A Giuseppe Conte non è riuscito il colpo di convincere un pugno di “costruttori”, diciassette, per raggiungere al Senato quella maggioranza assoluta che gli avrebbe consentito di galleggiare ancora per qualche tempo.
Ci è riuscito invece Sergio Mattarella, il Presidente della Repubblica. Ne ha raccolti addirittura quasi venti volte tanto, più di trecento. Per attirarli ha dovuto liquidare con qualche malcelato sollievo Conte ed accogliere e investire un vicerè da tempo atteso, Mario Draghi.
Un vero trionfo, il suo di quest’ultimo; degno dei fasti riservati dal popolo italico ai suoi antesignani sin dai tempi di Carlo VIII, annunciato a tambur battente e ormai predestinato alla consacrazione delle assise parlamentari.
Quasi superfluo soffermarsi sugli apologeti, entusiasti e ben disposti a stringersi intorno al carro del vincitore. Pronti ad esaltare a spron battuto le virtù giovanili di un discepolo dal promettente futuro keynesiano, corroborate nella sua piena ed inoltrata maturità da una volitiva fermezza nel contrastare, in qualità di Presidente della BCE, le fisime oltranziste di austerità dei suoi comprimari tedeschi; altrettanto lesti e sommessi nel rimuovere le pesanti ombre calate sulla sua figura di teorico e solerte esecutore delle sciagurate scelte economiche soprattutto nella seconda metà degli anni ‘90 e in minor misura nella prima decade del 2000.
Altrettanto fuorviante rischia di essere, nel loro impeto denigratorio, l’esorcismo praticato da coloro i quali incentrano l’attenzione esclusivamente sulla sua azione svolta in quel periodo cruciale con la ciliegina del suo importante incarico in Goldman&Sachs, incasellato e prigioniero nel ruolo di campione del liberismo estremo.
Due sguardi complementari entrambi rivolti al passato che paradossalmente, non ostante l’enfasi, tendono a irrigidire e sminuire la statura, la posizione e il ruolo del personaggio.
Mario Draghi non è uomo legato ad una stagione, né fossilizzato religiosamente ad una impostazione teorica cui piegare a tutti i costi la realtà.
Grazie alla straordinaria rete di relazioni tessuta sin dai suoi studi universitari negli States e coltivati nei periodi di Direttore al Ministero del Tesoro, alto dirigente di G&S, Presidente di Banca d’Italia e componente di numerosi organismi internazionali, Mario Draghi rientra nella ristretta élite dei decisori o quantomeno degli esecutori direttamente a contatto con i primi; pronto quindi a sostituire paradigmi e modalità operative non più efficaci. In questa veste è stato invocato e in questa veste sta prendendo in mano le redini del Governo.
Poco a che vedere con la ruspa messa in moto da Mario Draghi dieci anni fa.
In questa veste ha tracciato, con consenso ormai ecumenico, i due solchi che dovranno segnare l’indirizzo politico: l’Alleanza Atlantica e l’Unione Europea.
Non sono certo una novità, ma diverso è il modo di segnarli e riempirli con l’avvento della nuova amministrazione americana e con il protrarsi dell’incertezza e della debolezza della situazione politica in quel paese.
Una condizione che ostacola la riproposizione delle mire egemoniche nei termini posti durante la Guerra Fredda e a cavallo del nuovo millennio e che richiede nell’agone europeo la presenza di almeno tre interlocutori di potenza paragonabile e in competizione tale da poter giocare e limitare le ambizioni di scelte più autonome di qualcuno tra di questi; tanto più che una importante pedina, la Gran Bretagna, ha deciso di tirarsi fuori da uno dei campi di azione, la UE.
Con l’amministrazione Trump ci sono già stati inviti più o meno espliciti ad una maggiore iniziativa specie nell’area mediterranea, ma anche nella UE. Conte e l’intero ceto politico nostrano hanno dato l’impressione di non essersi neppure accorti delle opportunità. In un contesto del tutto diverso e con l’amministrazione Biden appena insediata è arrivato tempestivamente un vicerè a condurci con mano lungo la strada, a proporci ed attuare quei cambiamenti strettamente necessari a perseguire più efficacemente gli indirizzi politici.
Il vuoto determinatosi nel Mediterraneo dalla passività italiana, la gestione disastrosa della pandemia anche in rapporto a quella non esaltante dei principali paesi europei e la disarmante incapacità di elaborare un piano PNRR appena presentabile, per non parlare della improbabile capacità di attuazione di esso devono aver allarmato non solo i gestori imperiali, ma anche i più famelici predatori della famiglia europea riguardo alla tenuta generale del paese. Da qui l’esigenza di insediare un promotore competente ed un interlocutore più credibile, perché più capace e rappresentativo dei centri operativi in campo, con il quale trattare.
Si sa però che in politica, ancor più nelle dinamiche geopolitiche, la generosità altrui comporta prezzi ben più salati da pagare rispetto alla iniziativa propria di una classe dirigente e di un ceto politico autoctoni e più autonomi.
Non lo vedremo in politica estera, al di fuori del consesso europeo delle cui prerogative si è appropriato non a caso Draghi in prima persona, giacché la conferma di un fuoco fatuo, Luigi di Maio, a Ministro degli Esteri ne sancisce l’assenza e l’irrilevanza per almeno un triennio ancora. Lo percepiremo invece, ma a giochi fatti nelle modalità di salvaguardia, ristrutturazione e rinnovamento che pur dovranno essere perseguiti di quel che rimane e rimarrà del nostro apparato economico, specie di quello industriale e del complesso militare-industriale.
Sempre meglio, probabilmente, della caricatura di politica economica ed industriale perseguita dal Governo Conte e della pedissequa ed inetta accondiscendenza agli imput della Commissione Europea del Ministro Gualtieri.
Già prima di insediarsi Mario Draghi ha ottenuto un enorme successo politico e di immagine, a dispetto dei cantori della morte della politica: aver assorbito nell’alveo dell’ortodossia europeista e strettamente atlantista pressoché l’intero arco delle forze e delle frazioni politiche, di aver dissolto per un tempo indeterminato ogni singulto “sovranista” credibile politicamente, di aver evidenziato definitivamente i limiti e la verbosità sterile di tale espressione politica. Limiti che non tarderanno a manifestarsi apertamente anche in ambito europeo, in particolare in Francia.
La conduzione assertiva del Governo ne potrà sancire il trionfo definitivo a futura memoria, almeno nei simulacri delle attuali élites imperanti, o la malinconica caduta nell’anonimato dei più, tra le tante promesse mancate di questa lunga transizione politica.
Oltre alle parole e ai programmi è la composizione stessa della compagine governativa a rivelare le intenzioni e ad essere lo specchio della situazione e quindi:
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il divario qualitativo esistente tra il ceto politico particolarmente dimesso e ai margini delle posizioni di potere espresso e spesso riconfermato dai partiti nella compagine e le componenti tecnico-politiche collocate nei posti chiave da Draghi si rivela eclatante. Con le dovute eccezioni di Guerini alla Difesa e Giorgetti allo Sviluppo, ma con l’incognita dello svuotamento di competenze del Ministero di quest’ultimo da un lato; con quella di Colao dall’altra, vista la sopravvalutazione mediatica del personaggio e la poco edificante prestazione a capo dello staff di esperti nominati da Conte in sede di elaborazione del piano di ricostruzione. A latere una decisione apparentemente inspiegabile rimane la nomina intemerata di Renato Brunetta a Ministro della Pubblica Amministrazione, un ambito imprescindibile per l’elaborazione e l’attuazione del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) e per l’esercizio delle prerogative statali e di governo. È probabilmente l’indizio che il Capo del Governo vorrà procedere, nell’esecuzione del PNRR e delle politiche economiche ad esso collegate, attraverso la nomina di esperti e commissari vista l’impellenza; una procedura non nuova che però quasi sempre ha accompagnato, all’insegna dell’urgenza, il conseguimento di successi immediati alla duplicazione di apparati e strutture rimaste poi nel tempo a sovrapporsi ed accavallarsi in una condizione di paralisi progressiva degli ambiti dello Stato. Un duro colpo comunque alla credibilità dei partiti foriero di una radicale ricomposizione e scomposizione dei partiti e degli schieramenti
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la priorità dell’azione di governo è rivolta al PNRR, alla ristrutturazione profonda dell’economia e alla garanzia di politiche assistenziali più mirate che renda socialmente sostenibile un processo di riorganizzazione pesantissimo e drammatico. Ha trovato piena accondiscendenza nell’intero quadro politico ed associativo: le parti sociali hanno iniziato ad avviare e concludere inaspettatamente i contratti di lavoro; qualche notizia di nuovi importanti insediamenti industriali come quello di batterie in Piemonte; la dirigenza europea più disponibile probabilmente a trattare a condizioni più paritarie sulle condizioni di rientro del debito, anche se l’ambizione di Draghi, sostenuta ormai da vari ambienti, va oltre l’intenzione di trattare sulle condizioni di austerità. Nel discorso di insediamento al Senato il nuovo Presidente del Consiglio ha parlato del resto chiaramente: “gestire la politica economica, la riorganizzazione dei settori, la selezione dei rami produttivi e delle aziende da sostenere e quelle da abbandonare al loro destino è compito della politica”. Una tesi ben lontana dagli orientamenti liberisti più rigorosi. È il segno di un cambio di paradigma o quantomeno di rappresentazione già per altro preannunciato in questi ultimi due anni da ambienti ben più altolocati. La stessa retorica del “grande reset” fa parte di questo tentativo. La nomina di Roberto Cingolani, proveniente da Leonardo, a Ministro dell’Ambiente è il segno di un tentativo di scendere dalle altitudini rarefatte dell’integralismo ambientalista a quello della fattibilità scientifica e tecnologica, con tempi di transizione più realistici.
L’avvento di Mario Draghi sancisce il fallimento del movimento sovranista così come lo si è conosciuto e declamato in questi anni.
Alla mancanza di una visione complessiva e di un programma credibile, all’assenza di una prospettiva tale da configurare nuovi schieramenti e nuovi sistemi di relazione in particolare tra i paesi europei che portassero ad una maggiore autonomia ed indipendenza politica, ha corrisposto il sopravvento surrettizio dell’opportunismo e del trasformismo, l’accodamento acritico all’atlantismo più codino. Di fatto una via obbligata per non scomparire o perire sotto i colpi della reazione. Del resto anche i movimenti “sovranisti” di riferimento in Europa Orientale hanno come riferimento nemmeno la NATO, ma l’americanismo più allineato condito con una dipendenza dai fondi europei tale da rendere fragili i loro aneliti, almeno sino a quando continueranno a coltivare la loro russofobia. È esattamente il contesto che ha determinato la situazione in cui si è cacciata la Lega, un partito sempre più espressione dei gruppi che rappresenta piuttosto che capace di sintesi e di indirizzo di una comunità.
Nell’altro versante, più che la formazione di un movimento riformista e produttivista accompagnato e sostenuto da una riedizione del “welfare”, sembra favorire nell’immediato un sodalizio nel quale il PD, nel tentativo di assorbimento dei resti del M5S, non fa che assimilarne anche i tratti di assistenzialismo unito all’atavica acritica adesione ai precetti della UE e delle classi dirigenti che la esprimono e ai legami di interesse con gli ambienti del terzo settore dal quale scaturisce ormai gran parte del gruppo dirigente.
Due dinamiche all’interno delle quali si inserisce il tentativo efficentista di Mario Draghi reso ancora più ambiguo e problematico dalla sua mancanza di visione dell’interesse nazionale e dal fatto che un nuovo sistema di relazioni tra stati europei presuppone la ricostruzione di uno stato nazionale secondo una visione di interesse nazionale che consenta di trattare con pari dignità con gli interlocutori.
Un tentativo che intende affrontare nell’immediato l’emergenza pandemica e del PNRR e contestualmente avviare le riforme nel lungo termine nella posizione di esecutore prima in qualità di PdC e di supervisore dopo in qualità di Presidente della Repubblica.
Una situazione in apparenza disperante per altri punti di vista praticabili, ammesso che ci siano.
Le vicende politiche di questi ultimi cinque anni, specie quelle verificatesi negli Stati Uniti, lasciano qualche spiraglio agli “imprevisti”. Classi dirigenti e ceti politici che dispongono praticamente di tutte le leve di potere e di tutti gli strumenti di manipolazione sono stati sorpresi dal “fenomeno Trump” ed hanno dovuto penare ben cinque anni per ripristinare una situazione ancora lungi dall’essere normalizzata. Di sicuro hanno preso una grande spavento e perso gran parte della loro sicumera. In Europa sembra andare loro un po’ meglio e non è un caso che personaggi come Soros abbiano scelto negli ultimi tempi questo continente come base e retrovia per perseguire le loro trame. La tattica “inclusiva” sembra funzionare ancora.
Le ciambelle però escono sempre meno con il buco e l’azione di Draghi di certo non sfugge a questa eventualità.
Tanto per fare un esempio calzante, il Recovery Fund, come i fondi strutturali possono diventare un fatale cappio al collo per gli stati nazionali; se accompagnati però da investimenti autonomi complementari, non vincolati alle normative europee possono rivelarsi comunque uno strumento utile. È quello che fanno con relativo successo esattamente la Francia e la Germania, come pure alcune regioni in Italia. È un ambito operativo entro il quale possono inserirsi le frange residue del movimento sfruttando gli eventuali ulteriori margini di debito per ricostruire ed ampliare la base industriale del paese. Le stesse politiche industriali, meglio ancora dei gruppi industriali, dietro la retorica del libero mercato nascondono trattative politiche e processi decisionali che perseguono politiche di accorpamento o di fondazione di nuovi gruppi. Sono tutti spazi i quali, anche nei peggiori dei contesti, offrono opportunità operative a condizione di avere una classe dirigente e un ceto politico capaci e consapevoli. Uno dei promettenti potrebbe essere ad esempio il progetto di caccia di VI generazione italo-inglese da condividere in futuro con quello franco-tedesco ancora tutto da avviare. È un banco di prova, per quanto limitato, per dimostrare che la scelta di sostegno a Draghi non è una mera operazione trasformista o di difesa lobbistica di interessi a carico e ai danni della collettività.
La tabella di marcia del prossimo governo sarà irta di ostacoli e di problemi da affrontare; pare anzi che più di qualche centro abbia l’intenzione di incalzarlo e metterlo già in affanno. La recente sentenza del TAR di Lecce sulla chiusura della ex-ILVA di Taranto è la prima mina piazzata a bella posta sul percorso. Sarà questione di giorni, nemmeno di mesi, per trovare conferma dei timori e delle incognite di questa operazione come pure del fatto che anche questo tentativo rimanga impantanato nella palude dei conflitti di potere e delle oligarchie chiuse in se stesse.
Ci sarà una terza alternativa tra la padella e la brace, quella cioè di diventare cuochi? Draghi si confermerà un vicerè o un capobastone? Staremo a vedere.