I MANIFESTI NEMICI _ REPLICA DI ROBERTO BUFFAGNI AD ALESSANDRO VISALLI_ULTIMA PARTE

I manifesti nemici

Replica ad Alessandro Visalli – seconda e ultima parte

1a PARTE   http://italiaeilmondo.com/2017/11/07/i-manifesti-nemici-di-roberto-buffagni/

In basso a destra della pagina principale del sito, nella categoria dossier, alla voce “Europa Unione Europea” sono disponibili gli articoli sin qui prodotti sull’argomento

 

Tocco qui il punto della Dichiarazione di Parigi che Visalli definisce “una scelta che proprio non posso condividere.” Riporto per esteso il brano criticato da Visalli sia per comodità del lettore, al quale sono stati presentati i testi in esame qualche settimana fa, sia perché il punto è importante.

Qual è la scelta che Visalli trova inaccettabile? Così la descrive il brano della Dichiarazione di Parigi citato e commentato dal nostro interlocutore: (sottolineature mie)

Dobbiamo ripristinare la dignità sociale che hanno i ruoli specifici. I genitori, gl’insegnanti e i professori hanno il dovere di formare coloro che sono affidati alle loro cure. Dobbiamo resistere al culto della competenza che s’impone a spese della sapienza, del garbo e della ricerca di una vita colta. L’Europa non conoscerà alcun rinnovamento senza il rifiuto deciso dell’egualitarismo esagerato e della riduzione del sapere a conoscenza tecnica. Noi abbracciamo con favore le conquiste politiche dell’età moderna. Ogni uomo e ogni donna debbono avere parità di voto. I diritti fondamentali debbono essere protetti. Ma una democrazia sana esige gerarchie sociali e culturali che incoraggino il perseguimento dell’eccellenza e che rendano onore a coloro che servono il bene comune. Dobbiamo restaurare il senso della grandezza spirituale e onorarlo in modo che la nostra civiltà possa contrastare il potere crescente della mera ricchezza da un lato e dell’intrattenimento triviale dall’altro…Non possiamo consentire che una falsa idea di libertà impedisca l’uso prudente del diritto per scoraggiare il vizio. Dobbiamo perdonare la debolezza umana, ma l’Europa non può prosperare senza restaurare l’aspirazione comune alla rettitudine e all’eccellenza umana. La cultura della dignità sgorga dal decoro e dall’adempimento dei doveri che competono al nostro stato sociale. Dobbiamo ricuperare il rispetto reciproco fra le classi sociali che caratterizza una società che dà valore ai contributi di tutti.”.

Visalli critica così: (sottolineature mie) “Qui comincia a divergere quindi la mia sensibilità: pur comprendendole, parole come “gerarchie sociali e culturali” e “senso della grandezza spirituale”, riverberano troppo da vicino il grande tema dei privilegi di rango, la società divisa in caste e ordini, quella che De Benoist in “Identità e comunità” chiama “l’identità di filiazione” della società tradizionale. Una società nella quale prevale la lealtà sull’interiorità e l’emancipazione. Ovvero una concezione troppo essenzialistica dell’identità, che non valuta abbastanza la sua natura dinamica, certamente dialogica, insieme individuale e collettiva. La paura dell’anomia, pur giustificata, non può dirigere nella direzione di una simmetrica indeterminazione dell’io, sciolto nell’appartenenza…. Una scelta che proprio non posso condividere. Usare concetti come “i doveri che competono allo stato”, e “rispetto tra le classi sociali”, appena seminascosto dal riverbero dell’ideale classico della eguaglianza come dare l’eguale all’eguale, nella formula “dare valore ai contributi di tutti”, significa andare molto oltre la giustificata critica del lato dispotico della ragione. Implica sposare direttamente l’ideale di restaurazione che fu della linea genealogica prima richiamata.

Replico brevemente alla critica di Visalli.

1) Le classi e i ceti, cioè a dire la diseguaglianza sociale, sono una regolarità storica permanente. La diseguaglianza sociale può affermarsi nella realtà effettuale in molti modi; e in molti modi può essere legittimata. Le distanze gerarchiche possono essere più o meno grandi e più o meno rigide, le asimmetrie di potenza maggiori o minori, ma la diseguaglianza sociale resta un dato storico permanente e universale.

2) E’ possibile e desiderabile, un’azione politica tendente a eliminare la diseguaglianza sociale? Si badi bene: eliminare, non ridurre, o modificare ricostruendola su basi anche radicalmente diverse?

3) No. L’eliminazione della diseguaglianza sociale è impossibile, e dunque indesiderabile, perché produce effetti enantiodromici. La dinamica è la seguente: a) per eliminare la diseguaglianza sociale è necessario intervenire sulla realtà sociale non egualitaria b) per intervenire efficacemente sulla realtà sociale è indispensabile il potere c) il potere non può essere esercitato da tutti, sennò l’eguaglianza ci sarebbe già d) il potere viene invece esercitato da alcuni: come sempre il potere, che è per sua natura un differenziale di potenza, + potente/- potente d) risultato: più eguaglianza sociale si vuole ottenere, più dispotismo politico risulta necessario impiegare e) alla fine delle operazioni, si ottiene molta eguaglianza per i molti, molto potere per i pochi.

4) Questa dinamica paradossale ed enantiodromica è la caratteristica più vistosa di quel che Eric Voegelin chiamò “gnosticismo politico”[1], cioè a dire la trasposizione sul piano storico, immanente, delle categorie escatologiche cristiane. La trasposizione è motivata dalla reazione patologica a un’esperienza universalmente umana: l’orrore di fronte all’esistenza – per esempio, l’orrore di fronte all’ingiustizia sociale, che può assumere forme veramente atroci – e il desiderio di fuggirne. Il cristianesimo sdivinizza, “disincanta” il mondo naturale e storico. Quando la fede cristiana nella trascendenza si eclissa, l’angoscioso vuoto di senso che si spalanca nel mondo viene riempito dalle gnosi: che prendono forma politica qualora le società non trovino più sufficiente legittimazione nel loro ethos tradizionale, e sentano il bisogno di un’efficace, coesiva teologia civile. Lo gnosticismo politico non commette soltanto un errore teorico in merito al significato dell’eschaton cristiano. In conformità a questo errore, le ideologie gnostiche e i movimenti che le traducono in azione politica interpretano una concreta società e l’ordine che la regge come un eschaton; e dando una lettura escatologica di concreti problemi sociali e politici, fraintendono la struttura della realtà immanente: cioè sognano quando sarebbe indispensabile essere ben desti. In particolare, il sogno gnostico oscura e rimuove la più antica acquisizione della saggezza umana: che ogni cosa sotto il sole ha un inizio e una fine, ed è sottoposta al ciclo di crescita e decadenza; che insomma tutto, nel mondo immanente, è governato dal limite.

5) Gli errori in merito alla struttura del reale hanno serie conseguenze pratiche, che spesso si manifestano in forma paradossale: come nell’esempio succitato, in cui perseguendo l’eliminazione della diseguaglianza sociale si ottiene il dispotismo; o come nel caso dell’immigrazione di massa, nel quale perseguendo l’accoglienza umanitaria indiscriminata degli stranieri si ottiene non soltanto il rischio di collasso delle strutture sociali, ma addirittura l’insorgenza del razzismo.

6) Se l’errore in merito alla struttura del reale consegue a un’ideologia gnostica, l’accecamento di fronte alla realtà diventa però una questione di principio. Immediata conseguenza: lo gnostico vuole ottenere un effetto, e ne ottiene un altro diametralmente opposto. Del baratro tra intenzione e risultato, però, lo gnostico non incolperà mai se stesso e il suo sogno: incolperà sempre gli altri, o la società nel suo insieme, che non si comportano secondo le regole in vigore nel suo profetico mondo di sogno.

7) Lo gnosticismo politico non si manifesta in una sola forma. Ieri si è manifestato in forma di comunismo, nazismo, puritanesimo, catarismo, etc. Oggi si manifesta in forma di progressismo, di “liberal-democrazia” mondialista.

8) Si può, e si deve, discutere a lungo e a fondo, dissentendo anche con asprezza, in merito ai contenuti, alle forme, alle ragioni di eguaglianza e gerarchia sociali. Il dibattito teorico, e il conflitto pratico, sono non soltanto inevitabili ma benefici: a patto che dibattito e conflitto non si si propongano obiettivi immaginari ma reali, e dunque limitati (può essere limitato anche un conflitto armato).

9) E’ un obiettivo immaginario e pertanto distruttivo ed enantiodromico l’abolizione delle diseguaglianze sociali, è un obiettivo reale e pertanto costruttivamente perseguibile una loro diminuzione, e/o una loro diversa composizione e legittimazione. Uno dei dati di realtà da tenere in conto è il conflitto dei valori: libertà/sicurezza, eccellenza/eguaglianza, democrazia/capacità decisionale, etc. In quest’ultimo caso, l’esperienza storica suggerisce che la democrazia in quanto tale non basta affatto a garantire una saggia conduzione della cosa pubblica, e che una democrazia dà migliori risultati quando la guidi una classe dirigente coesa da un ethos aristocratico; che sia capace, ad esempio, di compromesso politico, di tacito accordo in merito all’interesse nazionale, di condividere stile e cultura al di sopra delle inimicizie politiche. Nella cultura politica del repubblicanesimo antico e moderno si possono trovare molte utili indicazioni in merito alla funzione positiva e costruttiva della compresenza conflittuale di istituzioni che si rifanno a principi diversi: monarchico (esecutivo forte), aristocratico (senato), democratico (suffragio universale).

Per concludere. Non tocco, qui, il tema “quali eguaglianze, quali gerarchie siano desiderabili e perché”. Ne potremo discutere, con Visalli e con altri, in seguito. Quel che mi preme, per ora, è indicare il contesto entro il quale questa discussione mi pare fruttuosa: che non è l’antitesi radicale e principiale eguaglianza/gerarchia, progresso/reazione; ma le forme e i contenuti concreti delle eguaglianze, delle differenze, delle gerarchie possibili.

[1] Per una trattazione sintetica, v. Eric Voegelin, «Modernity without Restraint», in Collected Works of E.V., vol. V, Columbia and London: University of Missouri Press, 2000.

 

MACRON, il grandiloquente – a cura di Giuseppe Germinario

Un vecchio ministro degli esteri e attualmente saggista, Hubert Védrine, ha qualificato la politica estera della Francia, in particolare quella adottata da Sarkozy e Holland, come “grandeloquente” e ripetitiva. Dietro proclami ambiziosi, pretese di condizionare e trasformare dall’interno il funzionamento dei sistemi di alleanza occidentali, si cela un velleitarismo che sta trascinando progressivamente il paese in una condizione umiliante di subordinazione politica e fallimentare nel perseguimento degli interessi nazionali. Il suo oltranzismo specie nelle politiche mediorientali, l’hanno spiazzata ridicolmente rispetto alle giravolte della diplomazia americana; la sua eccessiva esposizione a favore dei paesi arabi della penisola saudita hanno quasi azzerato la capacità di mediazione in quell’area in cambio di mere promesse di contratti commerciali, in gran parte inevase, e di una infiltrazione pericolosa e destabilizzante di quei regimi nella formazione sociale della Francia; il suo interventismo nell’Africa Subsahariana, con mezzi inadeguati e senza chiari obbiettivi politici, sta riaprendo la strada in realtà al nuovo interventismo americano in quell’area sotto la beffarda copertura del soccorso fraterno. Una nuova versione de “arrivano i nostri”. Macron, a dispetto della novità della Presidenza Trump, sembra proseguire su questa falsariga, trascinando la Francia a sacrificare i residui “atout”, tuttora significativi, che le consentirebbero di assumere un ruolo più autonomo ed autorevole, senza neppure la discrezione e la riservatezza che contraddistingue la posizione similmente miserabile di paesi “fratelli” come l’Italia_ Germinario Giuseppe

Qui sotto il testo tradotto dell’interessante recensione di Jacques Sapir del libro dell’ ex Capo di Stato Maggiore de Villiers, dimissionato l’estate scorsa da Macron. https://www.les-crises.fr/russeurope-en-exil-servir-de-pierre-de-villiers/  Buona lettura

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“La pubblicazione del libro dell’ex Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, il generale Pierre de Villiers, Servir (pubblicato da Fayard) mercoledì 8 novembre è una sorta di evento. Il generale de Villiers, che è ricordato per essersi dimesso  dopo un conflitto con il capo dello Stato, ci dà la sua versione degli eventi che hanno portato alla sue dimissioni. Questa versione illumina anche sulla natura e le modalità di  rapporto che il presidente Emmanuel Macron intrattiene con le forze di difesa nazionale.

Innanzitutto, c’è l’aspetto relativamente eccezionale di questo libro. Le dimissioni del General de Villiers si sono verificate a metà luglio 2017. Quindi è una testimonianza “calda” quella che ci offre. Inoltre, è raro che un ex capo di stato maggiore tornasse così in fretta sull’argomento del conflitto con il Presidente. Non possiamo fare a meno di notare che, facendo così, il generale de Villiers assume una posizione politica nel dibattito.

Detto questo la forza della testimonianza non viene sminuita. Soprattutto dal momento che il generale de Villiers fa politica senza essere mai un politico. Nella Repubblica, secondo la formula dei Romani, “la resa delle armi alla toga”. È inoltre necessario che la toga, in altre parole l’autorità politica, adotti una posizione coerente. Ed è da questo punto di vista che l’autore del libro è parte. Sottolinea l’incoerenza tra la posizione e le scelte politiche e la loro traduzione nelle cifre di bilancio. Ad una lettura attenta del libro, è quindi chiaro che ha voluto fornire una testimonianza diretta sia ad agli alti ufficiali che al pubblico in generale, non tanto per giustificare sé stesso (e questo lo avrebbe potuto rendere ” politicante “) quanto per illuminare gli uni e gli altri riguardo l’importanza del dibattito sulla politica di bilancio della difesa e del conflitto, quindi, da lui sostenuto con le autorità civili,

Quale rimprovero dunque del Presidente della Repubblica al generale de Villiers? Solo per aver, in termini certamente rudi, illuminare la rappresentazione nazionale delle implicazioni delle scelte di bilancio. Il generale ha pertanto indicato, era suo dovere, davanti al Comitato Nazionale di Difesa, che i risparmi di 850 milioni di euro richiesti quest’anno alle Armi nell’ambito degli aggiustamenti di bilancio, pur in un contesto di restrizioni del bilancio generale, non erano accettabili o potrebbero compromettere lo sforzo richiesto alle forze armate.

Perché è importante sapere che il generale de Villiers non si esprime sulla questione degli orientamenti della politica di difesa. Come un buon repubblicano, egli ritiene che questa questione sia totalmente nel registro del potere politico. Per contro, egli si sente qualificato nel dire che, date le scelte fatte in materia di politica di difesa, il nuovo sforzo di risparmio chiesto al Ministero della Difesa avrebbe conseguenze disastrose, in particolare negli impegni all’estero delle forze armate.

Abbiamo tutti il diritto di pensare il contrario. Ma se il capo di Stato non informa la rappresentanza nazionale del suo punto di vista, chi lo farà?

Il libro del generale de Villiers pone pertanto un problema politico: quale grado di controllo parlamentare è disposto ad accettare sulla politica di difesa Emmanuel Macron? Infatti, secondo la Costituzione della Quinta Repubblica e secondo le prassi consolidate per oltre un secolo, se l’esecutivo decide (e il generale de Villiers non mette in discussione), esso è anche soggetto a controllo la parte del Parlamento. Tuttavia, affinché tale controllo non sia puramente formale, è necessario che i parlamentari siano adeguatamente informati della situazione e in particolare della coerenza tra gli obiettivi e i mezzi.

Pertanto, non può esserci alcuna aspettativa per un capo di Stato Maggiore a autolimitarsi a commentare o illustrare la politica di difesa. Il generale de Villiers ha ritenuto che fosse suo dovere informare la Rappresentanza Nazionale dell’incoerenza tra gli obbiettivi assunti e la riduzione dei mezzi finanziari. Così ha fatto e per questo è stato punito.

“La vera fedeltà consiste nel dire la verità al proprio capo ” , scrive il generale de Villiers in un libro privo di ogni acrimonia. Questo è uno dei grandi punti di forza di questo libro. Ora, il capo del generale de Villiers non è solo il Presidente della Repubblica, ma è anche il Parlamento. “La vera libertà è essere in grado di farlo, qualunque siano i rischi e le conseguenze (…) La vera obbedienza si prende gioco dell’obbedienza cieca. È l’obbedienza dell’amicizia “, scrive anche lui. Quindi si percepisce che c’era tra i due uomini se non l’amicizia, almeno il rispetto. E questo rende più incomprensibile il metodo scelto da Emmanuel Macron per reagire alle dichiarazioni, tutto sommato normali, del generale de Villiers.

Il metodo adottato da Emmanuel Macron comporta pertanto un problema politico maggiore. Avrebbe potuto convocare il Capo di Stato Maggiore, esprimere le proprie rimostranze, al limite chiedere – ha il potere di farlo – le sue dimissioni. Ha scelto di umiliarlo pubblicamente. Non può essere una scelta di circostanza; a questo livello è soprattutto una scelta politica. Ma per voler umiliare uno assume il rischio di isolarsi, di tagliarsi fuori dalle realtà. Che in definitiva porta implicitamente alla seguente domanda: è Emmanuel Macron in grado di compiere la missione di cui è stato investito dal suffragio universale?

È quindi necessario leggere attentamente le frasi scritte da Pierre de Villiers che non sono senza profondità. Si ripete, non si tratta di un proclama risentito, ma di una relazione. E, ciò che rivela gela il sangue. Queste frasi indirettamente spargono una luce cruda sul metodo di Emmanuel Macron come sul suo carattere.

Questo libro verrà letto, nel pubblico ma anche nell’esercito. Questo è certamente quello che vuole Pierre de Villiers. Possiamo quindi fare riferimento a esso. Quindi non saremo sorpresi se, filo per filo, riveli un Emmanuel Macron molto diverso dal giovane un po’ affettato che i media ci hanno venduto.

Jacques Sapir”

 

GLI USA VOGLIONO RIALLINEARE L’ARCHITETTURA DEL DOMINIO MONDIALE CON LA FORZA DELLE ARMI. (a cura di) Luigi Longo

GLI USA VOGLIONO RIALLINEARE L’ARCHITETTURA DEL DOMINIO MONDIALE CON LA FORZA DELLE ARMI.

(a cura di) Luigi Longo

 

La lettura dell’articolo di Federico Dezzani su Assalto all’Eurasia: la Corea del Nord è solo l’antipasto, apparso sul blog: www.federicodezzani.altervista.org il 26 ottobre m.s., è interessante perché fa riflettere sulle strategie di attacco a tutto mondo degli Stati Uniti d’America.

La prima riflessione. Gli USA minacciano ritorsioni contro la Corea del Nord perché si è dotata della prima bomba termonucleare per la difesa della propria indipendenza. Le minacce non riguardano tanto la Corea del Nord, quanto la Cina e la Russia (l’Heartland) perché osano mettere in discussione gli attuali equilibri statunitensi nell’area pacifica (per non parlare nell’area mediorientale e africana) e indebolire i nodi strategici del Rimland (che va dall’Europa all’estremo Oriente).

La seconda riflessione. L’Europa delle regioni, che avanza sulle rovine delle nazioni, renderà impossibile qualsiasi ruolo da protagonista, nelle fasi multicentrica e policentrica, sia delle nazioni sovrane sia di una futura Europa delle nazioni sovrane.

La terza riflessione. Gli USA vogliono evitare qualsiasi ipotetica alleanza tra la Cina (attuale potenza economica) e la Russia (attuale potenza militare) che possa mettere in discussione il loro dominio mondiale in declino, che essi rilanciano con la forza delle armi perché non accettano un mondo multicentrico. Questo, a prescindere dal conflitto interno tra i loro agenti strategici: la potenza imperiale americana nella rappresentazione formale che fa di se stessa, ha la guerra come forma privilegiata, se non addirittura unica, di attestazione della sua esistenza, oltre ad una missione speciale da compiere ed essere pertanto, l’unica nazione indispensabile del mondo (Progetto Messianico).

Non so se le potenze mondiali sono già delineate all’interno dello scontro tra Terra e Mare: i giochi sono aperti e la fase multicentrica sta delineando i centri delle potenze mondiali che saranno definite con le loro alleanze nella fase policentrica. Resta da capire bene le strategie e le percezioni del mondo della Cina sia in relazione alla Russia sia in relazione agli USA (senza dimenticare l’India).

Le relazioni cinesi e russe a livello mondiale, in questa fase, sono orientate rispettivamente l’una dalle sfere economico- finanziaria e politica, l’altra dalle sfere militare e politica: ciò è insufficiente per mettere in discussione l’egemonia statunitense. Quindi parlo di due potenze mondiali emergenti che si difendono dall’attacco degli USA e lottano per un mondo multicentrico nel rispetto delle proprie differenze.

L’Europa? Essa è uno spazio americanizzato e occupato da basi militari USA-NATO (qui la Nato è intesa prevalentemente come strumento militare dell’agire statunitense) e non sarà protagonista nelle diverse fasi della storia mondiale. E’ sempre più un continente in mano agli USA per le loro strategie di dominio.

 

 

ASSALTO ALL’EURASIA: LA COREA DEL NORD È SOLO L’ANTIPASTO

di Federico Dezzani

Crescono le tensioni tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti d’America: la determinazione di Pyongyang a sviluppare il proprio deterrente nucleare si scontra con la convinzione di Washington che l’atomica nordcoreana abbia una natura offensiva. È ormai chiaro che, qualsiasi amministrazione occupi la Casa Bianca, la strategia di fondo non cambia: la potenza marittima americana ed i suoi alleati mirano a circondare il blocco euroasiatico su ogni lato. L’arsenale atomico di Pyonyang è solo un pretesto per militarizzare la regione e contenere la potenza navale cinese. Un’eventuale attacco alla Nord Corea anticiperebbe soltanto una guerra già ben delineata: l’ennesimo scontro tra terra e mare.

 

L’Heartland (Cina e Russia), il Rimland (la Corea) e le potenze marittime (USA)

Marx ed Engels definivano “struttura” l’economia e il sistema produttivo, “sovrastruttura” la politica, la cultura e la religione. La storia universale sarebbe quindi, secondo i due filosofi tedeschi trapiantati a Londra, questione di lavoro e capitale. Sbagliarono e, probabilmente, furono anche consapevoli del loro errore. “Struttura” è la volontà di potenza degli Stati e la geopolitica, la scienza che studia questa volontà di potenza, è il miglior strumento per capire ed interpretare la storia. In particolare, la storia è basata sulla volontà del “mare” di sottomettere la “terra” e sull’opposto desiderio della “terra” di domare il “mare”. Atene contro Sparta, Cartagine contro Roma, i Saraceni contro Bisanzio, Olanda contro Spagna, Inghilterra contro Francia, Londra contro Berlino, Washington contro Mosca.

Di fronte a questo scontro plurisecolare, mosso da forze telluriche che trascendono il contingente, tutto è “sovrastruttura”: tutto è accessorio, superfluo, quasi scontato. Le ideologie, le religioni, le singole personalità politiche. Tutto si muove perché la terra ed il mare bramano la guerra, in attesa della battaglia finale (se mai verrà).

È più utile, per chi volesse capire lo scenario internazionale, lo studio di “The Geographical Pivot of History”, pubblicato nel 1904 da Halford John Mackinder che la lettura di tutta la stampa specializzata attuale. Mackinder, esponente di spicco della talassocrazia per eccellenza, il Regno Unito, osserva il mappamondo ed individua nel cuore dell’Eurasia, zona inaccessibile alle potenze marittime, “l’area pivot” del globo terrestre: quell’area che, se debitamente organizzata dal punto di vista militare, logistico, economico e sociale, può schiudere, per chi la controlla, l’egemonia mondiale. Mackinder, in particolare, osserva con timore la costruzione delle ferrovie russe, capaci di spostare merci e soldati nelle sconfinate pianure come navi sul mare. Guai, dice Mackinder, se la Russia si alleasse alla Germania. Con un’incredibile preveggenza, Mackinder, chiude il suo pensiero con uno scenario ancora più preoccupante: l’integrazione tra la Cina ed il retroterra russo.

Seguiranno due guerre mondiali, che consentiranno agli angloamericani di annichilire la Germania e insediarsi in Europa (NATO-CEE/UE) e in Oriente (CENTO e SEATO, poi sciolte).

Durante lo svolgimento della Seconda Guerra Mondiale, lo stratega olandese, naturalizzato americano, Nicholas J. Spykman (1893-1943), pubblica un’opera (America’s Strategy in World Politics) che vuole aggiornare ed integrare il lavoro di Mackinder, per adattarlo alla prossima realtà geopolitica: poco importa, dice Spykman, chi controlla l’Heartland (URSS e la Cina che diverrà presto comunista), l’importante è che le potenze marittime “contengano” il nemico, circondandolo con una serie di Stati-satelliti così di depotenziarlo. A fianco dell’Heartland, nasce così il “Rimland”, rappresentato da tutti quegli appigli (dall’Italia al Giappone, passando per l’India) con cui le talassocrazie possono aggrapparsi alla masse terrestre. Non è, in realtà, un pensiero nuovo: già Mackinder, infatti, aveva evidenziato l’importanza di queste “teste di ponte”, indispensabili per le potenze marittime. Tra le teste di ponte citate da Mackinder nel 1904… c’è anche la Corea!

Iosif Stalin, ben consapevole dell’importanza di questo lembo di terra lungo 950 km, piuttosto brullo ed inospitale, decide di sfrattare gli americani dal condominio che si è creato dopo la sconfitta del Giappone: sovietici ed americani, infatti, si incontrano al 38esimo parallelo ed ognuno, nella propria metà, ha installato un governo amico. All’alba del 25 giugno 1950, l’esercito nordcoreano attraversa il 38esimo parallelo, travolgendo le difese sudcoreane. Caduta Seul, il 30 giugno, il presidente Truman autorizza il generale Douglas MacArthur ad intervenire: comincia così la guerra che si protrarrà fino al 1953 e si concluderà con un sostanziale pareggio (il confine tra le due Coree rimane fissato al 38esimo parallelo), grazie al massiccio intervento della Cina. Il regime di Kim Il Sung (1912-1994) supererà la Guerra Fredda senza altri particolari colpi di scena, grazie al costante appoggio cinese.

Simpatico aneddoto: l’ex-agente del SISMI, Francesco Pazienza, incontra i nordcoreani negli anni ‘80 alle isole Seychelles, dove gestiscono il servizio informazioni del presidente Ti France René. Propongono a Pazienza di eliminare un agente CIA, di cittadinanza italiana, che gira per le isole facendo troppe domande: il suo nome è Antonio Di Pietro1.

Nel 1991 collassa l’URSS e le potenze marittime riprendono la loro marcia verso l’Heartland (allargamento ad est della NATO, Georgia, Asia Centrale, etc. etc.). In questo contesto, la Corea del Nord è una potenza ostile situata nella fascia intermedia, il suddetto Rimland: il suo destino dovrebbe essere lo stesso quello della Jugoslavia. L’amministrazione Clinton, che apre le porte del WTO della Cina, ha però scarso interesse a scatenare una guerra a poca distanza dall’area in cui le imprese americane stanno delocalizzando. L’amministrazione Bush valuta il cambio di regime nel 2003, ma il pantano iracheno raffredda l’ardore bellico di Donald Rumsfeld e soci.

Resta il fatto che qualsiasi Stato ostile agli USA e privo di arsenale atomico può essere rovesciato in qualsiasi momento: Pyongyang accelera quindi il proprio programma nucleare bellico, usando uranio locale, e nel 2006 effettua con successo il primo test atomico. Nel caos dell’Ucraina post-Euromaidan2 (2014), i nordcoreani acquistano i missili balistici SS-18; il 29 agosto 2017 lanciano il primo vettore che sorvola il Giappone per inabissarsi nel Pacifico; il 3 settembre 2017 testano la prima bomba termonucleare.

La Nord Corea è ora nel ristretto club atomico: dispone di un arsenale che, in teoria, dovrebbe dissuadere qualsiasi aggressore. Il celebre “deterrente nucleare”.

La storia finirebbe qui se, come però sottolineato in precedenza, la penisola coreana non fosse parte di quel “Rimland” con cui le potenze marittime circondano, contengono e, all’occorrenza, attacco “l’Heartland”: è proprio quest’ultimo, non la piccola Corea del Nord, che ossessiona le talassocrazie.

L’intero continente euroasiatico, dal Mar Meridionale Cinese al Mar Baltico, si sta coprendo di ferrovie ad alta velocità ed alta capacità, anno dopo anno. Cina e Russia conducono esercitazioni navali congiunte nel Pacifico come nel Mediterraneo. Gasdotti ed oleodotti attraversano i due Paesi. Pechino costruisce linee ferroviarie capaci di raggirare lo Stretto di Malacca (attraverso la Birmania) o di raggiungerlo in poche ore (attraverso la Malesia), indebolendo così la funzione di Singapore. “L’area pivot” di Mackinder non è mai stata così viva e dinamica, ponendo le talassocrazie di fronte ad un bivio: la capitolazione o l’attacco.

È in questa cornice che va collocata la tensione tra angloamericani e nordcoreani: poco importa a Washington dell’arsenale di Kim Jong-un, molto invece della crescente potenza navale cinese (nell’aprile del 2017 i cantieri di Dalian hanno varato la prima portaerei Made in China) e della cooperazione con quella russa. Sia Mosca che Pechino ne sono coscienti ed è per questo che a settembre hanno votato in sede ONU le sanzioni contro Pyongyang, sebbene edulcorate quanto basta da non portare il regime al collasso3: il nucleare nordcoreano è soltanto un pretesto utile alle talassocrazie per tentare di strangolare il blocco continentale.

Un comodo espediente per il dispiegamento dei missili THAAD in Sud Corea4, duramente contestato dalla Cina, per il riarmo del Giappone (che gioca oggi un ruolo identico al Giappone filo-britannico ed anti-cinese di inizio Novecento), per la riesumazione della SEATO: sono questi gli obbiettivi che interessano a Washington e Londra, resi possibili dall’arsenale atomico nordcoreano. Il presidente Donald Trump, sempre più avvinghiato nella ragnatela di Washington, lancerà un attacco preventivo contro la Nord Corea? Se così fosse, significherebbe soltanto anticipare al 2017 una guerra già ben delineata. L’ennesimo scontro tra terra e mare.

1Francesco Pazienza, il Disubbidiente, Longanesi, 1999, pg. 460

2https://www.nytimes.com/2017/08/14/world/asia/north-korea-missiles-ukraine-factory.html

3https://www.vox.com/world/2017/9/12/16294020/russia-china-water-un-sanction-north-korea

4http://edition.cnn.com/2017/09/07/asia/south-korea-thaad-north-korea/index.html

UN MONDO SENZA EUROPA, intervista a Marcello Foa (tratta da ticinolive.ch)

Marcello Foa:”L’Europa non ha più una Politica Internazionale”|Panoramica sulla Politica Mondiale

NOTA DEL REDATTORE_ Marcello Foa è un giornalista-intellettuale, esperto di mass-media e tecniche di comunicazione (da segnalare il suo libro “”Gli stregoni della notizia_ed GUERINI E ASSOCIATI), figura riconosciuta di quel mondo liberale ormai sempre più attratto dalle chiavi interpretative del realismo politico. Chiavi utilizzate da più punti di vista i quali a volte partono “dal basso” dei fondamenti popolari, democratici, meglio del cittadino, a volte “dall’alto” dell’azione delle élites. E’ il terreno d’incontro, quello dell’azione dei  centri strategici, sul quale le varie culture politiche che hanno conformato l’azione politica nel ‘800 e nel ‘900 ma che sono attualmente in crisi profonda, possono individuare nuovi fondamenti sui quali poggiare l’azione politica. Qui sotto l’interessante intervista_Germinario Giuseppe http://www.ticinolive.ch/2017/11/02/marcello-foaleuropa-non-piu-politica-internazionalepanoramica-sulla-politica-mondiale/
Marcello Foa, in un’intensa intervista, densa di contenuti, racconta a Ticinolive la sua visione in merito ai leader mondiali d’Europa, America, Russia Turchia e Medio Oriente

Marcello Foa, scrittore e giornalista

Europa. Macron il candidato europeista getta la precedente maschera del cambiamento. Cosa ne pensa?
«Bisogna innanzitutto capire chi sia davvero Macron: già il fatto che stia calando nei sondaggi è emblematico. Ha conquistato l’Eliseo sulla base di promesse che, una volta eletto, ha smentito quasi subito.  Come avevano intuito solo pochi osservatori, la sua elezione è in realtà frutto di un’operazione di Marketing politico. Jacques Attali, il guru della politica francese aveva profetizzato, un anno prima del voto, che a vincere le elezioni sarebbe stato uno sconosciuto, capace di cavalcare l’onda della voglia di cambiamento del popolo. In un’intervista televisiva Attali aveva ipotizzato proprio i nomi di Macron e di Le Maire. (quest’ultimo è comunque diventato ministro dell’economia). Tutto ciò dimostra come dietro l’elezione di Macron vi fosse un disegno ben definito. Macron non è l’interprete di un vero cambiamento, è piuttosto il rappresentante dell’establishment e ora getta la maschera; è in continuità con Hollande. Il suo disegno è di rafforzare l’Europa e scongiurare possibili uscite dall’UE.»
Si dice che Macron abbia vinto anche per questo, ovvero per il timore di uscire dall’UE nel caso di vittoria dell’avversaria Le Pen
«Tematiche vecchie. Personalmente ritengo che per qualunque popolo sia legittimo voler uscire dall’Unione Europea e difendere la propria sovranità. Anche in Germania, ad esempio, nonostante il successo di Angela Merkel, ci sono segnali di disaffezione. Con l’elezione di Macron l’obiettivo di prolungare la stabilità dell’Unione dopo lo choc della Brexit è stato raggiunto, ma di sicuro l’Unione Europea continuerà a non dormire sonni tranquilli, come dimostrano i recenti risultati in Austria e nella Repubblica Ceka.»
Angela Merkel viene rieletta con uno scarso successo. Cosa ne pensa? Ritiene che la spinta di AfD avrà ripercussioni sull’Europa oppure sia irrilevante?
«La Merkel, nonostante la sua straordinaria passata lungimiranza politica, è uscita decisamente ridimensionata dalle ultime elezioni e la coalizione Jamaica stenta a decollare. È una Merkel meno forte di prima che deve contare ora su due alleati, anziché su uno solo. Il successo di AfD si basa soprattutto su due fattori: anzitutto i cosiddetti Mini Jobs, pagati pochissimo (4-500 euro mensili), che danno lavoro a oltre 7 milioni di tedeschi; in secondo luogo l’immigrazione incontrollata, permessa per un certo periodo di tempo, ha provocato reazioni di rigetto molto forti. Inoltre l’ex Germania dell’Est non è risorta come ci si poteva aspettare. Tutto ciò per dire come la Germania, benché sia il primo Paese europeo, debba affrontare problemi interni che la Merkel non ha risolto e davanti ai quali non può continuare a chiudere gli occhi. Inoltre, sino a quando i paesi d’Europa accetteranno l’egemonia della Germania? La Francia di Macron ha bisogno di Berlino per spingere la propria agenda europeista, però i liberali tedeschi, probabili alleati della Cdu, sono molto più freddi al riguardo. molto meno convinti di riporre la loro fiducia nella Cancelliera. E sino a che punto la Merkel stessa potrà permettersi di sostenere l’agenda di Macron?»
L’Europa chiude gli occhi di fronte ai problemi, anche alla Questione Catalana…
«L’UE si è schierata con Rajoy, poiché altrimenti, se avesse sostenuto la causa catalana avrebbe rischiato di incoraggiare altri movimenti indipendentisti aspiranti alla secessione in altre regioni europee. E’ interessante notare come i Catalani non siano antieuropeisti, ma, al contrario, abbiano sempre progettato una secessione restando un paese all’interno dell’UE stessa. Ma questo non è bastato a convincere Bruxelles che ora teme qualunque forma di instabilità.»
Trova un parallelismo con la Lega Nord degli anni ’90 di Bossi, la cui Secessione prevedeva una Padania nell’orbita europea e non al di fuori di essa?
«Anche se Bossi non aveva il consenso che ha tutt’ora Puigdemont, il paragone è plausibile. Tuttavia non riguarda la Lega di oggi che non mette più questi temi al centro del proprio progetto politico.»
Proprio in merito a Puigdemont, un leader politico in esilio, cosa pensa?
«La Catalogna è un paradigma: è giusto concedere l’indipendenza a un popolo che la reclama? In Kosovo la risposta occidentale fu sì, in Catalogna è no… D’altra parte la questione, una volta portata all’estremo, non doveva essere abbandonata: Puigdemont, fuggendo in Belgio, ha dimostrato che non era pronto a condurre gli eventi, né a gestire una sfida così grande. La Catalogna è una lezione per tutti coloro che sognano grandi cambiamenti, come l’abbandono dell’euro: si può fare ma con un livello di preparazione altissimo e un leader davvero all’altezza. Puigdemont chiaramente non lo era e non lo è.»
America. Trump è stato eletto contro la maggior parte dei pronostici. Come vede la sua figura?
«Trump ha interpretato con successo il disagio dell’America profonda; raccogliendo consensi anche tra l’elettorato che aveva creduto alle promesse di cambiamento di Obama. La furibonda opposizione a Trump nasce dal fatto che egli non appartiene all’establishment, a cui invece aderiscono i leader democratici e repubblicani. Ma l’establishment non poteva permettersi di perdere la Casa Bianca, da qui la reazione. Trump si è fatto “normalizzare”, soprattutto sul piano della politica internazionale: per esempio aveva promesso una politica molto meno interventista in Medio Oriente e invece ha continuato sulla stessa linea in Siria; chiaramente non ci sarà la distensione con la Russia e, ancora, in politica economica non ha ancora limitato le politiche globaliste a favore di programmi di tutela nazionale. Trump continua ed essere imprevedibile solo sul fronte mediatico, ma nella sostanza ha fatto molti passi indietro; eppure, nonostante ciò, l’establishment non lo accetta, e cerca di estrometterlo con ogni pretesto.»
Russia. Cosa pensa riguardo ai rapporti tra Russia, Europa e Stati Uniti?
«L’Europa avrebbe tutto l’interesse ad avere rapporti distesi con Putin, ma si è accodata all’America accettando di sanzionare Mosca. L’Europa di oggi non ha più una politica internazionale, come dimostra l’emblematico caso in cui Biden, ex vice di Obama, preso da slancio durante una sua conferenza in un’università, ammise: “Abbiamo costretto i nostri amici europei a imporre le sanzioni alla Russia”. Le logiche sono esclusivamente americane, per gli europei di dubbio beneficio. A mio giudizio mirano a un cambio di regime a Mosca, con un leader amico al posto di Putin, il quale però è molto scaltro e ancora oggi molto popolare.»
Putin, a differenza dei leader sovracitati è al potere da quasi vent’anni. Come giudica il suo operato?
«Continuerà ancora per molto a stare al potere, e a governare abilmente il suo Paese. Personalmente conosco la realtà della Russia, Paese che ho seguito da inviato speciale dagli anni ’90 sino al 2008. In questo lasso di tempo la Russia è cresciuta, anche nelle classi sociali più basse la povertà è diminuita. La popolarità di Putin è autentica e le logiche russe sono, all’Occidente, sconosciute. Il successo economico è attribuibile al petrolio e Putin negli anni di prosperità ha commesso un errore: quello di non aver spinto la conversione e la diversificazione dell’economia russa; lo sta facendo ora, dopo le sanzioni ma, se lo avesse fatto prima, oggi la Russia sarebbe più forte. Per quanto riguarda la politica estera, la sua capacità di prendere in contropiede gli Usa, ad esempio in Siria, è stata notevole, grazie anche all’intelligenza dei suoi collaboratori.»
Oriente. Proprio riguardo la suddetta Siria, cosa pensa del paese e del suo governatore, Assad?
«La guerra in Siria si combatte ormai da alcuni anni, la cosiddetta Rivoluzione Colorata altro non è stata che una maschera di una rivoluzione in realtà violenta. La novità è che non si è conclusa con la caduta del regime come invece era accaduto per la Tunisia, l’Egitto e, in modo assai violento, in Libia, nel 2011. Certamente la Siria non tornerà il Paese di prima e il prezzo pagato in termini umanitari sarà davvero spaventoso.»
Turchia. Come giudica Erdogan, tra la maschera di una politica moderata e la contemporanea missione di islamizzazione?
«Sono sempre stato molto scettico su Erdogan. Già dieci anni fa, in controtendenza rispetto all’opinione di allora, scrivevo che l’allora premier fosse tutt’altro che un moderato, e che perseguisse un’agenda nascosta di matrice fondamentalista. Erdogan è un integralista, e si considera l’erede non di Ataturk ma del Califfato ottomano. Ciò ha delle implicazioni molto forti, perché sposta gli interessi strategici turchi verso i Paesi del Golfo. La questione della Turchia dovrebbe esser presa seriamente in considerazione da parte dell’Occidente, tenendo anche conto che è un paese membro della NATO. L’Occidente si dovrebbe porre delle domande chiedendosi, ad esempio, se sia giusto chiudere gli occhi di fronte agli arresti dei giornalisti e alle innumerevoli volte in cui in Turchia sono stati calpestati i diritti umani. Come dire: possiamo davvero fidarci della Turchia di Erdogan?»

Intervista di Chantal Fantuzzi

I manifesti nemici, di Roberto Buffagni

replica ad Alessandro Visalli, prima parte http://italiaeilmondo.com/2017/10/31/lo-scontro-tra-le-diverse-europe-due-dichiarazioni-di-alessandro-visalli/

Continua il dibattito a proposito di “quale Europa” http://italiaeilmondo.com/2017/10/24/quale-europa-a-cura-di-giuseppe-germinario/

Di nuovo ringraziando Alessandro Visalli per la sua analisi approfondita e ricca di spunti di riflessione, gli replico per punti.

1) Conservatorismo/Progressismo, Destra/Sinistra. Scrive Visalli che i due manifesti nemici appartengono entrambi al “campo conservatore”. La definizione è interessante proprio perché si presta ad essere equivocata. Se per definire “campo conservatore” e “campo progressista” ci si riferisce allo spettro delle forze politiche rappresentate nei parlamenti europei, e si fa dunque coincidere conservatori e destra, progressisti e sinistra, la definizione è precisa; non al millimetro, ma sostanzialmente esatta. I firmatari di entrambi i manifesti nemici appartengono allo stesso insieme politico, grosso modo identificabile con il centro/centrodestra parlamentare.

Se invece la definizione di conservatori e progressisti si concentra sulla cultura politica, diventa impossibile attribuire entrambi i manifesti nemici al campo conservatore, e tanto l’inimicizia tra i manifesti quanto le sue ragioni si fanno subito chiarissime (come illustra bene Visalli più oltre).

In termini di cultura politica, progressismo comporta l’assenso a: universalismo politico (sottolineo politico) e relativismo spirituale, egualitarismo omologante, individualismo astratto, telos e senso della storia identificati con la distruzione creatrice capitalistica e il progresso che meccanicamente ne consegue, in vista dell’obiettivo strategico/utopico del governo mondiale; a garanzia della scelta di fondo, l’interpretazione della modernità come cesura epocale irreversibile e decollo prometeico-utopico, la potenza dispiegata dalle tecnoscienze, e l’applicazione a tutti i domini dell’essere del metodo proprio alle scienze dei fenomeni (scientismo).

In termini di cultura politica, conservatorismo comporta l’assenso a: endiadi di universalismo spirituale e relativismo politico, primato ontologico della comunità sull’individuo e della gerarchia sull’eguaglianza tanto nella personalità dell’uomo quanto nella strutturazione della società, telos e senso della storia identificati con la trasmissione dell’eredità del passato e la perenne ricerca – sempre contrastata e sempre rinnovata, mai conclusiva – dell’ordine, in vista del bene comune; a garanzia della scelta di fondo, l’interpretazione della modernità come crisi epocale ed enigma faustiano, che insieme a uno splendido incremento di potenza e conoscenza porta con sé nel mondo hybris, sradicamento, disordine e malattia dello spirito.

E’ sintomatico il fatto che di recente, le alleanze politiche tra forze organizzate e rappresentate nei parlamenti europei tendano ad abbandonare il consueto discrimine destra/sinistra per ricomporsi, invece, lungo il clivage tra conservatorismo e progressismo in quanto culture politiche. Il caso più esemplare di questo spostamento dall’inimicizia politica all’inimicizia culturale è l’alleanza che ha portato alla presidenza della Repubblica francese Emmanuel Macron: un’alleanza che ha spaccato sinistra e destra politiche francesi, per ricomporle in un’alleanza che rivendica il suo progressismo militante sin dal nome, “En marche!” (in marcia verso dove non è indicato, ma si presume in avanti, “verso il progresso”). Catalizzatore di questo spostamento è, ovviamente, l’Unione Europea, e i giudizi che ne danno le forze politiche: sì/no, riformabile/irriformabile, amico/avversario, avversario/nemico.

Perché il giudizio sull’Unione Europea è, per forza di cose e vorrei dire per antonomasia, un giudizio sull’Europa, e dicendo “Europa” non si designa soltanto una realtà geografica, politica, storica: si designa la tradizione culturale, egemonica nel mondo, dalla quale nascono entrambe le culture politiche, conservatrice e progressista, che nei due manifesti nemici vediamo prendere le armi l’una contro l’altra. Assistiamo dunque, e anzi volenti o nolenti partecipiamo, alla ripresa in forma trasfigurata delle guerre di religione che hanno scosso l’Europa cinque secoli fa. Scrivo “guerre di religione” perché il conflitto in corso non si svolge soltanto, e credo neanche soprattutto, sul terreno della potenza; si svolge sul terreno dello spirito, là dove si pongono domande quali “che cos’è uomo, storia, comunità, destino, mondo, vero, falso, bene, male?” Quando forze politicamente organizzate entrano nel Kampfplatz filosofico e vi si schierano, si inaugura una guerra di religione. Per la precisione, oggi come cinque secoli fa, si tratta di una guerra civile di religione. Lo illustra con solare chiarezza la “Dichiarazione di Parigi”, che designa la Unione Europea come falsa Europa, il progressismo come superstizione, cioè falsa religione. E’ la dinamica, a parti e rapporti di forza rovesciati, che inaugurò la guerra di religione in seno alla Cristianità europea: la reciproca accusa di eresia. Il manifesto di Parigi è l’analogo delle 95 tesi luterane; oggi come allora, l’ortodossia ufficiale stenta a registrare la radicalità della sfida, perché il suo sguardo di potenza dominante è anzitutto sguardo politico, che si concentra su ciò che si manifesta nel campo dei rapporti di forza.

Alla radice della civiltà europea, sin dalla sua infanzia greca, c’è un tema, sempre di nuovo riproposto e interrogato: la tensione insolubile tra potenza e spirito. Dalla critica socratica e platonica della democrazia imperiale periclea, alla dialettica Impero/Chiesa simboleggiati dai “due soli” del De Monarchia dantesco, alle utopie politiche del Novecento, è l’interrogazione su questo enigma che istituisce l’identità profonda dell’Europa, per così dire il compito metastorico che la definisce.

2) Dove si schiera la sinistra. Scrive Visalli: “La sinistra…è secondo lui [secondo me] indisponibile a produrre una riflessione critica, e tanto meno un’azione politica contro la UE, e dunque si estromette automaticamente dal campo dello scontro ordinato da questa dualità. Cioè non entra nella battaglia.” Perché “ancora troppo legata alla mossa inaugurale della modernità, ed al mito della rivoluzione (in primis francese) per riconoscere il lato oscuro della ragione illuminista, la sua hybris di potere.

La mia era una semplice constatazione politica di fatto, ma Visalli la sviluppa correttamente. Aggiungo una precisazione e azzardo una previsione. La linea di frattura lungo la quale la sinistra si spaccherà, dividendosi nei due campi della guerra civile di religione che si prepara, è quella che corre fra la sinistra umanista-marxista e quella post-strutturalista: perché qualsiasi umanismo deve fare appello (magari con qualche incoerenza, nel caso dell’umanismo di derivazione marxista) a un’idea di dignità e natura umana e a una visione sostantiva del bene, una mossa che i critici della modernità e del capitalismo di famiglia foucaultiana non possono e non vogliono compiere. La parola chiave è: visione sostantiva del bene e dell’uomo; “sostantiva” nel senso forte che la parola “sostanza” prende nella tradizione filosofica greco-romana e cristiana.

E’ su questo “sostanzialismo”, (che Visalli chiama “essenzialismo”) che possono incontrarsi, ed effettivamente già si incontrano nell’opera di Michéa e di altri, la cultura politica del conservatorismo e quella della sinistra umanista. Nella Dichiarazione di Parigi, l’uso della terminologia “essenzialista” e di giudizi assiologici quali buono/cattivo, vero/falso, è obbligata e, naturalmente, consapevole della propria inattualità scandalosa. Perché alla base della cultura politica conservatrice sta il concetto di natura umana, fondato religiosamente e/o metafisicamente, come lo definiscono tanto la filosofia greco-romana, quanto il cristianesimo che (parzialmente) la integra e la sviluppa. Si tratta di “un assolutismo”, come sostiene Visalli? Sì e no. Lo definirei piuttosto un universalismo spirituale che implica un relativismo politico. Universalismo, perché la “scienza delle sostanze” cerca che cosa sono le cose e che cos’è l’uomo, non come funzionano le cose e l’uomo, e dunque non può e non vuole rinunciare all’affermazione assoluta e universale della verità. Ma come correttamente rileva Visalli, “una comunità universale è, quasi per definizione, impossibile”: e dunque, dalla ricerca e dall’affermazione universale delle essenze e del vero non consegue affatto che sia possibile e necessaria la realizzazione effettuale della comunità politica universale, che nella prassi si traduce in governo (imperiale) mondiale; il quale è anzi una contraffazione della vera comunità universale, che si realizza solo nello spirito, e il cui modello europeo è la Chiesa cattolica cioè universale. Su questo tema rimando sia all’elaborazione agostiniana (le due Città) sia soprattutto alla riflessione di Nicola Cusano, nel De docta ignorantia e nel De pace fidei. In sintesi: all’universalismo spirituale corrisponde il relativismo politico, cioè l’accettazione delle differenze e delle divergenze in merito al vero come dato storico permanente, che tale rimane finché la storia è storia e l’eschaton non la solvet in favilla.

Questo è un punto di grande rilievo, perché tocca immediatamente l’evento storico e simbolico in rapporto al quale oggi si dividono i campi conservatore e progressista, la Rivoluzione francese.

Le parole d’ordine della rivoluzione francese, “libertà eguaglianza fraternità”, sono problematiche sin dal primo giorno in cui qualcuno le propose come programma politico. Sono problematiche perché sono parole e valori cristiani, ma sono rescissi dal cristianesimo: sia dal cristianesimo come religione, sia dal cristianesimo come cultura che reinterpreta e almeno in parte assorbe il legato greco-romano. Rescissi dal cristianesimo come religione perché due dei dogmi fondamentali del cristianesimo sono a) il peccato originale (= l’uomo da solo non è capace di piena libertà, e anzi ne fa uso per realizzare il suo più profondo desiderio, diventare Dio, così esponendosi a conseguenze destrutturanti (perdizione) che richiedono l’Incarnazione, il sacrificio della Croce, la Redenzione b) il fine ultimo dell’uomo e della storia umana non è situato in questo mondo ma nell’Altro, cioè nell’eschaton.

Rescissi dal legato greco-cristiano perché per esso a) l’uomo è libero solo quando è capace di agire in conformità a ragione, ed è chiaro a chiunque che non tutti gli uomini ne sono capaci, anzi ne è capace solo una piccola minoranza, se per ragione non si intende la capacità di scegliere mezzi atti a un fine qualsiasi, ma la capacità di individuare e perseguire il fine reale della vita umana, capacità che richiede, per esempio e tra l’altro, il dominio delle facoltà superiori sulle facoltà inferiori della persona, cosa per niente facile come sa chi sia stato aggredito da qualcuno intenzionato farlo fuori o abbia anche solo provato a smettere di fumare. b) L ’eguaglianza tra gli uomini è solo virtuale o potenziale. L’incipit della Metafisica di Aristotele dice: “Tutti gli uomini per natura tendono al sapere”, il che è certamente vero sul piano della potenzialità, certamente falso se lo si intende come constatazione empirica di un dato di fatto, come è facilissimo rilevare facendo due chiacchiere con i conoscenti c) La fraternità è possibile solo in due casi: 1. possono essere e sentirsi fratelli gli appartenenti a una comunità culturale e politica realmente esistente, necessariamente limitata e singolare, non universale 2. possono essere e sentirsi fratelli i figli di uno stesso Padre, necessariamente Celeste, che diano origine a una comunità spirituale potenzialmente universale e realmente esistente anche sul piano storico (la Chiesa) che però in quanto tale non può coincidere con nessuna comunità storica, empirica, singolare.

Il tentativo di realizzare le parole d’ordine della rivoluzione francese in una visione del mondo e dell’uomo secolarizzata e antimetafisica come quella illuminista e progressista provoca l’ enantiodromia, cioè a dire che parti per fare A e invece fai Z. La dialettica dell’universalismo politico è questa, e la situazione che ne consegue il presupposto della guerra civile di religione che si annuncia.

Fine della prima parte.

PUTIN, INTERVENTO AL FORUM VALDAI 2017, a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto il testo di una lunga intervista a Vladimir Putin, tradotta e pubblicata al seguente link http://sakeritalia.it/sfera-di-civilta-russa/vladimir-putin/lintervento-di-vladimir-putin-al-forum-valdai-2017/  Le sue qualità di politico e di statista sono sempre meno messe in discussione tra i suoi stessi avversari e detrattori. E’ indubbio che in Russia si stia riformando una classe dirigente con un indirizzo politico coerente ed efficace nel sostenere il peso del confronto e dell’aperta ostilità, in primo luogo delle élites dominanti negli Stati Uniti. La precarietà della situazione interna, non ostante l’evidente coesione politica raggiunta, dovuta alle carenze demografiche, specie nell’area orientale debordante di materie prime, e dell’organizzazione e del livello tecnologico dell’economia, pendono ancora come una spada di Damocle sul potenziale strategico e sulla capacità di sostenere nel tempo il livello e la qualità del confronto che si va profilando. Non solo quello sempre più aperto con gli Stati Uniti, non ostante le vicende siriane e mediorientali lascino intuire una sorta di diplomazia sotterranea più accomodante certamente, ma grazie soprattutto all’efficacia diplomatica e militare messa in mostra, a volte volutamente ostentata; ma anche quella per ora latente con altre potenze emergenti, messa sottotraccia dai troppi fronti ostili aperti dalle élites americane verso troppi avversari. Basti pensare al flusso demografico di cinesi in Russia, in particolare in Siberia, in numeri assoluti ancora ragionevoli (dai tre ai cinque milioni), ma allarmanti in rapporto alla massa di popolazione locale (circa trenta milioni) e all’enorme estensione territoriale. Al momento si cerca di equilibrare il rapporto estendendo le collaborazioni ad altri paesi tecnologicamente evoluti e concorrenti della Cina, come il Giappone. Una compensazione tattica che però non la difenderebbe da eventuali sodalizi tra colonizzatori in un futura fase di policentrismo consolidato. La Cina, nel ‘800 e nel primo ‘900, fu la principale vittima di questi sodalizi predatorii; deve servire da monito ad aperture indiscriminate. L’illusione di trovare una sponda concreta nelle classi dirigenti europee, specie tedesca, francese ed italiana ha ritardato il consolidarsi di questa consapevolezza e il tentativo, in atto, di trovare con più efficacia al proprio interno le risorse e le capacità organizzative di sviluppo economico. 

Il senso della pubblicazione di questo intervento sul sito è un altro. In alcuni passi Putin parla apertamente di ricerca di egemonia condivisa; lo fa seguendo i canoni più classici del riconoscimento del ruolo degli stati nazionali. Una tesi “rivoluzionaria” rispetto alle politiche mestatorie e caotiche di impronta occidentale. Organizzare una tifoseria pro o contro Putin, come puntualmente accade da alcuni anni nel nostro paese, serve solo a consolidare una predisposizione, teorica alla sudditanza ad uno qualsiasi dei paesi dominanti, pratica a quella a preminenza americana. Contribuisce ad impedire, nel migliore dei casi ad ostacolare, la formazione di una classe dirigente capace di creare un blocco politico ed una formazione sociale sufficientemente coesa e dinamica, solida, in grado di sostenere con più autonomia ed efficacia il confronto che si va profilando. In questo solco “virtuoso”, tutt’altro che praticabile con l’attuale quadro politico, si possono tracciare due strade: la più ambiziosa e problematica, in grado di porre il paese alla pari delle altre potenze consolidate o emergenti, dovrebbe puntare a un sodalizio con Francia e Germania; una tale ipotesi presuppone il cambiamento contestuale delle classi dirigenti nei tre paesi. Quella più circoscritta prevede un ruolo significativo ed autonomo nell’area mediterranea; il presupposto necessario è il cambiamento della classe dirigente nazionale, una economia più equilibrata e controllata da forze nazionali, il consolidarsi definitivo di potenze concorrenti con gli Stati Uniti. Entrambe, ipotesi che non possono prescindere da un rapporto proficuo con l’attuale dirigenza russa. Buona lettura_ Giuseppe Germinario

Errori (domanda di Sabine Fischer, Fondazione Scienze e Politiche, Berlino).

Signor Presidente, Lei è stato molto critico verso le politiche dell’ Occidente a proposito delle sue relazioni con la Russia. A dire la verità, molti temi da Lei toccati richiedono una discussione critica approfondita. Allo stesso tempo sappiamo che in ogni rapporto (fra paesi come fra persone), entrambe le parti fanno errori. E dunque ho una domanda. Quali sono gli errori politici che, a parer Suo, ha commesso la Russia nelle relazioni con l’ Occidente nel corso degli ultimi 15 anni e cosa deve essere fatto, quali conclusioni devono essere tratte per il futuro di queste relazioni?).

Vladimir Putin – Il nostro errore più serio nelle relazioni con l’ Occidente è stato un eccesso di fiducia. E il vostro errore è stato che avete inteso la fiducia come debolezza, e ne avete approfittato. Quindi è necessario lasciarsi tutto ciò alle spalle, girare pagina e andare avanti, costruendo le nostre relazioni sulla base del reciproco rispetto e trattandoci l’un l’altro come interlocutori alla pari che esprimono valori alla pari.

Futuro della Russia

Vladimir Putin – Dobbiamo rendere la Russia molto flessibile e altamente competitiva. Flessibile in termini di forma e di metodo di governo, flessibile in termini di sviluppo di una economia che sia preparata ad affrontare il futuro, in termini di introduzione di tecnologia avanzata, di creazione di opportunità e di loro utilizzo. Inutile dire che dobbiamo rinforzare le nostre capacità difensive e migliorare il nostro sistema politico in modo da renderlo un organismo vivente e svilupparlo e tenerlo complessivamente aggiornato. E in tema di tecnologia, la persona alla mia sinistra, il fondatore di una grande compagnia globale, ha palato di Big Data. Sapete, noi non abbiamo davvero coscienza di cosa si stia parlando. Forse lo sapete, molti lo hanno sentito, di un caso recente verificatosi negli Stati Uniti, quando una società improvvisamente ha iniziato a mandare ad una ragazzina di 14 anni offerte per comprare prodotti per donne in stato interessante, il che ha offeso i suoi genitori. I due hanno scritto un reclamo alla società e la società si è scusata. Poi si è scoperto che la ragazza era davvero incinta. Né lei né i suoi genitori lo sapevano. Abbiamo saputo che sulla base di un gran numero di dati, del cambiamento negli interessi della ragazza, delle preferenze, delle domande e delle ricerche, una macchina può giungere alla conclusione di avere a che fare con una donna incinta e quindi ordinare ad un’ altra macchina di offrire prodotti per donne incinte. Siamo per la prima volta alle prese con una sorta di controllo su umani amministrati dalla tecnologia. Dobbiamo tenere conto del fatto che ci sono aspetti sia positivi che negativi in tutto questo. Dobbiamo riflettere su ciò nel nostro pese e usarlo per il bene della nostra gente. Questo è il nostro super-compito.

Guerra Fredda (nuova)

Avevamo [fra Stati Uniti e URSS/Russia] più divergenze e discordie ai tempi sovietici. In ogni caso sa di cos’altro c’era abbondanza? Rispetto. Fatico ad immaginare che ai tempi dell’Unione Sovietica si potessero ammainare le bandiere sovietiche dalle missioni diplomatiche sovietiche. E tuttavia lo avete fatto. Non è il solo segno di mancanza di rispetto. Tale mancanza si dimostra non solo in queste azioni formali, ma anche nelle questioni di sostanza. Ne abbiamo già parlato oggi, e quindi non è probabilmente il caso di tornarci. Avevamo più rispetto dei reciproci interessi. Certo, il rispetto deve essere sostento dalla potenza economica e militare, questo è chiaro. Va a noi stessi gran parte del biasimo per esserci messi da soli in questa posizione. In una posizione umiliante, come negli anni novanta, quanto vi abbiamo permesso di accedere alle nostre installazioni nucleari sperando che faceste altrettanto. Comunque non lo avete fatto, e aspettarsi qualcosa da voi è stato probabilmente una dimostrazione di stupidità da parte degli esponenti della “nuova Russia” che lo fecero. Comunque vorrei chiudere le mie osservazioni su di una nota positiva. Io credo molto che la soluzione delle questioni di reciproco interesse dipenda dal lavoro comune. Ciò dovrebbe aiutarci a rimanere concentrati sul pensiero che le nostre prospettive sono buone. Abbiamo appena parlato della Siria. Per ritornare sul tema (credo di non poter svelare i dettagli) teniamo incontri fra gruppi tematici, a livello di servizi segreti, di Ministero della Difesa, di Ministero degli Esteri, quasi su base settimanale. Abbiamo ottenuto alcuni risultati, il che significa che siamo in grado di farlo.

Multilateralismo

Il mondo è entrato in un’ era di rapidi cambiamenti. Cose che erano ancora poco fa considerate fantasiose o inattuabili sono diventate realtà e parte delle nostre vite quotidiane. Processi qualitativamente nuovi si stanno sviluppando simultaneamente in ogni sfera di attività. Veloci cambiamenti nella vita pubblica in molti paesi e la rivoluzione tecnologica sono interconnesse con cambiamenti sull’arena internazionale. La competizione per un posto nella gerarchia globale si va esacerbando. Quindi molte vecchie ricette di gestione globale, di soluzione dei conflitti e delle contraddizioni naturali non sono più applicabili, spesso falliscono, mentre non ve ne sono ancora disponibili di nuove. Naturalmente gli interessi degli stati non coincidono sempre, al contrario. Ciò è normale e naturale. E’ sempre stato così. Le potenze egemoni hanno diverse strategie e percezioni del mondo. Questa è l’ essenza immutabile delle relazioni internazionali, che sono costruite sul bilanciamento fra cooperazione e competizione. Vero è che quando questa bilancia è alterata, quando l’ osservanza o persino l’ esistenza di regole universali è messa in dubbio, quando gli interessi sono promossi costi quel che costi, le divergenze diventano imprevedibili e pericolose e portano a conflitti violenti. Non un solo problema internazionale può essere risolto in circostanze simili ed in un simile quadro e dunque le relazioni intestatali semplicemente si degradano. Il mondo diventa meno sicuro. Invece di democrazia e progresso viene lasciato campo libero ad elementi radicali e a gruppi estremisti che rifiutano la civiltà stessa e cercano di tornare ad un passato remoto, al caos, alla barbarie.

La storia degli ultimi anni fornisce una rappresentazione fedele di ciò. Basta guardare cosa è successo nel Medio Oriente, che alcuni attori hanno provato di risistemare e riformattare secondo i loro gusti, imponendo un modello di sviluppo estraneo attraverso colpi di Stato all’uopo organizzati, o semplicemente con la forza delle armi. Invece di lavorare assieme per aggiustare la situazione e portare un colpo effettivo al terrorismo, invece di condurre una lotta (nei fatti simulata ed inesistente), alcuni nostri colleghi fanno tutto il possibile per rendere permanente il caos in questa regione. Alcuni pensano ancora che si possa ancora utilizzare il caos a proprio vantaggio. Nel frattempo ci sono alcuni esempi positivi nell’esperienza recente. Come probabilmente avete capito, mi riferisco all’esperienza siriana. Dalla quale apprendiamo che esiste una alternativa a questo genere di politica arrogante e distruttiva. La Russia sta combattendo i terroristi al fianco del legittimo governo siriano e di altri stati della regione, e agisce sulla base del diritto internazionale.

Devo dire che queste azioni e i progressi che ne sono seguiti non sono stati facili. C’è un forte elemento di dissenso nella regione. Ma ci siamo rinforzati con la pazienza e, soppesando ogni mossa e ogni parola dei nostri nemici, abbiamo lavorato con tutti i partecipanti a questo processo con rispetto per i loro interessi. I nostri sforzi, il cui risultato è stato messo in dubbio dai nostri colleghi ancora recentemente, stanno ora (diciamolo con cautela) instillando una speranza. Si sono dimostrati molto importanti, corretti, professionali e tempestivi. O, prendete un altro esempio: il confronto intorno alla penisola coreana. Sono sicuro che abbiate affrontato questo argomento estensivamente. Sì, noi condanniamo senza ambiguità i test nucleari condotti dalla Repubblica Democratica Popolare di Corea e soddisfiamo completamente le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite relative alla Corea del Nord.

Colleghi, voglio sottolineare con enfasi questo aspetto in modo che non siano possibili interpretazioni soggettive. Noi osserviamo tutte le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. In ogni caso questo problema può naturalmente essere risolto solo attraverso il dialogo. Non dobbiamo spingere la Corea in un angolo, minacciare azioni di forza, inclinare alla rozza maleducazione ed all’invettiva. Piaccia o non piaccia il regime della Corea del Nord, non dobbiamo dimenticare che la Repubblica Democratica Popolare di Corea è uno stato sovrano. Tutte le controversie devono essere risolte in una maniera civile. La Russia ha sempre favorito tale approccio. Siamo fermamente convinti che anche i nodi più aggrovigliati (sia che si parli delle crisi in Siria, Libia, Penisola Coreana o, poniamo, Ucraina) debbano essere sciolti, non tagliati.

NorthStream

Una volta gli apologeti della globalizzazione provavano a convincerci che l’interdipendenza economica universale avrebbe prevenuto i conflitti e le rivalità geopolitiche. Tuttavia, questo non è accaduto. Al contrario, la natura delle contraddizioni si è fatta sempre più complicata, sviluppandosi su più livelli e lungo diverse linee. Per la verità, mentre le interconnessioni sono un fattore di contenimento e stabilizzazione, assistiamo anche ad un crescente numero di esempi di politica che entra in conflitto violento con l’ economia e con le logiche di mercato. Ci avevano messi in guardia: tutto questo è inaccettabile, controproducente e deve essere evitato.

Ora gli stessi che lanciavano avvertimenti fanno proprio loro tutto ciò. Alcuni non si preoccupano nemmeno di inventare dei pretesti politici per promuovere i loro immediati interessi commerciali. Per esempio, il recente pacchetto di sanzioni adottato dal Congresso USA è apertamente inteso ad escludere la Russia dai mercati energetici europei e a costringere l’Europa a comprare il più costoso gas liquefatto prodotto dagli Stati Uniti, sebbene la scala di questa produzione sia ancora troppo modesta. Si stanno facendo tentativi per alzare ostacoli ai nostri sforzi di creare nuove vie di approvvigionamento energetico (South Stream e North Stream) sebbene la diversificazione logistica sia economicamente efficiente, sia utile all’Europa e aumenti la sua sicurezza. Lasciate che lo ripeta: è solo naturale che ogni stato abbia interessi politici, economici e di altra natura. Il problema sono i mezzi con cui tali interessi sono tutelati e promossi.

ONU

Colleghi, come vediamo il futuro dell’ ordine internazionale e del sistema di governo globale? Per esempio, nel 2045, quando l’ ONU vedrà il suo centesimo anniversario? La sua creazione è divenuta un simbolo del fatto che l’ umanità, a dispetto di tutto, è in grado di sviluppare regole di condotta comuni e di seguirle. Non essendo poi tali regole state osservate, ne sono inevitabilmente derivate crisi e altre conseguenze negative.

In ogni caso, negli ultimi decenni, abbiamo assistito a diversi tentativi di sminuire il ruolo di questa organizzazione, di screditarla, o semplicemente di prenderne il controllo. Secondo noi l’ ONU, con la sua eredità universale, deve rimanere il centro del sistema internazionale. Il nostro fine comune è aumentare la sua autorità ed efficacia. Non ci sono alternative all’ONU, oggi.

Per quanto riguarda il diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza, che è a sua volta messo in discussione, bisogna ricordarsi che questo meccanismo è stato pensato e attuato per evitare confronti diretti fra gli stati più potenti, come garanzia contro l’arbitrio e la prepotenza, in modo che nessun singolo paese, nemmeno il più influente, possa rivestire le proprie azioni aggressive con una apparenza di legittimità. In ogni caso, parliamone, gli esperti sono qui, e sanno che l’ ONU ha legittimato a posteriori le azioni di singoli membri nel proscenio internazionale. Certo, è qualcosa, ma nulla che di per sé possa dare un contributo positivo. Servono riforme, il sistema dell’ ONU ha bisogno di essere migliorato, ma le riforme possono solo essere graduali, evolutive e, naturalmente, devono essere sostenute dalla maggioranza schiacciante dei membri in un procedimento internazionale all’interno della stessa organizzazione, con consenso corale. La garanzia dell’ efficacia dell’ ONU sta nella sua natura rappresentativa. Vi è rappresentata la maggioranza assoluta degli stati sovrani del mondo. I principi fondamentali dell’ ONU dovrebbero essere preservati per gli anni e i decenni a venire, visto che nessun’ altra entità è in grado di rappresentare l’ intero spettro delle politiche internazionali.

Rivoluzione d’ Ottobre

Una rivoluzione è sempre il risultato di un errore di calcolo sia di quelli che vogliono conservare, congelare in ogni modo un ordine di cose ormai superato che ha chiaramente bisogno di essere cambiato, e di quelli che aspirano a velocizzare i cambiamenti, e che devono ricorrere alla guerra civile ed alla resistenza distruttiva.

Oggi, se ci volgiamo alle lezioni di un secolo fa, per essere precisi della Rivoluzione Russa del 1917, vediamo come i suoi risultati siano stati ambigui, e come siano strettamente intrecciate le conseguenze negative e quelle positive, che pure dobbiamo riconoscere. Chiediamoci: sarebbe stato possibile seguire una via evolutiva piuttosto che passare per una rivoluzione? Avremmo potuto evolverci per graduali e sostanziali movimenti progressivi piuttosto che al prezzo di distruggere il nostro stato e di spezzare senza pietà milioni di vite umane? In ogni caso, il modello e l’ ideologia largamente utopistici che lo stato nuovamente formato tentò di realizzar subito dopo la rivoluzione del 1917 fu un potente vettore di trasformazione in tutto il mondo (il che è abbastanza evidente e deve essere riconosciuto), provocò una vasta riconsiderazione dei modelli di sviluppo, e innescò una competizione ed una rivalità il cui beneficio, direi, fu raccolto in prevalenza dall’Occidente. Mi riferisco non solo alle vittorie geopolitiche seguite alla Guerra Fredda.

Molti progressi del mondo Occidentale nel ventesimo secolo furono risposte alle sfide poste dall’Unione Sovietica. Parlo dell’ aumento della qualità della vita, alla formazione della classe media, alla riforma del mercato del lavoro e della sfera sociale, alla promozione dell’ educazione, alla tutela dei diritti umani, inclusi i diritti delle minoranze e delle donne, al superamento della segregazione razziale che, come forse ricorderete, era una vergognosa pratica di molti paesi, inclusi gli Stati Uniti, fino a pochi decenni or sono. In seguito ai cambiamenti radicali avvenuti nel nostro paese e in tutto il mondo all’inizio degli anni novanta, si è presentata una possibilità veramente unica di aprire un nuovo capitolo nella storia. Mi riferisco al periodo successivo alla fine dell’ Unione Sovietica. Sfortunatamente, dopo aver diviso l’eredità geopolitica dell’ Unione Sovietica, i nostri interlocutori occidentali si sono convinti della giustezza intrinseca della loro causa e si sono auto dichiarati vincitori della guerra fredda (come ho già accennato) e hanno preso ad interferire negli affari di paesi sovrani, ad esportare la democrazia proprio come la dirigenza sovietica aveva tentato di esportare la rivoluzione socialista al resto del mondo, a suo tempo.

Siria

La prima cosa che vorrei fare, a proposito dell’accordo sulla Siria e del processo di Astana, è ringraziare il Presidente del Kazakistan Nursultan Nazarbayev per aver reso possibile a noi ed agli altri partecipanti di questo processo incontrarci ad Astana. Il Kazakistan non è solo il posto dove ci siamo incontrati. E’ un contesto molto adatto visto che il Kazakistan mantiene la neutralità. Non interferisce nei complessi processi regionali ed è rispettato come intermediario. Vorrei notare che ad un certo punto il Presidente Nazarbayev si è preso la responsabilità di impedire alle parti di scontrarsi e ai negoziatori di abbandonare il tavolo. E’ stata una cosa molto positiva, e gli siamo molto grati per questo.

Per quanto riguarda la situazione dei negoziati, stanno procedendo lungo una direttrice positiva. Ci sono stati momenti buoni e momenti cattivi, dei quali parlerò in seguito ma, in definitiva, il processo avanza positivamente. Grazie alla posizione assunta dalla Turchia, dall’ Iran e, ovviamente, dal Governo Siriano, siamo stati in grado di ridurre le distanze nelle posizioni delle parti sul tema chiave della cessazione delle violenze e sulla creazione di zone di de-escalation. E’ il risultato più significativo che abbiamo ottenuto in Siria negli ultimi due anni, in particolare nel contesto del processo di Astana.

Devo notare che altri paesi, inclusi gli Stati Uniti, stanno dando un contributo rilevante. Sebbene non stiano partecipando direttamente ai colloqui di Astana, stanno influenzando il processo da dietro le quinte. Manteniamo una stabile cooperazione con i nostri interlocutori americani in questa sfera, su questa linea, sebbene non senza divergenze. Comunque nella nostra cooperazione ci sono più elementi positivi che negativi. Al momento abbiamo trovato un accordo su molte questioni, comprese le zone di de escalation meridionali, dove sono presenti anche interessi israeliani e giordani. Naturalmente questo processo non sarebbe stato ciò che è stato senza il contributo positivo di paesi come l’Arabia Saudita, l’Egitto, la Giordania, come di molti altri paesi, piccoli ma importanti incluso, a proposito, il Qatar. Che prospettive ci sono? Abbiamo ragione di credere (cercherò di esprimermi con cautela) che la faremo finita con i terroristi entro breve. Ma questo non è causa di particolare esultanza, non è sufficiente a dire che il terrorismo è morto e sepolto. Perché, in primo luogo, il terrorismo è un fenomeno molto radicato, radicato nell’ingiustizia del mondo contemporaneo, nei torti che molte nazioni, etnie e gruppi religiosi subiscono e nella mancanza di una educazione completa in interi paesi del mondo. La mancanza di una normale, effettiva, educazione di base è suolo fertile per il terrorismo.

Ma se liquidiamo la sacca di resistenza terrorista in Siria, di certo non significa che la minaccia alla Siria, alla regione ed al mondo nel suo complesso sia cessata, no di certo. Al contrario, bisogna sempre restare sul chi vive. Il processo, in via di definizione, fra l’ opposizione ed il governo è anch’esso fonte di preoccupazione. E’ in corso, ma procede molto lentamente, in maniera impercettibile; le parti in conflitto diffidano molto l’ una dell’ altra. Spero che sarà possibile superare questo ostacolo. Una volta stabilite le zone di de escalation, speriamo di muovere alla fase seguente. C’è un idea di convocare un congresso del popolo siriano, mettendo assieme tutti i gruppi etnici e religiosi, il governo e le opposizioni. Se riuscissimo in questo, anche con il supporto di paesi garanti e anche delle principali potenze fuori dalla regione (l’Arabia Saudita, gli Stati Uniti e l’Egitto) sarebbe un ulteriore passo, molto importante, sulla via della sistemazione politica. E a qual punto forse si potrebbe procedere alla stesura di una nuova costituzione. Ma è presto per parlarne ora. E’ un piano appena abbozzato.

(interviene il moderatore Fyodor Lukyanov): Signor Presidente, le zone di de-escalation porteranno ad una divisione della Siria?)

Vladimir Putin: un simile rischio esiste, ma come ho detto prima, non voglio che si tratti di un abbozzo di spartizione della Siria, al contrario, voglio che si crei una situazione per cui, una volta che le zone di de escalation sono stabilite, la gente che controlla queste zone entri in contatto con Damasco, con il governo. A dire il vero ciò accade già in molti posti. Per esempio a sud di Damasco, in un piccolo territorio controllato dall’opposizione, la gente va a lavorare a Damasco e torna a casa ogni giorno. Vede: la vita quotidiana incoraggia la comunicazione. Spero tanto che questa prassi evolverà nelle altre zone di de escalation così che gradualmente, passo dopo passo, la cooperazione incomincerà a livello quotidiano, il che, secondo me, dovrebbe estendersi in accordi politici di lungo termine.

Stati Uniti

(risposta all’analista americana Toby Gati che aveva chiesto: non vi importa di rinforzare ogni stereotipo negativo sugli Stati Uniti e di rendere più difficile superarli?)

Vladimir Putin: prima di tutto ciò è connesso alla reciproca disposizione critica. Vorrei segnalare alla vostra attenzione il fatto che, come sicuramente sapete, una campagna anti russa senza precedenti è stata lanciata negli Stati Uniti: è iniziata nelle ultime fasi dall’amministrazione Obama, e non è ancora finita. Non capisco perché siate sorpresi dalla mia disposizione critica verso l’ attività della precedente amministrazione USA, come verso quella dell’ attuale. Gli Stati Uniti hanno lanciato una campagna in alcun modo provocata contro la Russia. Qualcuno ha perso le elezioni contro il Signor Trump, la Russia è stata accusata di qualsiasi cosa ed è stata montata una perniciosa isteria anti Russa (non posso descriverla in altro modo). Ogni ostacolo, ogni fallimento, è attribuito alla Russia. Non è forse così? Certo, è proprio così: su ogni tema. Seguono la pista russa, e, guarda il caso, ne trovano immediatamente una. Questa è la mia prima considerazione.

Secondo: oggi ci siamo incontrati qui non per appuntarci l’un l’altro medaglie ed onorificenze. Stiamo discutendo e lo stiamo facendo con onestà e sincerità. Ho esposto la mia posizione su molti aspetti delle nostre relazioni che considero negativi. Non ho creato stereotipi: ho parlato di fatti. Per esempio: il fatto che le armi chimiche non siano state eliminate. E’ uno stereotipo o un fatto? E’ un fatto. Al posto di soddisfare i nostri impegni bilaterali li hanno cambiati unilateralmente e non stanno osservando il contenuto del trattato. Ho parlato di questo. In ogni caso questo non significa che le nostre relazioni nel passato non… Sì, a proposito, quando ho detto che abbiamo consentito a nostri interlocutori accesso a tutte le installazioni nucleari: cos’è questo, un qualche tipo di stereotipo anti americano? Ovviamente no. Ho parlato della nostra apertura, ed ho detto che quela apertura non è stata debitamente apprezzata. Poi è del tutto ovvio e devo ripeterlo: come ex direttore dell’ FSB, so per certo che c’è stato un supporto massiccio al separatismo ed al radicalismo nel Caucaso settentrionale. Non chiedetemi come lo so: lo so. Non ci sono stati bombardamenti a Belgrado? Senza approvazione del Consiglio di Sicurezza? E’ uno stereotipo? E’ un fatto. Sono gli Stati Uniti a creare questi “stereotipi”.

Comunque, ciò non significa che non vi sia nulla di buono nei nostri rapporti. Ci sono state anche cose buone, concordo con Lei: il sostegno all’adesione al WTO, è vero, e altri sviluppi positivi. Anche a livello personale abbiamo avuto discussioni e contatti proficui. Ad esempio non dimenticherò mai il sostegno di Bill Clinton quando muovevo i primi passi come Primo Ministro. Boris Eltsin mi mandò in Nuova Zelanda al suo posto e quella fu la prima volta che incontrai il Signor Clinton. Stabilimmo un rapporto umano molto positivo, buono e gentile. In altre parole, avremmo anche qualcosa di positivo di cui parlare, ma io voglio concentrarmi sull’ordine del giorno. Per cosa siamo qui: per farci complimenti? La situazione attuale lascia molto a desiderare, o no? Siete isterici, siete malcontenti, ammainate le nostre bandiere, chiudete le nostre missioni diplomatiche. Vede qualcosa di buono in tutto questo? Ed è tutto frutto di problemi accumulati. Ho spiegato da dove vengono. Dopo tutto, non siamo qui per farci complimenti e moine, ma per identificare i problemi, individuare la loro origine e pensare a come risolverli. Si possono risolvere o no? Credo di si. Lavoriamoci assieme. Aspettiamo i suoi consigli e le sue raccomandazioni.

Ucraina

Riguardo all’Ucraina Lei ha detto che, secondo gli europei, la palla è nel campo della Russia. Ebbene, noi pensiamo che la palla sia nel campo dell’Europa, perché, a causa della posizione del tutto priva di spirito costruttivo (come vedete sto scegliendo le parole in modo da non sembrare maleducato) dei precedenti componenti la Commissione Europea, la situazione si è spinta fino al colpo di Stato. Sapete che fecero. Il problema era solo relativo alla firma, da parte dell’Ucraina, di un accordo di associazione, un accordo economico con l’Unione Europea. Il Presidente Yanukovich ad un certo punto disse: “Ho un problema con questo testo, devo rivedere i tempi di sottoscrizione. Lavoriamo su questo testo ancora un po’”. Non ha mai rifiutato di firmarlo. Sono seguiti i disordini sostenuti dagli Stati Uniti (sostenuti finanziariamente, politicamente e mediaticamente) e da tutta l’Europa. Hanno sostenuto una presa di potere incostituzionale, una presa di potere sanguinosa, con morti sul terreno, ed hanno spinto la situazione verso la guerra nel sud est Ucraina. La Crimea ha dichiarato l’ indipendenza e la sua riunificazione con la Russia, e adesso pensate che siamo noi a doverci rimproverare tutto quello che è successo?

Chi è stato che ha sostenuto il colpo di Stato incostituzionale? L’attuale situazione è il risultato di una presa di potere incostituzionale in Ucraina, ed è l’Europa colpevole, perché è lei che l’ha sostenuta. Cosa sarebbe stato più facile che dirgli: “Voi avete fatto il colpo di Stato e, dopo tutto, anche voi siete garanti”? Come garanti i Ministri degli Esteri di Polonia, Francia e Germania hanno firmato un documento, un accordo fra il Presidente Yanukovich e l’opposizione. Tre giorni dopo, quell’accordo è stato calpestato, e dove erano i garanti? Chiedeteglielo: dove eravate voi garanti? Perché non gli avete detto “per favore, rimettete le cose a posto. Rimettete Yanukovich al potere e tenete elezioni democratiche e costituzionali”? Avevano ogni possibilità di vincere, il 100%. Nessun dubbio. No: hanno preferito fare un colpo di Stato. Bene. Abbiamo preso atto di questo fatto, lo abbiamo accettato e abbiamo firmato gli accordi di Minsk. A questo punto l’attuale dirigenza ucraina ha sabotato ogni paragrafo di quell’accordo, e ciascuno lo può vedere alla perfezione. Tutti quelli che partecipano al processo negoziale ne sono pienamente consapevoli, ve lo assicuro. Non un singolo passo è stato compiuto verso la realizzazione degli accordi di Minsk. E nonostante tutto questo tutti dicono: “le sanzioni non saranno tolte sino a che la Russia non realizza gli accordi di Minsk”.

Tutti quanti hanno ormai capito che l’attuale dirigenza ucraina non è in condizione di soddisfare gli accordi. Ora che la situazione in quel paese ha toccato il fondo sia in termini di economia che di politica interna, e che la polizia usa il gas contro i manifestanti, aspettarsi che il Presidente dell’Ucraina faccia il minimo passo verso l’attuazione degli accordi di Minsk è un esercizio futile. Non ho idea di come potrà farlo. Ma sfortunatamente non esistono alternative.

Comunque continueremo a lavorare nel Formato Normandia per tutto il tempo che piacerà ai nostri colleghi, e cercheremo di realizzare questi accordi di Minsk che Lei ha menzionato. Giusto di recente abbiamo sostenuto una iniziativa di inviare in loco una forza di interposizione delle Nazioni Unite. Nemmeno una forza di interposizione, ma unità armate delle Nazioni Unite con il compito di proteggere il personale dell’OSCE. Ci avevano sempre detto e chiesto di armare il personale dell’OSCE che opera sulla linea di contatto. Avevamo subito aderito a questa richiesta. Ma l’OSCE ha rifiutato di farlo. Sono sicuro che Lei ne è a conoscenza, e molti, fra il pubblico, che hanno a che fare con queste cose, ne sono a conoscenza. L’OSCE ha detto: “no, non possiamo farlo, non abbiamo le competenze, non abbiamo le armi, non abbiamo mai usato le armi nelle nostre operazioni. Inoltre temiamo che le armi ci trasformino in bersagli per le parti in conflitto”. E un no è un no. A questo punto il Presidente Poroshenko ha tirato fuori l’idea di creare condizioni adeguate per proteggere il personale OSCE con l’aiuto di unità armate dell’ONU. Abbiamo concordato e praticamente abbiamo iniziato il processo, per evitare di essere accusati di sabotare l’affare.

No: loro hanno pensato che non fosse abbastanza. Ora vogliono interpretare il tutto liberamente. Sa cosa temiamo? Glielo dirò, ammesso che si possa dire che temiamo qualcosa. Se loro non adottano la legge sull’amnistia prima di sciogliere i nodi politici e di provvedere questi territori di uno status speciale secondo quanto previsto dalla legge adottata dalla Rada ed estesa per un altro anno, chiudere il confine fra la Russia e le repubbliche separatiste porterà ad una situazione simile a quella di Srebrezniza. Ci sarà un bagno di sangue. Non possiamo permettere che succeda.

Quindi rimproverare la Russia di ogni cosa e dire che la palla e nel suo campo, e che noi dovremmo fare qualcosa, semplicemente non ha senso. Lavoriamoci assieme. Andate, ed usate la vostra influenza presso l’ attuale governo di Kiev, in modo che almeno facciano qualche passo verso una normalizzazione della situazione. Noi lavoreremo di conserva e faremo del nostro meglio per normalizzare la situazione. Abbiamo bisogno di una Ucraina democratica ed amichevole. Vedete: quando qualche impero si disintegra e qualche territorio passa di mano in mano in conseguenza di una guerra, questa è la situazione. Quando l’Unione Sovietica collassò, la Russia si privò volontariamente di questi territori. Noi abbiamo spontaneamente acconsentito che tutte le ex repubbliche sovietiche divenissero stati indipendenti. Non abbiamo pensato nemmeno lontanamente di chiedere qualcosa a qualcuno e di dividere i territori. Non dimenticatelo: abbiamo fatto tutto di nostra spontanea volontà. E nemmeno oggi vogliamo farlo. Vogliamo solo avere vicini amichevoli nei nostri confronti.

Credevate davvero che voi e l’Ucraina avreste firmato un accordo di associazione, avreste aperto tutti i mercati ed i confini ucraini, e l’Ucraina, come membro della vostra zona doganale, sarebbe stata una porta per i nostri mercati? Ve lo avevamo detto: “Ragazzi, non potete farlo, fermatevi”. Nessuno ci è stato a sentire. Ci hanno detto: “Noi non interferiamo nei vostri accordi con la Cina. Voi non interferite nei nostri accordi con il Canada. Allora state fuori dai nostri accordi con l’Ucraina”. Questo è quello che ci hanno detto, letteralmente. Che accidenti di posizione è questa? Nessuno ha mai voluto tener conto del fatto che noi abbiamo delle relazioni speciali con l’Ucraina, e che alcuni settori della nostra economica sono legati a quel paese. E allora, ritorniamo ad un dialogo costruttivo e sostanziale, direbbero i diplomatici. Siamo pronti, e siamo lieti di farlo, prima è meglio è, visto che nemmeno noi abbiamo bisogno di conflitti in corso ai nostri confini.

(…)

Spero fortemente che faremo dei progressi. Lo dico in assoluta sincerità. Ma non basta fare appello solo alla Russia: bisogna influenzare anche la posizione di Kiev. Ora hanno preso una decisione sulla lingua, essenzialmente proibendo l’uso di lingue di minoranze etniche nelle scuole. L’Ungheria e la Romania hanno avanzato riserve. Anche la Polonia ha fatto qualche commento a riguardo. Ma l’Unione Europea nel suo complesso è rimasta muta. Perché non condannate questa cosa? Silenzio. Poi hanno fatto un monumento a Petlyura. Un uomo con opinioni nazistoidi, un antisemita che uccise ebrei durante la guerra. A parte il Congresso Ebraico Sionista, tutti gli altri hanno taciuto. Avete paura di offendere i vostri pupilli di Kiev, vero? Tutto questo non è fatto per popolo ucraino, è fatto per soddisfare le esigenze delle principali autorità al potere. E perché tacete? Fino a che non viene compreso che questo problema non si può risolvere senza influenzare l’ altra parte, non succederà nulla. Spero che alla fine questa consapevolezza arriverà.

Io vedo l’interesse dei nostri interlocutori, principalmente dei nostri interlocutori europei, alla soluzione di questo conflitto. Vedo il loro interesse autentico. Angela Merkel si impegna parecchio, ci mette tempo, e sta prendendo grande confidenza con queste faccende. Sia l’ex presidente della Francia che il Presidente Macron fanno attenzione alla vicenda. Ci lavorano concretamente. In ogni caso non è sufficiente lavorarci sul piano tecnico e tecnologico, serve un intervento politico. E’ essenziale esercitare una pressione sulle autorità di Kiev, costringerle a fare almeno qualcosa. Per concludere: anche l’ Ucraina ha un interesse a che le nostre relazioni si normalizzino. Ultimamente hanno deciso di imporre sanzioni contro di noi, come ha fatto l’Unione Europa. Abbiamo risposto per le rime. Il Presidente mi ha chiesto: “Perché lo avete fatto?”. Dico: “Beh, perché voi lo avete fatto a noi.”. Allora lui (sentite, è fantastico!): “Si ma le nostre sanzioni non vi fanno nulla, mentre le vostre ci danneggiano sul serio!”. E allora? Pensavate che avreste fatto una cosa del genere senza una risposta? Sono rimasto senza parole.

Ma la situazione attuale è insostenibile e deve essere risolta, credo che ciò sia ovvio e, cosa più importante, credo che ciò sia ovvio per la stragrande maggioranza dei cittadini ucraini. A noi piace l’Ucraina, e io personalmente considero il popolo ucraino come una nazione sorella se non addirittura come la stessa nazione, parte della nazione russa. Sebbene ciò non piaccia ai nazionalisti russi, e nemmeno a quelli ucraini, questa è la mia posizione, il mio punto di vista. Presto o tardi succederà: ci sarà una riunificazione, non a livello interstatale, ma in termini di ripristino delle relazioni. Prima sarà, meglio sarà, faremo del nostro meglio per giungere a questo fine.

 

Arabia Saudita

Vladimir Putin: il mondo sta cambiando, tutti i paesi stanno cambiando e le relazioni tra gli stati stanno cambiando. In questo non c’è nulla di insolito. Infatti, ai tempi dell’Unione Sovietica, i rapporti tra l’Arabia Saudita e l’Unione Sovietica erano abbastanza buoni, ma vi erano vincoli di natura puramente ideologica. Oggi non ve n’è alcuno, e non c’è niente che possa fondamentalmente dividerci. Ora, cosa può unirci con l’Arabia Saudita o altri paesi della regione? Non vedo in realtà alcuna ragione per queste linee di divisione. Ho un rapporto personale molto buono, quasi amichevole, con quasi tutti i leader di questi stati.

La visita del Re dell’Arabia Saudita è stata un grande onore per noi. E’ stato un evento storico, tra l’altro si è trattato della prima visita del Re saudita in Russia. Da solo questo evento mostra l’atteggiamento dell’Arabia Saudita verso la costruzione di un rapporto con la Russia.

Non abbiamo assolutamente alcun problema con il fatto che questi paesi, inclusi l’Arabia Saudita, abbiano i loro particolari interessi, legami storici e relazioni d’alleanza con, tra gli altri, gli Stati Uniti. Perché dovrebbe preoccuparci? Questo non significa che ci è proibito lavorare con l’Arabia Saudita; lo faremo. Per quanto riguarda l’Arabia Saudita e gli altri paesi della regione, sceglieranno loro con chi preferiranno lavorare e su quali temi.

La Russia sta dimostrando stabilità, prevedibilità e affidabilità nella sua politica estera. E credo che questo possa interessare i nostri partners. Inoltre abbiamo interessi economici in comune – soprattutto interessi di natura globale. Ora, abbiamo coordinato la nostra posizione sul mercato dell’energia con le nazioni dell’OPEC, soprattutto con l’Arabia Saudita e il prezzo (del greggio) è rimasto stabile, circa 50 dollari (al barile). Lo consideriamo un prezzo equo; per noi è abbastanza adeguato. Questo è un risultato di sforzi congiunti.

Non ci sono altri risultati. Le prime opportunità sono emerse per la cooperazione nella tecnologia della difesa. Si, esistono contratti multi-miliardari con gli Stati Uniti. Ottimo! Sapete cosa dice la nostra gente? “I polli beccano un granello alla volta.” I nostri legami si espanderanno lentamente e forse questi contratti cresceranno.
Mi è stato anche chiesto se abbiamo paura che l’Arabia Saudita sarà nuovamente con gli Stati Uniti, non abbiamo paura di niente! Di cosa dovremmo avere paura? Sapete, è l’Arabia Saudita che dovrebbe avere paura, per così dire, che gli americani portino la democratizzazione in Arabia Saudita. Questo è ciò che dovrebbero temere. Ma cosa c’è da temere per noi? Abbiamo già la democrazia. Continueremo a lavorare.

Catalogna

La situazione in Spagna dimostra chiaramente quanto possa essere fragile la stabilità persino in uno stato prospero e consolidato. Chi se lo sarebbe aspettato, anche solo di recente, che la discussione sullo status della Catalogna, che ha una lunga storia, potesse risultare in una acuta crisi politica?

La posizione russa è nota. Tutto ciò che sta accadendo è una questione interna alla Spagna e deve essere risolta sulle basi della legge spagnola in conformità con le tradizioni democratiche. Siamo consapevoli che la leadership del paese sta prendendo misure in questa direzione.

Nel caso della Catalogna, abbiamo visto che l’Unione Europea e alcuni altri stati condannano all’unanimità i sostenitori dell’indipendenza.

Sapete, a questo proposito non posso fare a meno di notare che sarebbe stato il caso di pensarci prima. Cosa, nessuno era consapevole dell’esistenza di questi disaccordi centenari in Europa? Lo erano, non è vero? Certo che lo erano. Tuttavia ad un certo punto hanno accolto con favore la disintegrazione di un numero di stati in Europa senza nascondere la loro gioia.

Perché sono stati così sconsiderati, guidati da fugaci considerazioni politiche e dal loro desiderio di appagare il loro grande fratello a Washington, fornendogli sostegno incondizionato alla secessione del Kosovo, provocando così simili processi in altre regioni europee e nel mondo?

Ricorderete che quando la Crimea ha dichiarato l’indipendenza, e in seguito – dopo il referendum – ha dichiarato di voler far parte della Russia, tutto ciò non è stato accolto bene per qualche ragione. Ora abbiamo la Catalogna. C’è un problema simile in un’altra regione, il Kurdistan. Forse questa lista è tutt’altro che esaustiva, ma dobbiamo chiederci, cosa faremo? Cosa dovremmo pensare a riguardo?

Si scopre che alcuni dei nostri colleghi ritengono che ci siano “buoni” combattenti per l’indipendenza e la libertà, e che ci siano “separatisti” che non hanno alcuna possibilità di difendere i propri diritti, anche con l’uso di meccanismi democratici. Come diciamo sempre in casi simili, questi doppi standard – e questo rappresenta un esempio di doppio standard – costituiscono un grave pericolo allo sviluppo stabile dell’Europa e degli altri continenti, e al progresso dei processi di integrazione nel mondo.

Catalogna 2

Per quanto riguarda la “sfilata delle sovranità”, come ha affermato, e il nostro atteggiamento a riguardo… In realtà credo in una dimensione globale, la creazione di stati mono-etnici potrebbe portare a scontri nella lotta per la realizzazione degli interessi di stati mono-etnici di nuova costituzione. Questo è ciò che probabilmente accadrà.

E’ per questo che le persone che vivono in uno stato unificato all’interno dei confini comuni hanno una maggiore probabilità che il loro stato persegua una politica equilibrata. Guardate la Russia. I musulmani costituiscono circa il 10 per cento della nostra popolazione, che significa molto. Non sono stranieri o migranti. La Russia è la loro unica patria e la vedono come tale. Cosa ci ha incoraggiati a fare? Ho suggerito di puntare allo status di osservatore all’Organizzazione della Cooperazione Islamica. Ciò influenza le nostre politiche estere e domestiche, rendendo la nostra politica più bilanciata e attenta a questa parte della comunità internazionale. Lo stesso vale per altri paesi.

Per quanto riguarda la sentenza della corte delle Nazioni Unite, ce l’ho. Non l’ho citata in modo da non sprecare il vostro tempo. Ho letto la sentenza perché sapevo che avremmo affrontato la questione. Siete esperti, quindi sapete tutto a riguardo. Vorrei tuttavia ricordarvi che l’8 Novembre 2008, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato la Risoluzione 63/3. Domanda: la dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte delle istituzioni temporanee del Kosovo è conforme al diritto internazionale? Questa domanda è stata trasmessa alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia.

Il 22 Luglio 2010, dopo due anni di deliberazioni, la Corte dell’Aia ha emesso un Parere Consultivo secondo il quale la dichiarazione d’indipendenza del Kosovo, adottata il 17 Febbraio 2008, non ha violato il diritto internazionale. In linea di principio la decisione del tribunale riguarda non solo il Kosovo ma anche l’applicabilità del diritto internazionale alla dichiarazione d’indipendenza da parte di qualsiasi Stato. In questo senso avete assolutamente ragione che questa ampia interpretazione non sia applicabile al Kosovo. Era una sentenza che ha aperto la scatola di Pandora. Si, avete perfettamente ragione a questo proposito. Un centro perfetto.

Guardate cosa dice la sentenza del tribunale del 22 Luglio 2010. Il paragrafo 79: “La pratica degli Stati in questi ultimi casi non fa riferimento all’emergere di una nuova regola nel diritto internazionale che vieti la dichiarazione d’indipendenza in tali casi”. Punto 81: “Nessun divieto generale contro le dichiarazioni di indipendenza unilaterali può essere dedotto dalla pratica del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”. Paragrafo 84: “Il tribunale ritiene che il diritto internazionale generale non contenga alcun divieto applicabile alle dichiarazioni d’indipendenza. Di conseguenza, conclude che la dichiarazione d’indipendenza del 17 Febbraio 2008 non ha violato il diritto internazionale generale”. Eccolo qua, in bianco e nero.

Come hanno spinto e fatto pressioni alla Corte Internazionale dell’Aia, questi paesi Occidentali! Sappiamo per certo che gli Stati Uniti avevano una raccomandazione scritta per la Corte Internazionale. Il Dipartimento di Stato scrisse: “Il principio dell’integrità territoriale non esclude la creazione di nuovi stati nel territorio di stati già esistenti”.
Sotto: “Le dichiarazioni di indipendenza possono (e spesso lo fanno) violare la legislazione nazionale. Tuttavia ciò non significa che sia una violazione del diritto internazionale.” Inoltre “In molti casi, compreso il Kosovo, le circostanze della dichiarazione d’indipendenza possono significare un rispetto fondamentale del diritto internazionale da parte del nuovo stato”.

La Germania: “Questa è una questione di diritto dei popoli per l’autodeterminazione. Il diritto internazionale che riguarda l’integrità territoriale degli stati non si applica a tali popoli.” Decisero di dichiarare l’indipendenza, beh, bene per loro. E i loro principi di integrità non si applicano a questo stato.

L’ Inghilterra: “La secessione o la dichiarazione d’indipendenza non contraddice la legge internazionale”

La Francia: “Esso (il diritto internazionale) non la consente (la secessione o separazione) ma in generale non la vieta”.

Poi c’era la reazione alla sentenza della Corte. Ecco cosa scriveva la signora Clinton (qualcuno potrebbe aver lavorato con lei) dopo la sentenza: “Il Kosovo è uno Stato indipendente e il suo territorio è inviolabile. Invitiamo tutti gli Stati a non concentrarsi eccessivamente sullo status del Kosovo e dare il proprio contributo costruttivo a sostegno della pace e della stabilità nei Balcani. Invitiamo i paesi che non hanno ancora conosciuto il Kosovo a farlo”.

Germania: “La sentenza consultiva della Corte Internazionale conferma che la nostra valutazione giuridica della legittimità della dichiarazione d’indipendenza del Kosovo. Rafforza la nostra opinione che l’indipendenza e l’integrità territoriale della Repubblica del Kosovo siano innegabili”.

Francia: “L’indipendenza del Kosovo è irreversibile. La sentenza della Corte Internazionale, che ha terminato i dibattiti legali in materia, è diventata una pietra miliare e permetterà a tutte le parti di dedicarsi ad altre questioni importanti da risolvere”.

Ora, “altre questioni importanti” sono sorte oggi, e non è piaciuto a nessuno quando queste “altre questioni importanti” sono emerse. A nessuno! Questo è ciò che chiamo “doppi standard”. Questo esempio rappresenta la scatola di Pandora che è stata aperta e il genio a cui è stato permesso di uscire dalla lampada.
Qual’è la nostra posizione in questo caso? Ho detto, stavo dicendo, se avete ascoltato con attenzione, stavo dicendo che speravo che il problema fosse risolto sulla base della legislazione della Costituzione spagnola. Credo che questa sia la sua fine. La sua fine. Tuttavia, ovviamente, dobbiamo stare attenti a tali questioni e molto sensibili a tutto ciò che sta succedendo. Speriamo che tutto venga risolto nel quadro di istituzioni e procedure democratiche; non ci saranno più prigionieri politici e così via. Ma questo è un problema interno al paese. Credo sia sufficiente.

Cina

Come saprete durante i nostri incontri ci chiamiamo pubblicamente amici. Questo dimostra quanto sia evoluto il livello delle relazioni tra noi, sul piano umano.

Tuttavia, oltre a tutto ciò, sosteniamo gli interessi delle nostre nazioni. Come dicono i diplomatici, spesso questi interessi sono molto vicini o identici. Ha continuato ad evolversi una situazione incredibile e, volendo Dio, continuerà a farlo il più a lungo possibile: raggiungiamo sempre un consenso su ogni tema, anche apparentemente controverso; raggiungiamo sempre un accordo, cerchiamo soluzioni di compromesso e le troviamo.

In ultimo, questi accordi portano benefici ad entrambi gli stati, perché ci muoviamo in avanti, non ci fissiamo, non ci fermiamo, non conduciamo la situazione in un vicolo cieco, ma risolviamo le questioni controverse e andiamo avanti, e nasceranno nuove opportunità. Questa è una pratica molto positiva.

Quanto al congresso di partito in Cina, lo seguiamo attentamente e noto l’inusuale apertura di questo congresso. Credo che ci sia un numero di giornalisti e membri della comunità internazionale senza precedenti. Non vi è dubbio che tutto ciò che il Presidente della Cina ha detto, il suo discorso e le discussioni in corso mostrano che la Cina è focalizzata sul futuro.

Stiamo vedendo sia difficoltà che prospettive. Come accennato prima, la Cina ha prospettive economiche meravigliose: la crescita del 6-8 per cento del PIL, credo nei primi tre trimestri dell’anno. Questo sarà poco meno di prima, ma non fa differenza. Credo che i cambiamenti in corso nel mercato del lavoro e sull’economia in quanto tale siano dietro a questa crescita. Nel complesso la Cina, in linea con l’India che anche lei dimostra una crescita economica molto buona, è certamente un “trader” economico globale.

Abbiamo il più alto scambio commerciale tra stati con la Cina, ed enormi piani congiunti. Incluse alcune sfere veramente significative e importanti, come lo spazio, l’alta tecnologia e l’energia. Tutto ciò sta posando le basi per le nostre future relazioni intestatali.

Corea del Nord

Come sapete, la situazione è pericolosa. Parlare di un attacco preventivo di disarmo (abbiamo udito tali suggerimenti o persino minacce dirette) è pericoloso. L’ho detto così tante volte.

Chissà dove e cosa hanno nascosto i nord coreani, e se saranno in grado di distruggere tutto in una singolo attacco. Ne dubito. Sono quasi sicuro che sia impossibile. Anche se teoricamente sarebbe possibile, ma estremamente pericoloso.

Anche se supponiamo che siano messi alla prova per scoprire cosa hanno nascosto e dove, non tutto sarà trovato. Quindi c’è un solo modo, cioè raggiungere un accordo e trattare questa nazione con rispetto.

L’ho citato tra le mie osservazioni.

Che ruolo può giocare la Russia? In questo caso può agire come un intermediario. Abbiamo proposto una serie di progetti tripartiti congiunti che coinvolgono la Russia, Corea del Nord e Corea del Sud. Essi comprendono la costruzione di una ferrovia, trasporto tramite oleodotti e così via. Dobbiamo lavorare. Dobbiamo liberarci di una retorica belligerante, realizzare il pericolo associato a questa situazione e andare oltre le nostre ambizioni. E’ imperativo smettere di discutere. E’ così semplice.

Qualcosa che ho già menzionato qui. Siamo stati d’accordo ad un certo punto che la Corea del Nord avrebbe fermato i suoi programmi di armi nucleari. No, i nostri partner americani pensavano che non fosse abbastanza e, poche settimane dopo credo, dopo l’accordo, hanno imposto nuove sanzioni, dicendo che la Corea dovrebbe fare meglio. Forse può, ma non ha assunto tali obblighi. Inoltre si ritirò da tutti gli accordi, e riprese a fare tutto ciò che faceva prima. Dobbiamo utilizzare moderazione in tutte queste azioni. Allora abbiamo raggiunto un accordo, e penso che potremmo farlo di nuovo.

Disarmo

Poche ore fa mi è stato detto che il Presidente degli Stati Uniti ha detto qualcosa sui social media riguardo la cooperazione Russia-USA nell’importante ambito della cooperazione nucleare. E’ vero che questa è la sfera più importante dell’iterazione tra Russia e Stati Uniti, tenendo presente che la Russia e gli Stati Uniti hanno una speciale responsabilità nei confronti del pianeta, essendo le due più grandi potenze nucleari.

Tuttavia vorrei usare questa opportunità per parlare più in dettaglio di quanto è accaduto negli ultimi decenni in questa area cruciale, per fornire un quadro più completo. Ci vorranno almeno due minuti.

Negli anni ’90 sono stati firmati diversi accordi bilaterali. Il primo, il programma Nunn-Lugar è stato firmato il 17 Giugno 1992. Il secondo, il programma HEU-LEU è stato firmato il 18 Febbraio 1993. L’uranio a basso arricchimento, quindi HEU-LEU.

I progetti del primo accordo si sono concentrati sull’aggiornamento dei sistemi di controllo, la contabilità e la protezione fisica dei materiali nucleari, lo smantellamento e la rottamazione dei sommergibili e i generatori termoelettrici a radioisotopo.

Gli americani hanno fatto – e si prega di prestare la massima attenzione su questo punto, non è una informazione segreta, semplicemente pochi ne sono a conoscenza – 620 visite di verifica in Russia per verificare la nostra conformità agli accordi. Hanno visitato i più sacri complessi di armi nucleari russe, vale a dire le imprese impegnate nello sviluppo di testate nucleari e munizioni, plutonio per armamenti e uranio. Gli Stati Uniti hanno ottenuto l’accesso a tutte le infrastrutture segrete in Russia. Inoltre l’accordo era di natura quasi unilaterale. Sotto il secondo accordo, gli americani hanno visitato i nostri impianti di arricchimento altre 170 volte, visitando le aree con accesso limitato, come le unità di miscelazione e le strutture di stoccaggio. L’impianto di arricchimento nucleare più potente al mondo – la Ural Eletrochemical Combine – aveva persino un presidio d’osservazione americano. Lavori permanenti erano creati direttamente presso i laboratori dove gli specialisti americani andavano a lavorare quotidianamente. Le stanze dove queste persone sedevano, in queste strutture segrete russe, avevano bandiere americane, come sempre.

Inoltre è stata redatta una lista di 100 specialisti americani di 10 diverse organizzazioni statunitensi che avevano il diritto di effettuare ispezioni supplementari in qualsiasi momento e senza alcun avvertimento. Tutto questo è durato per 10 anni. Secondo questo accordo 500 tonnellate di uranio per armamenti sono state rimosse dalla circolazione in Russia, equivalente a circa 20.000 testate nucleari.

Il programma HEU-LEU è diventato una delle misure più efficaci del vero disarmo nella storia dell’umanità – lo dico con piena fiducia. Ogni passo sul lato russo è stato attentamente monitorato dagli specialisti americani, in un momento in cui gli Stati Uniti si sono limitati a riduzioni del loro arsenale nucleare molto più modeste e lo han fatto su una pura base di buona volontà.

I nostri specialisti hanno anche visitato le imprese del complesso degli armamenti nucleari statunitensi, ma solo a loro invito e a condizioni stabilite dagli Stati Uniti.

Come si vede, il lato russo ha dimostrato un’apertura e una fiducia assolutamente senza precedenti. Per caso – e parleremo probabilmente di questo in seguito – tutti sanno cosa ne abbiamo ricavato da tutto ciò: sono stati totalmente trascurati i nostri interessi nazionali, è stato dato sostegno al separatismo nel Caucaso, azioni militari che hanno circonvenuto il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, come il bombardamento della Jugoslavia e di Belgrado, l’introduzione di truppe in Iraq e così via. Ebbene, è facile da capire: una volta che la condizione delle forze armate e del complesso nucleare erano state osservate, la legge internazionale pareva inutile.

Negli anni 2000 la nostra collaborazione con gli Stati Uniti è entrata in una nuova fase di collaborazione veramente equa. E’ stato caratterizzato dalla firma di un certo numero di trattati strategici e di accordi sugli usi pacifici dell’energia nucleare, noto negli Stati Uniti come Accordo 123. Ma nonostante tutti gli intenti e gli scopi, gli Stati Uniti hanno interrotto l’accordo unilateralmente nel 2014. La situazione attorno al Plutonium Management and Disposition Agreement (PMDA) del 20 Agosto  2000 (firmato a Mosca) e del 1 Settembre (firmato a Washington) fa pensare ed è allarmante. Secondo il protocollo di questo accordo, le parti dovevano intraprendere passi reciproci per trasformare in modo irreversibile il plutonio degli armamenti in combustibile di ossido misto (MOX) e bruciarlo in centrali nucleari, in modo da non poter essere più usato per scopi militari. Qualsiasi modifica in questo metodo è stata consentita solo tramite il consenso delle due parti.

Questo è scritto nell’accordo e nei suoi protocolli.

Cosa ha fatto la Russia? Abbiamo sviluppato questo combustibile, abbiamo costruito un impianto per la produzione di massa e, come ci siamo impegnati nell’accordo, abbiamo costruito un impianto BN-800 che ci ha permesso di bruciare questo combustibile in sicurezza. Vorrei sottolineare che la Russia ha adempiuto a tutti i suoi impegni. Cosa hanno fatto i nostri partner americani? Hanno cominciato a costruire un impianto sul sito del fiume Savannah. Il suo prezzo iniziale era di 4,86 miliardi di dollari, ma hanno speso quasi 8 miliardi, sono arrivati al 70% della costruzione e poi han congelato il progetto. Ma a nostra conoscenza la richiesta di bilancio per il 2018 include 270 milioni per la chiusura e l’arresto di questa struttura. Come al solito ci si pone una domanda: dove sono i soldi? Probabilmente rubati. O hanno pianificato male qualcosa durante la costruzione. Queste cose succedono. E qua capitano troppo spesso. Ma questo non ci interessa, non ci riguarda. Ci interessa ciò che accade all’uranio e il plutonio. A che punto siamo con lo smaltimento del plutonio? Si propone la diluizione e lo stoccaggio geologico del plutonio. Ma questo contraddice completamente lo spirito e la lettera dell’accordo, e soprattutto non garantisce che la diluizione non sia riconvertita in plutonio da armamenti. Tutto questo è una sfortuna ed è sconcertante.

E ancora. La Russia ha ratificato il Trattato Globale di Blocco dei Test Nucleari più di 17 anni fa. Gli Usa non lo hanno ancora fatto.

Si sta sviluppando una massa critica di problemi nella sicurezza globale. Com’è noto, nel 2002 gli Stati Uniti sono usciti dal Trattato Anti-Missili Balistici. E pur essendo i promotori della Convenzione sul divieto delle armi chimiche e della sicurezza internazionale – essi stessi hanno avviato l’accordo – non riescono a rispettare i loro impegni. Restano ad oggi l’unico e più grande detentore di armi di distruzioni di massa. Inoltre gli Stati Uniti hanno posticipato la scadenza per eliminare le loro armi chimiche, dal 2007 al 2023. Non sembra opportuno per una nazione che sostiene di essere un campione di non proliferazione e controllo.

Al contrario, in Russia il processo è stato completato il 27 settembre di quest’anno. In questo modo il nostro Paese ha contribuito significativamente al rafforzamento della sicurezza internazionale. A tale proposito, i media occidentali preferivano tacere per non notarlo, v’è stata una menzione da qualche parte in Canada ma è stato tutto, poi il silenzio. Nel frattempo l’arsenale delle armi chimiche immagazzinato dall’Unione Sovietica è sufficiente da uccidere la vita sul pianeta più volte. Credo sia giunto il momento di abbandonare un programma obsoleto. Mi riferisco a ciò che era. Senza dubbio dobbiamo guardare avanti, dobbiamo smettere di guardare indietro. Sto parlando di tutto questo per capire le origini dell’attuale situazione che sta prendendo forma.

Disarmo 2

Se mi chiedete se il disarmo nucleare è possibile o no, direi, sì, è possibile. La Russia vuole un disarmo nucleare universale o no? Anche qui la risposta è sì, la Russia lo vuole e lavorerà per raggiungerlo. Questa è il lato buono.

Tuttavia, come sempre, ci sono problemi che fanno pensare. Le moderne potenze nucleari ad alta tecnologia stanno sviluppando altri tipi di armi, con maggiore precisione e solo leggermente inferiori alle armi nucleari nella loro forza distruttiva. Le armi nucleari includono bombe e missili che colpiscono grandi aree, trasportando una potente carica che colpisce un territorio enorme con il potere dell’esplosione e delle radiazioni. Le moderne forze armate ad alta tecnologia cercano di sviluppare e mettere in servizio armi ad alta precisione, che si avvicinano alle armi nucleari nel loro potere distruttivo; non proprio, ma vicino. Penso che se lo prendiamo questo problema seriamente – vedo cosa sta succedendo nel mondo: quelli che dicono di essere pronti sono pronti quanto hanno progredito nello sviluppo e nella distribuzione di nuovi sistemi d’arma. Devo subito dire che saremo pronti anche per questo mentre seguiremo attentamente ciò che sta succedendo nel mondo, non appena il nostro Paese avrà nuovi sistemi non nucleari, anche quelli non nucleari.

Disarmo 3

Non torniamo agli anni ’50. Sono stati fatti tentativi per rimandarci indietro. Avete citato alcuni accordi. Ci sono tre accordi in cui abbiamo sospeso la nostra partecipazione. Perché l’abbiamo fatto? Perché i nostri partner americani non stanno facendo nulla.

Non possiamo fare tutto da soli. Abbiamo preso una decisione unilaterale per eliminare le nostre armi chimiche e le abbiamo eliminate, come ho detto nei commenti di apertura. Ma i nostri partner americani han detto che non faranno ancora la stessa cosa, perché non hanno i soldi per questo.

Non hanno i soldi? La zecca americana sta stampando dollari, ma non hanno soldi. Abbiamo trovato i soldi per costruire gli stabilimenti per la distruzione delle armi chimiche. Credo abbiamo costruito otto impianti, investendo enormi fondi nella costruzione e nell’addestramento di personale. E’ stato un lavoro titanico. Stiamo pensando adesso ad altri modi per utilizzare queste strutture.

Come ho detto quando parlavo del plutonio, abbiamo creato un sistema per trasformare il plutonio degli armamenti in combustibile in combustibile ad ossido misto. Sono serviti oltretutto soldi e sforzi, perché la questione riguarda gli investimenti. Abbiamo costruito un reattore e coordinato il metodo per distruggere questo plutonio con gli americani. Ma poi hanno intrapreso un passo unilaterale in violazione dell’accordo senza neanche avvisarci, come si dovrebbe fare tra partner. Come lo sappiamo? Lo abbiamo appreso da una presentazione del bilancio al Congresso. Hanno chiesto milioni di dollari per finanziare un nuovo metodo di utilizzazione e hanno posticipato il processo per un periodo non specificato.

No, non dovrebbe essere così. Con questo nuovo metodo americano il plutonio può essere convertito in armi. Non ci siamo ritirati da questi accordi ma li abbiamo sospesi, aspettando una reazione normale dai nostri partner.

Speriamo riprendano i negoziati.

Per quanto riguarda il trattato anti-missilistico sono d’accordo con voi, l’ho detto molte volte, e altri l’han fatto – tutti gli esperti sono d’accordo su questo –, che questo trattato era la base della sicurezza internazionale nel campo delle armi strategiche. Ma no, anni di negoziati con i nostri amici americani non sono riusciti a convincerli a rimanere nei limiti del trattato.

Ora veniamo a conoscenza che anche il nuovo trattato START non funziona. Non ci stiamo ritirando dal trattato, anche se qualcosa può non funzionare con noi. Questo fa sempre parte di un qualche tipo di compromesso. Tuttavia è meglio avere alcuni accordi piuttosto che nessuno. Se lo capiamo, faremo qualsiasi cosa per rispettare i nostri impegni, e li rispetteremo.

Ora torniamo al trattato INF, sui missili a medio e breve distanza.

Hanno sempre detto, beh, non sempre, ma recentemente abbiamo sentito molte accuse, la Russia avrebbe violato questo trattato accampando qualche scusa. Saremmo tentati di farlo se solo non avessimo missili per aria e per mare. Ora li abbiamo. Gli Stati Uniti avevano tali missili, noi no.

Quando abbiamo accettato di eliminare i missili a medio e corto raggio, l’accordo riguardava i missili Pershing, che sono situati a terra, e i nostri sistemi missilistici.

Tra l’altro, quando i nostri missili intermedi e a corto raggio sono stati eliminati il nostro ingegnere capo si è suicidato, perché credeva di tradire il suo paese. Questa è una storia tragica, cambiamola.

Tuttavia gli Stati Uniti hanno ancora missili trasportabili per aria e per mare. Infatti questo è stato un disarmo unilaterale anche per il lato sovietico, ma ora abbiamo missili sia per aria che per mare. Avete visto quanto sono efficaci i missili Kalibr: dal Mar Mediterraneo, dal Mar Caspio, dall’aria o da un sommergibile, qualunque cosa si possa desiderare.

Abbiamo inoltre altri sistemi missilistici oltre al Kalibr che ha una portata di 1.400 km, molto potenti con una portata operativa di 4.500 km. Crediamo di aver solo bilanciato la situazione. Se a qualcuno non piacesse e desiderasse ritirarsi dal trattato, per esempio i nostri partner americani, la nostra risposta sarebbe immediata, vorrei ripeterlo come avvertimento. Immediata e reciproca.

Elezioni presidenziali Russe del 2018

Fyodor Lukyanov: si tratta delle elezioni. Ha intenzione di …?

Vladimir Putin: È giunto il momento di concludere …

Fyodor Lukyanov: Ecco perché non stiamo ponendo questa domanda. Tuttavia, vorrei dirlo in modo indiretto.
Innanzitutto, il Club di Valdai ha difficoltà ad immaginare come dovremo incontrarci se prenderà una decisione diversa. Ci siamo abituati. Lei è come un talismano per noi. Sarà difficile.

Vladimir Putin: Significa che non mi inviterà? O che mi cancellerà immediatamente dalla lista dei prodotti alimentari come un soldato smobilitato?

Fyodor Lukyanov: Va bene siamo s’accordo.

In secondo luogo, l’unico a cui mancherebbe tanto quanto a noi – per fortuna o purtroppo, non c’è niente che possiamo fare a riguardo – sarebbe il pubblico mondiale, in particolare il pubblico occidentale. Perché attualmente sta svolgendo una funzione molto importante.
Quando tutto è detto e fatto, lei è un polo – un polo del male probabilmente che consolida e mobilita. Non riesco semplicemente ad immaginare come potrebbero andare avanti senza di lei. Quindi mi sembra che dovrebbe pensare molto prima di prendere una decisione. Il mondo ha bisogno di lei!

Vladimir Putin: Guardai Petr Aven e mi vennero in mente i nostri oligarchi. In chiusura, vi racconterò una storia meravigliosa.
Un oligarca è andato in bancarotta (non Aven, sta andando bene, parleremo ancora dello sviluppo di Alfa Group, ma cose simili capitano) e sta parlando con sua moglie. Questo è una vecchia barzelletta- così vecchia che gli è cresciuta una barba – probabilmente più lunga della sua. Così le dice: “Sai, dovremo vendere la Mercedes e comprare una Lada.” “Bene.” “Dobbiamo spostarci dalla casa Rublyovka al nostro appartamento a Mosca.” “Okay.” “Ma mi amerai ancora? “E lei:” Ti amerò moltissimo, e mi mancherai tanto “. Quindi non credo che mancherò loro molto a lungo.

Fyodor Lukyanov: Anche a noi mancherà, fino alla prossima riunione del Club Valdai.

Un grande grazie a tutti i partecipanti. Grazie a tutti i nostri colleghi. Credo che oggi abbiamo coperto moltissimi temi, forse abbiamo registrato un record.
Grazie mille. Vi auguro il meglio.

Lo scontro tra le diverse Europe: due Dichiarazioni, di Alessandro Visalli

Prosegue il dibattito sui due documenti pubblicati da “Italia e il Mondo” a proposito di Europa, Europe ed europeismo http://italiaeilmondo.com/2017/10/24/quale-europa-a-cura-di-giuseppe-germinario/ .  In aggiunta alla nota di Luigi Longo e all’intervento di Roberto Buffagni segue un contributo di Alessandro Visalli, tratto dal blog https://tempofertile.blogspot.it/2017/10/lo-scontro-tra-le-diverse-europe-due.html ,

cui seguirà una replica dello stesso Buffagni

 

Sulla pagina on line “Italia e il Mondo”, è uscito un articolo dal titolo “Due appelli, due Europe” del mio amico Roberto Buffagni nel quale è presente una interessante lettura di due diversi appelli, usciti negli ultimi tempi, nel campo conservatore, sul destino dell’Europa. Sono molto diversi, decisamente opposti: il primo parla di ‘progetto’, il secondo di uno scontro nel quale è in campo il ‘proprio sé’. Il primo è stato scritto da una importante istituzione che ha sede a Bruxelles e finanzia azioni politiche e culturali per la promozione della democrazia, fornendo quelli che chiama “finanziamenti veloci e flessibili”; ne fanno parte politici come Elmar Brok (CDU), Andrej Grzyb (PP), Bogdan Wenta (PPE), Cristian Preda (PPE), Pier Antonio Panzieri (PD), Alexander Lambsdorff (Partito Liberale), Elena Valenziano Martinez-Orozco (PSE), Mark Demesmaeker (conservatori e riformisti) e Tamas Meszerics (Verde ungherese). Il secondo da un gruppo di intellettuali accademici caratterizzati da una netta prevalenza dei filosofi politici e dall’essere conservatori di chiara fama.

La prima Dichiarazione chiama all’azione culturale e propagandistica (il campo del proponente) per la “democrazia”, ma intende una specifica connotazione del termine, la seconda ad una battaglia egemonica contro l’utopia di un mondo globalizzato, in cui le nazioni si dissolvano progressivamente in una utopistica unità multiculturale (ovvero, tradotto in termini realistici, siano inquadrate senza resti in un’unità imperiale). Del resto giova ricordare che la relazione tra democrazia e progetto del governo mondiale, pur avendo importanti antisegnani, è soprattutto scritta nella anglosfera di marca conservatrice (uno dei firmatari è Francis Fukuyama).

 appello praga
Coalition for democratic renewal

Si potrebbe dire che si tratta di due testi molto e forse troppo lontani, ma Buffagni li connette su una linea specifica: l’inimicizia reciproca, fondata su diversi orizzonti. Cioè su prospettive diverse in modo irriducibile.

La conclusione che trae (salto molti passaggi) è che sia in corso uno scontro decisivo per la definizione dei nostri tempi, dentro il campo conservatore, tra:

  • – una destra liberale e tecnocratica, ‘progressista’,
  • – e una destra orientata sulla nazione, la cultura comune, ‘conservatrice’ e per questo schierata contro la UE.

La sinistra, invece, è secondo lui indisponibile a produrre una riflessione critica, e tanto meno un’azione politica contro la UE, e dunque si estromette automaticamente dal campo dello scontro ordinato da questa dualità. Cioè non entra nella battaglia.

La sinistra, dice Buffagni in sostanza, è ancora troppo legata alla mossa inaugurale della modernità, ed al mito della rivoluzione (in primis francese) per riconoscere il lato oscuro della ragione illuminista, la sua hybris di potere. Tentativi, per la verità, ce ne sono stati: ad esempio la prima Scuola di Francoforte, più di recente il post-strutturalismo francese, alcune componenti della cultura pragmatista americana, molti antropologi, qualche raro e coraggioso economista, ma non riescono a fare sistema. L’ancoraggio all’industrialismo ed al milieu culturale nel quale i socialismi si formarono, nella prima metà dell’ottocento, è ancora troppo forte; la sostanza della cultura della sinistra, sembra dire, è legata ad una visione fondamentalmente scientista, tardo positivista, e quindi a visioni idealiste della storia (anche se ammantate da un materialismo scolastico che ne nasconde le fattezze). Una tesi del genere la sostiene il filosofo francese radicale Michéa.

Alla fine dunque la sinistra gli appare come una variante, e magari neppure particolarmente interessante, del liberalismo illuminista, la cui versione più coerente e radicale è in fondo quella assunta nella metà del secolo scorso dai pensatori politici ed economisti che per comodità chiamiamo “liberisti”. Dunque per Buffagni mentre la sinistra è solo una versione più ipocrita della posizione della “coalizione per il rinnovamento” e del suo “Appello di Praga”, le posizioni coerentemente conservatrici, senza il peso di doversi districare nella densa tradizione rivoluzionaria, possono andare al nocciolo, espresso nella “Dichiarazione di Parigi” in modo esemplare.

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Per dialogare con questa posizione, proporrò qualche distinzione, ma prima vediamo meglio i due Appelli: sono, come è tipico del genere letterario, delle chiamate alle armi. Il primo, quello di Praga, per la “democrazia liberale”, che sarebbe sotto attacco da parte dei “populismi”. Il secondo, quello di Parigi, per la difesa della “casa” contro una idea trasversale e sbagliata. Chiamano dunque alle armi l’uno contro l’altro.

Più precisamente, l’idea sbagliata, per il secondo, è quella del progresso inevitabile, che viene riclassificato da “fede” (faith nel testo di Praga) in “superstizione”. Non, quindi, realizzazione della cesura della modernità (fatta risalire alle due rivoluzioni liberali settecentesche sulle opposte sponde dell’Atlantico), ma abbandono della casa e sua “requisizione”. Se presa sul serio, infatti, questa idea della cesura, del rasoio che separa le vecchie tradizioni dal moderno, incarnato dallo spirito della ragione, che è propria della ‘fede’ nella forza dell’individualismo illuminista, si estende necessariamente al mondo intero; con la sua forza corrosiva dei legami ascrittivi, essa ha intrinsecamente un respiro di potenza che finisce per classificare necessariamente tutti tra “liberali” e “illiberali”, in uno tra democrazie “avanzate” e “arretrate”. A leggere il primo Appello si vede che le prime si fondano infatti sulla “credenza nella dignità della persona” e quindi nei diritti umani (libertà di espressione, associazione, religione), nel pluralismo e nella competizione, nella “economia di mercato priva di corruzione e capace di offrire opportunità a tutti”, le seconde invece sulle politiche estrattive, sull’oppressione delle persone e sull’oscurantismo, appunto sul tradizionalismo. La prima posizione è cioè ‘progressista’, la seconda ‘conservatrice’.

Buffagni prende quindi da questo elenco di banalità, che spicca per la sua sicumera (potendo dare senza esitazioni patenti al mondo intero, in funzione della maggiore o minore distanza da un sé immaginato e idealizzato), la “dichiarazione di guerra totale all’Europa come realtà storica e come tradizione culturale”.

Si, perché la realtà storica dell’Europa (non del suo “progetto”) è fondata invece nella differenza delle sue profonde culture, e non nasce come un fungo dalla terra nel 1789. Senza considerare questa radice gli estensori dell’appello di Praga, che sono per lo più politici centristi, dicono in sostanza che se non si riconosce che la forma della civiltà occidentale, e per essa la forma politica della democrazia liberale nata dalle due rivoluzioni settecentesche, è superiore si è “relativisti”, e certamente c’è del vero; ma parimenti sarebbe da rimarcare che allora loro sono “assolutisti” (dato che si definisce tale chi sostiene una posizione, appunto, “assoluta”). E le forme di assolutismo hanno un sapore strano, un retrogusto imperialista (se applicate, come del caso, alla geopolitica), mentre il relativismo suona diversamente: ha curiosamente il gusto della libertà.

Questo rovesciamento dovrebbe renderci sensibili al rischio di definire una posizione assiale che non guarda alle proprie premesse, e non le mette in questione. Multiculturalismo sta ad impero, se si tenta di farne una posizione politica, mentre su questo piano il relativismo culturale si connette con l’accettazione del multipolarismo. Stiamo leggendo, ad esempio, la posizione complessa ed in movimento di un autore certamente non conservatore come l’economista egiziano e terzomondista Samir Amin, a partire dal suo “Lo sviluppo ineguale”, del 1973, e poi “Oltre la mondializzazione”, del 1999, ma anche “Per un mondo multipolare”, del 2006, che ripercorre alcuni momenti della formazione della legge del valore mondializzato, trascinata dalla logica implacabile dell’accumulazione che finisce per dominare l’intero sistema sociale. Ciò che spinge verso l’espansione mondiale, e la dissoluzione di ogni resistenza statuale, oltre che nazionale, è per lui la tendenza alla polarizzazione ed alla mobilizzazione delle risorse (tra le quali sono inclusi i portatori di forza-lavoro divenuti emigranti). L’egemonia dell’economico, posta sotto accusa anche dalla Dichiarazione di Parigi, è dunque ciò che va ricondotto a controllo; ciò che nei termini di questa va ‘risecolarizzato’ (dato che si tratta di una sorta di surrogato della religione, come dice anche Amin, cfr OM, p.57). Ovvero che va nuovamente “incastrato in un iceberg di rapporti sociali di cui la politica costituisce la parte emergente” (OM, p.102).

La tesi, che come si vede non è articolabile solo da destra, è che “la ‘mondializzazione mediante il mercato’ è un’utopia reazionaria contro la quale bisogna sviluppare teoricamente e praticamente l’alternativa del progetto umanista di una mondializzazione che si inquadri in una prospettiva socialista” (OM, p.176), ma questa forma di connessione richiede e non inibisce la costituzione di fronti “nazionali, popolari e democratici”. Ciò che bisogna separare è il nesso interno tra una certa visione lineare della storia come progresso verso un qualche telos, l’identificazione della meccanica (quando non anche del telos stesso) con un presunto svolgersi infallibile di leggi dell’economia ‘pura’ (una visione autorizzata da una lettura banalizzante di alcuni passi dello stesso Marx, ma molto più di Engels e di alcuni suoi epigoni), e il precipitare finale di tutto ciò a servizio di un progetto di potenza nascosto in bella vista nella retorica Wilsoniana di tanto in tanto riemergente.

Si tratta di un nodo di grande rilevanza.

Ma qui la “Dichiarazione di Parigi” manifesta il suo tessuto conservatore; conduce infatti la battaglia contro la “falsa” idea del progresso imperialista, dell’uniformante idea assoluta del ‘Vero’ e del ‘Giusto’, sulla base di un’enfatizzazione caratteristica della “casa”. Questa idea riecheggia in effetti dibattiti ripetuti tra le posizioni liberali e quelle variamente ricondotte a posizioni comunitarie (talvolta abbiamo sfiorato un terreno di emergenza di questo antico dibattito in autori orientati a sinistra come Sandel, MacIntyre, anche qui, Walzer, e ne riprenderemo i testi essenziali), ed è riassunta in modo molto eloquente nel primo capoverso:

  1. L’Europa ci appartiene e noi apparteniamo all’Europa.Queste terre sono la nostra casa; non ne abbiamo altra. Le ragioni per cui l’Europa ci è cara superano la nostra capacità di spiegare o di giustificare la nostra lealtà verso di essa. Sono storie, speranze e affetti condivisi. Usanze consolidate, e momenti di pathos e di dolore. Esperienze entusiasmanti di riconciliazione e la promessa di un futuro condiviso. Scenari ed eventi comuni si caricano di significato speciale: per noi, ma non per altri. La casa è un luogo dove le cose sono familiari e dove veniamo riconosciuti per quanto lontano abbiamo vagato. Questa è l’Europa vera, la nostra civiltà preziosa e insostituibile.

Riconnettendosi piuttosto chiaramente alla tradizione conservatrice (che è inaugurata in Europa dal pensiero controrivoluzionario di Burke, de Maistre, Novalis, Schlegel, poi ovviamente Nietszche, e nel novecento Heidegger, autori di cui alcuni degli estensori sono fini studiosi) il progressismo illuminista è qui accusato, in sostanza, di essere parte delle “esagerazioni e distorsioni delle autentiche virtù dell’Europa”, e cieco ai propri “vizi”. Si scivola insomma nello stesso tipo di linguaggio essenzialista che si rivede nella controparte: ci sono posizioni “autentiche” e altre “false” (le prime quindi “vere”), ci sono “distorsioni” (del “retto”). C’è dunque una “Europa falsa”, ed una “vera”, dove la prima smercia caricature e nutre pregiudizi verso il passato. Una Europa che è “orfana”, non riconosce padri, e se ci sono li uccide. Che si sente orgogliosa di questa mossa, si sente forte in essa. Si sente quindi “nobile”. Gioverebbe rileggere per fare mente locale “Filosofie del populismo” di Nicolao Merker.

Una Europa simile, che non c’è, e non ci può essere, in quanto vuota e disincarnata (direbbe Sandel), “incensa se stessa descrivendosi come l’anticipatore di una comunità universale che però non è né universale né una comunità”. Una comunità universale è, infatti, quasi per definizione impossibile. E in quanto impossibile non è universale. Quel che si ha è al massimo una comunità di élite sradicate e interconnesse con i poteri sradicanti del capitalismo di cui parla Amin.

In questo scontro tra tradizioni culturali e politiche l’attacco è assolutamente radicale:

  1. I padrini dell’Europa falsa sono stregati dalle superstizioni del progresso inevitabile. Credono che la Storia stia dalla loro parte, e questa fede li rende altezzosi e sprezzanti, incapaci di riconoscere i difetti del mondo post-nazionale e post-culturale che stanno costruendo. Per di più, ignorano quali siano le fonti vere del decoro autenticamente umano cui peraltro tengono caramente essi stessi, proprio come vi teniamo noi. Ignorano, anzi ripudiano le radici cristiane dell’Europa. Allo stesso tempo, fanno molta attenzione a non offendere i musulmani, immaginando che questi ne abbracceranno con gioia la mentalità laicista e multiculturalista. Affogata nel pregiudizio, nella superstizione e nell’ignoranza, oltre che accecata dalle prospettive vane e autogratulatorie di un futuro utopistico, per riflesso condizionato l’Europa falsa soffoca il dissenso. Tutto ovviamente in nome della libertà e della tolleranza.

Se tutto questo è fondato per gli autori della Dichiarazione, la minaccia che abbiamo davanti è “la stretta asfissiante che l’Europa falsa esercita sulla nostra capacità di immaginare prospettive”.

Scriveva Heidegger in “Lettera sull’umanismo”, nel 1949: “l’essenza dell’agire è portare a compimento [e non produrre un effetto in base alla sua mera utilità]. Portare a compimento significa dispiegare qualcosa nella pienezza della sua essenza, condurre-fuori questa pienezza, producere”. Dunque si produce, in certo senso, solo ciò che già è; precisamente è nel pensiero e nel linguaggio che “è la casa dell’essere” e nella cui dimora “abita l’uomo”. Ecco che si viene alla stessa idea che è incorporata nella densa frase della Dichiarazione: “il pensiero non si fa azione perché da esso scaturisca un effetto o una applicazione. Il pensiero agisce in quanto pensa”. Il pensiero “dell’Europa falsa” è dunque la sua vera ed essenziale azione.

Nel suo assai complesso, ed a lunghi tratti involuto, manifesto contro ‘l’umanesimo’ (dunque anche contro l’illuminismo), Heidegger lamenta la “perdita di mobilità” e contesta l’esattezza “tecnico-teoretica” degli scritti specialistici e nel farlo si esercita in un vertiginoso esercizio di distinzioni e narrazioni. Si scopre quindi che ogni umanismo si fonda su una metafisica, ovvero su una posizione che già presuppone un’interpretazione data degli enti (e quindi una loro funzionalizzazione, un apprestarli) senza porre insieme la questione “dell’essere”; anzi in effetti la impedisce.

Porre lo sviluppo storico come dispiegarsi della logica immanente della tecnica come apprestamento del mondo per l’uso (tramite l’economico), in altre parole, dimentica di riflettere sul senso. Dimentica l’essere, lasciandoci in un mero mondo di enti, di oggetti. Noi stessi fatti tali. Nel linguaggio della tradizione marxista, che ovviamente Heidegger ha di mira, è la questione della ‘reificazione’ (cfr qui).

Nell’impedirlo può porre (e lo fanno i romani per primi, dice) come autoevidente “l’essenza universale dell’uomo” (in Segnavia, p.275); ovvero dell’uomo come animale razionale. Una interpretazione dell’umano che, naturalmente, “non è falsa, ma è condizionata dalla metafisica”. Non si tratta, cioè, di abbandonarsi “all’azione dissolvente di uno scetticismo vuoto”, ma di tenere in movimento il pensiero (tramite l’interrogazione dell’essere).

La posizione del filosofo tedesco è in sostanza che l’uomo si dispiega solo a partire da un reclamo che gli viene dalla domanda dell’essere, ovvero da un abitare in qualche modo all’aperto. Nello “stare nella radura” che gli è propria (in quanto essere che veramente “vive”).

Dunque il punto non è che il discorso sui valori (universali, ovvero umanistici) sia “senza valore”, perché ciò sarebbe opporre banale al banale, ma che bisogna capire che porre una cosa come “valore” in questo senso, crea sempre un fare e con esso una oggettivazione. Cioè fa il mondo come oggetto (ovvero lo manipola).

Con le sue parole: “ogni valutazione, anche quando è una valutazione positiva, è una soggettivazione. Essa non lascia essere l’ente, ma lo fa valere solo come oggetto del proprio fare” (ivi, p. 301). Pensare “contro i valori” non significherebbe, cioè, “sbandierare l’assenza di valori e la nientità dell’essere, ma portare la radura della verità dell’essere davanti al pensiero, contro la soggettivazione dell’ente ridotto a mero oggetto”.

Con il linguaggio della Scuola di Francoforte, esercitare la critica. Uno degli esercizi più recenti ed interessanti nel lavoro in corso della Rahel Jaeggi, in “Forme di vita e capitalismo”.

Allora, tornando alla “Dichiarazione di Parigi”, da questa posizione si può rivendicare la storia concreta delle tradizioni di lealtà civica e le battaglie condotte per fare “i propri sistemi politici più aperti alla partecipazione popolare”, talora “con modi ribelli”, e la storia di condivisione ed unità, che ci consente di guardarci gli uni con gli altri come prossimi; come insieme responsabili.

Non siamo soggetti passivi sottoposto al dominio di poteri dispotici, sacrali o laici. E non ci prostriamo davanti all’implacabilità di forze storiche. Essere europei significa possedere la facoltà di agire nella politica e nella storia. Siamo noi gli autori del destino che ci accomuna.

Ne consegue che non si tratta di accettare od opporsi ad un astratto umanesimo, o a “Valori” universalmente preordinati a fare del molteplice l’uno. Si tratta di avere, o di essere nelle radure dell’essere (come direbbe Heidegger), riconoscendo che “l’Europa vera è una comunità di nazioni”. Si tratta di esercitare la critica partendo da ciò che si è, dalla Europa ‘vera’: lingue, tradizioni, confini.

Qui il testo raggiunge probabilmente il suo punto più profondo:

  1. Una comunità nazionale è fiera di governarsi a modo proprio, spesso si vanta dei grandi traguardi raggiunti nelle arti e nelle scienze, e compete con gli altri Paesi, a volte anche sul campo di battaglia. Tutto ciò ha ferito l’Europa, talvolta gravemente, ma non ne ha mai compromesso l’unità culturale. Di fatto è accaduto semmai il contrario. Man mano che gli Stati-nazione dell’Europa sono venuti radicandosi e precisandosi, si è rafforzata una identità europea comune. A seguito del terribile bagno di sangue causato dalle guerre mondiali nella prima metà del secolo XX, ci siamo rialzati ancora più risoluti a onorare quell’eredità comune. Ciò testimonia quale profondità e quale potenza abbia l’Europa come civiltà cosmopolita nel senso più appropriato. Noi non cerchiamo l’unità imposta e forzata di un impero. Piuttosto, il cosmopolitismo europeo riconosce che l’amore patriottico e la lealtà civica aprono a un mondo più vasto.

Uno strano “cosmopolitismo” vi viene enunciato: un cosmopolitismo concreto.

E viene enunciata una connessione tra il venir meno del collante cristiano e lo sforzo di un sostituto funzionale (ma quanto più povero) nell’universalismo economico, nella sorta di impero regolatorio e monetario. In una sorta di universalismo pseudoreligioso.

Ci sono anche momenti di espressa polemica con l’altra Dichiarazione, come questo:

L’Europa non è iniziata con l’Illuminismo. La nostra amata casa non troverà realizzazione di sé nell’Unione Europea. L’Europa vera è, e sempre sarà, una comunità di nazioni a volte chiuse, e talvolta ostinatamente tali, eppure unite da un’eredità spirituale che, assieme, discutiamo, sviluppiamo, condividiamo e sì, amiamo.

E dunque questo “spirito”, che è propriamente europeo, implica una fiducia (non una fede), gli uni negli altri, e una responsabilità verso il futuro. Quindi implica una forma di libertà che non è individuale ma collettiva, è una responsabilità verso se stessi e la forza di non prostrarsi; neppure davanti “all’implacabilità di forze storiche”.

Un europeo, insomma, si sente autore del suo destino. E sente questa forza e responsabilità attraverso le forme politiche che hanno prevalso, lo stato-nazione, tratto caratteristico della civiltà europea.

Altri tratti caratteristici che sono richiamati nella Dichiarazione, anche in questo radicalmente estranea al liberalismo (sia classico sia contemporaneo), sono le tradizioni religiose (con “virtù nobili” come “l’equità, la compassione, la misericordia, il perdono, l’operare per la pace, la carità”) e lo spirito del dono, ma anche quelle classiche, l’eccellenza, il dominio di sé, la vita civica. Dunque il futuro non è da considerare connesso con un universalismo disincarnato che dimentica il sé e perde la memoria, ma nella lealtà alle tradizioni migliori. Nella ripresa dell’antico lessico delle ‘virtù’ nel quale, come insegna MacIntyre riposava la tradizione greco-romana che la modernità ha interrotto.

Su questa via il progetto europeo, tracciato sulla via del cosmopolitismo liberale e della dissoluzione delle solidarietà nazionali, è designato come nemico.

E con essa è designato, con aspra franchezza, come nemico anche il movimento di liberazione dei costumi e antiautoritario che ha attraversato l’occidente al finire degli anni sessanta. Un movimento che viene connesso sia con la riduzione delle autorità, sia con l’esplosione dei consumi e di uno stile di vita edonista e individualista. Ovvero è denunciato come fattore di disgregazione sociale.

  1. L’Europa falsa si gloria di un impegno senza precedenti a favore della libertà umana. Questa libertà, però, è assolutamente a senso unico. Viene veduta come la liberazione da ogni freno: libertà sessuale, libertà di espressione di sé, libertà di “essere se stessi”. La generazione del 1968 considera queste libertà come vittorie preziose su quello che un tempo era un regime culturale onnipotente e oppressivo. I sessantottini si considerano grandi liberatori, e le loro trasgressioni vengono acclamate come nobili conquiste morali per le quali il mondo intero dovrebbe essere loro grato.

Una disgregazione che è invece per gli estensori dello “statement” fonte di anomia, di perdita di senso, e del “vuoto conformismo” di una cultura ormai guidata da media e dai consumi. Una generazione, quella del 1968, che ha distrutto insomma forme di vita e valori storici ma non li ha sostituiti con altri; che ha, secondo gli autori, solo creato un vuoto.

Quel vuoto intravisto anche dal nostro Pasolini, che si riempie quindi di surrogati: i social media, il turismo di massa, la pornografia.

La Dichiarazione continua attaccando quindi direttamente il multiculturalismo, che nega le radici cristiane:

L’impegno egualitario, ci è stato detto, impone che noi abiuriamo anche la più piccola pretesa di ritenere superiore la nostra cultura. Paradossalmente, l’impresa multiculturale europea, che nega le radici cristiane dell’Europa, vive in modo esagerato e insopportabile alle spalle dell’ideale cristiano di carità universale. Dai popoli europei pretende un grado di abnegazione da santi. Denunciamo quindi il tentativo di fare della completa colonizzazione delle nostre patrie e della rovina della nostra cultura il traguardo glorioso dell’Europa nel secolo XXI, da raggiungere attraverso il sacrificio collettivo di sé in nome di una nuova comunità globale di pace e di prosperità che sta per nascere.

E quindi ovviamente la globalizzazione: la promozione di istituzioni sovranazionali il cui vero scopo è di tenere sotto controllo la sovranità popolare, riportando tutto allo stato di necessità, all’assenza di alternativa.

Ciò che propone è di “risecolarizzare la vita politica”, riconoscendo che la “fede” proclamata nella Dichiarazione di Praga è solo una superstizione, e che non abbiamo affatto bisogno di surrogati della religione (anche se il capitalismo stesso è una sua forma, come scrisse Benjamin).

Abbiamo bisogno, invece, di una nuova politica:

  1. Rompere l’incantesimo dell’Europa falsa e della sua utopistica crociata pseudo-religiosa votata a costruire un mondo senza confini significa incoraggiare una nuova arte del governo e un nuovo tipo di uomini di governo. Un uomo politico di valore salvaguarda il bene comune di un determinato popolo. Un valido uomo di governo considera la nostra comune eredità europea e le nostre specifiche tradizioni nazionali doni magnifici e vivificanti, ma al contempo fragili. Quindi né le ricusa né rischia di smarrirle per inseguire sogni utopici. Gli uomini politici così desiderano sinceramente gli onori conferiti loro dalle proprie genti, non bramano l’approvazione di quella “comunità internazionale” che di fatto è solo la cerchia di relazioni pubbliche di una oligarchia.

Ciò significa anche affrontare con prudenza e ragionevolezza il tema dell’immigrazione, puntando su una corretta integrazione ed assimilazione degli immigrati, non alla coesistenza di culture non integrate senza comune unità civica e solidale.

Ma c’è di più:

In verità, la questione dell’immigrazione è solo uno degli aspetti di un processo di disfacimento sociale più generale che dev’essere invertito. Dobbiamo ripristinare la dignità sociale che hanno i ruoli specifici. I genitori, gl’insegnanti e i professori hanno il dovere di formare coloro che sono affidati alle loro cure. Dobbiamo resistere al culto della competenza che s’impone a spese della sapienza, del garbo e della ricerca di una vita colta. L’Europa non conoscerà alcun rinnovamento senza il rifiuto deciso dell’egualitarismo esagerato e della riduzione del sapere a conoscenza tecnica. Noi abbracciamo con favore le conquiste politiche dell’età moderna. Ogni uomo e ogni donna debbono avere parità di voto. I diritti fondamentali debbono essere protetti. Ma una democrazia sana esige gerarchie sociali e culturali che incoraggino il perseguimento dell’eccellenza e che rendano onore a coloro che servono il bene comune. Dobbiamo restaurare il senso della grandezza spirituale e onorarlo in modo che la nostra civiltà possa contrastare il potere crescente della mera ricchezza da un lato e dell’intrattenimento triviale dall’altro.

Non si può dire che la Dichiarazione non sia dotata di coraggio nello sfidare apertamente il senso comune che è largamente condiviso nel nostro tempo. Lo spirito libertario nel quale per lo più siamo stati formati, nel quale io sono stato formato.

Qui comincia a divergere quindi la mia sensibilità: pur comprendendole, parole come “gerarchie sociali e culturali” e “senso della grandezza spirituale”, riverberano troppo da vicino il grande tema dei privilegi di rango, la società divisa in caste e ordini, quella che De Benoist in “Identità e comunità” chiama “l’identità di filiazione” della società tradizionale. Una società nella quale prevale la lealtà sull’interiorità e l’emancipazione. Ovvero una concezione troppo essenzialistica dell’identità, che non valuta abbastanza la sua natura dinamica, certamente dialogica, insieme individuale e collettiva. La paura dell’anomia, pur giustificata, non può dirigere nella direzione di una simmetrica indeterminazione dell’io, sciolto nell’appartenenza.

Lo scopo è comunque enunciato con grande chiarezza: “l’Europa deve riorganizzare il consenso intorno alla cultura morale in modo che la gente possa essere guidata all’obiettivo di una vita virtuosa”.

E qui si trae direttamente la più netta delle scelte:

Non possiamo consentire che una falsa idea di libertà impedisca l’uso prudente del diritto per scoraggiare il vizio. Dobbiamo perdonare la debolezza umana, ma l’Europa non può prosperare senza restaurare l’aspirazione comune alla rettitudine e all’eccellenza umana. La cultura della dignità sgorga dal decoro e dall’adempimento dei doveri che competono al nostro stato sociale. Dobbiamo ricuperare il rispetto reciproco fra le classi sociali che caratterizza una società che dà valore ai contributi di tutti.

Una scelta che proprio non posso condividere. Usare concetti come “i doveri che competono allo stato”, e “rispetto tra le classi sociali”, appena seminascosto dal riverbero dell’ideale classico della eguaglianza come dare l’eguale all’eguale, nella formula “dare valore ai contributi di tutti”, significa andare molto oltre la giustificata critica del lato dispotico della ragione. Implica sposare direttamente l’ideale di restaurazione che fu della linea genealogica prima richiamata.

Anche se mi pare giusto “resistere alle ideologie che cercano di rendere totalizzante la logica del mercato”, e che mette “tutto in vendita”, il rispetto reciproco spetta in ultima istanza agli individui e spetta a tutti in quanto esseri umani, non a questi in quanto parte di classi (né cambia il rispetto al salire da una classe all’altra, o scendere). Ci sono certo doveri, e vanno rispettati, ma non competono allo stato in cui ci si trova, competono al nostro reciproco doverci. Qui, insomma, per me si passa il segno. Un umanesimo è necessario.

Ciò non impedisce che sia necessario i mercati siano orientati a fini sociali, e incorporati in beni non economici e non disponibili.

Gli autori sono:

  • Philippe Bénéton (France), 71 anni, politologo, professore all’Università di Renne e all’Istituto Cattolico di Studi Superiori, studioso del conservatorismo, Machiavelli, Erasmo e Thomas More.
  • Rémi Brague (France), 70 anni, filosofo, medievalista e studioso del pensiero arabo di fama mondiale, conservatore e studioso influenzato da Heidegger, Strauss, ha ricevuto il Premio Ratzinger.
  • Chantal Delsol (France), 70 anni, filosofa conservatrice e allieva di Julien Freund.
  • Roman Joch (Česko), 47 anni, politico.
  • Lánczi András (Magyarország), 61 anni, filosofo conservatore e politologo dell’università di Budapest.
  • Ryszard Legutko (Polska), 67 anni, filosofo polacco e traduttore di Platone
  • Pierre Manent (France), 68 anni, politologo conservatore, studioso di Alexis de Tocqueville, Raymond Aron, Leo Strauss, Allan Bloom.
  • Dalmacio Negro Pavón (España), 85 anni, politologo e studioso di Carl Schmitt.
  • Roger Scruton (United Kingdom), 73 anni, filosofo conservatore ed occidentalista.
  • Robert Spaemann (Deutschland), 90 anni, filosofo conservatore e teologo.
  • Bart Jan Spruyt (Nederland), 53 anni, storico conservatore, cofondatore della Edmund Burke Foundation.
  • Matthias Storme (België), 58 anni, giurista conservatore.

Di certo non si può dire che non sia una importante compagine, come non si può dire non sia caratterizzata da una specifica parte.

Ciò che dobbiamo, io credo, ricercare è la costruzione di una “comunità di tutti quelli che lavorano e lottano in un dato territorio” (Formenti, “La variante populista”, p.9) che indirizzi una tensione aperta ed inclusiva a fare “Nazione”, nel pieno rispetto della vocazione e del diritto eguale delle altre (ovvero in direzione di un autentico multipolarismo plurale). Ciò significa anche coltivare e dare piena legittimità ad una forma di “patriottismo”, cioè di amore e rispetto, verso tutti coloro che si orientano allo “spirito oggettivo” delle migliori istituzioni e della forma di vita che ci crea come individualità collettiva. Una forma di vita nella quale siamo socializzati o che accettiamo volontariamente. Un patriottismo che può essere aperto e universalista, senza sconnettersi, anzi proprio collegandosi, con le tradizioni costituzionali e la storia di libertà e determinazione ad essere esempio nei momenti più alti in cui ci siamo costituiti. Ciò non è affatto incompatibile con gli obblighi che intendiamo auto assumerci nei confronti dell’umanità in generale, ma li sostanzia: la causa dell’umanità si sostiene, infatti, difendendola entro di noi e nelle istituzioni con le quali abbiamo a che fare; compiendo la “buona gara” di renderle ognuna esempio per l’altra.

La conclusione della Dichiarazione è la seguente:

  1. In questo momento, chiediamo a tutti gli europei di unirsi a noi per respingere le fantasie utopistiche di un mondo multiculturale senza frontiere. Amiamo a buon diritto le nostre patrie e cerchiamo di trasmettere ai nostri figli ogni elemento nobile che noi stessi abbiamo ricevuto in dote. Da europei, condividiamo anche una eredità comune e questa eredità ci chiede di vivere assieme in pace in una Europa delle nazioni. Ripristiniamo la sovranità nazionale e ricuperiamo la dignità di una responsabilità politica condivisa per il futuro dell’Europa.

 

Questa la condivido.

 

L’IMPORTANZA DI DIFENDERE LA NAZIONE, (a cura di) Luigi Longo

 

Propongo due letture: una di Manlio Dinucci (Bipartisan il riarmo USA anti Russia) apparsa sul il Manifesto il 18/10/17, l’altra una dichiarazione di diversi studiosi (Una Europa in cui possiamo credere) pubblicata sul sito https://thetrueeurope.eu/uneuropa-in-cui-possiamo-credere/, ottobre 2017.

Le due letture apparentemente non sono connesse, ma riflettendo più a fondo ci si accorge che sono innervate su due questioni fondamentali che interessano la fase attuale del multicentrismo: la prima riguarda la sfera militare per l’aumento sempre più vistoso della spesa per gli armamenti e per l’importanza dello spazio italiano per le strategie statunitensi in funzione anti Russia (lo spettro dei decisori USA);

la seconda concerne il recupero di una Europa delle nazioni e l’importanza che assume in questa fase la sovranità nazionale, sia per contrastare l’Europa delle regioni sia per un’Europa protagonista tra Occidente e Oriente, per costruire una relazione tra i popoli rispettosa delle differenze.

 

BIPARTISAN IL RIARMO USA ANTI-RUSSIA

di Manlio Dinucci

I Democratici, che ogni giorno attaccano il repubblicano Trump per le sue dichiarazioni bellicose, hanno votato al Senato insieme ai Repubblicani per aumentare nel 2018 il budget del Pentagono a 700 miliardi di dollari, 60 miliardi in più di quanto richiesto dallo stesso Trump. Aggiungendo i 186 miliardi annui per i militari a riposo e altre voci, la spesa militare complessiva degli Stati uniti sale a circa 1000 miliardi, ossia a un quarto del bilancio federale. Decisivo il voto all’unanimità del Comitato sui servizi armati, formato da 14 senatori repubblicani e 13 democratici.

Il Comitato sottolinea che «gli Stati uniti devono rafforzare la deterrenza all’aggressione russa: la Russia continua ad occupare la Crimea, a destabilizzare l’Ucraina, a minacciare i nostri alleati Nato, a violare il Trattato Inf del 1987 sulle forze nucleari a raggio intermedio, e a sostenere il regime di Assad in Siria». Accusa inoltre la Russia di condurre «un attacco senza precedenti ai nostri interessi e valori fondamentali», in particolare attraverso «una campagna diretta a minare la democrazia americana». Una vera e propria dichiarazione di guerra, con cui lo schieramento bipartisan motiva il potenziamento dell’intera macchina bellica statunitense.

Queste alcune delle voci di spesa nell’anno fiscale 2018 (iniziato il 1° ottobre 2017):
10,6 miliardi di dollari per acquistare 94 caccia F-35, 24 in più di quanti richiesti dall’amministrazione Trump;
17 miliardi per lo «scudo anti-missili» e le attività militari spaziali, 1,5 in più della cifra richiesta dall’amministrazione;
25 miliardi per costruire altre 13 navi da guerra, 5 in più di quante richieste dall’amministrazione.

Dei 700 miliardi del budget 2018, 640 servono principalmente all’acquisto di nuovi armamenti e al mantenimento del personale militare, le cui paghe vengono aumentate portando il costo annuo a 141 miliardi; 60 miliardi servono alle operazioni belliche in Siria, Iraq, Afghanistan e altrove. Vengono inoltre destinati 1,8 miliardi all’addestramento e l’equipaggiamento di formazioni armate sotto comando Usa in Siria e Iraq, e 4,9 miliardi al «Fondo per le forze di sicurezza afghane».

Alla «Iniziativa di rassicurazione dell’Europa», lanciata nel 2014 dall’amministrazione Obama dopo «l’aggressione revanscista russa all’Ucraina», vengono destinati nel 2018 4,6 miliardi: essi servono ad accrescere la presenza di forze corazzate statunitensi e il «preposizionamento strategico» di armamenti Usa in Europa. Vengono inoltre stanziati 500 milioni di dollari per fornire «assistenza letale» (ossia armamenti) all’Ucraina.

L’aumento del budget del Pentagono traina quelli degli altri membri della Nato sotto comando Usa, compresa l’Italia la cui spesa militare, dagli attuali 70 milioni di euro al giorno, dovrà salire verso i 100.

Allo stesso tempo il budget del Pentagono prospetta che cosa si prepara per l’Italia.

Tra le voci di spesa minori, ma non per questo meno importanti, vi sono 27 milioni di dollari per la base di Aviano, a riprova che continua il suo potenziamento in vista dell’installazione delle nuove bombe nucleari B61-12, e 65 milioni per il programma di ricerca e sviluppo di «un nuovo missile con base a terra a raggio intermedio per cominciare a ridurre il divario di capacità provocato dalla violazione russa del Trattato Inf».

In altre parole, gli Stati uniti hanno in programma di schierare in Europa missili nucleari analoghi ai Pershing 2 e ai Cruise degli anni Ottanta, questi ultimi installati allora anche in Italia a Comiso. Ce lo annuncia dal Senato degli Stati uniti, con il suo unanime voto bipartisan, il Comitato sui servizi armati.

LA DICHIARAZIONE DI PARIGI

UN’EUROPA IN CUI POSSIAMO CREDERE

1. L’Europa ci appartiene e noi apparteniamo all’Europa. Queste terre sono la nostra casa; non ne abbiamo altra. Le ragioni per cui l’Europa ci è cara superano la nostra capacità di spiegare o di giustificare la nostra lealtà verso di essa. Sono storie, speranze e affetti condivisi. Usanze consolidate, e momenti di pathos e di dolore. Esperienze entusiasmanti di riconciliazione e la promessa di un futuro condiviso. Scenari ed eventi comuni si caricano di significato speciale: per noi, ma non per altri. La casa è un luogo dove le cose sono familiari e dove veniamo riconosciuti per quanto lontano abbiamo vagato. Questa è l’Europa vera, la nostra civiltà preziosa e insostituibile.

L’Europa è nostra casa.

2. L’Europa, in tutta la sua ricchezza e la sua grandezza, è minacciata da un falsa concezione di se stessa. Questa Europa falsa immagina di essere la realizzazione della nostra civiltà, ma in verità sta requisendo la nostra casa. Si appella alle esagerazioni e alle distorsioni delle autentiche virtù dell’Europa, e resta cieca di fronte ai propri vizi. Smerciando con condiscendenza caricature a senso unico della nostra storia, questa Europa falsa nutre un pregiudizio invincibile contro il passato. I suoi fautori sono orfani per scelta e danno per scontato che essere orfani ‒ senza casa ‒ sia una conquista nobile. In questo modo, l’Europa falsa incensa se stessa descrivendosi come l’anticipatrice di una comunità universale che però non è né universale né una comunità.

Una falsa Europa ci minaccia.

3. I padrini dell’Europa falsa sono stregati dalle superstizioni del progresso inevitabile. Credono che la Storia stia dalla loro parte, e questa fede li rende altezzosi e sprezzanti, incapaci di riconoscere i difetti del mondo post-nazionale e post-culturale che stanno costruendo. Per di più, ignorano quali siano le fonti vere del decoro autenticamente umano cui peraltro tengono caramente essi stessi, proprio come vi teniamo noi. Ignorano, anzi ripudiano le radici cristiane dell’Europa. Allo stesso tempo, fanno molta attenzione a non offendere i musulmani, immaginando che questi ne abbracceranno con gioia la mentalità laicista e multiculturalista. Affogata nel pregiudizio, nella superstizione e nell’ignoranza, oltre che accecata dalle prospettive vane e autogratulatorie di un futuro utopistico, per riflesso condizionato l’Europa falsa soffoca il dissenso. Tutto ovviamente in nome della libertà e della tolleranza.

La falsa Europa è utopica e tirannica.

4. Siamo in un vicolo cieco. La minaccia maggiore per il futuro dell’Europa non sono né l’avventurismo russo né l’immigrazione musulmana. L’Europa vera è a rischio a causa della stretta asfissiante che l’Europa falsa esercita sulla nostra capacità d’immaginare prospettive. I nostri Paesi e la cultura che condividiamo vengono svuotati da illusioni e autoinganni su ciò che l’Europa è e deve essere. Noi c’impegniamo dunque a resistere a questa minaccia diretta contro il nostro futuro. Noi difenderemo, sosterremmo e promuoveremo l’Europa vera, l’Europa a cui in verità noi tutti apparteniamo.

Dobbiamo difendere la Europa vera.

5. L’Europa vera si aspetta e incoraggia la partecipazione attiva al progetto di una vita politica e culturale comuni. Quello europeo è un ideale di solidarietà basato sull’assenso a un corpo di leggi che si applica a tutti, ma che è limitato nelle pretese. Questo assenso non ha sempre assunto la forma della democrazia rappresentativa. Ma le nostre tradizioni di lealtà civica riflettono un assenso fondamentale alle nostre tradizioni politiche e culturali, quali che ne siano le forme. Nel passato, gli europei hanno combattuto per rendere i propri sistemi politici più aperti alla partecipazione popolare e di questa storia andiamo giustamente orgogliosi. Pur facendolo, talora con modi apertamente ribelli, hanno vigorosamente affermato che, malgrado le ingiustizie e le mancanze, le tradizioni dei popoli di questo continente sono le nostre. Questo zelo riformatore rende l’Europa un luogo alla costante ricerca di una giustizia sempre maggiore. Questo spirito di progresso è nato dall’amore e dalla lealtà verso le nostre patrie.

La solidarietà e la lealtà civica incoraggiano la partecipazione attiva.

6. È uno spirito europeo di unità che ci permette di fidarci pubblicamente gli uni degli altri, anche tra stranieri. Sono i parchi pubblici, le piazze centrali e i grandi viali delle città e dei borghi europei a esprimere lo spirito politico europeo: noi condividiamo una vita e una res publica comuni. Riteniamo nostro dovere assumerci la responsabilità del futuro delle nostre società. Non siamo soggetti passivi sottoposto al dominio di poteri dispotici, sacrali o laici. E non ci prostriamo davanti all’implacabilità di forze storiche. Essere europei significa possedere la facoltà di agire nella politica e nella storia. Siamo noi gli autori del destino che ci accomuna.

Non siamo soggetti passivi.

7. L’Europa vera è una comunità di nazioni. Abbiamo lingue, tradizioni e confini propri. Eppure ci siamo sempre riconosciuti affini, anche quando siamo arrivati al contrasto, o persino alla guerra. A noi questa unità nella diversità sembra naturale. Tuttavia è una realtà notevole e preziosa poiché non è né naturale né inevitabile. La forma politica più comune di questa unità nella diversità è l’impero, che i re guerrieri europei hanno cercato di ricreare per secoli dopo la caduta dell’impero romano. L’attrattiva esercitata dal modello imperiale è perdurata, ma ha prevalso lo Stato-nazione, la forma politica che unisce l’essere popolo alla sovranità. Lo Stato-nazione è quindi diventato il tratto caratteristico della civiltà europea.

Lo Stato-nazione è un segno distintivo dell’Europa.

8. Una comunità nazionale è fiera di governarsi a modo proprio, spesso si vanta dei grandi traguardi raggiunti nelle arti e nelle scienze, e compete con gli altri Paesi, a volte anche sul campo di battaglia. Tutto ciò ha ferito l’Europa, talvolta gravemente, ma non ne ha mai compromesso l’unità culturale. Di fatto è accaduto semmai il contrario. Man mano che gli Stati-nazione dell’Europa sono venuti radicandosi e precisandosi, si è rafforzata una identità europea comune. A seguito del terribile bagno di sangue causato dalle guerre mondiali nella prima metà del secolo XX, ci siamo rialzati ancora più risoluti a onorare quell’eredità comune. Ciò testimonia quale profondità e quale potenza abbia l’Europa come civiltà cosmopolita nel senso più appropriato. Noi non cerchiamo l’unità imposta e forzata di un impero. Piuttosto, il cosmopolitismo europeo riconosce che l’amore patriottico e la lealtà civica aprono a un mondo più vasto.

Noi non sosteniamo un’unione imposta o forzata.

9. L’Europa vera è stata segnata dal cristianesimo. L’impero spirituale universale della Chiesa ha portato l’unità culturale all’Europa, ma lo ha fatto senza un impero politico. Questo ha permesso che entro una cultura europea condivisa fiorissero lealtà civiche particolari. L’autonomia di ciò che chiamiamo società civile è dunque diventata una peculiarità della vita europea. Inoltre, il Vangelo cristiano non consegna all’uomo una legge divina esaustiva da applicare alla società, e questo rende possibile affermare e onorare la varietà delle legislazioni positive delle diverse nazioni senza recare minaccia alla nostra unità europea. Non è un caso che il declino della fede cristiana in Europa sia stato accompagnato da sforzi sempre maggiori per raggiugerne l’unità politica: ovvero l’impero monetario e regolatorio, ammantato dai sentimenti di universalismo pseudoreligioso, che l’Unione Europea sta costruendo.

Il cristianesimo incoraggiava l’unità culturale.

10. L’Europa vera afferma la pari dignità di qualsiasi persona, senza fare differenze di sesso, di rango o di razza. Anche questo proviene dalle nostre radici cristiane. Le nostre virtù nobili hanno un’ascendenza inequivocabilmente cristiana: l’equità, la compassione, la misericordia, il perdono, l’operare per la pace, la carità. Il cristianesimo ha rivoluzionato le relazioni tra gli uomini e le donne, dando valore all’amore e alla fedeltà reciproca come mai era stato fatto prima. Il legame del matrimonio consente sia agli uomini sia alle donne di prosperare in comunione. La maggior parte dei sacrifici che compiamo sono a vantaggio dei nostri coniugi e dei nostri figli. Anche questo spirito di donazione di sé è un altro contributo cristiano all’Europa che amiamo.

Le radici cristiane nutrono l’Europa.

11. L’Europa vera trae ispirazione altresì dalla tradizione classica. Noi ci riconosciamo nella letteratura della Grecia e di Roma antiche. Da europei, ci sforziamo per raggiungere la magnificenza, gemma sulla corona delle virtù classiche. A volte questo ha condotto alla competizione violenta per la supremazia. Ma al suo meglio è l’aspirazione all’eccellenza che ispira gli uomini e le donne dell’Europa a creare opere musicali e artistiche d’ineguagliata bellezza o a compiere svolte straordinarie nella scienza e nella tecnologia. Le virtù profonde dei Romani che sapevano come dominare se stessi, nonché l’orgoglio nel partecipare alla vita civica e lo spirito dell’indagine filosofica dei Greci non sono mai stati dimenticati nell’Europa vera. Anche queste eredità sono nostre.

Le radici classiche incoraggiano l’eccellenza.

12. L’Europa vera non è mai stata perfetta. I fautori dell’Europa falsa non sbagliano nel proporre sviluppi e riforme, e tra il 1945 e il 1989 molte di apprezzabile e di onorevole è stato fatto. La nostra vita condivisa è un progetto che continua, non un’eredità sclerotizzata. Ma il futuro dell’Europa riposa in una lealtà rinnovata verso le nostre tradizioni migliori, non un universalismo spurio che impone la perdita della memoria e il ripudio di sé. L’Europa non è iniziata con l’Illuminismo. La nostra amata casa non troverà realizzazione di sé nell’Unione Europea. L’Europa vera è, e sempre sarà, una comunità di nazioni a volte chiuse, e talvolta ostinatamente tali, eppure unite da un’eredità spirituale che, assieme, discutiamo, sviluppiamo, condividiamo e sì, amiamo.

L’Europa è un progetto condiviso.

13. L’Europa vera è a rischio. I risultati ottenuti dalla sovranità popolare, dalla resistenza all’impero, dal cosmopolitismo capace di amore civico, il retaggio cristiano di una vita autenticamente umana e dignitosa, l’impegno vivo nei confronti della nostra eredità classica stanno tutti scemando. I padrini dell’Europa falsa costruiscono la loro fasulla Cristianità di diritti umani universali e noi perdiamo la nostra casa.

Stiamo perdendo la nostra casa.

14. L’Europa falsa si gloria di un impegno senza precedenti a favore della libertà umana. Questa libertà, però, è assolutamente a senso unico. Viene veduta come la liberazione da ogni freno: libertà sessuale, libertà di espressione di sé, libertà di “essere se stessi”. La generazione del 1968 considera queste libertà come vittorie preziose su quello che un tempo era un regime culturale onnipotente e oppressivo. I sessantottini si considerano grandi liberatori, e le loro trasgressioni vengono acclamate come nobili conquiste morali per le quali il mondo intero dovrebbe essere loro grato.

Sta prevalendo una libertà falsa.

15. Per le generazioni europee più giovani, invece, la realtà è molto meno dorata. L’edonismo libertino conduce spesso alla noia e a un profondo senso d’inutilità. Il vincolo matrimoniale si è indebolito. Nel mare torbido della libertà sessuale, il desiderio profondo dei giovani di sposarsi e di formare famiglie viene spesso frustrato. Una libertà che frustra le ambizioni più profonde del nostro cuore diventa una maledizione. Sembra che le nostre società stiano cadendo nell’individualismo, nell’isolamento e nell’inanità. Al posto della libertà, siamo condannati al vuoto conformismo di una cultura guidata dai consumi e dai media. È quindi nostro dovere dire la verità: la generazione del 1968 ha distrutto, ma non ha costruito. Ha creato un vuoto ora riempito dai social media, dal turismo di massa e dalla pornografia.

L’individualismo, l’isolamento e l’astuzia sono diffusi.

16. E mentre ascoltiamo i vanti di questa libertà senza precedenti, la vita dell’Europa si fa sempre più globalmente regolamentata. Ci sono regole ‒ spesso predisposte da tecnocrati senza volto legati a interessi forti ‒ che governano le nostre relazioni professionali, le nostre decisioni nel campo degli affari, i nostri titoli di studio, i nostri mezzi d’informazione e d’intrattenimento, la nostra stampa. E ora l’Europa cerca di restringere ancora di più la libertà di parola, una libertà che è stata europea sin dal principio e che equivale alla manifestazione della libertà di coscienza. Ma gli obiettivi di queste restrizioni non sono l’oscenità e le altre aggressioni alla decenza nella vita pubblica. Al contrario, la classe dirigente europea vuole manifestamente restringere la libertà di parola. Gli esponenti politici che danno voce a certe verità sconvenienti sull’islam e sull’immigrazione vengono trascinati in tribunale. La correttezza politica impone tabù così forti da squalificare in partenza qualsiasi tentativo di sfidare lo status quo. In realtà, l’Europa falsa non incoraggia la cultura della libertà. Promuove una cultura dell’omogeneità guidata da criteri mercantili e della conformità imposta da logiche politiche.

Siamo regolati e gestiti.

17. L’Europa falsa si vanta pure di un impegno senza precedenti a favore dell’eguaglianza. Pretende di promuovere la non-discriminazione e l’inclusione di tutte le razze, di tutte le religioni e di tutte le identità. In questo campo sono stati effettivamente compiuti progressi veri, ma il distacco utopistico dalla realtà ha preso il sopravvento. Negli ultimi decenni, l’Europa ha perseguito un grandioso progetto multiculturalista. Chiedere o figuriamoci promuovere l’assimilazione dei nuovi arrivati musulmani alle nostre usanze e ai nostri costumi, peggio ancora alla nostra religione, è stata giudicata un’ingiustizia triviale. L’impegno egualitario, ci è stato detto, impone che noi abiuriamo anche la più piccola pretesa di ritenere superiore la nostra cultura. Paradossalmente, l’impresa multiculturale europea, che nega le radici cristiane dell’Europa, vive in modo esagerato e insopportabile alle spalle dell’ideale cristiano di carità universale. Dai popoli europei pretende un grado di abnegazione da santi. Denunciamo quindi il tentativo di fare della completa colonizzazione delle nostre patrie e della rovina della nostra cultura il traguardo glorioso dell’Europa nel secolo XXI, da raggiungere attraverso il sacrificio collettivo di sé in nome di una nuova comunità globale di pace e di prosperità che sta per nascere.

Il multiculturalismo è impraticabile.

18. In quest’idea c’è una grande misura di malafede. La maggior parte degli esponenti dei nostri mondi politici è senza dubbio convinta che la cultura europea sia superiore, ma non lo può dire in pubblico perché offenderebbe gl’immigrati. Stante questa superiorità, pensano che l’assimilazione avverrà in modo naturale e rapido. Riecheggiando ironicamente l’antica idea imperialista, le classi dirigenti europee presumono infatti che, in qualche modo, in obbedienza alle leggi della natura o della storia, “loro” diventeranno necessariamente come “noi”; e non concepiscono che possa accadere invece l’inverso. Nel frattempo, s’impiega la dottrina multiculturalista ufficiale come strumento terapeutico per gestire le incresciose ma “temporanee” tensioni culturali.

Cresce la fede falsa.

19. Ma vi è una malafede ancora maggiore, di un genere più oscuro. Negli ultimi decenni, una parte sempre più ampia della nostra classe dirigente ha riposto i propri interessi nell’accelerazione della globalizzazione. I suoi esponenti mirano a dar vita a istituzioni sovranazionali che possano controllare senza l’inconveniente della sovranità popolare. È sempre più chiaro che il “deficit di democrazia” di cui soffre l’Unione Europea non è solo un problema tecnico che si può risolvere con mezzi tecnici, ma un impegno basilare difeso con zelo. Legittimati da presunte necessità economiche o attraverso l’elaborazione autonoma di una nuova legislazione internazionale dei diritti umani, i mandarini sovranazionali delle istituzioni comunitarie europee confiscano la vita politica dell’Europa, rispondendo alle sfide in modo tecnocratico: non esiste alternativa. È questa la tirannia morbida ma concreta che abbiamo oggi di fronte.

Aumenta la tirannia tecnologica.

20. Nonostante i migliori sforzi profusi dai suoi partigiani per cercare di tenere in piedi un castello d’illusioni confortanti, l’arroganza dell’Europa falsa sta però ora diventando del tutto evidente. Soprattutto, l’Europa falsa si sta rivelando più debole di quanto chiunque avrebbe mai immaginato. L’intrattenimento popolare e il consumo materiale non alimentano la vita civica. Depauperate d’ideali nobili e inibite dall’ideologia multiculturalista a esprimere orgoglio patriottico, le nostre società hanno difficoltà a trovare la volontà di difendersi. In più, non sono certo la retorica dell’inclusione o l’impersonalità di un sistema economico dominato da gigantesche società internazionali per azioni a poter ridare vigore al senso civico e alla coesione sociale. Dobbiamo essere franchi ancora una volta: le società europee si stanno sfilacciando malamente. Se non apriremo gli occhi, assisteremo a un uso sempre maggiore del potere statalista, dell’ingegneria sociale e dell’indottrinamento culturale. Non è solo il terrorismo islamico a portare soldati pesantemente armati nelle nostre strade. Per domare le contestazioni antisistema e persino le folle ubriache dei tifosi di calcio oggi sono necessari poliziotti in tenuta antisommossa. Il fanatismo delle tifoserie sportive è un segno disperato nel bisogno profondamente umano di solidarietà, un bisogno che d’altra parte l’Europa falsa disattende.

La Europa falsa è fragile e impotente.

21. In Europa, i ceti intellettuali sono, purtroppo, fra i principali partigiani ideologici della boria dell’Europa falsa. Senza dubbio, le nostre università sono una delle glorie della civiltà europea. Ma laddove un tempo esse cercavano di trasmettere a ogni nuova generazione la sapienza delle epoche passate, oggi per i più il pensiero critico equivale alla semplicistica ricusazione del passato. La stella polare dello spirito europeo è stata la rigorosa disciplina dell’onestà e dell’obiettività intellettuali. Ma da due generazioni questo nobile ideale è stato trasformato. L’ascetismo che un tempo cercava di liberare la mente dalla tirannia dell’opinione dominante si è mutata in un’animosità spesso compiaciuta e irriflessiva contro tutto ciò che ci appartiene. Questo atteggiamento di ripudio culturale è un modo semplice e a buon mercato per atteggiarsi a “critici”. Negli ultimi decenni, è stato sperimentato nelle sale da convegno, diventando una dottrina, un dogma. E l’unirsi a questo credo viene preso come segno di elezione spirituale da “illuminati”. Di conseguenza, le nostre università sono diventate agenti attivi della distruzione culturale.

Si è sviluppata una cultura del ripudio.

22. Le nostri classi dirigenti promuovono i diritti umani. Combattono i cambiamenti climatici. Progettano una economia di mercato più globalmente integrata e l’armonizzazione delle politiche fiscali. Supervisionano i passi compiuti verso l’eguaglianza di genere. Fanno così tanto per noi! Che importa dunque dei meccanismi con cui sono arrivati ai loro posti? Che importa se i popoli europei sono sempre più scettici delle loro gestioni?

Le èlite esibiscono in modo arrogante le loro virtù.

23. Lo scetticismo crescente è pienamente giustificato. Oggi l’Europa è dominata da un materialismo privo di obiettivi incapace di motivare gli uomini e le donne a generare figli e a formare famiglie. La cultura del ripudio defrauda le generazioni future del senso d’identità. In alcuni dei nostri Paesi vi sono zone intere in cui i musulmani vivono informalmente autonomi rispetto alle leggi vigenti, quasi fossero dei coloni invece che dei nostri connazionali. L’individualismo ci isola gli uni dagli altri. La globalizzazione trasforma le prospettive di vita di milioni di persone. Quando le si sfida, le nostre classi dirigenti dicono che la loro è semplicemente la gestione dell’inevitabile e la sistemazione delle necessità più impellenti. Nessun’altra strada è possibile, e resistere è irrazionale. Le cose non possono andare altrimenti. Chi si oppone, soffre di nostalgia, e per questo merita di essere moralmente condannato come razzista e fascista. Man mano che le divisioni sociali e la sfiducia civica si fanno evidenti, la vita pubblica europea diviene più rabbiosa, più rancorosa, e nessuno sa dove questo potrà condurre. Dobbiamo smettere di camminare lungo questa strada. Dobbiamo liberarci della tirannia dell’Europa falsa. Un’alternativa c’è.

Un’alternativa c’è.

24. L’opera di rinnovamento inizia con l’autocoscienza teologica. Le pretese universaliste e multiculturaliste dell’Europa falsa si rivelano essere surrogati della religione, con tanto di impegni di fede e pure di anatemi. È l’oppio potente che paralizza politicamente l’Europa. Noi dobbiamo quindi sottolineare che le aspirazioni religiose appartengono al mondo della religione, non a quello della politica, meno ancora a quello dell’amministrazione burocratica. Per ricuperare la nostra capacità di agire nella politica e nella storia, è imperativo risecolarizzare la vita politica dell’Europa.

Dobbiamo rifiutare i surrogati della religione.

25. Quest’impresa esigerà che ognuno di noi rinunci al linguaggio bugiardo che evita le responsabilità e che favorisce la manipolazione ideologica. I discorsi sulla diversità, sull’inclusione e sul multiculturalismo sono vuoti. Spesso è un linguaggio utilizzato per travestire i nostri fallimenti da conquiste: la dissoluzione della solidarietà sociale viene “in realtà” presa come un segnale di benvenuto, di tolleranza e d’inclusione. Ma questo è linguaggio da marketing, inteso a oscurare la realtà invece che a illuminarla. Dobbiamo allora ricuperare il rispetto profondo per la realtà. Il linguaggio è uno strumento delicato, e usandolo come un randello lo si degrada. Dobbiamo farci fautori del decoro linguistico. Il ricorso alla denuncia è il segno della decadenza che ha aggredito il nostro tempo. Non dobbiamo tollerare l’intimidazione verbale, men che meno le minacce di morte. Dobbiamo proteggere chi parla in modo ragionevole anche quando pensiamo che sbagli. Il futuro dell’Europa dev’essere liberale nel senso migliore del termine, ovvero garante di discussioni pubbliche appassionate, libere da ogni minaccia di violenza e di coercizione.

Dobbiamo ripristinare un vero e proprio liberalismo.

26. Rompere l’incantesimo dell’Europa falsa e della sua utopistica crociata pseudo-religiosa votata a costruire un mondo senza confini significa incoraggiare una nuova arte del governo e un nuovo tipo di uomini di governo. Un uomo politico di valore salvaguarda il bene comune di un determinato popolo. Un valido uomo di governo considera la nostra comune eredità europea e le nostre specifiche tradizioni nazionali doni magnifici e vivificanti, ma al contempo fragili. Quindi né le ricusa né rischia di smarrirle per inseguire sogni utopici. Gli uomini politici così desiderano sinceramente gli onori conferiti loro dalle proprie genti, non bramano l’approvazione di quella “comunità internazionale” che di fatto è solo la cerchia di relazioni pubbliche di una oligarchia.

Abbiamo bisogno di statisti responsabili.

27. Riconoscendo il carattere particolare dei Paesi europei, e la loro impronta cristiana, non dobbiamo lasciarci confondere dalle affermazioni pretestuose dei multiculturalisti. L’immigrazione senza l’assimilazione è solo una colonizzazione, e dev’essere respinta. Ci attendiamo giustamente che chi migra nelle nostre terre divenga parte dei nostri Paesi, adottando le nostre usanze. Quest’aspettativa deve però essere sostenuta da una politica solida. Il linguaggio del multiculturalismo è stato importato dagli Stati Uniti d’America. Ma l’età d’oro dell’immigrazione negli Stati Uniti è stata all’inizio del secolo XX, un periodo di crescita economica notevolmente rapida in un Paese sostanzialmente privo di Welfare State e caratterizzato da un forte senso d’identità nazionale che ci si attendeva gl’immigrati assimilassero. Dopo avere accolto numeri enormi d’immigrati, gli Stati Uniti hanno poi praticamente sigillato le porte per due generazioni. L’Europa deve imparare da quell’esperienza americana invece che adottare le ideologie americane contemporanee. Quell’esperienza dice che il lavoro è un potente forza di assimilazione, che un Welfare State indulgente può invece impedire l’assimilazione e che a volte la prudenza politica impone di ridurre le cifre dell’immigrazione, anche in modo drastico. Non dobbiamo permettere che l’ideologia multiculturalista deformi la nostra capacità di valutare in sede politica quale sia il modo migliore per servire il bene comune, cosa che peraltro esige che comunità nazionali sufficientemente unite e solidali considerino il proprio bene come comune.

Dobbiamo rinnovare l’unità nazionale e la solidarietà.

28. Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Europa Occidentale ha saputo far crescere sistemi democratici vitali. Dopo il crollo dell’impero sovietico, i Paesi dell’Europa Centrale hanno ricuperato la propria vitalità civica. Sono due delle conquiste più preziose cui l’Europa sia mai giunta. Ma andranno perdute se non affrontiamo il nodo dell’immigrazione e dei cambiamenti demografici in atto nei nostri Paesi. Solo gl’imperi possono essere multiculturali, ed è esattamente un impero ciò che l’Unione Europea diventerà se non riusciremo a fare di una nuova unità civica solidale il criterio per valutare le politiche sull’immigrazione e le strategie per l’assimilazione.

Solo gli imperi sono multiculturali.

29. Molti pensano erroneamente che l’Europa sia scossa solo dalle controversie sull’immigrazione. In verità, la questione dell’immigrazione è solo uno degli aspetti di un processo di disfacimento sociale più generale che dev’essere invertito. Dobbiamo ripristinare la dignità sociale che hanno i ruoli specifici. I genitori, gl’insegnanti e i professori hanno il dovere di formare coloro che sono affidati alle loro cure. Dobbiamo resistere al culto della competenza che s’impone a spese della sapienza, del garbo e della ricerca di una vita colta. L’Europa non conoscerà alcun rinnovamento senza il rifiuto deciso dell’egualitarismo esagerato e della riduzione del sapere a conoscenza tecnica. Noi abbracciamo con favore le conquiste politiche dell’età moderna. Ogni uomo e ogni donna debbono avere parità di voto. I diritti fondamentali debbono essere protetti. Ma una democrazia sana esige gerarchie sociali e culturali che incoraggino il perseguimento dell’eccellenza e che rendano onore a coloro che servono il bene comune. Dobbiamo restaurare il senso della grandezza spirituale e onorarlo in modo che la nostra civiltà possa contrastare il potere crescente della mera ricchezza da un lato e dell’intrattenimento triviale dall’altro.

Una giusta gerarchia nutre il benessere sociale.

30. La dignità umana è più del diritto a essere lasciati in pace e le dottrine dei diritti umani internazionali non esauriscono la sete di giustizia, meno ancora la sete del bene. L’Europa deve riorganizzare il consenso attorno alla cultura morale di modo che le gente possa essere guidata all’obiettivo di una vita virtuosa. Non possiamo consentire che una falsa idea di libertà impedisca l’uso prudente del diritto per scoraggiare il vizio. Dobbiamo perdonare la debolezza umana, ma l’Europa non può prosperare senza restaurare l’aspirazione comune alla rettitudine e all’eccellenza umana. La cultura della dignità sgorga dal decoro e dall’adempimento dei doveri che competono al nostro stato sociale. Dobbiamo ricuperare il rispetto reciproco fra le classi sociali che caratterizza una società che dà valore ai contributi di tutti.

Dobbiamo ripristinare la cultura morale.

31. Mentre riconosciamo gli aspetti positivi delle economie di libero mercato, dobbiamo resistere alle ideologie che cercano di rendere totalizzante la logica del mercato. Non possiamo permettere che tutto sia in vendita. I mercati che funzionano bene esigono che sia il diritto a precedere e a presiedere (rule of law) e il nostro diritto che tutto precede e presiede deve puntare più in alto della mera efficienza economica. Del resto i mercati funzionano meglio quando sono inseriti in istituzioni sociali forti organizzate sui princìpi autonomi non mercantili. La crescita economica, benché benefica, non è il bene sommo. I mercati debbono essere orientati a fini sociali. Oggi il gigantismo aziendale minaccia persino la sovranità politica. I Paesi debbono cooperare per dominare l’arroganza e l’irragionevolezza delle forze economiche globali. Noi ci riconosciamo quindi in un uso prudente del potere esercitato dai governi per sostenere beni sociali non economici.

I mercati devono essere ordinati verso fini sociali.

32. Noi crediamo che l’Europa abbia una storia e una cultura degne di essere difese. Troppo spesso, però, le nostre università tradiscono la nostra eredità culturale. Dobbiamo riformare i programmi scolastici per incoraggiare la trasmissione della nostra cultura comune invece che indottrinare i giovani con una cultura del ripudio. Gl’insegnanti e i mentori di ogni livello hanno il dovere della memoria. Dovrebbero essere orgogliosi del ruolo di ponte fra le generazioni passate e future che hanno. Dobbiamo ricuperare anche il senso della cultura europea alta, usando il bello e il sublime come norma comune e rigettando la degradazione delle arti a una fattispecie della propaganda politica. Questo esigerà che si allevi una nuova generazione di mecenati. Le società per azioni e le burocrazie si sono rivelate essere custodi davvero poveri delle arti.

L’istruzione deve essere riformata.

33. Il matrimonio è il fondamento della società civile e la base dell’armonia fra gli uomini e le donne. È il legame intimo tra un uomo e una donna che si organizza per il sostentamento della famiglia e per la crescita dei figli. Noi affermiamo che i ruoli più fondamentali che abbiamo sia nella società sia in quanto esseri umani sono quelli di padri e di madri. Il matrimonio e i figli sono parte integrante di qualsiasi prospettiva di prosperità umana. A coloro che li hanno generati al mondo i figli richiedono sacrificio. È un sacrificio nobile cui deve essere reso onore. Noi pertanto auspichiamo politiche sociali prudenti che incoraggino e rafforzino il matrimonio, la maternità e l’educazione dei figli. Una società che non accoglie i figli non ha futuro.

Il matrimonio e la famiglia sono essenziali.

34. L’Europa di oggi è attraversato da grande preoccupazione per il sorgere di quello che viene chiamato “populismo”, anche se il significato del termine non viene mai definito ed è usato per lo più solo come invettiva. Sul tema abbiamo le nostre riserve. L’Europa deve attingere alla sapienza profonda delle proprie tradizioni piuttosto che affidarsi a slogan semplicistici e a richiami emotivi divisivi. Eppure ci rendiamo conto che molti elementi di questo nuovo fenomeno politico possono rappresentare una sana ribellione contro la tirannia dell’Europa falsa, che etichetta come “antidemocratica” qualsiasi realtà ne minacci il monopolio della legittimità morale. Il cosiddetto “populismo” sfida la dittatura dello status quo, il “fanatismo del centro”, e lo fa giustamente. È un segno che persino nel mezzo della nostra cultura politica degradata e impoverita è possibile ridare vita all’agire storico dei popoli europei.

Il populismo dovrebbe essere combattuto.

35. Rifiutiamo perché falsa la pretesa di dire che non esiste alternativa responsabile alla solidarietà artificiale e senz’anima di un mercato unificato, di una burocrazia transnazionale e di un intrattenimento dozzinale. L’alternativa responsabile è l’Europa vera.

Il nostro futuro è la Europa vera.

36. In questo momento, chiediamo a tutti gli europei di unirsi a noi per respingere le fantasie utopistiche di un mondo multiculturale senza frontiere. Amiamo a buon diritto le nostre patrie e cerchiamo di trasmettere ai nostri figli ogni elemento nobile che noi stessi abbiamo ricevuto in dote. Da europei, condividiamo anche una eredità comune e questa eredità ci chiede di vivere assieme in pace in una Europa delle nazioni. Ripristiniamo la sovranità nazionale e ricuperiamo la dignità di una responsabilità politica condivisa per il futuro dell’Europa.

Dobbiamo assumerci la responsabilità.

Philippe Bénéton – Università di Rennes-(Francia)

Rémi Brague – Università di Parigi I Pantheon – Sorbonne– (Francia) Chantal Delsol – Istituto di ricerca Hannah Arend, Accademia delle Scieze morali e politiche – (Francia)

Roman Joch – Università di Praga – (Repubblica Ceca)

Lánczi András – Università Corvinus di Budapest – (Ungheria)

Ryszard Legutko – Università Jagiellonian di Cracovia (Polonia)

Roger Scruton – Università di Buckingham – (Regno Unito)

Robert Spaemann – Università di Monaco – (Germania)

Bart Jan Spruyt – Fondazione Edmund Burke – L’Aia – (Olanda)

Matthias Storme – Università cattolica di Leuven – (Belgio)

DUE APPELLI, DUE EUROPE. Di Roberto Buffagni

Un primo contributo, seguito alla pubblicazione di due primi documenti a firma collettiva http://italiaeilmondo.com/2017/10/24/quale-europa-a-cura-di-giuseppe-germinario/ , alla discussione sulle basi culturali, teoriche e politiche dell’europeismo e sulle basi politiche per modalità alternative di costruzione di relazioni tra stati europei

Nello scorso maggio, l’European Endowment  for Democracy,[1] un’importante istituzione europea con sede a Bruxelles che ha lo scopo di finanziare “gli attori locali del cambiamento democratico in Europa e altrove”, ha promosso, nell’ambito del forum 2000 riunito a Praga, un Appello per il rinnovamento democratico[2]. Tra i molti primi firmatari, lo storico britannico Timothy Garton Ash, il filosofo francese Bernard Henri Levy, il politologo americano Francis Fukuyama, l’attore USA Richard Gere, il politico francese Bernard Kouchner, e il presidente ceco dello EEfD.

L’appello di Praga esordisce così: “La liberal-democrazia è minacciata, e tutti coloro che l’hanno a cuore devono accorrere in sua difesa”.

Caratteristiche salienti dell’appello:

1) E’ scritto in inglese, non esiste versione in altre lingue.

2) E’ scritto in una lingua di legno burocratico-giornalistica che arranca penosamente da un cliché all’altro, anche se tra i firmatari, gente che sa scrivere ce n’è, per esempio Timothy Garton Ash che oltre ad essere un madrelingua inglese ha una penna brillante. L’estensore del testo è, evidentemente, un burocrate.

3) E’ rivolto al mondo intero, e forse anche all’universo infinito. Mittente: Europa, destinatario: Universo.

4) Il livello dell’analisi è di una superficialità strabiliante, lo sforzo di definire i concetti e il lessico nullo. “La democrazia è minacciata dall’esterno da regimi dispotici come Russia e Cina”, ma anche dall’interno. “La fede [sic, il documento impiega la parola “faith” e non “trust”, fede e non fiducia; la democrazia come articolo di fede religiosa] nelle istituzioni democratiche declina da qualche tempo, perché i governi sembrano incapaci di rispondere alle sfide della globalizzazione, i processi politici appaiono sempre più sclerotici e disfunzionali, e le burocrazie che gestiscono le istituzioni nazionali e sovrannazionali lontane e autoritarie.” E concluso questo alato paragrafo, si va a timbrare il cartellino.

5) L’obiettivo è così definito: “Il punto di partenza di questa nuova campagna per la democrazia è la riaffermazione dei principi fondamentali che hanno ispirato l’espansione della democrazia moderna sin dalla sua nascita, più di due secoli fa.”

Non riassumo oltre, perché non c’è molto da riassumere e l’appello è brevissimo, un paio di paginette. Il contenuto è intellettualmente nullo, ma è molto indicativo proprio per quel che omette di nominare, e per il destinatario cui si rivolge. Il destinatario cui si rivolge è l’universo mondo democratizzabile e democratizzando, dunque il mittente – l’Europa – non è una realtà storicamente già esistente ma un progetto in corso d’opera che si compirà soltanto nella democrazia mondiale. Quel che omette di dire è tutto quel che precede “la nascita della democrazia moderna” o non coincide al millimetro con essa. Damnatio memoriae non solo per la tradizione ellenica, romana e cristiana, ma persino per tutta la tradizione del liberalismo classico inglese, dalla Magna Charta alla Glorious Revolution. Dunque, liberal-democrazia = Illuminismo, Progressismo, Rivoluzione francese & Basta. Oltre a questi confini temporali, intellettuali e politici c’è il Nulla e/o i Nemici della democrazia, una religione nata due secoli fa nella quale si deve avere “fede”.

Conclusione: questo non è un appello per la democrazia, questa è una dichiarazione di guerra totale all’Europa come realtà storica e come tradizione culturale.

***

Devono averla sentita così anche gli estensori di un altro appello, la Dichiarazione di Parigi[3], intitolata Un’Europa in cui possiamo credere. Qualcosa mi dice, infatti, che prima di riunirsi a Parigi nel maggio di quest’anno per discutere l’iniziativa e fissarne i punti principali, i firmatari dell’appello abbiano ricevuto e letto l’Appello per il rinnovamento democratico, che certo i promotori avranno fatto circolare nella rete accademica. La Dichiarazione di Parigi non è stata promossa da alcuna istituzione, e, infatti, è stata pubblicata soltanto il 10 ottobre scorso. Nei sei mesi tra maggio e ottobre, gli estensori hanno elaborato il testo, che è lungo e complesso, e ne hanno eseguito o fatto eseguire le traduzioni in tutte le lingue europee. Io l’ho letto in inglese e italiano. La traduzione italiana è corretta, ma non vola; suggerisco di leggerlo in inglese, che probabilmente è la lingua della stesura originale.

Prima di esporre le caratteristiche principali della Dichiarazione di Parigi, una premessa: la cultura politica e non solo politica che la ispira è anche la mia, e posso sottoscrivere per intero, con qualche inevitabile riserva e dissenso parziale, i contenuti dell’appello (infatti, l’ho firmato). Il lettore faccia dunque la tara al mio pregiudizio favorevole.

Caratteristiche principali della Dichiarazione di Parigi:

1) La stesura originale è (probabilmente) in inglese, la lingua che tutti gli estensori hanno in comune. E’ però tradotto in tutte le lingue europee.

2) E’ rivolto agli europei, non al mondo intero.

3) Gli estensori sono tutti europei, e tutti studiosi di alto livello. Ci sono tre studiosi di fama mondiale: Rémi Brague[4], il massimo studioso delle filosofie antiche cristiana, islamica ed ebraica; Robert Spaemann[5], il maggiore teologo cattolico tedesco; Sir Roger Scruton[6], il più importante filosofo conservatore dell’anglosfera. Due studiosi di fama europea: Ryszard Legutko[7], filosofo polacco, ex dirigente di Solidarnosc, ex parlamentare europeo e Ministro dell’Istruzione; Chantal Delsol[8], filosofa della politica, allieva di Julien Freund[9] – il massimo interprete contemporaneo del realismo politico – fondatrice dell’Institut Hannah Arendt[10]. Philippe Bénéton[11] è un filosofo della politica dell’Università di Rennes e dell’Institut Catholique d’Études Supérieures[12]. András Lánczi è filosofo della politica, rettore dell’Università Corvinus di Budapest e stretto collaboratore di Viktor Orbàn. Bart Jan Spruyt[13] è uno studioso e giornalista conservatore olandese, cofondatore della Edmund Burke Foundation[14], che nel 2004 è stato consigliere di Geert Wilders, per poi allontanarsene in seguito a dissensi sulla linea politica. Roman Joch, ceco, tra il 1994 e il 1996 è stato Ministro degli Esteri, oggi è il direttore del Civic Institute di Praga[15]. Matthias Storme[16] è un importante giurista conservatore belga.

4) Gli autori sono tutti studiosi conservatori. Cinque sono cattolici confessionali, gli altri sono agnostici, culturalmente cristiani nel senso che all’espressione conferiva Ernest Renan, dicendo che l’Europa è Grecia, Roma e cristianesimo. Tra gli autori della Dichiarazione di Parigi non ci sono italiani, spagnoli, portoghesi, scandinavi, irlandesi, anche se sono stato informato che tra i successivi firmatari della dichiarazione c’è uno studioso di grande valore come lo spagnolo Dalmacio Negro. Non so se dipenda dal carattere artigianale dell’iniziativa (gli autori si conoscono personalmente tra di loro, non è stata promossa da alcuna istituzione). Per quanto riguarda l’Italia, studiosi di fama europea che potrebbero condividere il contenuto dell’appello ce ne sarebbero, per esempio Claudio Magris; o Ernesto Galli della Loggia, noto in ambito nazionale. Non so se non siano stati interpellati per mancanza di contatti personali, o se siano stati interpellati e abbiano declinato per evitare polemiche e conseguenze spiacevoli: non saprei se si continua a scrivere sul “Corriere della Sera”, dopo aver collaborato alla stesura di un manifesto come questo; domani forse sì, oggi non credo.

5) La qualità del documento è quella che ci si può attendere da autori di alto livello, sia nella perspicuità della scrittura, sia nella profondità e nell’articolazione dell’analisi; va letto attentamente per intero. Segnalo di seguito i punti essenziali. Le sottolineature sono sempre mie.

5.1 “L’Europa è la nostra casa”.  Scenari ed eventi comuni si caricano di significato speciale: per noi, ma non per altri. La casa è un luogo dove le cose sono familiari e dove veniamo riconosciuti per quanto lontano abbiamo vagato. Questa è l’Europa vera, la nostra civiltà preziosa e insostituibile”. L’Europa è una casa, non un progetto mondiale in corso d’opera, e non ha un significato speciale per tutti ma solo per chi vi abita o vi viene accolto. Se questa è l’Europa vera, l’altra Europa, l’Europa dell’Appello per il rinnovamento democratico e l’Unione Europea che l’ha promosso è la falsa Europa.

5.2 Infatti, “una falsa Europa ci minaccia”… I suoi fautori sono orfani per scelta e danno per scontato che essere orfani ‒ senza casa ‒ sia una conquista nobile. In questo modo, l’Europa falsa incensa se stessa descrivendosi come l’anticipatrice di una comunità universale che però non è né universale né una comunità.

5.3 Ecco indicato con la massima chiarezza il nemico: “I padrini dell’Europa falsa sono stregati dalle superstizioni del progresso inevitabile. Credono che la Storia stia dalla loro parte, e questa fede li rende altezzosi e sprezzanti, incapaci di riconoscere i difetti del mondo post-nazionale e post-culturale che stanno costruendo.” Il nemico è la falsa religione del progressismo mondialista, incarnato nella “falsa Europa”.

5.4 E l’appello a combatterlo: “La minaccia maggiore per il futuro dell’Europa non sono né l’avventurismo russo né l’immigrazione musulmana. L’Europa vera è a rischio a causa della stretta asfissiante che l’Europa falsa esercita sulla nostra capacità d’immaginare prospettive….” Europa vera contro Europa falsa, Europa casa contro Europa cantiere mondiale. Presumo che la menzione dell’“avventurismo” russo sia un cortese omaggio agli autori dell’Europa orientale, in particolare il polacco.

5.5 Che cos’è l’Europa vera, oltre ad essere la casa comune? “L’Europa vera è una comunità di nazioni Noi non cerchiamo l’unità imposta e forzata di un impero. L’Europa vera è stata segnata dal cristianesimoNon è un caso che il declino della fede cristiana in Europa sia stato accompagnato da sforzi sempre maggiori per raggiugerne l’unità politica: ovvero l’impero monetario e regolatorio, ammantato dai sentimenti di universalismo pseudoreligioso, che l’Unione Europea sta costruendo… L’Europa vera trae ispirazione altresì dalla tradizione classica Noi ci riconosciamo nella letteratura della Grecia e di Roma antiche”.

5.6  Qui, un attacco diretto al nocciolo dell’ Appello per il rinnovamento democratico, e della cultura UE: “Ma il futuro dell’Europa riposa in una lealtà rinnovata verso le nostre tradizioni migliori, non un universalismo spurio che impone la perdita della memoria e il ripudio di sé. L’Europa non è iniziata con l’Illuminismo. La nostra amata casa non troverà realizzazione di sé nell’Unione Europea... I padrini dell’Europa falsa costruiscono la loro fasulla Cristianità di diritti umani universali e noi perdiamo la nostra casa.”

5.7 Sull’immigrazione di massa: “Riecheggiando ironicamente l’antica idea imperialista, le classi dirigenti europee presumono infatti che, in qualche modo, in obbedienza alle leggi della natura o della storia, ‘loro’ diventeranno necessariamente come ’noi’; e non concepiscono che possa accadere invece l’inverso”

5.8 Sulla (mancanza di) legittimazione della UE: “Negli ultimi decenni, una parte sempre più ampia della nostra classe dirigente ha riposto i propri interessi nell’accelerazione della globalizzazione. I suoi esponenti mirano a dar vita a istituzioni sovranazionali che possano controllare senza l’inconveniente della sovranità popolare. È sempre più chiaro che il ‘deficit di democrazia’ di cui soffre l’Unione Europea non è solo un problema tecnico che si può risolvere con mezzi tecnici, ma un impegno basilare difeso con zelo.”

5.9 Quanto è forte il nemico? “l’Europa falsa si sta rivelando più debole di quanto chiunque avrebbe mai immaginato…le società europee si stanno sfilacciando malamente. Se non apriremo gli occhi, assisteremo a un uso sempre maggiore del potere statalista, dell’ingegneria sociale e dell’indottrinamento culturale.”

5.10 Come combatterlo? “Lo scetticismo crescente è pienamente giustificato… Chi si oppone, soffre di nostalgia, e per questo merita di essere moralmente condannato come razzista e fascista…Un’alternativa c’è.” Ometto i punti relativi alla battaglia culturale, che vanno letti per intero, nella loro complessità e nelle loro sfumature, e segnalo i punti direttamente politici: “L’immigrazione senza l’assimilazione è solo una colonizzazione, e dev’essere respinta…dobbiamo resistere alle ideologie che cercano di rendere totalizzante la logica del mercato… La crescita economica, benché benefica, non è il bene sommo. I mercati debbono essere orientati a fini sociali… L’Europa di oggi è attraversato da grande preoccupazione per il sorgere di quello che viene chiamato “populismo”, anche se il significato del termine non viene mai definito ed è usato per lo più solo come invettiva. Sul tema abbiamo le nostre riserve… Eppure ci rendiamo conto che molti elementi di questo nuovo fenomeno politico possono rappresentare una sana ribellione contro la tirannia dell’Europa falsa, che etichetta come “antidemocratica” qualsiasi realtà ne minacci il monopolio della legittimità morale. Il cosiddetto “populismo” sfida la dittatura dello status quo, il “fanatismo del centro”, e lo fa giustamente.”

 

* * *

 Mi fermo qui. Il manifesto, come ho detto, va letto per intero. Non affronto, in questo breve commento, l’aspetto e il significato più propriamente culturali del testo, per esempio come s’inserisca nella tradizione del pensiero cristiano e conservatore europeo, quali aspetti ne privilegi, in che rapporti stia con il liberalismo classico, in particolare quello che, secondo l’indicazione di Benedetto Croce, vuole distinguere liberalismo da liberismo economico. Toccherò invece il significato direttamente politico del manifesto: perché questo è anzitutto un manifesto politico. Lo è perché designa chiaramente, per nome e cognome, un nemico: l’Europa falsa, identificata in Unione Europea e progressismo mondialista, e invita espressamente a schierarsi per combatterlo. Tutti gli autori del manifesto appartengono a una cultura politica conservatrice e realistica, e dunque sanno benissimo che cosa stanno facendo, quando designano un nemico: compiono l’atto politico primordiale, quello che definisce la dimensione stessa del Politico.

Sul piano politico, il manifesto riveste un’importanza che mi par difficile sopravvalutare, perché:

1) Parte da un gruppo d’intellettuali che appartengono, al massimo livello, delle istituzioni accademiche, scientifiche, in alcuni casi politiche europee.

2) E’ sintomo di una rottura, anzitutto in seno a queste istituzioni, e in generale nelle élites europee, e si propone di ufficializzare e allargare questa frattura, promuovendo lo schieramento in campi avversi.

3) Pur rilevandone i limiti, legittima e appoggia, senza giri di parole, i “populismi” europei.

4) Identifica il proprio campo con quello degli Stati nazionali. L’orizzonte indicato è quello del ripristino delle sovranità nazionali che si congiungono e armonizzano nella comune appartenenza alla civiltà europea, e politicamente possono collaborare, eventualmente confederarsi, ma non disciogliersi in un’istituzione sovrannazionale.

5) La cultura politica alla quale si riferisce il manifesto è quella del conservatorismo europeo, e si situa dunque, nello spettro parlamentare, al centro-destra. Il centro-destra è e sempre più sarà, nei prossimi tempi, lo spazio politico decisivo per l’azione dei nemici dell’Unione Europea. Le esperienze degli ultimi anni mi paiono aver dimostrato due cose: a) che un’alleanza tra destra e sinistra in funzione anti UE è impossibile b) che “i populismi” che designano senza ambagi la UE come proprio nemico si situano tutti a destra, e però non riescono, da soli, né a vincere né soprattutto a convincere, cioè a guadagnare fiducia e consenso sia dell’elettorato, sia di settori di ceto dirigente abbastanza ampi da consentire di tenere il potere, dopo averlo conquistato.

6) Da quanto detto al punto precedente, consegue che la sola forza in grado di affrontare con speranza di successo le forze pro UE, è quella che può nascere da un’alleanza culturale, politica e sociale tra forze di centrodestra e forze di destra. Quest’ alleanza è possibile solo se le forze di centrodestra si spaccano lungo la linea di frattura che il manifesto indica con la massima chiarezza (o, sul piano strettamente politico-partitico, se aggiustano la rotta in quella direzione).

7) “Quante divisioni ha” il conservatorismo europeo? Da solo, molto poche. In compenso, ha una risorsa indispensabile e preziosissima: la capacità di ispirare fiducia e consenso con la maturità e la moderazione delle sue posizioni, e di uomini come gli Autori del manifesto. I populismi anti UE scontano, infatti, tutti, la diffidenza dei popoli e dei corpi elettorali nei riguardi di formazioni ritenute, a torto o a ragione, estremiste e inesperte, che invitano i cittadini a seguirli in un vero e proprio salto di paradigma politico; il proverbiale “salto nel buio”. Se si forma un’alleanza tra forze conservatrici moderate e competenti e populismi, il salto di paradigma non spaventerà più, o molto meno.

8) Last but not least, una collaborazione tra conservatori e populisti può sventare un pericolo molto grave: la polarizzazione radicale delle posizioni politiche e culturali, specialmente sul tema decisivo dell’immigrazione. La identity politics perseguita da decenni dalle forze progressiste di tutto il mondo occidentale, e imposta ossessivamente nel linguaggio dispotico del politically correct, negli Stati Uniti ha già prodotto un contraccolpo eguale e contrario, e alimentato la formazione di una cultura politica di destra radicale, la Alt-Right, nella quale, insieme a posizioni accettabili e anzi interessanti, si sono già cristallizzate posizioni di vero e proprio razzismo su base scientistica, affatto inammissibili ed estremamente pericolose. Indicare un capro espiatorio, facile da identificare perché la pelle è anche la sua bandiera, è un’arma molto efficace nella lotta politica; e un’arma che promette un facile successo immediato sarà spesso impiegata senza badare alle conseguenze future, che in questo caso sono veramente terribili: in sostanza, una “israelizzazione” della società, con l’istituzione di una apartheid informale, e una guerra civile a bassa intensità come condizione permanente. La presenza significativa di forze conservatrici, che si rifanno alla civiltà europea e alla cultura cristiana, nell’alleanza anti UE, diminuisce di molto i rischi di una deriva razzistica e tribale del campo in cui ci situiamo.

Qui concludo, scusandomi per la lunghezza, ringraziando il lettore dell’attenzione e invitandolo a replicare con obiezioni, critiche, commenti e suggerimenti.

[1] https://www.democracyendowment.eu/about-eed/ . “ The European Endowment for Democracy (EED) is a grant-giving organisation that supports local actors of democratic change in the European Neighbourhood and beyond”.

[2] The Prague Appeal for Democratic Renewal, https://www.forum2000.cz/en/coalition-for-democratic-renewal-2017-event-coalition-for-democratic-renewal

[3] https://thetrueeurope.eu/uneuropa-in-cui-possiamo-credere/

[4] https://fr.wikipedia.org/wiki/R%C3%A9mi_Brague

[5] https://en.wikipedia.org/wiki/Robert_Spaemann

[6] https://en.wikipedia.org/wiki/Roger_Scruton

[7] https://en.wikipedia.org/wiki/Ryszard_Legutko

[8] https://fr.wikipedia.org/wiki/Chantal_Delsol

[9] https://fr.wikipedia.org/wiki/Julien_Freund

[10] http://lipha-pe.u-pem.fr/

[11] https://fr.wikipedia.org/wiki/Philippe_B%C3%A9n%C3%A9ton

[12] https://ices.fr/

[13] https://en.wikipedia.org/wiki/Bart_Jan_Spruyt

[14] https://en.wikipedia.org/wiki/Edmund_Burke_Foundation

[15] http://www.obcinst.cz/en/people-in-ci/

[16] https://en.wikipedia.org/wiki/Matthias_Storme

QUALE EUROPA?, a cura di Giuseppe Germinario

I redattori di “Italia e il mondo” intendono avviare un dibattito sull’Unione Europea, sulle attuali modalità di costruzione delle relazioni tra gli stati e le realtà istituzionali del continente e sulla possibilità di costruzioni politiche alternative più confacenti ad una politica più autonoma e indipendente rispetto all’attuale condizione di sudditanza e rese sempre più necessarie dall’evidente processo di relazioni multipolari ormai in corso. Alla vivace polemica in corso ormai da anni, paradossalmente, non corrisponde una adeguata produzione di elaborazioni e documenti più puntuali e riflessivi, propedeutici al sostegno di linee politiche più chiare e coerenti. Segno evidente dei ritardi, degli impacci e delle approssimazioni nei quali è impelagata la quasi totalità delle classi dirigenti europee, sia quelle imperanti sia quelle con pretese di alterità.

Qui sotto i link di due primi documenti individuati le cui tesi, ovviamente, non corrispondono necessariamente al pensiero dei redattori del sito:

https://thetrueeurope.eu/uneuropa-in-cui-possiamo-credere/

https://www.forum2000.cz/en/coalition-for-democratic-renewal-2017-event-coalition-for-democratic-renewal

Seguiranno nell’immediato le prime riflessioni

 

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