A trenta chilometri da Macerata, di Roberto Buffagni

I nostri lettori, per lo meno alcuni di essi, si chiederanno il motivo dell’ostinazione con la quale la redazione di Italia e il Mondo si stia concentrando sui fatti di Macerata e dintorni a partire dall’assassinio atroce di Pamela Mastropietro. Un accanimento proprio di un giornale di inchiesta piuttosto che di un gruppo sparuto impegnato con scarsi mezzi e ancor meno tempo nell’analisi politica e geopolitica.

Tranquilli!

Non si tratta di un cedimento alla attenzione morbosa e ossessiva al gossip più macabro; nemmeno di uno snaturamento della natura e delle intenzioni che stanno sorreggendo l’impegno della redazione. Tutt’altro!

Alberga la sensazione sempre più netta che i fatti di Macerata, se messi a nudo nella loro integrità e nella loro profondità, possano contribuire a smascherare in maniera decisiva la grettezza, la pochezza, l’ignoranza, la complicità, l’accondiscendenza, la perversione della gran parte di una classe dirigente che ha preso in mano, per la precisione si è vista consegnare le redini del paese da trenta anni, a partire da Tangentopoli. Una classe dirigente in evidente crisi di credibilità, che sta perdendo il controllo di alcune leve, ma che detiene ancora saldamente, anche se in maniera sempre più disarticolata, il resto delle funzioni di controllo e di comando, il reticolo di strutture e apparati in grado di conformare una comunità e una nazione.

Quello che i fatti di Macerata rischia di evidenziare è:

  • il pressapochismo e l’ignoranza con la quale si è affrontato il problema dell’immigrazione consentendo la formazione di enclaves e comunità chiuse spesso in territori sui quali lo Stato, alcuni settori di essi, fatica a detenere anche storicamente il controllo e nei quali spesso e volentieri scende a patti, si fa permeare e convive con le forze più retrive e dissolutrici
  • il peso crescente e abnorme che il cosiddetto “terzo settore” ha assunto progressivamente nella formazione di risorse economiche, di una classe dirigente e di un ceto politico; un processo non a caso concomitante con la politica di dismissione e spoliazione della grande industria privata e soprattutto pubblica e di disarticolazione di alcuni apparati centrali dello stato. Tutti ambiti dai quali si formavano gli esponenti più lungimiranti e capaci di strategie politiche di una qualche consistenza apparsi sino agli anni ’80. Non si vuole certo sminuire l’importanza del settore e la buona fede e l’impegno di gran parte degli operatori. Va sottolineato piuttosto il peso abnorme rispetto al resto delle attività di una formazione sociale e l’inerzia che innesca la creazione di apparati burocratici di tali dimensioni specie negli ambiti assistenziali
  • la progressiva e supina remissività e subordinazione, senza alcun sussulto e capacità di trattativa, a strategie politiche esterne al paese e contrarie e ostili agli interessi della parte preponderante della nazione e del paese sino ad arrivare ai mercimoni più miserabili. Gli accordi europei passati, riguardanti i punti di approdo marittimo, sono certamente uno di questi

I fatti di Macerata, probabilmente, non sono nemmeno l’epicentro di fenomeni che stanno attraversando il paese. Sono, piuttosto, la punta di un iceberg che si estende in altre parti ben più importanti del territorio. Sono emersi lì, perché si tratta di un territorio ancora non del tutto compromesso e dove l’assassinio di una ragazza può emergere ancora come un fatto di cronaca rilevante capace di porre interrogativi esistenziali.

Le pressioni per mantenere sotto traccia o addirittura rimuovere l’episodio devono essere enormi e il comportamento oscillante degli organi inquirenti sono l’indizio probabilmente del loro peso.

Una situazione che altrimenti, sfuggita di mano, rischia di assestare un colpo definitivo alla credibilità residua di una classe dirigente, affetta com’è dalle tare del cosmopolitismo, del pensiero liberale debole, dell’umanitarismo compassionevole. Tutte categorie in crisi evidente, ormai incapaci di offrire adeguate chiavi di interpretazioni, tanto meno di politiche adeguate. L’ascesa di Trump ha offerto l’occasione per scatenare queste dinamiche. Categorie alle quali sembrano ancora abbarbicate i superstiti di questa classe dirigente e che rischiano di essere la causa ultima del loro declino e dell’erosione del loro potere_Buona lettura, Germinario Giuseppe

A trenta chilometri da Macerata

 

Nel marzo del 2018, a 29,7 chilometri da Macerata, a 11,3 chilometri dal Colle dell’Infinito leopardiano, sono stati ritrovati una cinquantina di resti umani[1] sotterrati nei pressi dell’ Hotel House, “grattacielo multietnico” di Porto Recanati.

Due giorni fa, esami di laboratorio eseguiti sulla polpa di un dente hanno accertato che tra i resti ci sono anche quelli di Camey Mossamet, quindicenne bengalese scomparsa nel 2010[2]. Camey abitava a Tavernelle, all’Hotel House aveva un fidanzatino. E’ nei pressi dell’Hotel House che è stata vista per l’ultima volta.[3]

Il 29 maggio 2010 l’incantevole ragazzina uscì di casa per andare a scuola, ad Ancona, e sparì nel nulla. Nel nulla finirono anche le indagini. L’avvocato Luca Sartini dell’ Associazione Penelope, che assiste i familiari di persone scomparse, all’epoca seguì le indagini[4]. L’Associazione voleva incaricare delle ricerche un investigatore, e chiese alla Procura di vedere il fascicolo delle indagini, per non sprecare tempo cercando dove la polizia già avesse fatto sopralluoghi. La Procura negò l’accesso al fascicolo perché Sartini non aveva indicato gli atti precisi da visionare. Cosa tutt’altro che facile: l’Avv. Sartini non è chiaroveggente, e non poteva sapere quali indagini avessero condotto gli inquirenti. Secondo l’Avv. Sartini, gli inquirenti s’erano formata la convinzione che all’interno della famiglia ci fosse omertà, e che insomma Camey, una ragazzina che voleva vivere all’occidentale e amava giocare a calcio, fosse stata riportata in Bangladesh contro la sua volontà: tant’è vero che si fecero indagini anche colà, naturalmente senza risultati. Per smentire questa ipotesi investigativa, Sartini accompagnò la madre e il fratello di Camey a un colloquio con il Procuratore. Non è servito, a quanto pare. Tuttora non si sa dove abbiano svolto ricerche gli inquirenti. Non si può che convenire con l’Avv. Sartini, quando dichiara che “non dovessero aver cercato lì, a pochi metri dall’Hotel House, dove è stata vista per l’ultima volta, sarebbe scandaloso.” Aggiunge Sartini che gli è capitato di seguire diversi casi, e “senza polemiche, ci sono indagini di serie A e di serie B.”[5]

Non c’è dubbio: senza polemiche, ci sono indagini di serie A e di serie B. Da che cosa sia dipesa l’iscrizione dell’indagine su Camey nel campionato minore, non è facile capire. Può essere la ragione più vecchia del mondo: socialmente, la famiglia di Camey conta zero, e per chi conta zero gli inquirenti, salvo eccezioni, tendono a impegnarsi meno. Oppure: se l’ipotesi degli inquirenti era “Camey riportata contro la sua volontà in Bangladesh a scopo matrimonio forzato”, l’argomento era delicato perché si presta a polemiche contro i mussulmani, l’integrazione degli immigrati, le magnifiche sorti della società multietnica e progressiva, etc. O anche: il “grattacielo multietnico” Hotel House, dove vivono e convivono, male, duemila e passa persone, quasi tutte immigrati di varie etnie e religioni, già nel 2010 era un focolaio di crimini[6] e malvivenza che le autorità non riuscivano a controllare e tanto meno a sanare. Ma sino a quel momento, si parlava di spaccio di droga, furti, prepotenze: reati odiosi, ma non atrocità terrificanti. Alla microcriminalità endemica le popolazioni possono, tristemente, abituarsi e rassegnarsi. Abituarsi e rassegnarsi all’orrore senza nome è meno facile, in tempo di pace (almeno nominale). Possibile che il timore di scoprirsi in precario equilibrio sull’orlo di un “pozzo degli orrori”, come anni dopo i giornalisti avrebbero chiamato la fossa comune con i resti di Camey e di altre vittime sinora ignote, abbia infuso negli inquirenti una semiconsapevole propensione a quieta non movere?

Non so. Non so neanche se il ritrovamento dei resti umani a due passi dell’Hotel House possa essere collegato all’assassinio e allo smembramento di Pamela Mastropietro, per il quale sulle prime qualcuno (tra i quali anch’ io) parlò di omicidio rituale.

Un letterato del IV secolo, Onorato, nei suoi Commentarii in Vergilii Aeneidos libros VIII scrive: “…in omnibus sacris feminei generis plus valent victimae”, in ogni tipo di rito le vittime migliori sono di genere femminile. Ma sono passati millesettecento anni, e da quei tempi bui tutto è cambiato. O no?

[1] https://www.cronachemaceratesi.it/2018/03/29/pozzo-dellorrore-trovati-oltre-50-reperti-il-sindaco-la-citta-e-sicura/1084978/

[2] https://www.cronachemaceratesi.it/2018/06/29/pozzo-dellorrore-le-ossa-sono-di-Cameyi/1121347/

[3] https://www.cronachemaceratesi.it/2018/03/29/unamica-di-Cameyi-non-so-se-siano-i-suoi-resti-ma-lascio-un-fiore/1084906/

[4] https://www.cronachemaceratesi.it/2018/04/01/il-legale-che-segui-il-caso-Cameyi-volevamo-cercarla-con-un-detective-ci-fu-negato-di-vedere-il-fascicolo/1085465/

[5] Ibidem

[6] https://www.cronachemaceratesi.it/2018/06/14/hotel-house-al-setaccio-in-sei-mesi-di-controlli-12-arresti-e-177-denunce/1114776/ ; https://www.cronachemaceratesi.it/2018/04/24/al-setaccio-hotel-house-e-river-perquisite-diverse-case-foto/1094802/ ; https://www.cronachemaceratesi.it/2018/04/24/blitz-in-21-appartamenti-due-denunce-per-spaccio-sette-persone-saranno-espulse/1094640/ ; https://www.cronachemaceratesi.it/2018/06/21/forze-dellordine-allhotel-house-necessario-un-presidio-permanente/1118049/ ; https://www.cronachemaceratesi.it/2018/03/31/hotel-house-sfuggito-di-mano-problema-piu-grande-delle-nostre-forze/1085595/ ; https://www.cronachemaceratesi.it/2018/04/18/hotel-house-lira-dellopposizione-cittadini-umiliati-il-sindaco-agisca/1092037/ eccetera, eccetera.

MATTEO SALVINI HA RAGIONE, di Augusto Sinagra

MATTEO SALVINI HA RAGIONE
Cercherò di fare una riflessione esclusivamente tecnico-giuridica di diritto internazionale di cui sono stato Professore Ordinario nell’Università.
1. Le navi che solcano i mari battono una Bandiera. La Bandiera non è una cosa meramente folkloristica o di colore. La Bandiera della nave rende riconoscibile lo Stato di riferimento della nave nei cui Registri navali essa è iscritta (nei registri è indicata anche la proprietà pubblica o privata).
2. La nave è giuridicamente una “comunità viaggiante” o, in altri termini, una “proiezione mobile” dello Stato di riferimento. In base al diritto internazionale la nave, fuori dalle acque territoriali di un altro Stato, è considerata “territorio” dello Stato della Bandiera.
Dunque, sulla nave in mare alto si applicano le leggi, tutte le leggi, anche quelle penali, dello Stato della Bandiera.
3. Il famoso Regolamento UE di Dublino prevede che dei cosiddetti “profughi” (in realtà, deportati) debba farsi carico lo Stato con il quale essi per prima vengono in contatto. A cominciare dalle eventuali richieste di asilo politico.
4. Non si vede allora quale sia la ragione per la quale una nave battente Bandiera, per esempio, tedesca, spagnola o francese, debba – d’intesa con gli scafisti – raccogliere i cosiddetti profughi appena fuori le acque territoriali libiche e poi scaricarli in Italia quando la competenza e l’obbligo è, come detto, dello Stato della Bandiera.
5. Da ultimo è emerso che due navi battenti Bandiera olandese e con il solito carico di merce umana, non si connettano giuridicamente al Regno di Olanda e né figurino su quei registri navali, come dichiarato dalle Autorità olandesi.
Allora, giuridicamente, si tratta di “navi pirata” le quali non sono solo quelle che battono la bandiera nera con il teschio e le tibie incrociate (come nei romanzi di Emilio Salgari).
6. Ne deriva il diritto/dovere di ogni Stato di impedirne la libera navigazione, il sequestro della nave e l’arresto del Comandante e dell’equipaggio.
Molti dei cosiddetti “profughi” cominciano a protestare pubblicamente denunciando di essere stati deportati in Italia contro la loro volontà. Si è in presenza, dunque, di una nuova e inedita tratta di schiavi, di un disgustoso e veramente vomitevole schiavismo consumato anche con la complicità della UE, che offende la coscienza umana e che va combattuto con ogni mezzo.

Augusto Sinagra

PER LE ANIME BELLE

A proposito di quel che ho scritto il 18 giugno con il titolo “Matteo Salvini ha ragione”, dopo aver dato sfogo a numerosi commenti e dopo aver dato tempo di riflettere sulla questione del regime giuridico delle navi in navigazione in alto mare, diverse anime belle mi hanno mosso alcune osservazioni.
1. La prima è che io avrei avuto l’intenzione di fare da supporter al Ministro @matteosalvini e così confondendo la appartenenza partitica con l’onestà intellettuale e la difesa dei legittimi interessi nazionali.
Rispondo: politicamente non “appartengo” alla Lega, diverse sono le mie convinzioni politiche, ma se un Governo, un Ministro, svolge positivamente le sue funzioni e difende gli interessi nazionali (e Salvini lo sta facendo), si ha il dovere morale, prima ancora che politico, di riconoscerlo.
2. Alcuni (in realtà pochi) sono intervenuti in argomento svolgendo qualche critica, pur non sapendo nulla di diritto internazionale. Ad essi non rispondo per ovvie ragioni.
3. Altri (ancor più pochi) hanno elevato al cielo alti lai in nome della sacralità della vita (ciò che è fuori discussione) e di un “buonismo” tanto peloso quanto contrastante con le loro corrispondenti scelte di vita e i conseguenti doveri civili, e pur ad essi non merita rispondere.
4. Altri (ancora di meno) e solo perché in possesso di patente nautica per la conduzione di piccole barche a vela, hanno evocato il giuridico obbligo del soccorso in mare, sempre e comunque e in qualsiasi luogo e momento, di chi è in pericolo.
È evidente che tale assunto è tanto vero quanto inconsistente nella verifica dei presupposti che giustificherebbero l’obbligo in questione.
Premesso che non è il caso di evocare il Regolamento “Dublino” o la Convenzione di Montego Bay sulla navigazione marittima o altre Convenzioni internazionali in materia, basta una semplice osservazione: come ho detto, è fuori discussione l’obbligo dell’intervento – dovunque e comunque – in soccorso di chi è in pericolo, ma il punto è proprio questo: si deve dare la prova della situazione di pericolo e anche indipendentemente da chi l’abbia provocata (è il caso, da ultimo, della “Lifeline”, nave da diporto che ha fatto salire a bordo 230 “profughi”!!!). Non sembra che si siano verificate situazioni di pericolo che avessero giustificato l’obbligo del soccorso. Basta vedere, per esempio, le immagini contrastanti a bordo della “Aquarius”. Basta considerare, a proposito di questa nave, che il Comandante, avvicinato da unità militari italiane, rifiutò viveri, medicine e medici e rifiutò il trasbordo di donne e minori. Se vi è una situazione di emergenza, non si tengono spenti i trasponder! Non ci si collega a mezzo radiotelefono con i delinquenti scafisti per concordare luogo e orario di consegna della “merce” umana! Se vi fossero ragioni di emergenza, i porti più vicini e più “sicuri” sarebbero gli stessi porti libici, quelli tunisini, quelli maltesi e quelli egiziani. Potrei continuare a lungo ma se non si da prova di situazioni di pericolo che impongono il soccorso, ogni altra critica è oggettivamente rivolta a favorire la commissione di reati, e chi lo fa è complice nei i delitti commessi dagli scafisti, dai trasportatori di “schiavi” (le navi delle ONG), dai gestori dei centri di accoglienza (gestiti anche dalla Chiesa cattolica) che lucrano in modo infame sul business dei cosiddetti “migranti”. A questa schiera di delinquenti vanno aggiunti i delinquenti francesi che favoriscono e sollecitano il passaggio verso il nord della Libia ai confini meridionali di questa di moltitudini di genti africane.
Per quanto riguarda la falsa esposizione sulla nave della bandiera di uno Stato di non riferimento (è il caso dell’Olanda), ribadisco che si tratta di navi “pirata” che vanno sequestrate anche con la forza, e il relativo Comandante ed equipaggio vanno arrestati.
Perchè @matteosalvini ha ragione? Perché ha messo l’Unione europea con le spalle al muro, perché ha fatto abbassare la cresta a Macron, alla Merkel e a Sanchez e soci, perché ha messo allo scoperto la criminosità di questo nuovo commercio di schiavi, perché ha posto un freno a questa invasione di nuovi schiavi, perché ha posto l’Italia al centro delle “preoccupazioni” dell’Unione europea dicendo ben chiaramente che non s’intende subire ulteriori prepotenze, perché ha difeso i legittimi interessi nazionali anche attraverso opportuni accordi e disponibilità di mezzi navali al Governo di Tripoli. Perché, infine, la sua politica è proprio rivolta a ridurre il numero dei morti in Mediterraneo.
Mi pare, allora, di poter dire ancora che Matteo Salvini ha ragione.

Augusto Sinagra

tratti da facebook

https://www.facebook.com/search/top/?q=augusto%20sinagra

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Fatti di Macerata: tre domande senza risposta, di Roberto Buffagni

Fatti di Macerata: tre domande senza risposta

 

In base alle informazioni di cui dispongo, tutte ricavate dai media e dunque molto parziali, propongo all’attenzione dei lettori tre domande sull’omicidio di Pamela Mastropietro che sembrano restare senza risposta nelle risultanze delle indagini, che si sono chiuse il 15 giugno rinviando a giudizio il solo Innocent Oseghale.

1) Cadavere di Pamela Mastropietro: chi lo ha smembrato ne ha anche asportato degli organi, o no? Se sì, quali?

Sul cadavere della vittima sono state eseguite due autopsie: la prima dal dr. Antonio Tombolini, la seconda dal prof. Mariano Cingolani. Qui[1], qui[2] e qui[3] si dice che “il referto autoptico di Pamela, depositato in Procura dal medico legale Antonio Tombolini, parla di ‘depezzamento, scarnificazione, sezionamento di parti di derma, muscolatura e seni’ e denuncia la irreperibilità di alcuni organi come il cuore e parte del pube, oltre alla scomparsa della porzione di collegamento tra testa e torace, cioè del collo della ragazza.”

Qui[4] invece una fonte autorevolissima, il procuratore di Macerata dr. Giovanni Giorgio, nega recisamente che siano stati asportati organi dal cadavere, ma lo fa in una forma quanto mai ambigua: “E’ destituita di ogni fondamento la notizia relativa all’assenza di significative parti del corpo di Pamela Mastropietro, che sono state nella stragrande maggioranza recuperate e ricomposte in occasione degli accertamenti medico-legali eseguiti dal prof. Mariano Cingolani“. Si aggiunge immediatamente dopo, in una formulazione anch’essa insieme molto recisa e molto ambigua, che “Al momentosecondo il dr. Giorgio sono ‘da escludere assolutamente’  l’ipotesi di ‘antropofagia’ e di ‘riti voodoo connessi al decesso’ “ [sottolineature mie].

Che vuol dire “significative parti del corpo”? Che vuol dire “nella stragrande maggioranza recuperate e ricomposte”? Quali sono  le parti mancanti, non “significative” e non “recuperate e ricomposte”? Come si può “escludere assolutamente” ma “al momento”? Un’esclusione assoluta non è, per definizione, condizionata.

Il punto è della massima importanza per l’intellezione della dinamica dell’omicidio, perché l’asportazione di organi dal cadavere può appunto alludere alla pista dell’omicidio rituale.[5]

2) Innocent Oseghale ha smembrato da solo il cadavere della sua vittima?

Qui[6] il prof. Cingolani afferma che “Io, con gli strumenti giusti e un tavolo operatorio ci avrei messo almeno 10 ore per sezionare un corpo in quel modo, non posso credere che sia stato fatto in una vasca da bagno”. Non ho trovato smentite di questa valutazione, da parte del prof. Cingolani o di altra persona competente e autorevole. Oseghale non disponeva né di strumenti giusti, né di tavolo operatorio, né di completa formazione accademica e lunga esperienza medico-legale. Come è possibile che abbia operato da solo lo smembramento del cadavere?

3) Perché Oseghale ha messo in valigia il cadavere smembrato per poi abbandonarlo sul ciglio di un viottolo di campagna?

Non cito fonti giornalistiche perché il fatto non è controverso. Abbandonare le valigie in un luogo pubblico, benché appartato, rappresenta un grave rischio per Oseghale, che infatti proprio così viene subito scoperto. Perché lo fa? Poteva sminuzzare i resti, disperderli nelle fogne, eventualmente anche mangiarli, come suggeriscono i suoi presunti complici, oggi scagionati, Lucky Awelima e Desmond Lucky in questa intercettazione in carcere[7]. Poteva anche dissolverli nell’acido cloridrico, disseminarli in campagna o in mare, seppellirli, etc. Pare logico che a) Oseghale abbia depositato le valigie d’accordo con un complice incaricato di ritirarle b) Oseghale abbia corso il grave rischio di depositare le valigie in vista di un scopo, di lucro (vendita dei resti, utilizzabili in pratiche rituali[8]) e/o di autotutela (il complice incaricato di raccogliere le valigie gli garantiva un più sicuro occultamento dei resti).

Gli inquirenti dispongono di informazioni a me ovviamente precluse, e sono i soli incaricati per ufficio di fare chiarezza sui terribili fatti di Macerata. Com’è doveroso, ho il massimo rispetto per loro e il difficile compito che sono chiamati ad assolvere. L’atroce omicidio di Pamela Mastropietro ha però scosso e turbato gli animi  di tutti gli italiani, e sarebbe opportuno che per quanto possibile, pur tutelando la necessaria riservatezza, gli inquirenti illustrassero anche all’opinione pubblica le motivazioni che li hanno condotti a  prosciogliere Lucky Awelima e Desmond Lucky, e a incriminare il solo Innocent Oseghale.

 

[1] https://www.blitzquotidiano.it/cronaca-italia/pamela-mastropietro-medici-legali-autopsia-peggiore-vita-2827321/

[2] https://www.newnotizie.it/2018/02/08/la-peggior-autopsia-mai-vista-parlano-medici-visto-corpo-pamela-pezzi/

[3] http://m.dagospia.com/il-medico-legale-pamela-e-stata-mutilata-con-orrore-molti-organi-non-si-trovano-piu-166498

[4] http://www.ansa.it/marche/notizie/2018/02/15/pamela-pm-escluse-antropofagia-o-mafie_60d6a1fd-58aa-4d52-8c9b-7b59ef61e0a6.html

[5] V. J. Omosade Awolalu, Yoruba Sacrificial Practice, “Journal of Religion in Africa” Vol. 5, Fasc. 2 (1973), pp. 81-93 http://www.jstor.org/stable/1594756 ; Karin Barber, How man makes God in West Africa: Yoruba attitudes towards the Orisa, International African Institute 1981 https://www.cambridge.org/core/journals/africa/article/how-man-makes-god-in-west-africa-yoruba-attitudes-towards-the-orisa/AB2C604A49D9A4D1712082F22E2C52BA ; ma soprattutto Patrick Egdobor Igbinova, Ritual Murders in Nigeria, 1 april 1988, in “Internation Journal of Offender Therapy and Comparative Criminology” http://journals.sagepub.com/doi/abs/10.1177/0306624X8803200105 e Jenkeri Zakari Okwori, A dramatized society: representing rituals of human sacrifice as efficacious action in Nigerian home-video movies, in “Journal of African Cultural Studies” Volume 16, 2003 – Issue 1 http://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/1369681032000169230 . Ne parlo nel mio precedente articolo http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/

[6] https://it.blastingnews.com/cronaca/2018/02/tutti-i-particolari-sul-depezzamento-di-pamela-mastropietro-002358745.html

[7] https://www.giornalettismo.com/archives/2660597/pamela-mastropietro-intercettazione-carcere

“Desmond: «L’ha tagliata… l’ha tagliata, l’ha tagliata», «Gli ha tolto l’intestino… è molto coraggioso (inteso Innocent Oseghale)».

Awelima: «Quell’intestino forse l’ha buttato nel bagno».

D.: «L’intestino è lungo. Come puoi buttarlo dentro al bagno?!».

A.: «L’intestino poteva tagliarlo a pezzi».

D.: «Tagliarlo in pezzettini?».

A.: «Sì. Pezzi, pezzi. Così buttava a pezzetti. Così sarebbe stato più facile… Forse lui (inteso Innocent) ha già ucciso una persona così».

D.: «Gli ha tolto tutto il cuore».

A.: «Poteva mangiarlo. Perché non l’ha mangiato?».

D.: «Poteva metterlo in frigo».

A.: «Lo metteva in frigo e cominciava a mangiare i pezzi».

D.: «Così sarebbe stato meglio per lui mangiare il corpo».

[8] v. Jenkeri Zakari Okwori, A dramatized society: representing rituals of human sacrifice as efficacious action in Nigerian home-video movies, in “Journal of African Cultural Studies” Volume 16, 2003 – Issue 1 http://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/1369681032000169230 , ma anche questo recentissimo articolo di giornale nigeriano, un caso di cronaca che si riferisce a una pratica colà molto diffusa: https://guardian.ng/news/i-killed-my-friend-took-his-heart-for-money-making-ritual-man-confesses/

Fatti di Macerata, chiuse le indagini. Chiuse davvero?, di Roberto Buffagni

Fatti di Macerata, chiuse le indagini. Chiuse davvero?

 

Ieri la Procura di Macerata ha chiuso le indagini sull’omicidio di Pamela Mastropietro. Unico indagato, Innocent Oseghale, che dovrà rispondere di omicidio volontario, vilipendio, distruzione e occultamento di cadavere, con l’aggravante di aver ucciso Pamela durante uno stupro dopo averla drogata. Sulla violenza sessuale, c’è discordia con il GIP e il tribunale del Riesame, che ritengono non sufficientemente provata la custodia cautelare per violenza sessuale. L’uomo potrebbe aver ucciso, infatti, perché colto dal panico quando vide Pamela collassare dopo l’iniezione di eroina. Per la Procura, invece, il movente scatenante fu la violenza. Oseghale avrebbe comunque violentato, ucciso e smembrato il cadavere da solo: scagionati da tutte le accuse connesse all’omicidio Lucky Awelima e Desmond Lucky, che restano in carcere per la sola accusa di spaccio. [1]

Giudicando con le informazioni di cui dispongo (i media e basta) le conclusioni delle indagini sembrano gravemente incoerenti con gli elementi disponibili. Ho illustrato un paio di settimane fa perché queste tesi accusatorie non mi persuadono: http://italiaeilmondo.com/2018/05/05/macerata-come-procedono-le-indagini_di-roberto-buffagni/ . Non vedo perché dovrei cambiare idea, a meno che scagionare Lucky Awelima e Desmond Lucky non serva ad avviare una indagine sulla mafia nigeriana, sorvegliandoli con discrezione: se è così, naturalmente mi scuso sin d’ora con gli inquirenti.

Ma se non è così, e temo proprio che non sia così, questo mi pare un esito determinato da un classico condizionamento ambientale. Nessuno dei moventi dell’omicidio, per come risulterebbero ipotizzati dall’accusa, avrebbe il minimo rapporto con la razza e la diversa cultura del colpevole, nessuna delle modalità dell’omicidio alluderebbe a complicità, precedenti o posteriori all’omicidio, della mafia nigeriana. Il modus operandi del colpevole designato, Innocent Oseghale, sempre alla luce del tenore della contestazione formulata dagli indaganti, ci presenterebbe semplicisticamente il ritratto di un balordo dai nervi fragili, un criminale dilettante che si fa prendere dal panico. La vittima ci viene presentata come un prodotto della società, della droga, del crollo dei valori e del disorientamento della gioventù in questo mondo così difficile e sordo alle esigenze, eccetera. L’unica divergenza tra le ipotesi sulla dinamica dell’omicidio riguarda proprio la vittima, e non il suo assassino: per il Procuratore Pamela è stata violentata da Oseghale, per il GIP no. Questo aspetto della vicenda – se il rapporto sessuale tra Pamela e il suo omicida sia stato consenziente o meno – è certo rilevante sul piano giudiziario e importante per i parenti di Pamela, ma non ci aiuta a capire come sono andate davvero le cose: chi l’ha uccisa e perché, chi e perché l’ha smembrata per poi depositarne il corpo fatto a pezzi sul ciglio di un viottolo di campagna.

L’impressione che ne ricavo è che gli inquirenti abbiano seguito un codice informale teso a chiudere il caso il più presto possibile e nel modo più indolore. Ovvio il dubbio e il sospetto che ne consegue: c’è sotto qualcosa di molto grosso e pericoloso, che può coinvolgere persone, enti e istituzioni che vanno comunque tutelati.

Mi sbaglio? Spero di sì, temo di no. E se il Ministero degli Interni inviasse un’ispezione della Criminalpol per dissipare i timori e i sospetti che certo non sono l’unico a nutrire? Timori e sospetti ben insinuati tra i profani, ma anche tra gli addetti ai lavori.

[1]http://www.oggi.it/attualita/notizie/2018/06/14/pamela-mastropietro-chiuse-le-indagini-per-la-procura-e-innocent-oseghale-lunico-assassino-e-stupratore/

Macerata, come procedono le indagini_di Roberto Buffagni

Macerata, come procedono le indagini

 

Premessa: non sono Sherlock Holmes, e le uniche informazioni che ho sono ricavate dalla stampa. A seguire trovate un resoconto dei fatti, qualche dubbio sulle interpretazioni proposte dagli inquirenti, e un’ipotesi diversa, non suffragata da alcuna prova: nulla più.

Novità sul caso Pamela Mastropietro: a Innocent Oseghale è stata notificata l’accusa di omicidio volontario. Intercettato in carcere, Lucky Awelima dice a Desmond Lucky; “Il 30 gennaio Innocent [Oseghale, principale sospetto dell’omicidio] mi telefonò chiedendomi se volevo andare a stuprare una ragazza che dormiva.”

Secondo gli inquirenti, le cose si sarebbero svolte così: Pamela va nell’appartamento di Oseghale, si inietta l’eroina, ha un rapporto sessuale con lo spacciatore nigeriano. Per il procuratore Giorgio è senz’altro stupro perché Pamela, drogata, non era in grado di consentire; per il GIP Giovanni Maria Manzoni, invece, può esserci stato consenso “in un’atmosfera amicale” (presumo lo desuma dal fatto che Pamela si prostituiva, e che non è insolito per una tossicodipendente prostituirsi agli spacciatori). Pamela si sente male e Oseghale, “forse nel timore di essere scoperto”, la uccide con un colpo alla testa e due coltellate al fegato.[1] Poi smembra il cadavere per liberarsene, lo mette in valigia, chiama il tassista abusivo camerunese Mouthong Tchomchoue, soprannominato “Patrick”, carica in macchina le valigie, gli chiede di portarlo a Tolentino. Qualche chilometro fuori Macerata fa fermare l’auto, scarica le valigie sul ciglio di un viottolo di campagna e si fa riportare a casa. Insospettito, a sera Patrick torna dove ha lasciato le valigie, ne apre una, si fa luce con il cellulare, vede una mano e scappa. Quando vede in Tv la notizia dell’omicidio torna, trova la polizia al lavoro, va in commissariato, denuncia l’accaduto e riferisce che nel corso del viaggio di andata, Oseghale ha fatto una telefonata in inglese, durante il viaggio di ritorno ha parlato al telefono con una donna.[2]

Prime impressioni sulla ricostruzione dei fatti degli inquirenti, per come la presenta la stampa.

1) I due nigeriani intercettati non sono ingenui cittadini modello, non è improbabile che immaginassero di essere sotto sorveglianza e che cerchino di scaricare la colpa sul solo Oseghale. In ogni caso, la tesi “Oseghale unico colpevole” fa comodo anche a chi ha interesse a minimizzare il più possibile l’accaduto, un vasto fronte che comprende chiunque abbia interesse ad alzare una muraglia impenetrabile tra l’omicidio di Pamela e  le problematiche connesse all’immigrazione. Cui prodest? Piccolo esempio: a Macerata, nel 2013 la Lega prende lo 0,6; nel 2018, dopo l’omicidio di Pamela, il 20% abbondante.[3]

2) Non si vede perché Oseghale uccida Pamela “per paura di essere scoperto” quando la ragazza si sente male. Per lo spaccio di droga? Ma è la sua attività abituale, e perché mai Pamela dovrebbe denunciarlo? Si droga abitualmente, non risulta che abbia mai denunciato uno spacciatore. E con quali prove lo denuncerebbe? Anche nel peggiore dei casi, Oseghale rischia ben poco, con una denuncia per spaccio, mentre con un omicidio rischia grosso. Per lo stupro? Ma Pamela si prostituisce abitualmente, oggi persino il GIP contesta lo stupro. Se Pamela si sente male, basta aspettare che faccia buio, accompagnarla fuori sorreggendola, lasciarla su una panchina e chi s’è visto s’è visto. Se muore in casa, si fa la stessa cosa, magari nascondendola in un tappeto arrotolato, caricandola in auto e gettando il cadavere in qualche posto fuori mano. Altrimenti, Oseghale poteva adottare la soluzione consigliata da Lucky Awelima e Desmond Lucky, v. punto 3 a.

3) Invece Oseghale corre tre grossi rischi: il rischio di un omicidio, il rischio di coinvolgere un estraneo come Patrick per trasportare le valigie con il cadavere smembrato, il rischio di abbandonarle lungo la via. Perché? Vediamo due ipotesi.

  1. a) Oseghale è un criminale dilettante che si lascia prendere dal panico e fa un errore dopo l’altro. Mah. A giudicare dalle sue frequentazioni non sembra. Nell’ordinanza di custodia cautelare per Lucky Awelima e Desmond Lucky, il GIP G.M. Manzoni riporta altre intercettazioni nel carcere di Montacuto, dove Desmond dice: “Sono stato un rogged [appartenente ad un’organizzazione criminale nigeriana], le cose che sono successe [l’omicidio di Pamela] sono cose da bambini… abbiamo già fatto cose terribili.” I due poi aggiungono che Oseghale poteva benissimo far sparire il cadavere tagliandolo a pezzettini e gettandoli un po’ per volta nel water. Il resto poteva congelarlo e mangiarselo con calma.[4] Fanno gli spacconi? Mah: tradotta questa conversazione, l’interprete nigeriana si rende irreperibile.[5]
  2. b) Pamela è uscita dalla comunità senza un soldo. Incontra lungo la strada un camionista che le dà un passaggio, e con lui contratta un rapporto sessuale a pagamento, qualche diecina di euro. Alla stazione di Macerata prende un taxi (sette euro) che la porta ai giardini Diaz, dove si spaccia. Chiede eroina a Oseghale che ha solo hashish e la accompagna da un collega che le vende una dose di eroina (trenta euro). Insieme comprano una siringa in farmacia.[6] Pamela è al verde e non ha dove andare. Oseghale la invita a casa sua, “Vieni da me, ti fai con calma, magari stiamo insieme, se vuoi ti fermi un po’”. Pamela va, si inietta l’eroina, Oseghale la prende (stuprandola o no), Pamela, che non è abituata all’eroina, si sente male mentre fanno sesso e respinge Oseghale che si irrita e le dà una botta in testa; oppure è Pamela che sbatte la testa divincolandosi. A questo punto Oseghale fa un rapido conto costi/benefici. Pamela non gli serve né per il sesso, né come cliente perché non ha soldi. Se reagisce così male all’eroina, difficile anche agganciarla e farla battere per lui in cambio del rifornimento di droga. In più ingombra, ha problemi, dà fastidio. Togliersela dei piedi abbandonandola da qualche parte? Corre il rischio di qualche fastidio, e non ci guadagna niente. Come metterla a reddito? Pamela è un gatto randagio, nessuno la cerca e nessuno la conosce. Tanto vale ammazzarla, farla a pezzi e venderli a qualcuno che apprezza l’articolo, per esempio l’organizzazione criminale a cui – forse – si può ricondurre la fossa comune di Porto Recanati, v. punto 4. Però qualcosa non va nel verso giusto. Per qualche imprevisto, l’incaricato non ritira in tempo le valigie, e Patrick, più coraggioso dell’interprete che tradotte le intercettazioni si resa irreperibile, o forse ignaro di quanto sia pericolosa la mafia nigeriana, non si fa i fatti suoi come invece Oseghale dava, apparentemente, per scontato.

4) A Porto Recanati (32 km da Macerata) è stata scoperta una fossa comune con 50 reperti umani circa, a due passi dall’Hotel House, “condominio multietnico”, un palazzone modello Le Corbusier dove abitano circa 2000 stranieri. Tra i resti, forse quelli di Cameyi Mossamet, una quindicenne bengalese scomparsa ad Ancona nel 2010,[7] e quelli di un bambino di 8-10 anni, non identificato. Colgo l’occasione per segnalare un articolo de “L’Internazionale” che tenta eroicamente di sdrammatizzare la fossa comune: “non è poi così vicina all’Hotel House”, “hanno trovato solo due corpi”; il problema immigrati: “anche gli italiani non pagano le spese condominiali” e di prospettare un futuro multietnico radioso: “Zakiri, un ragazzo bangladese che vive all’Hotel House e coordina la squadra di cricket dei bangladesi di Porto Recanati…ha ottenuto la cittadinanza italiana, lavora in una fabbrica della zona con un contratto regolare e parla un ottimo italiano. Lui e sua moglie aspettano un figlio, che nascerà all’Hotel house”. Medaglia d’oro per l’ottimismo al colonnello in pensione (ultimo dei Mohicani italiani che non hanno venduto a tempo il loro appartamento) Antonio La Rosa, intervistato dalla giornalista: “l’Hotel house parla del nostro passato, di quando gli immigrati erano i meridionali che andavano a lavorare al nord ed erano trattati con disprezzo dai torinesi. L’Hotel house parla anche del futuro, della società multietnica che ci aspetta. Questo edificio potrebbe essere una grande occasione per sperimentare delle forme di convivenza” (non si specifica quali).[8]

Conclusione. Come sia andata, non lo so. La ricostruzione degli inquirenti, per come la presenta la stampa, non mi pare molto verisimile, perché non spiega né la ragione dell’omicidio, né la ragione dello smembramento, né la ragione dell’abbandono lungo la via delle valigie contenenti il cadavere; non spiega neanche perché Oseghale non abbia avuto timore di coinvolgere Patrick nel trasporto delle valigie: semplice imprudenza, pura stupidità? O dava per scontato che Patrick, avendo a che fare con un rogged, come l’interprete nigeriana si sarebbe preso un salutare spavento e avrebbe tenuto la bocca chiusa?

Si intuisce negli inquirenti una gran voglia, d’altronde comprensibile, di minimizzare i fatti, addossando tutta la colpa al solo Oseghale, e tenendo a distanza di sicurezza cioè fuori dal quadro dell’indagine mafie nigeriane, rivendita a scopo di lucro di parti di cadavere, omicidi rituali, fosse comuni, etc., cioè a dire tutti gli elementi che possono differenziare l’assassinio di Pamela Mastropietro da un comune, rassicurante fatto di cronaca nera senza legame alcuno con l’immigrazione. Teniamo gli occhi aperti, e chissà: magari vedremo.

[1] https://roma.corriere.it/notizie/cronaca/18_maggio_03/pamela-mastropietro-oseghale-carcere-anche-accusa-omicidio-7ce90c60-4ed6-11e8-aead-38ee720fad91.shtml

[2] http://www.liberoquotidiano.it/news/italia/13311589/pamela-mastropietro-parla-tassista-oseghale-da-trolley-spuntava-mano.html

[3] https://www.ilmessaggero.it/primopiano/politica/a_macerata_la_lega_fa_boom-3587546.html

[4] https://www.corriereadriatico.it/macerata/macerata_pamela_mastropietro_cannibalismo_intercettazioni-3689855.html

[5] https://www.la-notizia.net/2018/04/27/pamela-zio-interprete-nigeriana/

[6] https://www.corriereadriatico.it/macerata/macerata_pamela_sesso_droga_dopo_fuga_comunita-3529726.html

[7] http://www.ilgiornale.it/news/cronache/lorribile-cumulo-ossa-umane-due-passi-allhotel-dei-migranti-1510332.html

[8] https://www.internazionale.it/reportage/annalisa-camilli/2018/05/03/hotel-house-porto-recanati-immigrazione

LA LUNGA MARCIA, di Giuseppe Germinario

Una carovana di oltre mille persone da oltre una settimana si è incamminata da alcuni paesi del Centroamerica con meta finale il confine degli Stati Uniti. L’iniziativa non pare improvvisata ed estemporanea. Lungo il percorso è organizzato un efficiente servizio di assistenza con punti di ricovero, di ristoro e in parte mezzi di trasporto. I paesi di transito non hanno frapposto alcun ostacolo al passaggio, almeno sino a quando il Presidente Trump ha minacciato di schierare la Guardia Nazionale al confine e di disdire gli accordi commerciali e di sostegno finanziario ai paesi coinvolti. La speranza degli organizzatori era di raccogliere lungo il percorso nuovi immigrati ed ingrossare così esponenzialmente il fiume umano. E’ facile sospettare che qualcosa di analogo si veifichi nella gestione dei flussi verso l’Italia e l’Europa. Ci si aspetterebbe dalla “libera stampa” un qualche interesse a indagare in proposito. Il modello ispiratore deve essere stato quello della Lunga Marcia di Mao Tse Tung. Il grande Timoniere si starà rigirando nervosamente nella tomba. Allora l’obbiettivo era di liberare la Cina dagli occupanti giapponesi e dalle satrapie locali. Oggi il motivo è assai diverso. Dietro gli impulsi umanitari si nascondono veri e propri piani di destabilizzazione. L’immigrazione è ormai diventata un’arma geopolitica e di politica interna. Uno dei protagonisti, Soros, lo aveva ampiamente preannunciato, anche recentemente. Non si può dire nemmeno che si tratti di un conflitto netto tra paesi sottosviluppati e paesi dominanti. In Africa da tempo la chiesa cattolica, specie i parroci, cerca di porre un argine al fenomeno, giudicato negativamente perché priva quei paesi delle energie migliori. Il silenzio se non l’accondiscendenza invece delle alte gerarchie cattoliche in proposito, è altrettanto eloquente del ruolo che intende assumere il papato nel contesto mondiale. A seguito delle minacce il corteo sembra essersi miracolosamente dissolto. Vedremo gli sviluppi. Vedremo soprattutto se l’afflato umanitario continuerà nei confronti dei pellegrini anche dopo la dispersione della carovana e il naufragio delle mire politiche connesse.

http://www.foxnews.com/politics/2018/04/05/trump-praises-mexico-for-stopping-caravan-avoiding-giant-scene-at-border.html

https://twitter.com/search?q=caravan+of+immigrants&ref_src=twsrc%5Egoogle%7Ctwcamp%5Eserp%7Ctwgr%5Esearch

Geopolitica dell’acqua: verità controcorrente di Aymeric Chauprade (traduzione di Roberto Buffagni)

Geopolitica dell’acqua: verità controcorrente

di Aymeric Chauprade

Conferenza tenuta l’8 febbraio 2013 alla Webster University (USA) di Ginevra, come introduzione al Forum dedicato all’acqua come fattore nelle relazioni internazionali.

link originale non disponibile

 

Quando Alexandre Vautravers mi ha chiesto di introdurre questo colloquio sull’acqua e la sicurezza, confesso che sulle prime ho sentito una piccola reticenza ad accettare, non perché a chiedermelo era Alexandre (che è uno spirito libero, impossibile da incasellare), tutt’al contrario: ma perché con il passare degli anni, ho imparato a non mettere acqua nel mio vino, e dunque a non mettere acqua… nella mia geopolitica!

Come molti, ho cominciato con le idee dominanti e alla moda sul tema, quelle che si sentono dappertutto, nei dibattiti, nei media, e che è facile riassumere con semplicità: “nel pianeta mancherà l’acqua e per l’acqua gli uomini si faranno la guerra.” Ma voi lo sapete come funziona il mondo: quando non se ne sa un gran che, si seguono le idee dominanti, ma poi, quando si conduce uno studio personale sull’argomento, si scoprono cose che non vanno necessariamente nella stessa direzione. Tra i numerosi libri che ho letto, ce n’è uno che vi raccomando particolarmente: Pour en finir avec les histoires d’eau1 di Jean de Kervadoué e Henri Voron.

Stamattina nuoterò di nuovo controcorrente, e spero che il mio intervento sarà utile introduzione a un dibattito che si vuole esigente, alieno dalle mode, e libero nelle sue conclusioni. Il mio intento sarà quello di rammentare alcune verità idrogeologiche che bisognerà tenere ben presenti in questa giornata di lavori.

Mentre nelle opinioni pubbliche si alimenta l’idea che il problema sarà la rarefazione dell’acqua, dobbiamo cominciare a constatare che oggi, e senza dubbio ancor più domani, è l’eccesso d’acqua che uccide e ucciderà, ben più della sua scarsità.

La catastrofe ecologica che ha mietuto più vite umane negli ultimi tre anni non è stato lo tsunami di Fukushima, ma una inondazione in Pakistan che ha ucciso più di 20.000 persone, ha causato profughi a milioni e sommerso una superficie di 200.000 km, il 40% del territorio francese.

Prendete l’Indo, che da solo misura 1.081.000 kmed è lungo 3.180 km. La sua portata media annua alla foce è di 4.000 m3/s, cioè 120 miliardi di m3 l’anno. La precipitazione di 100 mm di pioggia sulla metà a monte del suo bacino (500.000 km2) genera un volume d’acqua pari a 50 miliardi di m3 in pochi giorni, cioè a dire la metà della portata lorda annuale media. Le inondazioni catastrofiche diventano inevitabili, e la portata della piena abituale nel mese d’agosto può moltiplicarsi fino a 10 volte, da 4.000 a 40.000m3/s. L’acqua può salire molto in alto, e inondare superfici considerevoli.

Nelle gole dello Yangzi Jiang, che un tempo si chiamava Fiume Azzurro, l’altezza delle acque ha avuto variazioni di più di 60 mt. Nel Douro inferiore, in Portogallo, nel dicembre 1990, le acque sono salite a più di due metri sopra gli argini. In Francia, i livelli record in rapporto allo zero delle scale ufficiali hanno raggiunto, per la Garonna 8,32 mt. a Tolosa e 11,70 ad Agens, per la Loira i 7,52 a Tours, per la Senna gli 8,60 al ponte d’Austerlitz a Parigi, per il Rodano gli 8,30 ad Avignone.

Ma non è nulla, a paragone del Mississippi, che a valle di Cairo, nel 1882 ha sommerso più di 9 milioni di ettari, cioè una superficie maggiore dei territori di Belgio e Olanda insieme.

Lo Yangzi Jiang ha allagato superfici paragonabili nel 1931 e 1954, e in quelle occasioni pare abbia distrutto le abitazioni di più di 20 milioni di persone. Per la sola alluvione del 1931, si sarebbe dovuta piangere la morte di più di 100.000 persone.

L’acqua è una risorsa minacciosa, e in realtà, è più facile lottare contro la siccità che contro le inondazioni. Le piene sono improvvise, mentre la siccità è lenta e progressiva. Le piene distruggono abitazioni, riserve di grano e di fieno, uomini e bestiame, quando la siccità al massimo li costringe a spostarsi.

Ora che ho ricordato questa realtà, che secondo gli idrologi rischia addirittura d’aggravarsi, vorrei dare qualche cifra, anche in questo caso per smentire dei miti troppo diffusi.

Esistono tre grandi serbatoi d’acqua sulla Terra: il mare, la terra e l’aria (l’atmosfera).

Il Mare è il serbatoio di gran lunga più voluminoso, 1.338 milioni di miliardi di m3 (o tonnellate d’acqua): il mare, che è la principale fonte di evaporazione, e dunque delle piogge.

Poi c’è la Terra, che rappresenta 48 milioni di miliardi di m3, cioè il 3,5% della massa di acqua marina.

E qui, facciamola finita con i miti a proposito di certi ghiacciai in fusione.

Sulla Terra, ci sono 33 milioni di miliardi di m3 d’acqua immobilizzata sotto forma di ghiaccio; e tenete presente che su questi 33, ce ne sono già 32,6 che costituiscono l’Antartico e la Groenlandia, che non sono ghiaccio, ma che si possono considerare una forma di roccia fissa sul posto da 15 milioni di anni, la temperatura media della quale è di – 70°, e che è diversissima dal ghiaccio dei ghiacciai alpini e dell’Himalaya, i quali rappresentano soltanto 600.000 miliardi di m3.

E’ vero che secondo alcuni questi ghiacciai continentali si ritirano, a causa del riscaldamento climatico osservato a partire dal 1850; ciononostante, l’errore del grande pubblico è credere che a causa del ritiro di certi ghiacciai, diminuisca il volume d’acqua disponibile nei fiumi a valle di essi. E’ falso. Nel caso del Rodano, ad esempio, da 150 anni non si osserva alcuna riduzione della portata media.

E’ importante tenere presente che l’immagazzinamento provvisorio d’acqua, in un lago o sotto forma di ghiaccio, non cambia per nulla il ciclo dell’acqua.

Con o senza ghiacciai, le montagne del mondo sono dei castelli d’acqua. Anche senza ghiacciai, tutte le montagne immagazzinano acqua nei periodi umidi per restituirla nei periodi secchi. Nessun ghiacciaio alimenta il Rio delle Amazzoni, il fiume più possente al mondo, o l’Orinoco, o il Rio de la Plata in Argentina; lo stesso vale per il Nilo, il fiume più lungo del mondo, il Congo, lo Zambesi, i grandi fiumi siberiani, il Mississippi o il San Lorenzo.

Ritorniamo dunque ai nostri 48 milioni di miliardi di m3 d’acqua dolce, dai quali toglieremo i 33 di ghiacci; ci resteranno 15 veri milioni di miliardi di acqua dolce (laghi, fiumi, falde freatiche, zone umide) ciò che risulta, per 7 miliardi di esseri umani, in uno stock di acqua dolce personale di 2 milioni di m3; sapendo che ogni francese consuma in media 100 m3 d’acqua all’anno, se anche vivesse 100 anni, il suo consumo sarebbe di 10.000 m3 su un potenziale di 2 milioni: vale a dire, lo 0,5%.

E’ importante ricordare queste cifre, perché anche se sappiamo che le cose sono più complicate, questo ci porta a relativizzare il peso relativo della presenza umana nel ciclo dell’acqua a livello planetario, e soprattutto a distinguere bene il cosiddetto problema globale dell’acqua dai problemi locali legati all’acqua, problemi che non voglio affatto sottovalutare.

Per riassumere la mia filosofia sul problema dell’acqua: i problemi sono locali, ma la menzogna è globale.

Proseguo sui serbatoi. Ho parlato del mare, della terra, ma non dimentichiamo il terzo serbatoio, l’atmosfera, che è il meno ricco dei tre, 1700 miliardi di m3 sotto forma di vapore, di goccioline d’acqua e ghiaccio che formano le nubi.

Sorvolo sui dettagli, ma negli scambi tra questi tre serbatoi consiste quel che si chiama il ciclo dell’acqua, che, naturalmente, è equilibrato: ecco perché il livello dei mari è costante.

Fatti tutti i calcoli, tenendo conto dell’acqua che cade, di quella che evapora, di quella che torna al mare con i fiumi, si arriva a quella che chiamo l’abbondanza lorda mondiale, cioè a dire la quantità disponibile per l’Umanità nel suo insieme: 47.000 miliardi di m3 all’anno, cioè a dire 6700 m3 per ciascuno dei 7 miliardi di esseri umani. Questi 6700 m3 sono una media, perché per un francese, la disponibilità è di 2800 m3 per abitante; e di questi 2800 m3 a testa, il francese medio (non solo lui, ma anche le sue industrie, i suoi servizi, etc.) ne consuma solo 100 m3 all’anno.

E qui, di nuovo torniamo alla realtà, e tiriamo il collo alle false idee veicolate dall’ideologia mediatica.

Bisogna tenere presente che le famiglie, le industrie, i servizi, le città di tutte le dimensioni restituiscono all’ambiente naturale praticamente il 100% dell’acqua che usano. L’acqua non fa che scorrervi, per essere poi sottoposta a nuovo trattamento: dunque, ad essere consumato non è l’acqua, ma un servizio di distribuzione dell’acqua potabile. Non bisogna confondere l’acqua e il servizio di fornitura dell’acqua: non sono la stessa cosa.

Il solo vero consumo d’acqua, quella che non torna al mare, è l’irrigazione, perché in questo caso l’acqua evapora, e non torna più allo stato liquido nel suo bacino. Ora, tutti sanno che oggi, l’irrigazione ha soltanto un piccolo ruolo nell’agricoltura mondiale.

Eppure, vengono continuamente spacciate delle falsità. Prendiamo questa affermazione di Claude Allègre: “Se tutti gli uomini del pianeta consumassero tanta acqua di fiume quanta ne consumano gli europei, questo prelievo costituirebbe la metà della portata media dei fiumi. Se poi la popolazione mondiale aumentasse del 50%, passando a 9 miliardi, e il livello di vita si elevasse dappertutto al livello di vita europeo, allora l’uomo preleverebbe l’80% della portata dei fiumi.”

Da queste affermazioni traspaiono, oltre alla sempiterna colpevolizzazione dell’europeo, e all’ideologia malthusiana conforme alla quale la crescita demografica è necessariamente un flagello, parecchi errori scientifici. Si lascia credere, anzitutto, che i fiumi siano l’unica risorsa idrica, ciò ch’è inesatto, poiché il 60% delle acque continentali viene dalle falde freatiche. Poi, queste affermazioni lasciano credere che tutta l’agricoltura sia irrigata, che l’allevamento non esiste, che un miglioramento dei livelli di vita comporti necessariamente un aumento proporzionale dei consumi d’acqua. Ora, il consumo dei fiumi francesi è modesto rispetto alla loro portata (3%), e il prelievo non aumenterà, perché l’irrigazione non si svilupperà che in misura molto marginale. D’altronde, da una ventina d’anni i consumi domestici di acqua in Francia diminuiscono, mentre il tenore di vita è raddoppiato. Anche qui vi rimando alle notevoli analisi di Jean de Kervasdoué e Henri Voron.

E’ assolutamente impossibile che l’umanità consumi l’80% dell’acqua dei fiumi e faccia evaporare 47.000 miliardi di m3 all’anno. Per riuscirci, si dovrebbero irrigare 4 miliardi di ettari supplementari, cioè a dire 80 volte la superficie della Francia, per una media di consumo d’acqua per ettaro di 10.000 m3. Ne conseguirebbero raccolti supplementari per 20 miliardi di tonnellate di cereali, quando oggi l’umanità ne produce e consuma soltanto 2,5 miliardi. D’altronde, ad oggi le terre arabili coprono solo 1,4 miliardi di ettari, cioè il 10% delle terre emerse. Non si vede come si potrebbero moltiplicare per 2,5.

I continenti non sono abbastanza grandi per accogliere più di 5,4 miliardi di ettari di terre arabili!

Dunque, se vogliamo affrontare il problema geopolitico dell’acqua, del quale non mi sogno di negare l’esistenza, bisogna cominciare a non massacrare la verità scientifica (idrologica, in questo caso), e anche a diffidare di questo pensiero globalizzante che ha il solo scopo di ficcare in testa alla gente che “per i problemi globali ci vuole un governo globale”.

Globalmente, l’accesso all’acqua non è un problema e non lo sarà, anche con la tensione demografica. Lo ripeto: il problema futuro saranno piuttosto le alluvioni che le siccità. Quanto alla fusione di certi ghiacciai, essa non minaccia in alcun modo il ciclo dell’acqua. Il BRGM2 ci dice che il volume delle falde freatiche mondiali è di 10 milioni di miliardi di m3, cioè a dire 1,5 milioni di m3per abitante nelle sole falde freatiche. Queste acque sotterranee costituiscono il 60% delle acque continentali; e le falde più profonde, a debole capacità di rinnovo, restano dove sono da più di 70.000 anni.

Un’altra impostura nel modo di trattare il problema dell’acqua è che si presenta la diga come un problema, una fonte di conflitti fra gli Stati a monte e gli Stati a valle. Anche qui, il peso dell’ideologia: la diga è come la frontiera, è un muro, e ai nostri giorni i muri non piacciono; l’ideologia dominante ama solo la circolazione senza vincoli, la circolazione degli uomini, la circolazione delle merci, la circolazione delle acque, anche quando sono alluvioni… Il sogno preferito dell’ideologia dominante, subito dopo il meticciato, è proprio la circolazione.

Ora, al contrario di quel che si afferma di solito, le dighe per la produzione di energia idroelettrica non consumano acqua. La diga viene attraversata dal volume totale d’acqua, che transita sia attraverso le turbine, sia attraverso il canale di scarico delle piene. Le perdite per evaporazione, in dighe di questo tipo, sono modestissime o nulle, perché a quelle altitudini fa freddo, anche nelle zone tropicali.

Non solo le dighe non consumano acqua, ma recuperano la sua energia e lottano contro l’erosione. Contribuiscono al contenimento delle piene. La diga non sbarra la via all’acqua, la trattiene provvisoriamente.

Ciononostante, gli Stati a valle non tollerano che gli Stati a monte facciano delle dighe, come l’Egitto e il Sudan che vogliono impedire all’Etiopia di costruire dighe sul Nilo Azzurro, come il Laos, la Cambogia e la Tailandia che si preoccupano dei progetti cinesi sul Mekong. O come l’Uzbekistan che si irrita contro il Tagikistan.

Il vero oggetto di questi conflitti non è l’acqua, è l’elettricità, perché lo Stato a valle non vuole vedere lo Stato a monte produrre la sua propria elettricità, che poi dovrà pagargli a prezzo di mercato. E’ una classica gelosia tra vicini.

Allora fa fine saltare addosso alla Cina e criticarla per la sua diga delle Tre Gole3.

Si dimentica che le Tre Gole sono sul fiume Yangzi Jiang, il più lungo fiume dell’Asia, e senz’altro il più pericoloso del mondo. La verità è che la diga delle Tre Gole ha migliorato la situazione, pur senza annullare il rischio di piene catastrofiche. La capacità della diga, disgraziatamente, è insufficiente a un’efficacia preventiva del 100%. Raccoglie soltanto 34 miliardi di m3, cioè meno del 4% dell’acqua convogliata alla sua imboccatura ogni anno. Gli sversamenti possono ancora superare i 100.000 m3/s, e raggiungere, a valle, i 17 metri di altezza dal livello del suolo. Nel settembre 1998, prima della costruzione della diga, al centro di Wuhan l’onda di piena ha raggiunto i 29 metri, causando la morte di migliaia di persone. Ma la diga regola le piene medie, il che è già molto, e produce 85 miliardi di kWh, l’equivalente di 20 centrali nucleari o di 50 milioni di tonnellate di carbone all’anno.

Bisognerà che un bel giorno i radical-chic4 d’occidente, installati nei loro comfort dopo due secoli di domesticazione dei fiumi e di progressi in materia di trattamento delle acque, autorizzino finalmente i popoli di Asia, d’America Latina e persino d’Africa ad apportare gli stessi miglioramenti. Proprio gli stessi radical-chic d’Europa che si attestano su posizioni dogmatiche in quasi tutti i campi scientifici, che si tratti del gas di scisto, degli OGM o di tutte le altre possibilità che la scienza degli ingegneri ci offre, e che ha costruito la potenza dell’Occidente e la sua superiorità sulle altre civiltà dal XVI secolo in poi. Com’è come non è, gli unici progressi scientifici che si augura questa gente sono quelli che permetterebbero di distruggere lo statuto della famiglia come base della nostra civiltà.

Qualche anno fa, come molti studiosi di geopolitica, sono stato sensibile al tema dell’acqua. Come tutti, amo la Natura, e mi sono detto che forse, qui c’era un vero problema ecologico. Ma bisogna fare, anzi rifare dell’idrogeologia, prima di fare dell’idropolitica, come bisogna rifare la climatologia prima di impegnarsi a testa bassa nell’ideologia del riscaldamento globale di origine antropica. Nel 2009, alla frontiera che separa la repubblica Dominicana da Haiti, nelle piantagioni di banani inondate dal lago salato Enriquillo (che fa da frontiera tra i due paesi vicini) ho scoperto che non esistevano soltanto mari chiusi in via di prosciugamento come il mare d’Aral, del quale si parla sempre, ma che questo lago immenso, invece, si estendeva ogni giorno di più. Insomma, tale e quale ai ghiacciai. Certi si riducono, mentre altri si estendono. Eppure, ai miei figli si parla solo dei primi.

Il professor Aron Wolf, citato da Bjorn Lomborg, faceva notare, dopo aver analizzato le crisi mondiali del XX secolo, che su 412 conflitti catalogati tra il 1918 e il 1994, solo 7 avevano l’acqua come causa parziale, e che in 3 casi su quei 7 non è stato sparato un solo colpo. Un po’ pochino per annunciare la prossima “guerra dell’acqua”.

Insomma, l’acqua è certamente una fonte di conflitto geopolitico, e oggi bisognerà chiedersi che ruolo ha l’acqua nel conflitto israelo-palestinese, nelle relazioni Turchia/Siria/Iraq, interrogarsi sull’acqua in Asia centrale, sul Nilo Bianco, il Nilo Azzurro e tanti altri casi, ma appena cominciate a interessarvi seriamente dei problemi idrogeologici, comprenderete che praticamente tutti questi casi hanno soluzioni scientifiche, e che una guerra costerà sempre molto più cara di parecchi impianti di dissalazione.

Spingiamo più oltre la riflessione. Perché si fa credere alle opinioni pubbliche che qualcosa di essenziale alla loro vita (che cosa c’è di più essenziale dell’acqua?), d’insostituibile, che può suscitare violente reazioni dell’istinto di sopravvivenza, si sta rarefacendo, quando è falso?

Credo che proprio qui la questione dell’acqua in quanto “problema globale” coincida con quella del terrorismo come “problema globale”, e con tutti i “problemi globali”.

Da un canto si spingono alla guerra i popoli confinanti facendo loro credere che sono investiti da un problema geopolitico, quando invece obiettivamente (scientificamente) non è affatto così, dall’altra gli si spiega che la soluzione è globale, e che dunque ci vuole una potenza globale, un potere mondiale, per spegnere questo conflitto.

Da un canto si spinge verso la guerra, dall’altro si spinge verso l’estinzione della sovranità statale.

Chi ha interesse, insomma, a creare disordine per installare più facilmente il suo nuovo ordine globale? Chi ha interesse a destabilizzare i paesi emergenti, a sbarrare la via al multipolarismo che si sta costruendo, a mettere i bastoni fra le ruote a chi vuole incamminarsi sulla via del progresso scientifico e della domesticazione delle forze della Natura che l’Occidente ha imboccato tre secoli fa?

1 Jean de Kervasdoué, Henri Voron, Pour en finir avec les histoires d’eau : L’imposture hydrologique, Paris: Plon 2012

 

2 Bureau de Recherche Géologiques et Minières : http://www.brgm.fr/ [N.d.T.]

 

4 Traduco così l’espressione usata dall’Autore, che in Italia non è di uso corrente: “bobos”. “Radical-chic” non indica esattamente la stessa cosa: in francese, “bobos” cioè “bourgeois-bohéme” designa le persone relativamente agiate e istruite che professano valori “di sinistra” soprattutto nel campo dei diritti delle minoranze, della libertà sessuale, etc. In Italia, il “bobo” corrisponde con una certa precisione al lettore ideale di “la Repubblica”. [N.d.T.]

testo originale non più disponibile on line

Publié par Aymeric Chauprade le 16 août 2013 dans Articles – 6 commentaires

Une conférence donnée à la Webster University (USA) de Genève, le 8 février 2013, en introduction au Forum consacré au facteur de l’eau dans les relations internationales.

Quand Alexandre Vautravers m’a demandé de venir introduire ce colloque sur l’eau et la sécurité, j’avoue d’abord avoir eu une petite réticence, non parce que c’était Alexandre (c’est un esprit inclassable et libre), bien au contraire, mais parce qu’avec le temps j’ai appris à ne pas mettre d’eau dans mon vin, et donc pas d’eau… dans ma géopolitique !

Comme beaucoup, j’ai commencé avec les idées dominantes et à la mode sur ce thème, celles que l’on entend partout dans les colloques, les médias, et qui peuvent se résumer de manière simple : « la planète va manquer d’eau et les hommes se feront la guerre pour l’eau ». Mais vous savez comme le monde fonctionne : quand on ne sait pas grand-chose, on suit les idées dominantes, puis quand on travaille soi-même le sujet, on découvre des choses qui ne vont pas forcément dans le même sens. Parmi les nombreux livres que j’ai lus, il y a en un un que je vous recommande en particulier : Pour en finir avec les histoires d’eau de Jean de Kervasdoué et Henri Voron.

Ce matin je vais encore nager à contre-courant et j’espère que mon intervention sera une introduction utile pour un colloque qui se veut exigeant, loin des modes, et libre dans ses conclusions. Mon but sera de rappeler quelques vérités hydrologiques qu’il faudra garder en tête durant cette journée.

Crédit photo : Kingbob86 via Wikimedia (cc)

Alors que l’on développe dans les opinions publiques cette idée que la raréfaction de l’eau sera le problème, il faut commencer par constater qu’aujourd’hui, et sans doute demain plus encore, c’est l’excès d’eau qui tue et tuera encore beaucoup plus que le manque d’eau.

La catastrophe écologique la plus meurtrière de ces 3 dernières années n’a pas été le tsunami de Fukushima, mais une inondation au Pakistan qui a tué plus de 20 000 personnes, en a déplacé des millions et noyé une surface représentant 40% de la superficie de la France soit 200 000 km2.

Prenez le bassin versant de l’Indus qui mesure à lui seul 1 081 000 km2 et qui une longueur de 3180 km. Son débit moyen annuel à l’embouchure est de 4000 m3/s soit 120 milliards de m3 par an. Le ruissellement intégral de 100 mm de pluies sur la moitié amont du bassin versant, à savoir 500 000 km2, génère un volume d’eau de 50 milliards de m3 en quelques jours, soit la moitié de l’abondance brute annuelle moyenne. L’inondation catastrophique est inévitable et le débit de crue habituel habituel au mois d’août peut alors être multiplié par 10 fois, de 4000 m3/s à 40000m3/s. L’eau peut alors monter très haut et inonder des surfaces considérables.

Dans les gorges du Yangzi Jiang, l’ancien fleuve Bleu, en Chine, la hauteur des eaux a varié de plus de 60 m. Dans le Douro inférieur, au Portugal, en décembre 1909, les eaux ont monté de plus de 26 m au-dessus de l’étiage. En France, les niveaux records par rapport aux zéros des échelles officielles ont atteint, pour la Garonne 8,32 m à Toulouse et 11,70 à Agen, pour la Loire, 7,52 à Tours, pour la Seine 8,60 au pont d’Austerlitz à Paris, pour la Rhône, 8,3 à Avignon.

Mais cela est rien à côté du Mississipi qui, à l’aval de Cairo, a submergé en 1882, 9 millions d’ha soit plus que la surface de la Belgique et de la Hollande réunies.

Le Yangzi Jiang s’est répandu sur des étendues comparables en 1931 et 1954 et, en ces circonstances, aurait détruit les habitations de plus de 20 millions de personnes. Pour la seule crue de 1931, on aurait déploré plus de 100 000 morts.

Crédit photo : KoS (cc)

L’eau est une ressource menaçante et il est en réalité plus facile de lutter contre la sécheresse que contre les inondations. Les crues sont soudaines et violentes et la sécheresse est lente et progressive. Les crues détruisent les habitations, les réserves de grain et de paille, les hommes et le bétail, alors qu’au pire la sécheresse les déplace.

Maintenant que j’ai rappelé cette réalité qui risque même de s’aggraver d’après les hydrologues, je voudrais maintenant donner quelques chiffres, là encore pour casser quelques mythes trop répandus.

Il y a trois grands réservoirs d’eau sur terre : la mer, la terre et l’air (l’atmosphère).

La Mer est le réservoir de loin le plus volumineux, 1338 millions de milliards de m3 (ou de tonnes d’eau). Cette mer qui est donc la principale source d’évaporation et donc de pluies.

Et puis il y a la Terre qui représente 48 millions de milliards de m3 ce qui représente 3,5% de la masse de l’eau de mer.

Tordons ici le coup à quelques mythes à propos de la fonte de certains glaciers.

Il y a 33 millions de milliards de m3 immobilisés sous forme de glace sur Terre et gardez bien à l’esprit que sur ces 33 il y en a déjà 32,6 qui sont l’Antarctique et le Groenland et qui ne sont pas de la glace mais que l’on peut considérer comme une forme de roche en place depuis 15 millions d’années, dont la température moyenne est de -70% et qui est très différente de la glace des glaciers alpins et Himalaya lesquels ne représentent que 600 000 milliards de m3.

Oui ces glaciers continentaux reculent pour certains, du fait du réchauffement climatique observé depuis 1850; mais, pour autant, l’erreur souvent faite par le grand public est de croire que parce que certains glaciers reculent alors le volume d’eau disponible dans les fleuves à l’aval de ces glaciers baisse. C’est faux. Dans le cas du Rhône par exemple, on n’a observé aucune réduction du débit moyen depuis 150 ans.

Il est important d’avoir en tête que le stockage provisoire de l’eau dans un lac ou sous la forme d’un glacier ne change rien au cycle de l’eau. 

Avec ou sans glacier, les montagnes du monde sont des châteaux d’eau. Même sans glaciers, toutes les montagnes stockent de l’eau pendant les périodes humides pour la restituer en périodes plus sèches. Il n’y a pas de glacier pour alimenter l’Amazone, le fleuve le plus puissant du monde, pas plus que l’Orénoque ou le Rio de la Plata en Argentine ; c’est aussi le cas du Nil, le fleuve le plus long du monde, du Congo, du Zambèze, des grandes fleuves sibériens, du Mississipi et du Saint-Laurent.

Donc revenons à nos 48 millions de milliards de m3 d’eau douce sur lesquels on retirera nos 33 de glace et il nous reste quand même 15 vrais millions de milliards d’eau douce (lacs, rivières, fleuves, nappes phréatiques, sols humides) ce qui fait quand même, pour 7 milliards d’être humains, un stock d’eau douce personnel de 2 millions de m3 sachant qu’un Français consomme en moyenne chaque année 100 m3, même s’il vit 100 ans, cela représente 10 000m3 de consommation sur un potentiel de 2 millions soit 0,5%.

Il est important de rappeler ces chiffres car même si nous savons que les choses sont plus compliquées, cela nous amène à relativiser la trace humaine dans le cycle de l’eau, au niveau global (planétaire) et surtout à bien différencier le soit-disant problème global de l’eau des problèmes locaux liés à l’eau, problèmes que je ne veux surtout pas minorer.

Pour résumer ma philosophie sur le problème de l’eau : les problèmes sont locaux mais le mensonge est global.

Je continue sur les réservoirs. J’ai parlé de la mer, de la terre, n’oubliez pas le troisième réservoir, l’atmosphère, qui est le moins doté des trois réservoirs, 17000 milliards de m3 sous forme de vapeur, de fines gouttelettes d’eau et de glace et qui forment les nuages.

Je passe les détails, mais le jeu entre ces trois réservoirs est ce que l’on appelle le cycle de l’eau, il est équilibré évidemment, ce qui fait que le niveau de la mer est constant.

Quant on a fait tous les calculs, en prenant en compte l’eau qui tombe, celle qui s’évapore, celle qui retourne à la mer par les fleuves, on arrive à ce que l’on appelle l’abondance brute mondiale, c’est à dire finalement la disponibilité pour l’Humanité et elle est de 47 000 milliards de m3 par an soit 6700 m3 par an pour chacun des 7 milliards d’être humains. Ces 6700 m3 sont une moyenne car pour un Français, la disponibilité est de 2 800m3par habitant et si je vous dis que ce que ce Français (c’est-à-dire lui-même mais aussi, ses industries, ses services…) consomme c’est seulement 100 m3 par an sur ces 2 800m3.

Là encore revenons aux réalités et tordons le cou aux fausses idées véhiculées par l’idéologie médiatique.

Il faut avoir en tête que les ménages, l’industrie, les services, les villes de toutes tailles rendent au milieu naturel pratiquement 100% de l’eau qu’ils utilisent. L’eau ne fait que passer ; elle est retraitée ; donc ce qui est consommé ce n’est pas l’eau mais un service de distribution d’eau potable. Il ne faut pas confondre l’eau et le service de l’eau. Ce n’est pas la même chose.

La seule vraie consommation d’eau, celle qui ne retourne pas à la mer, c’est l’irrigation, car dans ce cas l’eau est alors évaporée et ne se retrouve pas à l’état liquide dans son bassin versant. Or tout le monde sait que l’irrigation constitue aujourd’hui une petite part dans l’agriculture mondiale.

Pourtant des contre-vérités sont sans cesse colportées. Prenons cette affirmation de Claude Allègre : « Si tous les hommes de la planète consommaient autant d’eau des fleuves que les Européens, ce prélèvement constituerait la moitié du débit des fleuves en moyenne. Si en outre, la population mondiale augmentait de 50%, passant à 9 milliards, et que le niveau de vie s’améliorait partout pour se mettre à niveau des Européens, alors l’homme prélèverait 80% de l’eau des fleuves ».

De ces propos transparaissent, outre la sempiternelle culpabilisation de l’Européen, et l’idéologie malthusienne selon laquelle la croissance démographique est nécessairement un fléau, plusieurs erreurs scientifiques. Ils laissent d’abord croire que les fleuves sont les seules ressources en eau, ce qui n’est pas exact puisque 60% de l’eau des continents tient aux nappes phréatiques. Ensuite, ces propos laissent penser que toute agriculture est irriguée, que l’élevage n’existe pas, que la hausse des niveaux de vie s’accompagne nécessairement d’une hausse parallèle des consommations d’eau. Or les consommations dans les fleuves français, sont faibles par rapport à leur débit (3%) et ces prélèvements n’augmenteront pas car l’irrigation ne se développera que très marginalement. D’ailleurs, depuis une vingtaine d’années, les prélèvements domestiques d’eau baissent en France alors que le niveau de vie a doublé. Là encore je vous renvoie aux analyses remarquables de Jean de Kervasdoué et Henri Voron.

Il est absolument impossible que l’humanité consomme 80% de l’eau de ses fleuves et évapore 47 000 milliards de m3 d’eau par an. Pour cela il faudrait irriguer 4 milliards d’ha supplémentaires soit 80 fois la surface de la France sur une base de consommation en eau de 10 000 m3 par ha. On pourrait y récolter 20 milliards de tonnes de céréales supplémentaires alors que l’humanité ne produit et consomme aujourd’hui que 2,5 milliards de tonnes. Par ailleurs, les terres arables ne couvrent que 1,4 milliards d’ha à ce jour soit environ 10% des terres émergées. On ne voit pas comment les multiplier par 2.5

Les continents ne sont pas assez grands pour accueillir plus de 5,4 milliards de terres arables!

Donc si nous voulons aborder les problèmes géopolitiques de l’eau, que je ne nie pas évidemment, il faut commencer par ne pas massacrer la vérité scientifique (hydrologique en la matière) et même par se méfier de cette pensée globalisante qui n’a d’autre but, que de mettre dans la tête des gens « qu’à problème global il faut gouvernement global ».

Globalement, l’accès à l’eau n’est pas un problème et ne le sera pas, même avec la tension démographique. Je le répète, le problème à venir sera davantage la crue que la sécheresse. Quant à la fonte de certains glaciers, elle ne menace en rien le cycle de l’eau. Le BRGM nous dit que le volume des nappes phréatiques mondiales est de 10 millions de milliards de m3 soit 1,5 million de m3 dans les nappes pour chaque habitant. Ces eaux souterraines constituent 60% des eaux continentales et les nappes les plus profondes à faible capacité de renouvellement sont là depuis 70000 ans.

Une autre imposture du traitement du problème de l’eau est celui du barrage que l’on présente comme un problème, une source de conflits entre États amont et État aval. Là encore, le poids de l’idéologie joue, le barrage, c’est comme la frontière, c’est un mur, et l’on n’aime pas les murs de nos jours ; l’idéologie dominante n’aime que la circulation sans contrainte, la circulation des hommes, la circulation des biens, la circulation des eaux, même quand il s’agit d’eaux en crues… Plus que la circulation l’idéologie ambiante ne rêve que de métissage.

Or contrairement à ce qui est souvent affirmé, le barrage hydroélectrique ne consomme pas d’eau. Il est traversé par la totalité du volume d’eau qui transite soit par les turbines, soit par l’évacuateur de crues. Les pertes par évaporation sur le plan d’eau de ce type de barrages sont faibles, voire nulle, car il fait froid en altitude, même en zones tropicales.

Non seulement les barrages ne consomment pas d’eau mais ils récupèrent son énergie et luttent contre l’érosion. Ils participent à la maîtrise des crues. Le barrage ne barre pas l’eau, il la retient provisoirement.

Pourtant, les États aval ne supportent pas que les États amont fassent des barrages, tels l’Égypte et le Soudan qui veulent empêcher l’Ethiopie de construire des barrages sur le Nil bleu, tels le Laos, le Cambodge et la Thaïlande qui s’inquiètent des projets chinois sur le Mékong. Comme encore l’Ouzbékistan qui se fâche contre le Tadjikistan.

Le vrai sujet de ces querelles ce n’est pas l’eau, c’est l’électricité, l’État aval n’ayant pas envie de voir l’État amont produire sa propre électricité qu’il devra payer lui au prix du marché. C’est une jalousie classique de voisin.

Alors il est de bon ton de tomber sur le dos de la Chine et de la critiquer pour son barrage des Trois Gorges.

On oublie ce qu’est le fleuve Yangzi Jiang, plus long fleuve d’Asie et sans doute le fleuve le plus dangereux du monde. La vérité c’est que le barrage des Trois Gorges a amélioré la situation, sans avoir supprimé le risque de crues catastrophiques. Sa capacité est malheureusement insuffisante pour être efficace à 100%. Il ne stocke que 34 milliards de m3, soit moins de 4% de l’eau charriée à l’embouchure chaque année. Les débits peuvent encore dépasser 100 000 m3/S et atteindre en aval une côte de 17 m au dessus du niveau de la plaine. En septembre 1998, avant la construction du barrage, la côte de 29 m a été atteinte au centre de Wuhan, causant la mort de milliers de personnes. Mais il régule les crues moyennes et c’est déjà beaucoup et il a produit 85 milliards de kWh, l’équivalent de 20 tranches de centrales nucléaires ou de 50 millions de tonnes de charbon par an.

Il faudra un jour que les bobos d’Occident, installés dans leur confort après deux siècles de domestication des fleuves et de progrès en matière de retraitement des eaux, autorisent enfin les peuples émergents d’Asie, d’Amérique Latine et même d’Afrique à procéder aux mêmes améliorations. Ces bobos d’Europe qui campent sur des positions dogmatiques dans presque tous les domaines scientifiques, qu’il s’agisse du gaz de schiste, des OGM ou de toute autre possibilité que la science des ingénieurs nous apporte et qui a fait la puissance de l’Occident et sa supériorité sur les autres civilisations depuis le XVIème siècle. Bizarrement, les seuls progrès scientifiques que souhaitent ces gens sont ceux qui permettraient de détruire le statut de la famille comme socle de notre civilisation.

La mer d’Aral en 2003. Crédit photo : Staecker (cc)

Il y a quelques années, comme beaucoup de géopolitologues, j’ai été sensible au thème de l’eau. J’aime la Nature comme nous tous, et je me suis dit qu’il y avait peut-être un vrai problème écologique de ce côté-là. Mais il faut refaire de l’hydrologie avant de faire de l’hydropolitique, comme il faut refaire de la climatologie avant de s’engager tête baissée dans l’idéologie du réchauffisme d’origine anthropique. En 2009, à la frontière séparant la République dominicaine et Haïti, dans les bananeraies inondées du lac salin Enriquillo (qui fait frontière entre les deux pays voisins), j’ai découvert qu’il n’y avait pas que des mers fermées en voie de rétraction comme la mer d’Aral, dont on parle tout le temps, mais que ce lac immense, lui, s’étendait chaque jour davantage. Comme pour les glaciers donc. Certains rétrécissent, pendant que d’autres s’étendent. Pourtant, à mes enfants on ne parle que des premiers.

Le professeur Aaron Wolf cité par Bjorn Lomborg faisait remarquer, après avoir analysé les crises mondiales du XXème siècle, que sur 412 conflits répertoriés entre 1918 et 1994, seulement 7 eurent l’eau comme cause partielle et que dans 3 cas sur 7 aucun coup de feu ne fut même tiré. Cela fait quand même léger pour nous annoncer “la guerre de l’eau” à venir.

Alors bien sûr, l’eau est une source de litige géopolitique et il faudra s’interroger aujourd’hui sur la place de l’eau dans le conflit israélo-palestinien, sur les relations Turquie/Syrie/Irak, sur l’eau en Asie centrale, sur le Nil bleu et le Nil blanc et tant d’autres cas, mais à partir du moment où vous vous penchez sur les problèmes hydrologiques, vous comprenez que pratiquement tous les cas considérés ont des solutions scientifiques et qu’une guerre coûtera toujours beaucoup plus cher que plusieurs usines de désalement.

Poussons la réflexion plus loin. Pourquoi fait-on croire aux opinions publiques que quelque chose d’essentiel à leur vie (quoi de plus essentiel que l’eau ?), d’incontournable, qui peut susciter des réactions violentes de survie, va se raréfier alors que c’est faux ?

Je crois que c’est là que la question de l’eau en tant que “problème global”, rejoint celle du terrorisme comme “problème global”, et de tous les problèmes globaux.

D’un côté on pousse des peuples voisins à la guerre en leur faisant croire qu’ils ont un problème géopolitique alors qu’objectivement (scientifiquement) ils n’en ont pas, de l’autre on leur explique que la solution est globale, qu’il faut donc une puissance globale, un pouvoir mondial, pour éteindre ce conflit.

D’un côté on pousse à la guerre, de l’autre on pousse à l’extinction de la souveraineté étatique.

Qui aurait donc intérêt à créer ainsi du désordre pour mieux installer son nouvel ordre global ? Qui donc a intérêt à déstabiliser les émergents, à barrer la route à la multipolarité qui se met en place, à gêner ceux qui veulent emprunter le chemin du progrès scientifique et de la domestication des forces de la Nature que l’Occident commença à emprunter il y a trois siècles?

Aymeric Chauprade

CONSIDERAZIONI A MARGINE DI “Lettura sul dramma di Macerata: lo scontro delle secolarizzazioni”_ DI MASSIMO MORIGI

 Francesco Hayez, La Meditazione, 1850, olio su tela, 90 x 70 cm, Galleria d’Arte moderna Achille Forti, Verona.
La figura femminile malinconica fu un tema caro a Francesco Hayez, che ne realizzò diverse versioni. Il tema era tradizionalmente legato alla rappresentazione delle sofferenze amorose, ma dopo l’insuccesso della Prima guerra d’indipendenza, questa iconografia si caricò di nuovi significati. La figura della Malinconia (o Meditazione) diventò la personificazione allegorica dell’Italia che riflette sul fallimento degli eventi del 1848, come confermano la scritta sul
dorso del libro (Storia d‘Italia) e le date in rosso delle Cinque Giornate di Milano sulla croce (simbolo del martirio patriottico)

 

Considerazioni dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico a margine a “Lettura sul dramma di Macerata: lo scontro delle secolarizzazioni” di Alessandro Visalli (originariamente pubblicata all’URL https://tempofertile.blogspot.it/2018/02/letture-sul-dramma-di-macerata-lo.html    e ora all’URL http://italiaeilmondo.com/2018/02/20/letture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli/  –  WebCite: http://www.webcitation.org/6xPpiXVOA e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F02%2F20%2Fletture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli%2F&date=2018-02-22)

 

 

Di Massimo Morigi

 

Nell’anno in cui si iscrisse al PCI, il 1948, Delio Cantimori pubblicò sulla “Nuova Rivista di diritto Commerciale, Diritto dell’Economia, Diritto sociale”, anno I, fasc. 9-12, 1948, “Idee di riforma sociale in Italia”, il cui testo era l’elaborazione a scopo di pubblicazione di  due lezioni che lo storico romagnolo aveva tenuto nell’estate del  1946 per l’Istituto per la Riforma Sociale di Pisa. Queste “Lezioni”, oltre a costituire una impeccabile ricostruzione storica delle idee e dell’agire dei riformatori sociali che si confrontarono e scontrarono nel Risorgimento italiano, sottintendeva, attraverso questa ricostruzione, la direzione verso la quale un’Italia uscita a pezzi dal secondo conflitto mondiale avrebbe dovuto imboccare e questo nuovo inizio, per Cantimori, avrebbe dovuto evidentemente prendere le mosse ispirandosi alla figura di Giuseppe Mazzini, al quale è dedicata la parte più significativa e pregnante delle “Lezioni”. Ed è anche altrettanto evidente che nelle “Lezioni”  Mazzini, o meglio il movimento storico che egli seppe creare, non è per Cantimori solo il momento imprescindibile e fondante nella costruzione dell’unità ed identità italiana, ma costituiva anche la proposta politico-culturale avanzata dallo storico romagnolo al  Partito comunista –  nel quale Cantimori intendeva svolgere il suo operato di intellettuale –  di un personaggio che aveva presieduto alla sua personale Bildung politico-culturale, il quale partendo da un ambiente romagnolo e da una famiglia profondamente intrisi di mazzinianesimo, aveva cercato, senza successo, di far vivere questa formazione prima nel PNF e ora nel PCI di Togliatti. Molto è stato scritto riguardo alla fuoruscita di Cantimori dal PCI avvenuta nel ’56, fuoruscita generalmente attribuita ad una forma di protesta per l’invasione da parte dell’Unione Sovietica dell’Ungheria e alla denuncia  di Chruščëv al XX congresso del PCUS, tramite il cosiddetto rapporto segreto intitolato “Sul culto della personalità e le sue conseguenze”, del culto della personalità di Stalin, con i conseguenti terribili eccessi che ne erano derivati. Molto più verosimilmente, invece, Cantimori uscì dal PCI non perché questo partito non si fosse schierato contro l’Unione sovietica e perché all’interno di questo partito sarebbero sempre stati all’ordine del giorno sistemi “staliniani”, seppur in sedicesimo, e che avrebbero denotato, tramite il rapporto segreto, una specie di male diffuso anche negli altri partiti comunisti, ma perché già allora era evidente che sia sul versante culturale che su quello politico il PCI non era in grado di implementare quella rivoluzione sociale di tipo mazziniano che aveva costituito il “perno psicologico” dell’attività scientifica di Cantimori (i principali studi di Cantimori, pur non occupandosi mai direttamente di Mazzini, furono sempre incentrati dallo sforzo di far affiorare il contributo italiano al processo di modernizzazione politica europea: vedi per tutti i suoi “Eretici italiani del Cinquecento”) e della vita pubblica di Cantimori (il Cantimori fascista apparteneva all’ala sinistra del PNF, quella parte del partito, per dirla in due parole, che vedeva la gerarchia in funzione della missione sociale del fascismo e non viceversa, come invece i fascisti di destra e reazionari). Citiamo allora la parte di questo articolo di Cantimori riguardante Mazzini, non tanto per rievocare un tentativo fallito di far germinare all’interno del PCI guidato da Palmiro Togliatti la tradizione sociale mazziniana, ma perché queste parole di Cantimori su Mazzini possono essere considerate la migliore risposta al pur pregevole articolo di Alessandro Visalli “Letture sul dramma di Macerata: lo scontro delle secolarizzazioni”, eccellente sì per sincerità di sforzo di analisi (ed anche per il risultato della stessa, specialmente quando afferma che i flussi migratori sono funzionali alla costituzione di un esercito industriale di riserva) ma  che anche deve però pagare pesanti pedaggi al politically correct ed ad una visione ancora ideologica e insufficientemente strategica del problema dell’immigrazione. Facciamo quindi parlare Cantimori: «Su questo sfondo di dottrinari risalta il profondo realismo rivoluzionario di Giuseppe Mazzini.   Egli non concilia o unisce (o sovrappone astrattamente, come meglio si dovrebbe dire) le nuove dottrine, i nuovi principî, il  «verbo della nuova età» all’istanza politica nazionale unitaria, ma tiene sempre fermo ad essa, non tanto subordinando le dottrine all’azione, anzi facendo sorgere le dottrine (o la polemica contro le dottrine) dall’azione stessa, dalle situazioni, dalle possibilità stesse dell’azione. Non che manovri la bandiera della riforma sociale come il Cavour manovrava elegantemente lo spauracchio della rivoluzione socialista: non si tratta di abilità politica, nel senso tecnico della parola; Mazzini coglie genialmente e spontaneamente lo stato degli animi, coglie i sentimenti, le aspirazioni, le vaghe idee, i bisogni, i timori, le speranze, e li convoglia, li rielabora in funzione della rigenerazione della patria attraverso l’unità e l’indipendenza. Perciò non si può né si deve considerare Mazzini – neanche il Mazzini scrittore – coi metodi della storia delle dottrine e delle ideologie: le sue posizioni dottrinali e ideali sono in funzione diretta dell’azione politica a lunga scadenza e di grande portata, e perciò non si esauriscono in semplici programmi e progetti o in pure considerazioni teoriche, anche quando l’azione non è coronata da successo immediato. Il Salvemini e il Mondolfo hanno già rilevato come negli scritti di Mazzini si trovino pagine di tipo socialista, e di tipo socialista moderno, tanto polemiche e critiche,  da poter giustificare a loro giudizio l’avvicinamento (puramente teorico) a Marx, al di là delle cattive relazioni personali che fanno la delizia di coloro i quali, nel migliore dei casi, non sanno fare distinzione fra giudizio politico e giudizio storico; e hanno rilevato però anche le infinite pagine di polemica antisocialista e anticomunista che si trovano negli stessi scritti, tali da annullare quasi, l’interesse che presentano le altre. Questi due studiosi hanno anche osservato che le prime si trovano soprattutto negli scritti precedenti il 1852, le seconde nel periodo posteriore, dopo il consolidamento della reazione in Francia e in Europa, quando sembrò  al Mazzini che le dottrine socialiste avrebbero allontanato, col solo nome, e anche se moderate assai come quelle del Montanelli, la borghesia italiana dal programma unitario e repubblicano. O. Vossler ha anche notato acutamente come Mazzini, oltre la polemica contro i caratteri edonistici e materialistici dei «sistemi socialisti», rifiuti sempre di accettare in astratto la negazione della proprietà privata e combatta anche l’idea che il socialismo sia il principio o il «verbo» della nuova età, informatore di ogni altra idea e di ogni altra azione. Non è dunque il caso di specificare con citazioni, perché non c’è molto da aggiungere a quanto hanno detto questi studiosi, soprattutto il Salvemini e il Mondolfo, per lo meno dal punto di vista della storia dottrinale e ideologica. Va rilevato invece che l’azione del Mazzini, proprio sul terreno sociale, va molto al di là delle teorie (anche arditissime come quelle del suo omonimo, ma pure e astratte teorie) proposte dai «socialisti» italiani suoi contemporanei; e, in un certo senso, in quanto azione lungimirante, organizzata, almeno tendenzialmente, su largo piano, va molto al di là anche dell’azione diretta di Pisacane. Intendo riferirmi al fatto che Mazzini e i suoi seguaci hanno dato vita, si può ben dire, a tutto o a quasi tutto quanto è  esistito di movimento operaio (artigiano) fra gli italiani, in esilio o in patria, durante il Risorgimento. Anche dopo la venuta del Bakunin e durante i primi anni di attività dell’Internazionale in Italia si può ben dire che il movimento operaio (artigiano) italiano è prevalentemente, quasi unicamente mazziniano. Aveva ben ragione Mazzini, in sostanza, quando nel 1871 affermava: «Dal primo impianto della Giovine Italia fino alle nostre ultime manifestazioni la causa degli operai fu nostra e la immedesimammo col moto nazionale italiano… Aiutammo come era in noi… l’impianto delle società di Mutuo soccorso, … preludio a quelle di cooperazione… Tentammo di far intendere alle classi medie che il moto operaio non era sommossa sterile e passeggera…» Questa azione del Mazzini è più importante fra noi in quel periodo delle dottrine anche più ardite, ed è anche più importante delle varie insurrezioni di tipo «guerra ai palazzi, pace alle capanne», di cui abbiamo notizia qua e là prima, dopo, e durante il 1848-49, come sono state studiate, per esempio, per la Toscana, dall’Andriani, seguendo le indicazioni del Salvemini.» (citato da Delio Cantimori, “Studi di storia”, Torino, Einuadi, 1969, pp. 596-598). Cosa  ci dice quindi a chiarissime lettere Cantimori su Mazzini (e, di riflesso, su quello che avrebbe dovuto essere e l’azione del PCI nella società italiana e la sua stessa azione all’interno del PCI, e sia detto per inciso ma anche fondamentale per comprendere l’assoluta originalità, ed anche temerarietà, dell’azione che Cantimori voleva svolgere all’interno del PCI: è solarmente evidente dal passo citato che il Mazzini di Cantimori è un Mazzini in cui è determinante la griglia interpretativa dell’attualismo di Giovanni Gentile). In poche parole Cantimori ci dice che Mazzini non fu quell’acchiappanuvole idealista, e persino intimamente reazionario, sempre votato al fallimento, tramandatoci da una superficiale storiografia e stereotipo assorbito anche a livello popolare, ma, al contrario, afferma con vigore che Mazzini è il perfetto compendio del politico realista, un politico che, proprio per l’intrinseca serietà del suo agire, rifiuta di farsi ingabbiare in facili e rigidi schemi ideologici che privilegiano o le riforme sociali o l’irrobustimento (o creazione) di un’identità nazionale ma sviluppa il suo operato a seconda delle necessità reali o percepite tali dal popolo (che di volta in volta possono essere identitarie o di maggiore giustizia sociale, e ancor più sovente inestricabilmente legate assieme) ma questo non può essere definita demagogia   per ottenere facili successi immediati (l’azione di Mazzini fu sempre mirata ad ottenere il massimo risultato ma proiettato nel lungo periodo: per Mazzini l’insuccesso di un’insurrezione innescava un eroico processo di emulazione attraverso il quale, alla fine di un lungo e doloroso percorso di fallimenti e di schiere di  martiri, avrebbe trionfato la rivoluzione italiana) ma aveva il nobilissimo e strategico  scopo di ottenere nel popolo un armonioso sviluppo fra istanze culturali ed identitarie e le istanze di giustizia sociale, che per il Mazzini sono inscindibili e che solo per ragioni tattiche possono essere momentaneamente disgiunte. Per Mazzini la sintesi finale fra questi due momenti era l’istituzione della Repubblica ma quello che qui preme sottolineare, al di là del tristo santino repubblicano che di lui ci ha consegnato una tradizione politica assolutamente non degna della grandezza del personaggio, è  che per Mazzini la Repubblica era, insomma, l’obiettivo finale ed anche il momento simbolico di un grandioso sforzo strategico che il rivoluzionario di Genova intendeva svolgere sul (e a favore del) popolo italiano. Il popolo italiano era quindi per Mazzini e il centro strategico della sua azione e il precipitato finale di questa azione, e questo non perché disdegnasse le impostazioni socialistiche della rivoluzione ma perché aveva assolutamente chiaro che una rivoluzione su base unicamente economicista o, peggio, astrattamente universalistica era un autentico non senso. Mazzini, insomma, non era un astratto ed esaltato acchiappanuvole ma lo potremo definire il Lenin italiano – o, ancor meglio, il Lenin degli italiani o dell’Italia –  che se anche non disse mai “analisi concreta della situazione concreta” costantemente ispirò la sua azione a questa massima. Vengo rapidamente alla conclusione. Ottimo l’articolo di Vissalli, fatta però una fondamentale osservazione. In “Lettura sul dramma di Macerata: lo scontro delle secolarizzazioni” (risposta all’articolo di Roberto Buffagni “Intorno ai fatti di Macerata – Non c’è più religione? Dipende”, all’URL http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/ – WebCite: http://www.webcitation.org/6xJAwBIIo), il momento strategico  è concentrato e limitato sull’analisi del fenomeno migratorio come funzionale alla costituzione di un esercito industriale di riserva; del tutto però insufficiente riguardo le problematiche identitarie del popolo italiano; problematiche fatte emergere violentemente dai fenomeni migratori ma in cui questi fenomeni sono solo una parte del problema, iniziando questa crisi identitaria dalla sconfitta nel secondo conflitto mondiale (e massima e tragica espressione politica di questa crisi identitaria è l’ideologia antifascista – cioè non l’antifascismo sorto come logica, naturale e legittima reazione al regime fascista ma l’antifascismo foglia di fico per qualificarsi come democratici verso le potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale e braghettone ideologico per nascondere la guerra civile latente fra i partiti che erano subentrati alla apparente guida dell’Italia dopo il 25 aprile ma in cui il vero comando era riservato alle potenze angloamericane che avevano conquistato l’Italia –,  vero e proprio virus, questo antifascismo a regime fascista morto, geneticamente modificato e creato per  parassitare e alla fine a distruggere il DNA della tradizione storico-culturale italiana) e rincrudita ed accelerata dallo sviluppo economico capitalista del secondo dopoguerra. Cantimori uscì dal PCI per l’indifferenza che suscitò nel partito la sua linea culturale, e nella quale il mazzinianesimo (l’autentico mazzinianesimo – quel mazzinianesimo che ebbe il suo migliore studioso in Giovanni Gentile –, il mazzinianesimo fedele alle idee e all’operato del grande genovese, e che noi oggi definiamo ‘mazzinianesimo strategico’, non certo l’odierno caricaturale e deformato mazzinianesimo dei suoi indegni epigoni) costituiva la spina dorsale,  ma l’impostazione che voleva dare alla soluzione  del problema italiano (se soluzione si può parlare per i fatti storico-sociali) era, come è tuttora, quella corretta: una chiara visione strategica di pretto stampo mazziniano che partendo dai problemi sociali e culturali del nostro popolo sappia (ri)costruire e rafforzare una identità nazionale che permetta al nostro paese di rimandare al mittente tutte le spinte disgregative (di cui l’immigrazione è una di questa) che ci giungono da questa disgraziata modernità di un mondo sempre più multipolare. Per Mazzini il nemico storico da dissolvere ed annientare era l’Impero Austroungarico. Oggi il nemico da dissolvere ed annientare non è un impero ma un’impostazione mentale “politically correct” che vorrebbe privilegiare l’impero turbo-capitalistico della globalizzazione e le cui povere truppe d’assalto, al posto dei croati Austroungarici, sono le disgregate, vaganti e disperate popolazioni del sud del mondo. E come i nostri padri del Risorgimento, prima fra tutti Mazzini, non odiavano i croati (che costituivano il grosso delle truppe di occupazione dell’impero Austroungarico) ma anzi provavano per loro compassione  ma, nonostante questa compassione li volevano cacciare (Vedi poesia “Sant’Ambrogio” di Giuseppe Giusti: «Entro, e ti trovo un pieno di soldati,/Di que’ soldati settentrïonali,/Come sarebbe Boemi e Croati,/Messi qui nella vigna a far da pali:/  Difatto, se ne stavano impalati,/ Come sogliono in faccia a’ Generali,/Co’ baffi di capecchio e con que’ musi,/Davanti a Dio diritti come fusi.//Mi tenni indietro; chè piovuto in mezzo/ Di quella maramaglia, io non lo nego/ D’aver provato un senso di ribrezzo/Che lei non prova in grazia dell’impiego./Sentiva un’afa, un alito di lezzo;/Scusi, Eccellenza, mi parean di sego,/ In quella bella casa del Signore,/Fin le candele dell’altar maggiore […] Povera gente! lontana da’ suoi,/In un paese qui che le vuol male,/Chi sa che in fondo all’anima po’ poi/Non mandi a quel paese il principale!/ Gioco che l’hanno in tasca come noi. —/Qui, se non fuggo, abbraccio un Caporale,/  Colla su’ brava mazza di nocciolo,/Duro e piantato lì come un piolo.»), così anche noi ci dobbiamo atteggiare e comportare verso i flussi immigratori incontrollati. E questa risoluzione non viene da qualche lunatico sparacchiatore ma dalla più pura tradizione strategica del nostro Risorgimento. Anche se in forme veramente inedite ed inaspettate, alla fine veramente tutto torna, e questo è veramente una grande lezione strategica che evidenziata nel nostro Risorgimento, è anche alla base della nascita, sempre italiana, del pensiero storicista che si sviluppa attorno al vichiano ‘Verum et factum convertuntur’ del “De antiquissima italorum sapientiae” (e che si pone in antitesi al pensiero illuministico ed astrattamente razionalistico ed antistorico, da cui trae origine la mistica dei diritti umani, grande responsabile  e giustificatrice sul piano ideologico degli incontrollati flussi migratori). Machiavelli, Vico, Mazzini, Giovanni Gentile, Gramsci, Cantimori (cioè la grande tradizione del realismo e dello storicismo italiani, che non si traduce,  però, nella  esaltazione di una tetra ed amorale realpolitik o Machtpolitik calata dall’alto ma, mazzinianamente, nella  creazione di una politica espressiva dei più profondi ed intimi bisogni del popolo, insomma un progetto teso nella sua più ultima e rivoluzionaria espressione – che, partendo da Giovanni Gentile per arrivare ad Antonio Gramsci,  va sotto il nome di filosofia della prassi – alla definizione di quella gramsciana cultura nazionalpopolare, il cui mancato conseguimento fu anche, come ben si vede oggi sia nella società che nel partito che pretende essere l’erede di quello fondato da Antonio Gramsci, anche il grande fallimento del PCI togliattiano), pensati attentamente i quali paiono  veramente bizzarre la considerazioni, riguardo i fatti di Macerata,  che «L’unica cosa certa di questa vicenda è che una ragazza è morta, alcuni immigrati hanno tentato di occultare il cadavere, dissezionandolo, e un italiano in preda ad esaltazione ha tentato di fare giustizia sommaria su altri innocenti scelti a caso» o  che «Ci sono associazioni, tra cui la ALCR […], attiva in Gabon, che denunciano coraggiosamente gli omicidi rituali, spesso condotti per banali ragioni di successo economico in un contesto di elevata frammentazione etnica (circa 40 gruppi) e di religioni animiste (20% della popolazione) o sincretiche come il Bwiti, anche se il 75% della popolazione è identificata come cristiana. Si tratta comunque di poche centinaia di casi, [sic!] spesso ricondotti a non meglio precisati “cultisti” […], ma sono spia del disagio di una troppo rapida, e subalterna, trasformazione.» Mazzini, intriso di spirito umanitario ma anche (o proprio per questo) pensatore ed uomo d’azione profondamente strategico non inneggiò mai all’odio contro nessuno ma non si sognò mai neppure di dire: «L’unica cosa certa è che i soldati croati sono dei semplici fantocci in mano all’impero austroungarico e per questo non devono essere combattuti ma accompagnati, piuttosto, gentilmente alla porta.» Le cose non andarono così e, se si vuole dare una speranza a questo paese, non dovranno andare così neppure per gli immigrati irregolari. E questo con buona pace – pur dandogli credito delle migliori intenzioni – delle pur generose esortazioni (ed anche in parte penetranti analisi) di Alessandro Visalli, il cui difetto di fondo è l’essere impregnate di quello spirito universalistico di matrice illuministica che Mazzini – e sulla sua scia il Repubblicanesimo Geopolitico –  sempre e con tutte le sue energie avversò, e questo non perché fosse un reazionario ma perché aveva capito benissimo che se si vuole essere veramente universali la prima cosa che necessita è possedere una visione strategica il cui centro focale è la creazione di una propria distinta ed unica identità, lasciando agli ideologi la discussione in merito all’universalità di questo o quell’altro sacro principio (che, come Mazzini aveva ben compreso, sempre nasconde l’interesse di qualcuno che con questi giochi di parole – ai tempi di Mazzini la Francia col suo monopolio  e volontà di imposizione dei sacri principi dell’ ’89, oggi la liberale e liberistica globalizzazione turbocapitalistica col mito del diritto e dell’inevitabilità all’immigrazione incontrollata –  intende perseguire nascostamente e con l’appoggio di masse ignoranti, vaganti, disperate e senza identità i propri inconfessabili interessi di annichilimento culturale dei popoli  e di  disgregazione ed atomizzazione delle società che questi popoli, attraverso lacrime, sangue,  battaglie e guerre si sono costruite nel corso della storia ).

Massimo Morigi – 22 febbraio 2018

 

 

 

 

 

 

 

OLTRE MACERATA. SEI DOMANDE, SEI TRACCE DI LAVORO, di Luigi Longo

LE DOMANDE DI MACERATA

di Luigi Longo

 

Lo scritto di Pino Germinario su La particolare gestione politica dei fatti di Macerata, apparso sul blog Italiaeilmondo del 18 febbraio 2018, stimola delle domande per capire quei fatti oltre ciò che appare. Una piccola premessa a mò di riflessione.

 

Una piccola premessa

 

La riflessione che propongo riguarda la questione dello Stato e quello della criminalità organizzata che si fa soggetto politico.

Le problematiche da affrontare sarebbero molte [ dalla conoscenza dei luoghi di potere e dominio allo svelamento dell’interesse generale e di un astratto luogo di potere dei dominanti, dalle relazioni geo-politiche, geo-economiche, geo-territoriali al ruolo delle potenze mondiali con le aree di influenza (regioni, poli), eccetera], qui interessa evidenziare l’attenzione sullo Stato, con le sue articolazioni di funzionamento (parlamento, governo, eccetera) e le sue articolazioni territoriali (enti locali, enti intermedi, eccetera), come luogo e strumento di potere e di dominio per la realizzazione degli obiettivi degli agenti strategici dominanti nel conflitto per l’egemonia della società data.

Il potere vero, quello che produce dominio, è sempre ben nascosto, non appare. Tant’è che lo respiriamo e non ce ne accorgiamo. Gli strumenti statali, con le loro articolazioni territoriali, diventano sempre più macchine complesse per gestire e organizzare il dominio dell’intera società. Il dominio per realizzarsi ha bisogno di emergere attraverso processi istituzionali e produrre ordine simbolico della società data: è un processo di lunga durata, vedasi i vari modelli egemonici mondiali espressi dalle potenze predominanti nelle diverse fasi della storia mondiale. A questo proposito diventa fondamentale capire quali sono gli agenti strategici dominanti. Mi permetto una precisazione: non faccio distinzione tra agenti strategici dominanti nella sfera privata e quelli nella sfera pubblica, tra quelli che delinquono legalmente e quelli che delinquono illegalmente perché l’intreccio è tale che non ha senso la distinzione (gli esempi sono infiniti).

 

Le domande

 

Il problema non è quello dell’uso esclusivo della forza dello Stato ( quella c’è eccome!), quanto piuttosto riflettere su cosa è lo Stato e perchè non interviene a contrastare le forme di violenza organizzata della cosiddetta criminalità nostrana e mondiale. L’intreccio tra il potere legale e quello criminale è molto forte. Per capirlo dobbiamo considerare l’innervamento tra il soggetto politico legittimato dalle regole sociali per svolgere le sue strategie e il potere criminale che così si fa soggetto politico. Esempi sono infiniti in tutte le sfere sociali, in tutti i luoghi istituzionali, in tutte le città, in tutti i territori.

La prima domanda: a partire dai fatti di Macerata ( lascio perdere l’antifascismo che è roba da basagliati) perché i sub-agenti dominanti nostrani non sono in grado di contrastare il potere della criminalità organizzata in generale e in particolare quella nigeriana che si sta consolidando sul territorio nazionale? (rilevo che i Servizi Segreti creano allarmi sull’attività jihadista del Daesh e non si accorgono dei villaggi abusivi gestiti dalla mafia nigeriana vicino ai CARA).

La seconda domanda: perché i nostri sub-decisori intervengono malamente solo a livello di omicidi, cioè solo a livello di repressione militare per ristabilire il cosiddetto ordine pubblico?

La terza domanda: perché la criminalità organizzata si combatte sopratutto con la sfera militare, che è fondamentale ma non è incisiva perché l’accumulo di potere del soggetto politico criminale passa attraverso altre sfere sociali (politiche, economico-finanziarie, culturali, istituzionali, eccetera) che valorizzano il capitale accumulato con strategie criminali, tramite la violenza delle armi, investendolo nei settori legali? (un grande pensatore ha spiegato molto bene che se il capitale accumulato non viene valorizzato non produce potere e dominio).

La quarta domanda: Qual è il ruolo che la criminalità organizzata svolge nel gestire i flussi migratori che si coordina con quello assegnato dalla UE all’Italia? (ricordo che l’Unione Europea (sic) ha chiuso i suoi confini e ha lasciato aperto solo quello italiano).

La quinta domanda: la gestione dei flussi migratori hanno a che fare con le strategie statunitense nel Nord Africa e nel Vicino Oriente? (rammento che gli USA sono maestri nelle relazioni con la criminalità organizzata, orientano la loro creatura, il Daesh, e ri-posizionano gli jihadisti dopo la sconfitta del Califfato e la dispersione degli jihadisti di Daesh così come fecero per il ri-collocamento delle SS dopo la fine del secondo conflitto mondiale).

La sesta domanda: parafrasando William Shachespeare posso chiedermi/vi che ammasso di immondizie, pattume e rifiuti è l’Italia, se serve da vile materia per illuminare una cosa indegna quale sono i nostri agenti sub-decisori? E perché il popolo italiano dovrebbe partecipare alla farsa delle elezioni politiche per eleggere una cosa tanto indegna?

Letture sul dramma di Macerata: lo scontro delle secolarizzazioni, di Alessandro Visalli

Tratto con l’autorizzazione dell’autore da https://tempofertile.blogspot.it/2018/02/letture-sul-dramma-di-macerata-lo.html

articolo inerente di Visalli http://italiaeilmondo.com/2018/02/20/letture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli/

Il mio amico Roberto Buffagni ha una ipotesi circa i fatti di Macerata, nelle Marche, in cui si è consumato un doppio orrendo fatto di cronaca: alcuni criminali di origine nigeriana, dediti a quanto sembra a spaccio di stupefacenti, avrebbero ucciso una povera ragazza anche essa dedita all’uso, dunque una cliente, e poi, forse per occultarne il cadavere, l’avrebbero fatta a pezzi e abbandonata in campagna. Successivamente un criminale italiano, a scopo di vendetta razziale, ha sparato su passanti di colore e si è quindi consegnato, avvolto in un tricolore.

Le indagini non sono concluse, e la dinamica non è completamente confermata, ma in alcune versioni emerge l’ipotesi, sposata da Buffagni nel suo pezzo, che l’omicidio sia stato in qualche modo una forma pervertita e corrotta di secolarizzazione (ovvero di utilizzo a fini economici di riti tradizionali) delle forme religiose tradizionali dell’area di provenienza degli attori. Certo, come sostiene Giorgio Cingolani, professore a contratto dell’università di Macerata ed antropologo, è del tutto prematuro connettere questi pochi fatti a ritualità pervertite o, come dice, a “personalizzazioni del rito ad opera di soggetti specifici”, ed è certamente improprio immaginare che questi fenomeni, dove si danno, siano di massa o “tradizionali”.

Al momento le indagini, quando l’udienza di convalida non si è neppure tenuta, non confermano, né escludono queste ipotesi, ma, come scrive la Repubblica: “restano invece aperti tutti i dubbi sul movente dell’omicidio: dal tentativo di stupro finito male al sacrificio rituale, ipotesi che gli inquirenti non escludono ma per le quali, al momento, non hanno prove”.

Tra l’altro giova ricordare che la Nigeria, il più popoloso stato africano, settimo al mondo, è sede di antica civilizzazione e dispone di un PIL di tutto rispetto (435 miliardi di dollari), maggiore di quello del Sud Africa; dal punto di vista religioso per lo più la popolazione è cristiana e mussulmana, solo l’1,4% è animista. La Nigeria, sin dal 1200 d.c. si specializza nell’essere un terminale commerciale essenziale tra il nord-africa (e poi gli occidentali) e l’Africa profonda, nel traffico degli schiavi e nell’economia di saccheggio che ne consegue. Dal 1600 gli occidentali fondano porti dedicati a tale tratta che diventa gradualmente egemone nel 1800 (in particolare diretta alle americhe). Dal 1901 è un protettorato e poi una colonia inglese, nel 1960 diviene indipendente e federale (36 stati). L’economia nigeriana è la prima del continente, la 26° nel mondo. Il settore agricolo determina il 22% del PIL, mentre il settore manifatturiero il 7%, il settore petrolifero determina il 15% del PIL ed il terziario il 52% (banche, cinema e telecomunicazioni).

 
Isaac Newton

L’unica cosa certa di questa vicenda è che una ragazza è morta, alcuni immigrati hanno tentato di occultare il cadavere, dissezionandolo, e un italiano in preda ad esaltazione ha tentato di fare giustizia sommaria su altri innocenti scelti a caso.

La vicenda mostra dunque un tessuto di violenza che attraversa la nostra società, messa sotto tensione dagli effetti di diversi sradicamenti e sul quale ci dovremmo interrogare.

Ma è anche vero, per quanto marginale e certamente non di massa, che in alcune aree centroafricane lo stesso sradicamento e troppo rapida secolarizzazione, sotto la spinta dell’esposizione senza filtri ai mercati ed al potere della tecnica (e del capitale), sta provocando fenomeni di perversione delle forme rituali tradizionali. Ci sono associazioni, tra cui la ALCR (questa la sua pagina Facebook), attiva in Gabon, che denunciano coraggiosamente gli omicidi rituali, spesso condotti per banali ragioni di successo economico in un contesto di elevata frammentazione etnica (circa 40 gruppi) e di religioni animiste (20% della popolazione) o sincretiche come il Bwiti, anche se il 75% della popolazione è identificata come cristiana. Si tratta comunque di poche centinaia di casi, spesso ricondotti a non meglio precisati “cultisti” (questo un articolo nigeriano), ma sono spia del disagio di una troppo rapida, e subalterna, trasformazione.

 
ALCR

Non ci sono dunque prove che l’episodio di Macerata sia connesso con i crimini che a volte si verificano nei paesi di provenienza e che le forze dell’ordine locali, le chiese e le religioni locali, e le associazioni combattono con vigore.

Ma il dibattito con Buffagni si è egualmente sviluppato come se tale ipotesi fosse possibile. In questo link la sua ripresa su Sinistrainrete. E in essa la reazione di due lettori, Eros Barone e Mario Galati, che con diverse sfumature richiamano al primato dell’economico di marxista memoria. In particolare Galati accusa la conversazione che è linkata nell’articolo e cui rinvio, di “scorrere tutta entro la dimensione pulsionale e sacrale dell’uomo”, fino a concepire la storia stessa solo come “storia religiosa”, ignorando o subordinando la “produzione e riproduzione della vita materiale”. In particolare, con riferimento al mio dire, si chiede se “constatare la persistenza di pulsioni primordiali e del senso del sacro possa spiegare la storia?” e, ancora, se “stabilire il nesso tra razionalismo e sviluppo capitalistico equivalga forse a rigettare il pensiero scientifico, in quanto semplice statuto disciplinare, paradigma convenzionale, o che dir si voglia?” Non mi è immediatamente chiaro cosa significhi “pensiero scientifico come statuto disciplinare, o paradigma convenzionale”, in quanto il pensiero scientifico è una sorta di habitus mentale e un insieme molto largo e comprensivo di pratiche sociali dotate di meccanismi verbali di inclusione ed esclusione; una cosa che va molto oltre lo statuto di una o più “discipline” e di convenzioni. Attraversa i “paradigmi” (nel senso di Thomas Khun) e non ne è incluso o rappresentato.

Ma la domanda sarebbe qui se il razionalismo occidentale sia, o meno, connesso con lo sviluppo storico del capitalismo, e se il riconoscimento di questa connessione debba portare direttamente a rigettare il pensiero scientifico, evidentemente in favore del primato di pulsioni o di sacralità (o, come dice Barone, del comunitarismo etnico). E, con le parole del professore di filosofia Eros Barone, al netto degli insulti o dei posizionamenti identitari, riassunti nell’etichetta di “dialettica e materialismo storico” ed ancora più nell’evocazione di passaggio dell’inferno (cui si contrappone simbolicamente un paradiso evidentemente rappresentato dal comunismo), se si debba alla fine parlare solo “dei rapporti di proprietà”, ed a questi ricondurre il fondo del conflitto e di ogni differenza.

Lo schema di Barone è molto tradizionale: è alla fine l’imperialismo che genera, alleva e fa prosperare la “prole mostruosa” del “bellicismo espansionista, del razzismo differenzialista, e del comunitarismo etnocentrico”. Prole che può essere sconfitta solo da un “vasto fronte popolare” in grado di fare l’operazione esattamente inversa a quella condotta dal capitale: unire ciò che questo vuole dividere (proletariato autoctono e immigrato), e dividere ciò che vuole unire (borghesia e proletariato). In altre parole è compito dei comunisti riportare lo scontro sul piano delle differenze di classe, proletari contro borghesi in relazione alle strutture di produzione imposte dal capitale, rigettando come false tutte le differenze di tipo etnico o culturale. Come si possa fare, senza farsi carico di comprendere il punto di vista e la percezione delle classi popolari, e continuando a ritenere di avere in toto il monopolio della Verità, mi sembra difficile da immaginare.

In questa direzione va comunque anche la richiesta di Galati di trovare piuttosto direzioni nelle quali agire, senza restare inchiodati alle carenze delle dimensioni primordiali e l’insufficienza di precarie “civilizzazioni”.

 
Gabon, articolo

Colgo l’invito a parlare prima di tutto delle condizioni materiali: anche se il fenomeno è disuniforme quanto ad impatto quantitativo (ma tende, per le modalità stesse che diremo, a concentrarsi, risultando differentemente percepito per i diversi gruppi sociali ed areali), la dinamica delle emigrazioni ed immigrazioni determina una complessiva ‘economia politica’ che è caratterizzata da importanti fenomeni di corruzione degli assetti sociali e culturali, di gestione come oggetti d’uso dei corpi estratti, e di potenziamento dello sfruttamento a causa dei normali meccanismi di creazione del valore di scambio. Per comprenderlo bisogna però fare prima una mossa, che ha qualcosa a che fare con il discorso che faremo su razionalismo e capitalismo: smettere di vedere le ‘economie povere’ come un vuoto. Una dimensione eguale alla nostra, ma con meno denaro. Se si inquadra, facendo uso di cecità educata da economisti, in questo modo l’emigrazione e la stessa trasformazione dell’ambiente di provenienza dei flussi umani immigrati alla fine è solo questione di razionalizzazione e sviluppo.

Propongo una diversa ipotesi interpretativa: che, cioè, sia più utile inquadrare il fenomeno come un progressivo allargamento dello spazio dominato e controllato dal mercato, e per esso dalla finanza, nell’intreccio di due “economie politiche” reciprocamente rimandantesi. Quella che avevo chiamatoeconomia politica dell’immigrazione”, la nostra, che fa scaturire una insaziabile e crescente spinta estrattiva e insieme di trasformazione (spingendo l’uomo a ripensarsi come ‘forza lavoro’, adattandosi alla relativa disciplina) che via via incorpora ‘risorse’ (umane) per fornire risposta ad una domanda di lavoro debole e disciplinato, insaziabilmente prodotta dall’attuale economia interconnessa e finanziarizzata (allo scopo di tenere in movimento la macchina deflazionaria contemporanea), nella quale tutti sono sempre in concorrenza con tutti sotto il pungolo del capitale mobile e continuamente valorizzante. È essenziale in questo senso che il meccanismo del recupero di margini di valorizzazione, attraverso la riduzione costante dei costi (in primis del costo più ‘inutile’, quello del lavoro), sia sempre in movimento; sia sempre un poco più veloce del paese vicino. Quindi è essenziale che il lavoro sia un poco più debole, un poco più disciplinato, giorno dopo giorno, anche a costo di espellere e sostituire chi non abbia la possibilità materiale di piegarsi, o non voglia. Il ricatto davanti al quale ci troviamo tutti è semplicemente che l’unica alternativa, in condizione di piena mobilità dei capitali, è che ad andarsene siano invece i processi produttivi. Dunque non resta che importare forza lavoro sempre più debole, per rendere debole quella che c’è, o lasciare tutti a casa. L’effetto di questa dinamica, trascinata dalla valorizzazione differenziale nella metrica della finanza che mette in contatto e costringe alla competizione il mondo intero, è che è nelle aree del lavoro debole che si concentra, in diretto contatto con coloro i quali sono sfidati e pungolati a ‘maggiore efficienza’ (che normalmente significa minori compensi a parità di lavoro produttivo), l’attrazione di ‘forza lavoro’ sostitutiva. Il processo è strutturalmente simile per i lavoratori-raccoglitori dei pomodori nelle piane pugliesi, o campane, per i lavoratori-manifatturieri nei cantieri navali o nelle fabbriche e fabbrichette in subappalto disseminati nelle nostre periferie industriali, per i lavoratori-domestici che sono nelle nostre case e per i lavoratori-professional che sono messi in competizione con le piattaforme. Ha dunque ragione chi dice che il problema è nel rapporto di forza con il capitale, ma nello stesso momento ha torto: perché nel dirlo non si fa carico davvero della materialità del problema nei luoghi in cui si determina.

Questa dinamica di attrazione differenziale, ulteriormente accentuata dal meccanismo stesso dell’attrazione (influenzato dal percorso, come dicono gli economisti, e quindi dalla preesistenza di reti di relazione, strutture sociali di accoglienza, “diaspore”) che tende ad accrescere la presenza dove è già maggiore, esercita obiettivamente una pressione al disciplinamento che è letto come oggettivamente violento (anche se la fonte non è nei corpi dei concorrenti per il lavoro debole ma in ciò che lo rende tale). Nessuno può riaprire una relazione sentimentale con le classi popolari se non comprende questa dinamica, se si limita intellettualisticamente a qualificare come brutti, sporchi e cattivi, e razzisti, coloro che se ne sentono vittime.

 
Il subcomandante Marcos

Nel suo testo “la IV guerra mondiale è cominciata”, Rafael Sebastián Guillén Vicente, noto come “il subcomandante Marcos”, denuncia questa situazione in questo modo:

“Il risultato di questa guerra di conquista mondiale è una grande giostra di milioni di migranti in tutto il mondo. ‘Straniere’ nel mondo ‘senza frontiere’ promesso dai vincitori della III Guerra Mondiale [ndr la guerra fredda], milioni di persone subiscono la persecuzione xenofoba, la precarietà del lavoro, la perdita dell’identità culturale, la repressione poliziesca, la fame, il carcere e la morte. ‘Dal Rio Grande americano allo spazio Schengen ‘europeo’, si conferma una doppia tendenza contraddittoria: da un lato, le frontiere si chiudono ufficialmente alle migrazioni di lavoro, per l’altro, interi rami dell’economia oscillano tra l’instabilità e la flessibilità, che sono i mezzi più sicuri per attrarre la manodopera straniera’ [Alain Morice, op, cit.]. Con nomi diversi, subendo una differenziazione giuridica, dividendosi una eguaglianza miserabile, i migranti o rifugiati o delocalizzati di tutto il mondo sono ‘stranieri’ tollerati o rifiutati. L’incubo della migrazione, quale che sia la causa che la provoca, continua a rotolare e a crescere sulla superficie del pianeta. Il numero di persone che sarebbero di competenza dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati [Acnur] è cresciuto in modo sproporzionato dai due milioni del 1975 a più di 27 milioni nel 1995. Distrutte le frontiere nazionali [dalle merci], il mercato globalizzato organizza l’economia mondiale: la ricerca e il disegno di beni e servizi, così come la loro circolazione e il loro consumo sono pensati in termini intercontinentali. In ogni parte del processo capitalista il ‘nuovo ordine mondiale’ organizza il flusso di forza lavoro, specializzata e no, fin dove ne ha bisogno. Ben lontani dal subire la ‘libera concorrenza’ tanto vantata dal neoliberismo, i mercati del lavoro sono sempre più condizionati dai flussi migratori. Quando si tratta di lavoratori specializzati, e anche se questa è una parte minore delle migrazioni mondiali, questo ‘travaso di cervelli’ rappresenta molto in termini di potere economico e di conoscenze. Però, si tratti di forza lavoro qualificata o semplice manodopera, la politica migratoria del neoliberismo è più orientata a destabilizzare il mercato mondiale del lavoro che a frenare l’immigrazione. La IV Guerra Mondiale [il riassestamento neoliberale], con il suo processo di distruzione/spopolamento e ricostruzione/riordinamento provoca lo spostamento di milioni di persone. Il loro destino sarà di continuare ad essere erranti, con il loro incubo sulle spalle, e di rappresentare, per i lavoratori impiegati nelle diverse nazioni una minaccia alla loro stabilità nel lavoro, un nemico utile a nascondere la figura del padrone, e un pretesto per dare senso all’insensatezza razzista che il neoliberismo promuove”.

Ma questa “economia politica” si affianca a quella “dell’emigrazione”, la “ricostruzione/riordinamento” si affianca alla “distruzione/spopolamento”. Perché le persone che sono ‘aspirate’ in occidente dalla domanda di lavoro debole, alimentano anche il trasferimento di poveri surplus monetari che insieme alla trasformazione dei pochi settori produttivi in industria da esportazione estranea al tessuto locale e dipendente dai capitali esteri, attraggono e corrompono, disgregandole, aree ancora relativamente esterne al circuito della valorizzazione, contribuendo a “monetizzarle”, ovvero a ricondurle entro il circuito astratto e impersonale del capitale e della sua logica. In qualche misura questo paradosso è stato oggetto di analisi della tradizione marxista sin dal suo avvio, e delle esitazioni dei suoi padri.

Questo processo va infatti inteso come “razionalizzazione”, ed alfine giudicato una sia pure dura necessità (come inclinava a pensare il vecchio Engels)? Oppure un non necessario sacrificio, un calice che potrebbe anche passare, se si avesse il tempo di prendere il proprio percorso (come inclinava a pensare il vecchio Marx, ma non il giovane)? Ha ragione lo zapatista e neo-anarchico Marcos o il marxista Negri?

In altre parole, questa ‘economia’ che, come avevamo scritto, corrompe in basso, gestisce in mezzo e sfrutta in alto è senza alternative, perché in fondo coerente con la direzione della Storia? O è solo coerente con quelli che chiamavo i “campi sentimentali” dei millennials (e dei loro profeti), che individualisticamente vedono la mobilità attraverso le frontiere come liberazione?

Ma la dura realtà, ben oltre gli immaginati campi del desiderio, o le palingenesi storiche, parla del semplice fatto che è la piena libertà di movimento dei capitali, nelle attuali condizioni e infrastrutture tecnico-legali (che significa anche sistema delle “città globali” di cui parla Sassen), che porta necessariamente, insieme alla libertà di spostamento delle merci (nelle condizioni della rivoluzione informatica), a quella insostenibile segmentazione delle catene produttive nei settori tradabili (o mobili) su lunghe filiere logistiche disegnata espressamente per massimizzare lo sfruttamento dei fattori non mobili (ambiente e lavoro), i quali restano al contrario localmente sempre abbondanti in senso relativo. E’ in questo contesto generale che interviene la libertà di movimento anche dei lavoratori, per tenere sempre abbondante il fattore poco mobile, dunque per tenerlo in condizioni di subalternità.

In altre parole, se nei settori in cui le produzioni sono rivolte a mercati globali (dunque in cui le merci, ovunque prodotte, possono essere vendute su ogni mercato alle stesse condizioni), si riesce a garantire anche la piena mobilità dei fattori produttivi capitale e conoscenza, si ottiene che questi possano andare sistematicamente a rintracciare quelle condizioni locali di relativa abbondanza del fattore mancante (lavoro ed ambiente) in modo che il saggio di sfruttamento complessivo sia massimo. Ciò a fronte del ricatto di non collocarsi lì ma andare dal secondo migliore e via dicendo.

L’immigrazione, dunque la resa in condizione mobile anche del lavoro, adempie precisamente questa funzione; a questo punto il capitale può generare ovunque le desiderate condizioni di inflazione (e quindi debolezza) del fattore che gli manca per valorizzarsi.

Si tratta di un meccanismo ovvio e di semplicissima e materiale geometria, all’opera da secoli e del tutto noto a Marx:

«Il progresso industriale che segue la marcia dell’accumulazione, non soltanto riduce sempre più il numero degli operai necessari per mettere in moto una massa crescente di mezzi di produzione, aumenta nello stesso tempo la quantità di lavoro che l’operaio individuale deve fornire. Nella misura in cui esso sviluppa le potenzialità produttive del lavoro e fa dunque ottenere più prodotti da meno lavoro, il sistema capitalista sviluppa anche i mezzi per ottenere più lavoro dal salariato, sia prolungando la giornata lavorativa, sia aumentando l’intensità del suo lavoro, o ancora aumentando in apparenza il numero dei lavoratori impiegati rimpiazzando una forza superiore e più cara con più forze inferiori e meno care, l’uomo con la donna, l’adulto con l’adolescente e il bambino, uno yankee con tre cinesi. Ecco diversi metodi per diminuire la domanda di lavoro e rendere l’offerta sovrabbondante, in una parola per fabbricare una sovrappopolazione. … L’eccesso di lavoro imposto alla frazione della classe salariata che si trova in servizio attivo ingrossa i ranghi della riserva aumentandone la pressione che quest’ultima esercita sulla prima, forzandola a subire più docilmente il comando del capitale» (Il Capitale, Libro, I, 7,25)

Questo docile comando del capitale (che, giova ricordarlo, non è persona ma meccanica) trasmette, attraverso la connessione indotta dai flussi di merci, denaro e persone (e, perché no, armi), i suoi effetti di corruzione attraverso la razionalizzazione e la divisione tra deboli. Questa corruzione si manifesta sia nei luoghi di estrazione sia in quelli di ricollocamento, dunque bisogna evitare entrambi gli errori: quello di considerare che se la lotta tra poveri favorisce lo sfruttamento degli uni e degli altri, allora bisogna negare che ci sia competizione, e quello di reagire solo difendendosi dai poveri più poveri.

Trovare un corso di azione non è facile, e per farlo abbiamo bisogno delle più rilevanti forze che siamo in grado di mettere in campo e dello Stato. Dobbiamo definire la nostra responsabilità, verso noi stessi e verso l’umano.

 
Samir Amin

L’economista marxista Samir Amin, in “La crisi”, del 2009, sottolinea la necessità di combattere quella tendenza intrinseca del capitalismo, ovvero del meccanismo di creazione del valore come differenziazione ed accumulazione, che crea periferie, schiacciandole. La macchina produttiva fa dell’uomo e della natura risorse, costringendolo nel tempo lineare e razionalizzato, misurabile, della scienza e con ciò ad alienarlo (si veda anche Lohoff, qui). Amin, già nel testo del 1973, “Lo sviluppo ineguale”, sostiene che in fondo il modo di produzione capitalista, che è interpretato come una forma storica creatasi in occidente in un contesto particolarmente predatorio, e di qui dispiegatasi nel resto del mondo travolgendo altre forme di organizzazione sociale (tra le quali le promettenti forme di protocapitalismo orientali, più lente e molto meno individualiste), lungi dall’essere una necessità storica (si può leggere su questo anche l’ultimo Marx) esprime invece una forma di razionalità specifica, connaturata ai suoi propri rapporti sociali ma anche limitata da questi. Le caratteristiche essenziali del modo di produzione capitalista (la generalizzazione della “forma-merce”, l’assunzione di tale forma da parte della “forza-lavoro”, quindi la reificazione e la proletarizzazione dell’uomo fatto produttore di merci, la finalizzazione ad essa delle attrezzature produttive tutte), si ritrovano peraltro intatte anche in molte forme di esperienza socialista reale, che è quindi un “capitalismo senza capitalisti”.

In altre parole, se entro il modo di produzione capitalista, fino a che si resta entro la sua logica, appare alla fine comunque razionale, e quindi invincibile, il calcolo economico e la competizione, con essa diventano anche inevitabili i rapporti sociali che esso determina (o meglio, che lo fondano); con la sua logica viene anche una specifica forma di gerarchia sociale. Comprendendo il capitalismo, invece, come figura storica (e non sopra-storica) diventa possibile accedere ad un piano di critica più profondo. Il calcolo economico, indiscutibile sul piano della valorizzazione del valore (e quindi della sua accumulazione, nel contesto dei rapporti sociali dati), diventa irrazionale se si tiene al centro il principio di una altra socialità: se la ricerca dell’autonomia porta a porre al centro la natura e la società tutta. Il calcolo economico, come scrive nel 1973 Amin, diventa allora riconoscibile come “irrazionale dal punto di vista sociale”.

Allora come si esce dalla trappola dell’intreccio delle due “economie politiche” (che possono anche essere scalate nel rapporto intraeuropeo tra paesi ‘arretrati’ come il nostro e ‘locomotive’ come la Germania, che estrae e reinserisce a fini di disciplinamento le nostre “risorse umane”)? Ovvero dalla trappola del sottosviluppo che si proietta su tutto il pianeta? La condizione per uscire dalle condizioni di “sottosviluppo” (ovvero da forme di organizzazione sociale, prima che economiche, rese subalterne e funzionalizzate da una logica esterna nella quale possono solo perdere sempre), è dunque necessariamente di uscire anche dalla “mondializzazione capitalistica”. Dove è il secondo termine ad essere qualificante: di “sganciarsi”, dunque.

Ma una parte non secondaria dello “sganciamento” è concettuale: riconoscere che l’illuminismo, con tutti i suoi meriti che non si negano, è anche il progetto di instaurare il capitalismo. Precisamente di insediare, al posto delle forme sociali precedenti, ormai disfunzionali (diagnosi che, come ovvio, autori come Burke, De Maistre ed altri contestano), una nuova società, fondata sulla ragione, anziché sulle consuetudini sociali e le forme di vita consolidate e immersive; una società capace di determinare in sé l’emancipazione dell’individuo. Individuo che quindi deve essere libero di operare, nella cornice di leggi, nel “modo economico” (ovvero entro l’ambiente competitivo dei “mercati”) e di scegliere attraverso la forma politica della democrazia (anche essa individuale, in qualche modo nella forma di un “mercato politico”). Ma come “i due versanti del progetto sono entrambi legittimati ricorrendo alla Ragione”, così questo si autodefinisce come “instaurazione di una Ragione trans-storica e definitiva – la fine della storia, dopo una preistoria priva di ragione” (Amin, p.77). Questa è la radice ideologica della rivoluzione borghese dalla quale anche i padri del marxismo (in particolare quelli che camminano nelle orme di Engels) hanno fatto fatica a vedere, e quindi a liberarsene (nell’unico modo in cui ci si libera di una idea: capirla).

Veniamo ora al punto che ci consentirà di rileggere la discussione con Buffagni in modo diverso: proprio per Samir Amin parte della rivoluzione deve interessare il mondo tradizionale agricolo, nel quale è impegnato ancora la gran parte dell’umanità (e la cui distruzione provoca le ondate migratorie). Se si guarda con attenzione si vede che l’agricoltura industrializzata del nord attiva un meccanismo di drenaggio strutturale, per il quale i profitti del capitale impiegato dagli agricoltori vengono sistematicamente intercettati dai segmenti dominanti del capitalismo industriale (la rete distributiva e di trasformazione) e finanziario (tramite il meccanismo del debito), situati necessariamente a monte, invece l’agricoltura povera del sud resta intrappolata in ancora più aspre condizioni di dominazione (dal capitale internazionale), e tanto più si modernizza tanto più espelle individui ormai inutili.

Ancora il subcomandante Marcos:

“La IV Guerra Mondiale sul terreno rurale, per esempio, produce questo effetto. La modernizzazione rurale, che i mercati finanziari esigono, punta a incrementare la produttività agricola, però quel che ottiene è distruggere le relazioni sociali ed economiche tradizionali. Risultato: esodo massiccio dai campi alle città. Sì, come in una guerra. Intanto, nelle zone urbane si satura il mercato del lavoro e la distribuzione diseguale del reddito è la ‘giustizia’ che spetta a coloro che cercano migliori condizioni di vita”.

Alla fine l’auspicata, dai fautori dello sviluppo, modernizzazione accelerata dell’agricoltura del sud creerebbe quindi, nel medio termine, eserciti immani di “inutili” come effetto della semplice logica propria della valorizzazione. Gli ‘inutili’ saranno però anche sradicati culturalmente, e costretti violentemente entro una logica del valore che non comprendono.

Dunque se bisogna che lo sviluppo (in quanto ‘sociale’ ed ‘umano’, e non ‘economico’) sia inclusivo e non escludente, bisogna anche che a lungo sopravviva un’economia contadina effettiva, cosiddetta “di sussistenza”, i cui rapporti con “i mercati” restino protetti e regolati. La prima forma di rivoluzione in molte parti del mondo è dunque il diritto all’accesso alla terra (anche superando le forme gerarchiche tradizionali, rivolte alla creazione di élite estrattive più che tributarie). Per tornare all’esempio della Nigeria, il più ricco paese africano (soggetto come tutti alle dinamiche estrattive del capitalismo contemporaneo), e quello che tutto sommato dalla decolonizzazione ad oggi ha conservato la sua unità politica, le risorse minerarie e la connessione con l’economia internazionale passano entrambe a vantaggio del sud cristiano, lasciando isolato il nord mussulmano nel quale opera il Boko Haram e dal quale muovono due milioni e mezzo di sfollati, con quindicimila richieste di asilo in Italia nel 2015 e una tratta di giovani donne molto ben organizzata. Le rotte nigeriane (vedi qui) partono dai porti costieri, hanno un nodo nella città del nord Kano (4 ml di abitanti), e di lì transitano ad Agadez, nel basso Sahara, di qui in tre tappe si arriva alla città-prigione libica di Sabha e infine a Tripoli. La politica economica del governo nigeriano è orientata agli investimenti stranieri, concentrati su industrie di esportazione (anche verso il resto del continente) ed una importazione interamente rivolta ai consumi distintivi di imprenditori, mercanti, alta burocrazia. Il petrolio (che vale il 90% delle esportazioni, e nel quale opera l’ENI) ha determinato la distruzione ambientale di vaste zone e l’incremento dei prezzi con conseguente esodo rurale e concentrazione di immense masse in slums suburbani. Risultano al 2010 il 20% degli addetti al settore primario (ca 40 milioni) e il 10% di disoccupazione maschile (50% femminile).

Si tratta quindi di una sfida complessa e multidimensionale, per la quale bisogna fare bene attenzione a non confondere “cosmopolitismo” (borghese) con “internazionalismo” (delle lotte nelle condizioni locali). Cioè di non perdere di vista la logica dell’uniformazione gerarchica, sotto un’unica Ragione (quella della legge del valore), propria di una oligarchia che esercita una sorta di “imperialismo collettivo”, la cui meccanica si nutre di una spontanea solidarietà tra frammenti “nazionali” che gestiscono un sistema mondiale di fatto.

Ma questa dinamica, dell’intreccio tra due ‘economie politiche’ nelle quali gli uomini vengono estratti e funzionalizzati alla logica della valorizzazione astratta resta strettamente connessa con le infrastrutture concettuali della modernità, in cui il loro “lavoro concreto” si fa “astratto” e ricondotto a metriche che espellono, non trovandovi più posto, le altre dimensioni della vita, riducendole o colonizzandole. Tra queste il tempo astratto, lineare ed omogeneo, e il relativo spazio. Si tratta di vere e proprie infrastrutture concettuali messe a punto, in un processo coestensivo alla trasformazione della società e l’estendersi delle reti commerciali e di capitale, e delle relative tecniche, che sono state messe a punto nella lunga evoluzione della rivoluzione scientifica, tra il 1500 ed il 1700. Da allora il tempo che conta è quello misurabile e la misura è in esatto rapporto con la produzione di merci e con la possibilità del salario e del profitto.

Ogni lavoro, sempre e di chiunque, è quindi la riduzione del tempo ad una quantità puramente astratta e reificata di tempo speso, che rende scambiabili tra di loro i relativi prodotti. Cioè il ‘lavoro’ in quanto astrazione forma la sostanza del valore, nella misura i cui esso incorpora nel suo stesso concetto la misura nel tempo astratto. In altre parole, il lavoro non crea il valore in modo ovvio e banale, come il panettiere fa il pane in modo tale che il cumulo di pane finisca per rappresentare, in rei, il lavoro ormai trascorso, dunque “morto”; al contrario, misurare il pane come prodotto di un “tot” di lavoro, determinando rispetto ad esso il suo valore, presuppone quella che Lohoff chiama “l’astrazione di un’astrazione”: l’esistenza, cioè, di un concetto di tempo, ordinato, astratto e lineare, che separa la vita stessa in sfere distinte, e che sarebbe stato inattingibile per una persona prima della modernità. Non era ‘lavoro’ nel nostro senso quel che si svolgeva, ma parte inseparabile degli obblighi, delle relazioni e degli affetti, che costituiva la persona stessa. Parte, cioè, del suo ruolo nel mondo; era, come dice: intimamente legato alla totalità della sua esistenza (si può leggere in proposito “La nozione di persona”, di Marcel Mauss).

Ora, la tesi di Buffagni è, in fondo, questa: che le persone, dei criminali certamente ma anche degli alienati perché incapaci di sopportare la reificazione delle loro vite, che hanno condotto l’azione orrenda di Macerata si possano interpretare come disadattati alla forma di secolarizzazione che viene imposta dalla nostra società (anche nella ‘economia politica dell’emigrazione’, anche qui, dalla quale sono fuggiti, per ricadere in quella ‘dell’immigrazione’). E che la loro rozza reazione sia di secolarizzare malamente la loro cultura, piegandone i riti alle esigenze pervertite che trovano nell’oggi.

Sia vero o meno che ciò che è fattualmente accaduto a Macerata corrisponda a questa ipotesi, essa è in linea generale possibile.

Quel che dunque nel dialogo con la lettura del fatto come emergere di un profondo tenebroso non domesticato (sia nel criminale nigeriano sia nell’italiano), e come un fallimento della cultura e delle istituzioni, di Buffagni, mi pare quindi da rimarcare è che può esservi incluso il fatto che l’uomo sfugge al razionale e si ancora nei riti. L’uomo è molto di più, come dice Sahlins; e pensare altrimenti è il “grosso sbaglio” dell’idea occidentale di natura umana. In altre parole, con i poveri mezzi a disposizione i disgraziati attori della vicenda urlano che ci sono dei nessi più larghi che li costituiscono, che loro guardano e si riconoscono, ovvero fondano la loro vita, in un cosmo più ampio. La perversione dei criminali nigeriani è di immaginare mezzi creati in un contesto animista per ottenere obiettivi che solo l’adattamento alla metrica del valore occidentale può dare, e di forzare per questo i mezzi, trascinandoli fuori del loro senso. La perversione del criminale italiano è di capire il gesto dei primi come lesione di una immaginaria purezza, e di ricondurla a simboli per i quali spendere sangue.

È qui che si inseriva la mia replica a Buffagni: il radicale altro che potrebbe essere incluso nei fatti di Macerata è che l’uomo sfugge al destino di essere completamente sussunto nella tecnica e per essa nella creazione di valore del capitalismo. Nella riduzione del mondo ad oggetti e di se stessi ad erogatori, secondo metriche lineari, di ‘lavoro’ e per questo di ‘valore’. Inoltre che questo enorme risultato è provocato da uno schermare e disincantare il mondo che ha richiesto secoli e non è mai del tutto riuscito. L’estrazione violenta di uomini e donne da mondi ancora non completamente incorporati nell’occidente, mondi ‘arretrati’ e per questo deboli e periferici, rende quindi in contatto dentro la ‘gabbia d’acciaio’ della modernità, radicamenti diversi.

È un tema davvero difficile, con il quale si sta misurando anche la filosofia più specialistica (abbiamo letto, ad esempio, Habermas in “Verbalizzare il sacro”): come scrive il grande filosofo tedesco la religione, tutte le forme rituali, sono in qualche modo dei contrafforti, di socialità prediscorsiva, davanti al rischio di costringere tutto l’umano entro l’oggettivazione scientista e la razionalità strumentale e per questo funzionale ai “mercati”. Questi rischiano alla fine di disseminare un mondo di naufraghi disperatamente orfani e incapaci delle più elementari prestazioni di solidarietà e reciproco riconoscimento che sono indispensabili anche a fondare quella che chiama la normatività post-metafisica: il riconoscimento reciproco come persone capaci di azione e volontà autonome, in linea di principio in grado di scegliersi insieme il destino nella forma dell’autolegislazione.

In altre parole, e più semplici, senza conservare delle fonti autonome dalla ragione funzionale (che si riconduce necessariamente alla logica schiacciante della valorizzazione) anche la democrazia finisce per essere incorporata come tecnica dall’economico e ridotta a vuoto involucro. È, più o meno, ciò che accade al progetto europeo.

Nella risposta a Buffagni ripercorrevo quindi la storia, sommariamente, della riduzione del reale al numerabile ed alla legalità scientifica. Ovvero, come scriveva Koyrè l’espulsione dalla legalità scientifica di tutti i ragionamenti e delle esperienze basate su concetti come: perfezione, armonia, significato, fine.

Non si tratta però, come teme Galati di rifiutare la scienza, nessuno potrebbe farne a meno e comunque nemmeno vorremmo. Si tratta invece di sfuggire anche all’inconsapevole religione del capitalismo (Benjamin, “Il capitalismo come religione”) che disgrega tutte le altre, sostituendole con pallidi feticci.

Un modo per diventare sensibili alle alternative ed a ciò che ci sta succedendo sotto gli occhi (unitamente ai suoi costi umani) è quindi di connettere il discorso sulla disgregazione interna della società africana per effetto della ‘seconda secolarizzazione’, quella giovane, indotta dalla ferrea logica del capitale internazionale alla prima, ‘quella vecchia’, che allunga i suoi tentacoli.

Che cosa fare?

Serve un vasto progetto di scala internazionale; connesso con politiche industriali a guida pubblica e non di mercato, che rovescino la logica dello sviluppo che sfrutta la lotta tra poveri e che costantemente riadattino verso il lavoro povero la composizione organica del capitale; una logica, in grado di orientare anche lo sviluppo tecnologico, che faccia uso di opportuna repressione finanziaria per creare condizioni di scarsità invertite, nelle quali non sia il capitale a potersi spostare liberamente ed indefinitamente scegliendosi dallo scaffale i lavoratori di volta in volta più consoni, al minor prezzo, ma il lavoro a trovarsi in condizioni di scarsità relativa e quindi attivare una dinamica ascendente (maggiore costo del lavoro, investimenti, aumento della produttività) che possa favorire il riposizionamento dei sistemi-paese su segmenti di valore e ricchezza superiori. In questa dinamica potrebbe darsi anche il miracolo che nuova forza-lavoro (che, però, sono anche persone, con la loro cultura) progressivamente sposti verso l’alto quella esistente, invece di rigettarla nella disoccupazione, la rabbia e l’intolleranza. Ma questo schema prevedrebbe anche autonomia, dunque di fuoriuscire dallo schema imperialista europeo e da quello, più in generale, di quella che Amin chiama “la triade” (USA, Giappone, Europa), eventualmente con i suoi soci minori.

In altre parole, bisogna rimettere radicalmente in questione le “quattro libertà” del progetto europeo. Che sono oggettivamente preordinate alla meccanica, incorporata nella logica del capitale e non necessariamente voluta o progettata da alcuno, della creazione costante di ‘eserciti di riserva’ pronti a prendere il posto dei renitenti locali (ovvero di chi avanzasse l’assurda pretesa di trarre dal suo lavoro quanto basta ad una vita sicura e dignitosa).

L’incastro delle due “economie politiche” osservate (e della terza, quella dell’”emigrazione” dai paesi semiperiferici come i nostri ed i paesi “core”) nella dinamica “emigrazione/immigrazione/emigrazione” sta infatti devastando il mondo e sta facendo saltare ogni possibile patto sociale, ed in modo necessario in quanto si tratta di un meccanismo strutturale intrinseco alla dinamica necessaria del capitale.

L’anziano Marx si pose questo problema nel suo dialogo, che prese diversi anni della sua vita, con i populisti russi, di cui l’esempio più noto è la lettera a Vera Zasulic e quella alla «Otecestvennye Zapiski», che è del 1877. Davanti al problema della conservazione della obšcina, ovvero della forma tradizionale di vita (che, comunque aveva circa cento anni di vita, essendo scaturita da una riforma delle forme medioevali) che prevedeva proprietà collettiva e strutture comunitarie (come oggi in alcune aree agricole asiatiche e africane). Marx resta profondamente incerto, alla fine risolvendosi verso il tentativo di tenere insieme individualità (frutto della modernità) e forme comunitarie. Questo Marx, scrive anche la prefazione all’edizione russa del “Manifesto”, nel 1882, che “l’odierna proprietà comune rurale russa potrà servire di punto di partenza per un’evoluzione comunista”. Ovvero scrive che la comunità rurale, questa forma tradizionale, non moderna, non progressiva nel senso comune del termine, questa forma che è un residuo “della originaria proprietà comune della terra” (residuo delle forme premoderne, dunque), può passare “direttamente” alla forma più “alta” del socialismo. Può passarci per un movimento interno, guidato dalla prassi rivoluzionaria ma anche dalla continuità, può unire conservazione e rivoluzione.

Elaborando un’idea che viene ripresa da Samir Amin (ed in modo esplicito) il Marx nel suo penultimo anno di vita (un anno di intensi studi storici ed antropologici), dice insomma che la forma comunistica, più “alta”, può manifestarsi grazie alla disponibilità di abilità, raziocinio, consuetudini e sapienza e tecnica, ad avere tempo (quel che non avrà), evitando di percorrere la stessa drammatica strada che l’occidente ha seguito. La strada della modernizzazione capitalistica non è un destino inevitabile, via proletarizzazione ed estensione del modello della ‘città’, dello sfruttamento della città nei confronti della campagna.

L’ipotesi che propone Marx per risolvere il dilemma è che, senza passare sotto le forche caudine del sistema capitalistico, i contadini ne potrebbero utilizzare ed integrare le acquisizioni positive. Così come non è necessario superare tutte le fasi tecnologiche (dal telaio meccanico, a quello a vapore, poi ai bastimenti a vapore, poi le ferrovie, e via dicendo) od organizzative (prima le fiere, poi le borse merci, poi le banche, le società per azioni, …) per impostare un sistema economico avendole ormai davanti pronte tutte.

Questo è il senso, a ben vedere, in cui si capisce l’ultima frase della prefazione del 1882:

“la sola risposta oggi possibile [al problema] è questa: se la rivoluzione russa servirà di segnale a una rivoluzione operaia in occidente, in modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà comune rurale russa potrà servire di punto di partenza per un’evoluzione comunista”.

Se la rivoluzione, invece, in Russia resterà sola, costretta a competere con le potenze capitaliste, in termini di confronto geopolitico e produttivo, non avremo “il completamento” reciproco e la comune potrebbe essere schiacciata (come fu, dalla collettivizzazione).

Non è andata affatto così, anche perché Engels, quando Marx andrà a Highgate, riporterà la barra al centro, e riaffermerà la sua versione del materialismo storico, oltre i dubbi e le sfumature del “vecchio Nick”.

Potremmo, almeno noi, tentare di essere meno schematici?

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