quali sviluppi presteremo
particolare attenzione nel 2026? Guardando al nuovo anno, dobbiamo abbandonare l’illusione che
questa sia una crisi che finirà presto, che Donald Trump sia un fenomeno temporaneo, che gli Stati
Uniti torneranno presto a rivolgersi all’Europa, che la Cina diventerà un partner costruttivo e che la
Russia si accontenterà di piccoli guadagni territoriali in Ucraina. Dobbiamo piuttosto accettare che
l’instabilità è il nuovo stato di aggregazione, espressione di un periodo di transizione di cui non è
ancora chiaro dove porterà, in un mondo in cui il vecchio non è ancora del tutto morto e il nuovo
non è ancora del tutto tangibile.

03.12. 2025
2026 – Il prezzo della libertà
Elezioni decisive negli Stati Uniti, prova del fuoco per l’intelligenza artificiale e una piccola rivoluzione
nella nostra vita quotidiana: queste sono le tendenze decisive del prossimo anno.

Una panoramica del caporedattore dell’Handelsblatt Sebastian Matthes.
Conoscete quel breve istante, quella frazione di secondo in cui vi dondolate su una sedia e superate quel
momento di assenza di gravità tra equilibrio e caduta libera?

Le certezze di politica estera che hanno plasmato anche Merz, stanno ora svanendo. Trump se ne
infischia del partenariato transatlantico, l’unità dell’Europa sta svanendo. La missione di Merz è
impedire che la situazione peggiori. Anche in futuro dovrà tenere a bada Trump e gli europei. Il
vero lavoro, però, lo aspetta in Germania. Senza il sostegno dei tedeschi, la sua parola non ha
quasi alcun peso nel mondo. Sempre più tedeschi sono favorevoli a ridurre gli aiuti all’Ucraina.
L’AfD alimenta i timori di declino sociale facendo riferimento ai miliardi destinati a Kiev. Incoraggia
coloro che credono che la capitolazione dell’Ucraina porrebbe fine al conflitto. Anche nell’Unione di
Merz alcuni desiderano un riavvicinamento alla Russia. Merz deve opporsi, deve spiegare che una
pace alle condizioni della Russia incoraggerebbe Putin a ulteriori aggressioni. Che un’Ucraina forte
rende anche la Germania più sicura. I tedeschi dovranno affrontare alcune difficoltà, e il cancelliere
dovrebbe dirlo con sincerità.

19.12.2025
EDITORIALE
La prova più difficile
Friedrich Merz ha davanti a sé un compito più arduo di quello di qualsiasi altro cancelliere prima di lui.
Deve difendere la sicurezza dell’Europa. Ci riuscirà solo se si impegnerà maggiormente per ottenere il
sostegno dei tedeschi

Di Marina Kormbaki
Sono settimane decisive, ne sono certi i consiglieri del cancelliere. In questi giorni, i più bui dell’anno, si
deciderà il futuro dell’Ucraina, si dice in circoli riservati.

Il cancelliere tedesco sta cercando con tutte le sue forze di riunire gli europei disponibili e di
mantenerli in gioco come attori. Quasi tutte le iniziative dell’anno che sta volgendo al termine sono
partite da lui: bisogna constatare che la volontà è forte, ma le possibilità sono limitate. Gli europei
riescono ripetutamente a intervenire nel processo negoziale americano-russo a favore dell’Ucraina
e nel proprio interesse, ma altrettanto spesso devono riconoscere che i successi sono di breve
durata. Mentre Helmut Kohl, durante l’ultimo grande sconvolgimento dell’Europa, ha afferrato il
“mantello della storia” e non lo ha più lasciato andare, ora ci si sente trascinati da uno
“spostamento geopolitico” che è difficile controllare. Il presidente americano mostra brutalmente
agli europei qual è il loro posto nel nuovo ordine mondiale.

12.12.2025
L’Europa tra tutti i fronti
Il dramma dell’Ucraina, il canto del cigno dell’ordine liberale: il cancelliere cerca con tutte le sue forze di
difendere il vecchio continente.

Di Jochen Buchsteiner e Konrad Schuller
Ancora una volta un momento decisivo, questa volta in grande stile, a Berlino.

La trasformazione del paradigma del conflitto va di pari passo con la trasformazione del concetto di
politica: osserviamo la forza assertiva di una politica che ha riconosciuto nella controversia un
modello di business che cerca in ogni occasione approcci e occasioni per mettere in scena
opposizione e discordia con ampio effetto. Il potere di colonizzazione digitale, che ormai sembra
mettere in ombra tutti i sogni di un posto al sole del passato, fa sì che siano soprattutto coloro che
si distinguono per il loro deciso disprezzo a trovare ascolto. E che camuffano questo disprezzo da
bellicosità. Camuffare è la parola giusta, perché punzecchiare o provocare qualcuno non significa
affatto litigare con lui. La parola si realizza solo attraverso la vicinanza all’interlocutore. Ciò non
significa necessariamente attraverso il contatto visivo, ma attraverso il riferimento diretto a ciò che
l’avversario dice e intende. Litigare è una tecnica culturale che può essere appresa, ma anche
disimparata.

10.12.2025
Pluralismo o guerriglia?
Sulla litigiosità e la stanchezza delle controversie in Germania

Di Simon Strauss – Nato nel 1988 a Berlino, storico, redattore della “Frankfurter Allgemeine Zeitung” e fondatore dell’iniziativa
“Arbeit an Europa e.V.”.
In questo Paese si litiga troppo poco e troppo. La controversia è la nostra compagna costante, ma si
nasconde dietro la staccionata del giardino.

Il governo statunitense ha il suo «modo particolare» di procedere, sospira un alto diplomatico
europeo a Washington. Non si è più «automaticamente coinvolti»; non si può più contare su nulla.
E questa è ancora una descrizione gentile della situazione. Finché le telecamere sono accese, i
capi di Stato europei lodano doverosamente gli sforzi di mediazione di Trump. «Apprezzo il lavoro
svolto dal governo americano sotto la guida del presidente», ha affermato Macron quando ha
incontrato Zelenskyj a Parigi all’inizio di dicembre. Ma non appena i capi di Stato sono tra loro, non
nascondono il fatto che non vedono Trump e i suoi collaboratori come alleati, bensì come rivali che
nutrono più simpatia per Vladimir Putin che per i loro ex partner. «Stanno facendo dei giochetti, sia
con voi che con noi», ha detto il cancelliere Merz durante la conferenza stampa, riferendosi agli
ucraini e ai leader dell’UE. Il tono che Trump usa nei confronti dell’Europa oscilla tra disprezzo,
compassione e aperta ostilità: finché l’Europa non deciderà di camminare con le proprie gambe,
sarà indifesa di fronte allo scherno. L’Europa potrà sopravvivere solo se terrà testa alla Russia e
diventerà più indipendente dagli Stati Uniti.

12.12.2025
Due canaglie, un obiettivo
COME TRUMP E PUTIN ATTACCANO L’EUROPA
Alleanze – Il presidente degli Stati Uniti Trump non nasconde il suo disprezzo per il vecchio continente e
stringe un patto con il leader del Cremlino Putin. L’Europa non trova una strategia contro l’alleanza dei
malfattori

Tradimento

Di Christian Esch, Matthias Gebauer, Konstantin von Hammerstein, Julia Amalia Heyer, Britta Kollenbroich, Paul-Anton Krüger, René
Pfister, Mathieu von Rohr, Fidelius Schmid, Michael Weiss
Ci sono momenti in cui gli europei non nascondono la loro disperazione. Il 1° dicembre, ad esempio,
quando i leader di diversi paesi dell’UE si sono riuniti in una teleconferenza riservata.

Gli Stati Uniti si stanno trasformando da egemoni benevoli, cosa che in realtà non sono sempre
stati, a superpotenza egoista a caccia di prede. L’Europa gioca solo un ruolo secondario in questa
visione del mondo. Trump relega il vecchio continente in secondo piano. Nella strategia del 2017,
durante il primo mandato di Trump, si affermava ancora che l’Europa e gli Stati Uniti dovevano
collaborare per contrastare l’aggressione russa. Ora non si legge più nulla di una lotta tra
democrazie e autocrazie come la Cina. Al contrario, gli Stati Uniti mettono in guardia l’Europa con
tono paternalistico da un’“autodistruzione della civiltà” causata dalla migrazione. Se l’Europa si
lascia dividere, andrà a fondo e finirà nel menu di questo nuovo mondo di predatori. Forse questo
è il campanello d’allarme. Questa volta Trump lo invia gentilmente nero su bianco.

07.12.2025
Editoriale
Trump se ne frega dell’Europa e della morale
Nella loro nuova strategia di sicurezza, gli Stati Uniti puntano l’attenzione sull’America Latina e sull’Asia.
Al presidente Trump non interessa ciò che Russia e Cina fanno nelle loro zone di influenza. Ma vuole
esportare la sua rivoluzione populista nell’UE.

DI CHRISTIAN ULTSCH
Per chi non l’ha ancora capito dopo undici mesi dall’elezione di Trump, ora lo può leggerlo nelle 29 pagine
della Strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti: gli Stati Uniti stanno ridefinendo le loro priorità di
politica estera.

WELT AM SONNTAG ha valutato per mesi i canali di reclutamento in tutta la Russia e ha parlato
con numerosi intermediari e reclute. Nonostante le immense perdite, l’esercito russo continua a
crescere, con grande stupore dei servizi segreti e dei diplomatici occidentali. Essi considerano
questo sviluppo fondamentale sia per eventuali negoziati di pace che per il rischio di un’ulteriore
espansione russa. Se Putin riuscirà a continuare a finanziare gli enormi premi (e i pagamenti in
caso di morte) e a trovare gli uomini necessari la Russia potrà continuare la guerra costosa e
logorante che caratterizza il conflitto in Ucraina dal secondo anno di guerra.

07.11.2025
Il ricco raccolto dei cacciatori di teste del
Cremlino
La Russia sopporta elevate perdite di guerra grazie alla sua particolare capacità di rinnovare
costantemente la forza delle sue truppe. Con premi, cancellazione dei debiti e la promessa di un
avanzamento sociale, i più poveri vengono attirati nell’esercito, che nel 2026 potrebbe addirittura
raggiungere una forza di 1,5 milioni di soldati.

Di EKATERINA BODYAGINA E IBRAHIM NABER
Per molti uomini in Russia, la guerra sembra ormai un’offerta di lavoro inevitabile. Sull’app di messaggistica
Telegram, accanto alle notizie quotidiane compaiono offerte per missioni al fronte con premi fino a 42.900
euro, una fortuna in un Paese in cui lo stipendio medio è ben al di sotto dei 1000 euro al mese.

Trump perseguita i suoi avversari politici, ad esempio sommergendoli di accuse. Cerca
ripetutamente di impiegare l’esercito all’interno del Paese per ottenere il controllo delle città
scomode. Maltratta i gruppi emarginati, soprattutto gli immigrati, che a volte fa arrestare
brutalmente per strada. Usa la sua carica per procurare entrate a sé stesso e alla sua famiglia.
Tutto ciò è più tipico di un regime autoritario che di una democrazia. Inoltre, il presidente attacca le
istituzioni che dovrebbero controllare lui e il suo governo, come la magistratura, quando non
decidono come lui ritiene giusto. Opprimere gli avversari e gli indesiderati, favorire gli amici e la
famiglia: questa è la formula di Trump in una frase. E’ un corruttore dei costumi politici, un
corruttore della democrazia. In natura, ciò che è corrotto non può essere riportato al suo stato
precedente. Questo non vale per la politica. Ma per gli Stati Uniti sarà difficile riprendersi da
Trump.

02.12.2025
EDITORIALE – IL NUOVO ORDINE MONDIALE
Il corruttore
Sotto Donald Trump, i principi della democrazia stanno andando in frantumi

Di Dirk Kurbjuweit
Non può essere, ma è così. Questa è la frase che ha accompagnato il primo anno del secondo mandato di
Donald Trump. Esprime ciò che un cittadino di orientamento liberale e democratico prova di fronte al
presidente degli Stati Uniti:

Come ha potuto il Consiglio europeo concedere un prestito nonostante l’opposizione di Ungheria,
Repubblica Ceca e Slovacchia, dato che una decisione del genere deve essere presa
all’unanimità? Il prestito è stato ottenuto con la promessa a Budapest, Praga e Varsavia di non
imporre ai tre paesi il pagamento immediato di 1,5 miliardi di euro di debiti in sofferenza, ma di farli
pagare politicamente in un secondo momento. “I tre paesi non devono pagare nulla ora, ma lo
faranno in seguito a livello politico”. Ciò significa che in tutte le decisioni future (ad esempio nei
negoziati ora in corso sul bilancio dell’UE 2028-2034), l’Ungheria, la Repubblica Ceca e la
Slovacchia non potranno contare su alcuna concessione. E la Polonia, quarto membro del gruppo
di Visegrád, potrebbe rimanere profondamente offesa da questa azione.

20.12.2025
Credito UE invece di Euroclear: il piano A è
morto, viva il piano B
Ucraina. Il bilancio dell’UE servirà come garanzia per il credito concesso a Kiev. Tuttavia, l’accesso al
denaro russo in Belgio non è ancora del tutto escluso.

DI MICHAEL LACZYNSKI Bruxelles/Vienna
È una soluzione con cui tutti possono convivere, o meglio devono convivere, al momento attuale. L’UE
accenderà un prestito a tasso zero dell’importo di circa 90 miliardi di euro, con il quale l’Ucraina potrà
continuare la sua lotta difensiva contro la Russia nei prossimi due anni.

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Un altro fallimento: il vertice EUCO subordina il rimborso del nuovo “prestito” all’Ucraina alla vittoria totale sulla Russia_di Simplicius

Un altro fallimento: il vertice EUCO subordina il rimborso del nuovo “prestito” all’Ucraina alla vittoria totale sulla Russia

Simplicius 23 dicembre
 
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Il vertice del Consiglio europeo che si è tenuto dal 18 al 19 dicembre a Bruxelles è stato dichiarato una grande “vittoria” dagli eurocrati, quando in realtà si è trattato ancora una volta di un clamoroso fallimento per il regime marcio della von der Leyen e per il suo tentativo di utilizzare i beni russi rubati per la guerra in Ucraina.

L’obiettivo era quello di cercare di sequestrare e utilizzare completamente i beni, piuttosto che semplicemente “immobilizzarli”, ma invece tutto ciò che sono riusciti a fare è stato creare un “prestito” di 90 miliardi di euro per l’Ucraina, attingendo dalle proprie casse, ben lontano dai 210 miliardi che avrebbero voluto. E tutto questo è stato fatto nel modo più interessante possibile:

Il vertice EUCO è stato un disastro per Ursula von der Leyen e Friedrich Merz. Nonostante disponesse di una maggioranza qualificata in EUCO, l’opposizione del Belgio e di altri sei paesi ha impedito il sequestro dei beni russi. Nonostante la promessa di concedere all’Ucraina una somma compresa tra 140 e 210 miliardi di euro, l’EUCO ha deciso di concederne solo 90 miliardi e, ciliegina sulla torta, la forte opposizione di Francia e Italia ha fatto sì che l’accordo di libero scambio con il Mercosur fosse rinviato. L’UE è più divisa che mai.

Un’altra analisi che spiega in modo più dettagliato la distribuzione del denaro:

Il Consiglio europeo ha deciso di concedere all’Ucraina un prestito di 90 miliardi di euro a tasso zero attingendo dal bilancio dell’UE.

Il piano di sequestrare i beni russi e utilizzarli per finanziare il prestito è fallito perché troppi Stati membri dell’UE si sono opposti durante la riunione dell’EUCO.

Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca hanno ottenuto il diritto di non partecipare al finanziamento di questo prestito, il che significa che la somma di 90 miliardi sarà ripartita proporzionalmente in base al PIL dei restanti 24 Stati membri.

Sebbene l’EUCO abbia acconsentito a concedere questo prestito, il meccanismo giuridico per la sua effettiva concessione a Kiev non è stato ancora reso noto e ci vorranno ancora alcune settimane prima che venga definito.

Il piano originale per i beni russi congelati (oltre 200 miliardi di dollari) prevedeva che 95 miliardi di dollari fossero destinati al pagamento dei debiti esistenti dell’Ucraina nei confronti del FMI, della BCE e del G7, mentre il resto sarebbe stato utilizzato per finanziare nuovi acquisti di armi e altre spese legate alla guerra.

In altre parole, l’importo concordato è appena sufficiente per mantenere il Paese a galla ancora per un po’ e impedirne il fallimento, ma non fornisce la capacità di andare oltre o di acquisire in modo significativo nuove capacità militari.

Ma ecco il punto più importante e sorprendente: il prestito è interamente subordinato al fatto che l’Ucraina riceva prima i risarcimenti dalla Russia; ovvero solo se e quando l’Ucraina riceverà i risarcimenti dalla Russia, l’Ucraina sarà obbligata a rimborsare il prestito. Questo è stato spiegato da diverse figure di spicco dell’EUCO, come si può vedere di seguito:

E come può l’Ucraina costringere la Russia a pagare centinaia di miliardi di risarcimenti? È semplice: vincendo la guerra.

Quindi, se l’Ucraina vincerà la guerra, l’UE riavrà indietro i suoi soldi. Sembra una scommessa sicura, no?

Scherzi a parte, ciò significa due cose: in primo luogo, che l’UE ha appena derubato criminalmente i propri cittadini di 90 miliardi di euro, emettendo essenzialmente un prestito falso che in realtà è un altro sussidio gratuito, dato che non c’è alcuna possibilità che venga mai rimborsato, poiché l’Ucraina non ha alcuna possibilità di vincere in modo decisivo la guerra in modo tale da “costringere” in qualche modo la la Russia a pagare i risarcimenti: un concetto ridicolo che nessuno, nemmeno tra il bestiame dell’UE, potrebbe immaginare che abbia una possibilità di verificarsi.

Ma il secondo punto è molto più significativo e inquietante: lega legalmente l’UE come parte in guerra, conferendole un interesse fondamentale nella vittoria contro la Russia. Ciò significa che da questo momento in poi l’UE è praticamente obbligata a fare tutto il possibile per sconfiggere la Russia sul campo di battaglia, al fine di recuperare i beni dei propri cittadini, rubati in modo criminale.

Viktor Orban ha approfondito questo punto in modo molto convincente in un post imperdibile su X:

Per la prima volta nella storia dell’Unione europea, 24 Stati membri hanno concesso congiuntamente un prestito di guerra a un Paese esterno all’Unione. Non si tratta di un dettaglio tecnico, ma di un cambiamento qualitativo. La logica di un prestito è chiara: chi presta denaro vuole essere rimborsato. In questo caso, il rimborso non è legato alla crescita economica o alla stabilizzazione, ma alla vittoria militare.

Affinché questo denaro possa essere recuperato, la Russia dovrebbe essere sconfitta. Questa non è la logica della pace, ma quella della guerra. Un prestito di guerra rende inevitabilmente i suoi finanziatori interessati alla continuazione e all’escalation del conflitto, perché la sconfitta comporterebbe anche una perdita finanziaria. Da questo momento in poi, non si tratta più solo di decisioni politiche o morali, ma di rigidi vincoli finanziari che spingono l’Europa in una sola direzione: la guerra.

La logica bellica di Bruxelles si sta quindi intensificando. Non sta rallentando, non si sta attenuando, ma sta diventando istituzionalizzata. Il rischio oggi è più grande che mai, perché il proseguimento della guerra è ora accompagnato da un interesse finanziario. L’Ungheria sta deliberatamente evitando di intraprendere questa strada pericolosa. Non prendiamo parte a iniziative che inducono i partecipanti a prolungare la guerra. Non cerchiamo una via rapida verso la guerra, ma un’uscita verso la pace. Non si tratta di isolazionismo, ma di sobrietà strategica. Questo è nell’interesse dell’Ungheria e, a lungo termine, anche nell’interesse dell’Europa.

Rileggi: «La logica di un prestito è chiara: chi presta denaro vuole riaverlo indietro. In questo caso, il rimborso non è legato alla crescita economica o alla stabilizzazione, ma alla vittoria militare».

I cechi, gli ungheresi e gli slovacchi sono riusciti a sottrarsi con successo a tale obbligo, lasciando che fossero gli Stati europei più servili a trasferire il conto sui propri cittadini sempre più impoveriti. Detto questo, non sorprende che siano state avanzate minacce nei confronti dei paesi che si sono opposti:

Alla fine, si è trattato solo dell’ultimo di una lunga serie di disastri disperati per il regime dell’UE: presentato come un modo per “far pagare la Russia”, in realtà sono ancora una volta i cittadini europei ad affogare e a pagare il conto, come al solito.

I vignettisti politici dell’IA hanno fatto nuovamente centro:

Il primo ministro belga Bart De Wever, sempre più esplicito nelle sue dichiarazioni, ha anche criticato il tedesco Merz e ha giustamente salutato il successo di alcune piccole nazioni europee che si sono distinte nella resistenza alle politiche totalitarie oppressive del marcio regime dell’UE:

Un trionfante Bart De Wever critica Friedrich Merz per aver insistito così tanto sul prestito di riparazione.

«Oggi abbiamo dimostrato che anche la voce degli Stati membri di piccole e medie dimensioni conta. Le decisioni in Europa non sono prese solo dalle capitali più grandi».

Infatti, i principali giornali scandalistici stanno ora attaccando la Francia e Macron per aver presumibilmente “pugnalato alle spalle” Merz, appoggiando “pubblicamente” le ambizioni globaliste di Merz di impossessarsi di 210 miliardi di euro di fondi russi, ma nutrendo segretamente serie riserve al riguardo:

https://www.ft.com/content/99d256e6-8501-4ab8-81d2-d937d5888f01

Il cancelliere tedesco Friedrich Merz stava compiendo un ultimo tentativo per convincere i leader dell’UE a utilizzare 210 miliardi di euro di beni sovrani russi congelati per aiutare l’Ucraina, quando si è reso conto che gli mancava un alleato fondamentale: Emmanuel Macron.

“Macron ha tradito Merz, e sa che dovrà pagare un prezzo per questo”, ha affermato un alto diplomatico dell’UE a conoscenza diretta dei colloqui di giovedì. “Ma è così debole che non ha avuto altra scelta se non quella di schierarsi con Giorgia Meloni”.

E qual è la ragione principale dell’improvviso ripensamento di Macron e del suo apparente cambiamento di posizione sulla Russia in generale, dato che anche lui ha rotto le righe annunciando che l’Occidente dovrebbe “parlare con la Russia” dopo che Kaja Kallas ha causato un putiferio questa settimana ammettendo di istruire (leggi: costringere con la forza) i diplomatici stranieri a rompere i rapporti diplomatici con la Russia?

Beh, la risposta è semplice: l’economia francese sta crollando e Macron sa bene che il finto “prestito” del signore del crimine von der Leyen metterebbe di fatto la Francia nei guai per miliardi di eurodollari che non può permettersi di ripagare:

https://www.politico.eu/articolo/francois-bayrou-la-bomba-francese-rimette-il-tema-della-sostenibilità-del-debito-all’ordine-del-giorno/

L’ultimo dato ha visto il debito pubblico francese raggiungere il livello record storico del 117% del PIL, con un aumento vertiginoso di 66 miliardi di euro in soli tre mesi, dopo un incremento di 71 miliardi nel trimestre precedente:

https://www.bfmtv.com/economia/economia-sociale/finanze-pubbliche/è-aumentato-ancora-di-66-miliardi-di-euro-in-3-mesi -il-debito-pubblico-francese-sale-a-117-4-del-pib-un-nuovo-picco-storico_AD-202512190296.html

Infatti, dietro i disperati tentativi della von der Leyen di sostenere l’Ucraina, ora nell’UE c’è più incertezza e disunione che mai. Da un paio di settimane fa:

https://www.bloomberg.com/news/articles/2025-12-03/l’italia-frena-il-programma-nato-per-l’acquisto-di-armi-statunitensi-per-l’ucraina

Il ministro degli Esteri italiano ha affermato che sarebbe “prematuro” per il suo Paese partecipare a un programma della NATO per l’acquisto di armi statunitensi per l’Ucraina, alla luce dei negoziati di pace in corso.

“Se raggiungiamo un accordo e i combattimenti cessano, le armi non saranno più necessarie”, ha dichiarato mercoledì ai giornalisti a Bruxelles Antonio Tajani, che è anche vice primo ministro. “Saranno necessarie altre cose, come le garanzie di sicurezza”.

Bloomberg ha persino ammesso apertamente che, proprio come nel caso della Francia, anche il cambiamento di rotta dell’Italia è stato determinato dalla crisi economica e dalla mancanza di fondi:

Queste dichiarazioni sono il segnale più chiaro finora che il governo di Giorgia Meloni ha cambiato strategia sull’Ucraina dopo aver esaurito i fondi e aver superato le tensioni all’interno della coalizione di governo.

Nonostante tutti questi sviluppi, dobbiamo concludere che, alla fine dei conti, Victor Orban ha ragione nella sua valutazione: anche se l’Europa sta precipitando sempre più nell’abisso, non c’è dubbio che legare il fondo di salvataggio ucraino da 90 miliardi di euro alla vittoria definitiva sulla Russia sia stata una sorta di colpo di grazia strategico da parte della von der Leyen e dei suoi controllori globalisti.

In questo modo, hanno messo i paesi europei con le spalle al muro e sotto pressione, per così dire. Si tratta di una sorta di ricatto efficace: von der Leyen sa che non sarà lei a subire le conseguenze, perché non è direttamente responsabile nei confronti dei cittadini europei, dato che è solo una burocrate tirannica non eletta. Pertanto, saranno i singoli leader fantoccio degli Stati sotto di lei che ora saranno costretti a ricorrere a tutti i mezzi estremi per portare avanti la guerra contro la Russia, in modo da poter recuperare il denaro dei loro cittadini senza subire un suicidio politico; la von der Leyen stessa è efficacemente protetta da questa minaccia, data la sua posizione totalmente irresponsabile, senza elettori diretti da lei rappresentati.

In breve, questa mossa esercita una maggiore pressione sui leader fantoccio dell’Unione Europea affinché facciano tutto il possibile per aiutare l’Ucraina a combattere contro la Russia «fino all’ultimo ucraino».

A questo proposito, c’è stato un altro sviluppo interessante, dato che è un argomento che abbiamo appena trattato nell’ultimo articolo a pagamento: in particolare, il modo in cui le élite distorcono la realtà presentando affermazioni soggettive come fatti.

L’esempio che ho utilizzato è stato il gran numero di recenti dichiarazioni riguardanti la presunta disponibilità della Russia a “dichiarare guerra alla Russia”. Un nuovo articolo di Reuters ha affermato che i servizi segreti statunitensi hanno recentemente concluso che Putin intende “riconquistare” non solo tutta l’Ucraina, ma anche “parti dell’Europa che appartenevano all’ex impero sovietico”.

WASHINGTON/PARIGI, 19 dicembre (Reuters) – I rapporti dell’intelligence statunitense continuano ad avvertire che il presidente russo Vladimir Putin intende conquistare tutta l’Ucraina e rivendicare parti dell’Europa che appartenevano all’ex impero sovietico, secondo quanto riferito da sei fonti vicine all’intelligence statunitense, anche se i negoziatori cercano di porre fine alla guerra che lascerebbe alla Russia un territorio molto più ridotto.

Il rapporto falso è chiaramente un’altra operazione di intelligence volta a minare gli sforzi di pace di Trump e prolungare la guerra. La cosa più interessante in questo caso particolare è il fatto che il direttore dell’intelligence nazionale Tulsi Gabbard abbia immediatamente smentito questa presunta “informazione”:

Lei giustamente solleva il famoso paradosso moderno secondo cui la Russia sarebbe una stazione di servizio indigente, incapace di sfamare le proprie truppe o persino di riconquistare una piccola percentuale dell’Ucraina, ma che in qualche modo starebbe anche pianificando di invadere e conquistare tutta l’Europa. Questo è stato nuovamente sottolineato da una serie di articoli di propaganda isterica pubblicati negli ultimi giorni, che – per quanto possa essere difficile da credere – continuano a superare ogni precedente minimo storico:

Alcune ultime cose:

Putin ha tenuto la sua grande conferenza stampa di fine anno: ecco alcuni punti salienti.

È interessante notare che Putin ha ammesso che la Russia non dispone di droni pesanti come il Baba Yaga ucraino, ma che comunque supera di gran lunga l’Ucraina in termini di numero totale di droni “su ogni fronte”:

È interessante notare che, nella sua conferenza stampa, Zelensky ha affrontato anch’egli la questione dei droni, lamentando che se l’Ucraina non riceverà la prossima massiccia iniezione di denaro, lo Stato sarà costretto a ridurre drasticamente la produzione di droni:

Zelensky ha anche accennato al fatto che l’Ucraina ha esaurito completamente gli intercettori per alcuni dei sistemi missilistici antiaerei che utilizza:

A tal proposito, ricordate la nuova e temibile arma miracolosa, il missile “Flamingo”, che avrebbe sicuramente devastato la Russia da un giorno all’altro? Qui Poroshenko rivela che il missile in realtà non colpisce alcun bersaglio ed è puramente un'”arma psicologica”:

Putin ha anche minacciato gli europei di tentare di conquistare Kaliningrad. Egli afferma che se qualcuno tentasse di muovere un passo contro Kaliningrad, il conflitto assumerebbe una dimensione completamente nuova, su “larga scala”, e che tutti gli aggressori sarebbero “distrutti”:

Zelensky ha anche fatto un’altra osservazione molto interessante. Proprio la settimana scorsa lui o il suo traduttore hanno commesso un errore dicendo che i “cadaveri” della NATO saranno allineati lungo la nuova linea di demarcazione tra la Russia.

Ora sembra aver lanciato una minaccia, intenzionale o meno, contro il presidente degli Stati Uniti per non aver sostenuto l’Ucraina. Egli afferma che l’Ucraina potrebbe entrare a far parte della NATO in futuro perché, sebbene gli Stati Uniti non sostengano questa mossa ora, potrebbero farlo in futuro perché “alcuni politici vivono e altri muoiono”. Interpretatelo come volete, ma la maggior parte delle persone concorda sul significato che sembra avere:

Infine, Putin ci ha anche aggiornato sul numero delle truppe russe, che secondo lui attualmente sono 700.000 nella zona SMO:

È interessante notare che Syrsky ha anche rivelato in una riunione che la Russia schiera circa 710.000 soldati nella zona SMO:

Per una volta, vediamo una certa concordanza nei numeri tra le due parti.

Un nuovo articolo dell’Economist evidenzia e sottolinea questo aspetto:

https://www.economist.com/europe/2025/12/17/ukraine-scrabbles-for-handholds-against-russias-massive-assault

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