MATTEI E OLIVETTI – IL FUTURO INCERTO DELL’INDUSTRIA ITALIANA – PIERGIORGIO ROSSO-MARCO PUGLIESE

 

L’Italia è stata, in particolare dagli anni ’50 e, non ostante i pesanti colpi ricevuti dagli anni ’90 sino ad oggi, ancora rimane un grande paese industriale. Ha, però, sofferto sin dagli albori, negli anni ’30, di due grossi handicap che ne hanno regolarmente impedito il consolidamento e un salto di qualità definitivo: il limite di attenzione e sostegno ad uno sviluppo della cultura industriale che sappia far coesistere la nostra plurisecolare tradizione umanistica e la creatività scientifica e l’intraprendenza forgiatasi sin “dall’età dei comuni”; l’incapacità di consolidare il ruolo della grande industria complementare e a sostegno della rete di piccola e media attività, caratteristica peculiare del nostro apparato economico. Eppure, la nostra costituzione fonda proprio sul lavoro la propria ragione d’essere. Cosa impedisce alle nostre famiglie imprenditoriali e, soprattutto, alla nostra classe dirigente e al nostro ceto politico di assegnare la giusta priorità a questo ambito? Tenteremo di analizzare ed offrire alcune risposte credibili con il contributo di Marco Pugliese e Piergiorgio Rosso. Il sito Italia e il mondo ha già trattato l’argomento alcuni anni fa. Tra i vari contributi, qui una intervista a Giorgio Panattoni, già dirigente ed amministratore delegato di società del gruppo Olivetti: https://italiaeilmondo.com/?s=giorgio+panattoni Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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PARETO E IL M5S, di Teodoro Klitsche de la Grange

PARETO E IL M5S

Non è affatto strano che alcune vicende del Movimento 5 Stelle ricalchino le osservazioni di Pareto sulle élite, la loro circolazione e la teoria dei residui ma (soprattutto) delle derivazioni. Uno dei modi per notare le analogie è confrontare i principi e le promesse del primo M5S e quanto ne è praticato ora. Scriveva Pareto che ad una élite in ascesa è naturale accreditarsi come disinteressata alla conservazione del potere e omogenea al sentire popolare (soprattutto a carattere etico).

A ciò servivano sia certi slogan come “uno vale uno” e, ancor più, il divieto del terzo mandato. Quello a garanzia dell’eguaglianza, questo (anche) della non professionalità del personale dirigente (almeno di quello elettivo). Solo che ambedue si sono rivelate pure derivazioni (nel senso di Pareto). Il primo perché è vero che in una democrazia l’eguaglianza dei diritti e dei doveri è connotato essenziale, sul piano giuridico. Su quello fattuale tutti gli uomini sono diversi: quel che per lo più determina se faranno parte delle élite sono le caratteristiche individuali.

L’élite artistica è formata da persone che eccellono nella musica, nelle arti figurative: a decretarne il successo sono l’orecchio, l’occhio e anche l’abilità manuale: un cantante stonato o con una voce stridula è destinato a non farne parte: a poco serve l’uguaglianza giuridica (nella specie di accesso alle posizioni superiori) se mancano quelle qualità. Così in una società politica decadente è decisiva la capacità d’intrigo; nelle élite sportive le capacità fisiche.

Quanto al divieto di mandato, lo sviluppo del dibattito interno del movimento mostra come cambino gli orientamenti. Dal periodo di ascesa al potere (e accrescimento del consenso) alla fase di conservazione del medesimo, una volta conquistato, in cui si tende a farlo durare indefinitamente o, almeno più a lungo possibile.

Pareto, come tutti i pensatori ciclici (per i quali le élite sorgono e decadono) sa che per l’ascesa al potere delle élite nuove uno dei sistemi più usati è di fare compromessi con le élite decadenti; che la stabilità, è l’equilibrio nel movimento: talvolta più veloce, tal altra lento. Così fu per il fascismo che stipulò compromessi con la monarchia, la chiesa, la borghesia industriale e le élite relative che detenevano il potere. I 5 Stelle l’hanno ripetuto con il PD e le élite europee: ciò dopo aver accusato l’uno e le altre dei peggiori fatti (peraltro non senza ragione).

L’alternativa – o il completamento – del compromesso è la cooptazione. Questa ha varie forme: da quella più “tradizionale” che è di servirsi – specie per esercitare la forza – di personale reclutato nella classe governata (gli auxilia romani presi dai non-cittadini ad esempio) a quelli più raffinati come la concessione di posti e prebende pubbliche a elementi estranei all’élite, ma dotati e desiderosi di far carriera.

Un’altra considerazione di Pareto che appare confermata è quella sulle categorie “dei partiti nella classe governante. Possiamo in ciascuno di essi distinguere tre categorie, cioè: (A) Uomini che mirano risolutamente a fini ideali, che seguono rigidamente certe loro regole di condotta; (B) Uomini che hanno per scopo di approcciare il proprio bene e quello dei clienti. Si dividono in due categorie, cioè; (B-α) Uomini che si contentano dei godimenti del potere e degli onori, e che lasciano ai loro clienti gli utili materiali; (B-β) Uomini che ricercano per sé e pei clienti utili materiali, generalmente di quattrini”.

In effetti, anche se comportamenti simili sono ascrivibili, come scriveva Pareto, a tutte (o quasi) le élite di governo, il M5S con le sue realizzazioni si è confermato non diverso almeno per quanto riguarda il reddito di cittadinanza, nonché il superbonus (ambedue riconducibili al paretiano gruppo B). Anche se la responsabilità politiche dei due provvedimenti vanno ricondotte – in parte – ai collaboratori di governo e non solo al M5S.

Tant’è: ma la fecondità delle considerazioni di Pareto anche per un movimento/partito sviluppatosi quasi un secolo dopo la morte del pensatore, mostra come il pensiero degli elitisti (non solo Pareto, ma anche Mosca e Michels) sia tuttora utile per interpretare la realtà attuale.

Curiosamente se c’è una costante, sottolineata da Michels: il fatto che i partiti rivoluzionari sono, nella modernità, guidati da intellettuali, che non ricorre nel M5S. Ma forse non perché non sia reale quello che afferma Michels (v. giacobini e bolscevichi) ma perché i grillini non sono mai stati realmente rivoluzionari.

Teodoro Klitsche de la Grange

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GOVERNO MELONI AL PALO, di Michele Rallo

Le opinioni eretiche

di Michele Rallo

 

 

GOVERNO MELONI AL PALO

 

 

L’elettorato italiano è ormai abituato a decretare fulminei trionfi e rovinose cadute delle leadership politiche nazionali. Lo sanno bene Renzi, Grillo, Salvini. Folgoranti carriere politiche bruciate nel giro di un paio d’anni, dal 40% all’1% in un battibaleno.

Alla Meloni, fino a questo momento, sembra sia andata meglio: nonostante qualche scricchiolìo qua e là, la sua popolarità è ancòra intatta, il suo governo ha ancòra la fiducia della maggioranza degli italiani, e il sostegno al suo partito – stando ai sondaggi – viaggia ancòra attorno al 30%. Merito indubbiamente del suo carisma e della sua abilità, ma anche demerito dei suoi avversari, della loro mancanza di carisma, della loro scarsissima abilità.

La Schlein è capace soltanto di rimproverare al governo di centro-destra di non aver risolto i problemi che ha ereditato da vent’anni di governi di centro-sinistra; e il pur dignitoso Conte, abbandonato dal popolo del vaffa, non riesce ad andare oltre il ruolo di modesto, modestissimo comprimario dello schieramento che si autoproclama “progressista”.

Nonostante tutto, però, la mia impressione è che la Meloni abbia raggiunto l’apice della parabola, e che – in tempi più o meno prossimi – possa cominciare la fase discendente. Fase lenta, graduale, rallentata dalla mancanza di una alternativa accettabile, ma comunque una fase calante.

Perché il ciclo positivo si è interrotto? Per mancanza di coraggio nel tenere fede alle promesse radicali del passato (una per tutte: il blocco navale per fermare l’invasione migratoria) e per un eccesso di furbizia nel rendersi gradita ai poteri forti della politica planetaria: gli Stati Uniti di Biden e dei clan Obama e Clinton, e l’Unione Europea delle scelte economiche antitaliane (regole finanziarie insostenibili, transizione ecologica, politica punitiva verso la casa, strangolamento dell’industria automobilistica, sanità pubblica ai limiti di sopravvivenza, pensioni da fame, accoglionimento migratorio, eccetera).

Non soltanto per questo, tuttavia. In mancanza di una alternativa, l’elettorato potrebbe anche perdonare; e finora lo ha fatto. Il problema vero è che, accettando le regole e i cosiddetti valori del “politicamente corretto”  (in realtà si tratta di disvalori) nessun governo è in grado di raddrizzare la baracca.  Occorrono soldi, tanti soldi per permettere allo Stato italiano di fare il suo dovere, che è quello di garantire adeguati standard di vita ai cittadini di quella che continua ad essere pur sempre una delle dieci maggiori economie del pianeta. Certo, se per pagare le pensioni o per assicurare decenti livelli di assistenza sanitaria lo Stato deve farsi prestare i soldi dalle banche private, pagando salatissimi interessi e facendo lievitare il debito pubblico, cosa che peraltro ci è inibita dai cerberi di Bruxelles… certo, se ci si deve uniformare a queste regole balzane, né il governo Meloni né nessun altro governo di qualsivoglia colore politico sarà in grado di produrre risultati positivi. Potrà resistere un paio d’anni o poco più, prima di dover alzare bandiera bianca ed ammettere la sua impotenza.

A quel punto il tal governo crollerà nelle urne, e gli elettori si volgeranno verso qualcun altro che sarà per un momento ritenuto capace di fare meglio.

Ripeto: il governo Meloni non è ancòra a questo punto, né all’orizzonte si profila una alternativa credibile.

Epperò il problema resta sempre quello: se lo Stato non si riprende la sua sovranità anche monetaria, se non si riappropria della facoltà di battere moneta, se non la smette di svenarsi per pagare gli interessi – solo gli interessi! – alle banche, se non manda a quel paese l’Unione Europea, il Fondo Monetario Internazionale, le banche “d’affari” e tutta l’onorata consorteria dell’altissima finanza internazionale… se non si trova il coraggio per scelte di questo tipo, allora ci sarà ben poco da fare, se non tirare onestamente la carretta di un qualunque governo di ordinaria amministrazione. Come il governo Meloni, per l’appunto.

 

 

[“Social” n. 568  ~ 29 novembre 2024]

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L’odiosa parabola del M5S, di Yari Lepre Marrani

L’odiosa parabola del M5S

  • Lo Stato, insegna Polibio di Megalopoli, conosce tre forme di governo: la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia. Nella sua evoluzione, uno Stato è destinato a conoscere questa triade nella quale ciascuna forma di Governo ha un carattere degenerativo: la monarchia degenera in tirannide; l’aristocrazia in oligarchia; la democrazia in oclocrazia, storicamente identificata come la più forma più estrema e perversa della demagogia. Ancorando il presente assunto all’Italia dei nostri giorni, balza agli di tutti quanto la parabola del M5S sia stata un’efficace quanto squallida dimostrazione di come sia possibile sfruttare il malessere sociale e antipolitico del popolo per creare un movimento di protesta che, però, la protesta l’ha incarnata con furbizia ma incapacità e,forse,malafede.
  • Parole dure e perentorie che non possono non tenere conto della concreta nascita,maturazione, evoluzione e cammino del Movimento che doveva aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno rivelandosi, infine, peggiore del Parlamento esecrato. Il 7 settembre 2007 si aprì ufficialmente l’iniziativa e l’era politica del V-Day(Vaffanculo-day): l’ira della gente verso la politica romana e nazionale aveva toccato i vertici,la rabbia sociale dilagava come lava ardente tra le strade delle città Si pensò e si pensa, allora come oggi, che il comico Grillo cercasse di “contenere” l’esuberante e dolente rabbia dei cittadini attraverso la creazione di una forza politica che,apparentemente,spaccasse la cattiva politica inaugurando un periodo di ricostruzione della politica stessa, ricostruzione sociale, morale e psicologica. Tutto si è rivelato il più grande bluff della storia repubblicana italiana, che non è minimamente paragonabile alla parabola ben più genuina e, a mio avviso, intellettualmente e politicamente onesta dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini. Il Movimento politico fondato nel 1944 da G. Giannini e facente capo al giornale “L’Uomo Qualunque”, voleva contrastare l’assetto politico-istituzionale uscito dalla Resistenza costruendo una visione puramente amministrativa della gestione dello Stato: esso si delineò, senza tanti giri di parole, in una critica ai meccanismi della democrazia parlamentare per come era nata nel secondo dopoguerra. A volte l’onestà di un movimento di protesta si manifesta anche nel suo insuccesso: il c.d. qualunquismo si esaurì rapidamente ed ebbe vita brevissima, svanendo in soli due anni.
  • I tempi dell’Uomo Qualunque e quelli del M5S sono così diversi da rendere difficile un raffronto di fatti, circostanze e malesseri ma un dato comune c’è: la gente, in entrambi i casi, ha iniziato a disprezzare odiosamente la politica e i politici. Nel caso del Movimento fondato da Grillo, il disprezzo del popolo verso la politica è stato abilmente manovrato dal comico genovese che ha utilizzato le idee più brillanti del suo mentore milanese Gianroberto Casaleggio non per creare un grande cambiamento, una Grande Riforma in senso riformista e, perché no, di craxiana memoria, ma per sfruttare l’emotività ferita della gente. Un dato di fatto comprovato dalle illusioni suscitate e tradite dal Movimento stesso e, soprattutto, da coloro che hanno approfittato “alla grande” del carro del vincitore antipolitico per costruirsi lucrose carriere senza la ben che minima visione politica che non si riassumesse nell’egoistica e opportunistica volontà di entrare in quel Palazzo che essi volevano combattere assieme al loro capo.

I fatti racchiusi nel cammino ultradecennale del M5S comprovano la falsità di intenti e il grande tradimento di questa forza politica verso gli elettori: Grillo ha aperto le porte dei palazzi del potere a persone che assommavano all’incapacità personale la mancanza di visione politica e sociale, all’opportunismo nudo e crudo la volontà di “mescolarsi” a quelle forze politiche di destra e sinistra che loro stessi volevano eliminare dalla scena politica italiana. I pentastellati sono nati per contrastare i danni del berlusconismo, della sinistra doppiogiochista e malata,della politica corrotta e corruttrice. Alla fine dei giochi quel movimento si è avidamente mescolato a quel sistema politico pregresso, ha sfruttato i sentimenti di speranza degli elettori sino a diventare una forza di “occupazione delle poltrone” addirittura capace di allearsi con destra e sinistra senza vergogne, rinnegando gli ideali della prima ora.

Il M5S è politicamente morto ma i suoi ipocriti attori ancora politicamente vivi. Tornando all’iniziale riflessione polibiana, forse neanche un grande storico come Polibio saprebbe dare una definizione di questo fenomeno: parlerebbe di oclocrazia cioè squallida demagogia? No. Probabilmente si arrenderebbe innanzi allo squallore di questa triste forza politica nata sulle strade delle città per cambiare in meglio l’Italia sofferente e diventata peggio delle forze politiche che voleva combattere.

 

Giuseppe Conte vuole ora ricostruire un movimento perduto con l’aiuto dell’Assemblea costituente del Movimento: ha estromesso Grillo dal ruolo di Garante del Movimento stesso, vuole trasformare il M5S in un partito, dichiara che Grillo ne sta “cancellando la storia e schiaffeggiando così palesemente tutti gli iscritti e tutto ciò per cui si è battuto in tanti anni”. Grillo ribatte chiedendo una nuova votazione sui quesiti della Costituente M5S che si terrà dal 5 all’8 Dicembre per riappropriarsi del suo ruolo, prerogative e annessi introiti economici. La tensione tra i due rimane alta ma, in realtà, entrambi sono figli del fallimento che rappresentano. Conte non salverà l’Italia come non l’ha fatto Grillo: si limiterà come il secondo a mantenere vivo un furbo giochetto di successo che ha contribuito a tante poltrone e tanti disastri, primo tra tutti il tradimento del popolo.

 

Se ci fosse Polibio oggi, forse parlerebbe di una contravvenzione prevista dal nostro codice penale e rispondente al nome di “Abuso della credulità popolare”,sì forse si aggrapperebbe a questo testo per spiegare la parabola del “Movimento del Nuovo Rinascimento”. E ha ragione il figlio del visionario cofondatore del Movimento Gianroberto Casaleggio, Davide Casaleggio, quando afferma che tra Conte e Grillo c’è poca differenza perché “hanno perso entrambi”. Le ultime, vere parole.

Yari Lepre Marrani

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STRESS TEST, COMPIUTO PECCCATO E EPIFANIA STRATEGICA_di MASSIMO MORIGI

STRESS TEST, COMPIUTO PECCCATO E EPIFANIA STRATEGICA: ELON MUSK, GIUSEPPE MAZZINI, ANTONIO GRAMSCI, PIER PAOLO PASOLINI E WALTER BENJAMIN  – DI MASSIMO MORIGI

 

 

        Se non conoscessimo l’irrimediabile e profonda corruzione (e mettiamo pure la dabbenaggine, via siamo generosi…) del mainstream informativo italiano, ci sarebbe da soprendersi dalle reazioni totalmente fuori fuoco, organi di sinistra o destra sullo stesso piano, riguardo alle dichiarazioni di Elon Musk che ha fatto sapere urbi et orbi che i giudici che hanno rimandato gli immigrati clandestini in Italia dovrebbero essere licenziati.

        In realtà non si tratta, come più o meno tutti costoro l’hanno voluta inquadrare, di una sorta di intemperenza  – accettabile o riprovevole a seconda della maglietta che indossano questi organi informativi – di un ragazzone miliardario nuovo alla politica e voglioso di trovare un suo spazio nella nuova amministrazione Trump ma di un vero stress test in assoluta compatibilità con le linee guida del  neoeletto presidente degli Stati uniti volte a verificare la reattività del sistema politico-informativo della colonia italiana ai  desiderata della nuova amministrazione.

       Tecnicamente nulla di più e nulla di meno e vista la reazione del sistema politico ed informativo italiano preso nel suo complesso si può dire che il risultato dello stress test è pienamente soddisfacente ( il giorno dopo le dichiarazioni, evidentemente necessitando ponderata meditazione sul che fare, energica ed epica  reazione proprio perché meditata e distillata per molte ed insonni ore  del capo dello stato: “L’Italia sa badare a sé stessa”. Mamma mia che impressione!…) sia per l’amministrazione Trump che, mi duole dirlo, anche dal punto di vista della conferma della nostra analisi sull’attuale condizione politica, culturale e sociale dell’Italia, che  non moltissimo tempo fa definii  di “compiuto peccato”, con ciò intendendo l’antitesi di quella  “epifania strategica” che qualora dialetticamente in azione  è il segno di un corpo politico-sociale e di una Res Publica in salute ed in crescita.       

       Ovviamente il “compiuto peccato” italiano è solo una piccola porzione del “compiuto peccato” del c.d. occidente manifestatosi in pieno nell’attuale guerra Nato-Russia ma il “compiuto peccato” italiano ha delle sue peculiarità che risalgono nel Novecento dalla guerra perduta dal fascismo ma andando al secolo precedente è direttamente correlato  a come ha avuto luogo il processo unitario, avente come manovalanza il regno sabaudo e  questo sotto la tutela e regia delle potenze straniere Francia e poi Gran Bretagna, fondamentale quest’ultima per la conquista militare e non rivoluzionaria del sud da parte di Giuseppe Garibaldi, con conseguente ed inevitabile  suo sfruttamento da parte del nuovo stato nazionale regalato dall’Eroe dei due Mondi alla  monarchia sabauda del territorio  e delle popolazioni dell’ex Regno delle due Sicilie alla stregua di una vera e propria colonia interna (a dimostrazione che la feroce avversione di Mazzini per la monarchia sabauda non era dettata da fumisterie ideologiche di un incancrenito repubblicano ma perché il profeta di Genova ben sapeva, come del resto aveva sempre pubblicamente manifestato, che la monarchia in Italia non significava altro che impoverimento ed oppressione per vasti strati della popolazione e, a livello estero, una umiliante dipendenza dalle potenze straniere: il “risorgimento tradito” di Gramsci, perché realizzato solo a favore della borghesia fedele alla nuova monarchia nazionale e accentuando così ulteriormente lo sfruttamento delle masse contadine ed operaie ebbe il suo più illustre precursore teorico nel giudizio che l’apostolo di Genova dava dell’ormai compiuto processo unitario dopo la breccia di porta Pia, unificazione che per Mazzini proprio perché realizzata da una monarchia accentratrice e indifferente dei bisogni spirituali e materiali della comunità nazionale era forse meglio non fosse mai avvenuta. Dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico si può anche parlare di risorgimento fallito e/o fallimento storico dell’Italia sorta dalla vicenda risorgimentale). E questa condizione di  dipendenza dell’Italia dalle più strutturate potenze straniere, sia dal punto di vista della elaborazione di idee politiche originali che dal punto di vista strettamente politico-operativo in politica estera e conseguentemente anche nella politica interna,  è una tara odierna che ha origine da questa genesi, potentemente eterodiretta dall’estero, del  processo unitario e che è proseguita  – pur con tentativi in definitiva sempre falliti di reagire a questo “stato delle cose”  – fino ad oggi, una tara che ha avuto la sua ultima manifestazione, e volutamente non compresa dagli organi informativi mainstream, nelle ridicole e sfocate reazioni alle ultime esternazioni di Elon Musk.

       Questo per quanto riguarda l’analisi dal punto di vista di un dialettico e storico realismo politico della vicenda dichiarazioni sui giudici di Elon Musk e ridicole reazioni al riguardo da parte del sistema poltico-informativo italiano. Per quanto riguarda le possibili contromisure a questo deplorevole “stato delle cose” che ha profonde radici nella nostra storia nazionale, il dibattito, come si dice, è aperto. Per il momento mi sento solo di dire, che dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico, la rianimazione di una “Epifania Strategica” nazionale necessita di proposte molto, molto innovative, le quali  siano però una vera e propria irresistibile e pasoliniamente poetica “forza del passato”,   le quali con il balzo di tigre a ritroso nel tempo  e nella storia evocato da Benjamin recuperino e risuscitino   i  due già nominati più grandi pensatori e rivoluzionari politici italiani.

Massimo Morigi, novembre 2024

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Italia: KKR acquisisce Enilive, di Giuseppe GAGLIANO…ed altro

Italia: KKR acquisisce Enilive

Giuseppe GAGLIANO

Presidente del Centro Studi Strategici Carlo De Cristoforis (Como, Italia). Membro del Comitato dei consulenti scientifici internazionali della CF2R.

 

Espansione di KKR e influenza americana

 

La crescente presenza di KKR, già attiva in Italia attraverso partecipazioni strategiche come quella nella rete di Telecom Italia, riflette una strategia consolidata di intervento in settori chiave come le infrastrutture e l’energia. Fondi come KKR e BlackRock possono fornire capitali consistenti e “pazienti”, cioè orientati a investimenti di lungo periodo, con particolare attenzione a settori in crescita come la mobilità sostenibile e le energie rinnovabili.

Nel caso specifico di Enilive, la partnership mira ad aggiungere valore al capitale della società, a sostenere una crescita autonoma in settori ad alto potenziale e a promuovere l’allineamento strategico tra la finanza statunitense e l’industria energetica italiana. Tuttavia, il coinvolgimento del fondo statunitense KKR solleva dubbi su una possibile diminuzione della sovranità economica dell’Italia.

 

Sovranità economica e dipendenza finanziaria

 

Il caso KKR-Enilive evidenzia il problema della ridotta autonomia economica dell’Italia in settori strategici. Il Paese è sempre più dipendente dai capitali stranieri per finanziare lo sviluppo industriale e le infrastrutture. L’ingresso di un fondo americano in Enilive, società legata alla più grande azienda energetica italiana, dimostra la difficoltà del sistema economico del Paese a sostenere da solo la transizione energetica. Da un lato, si tratta di un’interessante opportunità per ottenere fondi essenziali; dall’altro, aumenta la vulnerabilità dell’Italia a influenze esterne sui suoi asset strategici.

Negli ultimi anni, l’Italia ha cercato di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento energetico, promuovendo progetti come il gasdotto EastMed con il sostegno degli Stati Uniti. Tuttavia, l’impatto di queste scelte non può essere ignorato: se da un lato l’economia italiana beneficia dei flussi di capitali esteri, dall’altro aumenta il rischio di un’eccessiva dipendenza da questi stessi capitali, in particolare nel settore energetico.

 

Un’atlantizzazione degli asset italiani

 

Il governo italiano, sotto la guida di leader come Mario Draghi e ora Giorgia Meloni, ha incoraggiato una crescente apertura agli investimenti stranieri, in particolare americani. L’obiettivo, oltre a stimolare la ripresa dell’economia italiana, è quello di rafforzare i legami transatlantici e allinearsi alle strategie americane. Questa dinamica è illustrata anche dai premi consegnati dal de Consiglio Atlantico all’amministratore delegato dell’ENI Claudio Descalzi, che premiano gli sforzi italiani di convergere con gli obiettivi strategici statunitensi.

Tuttavia, l’ingresso di investitori statunitensi in settori come quello energetico evidenzia anche il graduale indebolimento del controllo nazionale su asset chiave. Con il capitalismo paziente di fondi come KKR, la finanza americana sta assumendo un potere significativo nel processo decisionale di settori nevralgici come la produzione di energia e le infrastrutture tecnologiche, esercitando un’ulteriore pressione sulla sovranità economica dell’Italia.

 

*

 

La partnership tra KKR ed Enilive riflette una duplice realtà: da un lato, l’ingresso di capitali stranieri rappresenta un’opportunità per il rilancio e lo sviluppo del settore della mobilità sostenibile in Italia; dall’altro, la crescente dipendenza dai fondi americani evidenzia il problema di un’Italia che fatica a mantenere la propria autonomia economica. L’operazione KKR-Enilive potrebbe portare significativi benefici finanziari e tecnologici, ma al costo di ridurre la capacità dell’Italia di gestire autonomamente le proprie risorse strategiche, in particolare nel settore energetico, ormai profondamente integrato nel sistema finanziario internazionale.

La questione della sovranità economica dell’Italia rimane quindi aperta e, in questo contesto, assume un’importanza centrale nel dibattito sul futuro dell’autonomia e della resilienza strategica del Paese.

 

 

 


[1] https://www.kkr.com

[2] https://www.eni.com/en-IT/company/subsidiaries-and-affiliates/enilive.html

[3] https://www.eni.com

La NATO e l’Europa nella strategia americana

Giuseppe GAGLIANO

Presidente del Centro Studi Strategici Carlo De Cristoforis (Como, Italia). Membro del Comitato dei Consulenti Scientifici Internazionali della CF2R.

Negli ultimi decenni, la NATO si è rivelata uno strumento fondamentale nella strategia geopolitica degli Stati Uniti per mantenere il controllo sul Rimland europeo e sulle industrie militari del continente. La teoria geopolitica, sviluppata da figure come Halford Mackinder e Nicholas Spykman, individua nel controllo delle regioni costiere europee e asiatiche la chiave per impedire l’emergere di potenziali rivali in grado di sfidare l’egemonia globale statunitense. Secondo questa visione, l’Europa, con il suo potenziale economico e industriale, rappresenta un’area di interesse strategico che deve rimanere sotto controllo per evitare che diventi una potenza indipendente o, peggio ancora, che collabori strettamente con la Russia, creando un asse che indebolirebbe il dominio americano.

La NATO è stata creata durante la Guerra Fredda, con la missione principale di contenere l’espansione sovietica e proteggere l’Europa occidentale dalle minacce del blocco comunista. Tuttavia, con la fine della Guerra Fredda e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, l’alleanza ha mantenuto la sua centralità come strumento di controllo geopolitico, in particolare nei confronti della Russia e delle sue aspirazioni a tornare ad essere un attore importante sulla scena internazionale. Più che un’alleanza difensiva tra pari, la NATO è arrivata a rappresentare una forma di influenza diretta degli Stati Uniti sulle politiche di sicurezza e di difesa europee.

 

Mantenere la dipendenza militare ed energetica dell’Europa

 

Uno degli aspetti centrali di questo controllo è il monopolio che gli Stati Uniti hanno sull’industria militare europea. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, con il Piano Marshall, gli Stati Uniti hanno fornito massicci aiuti militari ed economici all’Europa, assicurandosi una posizione privilegiata nella fornitura di armi e tecnologie ai Paesi europei. Questo ha portato a una dipendenza che, nel tempo, è diventata sistematica: invece di sviluppare una propria industria della difesa autonoma e competitiva, gli eserciti europei hanno spesso scelto di acquistare armi americane.

Un esempio emblematico di questo processo è il “Patto del secolo”;” del 1975, quando diversi Paesi europei, tra cui Belgio, Paesi Bassi, Danimarca e Norvegia, furono spinti ad acquistare il caccia statunitense F-16, nonostante fossero disponibili alternative europee come il francese Mirage F-1 o lo svedese Saab Viggen, entrambi più adatti alle esigenze delle forze aeree europee. Questo scenario si è ripetuto più volte, come nel caso dell’acquisto dell’F-35 da parte del Belgio nel 2018, dove il governo di Bruxelles ha scelto il caccia statunitense nonostante la sua reputazione di inaffidabilità e difficoltà di ammodernamento, rifiutando opzioni europee come il francese Rafale o l’Eurofighter Typhoon.

Questo fenomeno non si limita solo all’acquisto di sistemi d’arma, ma si estende al controllo delle principali industrie militari europee. Attraverso acquisizioni e fusioni, i gruppi finanziari americani hanno assorbito molte delle aziende europee che operano nel settore della difesa. Uno dei casi più significativi è stata l’acquisizione della divisione aeronautica di Fiat Avio da parte di investitori americani, operazione che ha permesso agli Stati Uniti di mettere le mani su tecnologie strategiche utilizzate in progetti come l’Eurofighter e l’Airbus A400M, oltre che nel programma spaziale europeo Ariane.

La penetrazione americana nell’industria militare europea non si è fermata qui. Aziende tedesche come MTU Aero Engines, che produce componenti per l’Eurofighter, sono state acquisite da gruppi americani, così come la svedese Bofors e la spagnola Santa Bárbara Blindados, produttrice dei carri Leopard 2-E. Questa strategia ha portato a una maggiore dipendenza dell’Europa dalla tecnologia militare statunitense, rendendo difficile per i Paesi europei sviluppare un’industria della difesa competitiva e autonoma.

L’obiettivo principale di questa strategia è evidente: impedire all’Europa di sviluppare una capacità di difesa indipendente e prevenire una stretta collaborazione tra Europa e Russia, eventualità che Washington vede come una minaccia alla sua egemonia globale. La rottura delle relazioni tra Europa e Russia è sempre stata una priorità strategica per gli Stati Uniti e il conflitto in Ucraina è solo l’ultimo esempio di questa politica. Il sabotaggio dei gasdotti nel Mar Baltico, che ha interrotto le forniture energetiche russe all’Europa, e l’isolamento di regioni strategiche come il Donbass e il Mar Nero, dimostrano chiaramente l’intenzione di Washington di impedire la cooperazione economica e strategica tra Germania e Russia.

In termini di energia, l’Europa si trova ora in una posizione vulnerabile, con le sue forniture di gas gravemente compromesse. Il conflitto israelo-palestinese ha ulteriormente complicato la situazione, impedendo lo sfruttamento dei giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale, che potrebbe avere ripercussioni durature sulla sicurezza energetica europea. Questo isolamento energetico, unito al controllo degli Stati Uniti sulle industrie militari, lascia l’Europa in una posizione di dipendenza che sarà difficile superare senza un cambiamento radicale della strategia politica e industriale.

In definitiva, il controllo che gli Stati Uniti esercitano sull’Europa attraverso la NATO non è solo una questione di sicurezza, ma rappresenta un ostacolo strutturale allo sviluppo di un’Europa autonoma e competitiva. La sopravvivenza e la crescente influenza della NATO, soprattutto dopo la fine della Guerra Fredda, dimostrano che Washington vede l’Europa non come un alleato alla pari, ma come una regione da controllare e gestire per evitare che diventi un rivale globale. La dipendenza militare, energetica e industriale dell’Europa dagli Stati Uniti è il risultato di decenni di politiche volte a mantenere il continente frammentato e debole, incapace di sviluppare una propria visione strategica autonoma.

 

Il desiderio della NATO di rafforzare le proprie capacità si scontra con molteplici difficoltà.

 

Un’analisi strategico-militare ed economica dei piani di rafforzamento della NATO, così come sono stati recentemente rivelati, evidenzia una serie di complessità e contraddizioni che riflettono le difficoltà strutturali delle alleanze militari nel contesto di una crisi internazionale in costante evoluzione. La proposta di aumentare il numero delle brigate NATO da 82 a 131 entro il 2030, come indicato nel documento confidenziale citato da Die Welt[1], è chiaramente una risposta all’escalation delle tensioni tra Occidente e Russia, in particolare dopo l’invasione dell’Ucraina. Tale rafforzamento è giustificato, agli occhi dell’Alleanza, dalla percezione del crescente rischio di un confronto diretto con Mosca, alimentato dal crescente coinvolgimento della NATO nel sostegno logistico e militare a Kiev. Tuttavia, questo piano si scontra con una serie di difficoltà economiche, sociali e politiche che potrebbero renderne difficile l’attuazione.

Da un punto di vista geopolitico, l’idea di rafforzare le capacità militari della NATO nasce dalla necessità di rispondere alla minaccia di un possibile attacco russo all’Europa, sebbene il Cremlino continui a negare tale intenzione, descrivendola come propaganda occidentale volta a giustificare ulteriori spese militari. Questa politica dell’Alleanza riflette la crescente polarizzazione tra Russia e Occidente, alimentata dalla guerra in Ucraina e dalla retorica aggressiva che domina il discorso internazionale. La decisione della NATO di aumentare il numero di brigate e comandi militari, nonché di rafforzare la difesa aerea e il numero di elicotteri[2], rientra in una logica di preparazione a un conflitto a lungo termine, che tuttavia potrebbe non essere percepito come imminente dall’opinione pubblica degli Stati membri. Infatti, sebbene i governi occidentali siano impegnati a rafforzare le proprie capacità difensive, il sostegno popolare a queste misure rimane incerto, soprattutto in un contesto di difficoltà economiche, recessione e crisi energetica.

L’aspetto economico è fondamentale. L’Europa sta attraversando un periodo di deindustrializzazione e di aumento dei costi energetici, il che rende difficile finanziare un vasto programma di riarmo. Il piano di rafforzamento della NATO richiederebbe investimenti ben superiori al 2% del PIL, una soglia che molti Paesi fanno già fatica a raggiungere. Attualmente solo 23 dei 32 membri della NATO soddisfano questo requisito, e tra i maggiori inadempienti ci sono nazioni come l’Italia, la Spagna e il Belgio. Ciò evidenzia una chiara disparità tra i Paesi più ricchi e quelli più piccoli o economicamente fragili, che potrebbero non essere in grado di sostenere l’onere finanziario richiesto. Inoltre, il piano implica che le nazioni più importanti, come l’Italia, la Francia, la Germania e il Regno Unito, dovrebbero formare almeno tre o quattro nuove brigate ciascuna, il che richiede risorse aggiuntive e potrebbe non incontrare il favore dell’opinione pubblica nazionale, sempre più scettica nei confronti delle spese militari.

Il piano della NATO potrebbe rivelarsi impraticabile anche a causa di fattori interni agli eserciti occidentali. Una delle sfide maggiori è la carenza di personale militare, un problema che riguarda quasi tutte le forze armate occidentali. Negli ultimi anni si è registrato un calo delle vocazioni militari in tutti i principali Paesi della NATO, con un esodo di personale qualificato e un calo delle assunzioni. Questa tendenza è particolarmente grave in Paesi come il Regno Unito, dove il numero di soldati in servizio è ai minimi storici, e negli Stati Uniti, che da anni non raggiungono gli obiettivi di reclutamento. Anche le marine occidentali stanno attraversando gravi difficoltà, con molte navi rimaste in bacino per mancanza di equipaggio. In questo contesto, aumentare il numero di brigate e rafforzare le capacità militari sembra un obiettivo difficile, se non utopico. La NATO potrebbe trovarsi di fronte a un dilemma: come conciliare l’ambizione di rafforzare le proprie difese con la realtà della carenza di risorse umane e finanziarie?

Un altro aspetto da considerare è la capacità dei Paesi della NATO di sostenere un lungo programma di riarmo in un contesto di incertezza economica e politica. Il sostegno militare all’Ucraina, sempre più criticato dall’opinione pubblica europea, unito alle difficoltà economiche interne, potrebbe ridurre il consenso politico a favore di tali misure. In molti Paesi europei, i cittadini chiedono “burro ” piuttosto che “pistole “, cioè una maggiore attenzione alle politiche economiche e sociali piuttosto che a costosi programmi di difesa. Questa dinamica potrebbe indebolire la determinazione dei governi a impegnarsi nel rafforzamento delle forze armate, soprattutto se il rischio di un’invasione russa viene percepito come remoto o esagerato.

In conclusione, sebbene il piano di rafforzamento della NATO sia una risposta logica alle crescenti tensioni con la Russia, è probabile che rimanga più un pio desiderio che una realtà concreta. La combinazione di difficoltà economiche, carenza di personale militare e un consenso politico incerto rendono questo progetto difficile, se non impossibile, da realizzare. La NATO dovrà quindi affrontare sfide significative nei prossimi anni, cercando di bilanciare le esigenze di sicurezza con le limitate risorse a disposizione dei suoi membri.

 

 

 


[1] https://www.agenzianova.com/fr/news/Le-monde-de-l%27OTAN-est-prêt-à-demander-aux-États-membres-une-augmentation-des-troupes-et-des-armes-pour-se-protéger-de-Moscou/

[2] https://www.nato.int/cps/fr/natohq/news_227685.htm

Il ritorno della Germania come nazione nemica nella percezione russa

Giuseppe GAGLIANO

Presidente del Centro Studi Strategici Carlo De Cristoforis (Como, Italia). Membro del Comitato dei Consulenti Scientifici Internazionali della CF2R.

 

Nell’attuale contesto geopolitico, le relazioni tra Germania e Russia si sono notevolmente deteriorate, segnando un ritorno alle dinamiche di ostilità tra i due Paesi durante la Seconda Guerra Mondiale. Il sostegno di Berlino all’Ucraina nel conflitto con Mosca ha trasformato un rapporto di reciproco rispetto e cooperazione, sviluppatosi nei decenni successivi alla Guerra Fredda, in una nuova fase di tensione e inimicizia. La Germania, un tempo ammirata dai russi per la sua stabilità economica e il suo ruolo di leadership in Europa, è di nuovo vista come un nemico.

 

La genesi del cambiamento: l’invasione russa dell’Ucraina

L’inizio dell’offensiva russa in Ucraina nel febbraio 2022 ha segnato un punto di svolta nelle relazioni tra Mosca e Berlino. L’esplicito sostegno della Germania a Kiev, espresso attraverso l’invio di armi, aiuti economici e supporto diplomatico, ha innescato una crescente propaganda antitedesca nei media russi, influenzando l’opinione pubblica. Secondo un recente studio del Centro Levada, uno dei principali istituti di ricerca indipendenti della Russia, il 62% dei russi ha attualmente un’opinione negativa o piuttosto negativa della Germania. Questo dato segna un cambiamento radicale rispetto al 2019, quando il 61% della popolazione russa aveva un’opinione positiva della Germania.

Il cambiamento di questa percezione è stato ulteriormente alimentato dalla propaganda di Stato russa, che ha dipinto la Germania come un avversario diretto del popolo russo a causa del suo sostegno all’Ucraina. Inoltre, l’enfasi sulle memorie storiche legate alla Seconda Guerra Mondiale ha giocato un ruolo fondamentale nel ridefinire la Germania come nemico storico e attuale, ricordando la devastazione causata dall’invasione nazista dell’Unione Sovietica.

 

La dimensione strategica e militare della percezione russa

Da un punto di vista militare, la Germania è stata integrata nel discorso russo come uno dei principali attori della coalizione occidentale che, insieme agli Stati Uniti e alla NATO, cerca di contenere e minacciare la Russia. L’espansione della NATO verso est e il coinvolgimento diretto della Germania nella fornitura di armi all’Ucraina sono visti a Mosca come una minaccia diretta alla sicurezza nazionale e all’influenza russa nella regione.

La risposta della Russia a questa percezione è stata duplice. Da un lato, Mosca ha intensificato le operazioni militari in Ucraina, prendendo di mira le infrastrutture strategiche e le capacità militari ucraine che erano state rafforzate dagli aiuti occidentali. Dall’altro, la Russia ha rafforzato le sue capacità difensive e la sua retorica anti-occidentale, identificando nella Germania un attore chiave in questa nuova “guerra fredda” che contrappone Mosca all’Occidente.

 

Il ruolo della propaganda e la manipolazione dell’opinione pubblica

Un elemento cruciale che ha contribuito al cambiamento della percezione della Germania è stato l’uso massiccio della propaganda da parte del governo russo. Fin dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, i media russi hanno intensificato i messaggi anti-occidentali, dipingendo la Germania come un Paese che aveva tradito i suoi legami con la Russia per abbracciare una politica di ostilità. Secondo Lev Gudkov, direttore del Centro Levada, questa campagna di disinformazione ha avuto un impatto significativo sull’opinione pubblica russa, aumentando il risentimento verso Berlino.

Il fatto che il Centro Levada sia stato etichettato come “agente straniero” dal governo russo nel 2016 è indicativo della crescente repressione delle voci indipendenti in Russia. Tuttavia, i dati raccolti dall’istituto offrono uno sguardo su come la propaganda di Stato sia riuscita a plasmare il pensiero collettivo. Il 64% degli intervistati ha dichiarato di non approvare che la Germania critichi la guerra e sostenga l’Ucraina, mentre solo l’11% ha compreso le azioni del governo tedesco. Ciò dimostra fino a che punto la narrazione governativa sia riuscita a convincere un’ampia maggioranza della popolazione che la Germania rappresenta una minaccia diretta agli interessi russi.

 

Implicazioni geopolitiche a lungo termine

Il deterioramento delle relazioni tra Russia e Germania ha importanti implicazioni per la stabilità geopolitica europea. Da un lato, segna la fine di una lunga fase di collaborazione economica e diplomatica che aveva caratterizzato le relazioni tra i due Paesi dalla fine della Guerra Fredda. Berlino, in quanto potenza economica europea, era uno dei principali partner commerciali di Mosca e la sua dipendenza dalle risorse energetiche russe era stata a lungo un fattore di stabilità nelle relazioni bilaterali. Tuttavia, con la guerra in Ucraina, la Germania ha scelto di ridurre drasticamente la sua dipendenza energetica dalla Russia, adottando sanzioni contro Mosca e rafforzando la sua partecipazione all’alleanza occidentale.

D’altra parte, questo sviluppo sta ulteriormente polarizzando il conflitto tra Russia e Occidente. La Germania, in quanto membro centrale della NATO e attore chiave dell’Unione Europea, è ora percepita da Mosca come un avversario non solo politico ma anche militare. Questo potrebbe spingere la Russia a rafforzare ulteriormente le sue posizioni strategiche lungo il confine occidentale e a intensificare il suo coinvolgimento militare in Ucraina, nel tentativo di minare il sostegno occidentale.

 

*

 

Il ritorno della Germania come “nazione nemica” nella percezione russa rappresenta un esempio emblematico di come la geopolitica possa essere influenzata non solo dagli eventi sul campo, ma anche dalla propaganda e dalla manipolazione dell’opinione pubblica. Attraverso una narrazione mirata, la Russia ha riposizionato la Germania come un avversario, utilizzando il suo passato storico e la guerra in Ucraina come catalizzatori di questo cambiamento di percezione.

Da un punto di vista strategico e militare, questo sviluppo rende ancora più difficile la de-escalation del conflitto tra Russia e Occidente. Con la Germania ormai chiaramente identificata come uno dei principali nemici di Mosca, è probabile che il conflitto continui a inasprirsi, con potenziali conseguenze per la stabilità dell’Europa e per la sicurezza globale.

Rapporto Niinistö: “Safer together: enhancing Europe’s civil and military preparedness”.

Giuseppe GAGLIANO

Presidente del Centro Studi Strategici Carlo De Cristoforis (Como, Italia). Membro del Comitato dei Consulenti Scientifici Internazionali della CF2R.

 

 

Il recente rapporto di Sauli Niinistö, ex presidente della Finlandia, commissionato da Ursula von der Leyen per valutare la preparazione dell’Unione Europea a crisi e conflitti, delinea una visione che potrebbe rappresentare uno spartiacque politico, strategico e di intelligence per l’Unione Europea.

Dal punto di vista politico, la proposta di creare un servizio di intelligence europeo dimostra il crescente riconoscimento all’interno dell’UE della necessità di costruire una difesa integrata e autonoma, riducendo così la dipendenza dagli Stati membri e dagli alleati stranieri, in particolare dagli Stati Uniti. La richiesta di una struttura di intelligence unificata risponde alla necessità di difendere più efficacemente il territorio europeo dalle minacce interne ed esterne, migliorando la capacità di risposta collettiva. Tuttavia, l’idea di un’agenzia di intelligence centralizzata si scontra con le preoccupazioni di alcuni Stati membri, che potrebbero temere una perdita di sovranità sulle proprie capacità di intelligence e sulla sicurezza nazionale.

Da un punto di vista strategico, la proposta di Niinistö giunge in un momento cruciale, con il conflitto in Ucraina che continua a minacciare la stabilità dell’intero continente e le attività russe che rimangono una minaccia per gli Stati membri dell’UE. La Russia ha intensificato le operazioni di intelligence e di sabotaggio nei Paesi dell’UE, approfittando della frammentazione delle risposte dei singoli Paesi. In questo contesto, la creazione di un’agenzia di intelligence europea potrebbe non solo migliorare il flusso di informazioni tra gli Stati membri, ma anche rafforzare la resilienza contro gli attacchi informatici, il sabotaggio delle infrastrutture critiche e le operazioni clandestine. La proposta di un sistema “antisabotaggio” menzionata da Niinistö, volta a proteggere le infrastrutture critiche, dimostra come l’UE si stia muovendo verso un concetto più ampio di difesa, che non riguarda solo la dimensione militare ma anche la salvaguardia delle risorse e delle reti interne. La guerra in Ucraina ha mostrato chiaramente la vulnerabilità delle infrastrutture critiche, come i gasdotti e le reti di comunicazione sottomarine, spingendo l’UE ad adottare un approccio proattivo per evitare ulteriori interruzioni e disservizi in futuro.

Dal punto di vista dell’intelligence, è probabile che il piano di Niinistö attinga ai modelli già utilizzati dagli alleati occidentali, come la rete “Five Eyes ” tra Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Australia e Nuova Zelanda, che condividono ampiamente l’intelligence per coordinare la loro protezione. Sebbene l’UE disponga già di meccanismi per la condivisione di informazioni tra gli Stati membri, l’istituzione di un’agenzia di intelligence pienamente operativa rappresenterebbe un cambiamento di paradigma, consolidando e standardizzando i processi di raccolta, analisi e diffusione delle informazioni. Niinistö sottolinea anche la necessità di rafforzare il controspionaggio all’interno delle istituzioni europee, in particolare a Bruxelles, che è diventata un punto focale per le operazioni di intelligence di molte potenze straniere, in particolare della Russia, a causa della presenza di istituzioni e ambasciate dell’UE. La raccomandazione di un servizio di intelligence europeo mira quindi non solo a proteggere i cittadini e le infrastrutture dell’UE, ma anche a garantire l’integrità e la sicurezza delle sue stesse istituzioni.

I commenti di Niinistö riflettono la crescente necessità di fiducia e cooperazione tra gli Stati membri, essenziale per affrontare efficacemente le minacce moderne. Tuttavia, c’è scetticismo sulla possibilità di istituire una vera e propria agenzia di intelligence europea, poiché alcuni Stati membri considerano la condivisione dell’intelligence una questione di sovranità nazionale. La Von der Leyen ha già riconosciuto che la raccolta di informazioni è tradizionalmente una prerogativa degli Stati nazionali e molti Paesi potrebbero non vedere di buon occhio un’entità sovranazionale che si occupa di questioni così delicate. Questa riluttanza sottolinea ancora una volta i limiti dell’UE nel superare le barriere nazionali in settori chiave della sicurezza e della difesa e dimostra che, sebbene esista una chiara visione di rafforzamento dell’autonomia strategica, la sua realizzazione sarà tutt’altro che semplice. In definitiva, il rapporto di Niinistö pone le basi per una discussione critica e necessaria sull’autonomia strategica dell’UE, in un contesto globale in cui la cooperazione tra gli Stati europei sarà fondamentale per affrontare le sfide alla sicurezza poste dalle potenze rivali.

Il rapporto di Sauli Niinistö e la proposta di creare un’unica agenzia di intelligence europea offrono molti spunti di riflessione. Da un lato, i vantaggi di questa iniziativa sono evidenti: un’agenzia di intelligence centralizzata permetterebbe all’Unione Europea di rispondere in modo più coordinato e rapido alle minacce comuni, come il terrorismo, il sabotaggio e le operazioni di spionaggio. Una struttura unificata potrebbe ridurre la frammentazione delle informazioni tra i diversi servizi nazionali, garantendo un flusso più rapido e affidabile di dati strategici e operativi. Ciò consentirebbe agli Stati membri di prendere decisioni informate basate su un’intelligence completa e condivisa. Un’agenzia unica potrebbe anche migliorare la sicurezza delle istituzioni europee, in particolare a Bruxelles. Inoltre, un’iniziativa di questo tipo rappresenterebbe un passo avanti verso l’autonomia strategica dell’UE, riducendo la sua dipendenza dalle informazioni provenienti dagli alleati esterni, in particolare dagli Stati Uniti.

Tuttavia, gli svantaggi sono altrettanto significativi. In primo luogo, c’è un problema di fiducia: molti Stati membri potrebbero essere riluttanti a condividere completamente le loro informazioni con un’entità sovranazionale, temendo fughe di dati o la possibilità che informazioni sensibili finiscano nelle mani sbagliate. La tradizione storica dei servizi di intelligence nazionali, visti come simbolo di sovranità e sicurezza, potrebbe scontrarsi con l’idea di cedere il potere decisionale e operativo a un’agenzia centrale europea. Inoltre, la creazione di un’agenzia di intelligence comune potrebbe non garantire pienamente l’indipendenza dell’UE dall’influenza americana. Al contrario, una struttura di intelligence centralizzata potrebbe facilitare il condizionamento esterno, in quanto gli Stati Uniti potrebbero cercare di stabilire relazioni privilegiate con l’agenzia europea per mantenere il controllo su informazioni sensibili e orientare le scelte politiche e di sicurezza europee. La forza dell’alleanza transatlantica, sancita da decenni di collaborazione e legami economici e militari, renderebbe difficile per l’UE liberarsi completamente dall’influenza di Washington, che potrebbe esercitare pressioni o ottenere un accesso indiretto alle informazioni raccolte dall’agenzia europea attraverso accordi o partnership bilaterali.

In definitiva, la creazione di un’unica agenzia di intelligence potrebbe rappresentare un importante passo avanti per la sicurezza europea, ma genererebbe anche notevoli complessità da non sottovalutare. Per raggiungere una vera indipendenza strategica, l’UE non solo dovrebbe sviluppare una struttura operativa centralizzata, ma anche garantire un’adeguata protezione contro le interferenze esterne, mantenendo una gestione autonoma e riservata delle proprie informazioni. Il successo di questo progetto dipenderà dalla capacità dell’UE di costruire un’agenzia che sappia coniugare efficacemente collaborazione e riservatezza, rispettando la sovranità nazionale e resistendo a possibili condizionamenti esterni, in modo che l’Europa possa davvero consolidare il suo ruolo di attore indipendente e strategicamente autonomo sulla scena internazionale.

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Scontro tra i poteri dello Stato: la confusione genera mostri, del dr Yari Lepre Marrani

 

Scontro tra i poteri dello Stato: la confusione genera mostri.

 

Un (presunto) conflitto tra l’attuale maggioranza di governo e il potere giudiziario non sarebbe altro che un punteruolo finale ad uno scontro tra poteri dello stato iniziato il 17 febbraio 1992 e parallelo ad una decadenza colposa delle istituzioni italiane di fronte ai problemi del paese.  L’immigrazione è uno di questi ma il governo Meloni ha agito proditoriamente sfidando non solo le normative europee cioè il sistema legislativo di quell’Europa che la Meloni ha sempre disprezzato ma da quando è presidente del consiglio mira a trasformare in un ulteriore palcoscenico per la propria carriera. La sua sfida è lanciata soprattutto  a quel buon senso di civiltà di diritto internazionale che un politico lungimirante e intelligente dovrebbe tutelare e considerare come teatro per una risoluzione reale del problema migratorio, non uno strumento per creare confusione umanitaria e politica senza risolvere alcunché. È stato pubblicato il 23 ottobre in Gazzetta Ufficiale e trasmesso alle Camere per la conversione in legge il Decreto-Legge 23 ottobre 2024, n. 158: Disposizioni urgenti in materia di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. Con questo atto avente forza di legge, il governo si è arbitrariamente illuso di decidere quali sono i paesi sicuri per i migranti dimenticando di comprendere che un problema di così ciclopiche dimensioni come quello dell’immigrazione va risolto ab radicem e non con leggi che aggravano il problema perché generano confusione sociale. Il tema dell’immigrazione non è solo un vasto problema che tocca i diritti fondamentali dei più vulnerabili e il diritto internazionale: è un tema squisitamente sociale prima che politico. Perché migliaia di disperati fuggono dalle proprie terre sperando, lottando e rischiando la propria vita per raggiungere luoghi e paesi di sperata salvezza? Perché i loro paesi d’origine sono un fulcro di guerra, disperazione e desolazione, altrimenti non fuggirebbero in tali condizioni pietose. Già da decenni la politica italiana avrebbe compreso che la soluzione al problema dell’immigrazione – legale o illegale – andrebbe risolto in due modi: intervenendo concretamente sui paesi “a rischio” cioè sulle terre martoriate che generano i flussi migratori e creando sistemi di integrazione tali da rendere i migranti non un peso per il paese accogliente ma una risorsa(legale). Il DL 158 appena varato dimostra ictu oculi che le motivazioni politiche del governo Meloni sono fallaci, figlie di quell’opportunismo del momento che adombra l’incompetenza delle idee e la mancanza di una visione lucida sui sistemi per risolvere problemi di tali portata. Se manca una visione politica d’ampio raggio, lungimirante, che organizzi il presente in nome del futuro, il governo finge di governare. I governi si succedono ad ogni tornata elettorale; in Italia, negli ultimi dieci anni, ci sono state quattro maggioranze non elette dal popolo e quella attuale è stata eletta più per grave demerito delle altre forze politiche che per meriti propri. Togliendo il “forse” a quest’ultima affermazione, non è così indecoroso rilevare che nelle ultime elezioni politiche ha vinto la rassegnazione e non il merito: i cittadini votano per rassegnazione una forza politica – di destra o di sinistra – perché tutte le altre presenti sono impresentabili. La manifesta incapacità delle altre forze politiche già votate, collaudate e bocciate, porta all’elezione di chi, ancora, non è stato “provato” come forza di governo. Quale speranza!

Il Tribunale di Roma ha bocciato il Decreto Legge 158, bocciando la soluzione del “modello Albania”: è scontro tra poteri dello Stato? Forse.

Sicuramente una magistratura di parte è nemica dei cittadini che dovrebbe giurisdizionalmente tutelare. Se fosse così, la magistratura sarebbe potenzialmente corrotta. L’etimologia del termine corrotto è latina: corruptus, part. pass. di corrompere cioè corrompere, guastare, alterare.  L’immagine è quella di una crepa, di un tradimento di chi esercita un potere, di un fosso, nel caso de quo, tra chi esercita la funzione giurisdizionale e il cittadino.

Un governo incapace è un fatto grave; una magistratura di parte svincolata dal patto con i cittadini un fatto gravissimo. Se una parte della magistratura italiana usa politicamente il proprio potere per influire e determinare le scelte politiche di una nazione deve essere riformata ma per farlo occorre un governo che abbia una visione sociale, giuridica e politica di rara onestà, intelligenza e lungimiranza. Un governo che non possiede questi requisiti non può riformare la giustizia, neanche riformando ab origine e per dieci volte il CSM o chiedendo ogni giorno l’intervento del Presidente della Repubblica. Se la magistratura mostra segni di corruzione, il governo non ha la capacità di riformarne le basi: ecco da cosa nasce lo scontro tra i poteri dello Stato. Questo è il vero scontro che va al di là della recente polemica sul Decreto Paesi Sicuri. L’ignoranza genera mostri ma la confusione e l’incapacità serpeggiante tra i poteri dello Stato genera e genererà disastri che sono sempre preludio ai mostri.

dr Yari Lepre Marrani, analista politico

 

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PROCESSARE IL “POLITICO”, di Teodoro Klitsche de la Grange

PROCESSARE IL “POLITICO”

La contemporaneità dell’udienza del processo al Ministro Salvini e dell’annullamento giudiziario della “destinazione” in Albania di un gruppetto di migranti hanno un connotato comune: riproporre l’(eterno) problema del rapporto tra politica e giustizia e, quale presupposto di questo, di determinare cos’è “politico”.

Infatti il potere di giudicare ha carattere generale (anche ritenere di non avere il potere di giudicare, è un giudicare). Lo stesso può affermarsi del politico, perché anche quando una sfera di attività umana è libera e garantita dall’intromissione di poteri pubblici e quindi (anche e soprattutto) politici, ossia privata, ciò è frutto di una distinzione (e decisione) essenzialmente e squisitamente politica: quella tra pubblico e privato.

Data la generalità, politica e giurisdizione possono entrare in contrasto specialmente negli Stati borghesi di diritto, dove le garanzie giudiziarie sono particolarmente penetranti onde hanno indotto alla limitazione costituzionale del potere giudiziario, laddove si debbono giudicate i titolari di certi organi e comunque di decisioni che incidono su funzioni politiche. Ed è un problema che si poneva già agli albori dello Stato borghese moderno, sia nelle leggi delle assemblee francesi rivoluzionarie, che nelle riflessioni dei primi teorici come Benjamin Constant.

La responsabilità (e il processo) penale (e le di esso limitazioni) non è che uno degli aspetti del problema. Pochi italiani sanno che l’ordinamento francese esclude che siano justiciables, cioè annullabili dal Consiglio di Stato gli acts de gouvernement, e che tale soluzione fu fatta propria in Italia nell’istituire la IV Sezione del Consiglio di Stato e poi sempre ripetuta: l’art. 31 t.u. 26 giugno 1924 n. 1054, sul Consiglio di Stato (sostanzialmente ripetitivo dell’art. 24 del precedente t.u. 2 giugno 1889 n. 6166), prevede l’inammissibilità del ricorso al Consiglio di Stato per impugnare atti “emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico”. È penetrante il giudizio di Barile che l’attività politica non può venire “definita unicamente un’attività libera, ma un’attività libera perché politica” e che gli atti espressione della funzione di governo sono “istituzionalmente sottratti ad ogni sindacato giurisdizionale. Essi sono sottratti per natura”. Da ultimo tale esclusione è stata confermata nel vigente codice di procedura amministrativa, pubblicato nel 2010 (in pieno fragore mediatico giustizialista). Il problema degli acts de gouvernement è discriminarli da quelli che non lo sono: la giurisprudenza francese ricondusse ad una liste jurisprudentielle tali atti, includendoci in particolare gli atti relastivi ai rapporti internazionali, quelli relativi a rapporti tra organi costituzionali, poi anche le misure eccezionali di cui all’art. 16 della Costituzione della V Repubblica. In realtà passando da un tentativo di definizione denotativa, come la liste jurisprudentielle, ad una connotativa, emergono quali criteri distintivi degli atti politici da un lato lo scopo per cui sono presi tali atti: la difesa della comunità dai nemici, la sicurezza dell’insieme, la tutela (almeno) dei diritti dei cittadini alla vita e ad un’esistenza ordinata. In altre parole coincidono, in larga parte, con quelli che costituiscono il fine della politica (e di riflesso, dello Stato). Carl Schmitt ritiene a tale proposito che nel diritto francese si era «tentato di instaurare un concetto di motivo politico (mobile politique) con l’aiuto del quale distinguere gli atti di governo “politici” (acts de gouvernement) dagli atti amministrativi “non politici” e sottrarre quindi i primi al controllo della giurisdizione amministrativa»; una definizione, assai interessante per il concetto del politico che ne trae, è la seguente: «Ciò che costituisce l’atto di governo è il fine che si propone  l’autore. L’atto che ha per fine la difesa della società presa in sé stessa o personificata nel governo, contro i suoi nemici esterni o interni, palesi o nascosti, presenti o futuri: ecco l’atto di governo». E in effetti tale considerazione – enfatizzata dal rapporto amicus-hostis – è assai prossima a quello che avrebbe poi scritto Freund.

Ritiene Freund, citando Aristotele, che ogni attività umana persegue  un fine specifico: quello della politica è il bene comune (così definito dalla teologia cristiana). Questo si può ripartire nella sicurezza (esterna ed interna) e nel mantenimento dell’ordine cioè della pace e della prosperità della comunità.

E in effetti una delle caratteristiche degli organi politici, in particolare di quello superiorem non recognoscens, è di essere sottratto ad ogni giurisdizione. The King can do no wrong: il Re non può far torto è un’antica massima del diritto inglese. Se nei due casi in esame, l’esercizio dell’azione penale nei confronti di Salvini era stata regolarmente autorizzata dal Senato, e la possibilità di giudicare la legittimità della procedura di “delocalizzazione” dei migranti non è soggetta al limite dell’atto politico (come la cognizione del giudice amministrativo), costituisce comunque un problema. Il quale non si pone nella quasi totalità dei casi alla ribalta delle cronache, concernenti o pure e semplice ruberie, abusi ecc. ecc. di funzionari compiuti a benefici, proprio del politico e dei di esso seguaci ovvero a questioni di carattere strettamente privato (come lo sbandieratismo/i processo/i a carico di Berlusconi per le “olgettine”). Qui invece ad essere giudicati sono atti politici presi nell’esercizio di un potere politico per fini politici come la sicurezza e l’ordine pubblico. Cioè per un’attività politica  per la natura della cosa, come scriveva Barile. E su questo e sulle conseguenze c’è tanto da pensare.

Teodoro Klitsche de la Grange

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SALVINI E MONTESQUIEU, di Teodoro Klitsche de la Grange

SALVINI E MONTESQUIEU

Come al solito, in occasione al processo a Salvini, si è rianimato il dibattito sui rapporti tra politica e giustizia, con il coro (ovviamente a sinistra) di violazione del principio di separazione dei poteri, dello Stato di diritto, ecc. ecc.

Tutti interpretati ad usum delphini, ossia, più terra terra, per fare propaganda. Poco è stato notato che tali interpretazioni sono il contrario di quanto sosteneva Montesquieu (e non solo), spacciato come sostenitore dei pensierini dei suoi (sedicenti) seguaci contemporanei. Vediamo come.

Il primo tra gli idola in materia è che pretendendo di non essere condannato per aver governato il leader della Lega stia infrangendo il principio di distinzione dei poteri. Ossia che distinzione dei poteri voglia dire separazione assoluta e cioè isolamento tra più complessi organizzativi dello Stato, così separati che, coerentemente sviluppando tale impostazione, non si comprende in che guisa ritroverebbero l’unità, essenziale ad ogni comunità politica.

Ma non è questo il concetto che detta distinzione dei poteri aveva le President à mortier, il quale, nel famoso passo dell’XI libro dell’ “Esprit des loi” inizia ad illustrare la distinzione dei poteri scrivendo che “perché nessuno possa abusare del potere, è necessario che, per l’assetto delle cose, il potere possa fermare il potere”.

Non si comprende come ciò potrebbe avvenire se tra i poteri vi fosse una separazione assoluta. Anzi per corroborare la tesi contraria basta leggere il capitolo XV della Verfassungslehre di Carl Schmitt in cui il giurista elenca gran parte dei tipi di “collegamento” e “non-collegamento” tra poteri elaborati in meno di due secoli (allora) di costituzioni borghesi (di “Stati di diritto”), onde conformare le costituzioni al pensiero di Montesquieu.

Secondo. Infatti l’idea di “separazione dei poteri” che si critica è basata su due connotati fondamentali: l’equiordinazione e l’isolamento dei poteri stessi. Poteri equiordinati implicano l’impossibilità di soluzioni di conflitti tra gli stessi, se non demandandone la decisione ad un’autorità che, proprio per tale funzione, non è più “equiordinata”. Se questa non c’è, l’unità e la coerenza dell’azione politica è compromessa.

Terzo. Nell’XI libro dell’ “Esprit des lois” Montesquieu distingue tra due tipi di atti: quelli che presuppongono nell’organo una faculté de statuer e quelli che sono estrinsecazioni della faculté de empêcher. La prima, scriveva Montesquieu, consiste nel “diritto di ordinare da sé o di correggere ciò che è stato ordinato da altri”; l’altra nel “diritto di render nulla una risoluzione altrui”. Nelle reciproche relazioni tra poteri e organi diversi è alla dialettica tra potere di statuire e potere di impedire che Montesquieu affida la possibilità di buon funzionamento del sistema delineato.

Se si va a leggere la casistica d’interventi di un potere sull’altro, si nota che quello “incompetente” non si può sostituire a quello “competente”, come nella specie se il governo o il Parlamento pretendessero di fare una sentenza o spiccare un ordine di custodia cautelare, ma solo impedire (in sostanza derogare o limitare) l’attività di un altro comparto.

Questo anche all’inverso: ad esempio la giustizia ordinaria non può prendere dei provvedimenti attribuiti al potere esecutivo-amministrativo, ma può disapplicarli, privandoli di validità nel caso concreto sottoposto a giudizio. Se fosse valido quanto sostengono a sinistra, proprio uno dei caposaldi dello Stato liberale cioè il controllo giudiziario sulla P.A. sarebbe violazione del principio della distinzione dei poteri, con buona pace del pensiero e dell’azione liberale degli ultimi due secoli.

Quarto. Scriveva un filosofo del diritto come Radbruch che mentre per la politica vale il detto salus rei plublicae suprema lex, per la giustizia vige fiat justitia pereat mundum.

In genere, in caso di contrasto, prevale la necessità politica (cioè dell’esistenza ordinata della comunità e dello Stato). A parte il caso di Salvini, lo si riscontra in più disposizioni dell’ordinamento, tra cui quella sull’ “atto politico”, proprio perché politico sottratto alla cognizione del Giudice (norma vigente da oltre un secolo e confermata da ultimo nel 2010).

Scriveva V.E. Orlando sull’atto politico (ma è utile anche nel caso Salvini) che a distinguerlo dal semplice atto amministrativo era assai più lo scopo che la “natura” dell’atto: “la distinzione acquista un’importanza effettiva, quando il carattere politico che vuolsi attribuire all’atto dipende non tanto dalla natura di esso quanto dallo scopo cui, a torto o a ragione, si dicono diretti: noi accenniamo a quegli atti del potere esecutivo che infrangono le leggi sotto l’impulso di una pubblica necessità, assumendo per giustificazione il motto salus reipublicae suprema lex”. E sindacare lo scopo e la congruità non è certo compito del Giudice, limitandosi questo alla conformità dell’azione del potere pubblico a delle regole. Montesquieu distingueva così i tre poteri: “In ogni stato ci sono tre tipi di poteri quello legislativo, il potere d’esecuzione delle cose dipendenti dal diritto delle genti, il potere esecutivo di quelle che dipendono dal diritto civile…

Per il secondo (di questi) fa la pace e la guerra, nomina e riceve ambasciatori, mantiene la sicurezza, previene le invasioni. Per la terza, punisce i crimini, e giudica le liti dei sudditi (particuliers)”. Confondere i poteri è compromettere la libertà. Permettere che un Ministro venga condannato per come ha tutelato i confini (cioè la sicurezza e i limiti territoriali) è fare politica, nel senso della potenza esecutrice del diritto delle genti” definita da Montesquieu. Ma non condivisa dai suoi sedicenti seguaci.

Teodoro Klitsche de la Grange

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La strategia di rinnovamento dell’America, di Antony J. Blinken

È in corso una feroce competizione per definire una nuova era negli affari internazionali. Un piccolo numero di Paesi – principalmente la Russia, con la partecipazione dell’Iran e della Corea del Nord, oltre che della Cina – è determinato a modificare i principi fondamentali del sistema internazionale. Sebbene le forme di governo, le ideologie, gli interessi e le capacità differiscano, queste potenze revisioniste vogliono tutte radicare un governo autocratico in patria e affermare sfere di influenza all’estero. Tutte vogliono risolvere le dispute territoriali con la coercizione o la forza e armare la dipendenza economica ed energetica di altri Paesi. E tutti cercano di erodere le basi della forza degli Stati Uniti: la loro superiorità militare e tecnologica, la loro moneta dominante e la loro rete ineguagliata di alleanze e partnership. Sebbene questi Paesi non costituiscano un asse e l’amministrazione sia stata chiara nel dire che non vuole un confronto in blocco, le scelte che queste potenze revisioniste stanno facendo ci impongono di agire con decisione per evitare questo esito.

Quando il presidente Joe Biden e il vicepresidente Kamala Harris sono entrati in carica, queste potenze revisioniste stavano già sfidando aggressivamente gli interessi degli Stati Uniti. Questi Paesi ritenevano che gli Stati Uniti fossero in declino irreversibile all’interno e divisi dai loro amici all’estero. Vedevano un’opinione pubblica americana che aveva perso la fiducia nel governo, una democrazia americana polarizzata e paralizzata e una politica estera americana che stava minando le stesse alleanze, istituzioni internazionali e norme che Washington aveva costruito e sostenuto.

Il Presidente Biden e il Vicepresidente Harris hanno perseguito una strategia di rinnovamento, abbinando gli investimenti storici nella competitività interna a un’intensa campagna diplomatica per rivitalizzare le partnership all’estero. Questa duplice strategia, secondo loro, era il modo migliore per distogliere i concorrenti dalla convinzione che gli Stati Uniti fossero in declino e diffidenti. Si trattava di ipotesi pericolose, perché avrebbero portato i revisionisti a continuare a minare il mondo libero, aperto, sicuro e prospero che gli Stati Uniti e la maggior parte dei Paesi cercano. Un mondo in cui i Paesi sono liberi di scegliere la propria strada e i propri partner e in cui l’economia globale è definita da concorrenza leale, apertura, trasparenza e ampie opportunità. Un mondo in cui la tecnologia dà potere alle persone e accelera il progresso umano. Un mondo in cui il diritto internazionale, compresi i principi fondamentali della Carta delle Nazioni Unite, sia sostenuto e i diritti umani universali siano rispettati. Un mondo che possa evolversi per riflettere nuove realtà, dare voce a prospettive e attori emergenti e affrontare le sfide comuni del presente e del futuro.

La strategia dell’amministrazione Biden ha messo gli Stati Uniti in una posizione geopolitica molto più forte oggi rispetto a quattro anni fa. Ma il nostro lavoro non è finito. Gli Stati Uniti devono mantenere la loro forza d’animo attraverso le amministrazioni per scuotere i presupposti dei revisionisti. Devono essere pronti a far sì che gli Stati revisionisti approfondiscano la cooperazione tra loro per cercare di colmare la differenza. Deve mantenere i suoi impegni e la fiducia dei suoi amici. E deve continuare a guadagnare la fiducia del popolo americano nel potere, nello scopo e nel valore di una leadership americana disciplinata nel mondo.

Tornare in gioco

La capacità strategica degli Stati Uniti si basa in larga misura sulla loro competitività economica. Per questo motivo il Presidente Biden e il Vicepresidente Harris hanno guidato i Democratici e i Repubblicani al Congresso nell’approvazione di una legge che prevedeva investimenti storici per migliorare le infrastrutture, sostenere le industrie e le tecnologie che guideranno il ventunesimo secolo, ricaricare la base produttiva, promuovere la ricerca e guidare la transizione energetica globale.

Questi investimenti nazionali hanno costituito il primo pilastro della strategia dell’amministrazione Biden e hanno aiutato i lavoratori e le imprese americane a sostenere l’economia statunitense più forte dagli anni Novanta. Il PIL degli Stati Uniti è più grande di quello degli altri tre Paesi messi insieme. L’inflazione è scesa a livelli tra i più bassi tra le economie avanzate del mondo. La disoccupazione si è mantenuta al di sotto del 4% per il periodo più lungo in oltre 50 anni. La ricchezza delle famiglie ha raggiunto un livello record. Sebbene troppi americani stiano ancora lottando per arrivare a fine mese e i prezzi siano ancora troppo alti per molte famiglie, la ripresa ha ridotto la povertà e la disuguaglianza e ha diffuso i suoi benefici a più persone e più luoghi.

Questi investimenti nella competitività americana e nel successo della ripresa degli Stati Uniti sono fortemente attrattivi. Dopo che il Congresso ha approvato il CHIPS and Science Act e l’Inflation Reduction Act nel 2022 – il più grande investimento di sempre nel clima e nell’energia pulita – la Samsung della Corea del Sud ha impegnato decine di miliardi di dollari per produrre semiconduttori in Texas. La giapponese Toyota ha investito miliardi di dollari per produrre veicoli elettrici e batterie in North Carolina. Tutti e cinque i principali produttori di semiconduttori del mondo si sono impegnati a costruire nuovi impianti negli Stati Uniti, investendo 300 miliardi di dollari e creando oltre 100.000 nuovi posti di lavoro americani.

Gli Stati Uniti sono oggi il maggior destinatario di investimenti diretti esteri al mondo. Sono anche il maggior fornitore di investimenti diretti esteri, a dimostrazione del potere ineguagliabile del settore privato americano di espandere le opportunità economiche in tutto il mondo. Questi investimenti non vanno solo a beneficio dei lavoratori e delle comunità americane. Riducono anche la dipendenza degli Stati Uniti dalla Cina e da altri paesi revisionisti e rendono il Paese un partner migliore per i Paesi che vogliono ridurre la loro dipendenza.

Se all’inizio alcuni amici temevano che gli investimenti e gli incentivi nazionali dell’amministrazione Biden potessero minacciare i loro interessi economici, con il tempo hanno visto come il rinnovamento americano possa giocare a loro favore. Ha incrementato la domanda dei loro beni e servizi e ha catalizzato i loro investimenti in chip, tecnologie pulite e catene di approvvigionamento più resistenti. E ha permesso agli Stati Uniti e ai suoi amici di continuare a guidare l’innovazione tecnologica e a definire standard tecnologici fondamentali per salvaguardare la sicurezza, i valori e il benessere comuni.

PARTNER IN PACE

Il secondo pilastro della strategia dell’amministrazione Biden è stato quello di rinvigorire e reimmaginare la rete di relazioni degli Stati Uniti, consentendo a Washington e ai suoi partner di unire le forze per portare avanti una visione condivisa del mondo e di competere in modo vigoroso ma responsabile contro coloro che cercano di minarla.

Competere con forza significa utilizzare tutti gli strumenti del potere statunitense per promuovere gli interessi degli Stati Uniti. Significa potenziare la posizione di forza degli Stati Uniti, le capacità militari e di intelligence, le sanzioni e gli strumenti di controllo delle esportazioni e i meccanismi di consultazione con gli alleati e i partner, in modo che il Paese possa dissuadere in modo credibile e, se necessario, difendersi dalle aggressioni. Sebbene Washington non voglia salire la scala delle azioni escalatorie, deve prepararsi e gestire un rischio maggiore.

Competere in modo responsabile, invece, significa mantenere canali di comunicazione per evitare che la competizione sfoci in conflitto. Significa chiarire che l’obiettivo degli Stati Uniti non è il cambio di regime e che, anche se entrambe le parti sono in competizione, devono trovare il modo di coesistere. Significa cercare modi per cooperare quando ciò serve all’interesse nazionale. E significa competere in modi che favoriscano la sicurezza e la prosperità degli amici, invece di andare a loro discapito.

La Cina è l’unico Paese che ha l’intenzione e i mezzi per rimodellare il sistema internazionale. Il Presidente Biden ha chiarito fin da subito che avremmo trattato Pechino come la “sfida del passo” degli Stati Uniti, ovvero il loro più importante concorrente strategico a lungo termine. Abbiamo intrapreso sforzi decisi per proteggere le tecnologie più avanzate degli Stati Uniti, difendere i lavoratori, le aziende e le comunità americane da pratiche economiche sleali e contrastare la crescente aggressività della Cina all’estero e la repressione interna. Abbiamo creato canali dedicati con gli amici per condividere la valutazione di Washington dei rischi economici e di sicurezza posti dalle politiche e dalle azioni di Pechino. Abbiamo comunque ripreso le comunicazioni militari e sottolineato che i gravi disaccordi con la Cina non impediranno agli Stati Uniti di mantenere forti relazioni commerciali con il Paese. Né permetteremo che l’attrito nelle relazioni tra Stati Uniti e Cina precluda la cooperazione su priorità importanti per il popolo americano e per il resto del mondo, come affrontare il cambiamento climatico, fermare il flusso di droghe sintetiche e prevenire la proliferazione nucleare.

Per quanto riguarda la Russia, non ci siamo fatti illusioni sugli obiettivi revanscisti del Presidente Vladimir Putin o sulla possibilità di un “reset”. Non abbiamo esitato ad agire con forza contro le attività destabilizzanti di Mosca, compresi i suoi attacchi informatici e le interferenze nelle elezioni statunitensi. Allo stesso tempo, abbiamo lavorato per ridurre il pericolo nucleare e il rischio di guerra, estendendo il trattato New START e avviando un dialogo sulla stabilità strategica.

Siamo stati altrettanto lucidi quando si è trattato di Iran e Corea del Nord. Abbiamo aumentato la pressione diplomatica e rafforzato la posizione di forza dell’esercito statunitense per scoraggiare e limitare Teheran e Pyongyang. L’uscita unilaterale e sbagliata dell’amministrazione Trump dall’accordo nucleare iraniano ha liberato il programma nucleare di Teheran dal suo confino, minando la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi partner. Abbiamo dimostrato all’Iran che esisteva un percorso di ritorno alla conformità reciproca – se l’Iran fosse stato disposto a percorrerlo – pur mantenendo un solido regime di sanzioni e il nostro impegno a non permettere mai all’Iran di ottenere un’arma nucleare. E abbiamo chiarito la nostra disponibilità a intavolare colloqui diretti con la Corea del Nord, ma anche che non ci saremmo sottomessi alle sue sciabolate o alle sue precondizioni.

L’impegno dell’amministrazione Biden a competere vigorosamente ma responsabilmente su queste linee ha tolto ai revisionisti il pretesto che gli Stati Uniti fossero l’ostacolo al mantenimento della pace e della stabilità internazionale. Inoltre, ha fatto sì che gli Stati Uniti guadagnassero una maggiore fiducia da parte dei loro amici e, con essa, partnership più forti.

Abbiamo lavorato per realizzare il pieno potenziale di queste partnership in quattro modi. In primo luogo, ci siamo impegnati a rispettare le alleanze e i partenariati fondamentali del Paese. Il Presidente Biden ha rassicurato gli alleati della NATO che gli Stati Uniti onoreranno la loro promessa di trattare un attacco a uno come un attacco a tutti; ha riaffermato i ferrei impegni di sicurezza del Paese nei confronti del Giappone, della Corea del Sud e di altri alleati in Asia; e ha restituito al G-7 il suo ruolo di comitato direttivo delle democrazie avanzate del mondo.

In secondo luogo, abbiamo infuso alleanze e partnership statunitensi con un nuovo scopo. Abbiamo elevato il Quadrilatero, la partnership con Australia, India e Giappone, e abbiamo adottato misure concrete per realizzare una visione condivisa di un Indo-Pacifico libero e aperto, dal rafforzamento della sicurezza marittima alla produzione di vaccini sicuri ed efficaci. Abbiamo lanciato il Consiglio per il commercio e la tecnologia tra Stati Uniti e Unione Europea, mettendo in campo la più grande partnership economica del mondo per definire standard globali per le tecnologie emergenti e proteggere le innovazioni più sensibili degli Stati Uniti e dell’Europa. Abbiamo aumentato l’ambizione di relazioni bilaterali critiche, come il partenariato strategico tra Stati Uniti e India, e abbiamo rilanciato l’impegno regionale, con il Presidente Biden che ha ospitato vertici con i leader di Africa, America Latina, Isole del Pacifico e Sud-Est asiatico.

Abbiamo reso la NATO più grande, più forte e più unita che mai.

In terzo luogo, abbiamo unito gli alleati e i partner degli Stati Uniti in nuovi modi, attraverso le regioni e le questioni. Abbiamo lanciato l’Indo-Pacific Economic Framework, che riunisce 14 Paesi che rappresentano il 40% del PIL mondiale per costruire catene di approvvigionamento più sicure, combattere la corruzione e passare all’energia pulita. Abbiamo creato AUKUS, un partenariato trilaterale per la difesa attraverso il quale Australia, Regno Unito e Stati Uniti si sono uniti per costruire sottomarini a propulsione nucleare e approfondire la cooperazione scientifica, tecnologica e industriale.

In quarto luogo, abbiamo costruito nuove coalizioni per affrontare nuove sfide. Abbiamo riunito una serie di governi, organizzazioni internazionali, imprese e gruppi della società civile per produrre e distribuire centinaia di milioni di vaccini gratuiti COVID-19, porre fine alla fase acuta della pandemia, salvare vite umane e rafforzare la capacità del mondo di prevenire e rispondere a future emergenze sanitarie. Abbiamo lanciato una coalizione globale per affrontare il flagello delle droghe sintetiche illecite e uno sforzo a livello regionale per condividere la responsabilità delle storiche sfide migratorie nell’emisfero occidentale.

Nella costruzione di queste e altre coalizioni, l’amministrazione Biden ha sempre fatto delle democrazie dei Paesi vicini il suo primo punto di riferimento. È per questo che il presidente ha lanciato il Summit per la democrazia, che riunisce leader democratici e riformatori di ogni regione. Ma se l’obiettivo è risolvere i problemi del popolo americano, le democrazie non possono essere gli unici partner degli Stati Uniti. Le opportunità e i rischi in evoluzione dell’intelligenza artificiale, ad esempio, devono essere affrontati attraverso coalizioni multiple che includano anche le non democrazie, a patto che queste ultime vogliano fornire servizi ai propri cittadini e siano disposte a contribuire a risolvere le sfide comuni. È per questo che l’amministrazione Biden ha collaborato con il resto del G-7 per sviluppare quadri di governance per l’IA e ha poi guidato più di 120 Paesi – tra cui la Cina – nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite per elaborare e approvare la prima risoluzione delle Nazioni Unite sullo sfruttamento dell’IA a fini benefici. Ed è per questo che l’amministrazione ha elaborato un quadro per lo sviluppo e l’uso responsabile dell’IA militare che più di 50 Paesi hanno sottoscritto.

REAZIONE AL REVISIONISMO

Mentre la nostra strategia ha rafforzato le fondamenta della forza degli Stati Uniti in patria e all’estero, la nostra azione politica ha sfruttato questa forza per trasformare la crisi in opportunità. Nel primo anno dell’amministrazione Biden, abbiamo compiuto progressi significativi nell’approfondire l’allineamento con alleati e partner sul nostro approccio alla competizione strategica. Le conversazioni nelle capitali alleate hanno portato a un cambiamento palpabile. Ad esempio, durante i negoziati per la definizione di un nuovo concetto strategico per la NATO, ho visto che per la prima volta gli alleati si sono concentrati intensamente sulla sfida che la Cina rappresenta per la sicurezza e i valori transatlantici. Nei miei colloqui con i funzionari dei Paesi alleati dell’Asia orientale, li ho sentiti alle prese con il modo di rispondere al comportamento coercitivo di Pechino nel Mar Cinese Meridionale e nello Stretto di Taiwan.

La decisione di Putin di tentare di cancellare l’Ucraina dalla carta geografica, insieme alla decisione della Cina di fornire prima una copertura alla Russia e poi di alimentarne l’aggressione, ha accelerato la convergenza di vedute tra i Paesi asiatici ed europei sulla gravità della minaccia e sull’azione collettiva necessaria per affrontarla. Prima dell’invasione russa, abbiamo compiuto una serie di passi per prepararci: avvisare il mondo dell’imminente aggressione di Mosca, condividere le informazioni con gli alleati, inviare supporto militare per l’autodifesa dell’Ucraina e coordinarci con l’UE, il G-7 e altri per pianificare sanzioni economiche immediate e severe contro la Russia. Abbiamo imparato dure lezioni durante il necessario ma difficile ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan, lezioni su tutto, dalla pianificazione di emergenza al coordinamento degli alleati, e le abbiamo applicate.

Quando Putin ha lanciato la sua invasione su larga scala, la NATO ha rapidamente trasferito truppe, aerei e navi come parte della sua Forza di risposta, rafforzando il fianco orientale dell’alleanza. L’UE e i suoi Stati membri hanno inviato all’Ucraina aiuti militari, economici e umanitari. Gli Stati Uniti hanno creato il Gruppo di contatto per la difesa dell’Ucraina, che è cresciuto fino a contare più di 50 Paesi che collaborano con le forze armate ucraine per soddisfare le esigenze più urgenti. Un’ampia coalizione di Paesi ha imposto le sanzioni più ambiziose di sempre, congelando più della metà dei beni sovrani della Russia.

Essendo un attacco non solo all’Ucraina, ma anche ai principi di sovranità e integrità territoriale alla base della Carta delle Nazioni Unite, la guerra di Putin ha alimentato timori oltre i confini europei. Se a Putin fosse stato permesso di procedere impunemente, gli aspiranti aggressori di tutto il mondo avrebbero preso nota, aprendo un vaso di Pandora di conflitti. La decisione della Cina di aiutare la Russia ha sottolineato quanto i destini degli alleati degli Stati Uniti in Europa e in Asia fossero legati tra loro. Fino a quel momento, molti in Europa continuavano a vedere la Cina soprattutto come un partner economico, anche se erano sempre più cauti nel fare troppo affidamento su Pechino. Ma quando Pechino ha fatto la sua scelta, sempre più europei hanno visto la Cina come un rivale sistemico.

Più Putin ha continuato la sua guerra, più la Russia ha fatto affidamento sul sostegno dei suoi colleghi revisionisti per rimanere in lotta. La Corea del Nord ha consegnato treni di armi e munizioni, tra cui milioni di proiettili d’artiglieria, missili balistici e lanciatori, in diretta violazione di molteplici risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. L’Iran ha costruito una fabbrica di droni in Russia e ha inviato a Mosca centinaia di missili balistici. Le aziende cinesi hanno accelerato la fornitura di macchinari, microelettronica e altri articoli a duplice uso di cui la Russia ha bisogno per produrre armi, munizioni e altro materiale.

Più la Russia diventava dipendente dal loro sostegno, più i revisionisti si aspettavano e ottenevano in cambio. Putin ha accettato di condividere con la Corea del Nord l’avanzata tecnologia bellica russa, aggravando una minaccia già grave per il Giappone e la Corea del Sud. Con il leader nordcoreano Kim Jong Un ha fatto rivivere un patto dell’epoca della Guerra Fredda in cui si impegnava a fornire aiuti militari se uno dei due fosse entrato in guerra. La Russia ha aumentato il sostegno militare e tecnico all’Iran e ha accelerato i negoziati per un partenariato strategico con il Paese, anche se Teheran ha continuato ad armare, addestrare e finanziare proxy che hanno compiuto attacchi terroristici contro il personale e i partner statunitensi in Medio Oriente e contro la navigazione internazionale nel Mar Rosso. La cooperazione tra Russia e Cina si è estesa a quasi tutti i settori e i due Paesi hanno organizzato esercitazioni militari sempre più aggressive e ad ampio raggio, anche nel Mar Cinese Meridionale e nell’Artico.

Cina, Russia, Iran e Corea del Nord hanno storie complicate e interessi divergenti, e le loro partnership reciproche non si avvicinano all’architettura di alleanze di lunga data degli Stati Uniti. Al di sotto delle loro grandiose dichiarazioni di amicizia e sostegno, le relazioni di questi Paesi sono in gran parte transazionali e la loro cooperazione comporta compromessi e rischi che ciascuno potrebbe trovare più sgradevoli nel tempo. Questo è particolarmente vero per la Cina, la cui salute economica interna e la cui posizione all’estero sono minacciate dall’instabilità globale fomentata dai suoi partner revisionisti. Eppure tutti e quattro i revisionisti condividono un impegno costante verso l’obiettivo generale di sfidare gli Stati Uniti e il sistema internazionale. Questo continuerà a guidare la loro cooperazione, soprattutto quando gli Stati Uniti e altri Paesi si opporranno al loro revisionismo.

La risposta dell’amministrazione Biden a questo crescente allineamento è stata quella di accelerare la convergenza tra gli alleati sulla minaccia. Abbiamo reso la NATO più grande, più forte e più unita che mai, con l’alleanza che ha accolto Finlandia e Svezia nonostante la loro lunga storia di non allineamento. All’inizio dell’amministrazione, nove dei 30 membri della NATO rispettavano l’impegno di spendere il 2% del PIL per la difesa; quest’anno, almeno 23 dei 32 alleati rispetteranno questo obiettivo.

Abbiamo approfondito e modernizzato le alleanze statunitensi nell’Indo-Pacifico, rafforzando la posizione e le capacità delle forze armate statunitensi con la firma di nuovi accordi per il potenziamento delle basi dal Giappone alle Filippine al Pacifico meridionale. E abbiamo trovato nuovi modi per unire gli alleati. Nel 2023, il Presidente Biden ha tenuto a Camp David il primo vertice trilaterale con il Giappone e la Corea del Sud, dove i tre Paesi hanno concordato di aumentare la cooperazione per difendersi dagli attacchi di missili balistici e dai cyberattacchi della Corea del Nord. Quest’anno ha ospitato alla Casa Bianca il primo vertice trilaterale con il Giappone e le Filippine, in cui le tre parti si sono impegnate ad approfondire gli sforzi congiunti per difendere la libertà di navigazione nel Mar Cinese Meridionale.

LA GRANDE CONVERGENZA

Probabilmente, il cambiamento più significativo che abbiamo ottenuto non è avvenuto all’interno delle regioni, ma tra di esse. Quando ha lanciato la sua invasione, Putin pensava di poter sfruttare la dipendenza dell’Europa dal gas, dal petrolio e dal carbone russi per seminare divisioni e indebolire il sostegno all’Ucraina. Ma ha sottovalutato la determinazione dei Paesi europei e la volontà degli alleati asiatici di aiutarli.

Il Giappone ha stanziato più di 12 miliardi di dollari in assistenza all’Ucraina e a giugno è stato il primo Paese al di fuori dell’Europa a firmare un accordo di sicurezza bilaterale decennale con Kiev. L’Australia ha fornito oltre 1 miliardo di dollari in aiuti militari all’Ucraina e fa parte di una coalizione multinazionale che addestra il personale ucraino nel Regno Unito. La Corea del Sud ha dichiarato che prenderà in considerazione la possibilità di fornire armi all’Ucraina, oltre al considerevole sostegno economico e umanitario che sta già fornendo. I partner indo-pacifici degli Stati Uniti si stanno coordinando con l’Europa per imporre sanzioni alla Russia e limitare il prezzo del petrolio russo, riducendo la quantità di denaro che Putin può incanalare nella sua macchina da guerra.

Nel frattempo, il sostegno della Cina alla Russia – e l’uso innovativo della diplomazia dell’intelligence da parte dell’amministrazione per rivelare l’ampiezza di tale sostegno – ha ulteriormente concentrato gli alleati degli Stati Uniti in Europa sulla minaccia rappresentata da Pechino. La massiccia perturbazione economica causata dall’invasione di Putin ha reso reali le conseguenze catastrofiche che deriverebbero da una crisi nello Stretto di Taiwan, attraverso il quale transita ogni anno circa la metà delle navi container commerciali del mondo. Oltre il 90% dei semiconduttori più avanzati al mondo sono prodotti a Taiwan.

Quando l’amministrazione Biden è entrata in carica, i principali partner europei erano determinati a ottenere l’autonomia dagli Stati Uniti e ad approfondire i legami economici con la Cina. Dopo l’invasione, tuttavia, hanno riorientato gran parte della loro agenda economica sul “de-rischio” dalla Cina. Nel 2023, l’UE ha adottato la legge sulle materie prime critiche per ridurre la sua dipendenza dalla Cina per i fattori produttivi necessari alla fabbricazione di prodotti come veicoli elettrici e turbine eoliche. Nel 2024, l’UE ha avviato nuove iniziative per rafforzare ulteriormente la propria sicurezza economica, tra cui il miglioramento dello screening degli investimenti esteri e in uscita, della sicurezza della ricerca e dei controlli sulle esportazioni. Estonia, Lettonia e Lituania si sono ritirate dall’iniziativa cinese “17+1” per gli investimenti in Europa centrale e orientale. L’Italia ha abbandonato la Belt and Road Initiative cinese. Inoltre, un numero crescente di Paesi europei, tra cui Francia, Germania e Regno Unito, ha vietato alle aziende tecnologiche cinesi di fornire attrezzature per le loro infrastrutture critiche.

Come Segretario di Stato, non faccio politica, ma politica.

Anche gli amici in Europa e in Asia si sono uniti agli Stati Uniti nell’intraprendere un’azione coordinata per affrontare le pratiche commerciali sleali e la sovraccapacità produttiva della Cina. Quest’anno, l’amministrazione Biden ha imposto tariffe mirate sull’acciaio e sull’alluminio, sui semiconduttori e sui minerali essenziali – invece di tariffe generalizzate che aumentano i costi per le famiglie americane – e l’Unione Europea e il Canada hanno imposto tariffe sui veicoli elettrici cinesi. Abbiamo imparato una dura lezione dallo “shock cinese” del primo decennio di questo secolo, quando Pechino ha scatenato una marea di beni sovvenzionati che hanno affogato le industrie americane, distrutto i mezzi di sussistenza degli americani e devastato le comunità americane. Per assicurarci che la storia non si ripeta e per competere con le tattiche distorsive della Cina, stiamo investendo di più nella capacità produttiva degli Stati Uniti e dei suoi amici, e stiamo mettendo in atto maggiori tutele per questi investimenti.

Quando si tratta di tecnologie emergenti, gli Stati Uniti e i loro alleati in Europa e in Asia collaborano sempre di più per mantenere il loro vantaggio collettivo. Su nostra sollecitazione, il Giappone e i Paesi Bassi si sono uniti agli Stati Uniti nell’adottare misure per impedire alla Cina di accedere ai semiconduttori più avanzati e alle attrezzature utilizzate per produrli. Attraverso il Quantum Development Group, abbiamo riunito nove importanti alleati europei e asiatici per rafforzare la resilienza della catena di approvvigionamento e approfondire le partnership commerciali e di ricerca in una tecnologia con capacità superiori anche ai più potenti supercomputer.

Dal momento in cui la Russia ha lanciato la sua guerra, alcuni negli Stati Uniti hanno sostenuto che il sostegno americano all’Ucraina avrebbe distolto risorse dalla sfida della Cina. Le nostre azioni hanno dimostrato il contrario: opporsi alla Russia è stato fondamentale per realizzare una convergenza senza precedenti tra Asia ed Europa, che vedono sempre più la loro sicurezza come indivisibile. Questo cambiamento è la conseguenza non solo di decisioni fatali prese da Mosca e Pechino. È anche il prodotto di decisioni fatidiche prese dagli alleati e dai partner degli Stati Uniti, scelte che Washington ha incoraggiato ma non ha voluto, né potuto imporre.

La coalizione globale a sostegno dell’Ucraina è il più potente esempio di condivisione degli oneri che abbia mai visto nella mia carriera. Mentre gli Stati Uniti hanno fornito 94 miliardi di dollari a sostegno dell’Ucraina dall’invasione su larga scala di Putin, i partner europei, asiatici e di altri Paesi hanno contribuito con quasi 148 miliardi di dollari. Resta ancora molto da fare per potenziare le capacità degli alleati statunitensi in Europa e Asia attraverso una combinazione di maggiore coordinamento, investimenti e integrazione della base industriale. Il popolo americano si aspetta e la sicurezza degli Stati Uniti richiede che gli alleati e i partner si facciano carico di una parte maggiore dell’onere della propria difesa nel tempo. Ma gli Stati Uniti si trovano oggi in una posizione chiaramente più forte in entrambe le regioni più importanti grazie al ponte di alleati che abbiamo costruito. E lo stesso vale per gli amici dell’America.

REVISIONISMO ATTRAVERSO LE REGIONI

Gli effetti destabilizzanti della crescente assertività e dell’allineamento dei revisionisti vanno ben oltre l’Europa e l’Asia. In Africa, la Russia ha sguinzagliato i suoi agenti e mercenari per estrarre oro e minerali critici, diffondere disinformazione e aiutare chi cerca di rovesciare governi democraticamente eletti. Invece di sostenere gli sforzi diplomatici per porre fine alla guerra in Sudan – la peggiore crisi umanitaria del mondo – Mosca sta alimentando il conflitto armando entrambe le parti. L’Iran e i suoi proxy hanno approfittato del caos per rilanciare le rotte del traffico illecito di armi nella regione e per esacerbare i disordini. Pechino, nel frattempo, ha distolto lo sguardo dalla belligeranza di Mosca in Africa, favorendo nuove dipendenze e appesantendo altri Paesi con un debito insostenibile. In Sud America, Cina, Russia e Iran stanno fornendo sostegno militare, economico e diplomatico al governo autoritario di Nicolás Maduro in Venezuela, rafforzando la convinzione che il suo regime sia impermeabile alle pressioni.

L’allineamento revisionista si sta manifestando ancora più intensamente in Medio Oriente. Un tempo la Russia sosteneva gli sforzi del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per limitare le ambizioni nucleari dell’Iran; ora, invece, ne favorisce il programma nucleare e ne agevola le attività destabilizzanti. La Russia è anche passata dall’essere uno stretto partner di Israele a rafforzare i suoi legami con Hamas dopo l’attacco del 7 ottobre. L’amministrazione Biden, da parte sua, ha lavorato instancabilmente con i partner in Medio Oriente e oltre per porre fine al conflitto e alle sofferenze di Gaza, trovare una soluzione diplomatica che permetta a israeliani e libanesi di vivere in sicurezza su entrambi i lati del confine, gestire il rischio di una guerra regionale più ampia e lavorare per una maggiore integrazione e normalizzazione nella regione, anche tra Israele e Arabia Saudita.

Questi sforzi sono interdipendenti. Senza la fine della guerra a Gaza e senza un percorso credibile e limitato nel tempo verso la creazione di uno Stato che risponda alle legittime aspirazioni dei palestinesi e alle esigenze di sicurezza di Israele, la normalizzazione non può andare avanti. Ma se questi sforzi avranno successo, la normalizzazione unirà Israele a un’architettura di sicurezza regionale, sbloccherà opportunità economiche in tutta la regione e isolerà l’Iran e i suoi proxy. I barlumi di questa integrazione sono stati mostrati nella coalizione di Paesi, compresi gli Stati arabi, che hanno aiutato Israele a difendersi da un attacco diretto senza precedenti da parte dell’Iran in aprile. Le mie visite nella regione dal 7 ottobre scorso hanno confermato che esiste un percorso verso una maggiore pace e integrazione, se i leader sono disposti a prendere decisioni difficili.

Per quanto implacabili siano i nostri sforzi, le conseguenze umane della guerra a Gaza continuano a essere devastanti. Decine di migliaia di civili palestinesi sono stati uccisi in un conflitto che non hanno iniziato e che non possono fermare. Quasi tutta la popolazione di Gaza è stata sfollata e la maggior parte soffre di malnutrizione. A Gaza rimangono circa 100 ostaggi, già uccisi o ancora detenuti in condizioni brutali da Hamas. Tutte queste sofferenze rendono ancora più urgenti i nostri sforzi per porre fine al conflitto, evitare che si ripeta e gettare le basi per una pace e una sicurezza durature nella regione.

FARE UN’OFFERTA PIÙ FORTE

Per molti Paesi in via di sviluppo e dei mercati emergenti, la competizione tra grandi potenze in passato significava essere chiamati a scegliere da che parte stare in una gara che sembrava lontana dalle loro lotte quotidiane. Molti hanno espresso il timore che la rivalità odierna non sia diversa. E alcuni temono che l’attenzione degli Stati Uniti per il rinnovamento interno e la competizione strategica vada a scapito delle questioni più importanti per loro. Washington deve dimostrare che è vero il contrario.

Il lavoro dell’amministrazione Biden per finanziare le infrastrutture in tutto il mondo è un tentativo di fare proprio questo. Nessun Paese vuole progetti infrastrutturali costruiti male e distruttivi per l’ambiente, che importano o abusano di lavoratori, o che favoriscono la corruzione e appesantiscono il governo con un debito insostenibile. Eppure, troppo spesso, questa è stata l’unica opzione. Per offrire una scelta migliore, gli Stati Uniti e altri Paesi del G-7 hanno lanciato nel 2022 il Partenariato per le infrastrutture e gli investimenti globali. L’iniziativa finirà per sbloccare 600 miliardi di dollari di capitale privato per finanziare progetti di alta qualità e rispettosi dell’ambiente, nonché per potenziare le comunità in cui vengono costruiti. Gli Stati Uniti stanno già coordinando gli investimenti in ferrovie e porti per collegare i poli economici delle Filippine e dare impulso agli investimenti nel Paese. Inoltre, stanno effettuando una serie di investimenti infrastrutturali in una fascia di sviluppo che attraversa l’Africa – collegando il porto angolano di Lobito alla Repubblica Democratica del Congo e allo Zambia e, infine, collegando l’Oceano Atlantico e l’Oceano Indiano – che creerà opportunità per le comunità di tutta la regione, sostenendo al contempo la fornitura di minerali critici, fondamentali per guidare la transizione energetica pulita.

Gli Stati Uniti stanno collaborando con i loro partner per costruire e ampliare l’infrastruttura digitale, in modo che i Paesi non debbano rinunciare alla loro sicurezza e privacy per ottenere connessioni Internet ad alta velocità e a prezzi accessibili. In collaborazione con Australia, Giappone, Nuova Zelanda e Taiwan, Washington ha investito in cavi che estenderanno l’accesso digitale a 100.000 persone nelle isole del Pacifico. E ha promosso sforzi simili in altre zone dell’Asia, dell’Africa e del Sud America.

L’amministrazione ha anche cercato di rendere le istituzioni internazionali più inclusive. Per quanto imperfette possano essere le Nazioni Unite e gli altri organismi di questo tipo, non c’è modo di sostituirne la legittimità e le capacità. Partecipare e riformarli è uno dei modi migliori per sostenere l’ordine internazionale contro i tentativi di distruggerlo. Per questo motivo, sotto l’amministrazione Biden, gli Stati Uniti hanno aderito all’Organizzazione mondiale della sanità, al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite e all’UNESCO. È anche per questo che l’amministrazione ha proposto di ampliare il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aggiungendo due membri permanenti dall’Africa, un membro permanente dall’America Latina e dai Caraibi e un seggio eletto per i piccoli Paesi insulari in via di sviluppo. Questo si aggiunge ai seggi permanenti che da tempo proponiamo per Germania, India e Giappone. Ed è per questo che abbiamo fatto pressione affinché il G-20 aggiungesse l’Unione Africana come membro permanente, cosa che è avvenuta nel 2023. Nel 2021, abbiamo sostenuto lo stanziamento di 650 miliardi di dollari in diritti speciali di prelievo da parte del Fondo Monetario Internazionale per aiutare i Paesi poveri che stanno lottando contro il peso delle crisi globali della salute, del clima e del debito. Abbiamo anche spinto per riforme alla Banca Mondiale che consentiranno ai governi di rinviare i pagamenti del debito dopo disastri naturali e shock climatici e amplieranno i finanziamenti accessibili disponibili per i Paesi a medio reddito. Sotto il Presidente Biden, gli Stati Uniti hanno quadruplicato i finanziamenti per il clima ai Paesi in via di sviluppo per aiutarli a raggiungere i loro obiettivi climatici e hanno aiutato più di mezzo miliardo di persone a gestire gli effetti del cambiamento climatico.

Più volte l’amministrazione Biden ha dimostrato che gli Stati Uniti sono il Paese su cui gli altri possono contare per risolvere i loro problemi più gravi. Quando la guerra in Ucraina ha esacerbato la crisi globale della sicurezza alimentare, ad esempio, gli Stati Uniti hanno investito 17,5 miliardi di dollari per affrontare il problema dell’insicurezza alimentare e hanno mobilitato più di 100 Paesi affinché adottassero misure concrete per affrontare la sfida e le sue cause profonde. Tutto questo continuando a essere il maggior donatore, di gran lunga, di aiuti umanitari salvavita in tutto il mondo.

IL FRONTE INTERNO

Sebbene alcuni americani siano favorevoli a un maggiore unilateralismo e isolazionismo, i pilastri della strategia dell’amministrazione Biden godono in realtà di un ampio sostegno. La legge CHIPS e la legge sulla scienza e le varie fasi di finanziamento per l’Ucraina e Taiwan sono passate al Congresso con un sostegno bipartisan. Democratici e repubblicani in entrambe le camere sono impegnati a rafforzare le alleanze degli Stati Uniti. E, sondaggio dopo sondaggio, la maggior parte degli americani considera fondamentale una leadership statunitense disciplinata e di principio nel mondo.

Il consolidamento di questo allineamento è fondamentale per convincere alleati e rivali che, sebbene il partito al potere a Washington possa cambiare, i pilastri della politica estera statunitense non cambieranno. Questo darà agli alleati la fiducia che gli Stati Uniti possano rimanere al loro fianco, il che a sua volta li renderà alleati più affidabili per gli Stati Uniti. E permetterà a Washington di continuare ad affrontare i suoi rivali da una posizione di forza, poiché sapranno che la potenza americana è radicata non solo nei fermi impegni del governo statunitense, ma anche nelle incrollabili convinzioni del popolo americano.

Come Segretario di Stato, non mi occupo di politica, ma di politica. E la politica è fatta di scelte. Fin dal primo giorno, il Presidente Biden e il Vicepresidente Harris hanno fatto una scelta fondamentale: in un mondo più competitivo e infiammabile, gli Stati Uniti non possono andare avanti da soli. Se l’America vuole proteggere la sua sicurezza e creare opportunità per la sua gente, deve stare dalla parte di coloro che hanno a cuore un mondo libero, aperto, sicuro e prospero e opporsi a coloro che minacciano quel mondo. Le scelte che gli Stati Uniti faranno nella seconda metà di questo decennio decisivo determineranno se questo momento di prova rimarrà un momento di rinnovamento o tornerà a un periodo di regressione – se Washington e i suoi alleati potranno continuare a competere con le forze del revisionismo o lasciare che la loro visione definisca il XXI secolo.

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