uomini piccoli in momenti tragici. Una conversazione con il professor Augusto Sinagra

I momenti drammatici mettono in luce inevitabilmente i pregi e i difetti di un paese. La crisi epidemica e la paralisi economica hanno evidenziato l’abnegazione di tanti cittadini, ma soprattutto la mediocrità del ceto politico e di gran parte della classe dirigente, la precarietà degli assetti istituzionali. L’emergere di alcune figure politiche e di un buon numero di validi professionisti non riesce a compensare la sensazione di inadeguatezza. Il fatto di essere in buona compagnia in altre parti del mondo non è motivo di consolazione. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

Peculiarità, di Antonio de Martini

m’aggio accattat’ a jurnata

Ieri ho liquidato in maniera scortese un lettore che mi chiedeva di spiegare perché a Napoli il Coronavirus è stato contenuto e nella meglio attrezzata Milano, no.

Succede quando devi rispondere a due/trecento notifiche e messaggi personali in un giorno e sei arrivato a sera.

Ora che é mattina, cerco di spiegare questa differenza tra Milano e Napoli che negli ultimi quattro giorni ha registrato un numero di decessi uguale a zero.

1) i partiti. A Milano le differenze politiche tra sindaco, regione e governo hanno occupato politici e giornalisti che hanno trascurato le esigenze reali.facevano interviste.

A Napoli, un sindaco ( e anche un presidente di regione) battitore libero hanno prestato immediatamente orecchio ai medici, tra i quali lo “ scopritore del vibrione” di cui ora non ricordo il nome.
Gli ordini non sono stati contestati da oppositori preconcetti. La quarantena qui é una tradizione.

2) l’intelligenza critica e vivace dei napoletani abituati ad arrangiarsi e a vedere con garbato scetticismo le “ linee guida” di enti distanti, ha fatto si che ci si industriasse a trovare una cura e non a sperare in un vaccino. La Magna Grecia ha reagito come la Grecia: immediatamente.

3) Napoli e la zona vesuviana hanno la densità di popolazione di Hong Kong o quasi. Il distanziamento e stato attuato semplicemente accentuando di poco le distanze e alcune profilassi erano gia in voga. Mentre la Confindustria ha visto nella Pandemia una occasione per bussare a cassa, la Camorra ha collaborato con le forze dell’ordine perché non poteva sperare in indennizzi.

4)il primo segnale nazionale di lotta contro il virus è venuto dall’ospedale Cutugno con l’uso di farmaci antiartrite. In contrasto con le direttive nazionali e internazionali che bandivano gli antinfiammatori.
Il medico napoletano come curatore del malato e non della malattia.

5) lo spirito ironico e tollerante e la naturale empatia partenopea, il fatalismo esistenziale, hanno certo contribuito più di altre caratteristiche a mantenere forte l’animo e predisporlo psicologicamente a reagire al male. Sia i malati che gli operatori.

6) l’essere resilienti a espellere nonni e genitori dal nucleo familiare ha limitato il numero dei focolai che hanno falcidiato il nord.
E ogni mediocre intelligenza medica ha capito che i malati « infettivi » non andavano mischiati con gli altri.

7) Sole e Mare hanno certamente aiutato a sintetizzare la vitamina D di cui tutti i morenti sono risultati carenti.

8.) Nel Napoletano famiglia e amici precedono il lavoro nelle priorità dell’individuo.
Il motto partenopeo é « m’aggio accattato a jurnata » : ho di che sfamare la famiglia per oggi; smetto e mi dedico ai miei affetti e hobbies o al riposo. Fiducia nella provvidenza e sistema immunitario al meglio.

Per capire appieno quel che vorrei esprimere, ma sento di non riuscirvi appieno, consiglio di leggere le pagine dedicate a Napoli da Goethe nel suo viaggio in Italia.

Lui scriveva meglio di me e non era intontito da 36 notti di galera.

Insomma, i napoletani sopravvivono, perché hanno capito i valori veri dell’esistenza e per definire il lavoro hanno un termine spettacolare: a fatica.

Ditemi voi perché dovrebbero morire anzitempo. Non é questione di razza superiore caro Giacomo Crasti , ma di sapere mettere al posto giusto affetti, lavoro, amori e ambizione, perché la vita ama chi la ama.

CORONAVIRUS ED ECCEZIONE III, di Teodoro Klitsche de la Grange

CORONAVIRUS ED ECCEZIONE III

Continuano le perplessità su effetti e conseguenze istituzionali del Coronavirus. Specie in relazione, (dato che grazie – al cielo – il contagio sta calando) alla cosiddetta “fase due”.

Avevo già scritto che mai Carl Schmitt era stato così citato dai media come dall’inizio della pandemia. Anche, per lo più, da intellos che conoscono il giurista per sentito dire o, al massimo, per letture sommarie. E quindi lo intendono male.

Il “nocciolo” del ragionamento schmittiano, condiviso da gran parte dei maestri del diritto pubblico, è che quando è in gioco l’esistenza comunitaria (e la vita), si devono tollerare le compressioni necessarie ai diritti, anche a quelli garantiti dalla Costituzione. Ma vale anche l’inverso: allorché la situazione emergenziale viene meno, devono cessare anche quelle limitazioni; così come queste vanno valutate in relazione non (o meno) alle restrizioni dei diritti (e dei valori) garantiti dalla Costituzione che all’effettiva attitudine (e risultato) a conseguire lo scopo prefissosi: l’eliminazione (o almeno il contenimento) dell’emergenza che le ha rese opportune. Ma non sempre il giudizio è positivo.

Come esempio (negativo) di un’emergenza strumentalizzata ad altri fini, abbiamo la crisi italiana del 2011. Il governo Monti osannato dai media come idoneo al compito di ridurre il debito italiano, proprio su questo conseguì il peggior risultato: in poco più di un anno e mezzo, a prezzo di sacrifici notevoli, riuscì a far aumentare il debito italiano dal 116,50% al 129,00% del P.I.L.

Oltretutto coniugando tale pessimo risultato a un aumento  delle imposte che ha ridotto il tenore di vita degli italiani. Peggio di così…..

Non pensiamo che il governo Conte bis otterrà un risultato simile al governo “tecnico”, non foss’altro perché le epidemie arrivano, crescono e cessano. I proclami di vittoria, soprattutto quelli confezionati dal governo  hanno quindi il limite dell’ovvietà, Più interessante è sapere il quando, il quanto e il come se ne uscirà. Ricorda Manzoni che durante la peste di Milano le autorità presero le prime misure di emergenza circa un mese dopo che le avevano deliberate cioè dopo che “la peste era già entrata in Milano”. Colla loro inerzia accrebbero i danni. Come scriveva Schmitt “conseguire un obiettivo concreto significa intervenire nella concatenazione causale degli accadimenti con mezzi la cui giustezza va misurata sulla loro adeguatezza o meno allo scopo e dipende esclusivamente dai nessi fattuali di questa concatenazione causale… significa infatti il dominio di un modo di procedere interessato unicamente a conseguire un risultato concreto”. E il bilancio – anche dell’adeguatezza dell’azione di governo – sarà possibile solo quando raggiunto il “contagio zero”.

Nello stato d’eccezione la sovranità mostra la propria superiorità rispetto alla norma: è stato Bodin il primo a definirla come summa in cives legibusque soluta potestas: quindi agli albori dell’elaborazione del concetto i connotati qualificanti già ne erano: la preminenza rispetto agli altri poteri (summa) e d’esser svincolata dalla normativa (legibusque soluta). Almeno dalle leggi, cioè dalla normativa posta dal potere e per volontà del medesimo, secondo il noto frammento di Ulpiano. La sfida affrontata dal sovrano nello stato di eccezione non è negare il diritto – e tanto meno l’ordinamento – ma di ri-creare una situazione normale in cui la norma possa tornare a poter essere applicata.

É nell’eccezione (e in modo in certo modo simile nel gouvernment de fait di Hauriou) che l’istituzione politica – cioè lo Stato (moderno) – mostra sia la propria essenza che la superiorità dell’istituzione rispetto alla norma. Dall’impossibilità o anche dall’inutilità di applicare norme in una situazione eccezionale, quindi a-normale, dimostra la necessità e la precedenza istituzionale della “creazione”, da parte dell’autorità, di una situazione in cui la norma possa avere vigore ed efficacia. Come scrive Schmitt  “Il caso di eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue dalla norma giuridica, e l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto”.

E tale “creazione” non ha nulla a che fare con le garanzie dell’ordinamento – nel senso dei diritti individuali – affidate (per lo più) ai Tribunali, e in particolare al livello più alto, alle Corti costituzionali. La riparazione di un diritto trova proprio nel potere giudiziario il più adatto ad assicurarlo.

Ma nella situazione eccezionale il problema è garantire “la situazione come un tutto nella sua totalità”. A esser garantito non è l’interesse e la correlativa pretesa del singolo, ma la concreta applicazione di tutto il diritto attraverso il ripristino della situazione normale.

Ne consegue che è la situazione (eccezionale o normale) a determinare l’opportunità di promulgare, mantenere, far cessare le misure per fronteggiare l’emergenza. Così come è il risultato a determinare se, finita l’emergenza, l’azione delle autorità di governo sia stata congrua, e in che misura. Ora è troppo presto per formulare una valutazione definitiva.

Quanto alla fase due, ancora è da venire, e il giudizio sulla stessa anche.

Capisco la diffidenza di tanti italiani data l’esperienza che altre situazioni emergenziali (o, meglio presunte tali) sono state utilizzate dai governi per l’unico fine di sfruttare i cittadini, senza altro risultato (v. da ultimo quello “tecnico” citato) che realizzare il contrario dello scopo esternato. Ma ora è troppo presto per dare un giudizio: non lo è per avere fondati sospetti.

Teodoro Klitsche de la Grange

aprire o non aprire? questo è il dilemma, del dr Giuseppe Imbalzano

Giuseppe Imbalzano, medico, specialista in Igiene e Medicina preventiva. Direttore sanitario di ASL lombarde per 17 anni (Ussl Melegnano, Asl Milano 2, Ao Legnano, Asl Lodi, Ao Lodi, Asl Bergamo, Asl Milano 1). Direttore scientifico progetti UE (Servizi al cliente, Informatizzazione della Medicina Generale). Si è occupato di organizzazione sanitaria, prevenzione, informatica medica, etica, edilizia, umanizzazione ospedaliera e psicanalisi. Oggi consulente della Federazione Russa per la gestione dell’epidemia di Covid19

In tempo di Covid 19, per riaprire l’Italia, qual è la strada più breve, la più sicura, la meno rischiosa, la più veloce?

 

La situazione economica è l’elemento più critico che si sta rivelando connesso con
l’infezione da Covid 19 e che sta creando, se possibile, più danni della infezione stessa.
La modalità con cui è stata affrontata questa epidemia non sempre ha seguito la linea di
ridurre le fonti di infezione e di preservare il personale di assistenza da eventuali contagi, ma ha diffuso il virus negli ospedali e infettato un numero incredibile di operatori. Che sono certamente la causa di ulteriori infezioni tra i familiari e i pazienti. Così come la scelta di affidare ai medici di famiglia l’assistenza dei pazienti potenzialmente infetti ha costretto i primi ad affrontare, spesso senza gli strumenti di protezione necessari, situazioni del tutto critiche che dovevano esigere ben altra organizzazione. E la numerosità dei medici infetti ha creato ulteriori focolai territoriali.

In questi giorni sono fiorite proposte di riapertura delle attività lavorative che hanno posto come riferimento, tra le tante cose, le proiezioni di danno delle categorie secondo le età. Una scelta che cerca di dimostrare il basso rischio dei soggetti che devono partecipare al ciclo lavorativo in base a valutazioni che, nei fatti, appaiono assai discutibili, sia perché prive di certezza statistica, sia perché non tengono conto che non vi è una fungibilità di tutto il personale, di un possibile utilizzo di personale qualificato in tutti i settori senza la specifica competenza di chi debba gestire l’attività e il settore specifico. Dimenticando poi che i lavoratori hanno interazione anche con parenti e amici che potremmo inserire nelle categorie a rischio. E che accettare il rischio in se stesso (con quale garanzia per chi rischia?) non fa parte di una corretta valutazione e modello di attività. Sarebbe ancora più pesante che le imprese aggiungessero al peso dell’inattività il peso degli eventuali contagi correlati e dei danni immateriali e previsti dal decreto Lvo 81/08. E non credo, considerata la macchinosità del sistema, che verrebbe apprezzata dai lavoratori e quindi approvata per poter essere attivata e gestita come regola su tutto il territorio nazionale.

L’obiettivo è quindi quella di ridurre il rischio ai minimi termini, al livello più basso possibile.

Che è differente tra le diverse condizioni di rischio per differenti attività.

Tutta la nostra vita è un rischio, ma è necessario superare le condizioni di difficoltà, prevenendo, per quanto possibile, il rischio e il danno che ne possa derivare.

Se scalare una montagna è comunque rischioso, avere una attrezzatura appropriata, una condizione fisica ottimale ed una esperienza adeguata non è sufficiente se non teniamo conto delle condizioni climatiche e dei compagni di cordata. Se queste condizioni non sono garantite il rischio aumenta in modo importante.

Per arrivare in cima, comunque, ci sono mezzi alternativi, come l’elicottero o lanciarsi con il paracadute.

Possiamo immaginare lo stesso con una malattia infettiva che non ha terapie certe e non ha vaccini disponibili, che ha una mortalità significativa e necessità di servizi sanitari importanti, una infettività ragguardevole e una impossibilità ad essere identificato immediatamente e con certezza?

Arrivare in cima senza vaccino non è possibile. Essere certi di non infettarsi, senza vaccino non è possibile. Anche chi risulta positivo ad eventuali test biologici non è garantito.

Allora, in attesa di non avere neanche un caso in Italia, cosa possiamo fare?

Il primo e fondamentale punto è attivare un sistema di identificazione dei nuovi casi, molto puntuale e ben definito, come modalità e sede, la causa di esposizione e le modalità di contagio.

In carenza di un sistema di rilevazione puntuale dei nuovi casi noi rischiamo di rincorrere il virus al buio, con scarse possibilità di interrompere la catena di infezione.

Oggi la nostra attenzione prevale verso chi viene infettato e inseguiamo i casi che si moltiplicano.

I sistemi di “mitigazione” odierni non sono garantiti dalle azioni che vengono messe in atto per monitorare come il processo infettivo viene diffuso, se vi sono ambienti particolari o condizioni di rischio elevate che vengono trascurate. Se non si chiude il rubinetto, l’acqua continuerà a traboccare dal lavandino pieno.

Altra soluzione che è stata proposta è la identificazione dei “positivi”. La “mappatura” degli infetti non è necessaria con la descrizione soggettiva del proprio stato di salute poiché tutti i casi identificati di malati di covid 19 sono noti alle autorità sanitarie.

La richiesta di dare informazioni sul proprio stato di salute, che viene sollecitato da qualche sistema di monitoraggio, non solo è inutile ma rischia di far confondere una banale infezione ILI (Influenza Like Illness- malattia simile all’influenza) con la infezione da coronavirus che, quantomeno nelle fasi iniziali, ha la stessa sintomatologia e pertanto può creare maggiore (e inutile) ansia e preoccupazione nell’interessato e nella comunità.

Un monitoraggio serio è certamente un elemento di maggiore sicurezza e i luoghi di maggiore rischio sono quelli dove la presenza e la concentrazione dei malati è maggiore, e in particolare, nel nostro caso, gli ospedali e le case di cura, oltre ai domicili dei pazienti assistiti a domicilio.

È importante evitare le infezioni ed in particolare quelle prevedibili come le infezioni familiari.

La gestione dei positivi che non necessitano di assistenza ospedaliera è pericolosa perché le persone ammalate non possono vivere da sole e neanche badare a se stesse per tutte le esigenze quotidiane e le problematiche di salute che presentano.

Lasciare l’assistenza ai soli familiari ed in ambienti civili non garantisce nessuna sicurezza e ancora di meno la certezza che non ci potrà essere una trasmissione della infezione a chi accudisce queste persone. La protezione necessaria in ospedale è altrettanto indispensabile al domicilio e la preparazione del personale sanitario non è certo comparabile con la preparazione per evitare le infezioni in ambito familiare. Gli ambienti non sono adeguati e la sicurezza di protezione infettiva del tutto assente. E trascurare questi principi favorisce certamente la possibile diffusione virale domiciliare e comunitaria per l’attività sociale che comunque i familiari del malato svolgono normalmente (spesa, farmacia etc.).

Trattare questa infezione alla stregua delle altre è fortemente criticabile perché il rischio di diffusione è sicuramente molto elevato e l’assenza di strumenti terapeutici e di prevenzione non può rassicurare la comunità.

La gestione domiciliare dovrebbe consentire la separazione dei malati dal resto della comunità e lo stesso per i dimessi dagli ospedali ancora positivi.

Certamente non vanno inseriti in ambienti fortemente a rischio come le residenze per anziani ma in ambienti unicamente dedicati a malati di covid 19.

Il personale, naturalmente, deve essere adeguatamente formato e protetto.

Una attenzione particolare, più che alla vestizione, deve essere garantita per la svestizione, che diventa molto complicata in un ambiente domestico.

La separazione, nettamente definita e mantenuta sino alla eliminazione delle possibili criticità, deve essere mantenuta per i malati nei confronti dei non affetti dalla infezione.

Quando e dove aprire le attività.

Ovunque non ci siano casi di infetti può essere attivata l’intera organizzazione e possono essere garantiti tutti i servizi per la comunità.

Le aperture devono tenere conto della realtà territoriale e dell’impegno per garantire una totale assenza di infezioni e di nuovi infetti da almeno 20 giorni.

Noi già abbiamo, in Italia, con gli obblighi di confinamento attuali, comuni in cui le infezioni sono assenti e che possono, in piena tranquillità, riaprire tutte le proprie attività senza nessuna preoccupazione. Naturalmente con i residenti dei comuni stessi.

E questo potrà consentire di avviare due elementi fondamentali, l’attività lavorativa e l’interesse comunitario per ridurre le criticità che oggi non consentono una gestione adeguata della infezione. I sindaci in particolare avranno tutto l’interesse a mantenere o a favorire che il proprio comune diventi area virus free per riprendere le attività professionali, industriali e commerciali nella propria realtà, creando un circolo virtuoso per l’eliminazione dei fattori che favoriscono la diffusione del virus.

Solo una partecipazione attiva dell’autorità sanitaria locale, il Sindaco, e non una banale indicazione a non andare in giro o a non permettere di svolgere attività fisica possono determinare una riduzione del contagio. Una assistenza adeguata e coerente con le esigenze dei singoli malati può permettere di ridurre i contagi intra familiari e ambientali. E naturalmente una adeguata gestione della assistenza ospedaliera, con la separazione netta di ospedali per i malati infettivi e per malati non infettivi potrà, con la adeguata protezione del personale, ridurre le infezioni che sono possibili in un ambiente misto. E così per i trasporti dei malati infettivi, con una separazione dei sistemi di emergenza.

Con questo modello, con la assoluta attenzione ad evitare infezioni con alta probabilità di sopravvenire, possiamo immaginare di ampliare rapidamente le aree virus free e riprendere, in modo composto e sicuro, le attività in tutti i nostri comuni e poi i distretti che man mano si libereranno dall’infezione.

La domiciliazione senza la revisione dei comportamenti e delle azioni che oggi determinano nuovi casi è poco funzionale e creano forti tensioni tra i bisogni economici e quelli di salute.

Con questo modello il 30% abbondante dei nostri territori è in condizione di riprendere l’attività senza limitazioni e successivamente, nella espressione di questi comportamenti sicuri, le aree virus free si amplieranno rapidamente, senza dover decidere che cosa sia possibile fare.

La scelta di testare milioni di soggetti per verificare se gli stessi sono stati infettati porterà, oltre a costi non indifferenti, alla considerazione che la maggior parte della comunità ancora non lo è, ed in particolare non è certa l’immunità da una eventuale nuova infezione. Oltretutto questo modello, di copresenza dell’infezione endemica, mantiene in circolazione il virus e può, senza difficoltà, creare ulteriori focolai difficili da contrastare.

Una scelta “scorciatoia” non da garanzia di nulla e certamente non è possibile favorire il turismo e la mobilità comunitaria in sicurezza nelle nostre realtà.

Sino ad oggi è regnata molta confusione ma è indispensabile agire con grande rigore e modificare le linee di intervento sulle linee grigie che sono l’assistenza in ospedale e al domicilio di pazienti positivi o in attesa di valutazione in caso di contatto.

È indispensabile ridurre la semplificazione che si è fatta sino ad oggi per l’assistenza ed attivare tutti i servizi necessari per favorire una certificazione di area virus free sia nei singoli comuni che per tutta la comunità.

In questo modo, dal giorno di avvio della nuova organizzazione, saranno sufficienti poche settimane per giungere all’azzeramento dei nuovi casi e l’attività sociale potrà riprendere in modo completo e totale.

Giuseppe Imbalzano

http://CVBreveImbalzano

 

Due,tre cose che so sul coronavirus, di Max Bonelli

Due,tre cose che so sul coronavirus

 

Nell’ambiente dei patrioti sovranisti sono conosciuto per il mio impegno per la causa dei russi dell’est Ucraina,su cui ho scritto il libro Antimaidan , e per  vari articoli su quel mostro imperialista denominato Nato ma non sono uno scrittore di professione ne tanto meno un giornalista, vivo (per fortuna) di altro.

Ho alle spalle 30 anni di attività nel campo farmaceutico con svariati incarichi in diverse multinazionali del settore  in vari paesi europei (attualmente faccio consulenze in Scandinavia) e prima ancora quando ero ancora laureando in Farmacia ho prestato servizio come ufficiale nel 1 battaglione NBC Etruria come istruttore di difesa chimica e biologica. Fui mandato li perché avevo tanti esami in chimica, l’esercito cercava un laureato ma in mancanza si accontentarono di un laureando, il sottoscritto.

Mi diedero una settimana per prepararmi ed una serie di sinossi da digerire che divorai con facilità, niente di difficile per chi aveva superato chimica biologica, fisiologia etc.

Passai gli 11 mesi di servizio istruendo sottufficiali su come difendersi dagli attacchi chimici e biologici, come indossare le tute di difesa chimica e biologica, l’uso di autoclavi e l’immancabile maschera antigas.

 

Quando si seppe dei primi casi in Cina a Wuhan il germoglio della curiosità crebbe velocemente in me grazie ai miei trascorsi militari e professionali e trovai subito l’ottima pagina della università di Johns Hopkins che in tempo quasi reale aggiornava l’evoluzione del COVID-19.

https://coronavirus.jhu.edu/map.html

 

Capii subito già nella seconda metà di gennaio che il virus per le sue caratteristiche era inarrestabile nella diffusione e che l’unica forma di strategia di difesa era provare a limitare i danni ma seguendo questo invisibile parassita ho avuto delle interessanti ed istruttive lezioni di vita.

 

Primo:            Non farsi prendere dalla sindrome di Gesù

 

Seguendo l’evoluzione dell’invisibile nemico, incominciai  ben presto ad elaborare un piano di difesa biologica, ci pensavo continuamente me lo ripetevo nelle varie fasi mentre lavoravo, ne affinavo i particolari, poi mi feci coraggio e lo condivisi con persone che stimavo del partito sovranista in cui milito Vox Italia. Pensavo che me lo avrebbero buttato giù ed invece riscontrai entusiasmo ed incoraggiamento. Un ingegnere economico ed un medico collaborarono a strutturare un progetto articolato ed a sviluppare un calcolo degli oneri economici. Il risultato fu sorprendente con il mio piano che verteva sul principio di mettere gli anziani in strutture tenute asettiche od in alternativa di obbligarli ad una prolungata quarantena a casa supportati da personale che fornisse loro la logistica necessaria ad affrontare l’isolamento, si sarebbe continuato a tenere aperta l’azienda Italia, anche se con il freno a mano tirato in tanti settori. Il raffronto rispetto all’attuale sistema era di un risparmio di 170 miliardi di euro su un periodo di 3 mesi. Forte di tutto questo bussai alla protezione civile, alla sanità della regione Lazio. Risposte ? Nessuna, e nello stesso tempo giorno dopo giorno i morti aumentavano e  il paese era additato a “lebbrosario di Europa”. La cosa mi lasciava basito ancor più che gli unici due paesi che hanno adottato strategie simili alla mia proposta ottenevano dei risultati di letalità di molto migliori dell’Italia e mi riferisco a Russia ed Israele. La prima ha imposto agli anziani di rimanere in casa fino alla fine dell’emergenza insieme ad un moderata chiusura delle attività e la seconda ha scelto la via di focalizzare la protezione biologica sulle strutture che si prendono cura degli anziani più esposti. I risultati li lascio alla curiosità del lettore che può essere soddisfatta sul sito già messo in evidenza.

Avevo la conferma che il mio progetto stava in piedi ma non interessava a nessuno in Italia; parlai con un giornalista di Sputnik news ed ebbi da lui un intervista, articolo pubblicato fatto girare sui social; tanti like ma di concreto niente ed intanto il mio paese affondava.

Ad onor del vero anche nel Nord Europa  ho provato a proporre in ambiti delle grandi catene di distribuzione farmaceutiche micro progetti per salvaguardare dal contagio le “case per gli anziani” come le chiamano li. In teoria avevo il compito facilitato in quanto il virologo di riferimento locale, Anders Tegnall, aveva indicato che la priorità delle risorse e  delle attenzioni dovevano andare alla protezione biologica di queste strutture e nello stesso tempo si doveva evitare di fermare completamente l’economia. Tutto giusto solo che il governo svedese non ha avuto la forza di dare chiare direttive in tal senso, quindi trasformare la teoria in pratica. Risultato, tutto il mondo sanitario che gravitava intorno agli anziani si preoccupava più di perseguire il guadagno che di mettere in pratica costose ed onerose misure di prevenzione con il risultato che ai primi di aprile si contava 1 ospizio su 3 sotto contagio. In questo caso ho avuto la soddisfazione personale di vedermi scodinzolare intorno le stesse persone che 2 mesi prima mi avevano riso in faccia quando ai primi di febbraio dissi loro che il coronavirus si sarebbe diffuso anche in Svezia. All’epoca erano cosi fieri di avere solo casi isolati, perché stare a sentire un consulente italiano?

In sintesi puoi avere il piano migliore del mondo, la buona volontà ma di fronte all’inerzia dei comportamenti di gregge anche Gesù ebbe i suoi problemi ed io cosa pensavo di fare? Salvare il mondo?

 

Secondo:       Le persone molto intelligenti in situazione di stress perdono la loro qualità migliore

 

Basterebbe che i nostri governanti ma non solo loro, anche gran parte della classe politica mondiale si soffermasse ad osservare la cartina mondiale di diffusione del COVID-19.

Balzerebbe agli occhi che il nostro virus odia le alte temperature. Si diffonde con una velocità irrefrenabile nei climi temperati ma fatica nei climi equatoriali. Nei primi 13 posti per numero di contagiati ci sono 12 paesi con climi temperati ed 1 solo l’Iran con un clima parzialmente caldo. In realtà è stato colpito nella stagione “invernale” quando le temperature medie sono di 10-15 gradi; man mano che si riscaldava  il clima è stato superato in numero di contagi da paesi con sistemi sanitari migliori ma con un clima più

adatto al virus. L’OMS scrisse che la capacità di sopravvivenza su oggetti inanimati poteva essere intorno ai 3 giorni, una enormità di tempo se questo lasso scema notevolmente con il rialzo delle temperature ecco spiegato perché Malaysia, Filippine ed Indonesia sono sotto i 5 000 contagiati a testa in data 12 aprile o vogliamo pensare che il loro sistema sanitario sia migliore di quello dei paesi più avanzati?

Per finire vi invito a dare un’occhiata all’Australia: 6315 contagiati il 12 aprile del 2020, stesso sistema sanitario, stesse misure, quasi tutti i contagiati vivono nella parte temperata che guarda l’antartico, praticamente assenti nel nord caldo e secco.

 

In sintesi :il mondo è in mano a gente che non può essere stupida se ha fatto una carriera cosi brillante nella società ma non sono stati selezionati per fare analisi sotto stress e prendere decisioni coraggiose; la mancanza di questa dote, il coraggio sta diventando il maggior responsabile di una delle più grandi catastrofi economiche della storia dell’umanità.

 

 

Terzo: Il megafono di una stampa asservita al potere in crisi isterica

seppellisce definitivamente il senso critico del popolo sotto il

peso della paura.

 

La paura annebbia le menti ed il nostro virus è riuscito a risvegliare dei comportamenti seppelliti nel nostro DNA. La maggior parte di noi discende da chi è sopravvissuto alla peste del 1300. Pur con una letalità ufficiale intorno al 3,6% con punte nel bel paese che arrivano al 12% il coronavirus è ben lontano dalle letalità dei suoi parenti stretti SARS o MERS. Ha un’alta ospedalizzazione che mette in ginocchio i sistemi sanitari e che incide sul numero di morti ma siamo lontani dal 50% ed oltre della peste nera che colpì i nostri antenati per altro privi di un sistema sanitario in loro soccorso. I nostri media hanno fomentato con piacere l’asservimento delle menti impaurite, sentivano che con gli anni lo scetticismo della gente aumentava di giorno in giorno e non poteva che essere altrimenti di fronte a chi propugnava e propugna l”’accoglienza infinita in un mondo finito”. Questa pestilenza benigna gli ha ridato il potere che avevano perso; quello di poter ottenebrare le menti. Da qui una riflessione:

Solo il pensiero chiaro e limpido aiuta il raggiungimento della verità ed il valore degli uomini è dato da quanta verità riescono a tollerare

 

 

Max Bonelli

 

 

 

 

 

 

Coronavirus_Qualche risposta ai tanti perché, a cura di Giuseppe Germinario

Proseguiamo con la nostra carrellata sui diversi approcci alla crisi pandemica adottati dai vari paesi e spesso dalle varie regioni all’interno di essi. All’articolo iniziale (iniziatico?) di Roberto Buffagni, al podcast di Gianfranco Campa, agli elzeviri di Massimo Morigi, ai contributi preziosissimi di Giuseppe Imbalzano, alle riflessioni di T.K. de la Grange, ai contributi esterni, tutti raccolti in un apposito dossier, segue questo articolo dedicato alla Germania. Una modalità di azione sottotraccia quella adottata dal ceto politico e dalla classe dirigente dominanti di quel paese. Una costante delle tattiche adottate a partire dalla disastrosa disfatta militare del ’45. A cominciare dalla manipolazione di dati poco realistici. Non si tratta solo della casuale disparità dei criteri di rilevazione frutto ed indice della eterogeneità insopprimibile della galassia europea ed europeista e delle sue esigenze politiche. E’ probabilmente un accorgimento, certamente meno guascone rispetto a quello adottato dai francesi, teso a contenere l’allarmismo e il rischio di destabilizzazione interna, a giustificare misure meno draconiane e meno selettive nell’ambito delle relazioni sociali e soprattutto economiche e a porre, quindi, il paese in una posizione migliore rispetto a quella di paesi dai comportamenti più schizofrenici e massivi nell’agone internazionale, in particolare geoeconomico. Pur tuttavia, non si tratta di un mero espediente. L’articolo qui in basso rivela chiaramente anche il substrato di una gestione della crisi pandemica decisamente più accorta e preveggente sia nelle modalità operative che nella tempistica adottate. Probabilmente queste misure, in aggiunta alla annunciata valanga di sovvenzioni e di protezioni del proprio apparato economico, non saranno sufficienti a parare i terribili colpi di là da venire. La Germania è un paese troppo controllato, subordinato politicamente e militarmente, con una area di influenza diretta in un Est Europeo legato di contro a doppio filo piuttosto agli statunitensi ed una economia dai volumi e da una organizzazione impressionante, ma tecnologicamente poco innovativa e troppo vulnerabile dal punto di vista finanziario, troppo legata ai settori più speculativi della finanza anglosassone, troppo esposta alle crescenti instabilità e chiusure del commercio internazionale. Se a questo si aggiunge la sua atavica propensione a confondere le mire egemoniche in Europa con la predazione e l’annichilimento puri e semplici dei propri “fratelli europei” specie latini, non ci vorrà molto a valutare la effettiva dimensione e le conseguenze del suo progressivo e fatale isolamento. Al suo cospetto rifulge ancora di più la drammatica e sconsolante condizione nella quale si sta progressivamente cacciando il nostro paese. Un paese ormai da trenta anni dilaniato da conflitti politici tanto più virulenti quanto più privi di strategie e tattiche in grado di offrire prospettive nazionali dignitose e autonome. Un salto di qualità mancato e un degrado già ben avviato negli anni ’80 ma che ha conosciuto la propria apoteosi con l’epurazione di Tangentopoli e il progressivo emergere di un ceto politico particolarmente abile nell’annichilire ed asservire gli apparati e le competenze pubblici alle proprie baruffe di fazione. Una sterilità ed una miseria che ha trovato una ulteriore occasione di prevaricazione con questa crisi pandemica. Uno scontro ormai sordo e feroce disposto a sacrificare e strumentalizzare la stessa dedizione ed il coraggio manifestati dalle categorie professionali chiamate ad affrontare i rischi della crisi sanitaria. Uno scontro asimmetrico nella posizione dei belligeranti che lascia presagire la prevalenza di una fazione, quella più compromessa politicamente ma meno esposta amministrativamente, piuttosto che la possibilità di una emersione di una nuova classe dirigente o quantomeno di una vecchia almeno rinsavita, più accorta e autorevole. Da una parte le forze della maggioranza governativa detengono il controllo e quindi la più grave responsabilità politica di una gestione a dir poco contraddittoria e intempestiva della crisi. Appunto una responsabilità politica che facilmente potrà sfuggire alle pendenze giudiziarie e ai desideri di rivalsa delle vittime della mala conduzione che già si manifestano numerosi. Una elusione delle responsabilità  culminata nella mancata avocazione di poteri speciali, nella assenza di direttive univoche e cogenti, nella sovrapposizione di incarichi esecutivi a persone chiaramente inadatte e spesso compromesse con il processo di debilitazione delle strutture pubbliche. Figure di secondo piano destinate a non oscurare il futuro politico dei protagonisti e una insipienza a suo modo funzionale a scaricare le responsabilità sui centri amministrativi più esposti. Un rituale del cerino acceso destinato a rimanere in mano ai responsabili regionali e amministrativi. Lo stesso gioco se si vuole che, a parti rovesciate, sta probabilmente giocando Trump con i suoi avversari democratici, impelagati nel focolaio epidemico di New York. Ma con una differenza sostanziale: gli Stati Uniti sono appunto una Federazione di Stati, non di regioni dalle competenze sovrapposte. Dall’altra una opposizione, in particolare la Lega, sua componente maggioritaria, reduce già da numerosi e clamorosi errori politici che ne hanno minato credibilità e sicumera e gestore a buon titolo di una regione, il Veneto, capace di affrontare decorosamente l’emergenza, ma anche della Lombardia, epicentro della epidemia e degli errori di gestione più marchiani e dolorosi. Nei tempi ravvicinati vincerà probabilmente chi detiene il pallino dei mezzi di comunicazione e chi potrà eludere l’agorà giudiziaria. Su questo il centrosinistra è chiaramente avvantaggiato di parecchie spanne. Bisogna dar atto della resistenza di Conte alle profferte capziose degli ologrammi di Bruxelles di utilizzo dei fondi del MES e di prestiti obbligazionari con garanzie dei singoli stati; come pure del tentativo di fronte comune dei paesi mediterranei. Tentativo per altro già messo in forse dal comportamento ambiguo e subdolo di Macron, quindi della Francia. La partita non è ancora chiusa; qualche incrinatura si intravede anche nella stessa Germania e Olanda. L’esempio preclaro della devastazione della Grecia e del vacuo successo del miracolo spagnolo sono un avvertimento, un incubo chiaro più alle popolazioni che alle élites dominanti. Lo scontro all’ultimo sangue tra reciproche debolezze, il nocciolo dell’acceso scontro politico in Italia, non lascia presagire molto di buono. I ricatti, le minacce e le ritorsioni possono essere il preludio ad un ennesimo e clamoroso cedimento, ad una definitiva capitolazione seguiti da proteste ed opposizioni di comodo. Vedremo cosa succederà domani, 7 aprile. Sorge a questo punto un interrogativo angosciante. Come possono forze politiche paralizzate da una crisi sanitaria tutto sommato circoscrivibile, se gestita a suo tempo con maggiore accortezza, contrattare al meglio la propria posizione in Europa o gestire il piano B della uscita dall’euro e dalla attuale Unione Europea senza cadere in una visione assistenzialistica e parassitaria, residuale apparentemente alternativa all’attuale? Già in almeno tre occasioni l’attuale ceto politico è mancato all’appuntamento, a volte persino offerto, negli ultimi tre anni. La stessa sottovalutazione delle implicazioni geopolitiche del comunque ben accetto sostegno umanitario lascia intravedere il pressapochismo dei passi intrapresi. Si blatera tanto di volerci liberare della signoria statunitense, ignorandone le pesanti implicazioni; in realtà si fa fatica a liberarsi persino dalle angherie e dalle grettezze del suo maggiordomo tedesco, non ostante le spinte e gli incoraggiamenti nemmeno troppo velati a saltare il fosso. Al peggio non si intravede la fine. Scusate lo sfogo. Non saremo profeti in patria, almeno in Russia hanno avuto modo di apprezzare e riconoscere la competenza professionale dell’esperto che su questo blog ci ha illuminato di cotanta sagacia e supponenza nazionali. Un sincero augurio per la nuova avventura. Giuseppe Germinario

Ecco perché in Germania si muore molto meno per coronavirus rispetto all’Italia

In Germania il tasso di letalità è 1,4%, in Italia 12,5%

In Germania la percentuale delle persone che muoiono per coronavirus è bassissima rispetto ai casi rilevati in confronto alle percentuali di letalità indicate dai dati ufficiali in Italia. In parte la differenza può essere provocata da dati ufficiali poco affidabili. Ma questa da sola non può essere una spiegazione sufficiente.

Una inchiesta del NYT di cui riportiamo la traduzione di ampi stralci ci aiuta a capire perché. Ne emerge purtroppo un quadro impietoso per l’Italia

I “corona-taxi”

Heidelberg, Germania. Li chiamano “taxi corona”: medici equipaggiati con indumenti protettivi guidano per le strade deserte per controllare i pazienti che sono a casa. Prendono l’esame del sangue cercando segni che il paziente possa avere il covid19 e che le sue condizioni possano aggravarsi. Possono suggerire il ricovero in ospedale anche a un paziente che ha solo sintomi lievi: le possibilità di sopravvivere sono notevolmente più alte se si affronta il virus all’inizio.

I taxi corona di Heidelberg sono solo una delle iniziative. Ma illustrano un livello di impegno di risorse pubbliche nella lotta contro l’epidemia che aiuta a spiegare uno degli enigmi più intriganti della pandemia: perché il tasso di mortalità della Germania è così basso?

Un tasso di letalità inferiore di 9 volte a quello dell’Italia

Il virus e la malattia risultante, Covid-19, hanno colpito la Germania con forza: secondo la Johns Hopkins University il paese ha più di 90.000 infezioni confermate in laboratorio al 4 di aprile, più di qualsiasi altro paese tranne gli Stati Uniti, l’Italia e Spagna.

Ma con circa 1.300 morti, il tasso di letalità in Germania si attesta all’1,4 per cento, rispetto al 12,5 per cento in Italia, a circa il 10 per cento in Spagna, Francia e Gran Bretagna, al 4 per cento in Cina e al 2,5 per cento negli Stati Uniti. Anche la Corea del Sud, un modello di riferimento internazionale per la lotta al covid19, ha un tasso di letalità più elevato, l’1,7 per cento.

“Si è parlato di un’anomalia tedesca”, ha detto Hendrik Streeck, direttore dell’Istituto di virologia presso l’ospedale universitario di Bonn. Il professor Streeck ha ricevuto chiamate di colleghi dagli Stati Uniti e altrove. “‘Che cosa stai facendo diversamente?” mi chiedono. “Perché il tuo tasso di letalità è così basso?”

Ci sono diverse risposte dicono gli esperti, differenze molto reali nel modo in cui il paese ha affrontato l’epidemia rispetto ad altri.

Molti più test = molti casi rilevati in tempo

Una delle spiegazioni per il basso tasso di letalità è che la Germania ha testato molte più persone rispetto alla maggior parte delle nazioni. Ciò significa che individua più persone con pochi o nessun sintomo, anche tra i più giovani, aumentando il numero di casi noti ma non il numero di vittime.

Una delle conseguenze del gran numero di test è che l’età media delle persone rilevate come infette è inferiore in Germania rispetto a molti altri paesi. Molti dei primi pazienti hanno preso il virus nelle stazioni sciistiche austriache e italiane ed erano relativamente giovani e sani, ha detto il professor Kräusslich. “È iniziato come un’epidemia di sciatori”, ha affermato.

Poi con il diffondersi delle infezioni, sono state colpite più persone anziane e anche il tasso di letalità, solo lo 0,2 per cento due settimane fa, è aumentato. Ma l’età media di chi si sa che contrae la malattia rimane relativamente bassa, 49 anni in Germania, mentre in Italia è 62 anni secondo i rapporti ufficiali.

La Germania sta conducendo circa 350.000 test di coronavirus a settimana, (oltre 3 volte di più che in Italia) e comunque molto più di qualsiasi altro paese europeo. Test precoci e diffusi hanno permesso alle autorità di rallentare la diffusione della pandemia isolando i casi infettivi. Ha inoltre consentito di somministrare il trattamento salvavita in modo più tempestivo.

Preparati in anticipo alla pandemia

A metà gennaio, molto prima che la maggior parte dei tedeschi pensasse al virus, l’ospedale Charité di Berlino aveva già sviluppato un test e pubblicato la formula online.
Quando la Germania registrò il suo primo caso di Covid-19 a febbraio, i laboratori di tutto il paese avevano accumulato uno stock di kit di test.

Diagnosi precoci = meno morti

“Il motivo per cui in Germania abbiamo così poche morti al momento rispetto al numero di infetti può essere ampiamente spiegato dal fatto che stiamo facendo un numero estremamente elevato di diagnosi di laboratorio”, ha affermato il dott. Christian Drosten, capo virologo di Charité , il cui team ha sviluppato il primo test.

“Quando ho una diagnosi precoce e posso curare precocemente i pazienti (ad esempio collegarli a un ventilatore prima che le loro condizioni si deteriorino) – le possibilità di sopravvivenza sono molto più elevate”, ha affermato il professor Kräusslich.

Costanti test al personale medico

Il personale medico, particolarmente a rischio di contrarre e diffondere il virus, viene regolarmente testato. Per semplificare la procedura, alcuni ospedali hanno iniziato a eseguire test di blocco, utilizzando i tamponi di 10 dipendenti e dando seguito a test individuali solo se si riscontra un risultato positivo.

Da aprile test gratuiti su larga scala per trovare i possibili focolai

Alla fine di aprile, le autorità sanitarie hanno anche in programma di lanciare uno studio su larga scala, testando campioni casuali di 100.000 persone in Germania ogni settimana per valutare dove si sta accumulando immunità.

Una chiave per garantire test su larga scala è che i pazienti non pagano nulla per questo, ha affermato il professor Streeck. Questa, ha detto, è una notevole differenza con gli Stati Uniti nelle prime settimane dell’epidemia. “È improbabile che negli USA un giovane senza assicurazione sanitaria e prurito alla gola si rechi dal medico e quindi rischia di infettare più persone”, ha affermato.

Il caso della scuola di Bonn

Un venerdì di fine febbraio, il professor Streeck ha ricevuto la notizia che un paziente del suo ospedale di Bonn si era rivelato positivo per il coronavirus: un uomo di 22 anni che non aveva sintomi ma il cui datore di lavoro (una scuola) gli aveva chiesto di fare un test dopo aver saputo che aveva preso parte a un evento di carnevale in cui qualcun altro si era dimostrato positivo.

Nella maggior parte dei paesi, compresi Italia e Stati Uniti, i test sono in gran parte limitati ai pazienti più malati, quindi probabilmente all’uomo sarebbe stato rifiutato un test.

Non in Germania. Non appena i risultati del test sono arrivati, la scuola è stata chiusa e a tutti i bambini e il personale è stato ordinato di rimanere a casa con le loro famiglie per due settimane. Sono state testate circa 235 persone.

Test e monitoraggio sono la strategia che ha avuto successo in Corea del Sud e abbiamo cercato di imparare da ciò”, ha affermato il professor Streeck.

La Germania ha anche imparato a correggere i propri errori presto: la strategia di tracciamento dei contatti avrebbe dovuto essere utilizzata in modo ancora più aggressivo, ha affermato.

Tutti quelli che erano tornati in Germania da Ischgl, una stazione sciistica austriaca che aveva avuto un focolaio, per esempio, avrebbero dovuto essere rintracciati e testati, ha detto il professor Streeck e non lo abbiamo fatto ma poi abbiamo imparato.

Un robusto sistema di assistenza sanitaria pubblica

Prima della pandemia di coronavirus in tutta la Germania, l’ospedale universitario di Giessen aveva 173 letti di terapia intensiva dotati di ventilatori. Nelle ultime settimane, l’ospedale ha cercato di creare altri 40 posti letto e ha aumentato il personale che era in standby per lavorare in terapia intensiva fino al 50%.

“Abbiamo così tanta capacità ora che stiamo accettando pazienti da Italia, Spagna e Francia”, ha dichiarato Susanne Herold, specialista in infezioni polmonari che ha supervisionato la ristrutturazione. “Siamo molto forti nell’area della terapia intensiva.”

In tutta la Germania, gli ospedali hanno ampliato le loro capacità di terapia intensiva e sono partiti da un livello elevato. A gennaio la Germania aveva circa 28.000 letti di terapia intensiva dotati di ventilatori, cioè 34 ogni 100.000 persone, quasi 3 volte di più che in Italia dove il rapporto è di 12 ogni 100.000 persone.

Ora ci sono 40.000 letti di terapia intensiva disponibili in Germania.

Fiducia nel governo

La cancelliera Angela Merkel ha comunicato in modo chiaro, calmo e regolare durante la crisi, imponendo misure di distanziamento sociale sempre più rigorose nel paese. Le restrizioni, che sono state cruciali per rallentare la diffusione della pandemia, hanno incontrato poca opposizione politica e sono ampiamente seguite.

Le valutazioni di approvazione verso la Merkel sono aumentate vertiginosamente.

“Forse la nostra più grande forza in Germania”, ha affermato il professor Kräusslich, “è il processo decisionale razionale ai massimi livelli di governo combinato con la fiducia di cui il governo gode nella popolazione”.

Una fiducia che riesce a guadagnarsi grazie ai fatti.

https://www.peopleforplanet.it/ecco-perche-in-germania-si-muore-molto-meno-per-coronavirus-rispetto-allitalia/?fbclid=IwAR3SKu4ZclYWLzpPQqWFMKFKTGKqxeDbBbyWO3JVAeyKN3w_0FLetvzKuuY

Come, quando e cosa riaprire in Italia, del dottor Giuseppe Imbalzano

Come, quando e cosa riaprire in Italia- Giuseppe Imbalzano- Medico

Giuseppe Imbalzano, medico, specialista in Igiene e Medicina preventiva. Direttore sanitario di ASL lombarde per 17 anni (Ussl Melegnano, Asl Milano 2, Ao Legnano, Asl Lodi, Ao Lodi, Asl Bergamo, Asl Milano 1). Direttore scientifico progetti UE (Servizi al cliente, Informatizzazione della Medicina Generale). Si è occupato di organizzazione sanitaria, prevenzione, informatica medica, etica, edilizia, umanizzazione ospedaliera e psicanalisi.
La situazione economica è l’elemento più critico che si sta rivelando connesso con
l’infezione da Covid 19 e che sta creando, se possibile, più danni della infezione stessa.
La modalità con cui è stata affrontata questa epidemia non sempre ha seguito la linea di
ridurre le fonti di infezione e di preservare il personale di assistenza da eventuali contagi,
ma ha diffuso il virus negli ospedali e infettato un numero incredibile di operatori. Che sono certamente la causa di ulteriori infezioni tra i familiari e i pazienti. Così come la scelta di affidare ai medici di famiglia l’assistenza dei pazienti potenzialmente infetti ha costretto i primi ad affrontare, spesso senza gli strumenti di protezione necessari, situazioni del tutto critiche che dovevano esigere ben altra organizzazione. E la numerosità dei medici infetti ha creato ulteriori focolai territoriali. E, dalle informazioni giornalistiche, appaiono esistere molti minicluster familiari come causa di questa esplosione di casi in così breve tempo.
In questi giorni sono fiorite proposte di riapertura delle attività lavorative che hanno posto
come riferimento, tra le tante cose, le proiezioni di danno delle categorie secondo le età.
Una scelta che cerca di dimostrare il basso rischio dei soggetti che devono partecipare al
ciclo lavorativo in base a valutazioni che, nei fatti, appaiono assai discutibili, sia perché prive di certezza statistica, sia perché non tengono conto che non vi è una fungibilità di tutto il personale, di un possibile utilizzo di personale qualificato in tutti i settori senza la specifica competenza di chi debba gestire l’attività e il settore specifico. Dimenticando poi che i lavoratori hanno interazione anche con parenti e amici che potremmo inserire nelle
categorie a rischio. E che accettare il rischio in se stesso (con quale garanzia per chi
rischia?) non fa parte di una corretta valutazione e modello di attività, in particolare se riferita a terzi. Sarebbe ancora più pesante che le imprese aggiungessero al peso dell’inattività il peso degli eventuali contagi correlati e dei danni immateriali e previsti dal decreto Lvo 81/08.
E non credo, considerata la macchinosità del sistema, che verrebbe apprezzata dai
sindacati e quindi approvata per poter essere attivata e gestita come regola su tutto il
territorio nazionale.
Noi, oggi, ci troviamo in una situazione di grande criticità in alcune Regioni che non hanno
sviluppato un intervento caratterizzato dal modello di Sanità pubblica ma sono intervenuti
secondo schemi di clinica medica, inseguendo i malati che man mano si sono identificati,
usando gli ospedali alla stregua di luoghi di ricovero multifunzionali, non rispettando
neanche i parametri dell’accreditamento previsti per il ricovero delle malattie infettive. Scelta del tutto inadeguata rispetto alla situazione da affrontare e, ancora di più oggi, riguardo la situazione che si è creata e che sta diventando sempre più problematica.
Anziché spegnere il fuoco iniziale, la dislocazione dei casi ha moltiplicato le fonti di infezione.
Oggi non vorremmo che tutte le scelte che si propongono dessero la stura ad ulteriori fonti
di contagio. E per evitare le stesse, con l’obiettivo di garantire attività e recupero della
gestione delle attività riteniamo di promuovere una scelta che, partendo dalla attuale
situazione, porti al doppio risultato desiderato.
Se mantenessimo la chiusura dei comuni e la netta riduzione del traffico cittadino, e se
garantissimo il monitoraggio stretto dei nuovi casi e la loro identificazione, considerato che, ad oggi, abbiamo un elevato numero di comuni senza casi di infezione, potremmo avviare le attività nelle diverse realtà che sono virusfree da almeno 30 giorni, mantenendo una rigorosa vigilanza a quanto possa naturalmente accadere.
La scelta di riattivare i comuni free risponde ai due obiettivi di garantire la sicurezza e attivare il sistema industriale e commerciale. E ad un terzo, che spingerà i comuni, e i sindaci in particolare, ad operare per ridurre i rischi e favorire il rientro nella zona di sicurezza, riattivando le attività lavorative in piena sicurezza.
Oggi abbiamo informazioni molto poco utili per intervenire correttamente e ridurre le
infezioni. Non conosciamo da dove derivino i nuovi casi e comunque gli ospedali sono
ancora fonte di infezione per il personale con le relative conseguenze quantitative e di
cattiva gestione dei focolai.
È indispensabile modificare il modello da cui derivano le infezioni e nel contempo operare
per eliminare le condizioni che determinano la diffusione delle infezioni stesse.
La realtà attuale dei comuni virusfree è assai differente nelle diverse Regioni Italiane.
Come mero esempio presentiamo alcune realtà regionali- e le stesse, naturalmente, con
l’impegno di tutti, dovrebbero attivarsi per ridurre i casi di infezione e consentire di riprendere una normalità sociale che oggi ha qualche difficoltà ad essere riattivata.

Piemonte

Lombardia

Veneto

Liguria

Emilia Romagna

Lazio

Sicilia

A Nord i comuni coinvolti sono tanti, a sud non ancora molti comuni sono stati colpiti; garantire l’assenza di infetti è sostanziale e spingerà tutti verso una comune azione di riduzione del rischio e delle infezioni

NB

http://CVBreveImbalzano

È possibile sapere chi si ammala?, di Giuseppe Imbalzano

Giuseppe Imbalzano, medico, specialista in Igiene e Medicina preventiva. Direttore sanitario di ASL lombarde per 17 anni (Ussl Melegnano, Asl Milano 2, Ao Legnano, Asl Lodi, Ao Lodi, Asl Bergamo, Asl Milano 1). Direttore scientifico progetti UE (Servizi al cliente, Informatizzazione della Medicina Generale). Si è occupato di organizzazione sanitaria, prevenzione, informatica medica, etica, edilizia, umanizzazione ospedaliera e psicanalisi.

È possibile sapere chi si ammala?

Non il mio vicino di casa, ma quali siano i luoghi e i flussi di chi continua ad ammalarsi?

Quali siano e da dove si infettano i nuovi pazienti, quale sia il percorso e chi determina i nuovi casi nella nostra comunità?

Se non specifichiamo i meccanismi e i flussi, i determinanti e tracciamo i percorsi delle infezioni e continuiamo a sparare nel mucchio, avremo numeri grossolani e casuali.

È come, per altro, sapere quanti incidenti stradali abbiamo ma non sappiamo se siano di notte o di giorno e dove, per evitare di esserne coinvolti.

E così per le infezioni.

Da dove derivano, dalle attività mantenute attive che hanno forti interazioni o dai runner e dai padroni dei cani che girano intorno al proprio palazzo o dalle fonti che hanno causato questa esplosione di casi in un tempo che dire breve è poco?

Abbiamo interrotto i flussi delle infezioni o abbiamo mantenuto i problemi di aree che hanno determinato questa situazione in poco più di 30 giorni?

Tutti guardano i numeri in più o in meno e le curve ma il perché nessuno, il dove nessuno, il chi nessuno.

E allora, chi, avendone responsabilità, riprenda la retta via delle analisi dei casi e delle loro origini, delle situazioni che ne hanno causato l’esplosione, dei percorsi, della indagine sui singoli casi e dei relativi flussi generali, delle gabbie da cui fuggono i virus, e che hanno causato così tanti casi in poco tempo?

Ad errore si rischia di sovrapporre errore e si persegue lo stesso errore. Non siamo di fronte ad una patologia cronico degenerativa, ma di fronte ad una infezione. E come tale va affrontata e risolta.

È chiaro che questa epidemia, in Lombardia in particolare, è esplosa per la moltiplicazione dei focolai con la distribuzione in tutti gli ospedali dei malati, in ambienti non sempre idonei per accoglierli.

E da lì, diffusa.

Gli oltre 6000 sanitari positivi in Italia (per non parlare di coloro che non sono stati identificati precocemente) non hanno trasmesso a nessuno l’infezione? Vittime di una organizzazione inadeguata e priva di attenzioni minime per la sicurezza dei lavoratori?

Non sappiamo quanti siano stati i malati già ricoverati infettati in seguito a questi trasferimenti, e anche loro a quante altre persone abbiano trasmesso il virus.

E quanti siano stati poi i familiari e parenti che abbiano avuto il dispiacere di esserne affetti.

E quanti invece si siano ammalati per i contatti, inconsapevoli, che hanno avuto con il personale sanitario in genere o per aver solo frequentato gli ospedali.

Forse è stato sottovalutato questo movimento e non abbiamo perseguito le linee corrette per debellare una infezione che è esplosa così velocemente.

Solo per contatti diretti ed indiretti è verosimile, ma bisogna recuperare le informazioni, che il personale sanitario abbia determinato almeno 25 mila casi, compresi parenti e amici oltre a pazienti, che poi, nella interazione dei propri territori abbiano creato le ulteriori infezioni.

E oggi?

Abbiamo la certezza che questo flusso, queste infezioni siano cessate o abbiamo ancora movimenti che provengono dalle strutture sanitarie e che negli ultimi giorni hanno avuto una rinnovata attività dalle strutture socio sanitarie, con un numero di infetti e di decessi che è del tutto innaturale?

Anche lì, cosa è accaduto? Mancata attenzione rigorosa al problema o cosa?

Sono stati predisposti protocolli rigorosi e azioni di limitazioni del rischio o perchè è accaduto?

Le domande sono tante, ma in realtà è una sola, cosa sta accadendo e come impedire che questa infezione faccia ulteriori danni e mieta ulteriori, del tutto ingiustificate, vittime.

Gli ospedali misti, come abbiamo avuto modo di dire più volte, non sono la soluzione a questo problema, comunque.

Ci chiediamo, nel contempo, cosa sia stato fatto per evitare ulteriori infezioni al personale e ai cittadini ed evitare altri possibili focolai sia comunitari che nella gestione domiciliare dei casi.

Vorremmo anche sapere cosa sia accaduto ai cittadini, sia in quarantena che per la gestione delle patologie (e se familiari siano stati successivamente infetti) e anche quali siano stati i modelli di sicurezza adottati nelle Rsa, per protocolli previsti o meno dalle Regioni ed adottati in modo organico dalle strutture assistenziali.

E cosa sia accaduto al personale sanitario, costretto a lavorare anche se abbia avuto contatti con malati infetti e quanti poi siano diventati positivi nel corso dei giorni successivi.

Non vorremmo che questo filone di infezioni sia diventato terra di nessuno e privo delle necessarie valutazioni, e azioni di mitigazione della infezione, che non è, come ci attendevamo, stata adeguatamente frenata dalla lunga chiusura in quarantena della comunità.

 

Giuseppe Imbalzano- medico

NB_ http://CVBreveImbalzano

Lettera alla professoressa Capua, del dr. Giuseppe Imbalzano

La scoperta di un diverso paesaggio urbano, di Angelo Perrone

La scoperta di un diverso paesaggio urbano

Il coronavirus ha mostrato un tessuto urbano sconosciuto. E’ cambiato per necessità il “paesaggio” del lavoro, del divertimento, persino della sofferenza. Strade deserte, piazze vuote. Distanze nei rapporti umani. Luoghi d’arte liberati dall’assedio del turismo di massa. In poche parole, il vuoto e il silenzio al posto della folla e del rumore. Così il non visto è diventato di colpo visibile e ammirabile. Accanto alla novità e allo stupore, potremmo persino pensare che, superato il virus, sia utile un diverso rapporto con l’ambiente che ci circonda

 

di Angelo Perrone *

 

Ha anche effetti positivi il coronavirus? Siamo a questo paradosso? Proviamo a guardarci intorno, allora. Non si parla soltanto delle condizioni sanitarie delle persone, di cui sappiamo tutto o quasi. Un problema, in cima alle preoccupazioni di istituzioni e cittadini. Siamo monitorati in tempo reale. Per fortuna, anche se a volte ci lamentiamo degli eccessi. Cifre, statistiche, diagrammi.

Quanti i contagiati, i ricoverati, i sotto osservazione, i guariti. Regione per regione, e poi nelle macro aree: il nord rispetto al sud senza trascurare il centro. Aspetti più di dettaglio: l’incidenza per età, o attività lavorative. Perfino le new entry che – chissà perché – ci sorprendono, come se non potesse capitare anche a loro: ci sono anche giudici e politici tra gli infettati. Tutti nella stessa barca, il virus non fa sconti a nessuno.

Nemmeno si discorre soltanto delle conseguenze economiche del virus, che minacciano d’essere devastanti. Un colpo di grazia all’economia che già di suo non va affatto bene. L’occupazione, i dati sulla produzione e le vendite, l’export, il turismo: sono i settori sott’occhio, mentre si teme il tracollo da un momento all’altro e si pensa: ci mancava solo questo. E poi la questione delle forniture per l’industria: molte materie prime vengono da fuori, da est, esattamente proprio dalla Cina, la più “infetta” delle nazioni. A breve potrebbero non bastare più le scorte, cosa si fa?

Ce n’è abbastanza fin qui, potremmo fermarci a riflettere, se non a lamentarci per la mala sorte. Invece percepiamo anche conseguenze di altro tipo, che non avremmo immaginato. E che proprio per questo ci sembrano stupefacenti. Destano sorrisi, e lasciano intravedere qualcosa di utile. Di che si tratta? Tra le tante novità, viene da chiedersi: non sarà che il coronavirus riesce anche a mostrarci una dimensione diversa e più positiva del vivere quotidiano?

È cambiato d’un tratto il “paesaggio” urbano, l’ambiente nel quale svolgiamo le nostre attività: dove lavoriamo, con più o meno soddisfazione, e quando il lavoro c’è, si intende. Dove ci divertiamo, passiamo il tempo. Dove magari soffriamo. Per la cattiveria del prossimo, una delusione d’amore, una disavventura economica. Il contesto che spesso ci accompagna nelle tribolazioni, o nelle più rare gioie.

Eravamo abituati a città intasate: uomini e mezzi, ovunque. Davanti, accanto, dietro. Alla guida della nostra scatola di metallo, o sui mezzi pubblici, in mezzo a tanti altri con la nostra stessa faccia. Scontenta e abbrutita dallo stress. Magari l’insoddisfazione non dipendeva tutta dall’affollamento, ma era lo stesso, a qualcuno dovevamo pur dare la colpa. Non era un’impressione da poco: le piazze affollate di gente, i monumenti presi d’assalto da turisti multicolori, i musei delle principali città d’arte assediati da code inverosimili di visitatori, accaldati anche in pieno inverno.

Ora, strade deserte, eventi rinviati, attività pubbliche sospese, locali chiusi. Luoghi irriconoscibili. Perché così non li avevamo mai visti, nemmeno in qualche scolorita fotografia del dopoguerra. Una trasformazione radicale da far dubitare persino di aver mai conosciuto quei luoghi per come appaiono oggi. Ma quando hanno fatto quel complesso monumentale che chiamano Colosseo? E chi è quel Brunelleschi, il giovane di belle speranze (dicono si dia tante arie sui social)  che sta costruendo la meraviglia della cupola del Duomo a Firenze?

Così si rivede Fontana di Trevi, splendente dopo il restauro di alcuni anni fa (mai apprezzato a dovere, nessuno era riuscito ad ammirarlo con calma), all’improvviso libera dalle torme di turisti che si accalcano sui bordi, non per ammirarne la bellezza, ma per farsi i selfie, e dunque tutti rivolti con le spalle alle sculture, intenti sono a guardare sé stessi nelle immagini. A chi interessa: la Torre a Pisa ha smesso d’essere sorretta, sul lato della pendenza, dai volonterosi stranieri che, ogni giorno, si alternano nell’arduo ma essenziale compito, supponendo che, così storta, abbia bisogno di sostegno; stiamo a vedere se ora, senza quell’aiutino, si ammoscia e viene giù.

La Galleria a Milano è percorribile al riparo del timore di pestarsi i piedi, qualcuno è riuscito anche ad andare dallo stellato Gracco ad assaggiare la pizza fenomenale senza prenotare mesi prima; uscendo, ha potuto fare una passeggiata arrivando in breve sulle guglie del Duomo, che spettacolo da lì.

A Firenze, non si è interrotto, ma ha avuto una bella battuta d’arresto, il dotto dibattito surreale sulla basilica di Santo Spirito, sì proprio il gioiello rinascimentale (sul sagrato, meglio una cancellata o il sudiciume dei bivacchi notturni con spaccio di droga?). Che non si siano fermati del tutto nemmeno in quest’occasione tragica, glielo perdoniamo ai fiorentini, animi focosi ma d’ingegno: da Dante in poi, sempre litigiosi, il virus non poteva trattenerli.

Nulla è più come prima, c’è un cambiamento di prospettiva: il vuoto e il silenzio hanno preso il posto della folla e del rumore. Improvvisamente è mutata la dimensione dello spazio intorno a noi. La diversa visuale ci mostra un’altra realtà. Il cambiamento si accompagna a sorpresa e a smarrimento. E ci lascia senza fiato. Non ce ne siamo ancora ripresi. Anziché andare da un posto all’altro seguendo gli stretti corridoi che le moltitudini ci lasciavano, vaghiamo confusi nelle strade di sempre, inebriati da una libertà sconosciuta. Manca solo che, nel dubbio, ci si fermi agli angoli per leggere le targhe stradali.

Magari questo stravolgimento solleva quesiti stravaganti. Discussioni che fino a ieri nemmeno la fantasia più sfrenata avrebbe immaginato. Per esempio, il “paesaggio” urbano ha un significato diverso in città come Milano, Roma o Firenze? Ovvero, la natura di questi posti esige per caso scenografie differenti? Come dire: in ogni città, quote differenti di folla + auto, per rispettarne l’anima. Quasi che l’arte, i costumi, le tradizioni non esigano ovunque la stessa attenzione.

Detto in modo più dotto. Cosa conta di più per cogliere la bellezza di una città: l’assenza o la presenza? E’ necessario il vuoto per rimarcare il fascino di una piazza, di una chiesa, di un locale di qualità? Oppure è proprio la vitalità della gente a rendere gli stessi ineguagliabili? Che ruolo hanno allora la folla e l’animazione sociale, semplice fondale o parte integrante della recita?

La discussione non poteva che sintetizzarsi alla fine nel solito derby Milano – Roma. Tra chi, nel confronto, ritiene più bella la capitale (della storia) ora che è deserta e chi lamenta che l’altra capitale (quella della moda, dell’impresa, della cultura) sia più affascinante con tanta gente in giro. Tradotto nel conteggio finale: Roma avvantaggiata dal virus, Milano danneggiata. La partita è in corso e sull’esito è bene non scommetterci: la grande bellezza non è contestabile nemmeno dai milanesi, ma i romani peggiorano le cose: è lo zelo dei loro amministratori, oggi addirittura stellati, a far perdere alla città il campionato.

Invece, oggettivamente incerta è la questione, tutta lagunare, delle conseguenze del virus su Venezia. Il carnevale è stato un po’ triste e deprimente da che era esaltante e ricco, quante maschere in meno, quanti turisti persi sugli aerei rimasti negli aeroporti europei e americani per non parlare di quelli orientali, quanti tavolini vuoti in piazza san Marco. Ma, quando la bilancia nel misurare l’allegria lagunare sta per pendere contro il virus, ecco a rimettere in gioco il risultato la notizia: alle navi da crociera è stato sì finalmente vietato di avvicinarsi, però, come per tutti, il divieto è fissato solo in un metro e non è detto che basti a salvare la città.

Per contrastare l’epidemia paghiamo un prezzo pesante in termini di incertezza e di restrizione delle nostre abitudini, ma c’è anche un effetto sorprendentemente positivo. Ora che nuove regole ci impongono altri ritmi, potremmo scoprirne pure il lato utile. Un diverso rapporto con l’ambiente che ci circonda.

Abbiamo la possibilità di vedere finalmente quanto è a portata di mano. E anche di ammirare, usare, gustare, approfondire le cose che abitano il nostro orizzonte. Finora tutto questo ci sfuggiva, perché oscurato dalle cose che gli facevano velo. Possiamo riappropriarci dell’invisibile. Ora lo sappiamo: serve una misura di tempo, spazio, silenzio, per farlo davvero.

 

* Di formazione giuridica, si occupa di diritto e politica giudiziaria. Dirige Pagine letterarie, rivista online di cultura, arte, fotografia.

 

 

Coronavirus! Cambio di paradigma, a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto tre articoli che testimoniano del fatto che qualcosa sta cambiando nei criteri di individuazione e gestione dei focolai di diffusione della epidemia e soprattutto nella informazione.

Non sono solo questi due testi a testimoniarlo; anche nella cosiddetta grande stampa nazionale e nel sistema televisivo qualche barlume comincia ad illuminare la reale situazione. Sono però ancora iniziative estemporanee, frammentarie e non coordinate, comunicate significativamente sottotraccia. L’inquietudine, il timore che possano emergere già in corso d’opera i gravi errori e le pesanti responsabilità di un ceto politico in varie forme al governo e di una classe dirigente, ivi compresa quella impegnata nel sistema di informazione, tali da comprometterne del tutto la residua credibilità e autorevolezza, serpeggiano e sono palpabili. La crisi pandemica sta accelerando ed accelelerà convulsamente processi in corso da almeno quindici anni.

Il nostro sistema di informazione, gran parte del ceto accademico ed intellettuale, la quasi totalità del ceto politico, in questi anni si è trastullato da miserabile saccente a denigrare e sminuire Trump come una pittoresca meteora, ad esorcizzare Putin sin dal suo importante intervento alla Conferenza Internazionale di Monaco del 2007, a fraintendere il ruolo della classe dirigente cinese, quella che più di altri ha saputo e voluto approfittare degli spazi offerti dal processo di globalizzazione per affermare e consolidare il proprio interesse nazionale piuttosto che dissolversi nel globalismo; a cullarsi soprattutto nell’illusione della fratellanza europea.

Non ha compreso, non lo vuole, che il termine di amicizia assume un significato diverso, spesso agli antipodi se attribuito alle relazioni tra individui, a quelle tra popoli e più ancora tra i centri decisionali e gli stati. Doveva sopraggiungere il bisogno insoddisfatto di banali mascherine e di ventilatori a mostrare il re nudo e il senso reale della solidarietà internazionale.

Non è bastato però! Non v’è più cieco di chi non vuol vedere; più sordo di chi non vuol sentire. Stanno ancora tergiversando, a due mesi di distanza, su un programma di parziale riconversione produttiva realizzabile in poche settimane e si spendono a piene mani a pietire a destra e a manca, trattati spesso a pesci in faccia all’estero, i materiali necessari a garantire cure e sicurezza sanitaria.

Hanno bloccato i voli diretti dalla Cina, e con quello la possibilità di controllo diretto dei punti di arrivo dei flussi; non si sono accorti delle vie alternative utilizzate e verificabili già due giorni dopo il blocco dalle fonti di intelligence e anche da internet. L’esplosione del contagio in Iran non è un prodotto del destino avverso. Troppo impegnati a considerare e a confondere la trasmissione virale e il messaggio di fratellanza e solidarietà a base di pacche sulle spalle.

Si sono profusi in appelli accorati a mantenere le distanze e al senso civico, ma hanno ignorato la formulazione, la diffusione e l’applicazione di direttive e protocolli che limitassero i contagi tra gli operatori sanitari e tra questi e il pubblico; protocolli ben conosciuti dagli esperti di gestione sanitaria e delle emergenze; esperti autorevoli, spesso e volentieri relegati nelle quarte file.

L’autorevolezza, si sa, non si accompagna, il più delle volte, all’accondiscendenza. Hanno inventato un nuovo istituto giuridico, un vero ossimoro: la decretazione di raccomandazioni e suggerimenti. Ne è conseguita una catena di comando incerta, una sovrapposizione di incarichi, direttive contraddittorie in un contesto istituzionale già reso precario e incerto da uno sciagurato decentramento regionale. Consola la premura con la quale Borrelli, il capo della Protezione Civile, sottolinea l’attenzione e la parsimonia nella gestione della spesa; vorremmo che il proconsole che gli hanno affiancato proclamasse con la stessa partecipazione.

Una tara dovuta alla situazione d’emergenza bisogna concederla

Sta di fatto che l’istituzione più preparata alle emergenze, alla logistica, al coordinamento dei vari ambiti operativi rimane tagliata fuori e relegata al ruolo di coadiutori dei vigili urbani e delle pompe funebri.

Troppi precedenti emergenziali dovrebbero suonare come campanelli d’allarme sugli appetiti famelici da soddisfare in queste contingenze. Una inadeguatezza che rischierà di condannare definitivamente il paese quando si dovrà passare dalla fase di emergenza tesa al contenimento dell’epidemia a quella presumibile di convivenza con il virus, in attesa di una cura medica risolutiva. Ben venga la solidarietà internazionale. Cina, Russia, Cuba e Stati Uniti vanno quindi ringraziati. Un po’ meno la aperta politicizzazione. Anche la solidarietà internazionale, nel rapporto tra gli stati e nelle dinamiche geopolitiche, richiede un prezzo e uno scotto specie quando a richiederla è un ceto particolarmente remissivo e inconsapevole dell’interesse nazionale. Un prezzo sia nei confronti del singolo paese solidale, sia nei confronti di altri ben presenti sul nostro suolo da decenni e che si sentirebbero minacciati dai nuovi arrivati. Nel primo caso, nella fattispecie con la Cina, non è ancora chiaro se gli accordi commerciali prevedono solo scambi di prodotti e la concessione di presidi, simili ai fondaci che concedevano le repubbliche marinare oppure arrivano a delegare almeno in parte il controllo strategico della logistica e dei flussi; lo stesso dicasi per il 5G. Nel secondo la questione è ancora più delicata e cruciale per la sovranità del paese.

Quando si decide di risvegliare l’allarme e la preoccupazione del proprio tutore bisogna avere la ragionevole certezza, almeno probabilità, di poter resistere alle prevedibili reazioni e di poter contare su di un contesto internazionale favorevole e sul sostegno fattivo di altre potenze, Il recente esempio di Tsipras in Grecia è particolarmente illuminante. La capitolazione definitiva di Syriza sotto il giogo dell’Unione Europea è avvenuta quando Putin aveva fatto capire di non avere molte armi da offrire alla resistenza greca e quando era apparso chiaro che alla Cina premeva soprattutto mettere radici nel Pireo e non compromettere la propria penetrazione commerciale nell’Unione Europea. La domanda a questo punto sorge spontanea: questo ceto politico, questa classe dirigente ha la consapevolezza sufficiente della posta in palio; ha un sufficiente controllo quanto meno delle proprie istituzioni e dei propri apparati tale da consentirle sufficiente libertà di azione? Dispone della sufficiente autonomia e visione strategica che le possa garantire di poter giocare su più tavoli piuttosto che ridursi al carnevalesco servo di più padroni? Gli antefatti sulla Libia e sulla Unione Europea lasciano dubitare pesantemente. Conosciamo la fine delle oche giulive. Il redde rationem lo vedremo probabilmente a partire dal prossimo novembre, specie se alla Casa Bianca al tanto vituperato e rozzo Trump dovesse succedere qualche democratico compassionevole, banditore di pace e fautore di guerre.

Il nostro paese avrebbe bisogno di un cambio di paradigma, a cominciare da questa emergenza sanitaria così destabilizzante. Quello che riescono ad offrire è qualche aggiustamento perpetrato per di più di soppiatto. Lo stato di emergenza rappresenta la cornice adatta a mascherarne la pochezza. A cosa potrà portare questa commistione poco virtuosa non si sa. Potranno certo offrire una qualche via di fuga o un arroccamento; a se stessi, non alla massima parte del paese. Buona lettura e ascolto, Giuseppe Germinario

 

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