Ucraina, il conflitto 17a puntata. L’attesa_con Max Bonelli e Stefano Orsi

Una situazione di stallo apparente con l’esercito ucraino che riesce a rosicchiare parte dei territori perduti. L’iniziativa sul campo sembra essere passata in maniera più duratura al regime ucraino. Un paradosso a confronto della enorme perdita di materiale bellico e della sua capacità di produzione in loco e soprattutto della strage di uomini attinti da un serbatoio certamente limitato. Una diretta conseguenza invece del crescente coinvolgimento della NATO e degli Stati Uniti nel conflitto sino ad assumerne direttamente la gestione, la direzione e la supervisione sino a sopperire alle gravi carenze di militi con mercenari e militari stranieri appena dismessi. L’esercito russo sembra in posizione di attesa, pronto a conservare ed accumulare forze in vista di uno scontro ben più ampio e dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche per tutti i condendenti dichiarati o dietro le quinte. Deve risolvere in breve tempo problemi cruciali di assetti politici interni e di riorganizzazione dopo di che non sarà più facile per i contendenti occulti operare dietro le quinte e con la carne di cannone dei terzi ucraini e di chi vorrà aggiungersi ad essi. Il rifiuto di una trattativa seria e il sostegno ad un regime guerrafondaio all’esterno ed aguzzino e razzista, spietato al proprio interno, quale quello ucraino, stanno rendendo sempre più doloroso e costoso il necessario passo indietro. In gioco c’è la tenuta dell’attuale leadership statunitense all’interno e all’esterno degli Stati Uniti. Al momento e in apparenza la sua partita prosegue con il punto perso in Afghanistan e due punti guadagnati a Taiwan e in Europa. E’, però, un continuo azzardo al rialzo al quale basta perdere l’ultimo punto per compromettere l’intero gioco.
Intanto il conto più salato, in termini di sottomissione, passività e stupidità, a diverso titolo, lo stanno pagando gli europei. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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IL TERZO, di Teodoro Klitsche de la Grange

IL TERZO

Julien Freund sosteneva che il conflitto è una relazione sociale bipolare, la quale comporta l’assenza (la dissoluzione, l’estraneità) del terzo dal rapporto. Utilizzando l’espressione del noto principio di logica, è caratterizzato dal terzo escluso.

Il terzo, scriveva il pensatore alsaziano riguardo alla polarità, la elimina in partenza, e poi la ritrova alla conclusione, senza contare che può infrangere la dualità conflittuale. Il terzo si manifesta così come la nozione correlativa, per contrasto, al conflitto.

Il terzo, scriveva Freund, aderendo alla tesi di Simmel, è di tre tipi. Il primo è il terzo imparziale, che non ha interessi nel conflitto, onde è il decisore/intermediario ideale per conciliare i contendenti a far cessare il conflitto. Deve avere autorità e in genere un certo potere per orientare la decisione delle parti in conflitto.

Il secondo tipo è “il terzo ladrone” (larron). Non è implicato nella guerra, ma ne trae benefici per se stesso. Tra i tanti sotto-tipi in cui può suddividersi tale tipo-genere, i più frequenti sono: poter perseguire il proprio tornaconto, contando sulla distrazione dei contendenti o, in altri casi, fare affari con i contendenti (o con uno di essi).

Il terzo tipo è quello del terzo che divide et impera. In questa sotto-classe il terzo non è né il decisore né il profittatore del conflitto: ne è talvolta colui che lo suscita, ma per lo più chi lo mantiene ed alimenta. Del quale tipo è ricolma la storia. Tanto per fare un esempio la politica di Richelieu nella guerra dei trent’anni, prima dell’intervento francese, in soccorso dei protestanti. O, per la politica interna, quella degli Asburgo verso i popoli nell’impero austro-ungherese.

Nella guerra russo-ucraina chi – e di che tipo – può essere il terzo? Il decisore, il profittatore, il suscitatore?

Quanto al profittatore, ce n’è tanti e, per lo più privati, che è superfluo parlarne.

Anche perché la posizione del terzo larron, è conseguenza – prevalentemente – di decisioni altrui e non proprie. Pertanto ha poche possibilità sia di suscitare che di far cessare la lotta.

Neppure si vede un terzo che abbia i connotati del primo tipo: non c’è nessuno che sommi in se neutralità (nel senso prima specificato), autorità e potere. Gli USA sono i protettori dell’Ucraina, come Richelieu lo era dei principi protestanti, e hanno ampiamente aiutato una delle parti e preso misure contro l’altra; l’U.E. non ha l’autorità, né il potere, e neppure è neutrale, anche se ha tutto l’interesse a far cessare il conflitto.

La Cina ha tenuto un comportamento relativamente equidistante tra i contendenti ed  è sotto questo aspetto, idonea; ma è dubbio se abbia il potere e ancor più il tasso minimo di autorità presso i contendenti. Il Vaticano si è saggiamente mantenuto in equilibrio tra le parti; ma anche se – credo – ha una certa autorità, ha pochissimo – o nessun – potere. Intendendo qui come “potere” l’impiego di incentivi alla pace o disincentivi alla guerra.

Di converso appare più chiaramente percepibile la presenza di terzi “suscitatori”. Forniture di armi e sanzioni possono disincentivare l’aggressore, ma sicuramente prolungano la guerra e probabilmente la intensificano.
Sempre tornando a Richelieu, la guerra dei trent’anni ebbe tale durata proprio grazie al denaro che il cardinale dava in abbondanza alla parte più debole, ossia ai protestanti. Per farla cessare fu necessario, tuttavia, l’intervento militare della Francia, con relativo abbandono del ruolo di terzo.

Nel conflitto russo-ucraino i “terzi” abbondano, ma dei tipi “polemogeni”; mancano, allo stato, quelli del primo tipo.

A meno che uno dei belligeranti non si riconosca sconfitto o ambedue trovino un’intesa pacifica (ipotesi che appare ancor più difficile), la durata appare rimessa alla volontà delle stesse. E la durata anche.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

Il conflitto ucraino potrebbe aver già fatto deragliare la traiettoria della superpotenza cinese, di Andrew Korybko

Articolo importantissimo che contribuisce a decifrare almeno in parte il filo conduttore che guida l’azione di due paesi emergenti, per meglio dire riemergenti, miranti a creare le condizioni di un mondo multipolare in grado di garantire l’autonomia e la capacità di azione degli stati estranei ad una logica uni o bipolare. Una ambizione ed una strategia molto complessa, avventurosa e difficile da realizzare, ma che potrebbe offrire persino ai paesi europei, i più invischiati nella sudditanza unipolare e tutt’al più nella dinamica bipolare, qualche spiraglio di reale autonomia decisionale. Tanto più che gli europei dovrebbero ormai imparare che il principale nemico lo hanno in casa loro. La designazione da parte della attuale leadership statunitense della Russia come nemico da disintegrare assume nuova rilevanza e nuova chiarezza nelle motivazioni. Resta l’ombra della attuale incerta conduzione del conflitto in Ucraina ad opera della leadership russa a porre una ipoteca, non sappiamo quanto pesante, a questa strategia già di per sé così complessa. Come la ritirata disastrosa degli Stati Uniti dall’Afghanistan, anche di converso, uno stallo prolungato della Russia in Ucraina può determinare un cambiamento negli equilibri di potere e nell’orientamento dei centri decisori in India. Uno stallo prolungato del conflitto rischia di compromettere sul nascere la grande credibilità che sul piano della sicurezza militare la Russia si è conquistata in Siria, in Georgia e in Cecenia e riverberata in Africa e addirittura in alcuni paesi del Sud-America. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Con le basi strutturali della grande strategia cinese immensamente destabilizzate dalle conseguenze di quel conflitto rispetto alle crisi alimentari e dei combustibili prodotte artificialmente dai Golden Billion in tutto il Sud del mondo, che rischia profondi disordini socio-politici nel prossimo futuro in grado di minacciare le prospettive della BRI, insieme all’autonomia strategica recentemente rafforzata dell’India e della Russia, nonché il ruolo sempre più indispensabile di stabilizzazione della sicurezza di Mosca nei paesi in via di sviluppo che integra il suo ritrovato potere soft (rivoluzionario), la traiettoria della superpotenza di Pechino sembra probabilmente insostenibile.

L’ascesa pacifica della Cina

La pacifica ascesa economica della Cina negli ultimi quattro decenni, resa paradossalmente possibile in larga misura dal suo rigoroso rispetto delle norme internazionali legate ai processi di globalizzazione guidati dagli Stati Uniti, l’ha collocata sulla traiettoria dello status di superpotenza. Sono state la crescente consapevolezza di questo fatto e le credibili preoccupazioni circa le sue conseguenze per l’egemonia unipolare americana che hanno spinto l’ex presidente degli Stati Uniti Trump a lanciare la sua guerra commerciale contro la Repubblica popolare, che doveva fungere da complemento economico al “Pivot to Asia” avviato dal suo predecessore Obama. Questi due si sono fusi con la guerra dell’informazione per costituire collettivamente quella che può essere oggettivamente descritta come la guerra ibrida degli Stati Uniti contro la Cina che mira a garantire la preminenza americana in questo secolo.

Bi-Multipolarità

In risposta a questi atti di aggressione non provocati, la Repubblica popolare ha iniziato a modernizzare le sue forze militari, ha infine promulgato il suo nuovo paradigma economico di doppia circolazione e ha iniziato a investire pesantemente per migliorare la capacità attrattiva del soft power attraverso una più efficace sensibilizzazione dei media alla comunità internazionale. In assenza di una grave crisi di sicurezza, ciò avrebbe dovuto essere sufficiente per garantire che la Cina rimanesse sulla sua traiettoria di superpotenza anche nonostante le interruzioni economiche globali (e in particolare della catena di approvvigionamento) causate dalla pandemia di COVID-19. Di conseguenza, il pensatore indiano Sanjaya Baru ha valutato accuratamente a metà del 2020 che le relazioni internazionali potrebbero essere descritte come in uno stato di bipolarità .

Questo concetto si riferisce alle superpotenze americane e cinesi (prprossime o già esistenti) che esercitano la maggiore influenza sul sistema globale, al di sotto delle quali ci sono grandi potenze come l’India e la Russia, e quindi stati di dimensioni relativamente medie e piccole che hanno minima influenza nel dare forma agli eventi. Baru ha previsto che le relazioni internazionali saranno così definite sempre più dalla complessa interazione tra gli attori all’interno e tra questi tre livelli. Estrapolando dalla sua intuizione, si può sostenere che gli interessi dell’India e della Russia risiedono nell’assemblare congiuntamente un terzo polo di influenza per facilitare l’emergere della tripolarità all’interno di questo sistema in modo da accelerare la sua evoluzione finale verso una più complessa multipolarità (“molteplicità”) .

Le vere radici del conflitto ucraino

È stato con in mente questa grande strategia condivisa che quei due hanno iniziato a lavorare insieme in modo informale per creare un nuovo Movimento dei Non Allineati (” Neo-NAM “) a tal fine, che si prevedeva il modo di massimizzare l’autonomia strategica dei membri di questa rete all’interno del presente fase intermedia bi-multipolare della transizione sistemica globale alla multipolarità. In concomitanza con ciò, la Russia ha cercato di raggiungere un importante accordo di sicurezza con gli Stati Uniti in Europa alla fine del 2021 al fine di allentare le tensioni lì. Un simile risultato sarebbe stato reciprocamente vantaggioso dal punto di vista di Mosca. Avrebbe potuto portare in equilibrio quella Grande Potenza eurasiatica tra la metà orientale (Cina) e quella occidentale (UE) del supercontinente mentre gli Stati Uniti si concentravano maggiormente sul “determinare”/”contenere” il loro concorrente cinese.

Quello che nessuno si aspettava era che l’élite americana ideologicamente guidata avrebbe invece dato la priorità a “determinare “/”contenere” prima la Russia, cosa che consideravano un passo nella direzione di un più efficace “scoraggiamento”/”contenimento” della Cina a lungo termine. Dal loro punto di vista, indurre la Russia a intraprendere un’azione militare in Ucraina in difesa delle sue obiettive linee rosse di sicurezza nazionale che la NATO ha attraversato in quell’ex Repubblica Sovietica aveva lo scopo di creare l’opportunità per riaffermare l’egemonia unipolare in declino degli Stati Uniti sull’Europa. Da lì e con il tempo, l’America si aspettava di avere una UE recentemente militarizzata che “deterrebbe”/”contenesse” la Russia per suo conto come parte della strategia di “condivisione degli oneri” di Trump, mentre gli Stati Uniti hanno replicato questa stessa politica nell’Asia-Pacifico contro la Cina tramite AUKUS e altri blocchi simili alla NATO.

Dopo la positiva riaffermazione della loro egemonia unipolare in declino sull’Europa, gli Stati Uniti avrebbero anche molte più risorse economiche, finanziarie e militari per “scoraggiare”/”contenere” la Cina che se accettassero semplicemente le richieste di garanzia di sicurezza della Russia e consentissero all’UE di mantenere una parvenza di autonomia strategica. Da una grande prospettiva strategica americana, questo risultato è visto come un vantaggio per il loro paese nella sua competizione da superpotenze con la Repubblica Popolare, senza la quale temevano che la Cina sarebbe rimasta sulla sua traiettoria descritta in precedenza e quindi forse la avrebbe persino superata in influenza e potere nel prossimo futuro. Si è quindi deciso di provocare a tal fine la destabilizzazione senza precedenti dell’ordine mondiale post-Vecchia Guerra Fredda attraverso il conflitto ucraino.

Le conseguenze iniziali della guerra per procura russo-statunitense

Nonostante queste intenzioni, inizialmente sembrava che anche questo sviluppo inaspettato non sarebbe stato sufficiente a compensare in modo significativo la traiettoria della superpotenza cinese. Molti hanno predetto che l’improvvisa concentrazione degli Stati Uniti sul “determinare”/”contenere” la Russia in Europa avrebbe influenzato negativamente la sua guerra ibrida contro la Cina impantanando i suoi diplomatici, esaurendo le sue risorse economiche e militari e facendo così preoccupare gli alleati dell’Asia-Pacifico che l’America non poteva garantire adeguatamente gli interessi a somma zero della loro élite nei confronti della Repubblica Popolare; il che a sua volta potrebbe portarli a “camminare” con Pechino invece di “bilanciarsi” contro di essa con Washington. In altre parole, si pensava che i processi scatenati dal conflitto ucraino creassero opportunità impreviste per accelerare l’ascesa della Cina come superpotenza.

Negli oltre sette mesi dall’inizio dell’ultima fase di quel conflitto, questo si è indiscutibilmente trasformato in una guerra per procura della NATO guidata dagli Stati Uniti contro la Russia attraverso l’Ucraina; conflitto che il presidente Putin ha affermato essere guidato dal desiderio dell’élite americana di ” balcanizzare ” la sua Grande Potenza. Ha articolato in dettaglio le dimensioni di questa Nuova Guerra Fredda durante lo storico discorso che ha pronunciato il 30 settembre prima della firma dei documenti collegati alla riunificazione di Novorossiya con la Russia, i quali includevano anche una visione cruciale dei piani globali degli Stati Uniti nel vis a vis con la Cina e più oltre in tutto il Sud del mondo. Il suo discorso è stato un manifesto rivoluzionario finalizzato ad ispirare i paesi non occidentali e le loro società a unirsi in opposizione al complotto neocoloniale dell’élite occidentale guidata dagli Stati Uniti per soggiogare il mondo intero.

Mentre si potrebbe essere tentati di pensare che questo sviluppo aggiunga credito alla previsione che la traiettoria della superpotenza cinese continuerà presumibilmente ad accelerare a causa del più grande conflitto europeo dalla seconda guerra mondiale, e quindi ridurrà il tempo necessario alla Repubblica popolare per diventare il concorrente alla pari degli Stati Uniti sulla scena mondiale, in realtà ha complicato le cose per ragioni che ora verranno spiegate nel resto di questa analisi. Tanto per cominciare, le conseguenze macroeconomiche di questa guerra per procura sempre più intensificata hanno destabilizzato le basi globali da cui dipende la grande strategia economica della Cina. In particolare, ha provocato una crisi sistemica senza precedenti in tutto il Sud del mondo a causa delle sanzioni statunitensi per cibo e carburante contro la Russia.

Conseguenze a cascata nel sud del mondo

L’ascesa pacifica della Cina come superpotenza si basa sulla continua convergenza della sua economia con il resto del Sud del mondo al fine di creare una relazione di interdipendenza complessa e, idealmente, indissolubile, che la Repubblica popolare descrive come una comunità di destino comune per l’umanità . I mezzi attraverso i quali ciò avrebbe dovuto essere avanzato sono i progetti associati alla sua Belt & Road Initiative (BRI), che rafforzano in modo completo i legami commerciali e di investimento tra la Cina e le sue dozzine di partner. Pechino si aspettava che ciò avrebbe portato gradualmente a una riforma delle basi economico-finanziarie delle Relazioni Internazionali, le quali sarebbero poi arrivate ad avere implicazioni istituzionali-politiche che avrebbero preceduto quelle militari-strategiche necessarie per sancire il suo status di superpotenza.

Senza un accesso affidabile al lavoro, ai mercati e alle risorse del Sud del mondo ( e in particolare dell’Africa ), che gli stati beneficiari forniscono in cambio di infrastrutture cinesi, altri investimenti e tecnologia condivisi senza alcun vincolo politico se non il supporto implicito per la sua posizione sul mercato interno questioni (Hong Kong, Taiwan, Tibet, Xinjiang, ecc.) – l’ascesa della Cina come superpotenza sarebbe stentata. Non sarebbe in grado di raggiungere la crescita reciprocamente vantaggiosa necessaria per raggiungere il livello di riformare gradualmente le basi economico-finanziarie delle Relazioni Internazionali, le quali a loro volta compenserebbero i suoi piani di riforme istituzionali-politiche e, in definitiva, anche militari-strategiche. Qui sta la grande sfida strategica posta dalla crisi alimentare e petrolifera globale provocata dagli Stati Uniti .

I paesi del Sud del mondo corrono un serio rischio di massicci disordini socio-politici guidati da queste crisi sistemiche fabbricate artificialmente, catalizzate dalle sanzioni anti-russe americane. Le loro prospettive di crescita a breve, per non parlare di lungo termine, restano pertanto incerte. Questo a sua volta ha gettato una svolta nei grandi piani strategici della Cina poiché il suo nuovo paradigma economico di doppia circolazione non ha ancora portato alla robusta circolazione interna necessaria per proteggersi da sfide impreviste al suo commercio internazionale. Questo non vuol dire che la Cina sia pronta a sperimentare una crescita negativa, ma solo che ora è costretta da circostanze al di fuori del suo controllo a respingere i piani legati alla sua ascesa come superpotenza a causa degli shock sistemici causati dalla guerra commerciale, COVID-19 , e più recentemente il conflitto ucraino.

Screditare lo scenario in cui la Russia diventa sempre il “partner junior” della Cina

Queste conseguenze sistemiche a cascata pongono sfide formidabili alla grande strategia cinese, tutte esacerbate dal fatto che la Russia non si è affrettata a concludere gli accordi sbilenchi con la Repubblica Popolare che molti osservatori occidentali si aspettavano avrebbe fatto alla vigilia del conflitto ucraino nell’eventualità che Mosca fosse intervenuta militarmente lì come alla fine ha fatto. Per essere chiari, non ci sono prove che la Cina si aspettasse nessuno dei due scenari – l’operazione militare speciale della Russia (incluso tutto ciò che è seguito) e il presidente Putin che praticamente ne chiede in seguito il sostegno disperato come l’unica forma presumibilmente possibile di alleggerimento delle sanzioni indipendentemente dai termini – e tuttavia è anche difficile discutere con l’affermazione che il secondo scenario avrebbe aiutato la Cina a gestire queste conseguenze inaspettate.

Ad esempio, se la Russia avesse offerto alla Cina condizioni commerciali e di investimento di vasta portata oltre alla semplice vendita di risorse naturali scontate (che sta offrendo a chiunque abbia la volontà politica di acquistarle a dispetto delle pressioni statunitensi e non solo di quella superpotenza in aumento), allora la Repubblica popolare avrebbe potuto almeno teoricamente ottenere l’accesso a tutto ciò di cui avrebbe bisogno per la sua grande strategia per riprendersi più rapidamente dall’ultimo shock sistemico connesso al conflitto ucraino. Il compromesso, tuttavia, potrebbe essere stato che i termini avrebbero potuto essere oggettivamente sfavorevoli ai grandi interessi strategici della Russia, ponendo questa Grande Potenza sulla traiettoria di diventare il “partner minore” della Cina a lungo termine. Ciò avrebbe rafforzato la bi-multipolarità invece di aiutarla a farla evolvere.

Sensibile quanto lui alla questione della sovranità e dell’autonomia strategica nel sistema internazionale che essa conferisce a tutti coloro che ce l’hanno, il presidente Putin non l’avrebbe mai accettato anche se la Cina l’avesse offerto (e non ci sono prove che abbia mai considerato facendo così), motivo per cui rimane il regno delle congetture politiche tra coloro che hanno previsto questo scenario. In ogni caso, quella sequenza di eventi è stata preventivamente scongiurata dall’India che ha inaspettatamente funzionato come valvola insostituibile della Russia dalle pressioni occidentali, assicurando così che il suo partner strategico speciale e privilegiato non sarebbe mai stato messo in una posizione in cui avrebbe potuto essere costretto a flirtare con quel successore.

L’intervento del cigno nero dell’India

Delhi ha sfidato la pressione delle sanzioni di Washington per accelerare l’espansione globale dei legami con Mosca da febbraio, al servizio dei loro grandi interessi strategici descritti in precedenza relativi alla creazione di un terzo polo di influenza nella fase intermedia bi-multipolare della transizione sistemica globale alla multipolarità; in tal modo massimizzando il più possibile la loro rispettiva autonomia strategica nelle circostanze ritrovate. Questo sviluppo del cigno nero ha anche dissipato tutte le preoccupazioni precedenti sul fatto che l’India diventasse il “partner junior” degli Stati Uniti, cosa che probabilmente sembrava essere sulla traiettoria (indipendentemente dal fatto che ne fosse consapevole o meno) negli ultimi anni prima dell’ultima fase del conflitto ucraino scoppiato a fine febbraio.

Questo è stato un risultato importante in più di un modo. In primo luogo, l’India si è posizionata in una posizione in cui sta bilanciando attentamente tra il Golden Billion occidentale guidato dagli Stati Uniti e il sud globale guidato dai BRICS (ma di fatto finora guidato dalla Cina) di cui fa parte, rendendola così una sorta di kingmaker nel dare forma alla transizione sistemica globale. In secondo luogo, ha dimostrato con orgoglio la sua autonomia strategica nella fase intermedia bipolare di questa transizione attraverso la sua politica di neutralità di principio verso il conflitto ucraino, che ha stabilito un precedente da seguire per gli stati di dimensioni relativamente medie e piccole. In terzo luogo, ciò idealmente assumerebbe la forma di una cooperazione tra i paesi del Sud del mondo e il previsto Neo-NAM; nelle aspettative dell’India un movimento che aiuti tutti a trovare un migliore equilibrio tra le superpotenze americane e cinesi.

Dalla posizione della grande strategia cinese descritta fino a questo punto nella presente analisi, l’ascesa dell’India come Grande Potenza molto attraente e veramente neutrale agli occhi di un numero crescente di stati del Sud del mondo presenta un’altra sfida inaspettata da quando Pechino ha dato per scontato che nessun altro potesse competere in modo credibile con essa nell’influenza tra i paesi in via di sviluppo. Mentre Delhi ovviamente manca dei mezzi economici per offrire alternative alla BRI, compensa questo con la dimensione diplomatica offrendo un nuovo modello con la promessa di contrastare collettivamente il radicamento di tendenze bipolari che rischiano di istituzionalizzare l’informale gerarchia internazionale a tre livelli gerarchia associata al concetto di Baru.

L’emergente lotta sino-indo per il potere morbido

Invece di accettare il loro destino apparentemente inevitabile di rimanere per sempre al livello più basso e quindi non essere mai in grado di esercitare alcuna influenza significativa sugli eventi (sebbene in cambio di infrastrutture, altri investimenti e vantaggi tecnologici connessi con l’accettazione ufficiosa di diventare i “partner minori” della Cina ”), gli Stati di dimensioni relativamente medie e piccole che costituiscono la maggioranza della comunità internazionale hanno ora la possibilità di fare una differenza significativa. Per spiegare, unendosi attraverso il Neo-NAM guidato congiuntamente da India e Russia (la cui seconda dimensione sarà presto elaborata in questa analisi), possono accelerare l’emergere della tripolarità prima dell’ultima evoluzione della transizione sistemica globale verso multiplexità.

Il diavolo rimane nei dettagli, come dice il proverbio cliché, poiché l’interazione tra il secondo e il terzo livello di questa gerarchia internazionale informale associata all’attuale fase intermedia bipolare di quella transizione è impossibile da prevedere con precisione a questo punto. Anche così, i contorni suggeriscono comunque molto fortemente che questa visione delle Relazioni Internazionali sarebbe molto più attraente per il Sud del mondo piuttosto che accettare semplicemente il loro destino apparentemente inevitabile come “partner minori” delle superpotenze americane o cinesi. Questo insieme di stati si sentirebbe incoraggiato dalla terza scelta presentata da un partenariato strategico con l’India per proteggersi dalle superpotenze ed evitare di offendere inavvertitamente entrambi collaborando con il loro rivale.

Collegandosi in modo più stretto e intenso con quei paesi in posizioni simili a quelle che si trovano all’interno della fase intermedia bi-multipolare della transizione sistemica globale, così come con le grandi potenze tripolari/multiplessitarie come l’India (e anche la Russia come presto sarà spiegato), hanno le maggiori possibilità di massimizzare la loro autonomia strategica nell’ottica di ottenere i migliori accordi di partnership possibili con le due superpotenze. Invece di sentirsi spinti dal bipolarismo a diventare il “partner minore” dell’America o della Cina, possono sfruttare i vantaggi strategici associati alla Neo-NAM e al ruolo di India/Russia come partner di bilanciamento di terze parti per cooperare con entrambe le superpotenze senza che ciò sia percepito a spese di uno o dei propri interessi sovrani.

La crescente influenza della Russia nel sud del mondo

Questa possibilità era al di là di qualsiasi cosa la Cina si aspettasse prima della presidenza Trump (che rappresentava il primo dei tre shock sistemici descritti in precedenza rispetto alla sua guerra commerciale) quando era ancora estremamente fiduciosa nel ruolo della BRI nella creazione della comunità di destino comune in grado di gettare le basi economico-finanziarie per le altre riforme sistemiche che prevedeva lungo la sua traiettoria di superpotenza. Non solo sono seguiti altri due shock sistemici, quelli associati alle conseguenze del conflitto ucraino per la sicurezza alimentare e dei combustibili (e quindi la sicurezza socio-politica) del Sud del mondo, essendo l’ultimo; la Russia non ha per altro fornito alimento all’irrealistico scenario che diventasse il “partner minore” della Cina. Ora l’India sta sfidando le basi del bipolarismo.

Non è solo l’India, però, dal momento che anche la Russia sta facendo attivamente questo. Lo storico discorso del presidente Putin del 30 settembre, precedentemente descritto come un manifesto rivoluzionario, ha portato la sua Grande Potenza a diventare immediatamente l’icona della lotta del Sud del mondo contro il neoimperialismo guidato dagli Stati Uniti “Golden Billion”. Come l’India, la Russia non ha i mezzi economici per offrire alternative alla BRI, ma compensa diplomaticamente questa carenza in un senso simile a quello che fa la Grande Potenza dell’Asia meridionale secondo il concetto Neo-NAM, in termini di soft power secondo l’ispirazione globale connesso al suddetto discorso del suo leader, ma anche nella dimensione della sicurezza. Quest’ultimo aspetto è estremamente significativo e verrà ora trattato.

La cooperazione militare convenzionale della Russia con i suoi partner attraverso la vendita di armi serve allo scopo di mantenere l’equilibrio di potere tra le coppie di stati rivali e di scoraggiare l’aggressione americana migliorando le prospettive di soluzioni politiche alle loro controversie a causa delle preoccupazioni per danni collaterali inaccettabili nell’eventualità di un conflitto cinetico. La sua dimensione non convenzionale, nel frattempo, può essere descritta come garanzia di “ Sicurezza Democratica ”. Questo concetto si riferisce all’ampia gamma di tattiche e strategie di contrasto alla guerra ibrida per difendersi preventivamente (e, quando necessario, rispondere efficacemente) alla rivoluzione colorata del Golden Billion (soprattutto quelli catalizzati dalla guerra economica/sanzioni) e dai complotti di destabilizzazione della guerra non convenzionale (insurrezione/ribellione/terrorismo).

Il significato strategico delle soluzioni di “sicurezza democratica” della Russia

In parole povere e ricordando la visione della grande strategia dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti che il presidente Putin ha condiviso durante il suo storico discorso del 30 settembre, è spesso molto più conveniente sotto tutti gli aspetti per l’America punire paesi indipendenti e sovrani attraverso questi mezzi ibridi ( anche attraverso la guerra dell’informazione e le sanzioni) piuttosto che lanciare invasioni/attacchi in stile iracheno o libico, soprattutto se lo stato preso di mira ha capacità convenzionali sufficientemente solide per difendersi e quindi garantire danni collaterali inaccettabili all’aggressore in quello scenario. La sicurezza interna è quindi necessaria per controbilanciare tali minacce, ergo “Sicurezza Democratica” che mira in sostanza a garantire la sicurezza del modello nazionale di democrazia dello Stato preso di mira attraverso una miriade di mezzi.

Oltre a fornire servizi di consulenza su richiesta quando si tratta di aiutare i suoi partner a decidere come rispondere al meglio a scenari di guerra ibrida correlati come Rivoluzioni colorate, la Russia avrebbe anche impiegato i servizi di sicurezza non convenzionali di appaltatori militari privati ​​come Wagner per assistere direttamente quegli stati in situazioni plausibilmente da modi ufficiosi che, soprattutto, non sono all’altezza del soft power e dei rischi strategici associati agli interventi convenzionali a loro sostegno. Insieme alle operazioni di informazione che screditano queste campagne di destabilizzazione, così come agli investimenti strategici in alcuni settori per garantire entrate affidabili da investire nello sviluppo socioeconomico in modo da evitare preventivamente queste stesse campagne, l’assistenza su misura della “Sicurezza Democratica” della Russia può fare una grande differenza .

Nessun paese offre servizi di stabilizzazione della sicurezza così completi ai propri partner, il che conferisce quindi alla Russia un ruolo unico da svolgere negli stati del Sud del mondo, e in particolare quelli in tutta l’Africa da cui dipende la continua crescita economica della Cina in linea con la grande strategia descritta in questa analisi . Vista da questa prospettiva strategica, si può quindi affermare che la cooperazione con la Russia dei paesi in via di sviluppo per la “Sicurezza Democratica” aiuta a difendere i loro investimenti BRI dalle minacce ibride del Golden Billion (Rivoluzioni Colorate e Guerra Non Convenzionale) contro di loro; il che a sua volta aiuta a garantire la loro stabilità considerando l’impatto positivo che hanno quei progetti cinesi. La dinamica emergente connessa a questa osservazione è che la grande strategia cinese dipende in parte dalla Russia.

L’inaspettata grande dipendenza strategica della Cina dalla Russia

La Repubblica Popolare non ha partecipato a nessun conflitto militare straniero dalla brevissima guerra sino-vietnamita del 1979. Le sue forze armate sono in grado di garantire in patria gli interessi fondamentali della sicurezza nazionale del loro paese (che possono anche essere estrapolati in riferimento alle sue rivendicazioni marittime nel Mar Cinese Meridionale), ma non ha esperienza nel garantire i suoi interessi secondari e terziari all’estero lungo il Sud del mondo, necessari per sostenere la sua traiettoria di superpotenza. I suoi investimenti BRI sono quindi seriamente minacciati da scenari di guerra ibrida, che la Cina è praticamente impotente a contrastare, per non parlare di scongiurare preventivamente.

La Russia, nel frattempo, ha dimostrato l’efficacia delle sue soluzioni su misura di “Sicurezza democratica” nella Repubblica Centrafricana e, più recentemente , in Mali; quest’ultima è destinata ad avere conseguenze strategiche rivoluzionarie per quanto riguarda la catalizzazione di una sequenza regionale di eventi collegati al declino sempre più rapido dell’influenza francese nella sua autoproclamata “sfera di influenza” nel Sahel, denominata “Françafrique”. Se non fosse stato per il Cremlino che ha aperto la strada a questa nuova politica di sicurezza in tutto il Sud del mondo e specialmente in Africa, gli investimenti cinesi nella BRI avrebbero potuto benissimo essere condannati poiché i complotti della guerra ibrida del Golden Billion sarebbero altrimenti riusciti facilmente a “braccare” molti governi di stati ospitanti’, fin tanto che sarebbero stati gradualmente “disaccoppiati” dalla Cina.

Questo scenario è indipendente dall’ultima fase del conflitto ucraino provocato dagli Stati Uniti e stava già emergendo in una certa misura prima che ciò accadesse, come dimostrano alcuni dei partner africani della Cina che hanno eletto leader filo-occidentali critici nei confronti della Repubblica popolare e dei suoi progetti BRI dopo le campagne di guerra informativa precedenti a quei voti. Con il tempo e indipendentemente dal conflitto ucraino, c’era da aspettarsi che questa tendenza si sarebbe intensificata fino a raggiungere il punto di guerra ibrida (rivoluzioni colorate e guerre non convenzionali) se fosse emersa la necessità modellata sul precedente etiope che ha finito per fallire per ragioni che esulano dall’ambito di questa analisi; rimane comunque una minaccia, sia per quel Paese che per tutti gli altri del Sud del mondo (e soprattutto africano).

Invece, la Russia è emersa inaspettatamente come una forza credibile in grado di contrastare quelle minacce ibride attraverso le sue soluzioni su misura di “Sicurezza Democratica”, che era già una tendenza in corso ma ora è accoppiata con l’impressionante appello di potere soft di quella Grande Potenza dopo il manifesto rivoluzionario del presidente Putin che ha condiviso il 30 settembre finalizzato ad aver ispirato il Sud del mondo. Quel secondo fattore di soft power si combina con quello del suo partner strategico indiano connesso alla sua neutralità e alla loro visione condivisa di Neo-NAM per creare una formidabile sfida al soft power cinese nel mondo in via di sviluppo che Pechino aveva finora dato per scontato. Si traduce anche in un certo grado di dipendenza cinese dalla “sicurezza democratica” russa, aspetto che Mosca potrebbe sfruttare in modo creativo.

Legge di bilanciamento della Russia tra Cina e India nel sud del mondo

A questo proposito, uno dei grandi interessi strategici della Russia è quello di bilanciare tra i suoi partner cinesi e indiani – che insieme formano il nucleo RIC dei BRICS, la cui seconda struttura è concepita come guida del Sud del mondo – con l’obiettivo di evitare preventivamente qualsiasi potenziale sproporzionata dipendenza dall’uno e dall’altro parallelamente all’impedire agli Stati Uniti di dividere e governare quei due attraverso la loro trama di guerra ibrida per provocare una guerra tra di loro. Questo imperativo potrebbe manifestarsi nel Sud del mondo da parte della Russia che offre di aiutare a proteggere i progetti BRI vulnerabili della Cina come parte di un quid pro quo informale per l’accesso alla tecnologia sanzionata che la sua economia richiede per rimanere competitiva sotto tale pressione occidentale.

Per quanto riguarda la dimensione indiana di questa leva creativa, potrebbe interessare la Russia che esercita delicatamente la sua ritrovata influenza all’interno di quegli stati partner del Global South generalmente allineati alla Cina per incoraggiarli ad abbracciare con più entusiasmo il modello diplomatico di Delhi del Neo-NAM al fine di farlo avanzare contestualmente al grande obiettivo strategico condiviso di Mosca di accelerare l’emergere della tripolarità multilaterale attraverso quella struttura per facilitare l’evoluzione finale della transizione sistemica alla multiplexità. Se il Sud del mondo fosse massicciamente destabilizzato dalle conseguenze socio-politiche catalizzate dalle crisi alimentari e dei combustibili prodotte artificialmente dai Golden Billion, sia la Cina che l’India perderebbero le rispettive opportunità di plasmare l’ordine mondiale, il che darebbe agli Stati Uniti un grande vantaggio strategico .

Dal punto di vista della Cina, questo rappresenta un’altra grande sfida alla sua stessa grande strategia. La consapevolezza strisciante della sua dipendenza dai servizi di “sicurezza democratica” della Russia ai principali partner BRI in tutto il sud del mondo, senza i quali i progetti di Pechino rimarrebbero per sempre vulnerabili a minacce sempre più credibili di guerra ibrida e molto probabilmente finirebbero per fallire di conseguenza a lungo termine ( sabotando così la sua traiettoria di superpotenza), significa che Pechino potrebbe essere costretta a riconsiderare la fattibilità stessa dei suoi piani a causa di questa realtà emergente. Invece di aspirare ufficiosamente a diventare una superpotenza e radicare la bi-multipolarità, potrebbe invece doversi accontentare di diventare la Grande Potenza economicamente più potente all’interno di un sistema di multipolarità complessa (multiplessità).

Diversi motivi per cui la Cina riconsidera la sua grande strategia di superpotenza

La ragione di ciò è abbastanza facile da capire dopo aver già proceduto fino a questo punto nella presente analisi. In poche parole, mentre la Cina rimane ancora un attore strategicamente autonomo nella transizione sistemica globale e tra quelli con la più potente influenza nel plasmare gli eventi, la base da cui dipende la sua traiettoria di superpotenza è intrinsecamente instabile per quattro ragioni principali. Nell’ordine in cui sono stati presentati in questo pezzo, sono: 1) gli shock sistemici causati dalla guerra commerciale, dal COVID-19 e dal conflitto ucraino; 2) la Russia non diventa sproporzionatamente dipendente dalla Cina in risposta al terzo shock; 3) gli impressionanti progressi compiuti dall’India dopo il conflitto ucraino nella pionieristica tripolarità; e 4) i nuovi ruoli della Russia in materia di sicurezza e soft power (rivoluzionario) nel Sud del mondo.

Questi quattro fattori inaspettati si sono combinati in modo tale da complicare senza precedenti la grande strategia della Cina come era stata originariamente prevista nel 2013 quando ha annunciato la BRI. Questa serie globale di megaprogetti avrebbe dovuto fungere da veicolo per creare il rapporto di complessa interdipendenza tra esso e il Sud del mondo su cui le riforme economico-finanziarie, istituzionali-politiche e, in definitiva, militari-strategiche del sistema internazionale necessarie per la sua sostenibilità. Fattori dai quali dipende la crescita crescere come superpotenza. Invece di una transizione graduale, da allora tre shock sistemici al di fuori del controllo cinese hanno scosso l’economia globale, con l’ultimo che ha messo in moto una sequenza di eventi in rapida evoluzione che potrebbe rendere il momento bipolare altrettanto di breve durata quanto il precedente unipolare.

Le conseguenze per la grande strategia cinese che i quattro fattori primari elaborati in questa analisi hanno avuto finora sono state anche esacerbate dagli Stati Uniti che hanno inaspettatamente provocato problemi con la Cina su Taiwan dopo la visita del presidente Pelosi all’inizio di agosto; episodio che ha suggerito che questo egemone unipolare in declino è capace di “determinare”/”contenere” simultaneamente sia la Russia che la Cina in misura diversa invece di concentrarsi quasi esclusivamente su una a scapito di lasciare che l’altra sorga incontrastata. La pressione militare convenzionale che ciò esercita sulla Cina proprio nel momento in cui la sua grande strategia sta affrontando tali sfide militari strutturali, diplomatiche e non convenzionali (relative rispettivamente al primo-secondo, terzo-quarto e quarto fattore) la costringe ulteriormente a riconsiderare i suoi piani.

La fase intermedia bi-multipolare della transizione sistemica globale verso una multipolarità più complessa, che Baru ha accuratamente descritto oltre due anni fa, potrebbe quindi benissimo trovarsi sull’orlo di una tripolarità imperfetta a causa delle conseguenze rivoluzionarie legate all’emergente asse russo-indiano, sia in sé e per sé così come la sua manifestazione attraverso il Neo-NAM informale sul quale stanno lavorando insieme per mettere insieme. Queste grandi potenze sono state inaspettatamente in grado di plasmare l’ordine mondiale in modo molto più potente di quanto chiunque avesse previsto sarebbero state capaci in questo momento a causa dei modi in cui l’ultima fase del conflitto ucraino provocata dagli Stati Uniti ha accelerato enormemente la convergenza delle loro grandi strategie condivise tripolari/multiplessitarie .

Pensieri conclusivi

Con le basi strutturali della grande strategia cinese immensamente destabilizzate dalle conseguenze di quel conflitto rispetto alle crisi alimentari e dei combustibili prodotte artificialmente dai Golden Billion in tutto il Sud del mondo, in grado di innescare potenzialmente nel prossimo futuro profondi cambiamenti socio-politici tali da minacciare le prospettive della BRI, insieme all’autonomia strategica recentemente rafforzata dell’India e della Russia, nonché il ruolo sempre più indispensabile di stabilizzazione della sicurezza di Mosca nei paesi in via di sviluppo che integra il suo ritrovato potere soft (rivoluzionario), la traiettoria della superpotenza di Pechino sembra probabilmente insostenibile. La Repubblica Popolare non può perpetuare indefinitamente il bipolarismo in queste condizioni, motivo per cui potrebbe dover accettare di diventare una Grande Potenza tra pari invece di continuare ad aspirare allo status di superpotenza.

https://korybko.substack.com/p/the-ukrainian-conflict-might-have?utm_source=post-email-title&publication_id=835783&post_id=75960027&isFreemail=true&utm_medium=email

Perché il presidente Putin ha minimizzato l’importanza del suo incontro con il presidente Xi?_Di Andrew Korybko

Il loro incontro è stato in realtà piuttosto importante, ma non nel modo in cui molti nella comunità Alt-Media si aspettavano, né il giornalista che ha formulato la sua domanda al leader russo nel modo particolare in cui l’ha fatto concentrandosi sull’aspetto geostrategico dei loro legami.

Molti nella Alt-Media Community (AMC) si aspettavano che l’incontro del presidente Putin con il suo omologo cinese a margine del vertice SCO della scorsa settimana a Samarcanda avrebbe portato ad alcuni annunci drammatici considerando tutto ciò che è successo in tutto il mondo dall’ultima volta che si sono incontrati di persona ai primi di febbraio. Le brevi osservazioni condivise da ciascun leader prima dei loro colloqui hanno riaffermato gli stretti legami di queste grandi potenze nella transizione sistemica globale alla multipolarità , il che ha ulteriormente sollevato la speranza tra gli osservatori che potrebbero coordinare una cooperazione rivoluzionaria durante il loro tête-à-tête.

Infatti, anche uno dei giornalisti che ha rivolto una domanda al presidente Putin durante la conferenza stampa dopo il vertice si aspettava che il leader russo discutesse con il suo omologo cinese di alcune questioni geostrategiche molto importanti. Purtroppo, quel professionista dei media è rimasto deluso come molti nell’AMC quando hanno scoperto che non era così, con quei due che invece parlavano principalmente di questioni economiche. Ecco lo scambio completo tra il presidente Putin e quel giornalista, dopo il quale seguirà una spiegazione sul motivo per cui ha minimizzato l’importanza del suo incontro con il presidente Xi (enfasi aggiunta):

“Domanda: il vostro incontro bilaterale più importante si è svolto con il leader cinese. Questo è stato un incontro molto importante, data l’atmosfera tesa in tutto il mondo, e il mondo intero lo stava seguendo. Quali sono i risultati più importanti dell’incontro?

Vladimir Putin: Per quanto strano possa sembrare, non c’era nulla di fondamentale. Questo è stato in realtà un incontro di routine tra noi. Non ci vedevamo di persona da un po’, dal mio viaggio a Pechino per l’apertura delle Olimpiadi, e abbiamo semplicemente dichiarato un aumento significativo degli scambi bilaterali.

Il nostro commercio si è attestato a 140 miliardi di dollari l’anno scorso, come ho detto prima, e avevamo fissato l’obiettivo di raggiungere i 200 miliardi di dollari, ma lo consideravamo un compito a lungo termine. Il commercio reciproco di quest’anno dovrebbe raggiungere circa 180 o addirittura 190 miliardi di dollari, il che significa che l’obiettivo di 200 miliardi di dollari sta per essere raggiunto, e credo che questa sia la linea di fondo.

Abbiamo parlato degli sforzi aggiuntivi necessari per espandere il commercio bilaterale e di cosa è necessario fare nelle condizioni attuali per resistere efficacemente alle restrizioni illegali e a tutti i tipi di guerre commerciali scatenate qua e là dai nostri cosiddetti partner commerciali, che applicano vari illegittimi restrizioni.

Tuttavia, dobbiamo agire per rispondere a questo in qualche modo. Siamo consapevoli di ciò che sta accadendo.

Abbiamo anche parlato della necessità di espandere il commercio e le transazioni nelle valute nazionali, che stanno gradualmente aumentando – non così velocemente come vorremmo, ma ci sono comunque dei progressi. Abbiamo parlato dei grandi progetti che stiamo implementando e menzionato progetti infrastrutturali che ci permetterebbero di sbloccare i crescenti flussi di merci. Questi erano gli argomenti di discussione.

Ma abbiamo anche menzionato alcuni problemi legati alla crisi e ne abbiamo parlato in modo amichevole ma basato sui principi”.

Come si può vedere, il leader russo ha sottolineato che l’essenza della loro discussione riguardava la cooperazione economica, che coinvolgeva anche dimensioni più ampie come contrastare le sanzioni illegali del Miliardo d’Oro . Questo in realtà è in linea con la strategia Asia-Pacifico del suo paese che ha riassunto nei suoi saluti ai partecipanti all’Eastern Economic Forum di questo mese a Vladivostok. Il presidente Putin ha suggerito che creare, mantenere ed espandere complesse relazioni di interdipendenza economica (come quelle che la Russia ha con la Cina in questo contesto) è un prerequisito per costruire in modo sostenibile la multipolarità.

Tuttavia, questo non vuol dire che i presidenti Putin e Xi non abbiano discusso di questioni geostrategiche dall’inizio dell’operazione militare speciale , ma solo che questo probabilmente è già accaduto nelle loro precedenti conversazioni telefoniche nei mesi precedenti l’incontro di persona della scorsa settimana. Inoltre, le loro burocrazie militari, di intelligence e diplomatiche permanenti (“stato profondo”) collaborano strettamente su un’ampia gamma di questioni. Pertanto, nessuno dei due leader ha sentito il bisogno di perdere tempo prezioso rivedendo ridondante quelle questioni precedentemente concordate, scegliendo invece saggiamente di concentrarsi su quelle economiche urgenti.

Con questa intuizione in mente su come vengono realmente condotte le relazioni internazionali, coloro che avevano grandi aspettative sul fatto che l’incontro tra i presidenti Putin e Xi avrebbe cambiato le regole del gioco dal punto di vista geostrategico potrebbero aver bisogno di saperne di più sulle complessità di cui sopra. Tra quegli osservatori che hanno già familiarità con questo flusso di lavoro ma hanno comunque sbagliato, evidentemente hanno interpretato male la sequenza di eventi che hanno portato ai loro ultimi colloqui di persona. Ciò potrebbe essere attribuibile al fatto che siano caduti sotto l’influenza dello stesso pio desiderio contro cui il leader russo ha messo in guardia all’inizio di quest’estate.

Dopo aver chiarito il motivo per cui il presidente Putin ha minimizzato l’importanza del suo incontro con il presidente Xi (che non era per i cosiddetti “scacchi 5D” motivi per “sfogare” qualcuno come alcuni dei letterali teorici della cospirazione dell’AMC potrebbero immaginare come un meccanismo di coping ), ciò non significa che non ne valesse ancora la pena. Al contrario, poiché l’espansione globale dei legami finanziari e commerciali russo-cinesi costituisce una delle basi geoeconomiche dell’emergente ordine mondiale multipolare e si allinea con la strategia Asia-Pacifico del presidente Putin, era imperativo per lui discutere i dettagli con Presidente Xi.

Considerando questo, il loro incontro è stato in realtà piuttosto importante, ma non nel modo in cui molti nell’AMC si aspettavano, né il giornalista che ha formulato la sua domanda al leader russo nel modo particolare in cui l’ha fatto concentrandosi sull’aspetto geostrategico dei loro legami. Se questi ultimi avessero sottolineato il significato delle loro relazioni economiche per accelerare la transizione sistemica globale verso il multipolarismo, per non parlare della strategia Asia-Pacifico del presidente Putin che ha toccato all’inizio di questo mese, non ci sarebbe stato bisogno di minimizzare i loro discorsi per evitare false percezioni sulla loro sostanza.

https://oneworld.press/?module=articles&action=view&id=3274

Ucraina, il conflitto_16a puntata. Equilibrio instabile_Con Max Bonelli e Stefano Orsi

Il conflitto in Ucraina ha raggiunto una fase di relativo equilibrio. Lo slancio offensivo nella parte nord del fronte, presentato come una marcia trionfale, ha perso quasi completamente il proprio slancio. Quella che è apparsa una rotta dell’esercito russo, si è rivelato alla fine un ripiegamento ordinato, con scarsa perdita di mezzi, tranne che per la propaggine a nord, verso il confine russo di Belgorod. A sud le forze ucraine si sono dissanguate nei continui e sterili attacchi nella zona di Kherson. L’epicentro della battaglia, però, sembra
fissarsi nella zona di Kharkyv e, soprattutto, di Zhaporija, in una situazione però di crescente pressione su vari punti del migliaio di chilometri di linea. E’ una corsa contro il tempo, in attesa che il richiamo parziale della riserva, ordinato da Putin, possa manifestare i primi effetti determinanti sul campo.
Come in ogni conflitto, anche il più virulento, i canali riservati di comunicazione tra i contendenti non mancano e con esso qualche spiraglio di tregua. E’ una situazione sul campo pesantemente influenzata dalle dinamiche geopolitiche delle quali il recente vertice SCO a Samarcanda e l’assemblea generale dell’ONU hanno offerto una rappresentazione simbolica potente con qualche venatura patetica, quale si è dimostrata la prolusione di Mario Draghi. Il tempo lungo offrirà alla Russia le vie di uscita da una condizione critica, grazie alle dinamiche innescate assieme a Cina ed India. La contingenza, però, annuncia continui pericoli e focolai a ridosso dei suoi confini, suscettibili di destabilizzare il paese. Sono le carte che l’attuale leadership statunitense intende giocare ai limiti dell’azzardo e dell’avventurismo; impulsi nutriti da una smodata indole predatoria altrettanto nefasta, confermata dalla intenzione del Congresso Americano di stornare all’Ucraina i 300 miliardi di dollari di fondi sequestrati alla Russia. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/v1l4op1-ucraina-il-conflitto-16a-puntata-equilibrio-instabile-con-max-bonelli-e-ste.html

Di quale NATO abbiamo bisogno?_ di Stephen M. Walt

Dal punto di vista statunitense la 4a sarebbe la più conveniente e sostenibile, ma anche la più rischiosa. Tutto dipenderebbe dalle garanzie di fedeltà tedesche. Giuseppe Germinario

Quattro possibili assetti futuri per l’alleanza transatlantica.

In un mondo in costante cambiamento, spicca la resistenza della partnership transatlantica. La NATO è più vecchia di me e non sono un giovane. È in circolazione da più tempo di quanto la regina Elisabetta II abbia regnato in Gran Bretagna. La sua logica originale – ” tenere fuori l’Unione Sovietica, dentro gli americani e giù i tedeschi” – è meno rilevante di quanto non lo fosse un tempo (nonostante la guerra della Russia in Ucraina), ma suscita ancora riverenza riflessiva su entrambe le sponde dell’Atlantico . Se sei un aspirante politico che spera di lasciare il segno a Washington, Berlino, Parigi, Londra, ecc., imparare a lodare le virtù durature della NATO è ancora la mossa intelligente per la carriera.

Questa longevità è particolarmente notevole se si considera quanto è cambiato da quando è stata costituita la NATO e l’idea di una “comunità transatlantica” ha cominciato a prendere forma. Il Patto di Varsavia è finito e l’Unione Sovietica è crollata. Gli Stati Uniti hanno trascorso più di 20 anni combattendo guerre costose e senza successo nel grande Medio Oriente . La Cina è passata da una nazione impoverita con poco peso globale al secondo paese più potente del mondo, ei suoi leader aspirano a un ruolo globale ancora più grande in futuro. Anche la stessa Europa ha subito profondi cambiamenti: cambiamenti demografici, ripetute crisi economiche, guerre civili nei Balcani e, nel 2022, una guerra distruttiva che sembra destinata a continuare per qualche tempo.

A dire il vero, la “partenariato transatlantico” non è stata del tutto statica. La NATO ha aggiunto nuovi membri nel corso della sua storia, a cominciare dalla Grecia e dalla Turchia nel 1952, seguite dalla Spagna nel 1982, poi da una raffica di ex alleati sovietici a partire dal 1999 e, più recentemente, dalla Svezia e dalla Finlandia. Anche la distribuzione degli oneri all’interno dell’alleanza ha oscillato, con la maggior parte dell’Europa che ha ridotto drasticamente i propri contributi alla difesa dopo la fine della Guerra Fredda. La NATO ha anche subito vari cambiamenti dottrinali, alcuni dei quali più consequenziali di altri.

Vale quindi la pena chiedersi quale forma dovrebbe assumere in futuro il partenariato transatlantico. Come dovrebbe definire la sua missione e distribuire le sue responsabilità? Come con un fondo comune di investimento, il successo passato non è garanzia di prestazioni future, motivo per cui i gestori di portafoglio intelligenti che cercano i migliori rendimenti regoleranno le attività di un fondo al variare delle condizioni. Dati i cambiamenti passati, gli eventi attuali e le probabili circostanze future, quale visione ampia dovrebbe plasmare la partnership transatlantica in futuro, supponendo che continui ad esistere?

Mi vengono in mente almeno quattro modelli distinti per il futuro.

Modello 1: Business as usual

Un approccio ovvio – e data la rigidità burocratica e la cautela politica, forse il più probabile – è quello di mantenere più o meno intatte le attuali disposizioni e cambiare il meno possibile. In questo modello, la NATO rimarrebbe principalmente focalizzata sulla sicurezza europea (come suggerisce l’espressione “Nord Atlantico” nel suo nome). Gli Stati Uniti rimarrebbero il “primo soccorritore” dell’Europa e il leader incontrastato dell’alleanza, come lo è stato durante la crisi ucraina. La condivisione degli oneri sarebbe ancora distorta: le capacità militari americane continuerebbero a sminuire le forze militari europee e l’ombrello nucleare statunitense coprirebbe ancora gli altri membri dell’alleanza. La missione “fuori area” sarebbe sminuita a favore di una rinnovata attenzione all’Europa stessa, una decisione che ha senso alla luce dei risultati deludenti delle passate avventure della NATO in Afghanistan, Libia e i Balcani.

Ad essere onesti, questo modello ha alcune ovvie virtù. È familiare e mantiene il “ciuccio americano” d’Europaa posto. Gli stati europei non dovranno preoccuparsi dei conflitti che insorgono tra di loro finché lo zio Sam sarà ancora lì per fischiare e sciogliere le liti. I governi europei che non vogliono tagliare i loro generosi welfare state per pagare i costi del riarmo saranno felici di lasciare che lo zio Sam si occupi di una quota sproporzionata dell’onere, e i paesi più vicini alla Russia saranno particolarmente desiderosi di una forte garanzia di sicurezza degli Stati Uniti. Avere un chiaro leader dell’alleanza con capacità sproporzionate faciliterà un processo decisionale più rapido e coerente all’interno di quella che altrimenti potrebbe essere una coalizione ingombrante. Quindi, ci sono buone ragioni per cui gli atlantisti irriducibili lanciano l’allarme ogni volta che qualcuno propone di manomettere questa formula.

Tuttavia, il modello business-as-usual presenta anche alcuni seri svantaggi. Il più ovvio è il costo opportunità: mantenere gli Stati Uniti come primo interlocutore dell’Europa rende difficile per Washington dedicare tempo, attenzione e risorse sufficienti all’Asia, dove le minacce agli equilibri di potere sono significativamente maggiori e l’ambiente diplomatico è particolarmente complicato . Un forte impegno degli Stati Uniti nei confronti dell’Europa può smorzare alcune potenziali cause di conflitto lì, ma non ha impedito le guerre nei Balcani negli anni ’90 e lo sforzo guidato dagli Stati Uniti per portare l’Ucraina nell’orbita di sicurezza occidentale ha contribuito a provocare la guerra in corso. Questo non è ciò che qualcuno in Occidente intendeva, ovviamente, ma i risultati sono ciò che conta. I recenti successi dell’Ucraina sul campo di battaglia sono estremamente gratificanti e spero che continuino, ma sarebbe stato molto meglio per tutti gli interessati se la guerra non si fosse verificata affatto.

Inoltre, il modello business-as-usual incoraggia l’Europa a rimanere dipendente dalla protezione europea e contribuisce a un generale compiacimento e mancanza di realismo nella conduzione della politica estera europea. Se sei sicuro che la potenza più potente del mondo salterà dalla tua parte non appena inizieranno i problemi, è più facile ignorare i rischi di essere eccessivamente dipendenti dalle forniture energetiche straniere e eccessivamente tolleranti verso l’autoritarismo strisciante più vicino a casa. E sebbene quasi nessuno voglia ammetterlo, questo modello ha il potenziale per trascinare gli Stati Uniti in conflitti periferici che potrebbero non essere sempre vitali per la sicurezza o la prosperità degli stessi Stati Uniti. Per lo meno, il business as usual non è più un approccio che dovremmo approvare acriticamente.

Modello 2: Democrazia Internazionale

Un secondo modello per la cooperazione transatlantica in materia di sicurezza mette in evidenza il carattere democratico condiviso di (la maggior parte) dei membri della NATO e il crescente divario tra democrazie e autocrazie (e soprattutto Russia e Cina). Questa visione è alla base degli sforzi dell’amministrazione Biden di enfatizzare i valori democratici condivisi e il suo desiderio apertamente dichiarato di dimostrare che la democrazia può ancora superare l’autocrazia sulla scena globale. La Fondazione Alliance of Democracies dell’ex segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen riflette una concezione simile.

A differenza del modello business-as-usual, incentrato principalmente sulla sicurezza europea, questa concezione del partenariato transatlantico abbraccia un’agenda globale più ampia. Concepisce la politica mondiale contemporanea come una contesa ideologica tra democrazia e autocrazia e crede che questa lotta debba essere condotta su scala globale. Se gli Stati Uniti sono “perno” verso l’Asia, allora anche i suoi partner europei devono farlo, ma allo scopo più ampio di difendere e promuovere i sistemi democratici. Coerentemente con questa visione, la nuova strategia indo-pacifica della Germania richiede di rafforzare i legami con le democrazie di quella regione e il ministro della Difesa tedesco ha recentemente annunciato una presenza navale ampliata anche lì nel 2024.

Questa visione ha il merito della semplicità – democrazia buona, autocrazia cattiva – ma i suoi difetti superano di gran lunga le sue virtù. Tanto per cominciare, un tale quadro complicherà inevitabilmente le relazioni con le autocrazie che gli Stati Uniti e/o l’Europa hanno scelto di sostenere (come l’Arabia Saudita o le altre monarchie del Golfo, o potenziali partner asiatici come il Vietnam), ed esporrà il convivenza con l’accusa di dilagante ipocrisia. In secondo luogo, dividere il mondo in democrazie amichevoli e dittature ostili è destinato a rafforzare i legami tra queste ultime e a scoraggiare le prime dal giocare divide et impera. Da questo punto di vista, dovremmo essere lieti che l’allora presidente degli Stati Uniti Richard Nixon e il suo consigliere Henry Kissinger non abbiano adottato questa struttura nel 1971, quando il loro riavvicinamento con la Cina maoista diede al Cremlino un nuovo mal di testa di cui preoccuparsi.

Infine, mettere i valori democratici in primo piano e al centro rischia di trasformare la partnership transatlantica in un’organizzazione crociata che cerca di impiantare la democrazia ovunque sia possibile. Per quanto desiderabile tale obiettivo possa essere in astratto, gli ultimi 30 anni dovrebbero dimostrare che nessun membro dell’alleanza sa come farlo in modo efficace. Esportare la democrazia è estremamente difficile da fare e di solito fallisce, specialmente quando gli estranei cercano di imporla con la forza. E dato il precario stato di democrazia in alcuni degli attuali membri della NATO, adottare questa come la principale ragion d’essere dell’alleanza sembra estremamente donchisciottesco.

Modello 3: Globalizzazione contro la Cina

Il Modello 3 è un cugino stretto del Modello 2, ma invece di organizzare le relazioni transatlantiche attorno alla democrazia e ad altri valori liberali, cerca di coinvolgere l’Europa nel più ampio sforzo degli Stati Uniti per contenere una Cina in ascesa. In effetti, cerca di unire i partner europei multilaterali dell’America con gli accordi bilaterali hub-and-spoke che già esistono in Asia e portare il potenziale di potere dell’Europa contro l’unico serio concorrente che gli Stati Uniti probabilmente dovranno affrontare per molti anni venire.

A prima vista, questa è una visione allettante e si potrebbe indicare l’accordo AUKUS tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia come una sua prima manifestazione. Come ha osservato di recente Michael Mazarr della Rand Corp. , ci sono prove crescenti che l’Europa non vede più la Cina semplicemente come un mercato redditizio e un partner di investimento prezioso, e sta iniziando a “bilanciare dolcemente” contro di essa. Da una prospettiva puramente americana, sarebbe altamente auspicabile che il potenziale economico e militare dell’Europa si schierasse contro il suo principale sfidante.

Ma ci sono due problemi evidenti con questo modello. In primo luogo, gli stati si bilanciano non solo con il potere, ma con le minacce e la geografia gioca un ruolo fondamentale in tali valutazioni. La Cina può essere sempre più potente e ambiziosa, ma il suo esercito non marcerà attraverso l’Asia e colpirà l’Europa, e la sua marina non navigherà per il mondo e bloccherà i porti europei. La Russia è molto più debole della Cina ma molto più vicina, e il suo comportamento recente è preoccupante anche se le sue azioni hanno inconsapevolmente rivelato i suoi limiti militari. Ci si dovrebbe quindi aspettare il più morbido bilanciamento morbido dall’Europa e non uno sforzo serio per contrastare le capacità della Cina.

I membri europei della NATO non hanno la capacità militare di influenzare in modo significativo l’equilibrio di potere nella regione indo-pacifica ed è improbabile che la acquisiscano presto. La guerra in Ucraina potrebbe portare gli stati europei a prendere sul serio la ricostruzione delle loro forze militari, finalmente, ma la maggior parte dei loro sforzi andrà ad acquisire capacità di terra, aria e sorveglianza progettate per difendere e scoraggiare la Russia. Ciò ha senso dal punto di vista dell’Europa, ma la maggior parte di queste forze sarebbe irrilevante per qualsiasi conflitto che coinvolga la Cina. L’invio di alcune fregate tedesche nella regione indo-pacifica può essere un bel modo per segnalare l’interesse dichiarato della Germania per l’ambiente di sicurezza in evoluzione lì, ma non altererà l’equilibrio di potere regionale o farà molta differenza nei calcoli della Cina.

L’Europa può aiutare a bilanciare la Cina in altri modi, ovviamente, aiutando ad addestrare forze militari straniere, vendendo armi, partecipando a forum di sicurezza regionali, ecc., e gli Stati Uniti dovrebbero accogliere favorevolmente tali sforzi. Ma nessuno dovrebbe contare sull’Europa per fare molto duro bilanciamento nel teatro indo-pacifico. Cercare di mettere in atto questo modello è una ricetta per la delusione e un aumento del rancore transatlantico.

Modello 4: una nuova divisione del lavoro

Sapevi che sarebbe arrivato: il modello secondo me è quello giusto. Come ho affermato in precedenza (incluso più recentemente qui in Foreign Policy ), il modello futuro ottimale per la partnership transatlantica è una nuova divisione del lavoro, con l’Europa che si assume la responsabilità primaria della propria sicurezza e gli Stati Uniti che dedicano molta più attenzione nella regione indo-pacifica. Gli Stati Uniti rimarrebbero un membro formale della NATO, ma invece di essere il primo soccorritore dell’Europa, diventerebbero il loro alleato di ultima istanza. D’ora in poi, gli Stati Uniti avrebbero pianificato di tornare a terra in Europa solo se l’equilibrio di potere regionale si fosse eroso in modo drammatico, ma non altrimenti.

Questo modello non può essere implementato dall’oggi al domani e dovrebbe essere negoziato in uno spirito di cooperazione, con gli Stati Uniti che aiutano i loro partner europei a progettare e acquisire le capacità di cui hanno bisogno. Poiché molti di questi stati faranno tutto ciò che è in loro potere per convincere lo zio Sam a restare, tuttavia, Washington dovrà chiarire che questo è l’unico modello che sosterrà in futuro. A meno che e fino a quando i membri europei della NATO non crederanno davvero che staranno per lo più da soli, la loro determinazione a intraprendere le misure necessarie rimarrà fragile e ci si può aspettare che si ritiri nei loro impegni.

A differenza di Donald Trump, la cui spavalderia e magniloquenza durante il suo periodo come presidente degli Stati Uniti ha infastidito gli alleati inutilmente, il suo successore Joe Biden è in una posizione ideale per avviare questo processo. Ha una meritata reputazione di atlantista devoto, quindi spingere per una nuova divisione del lavoro non sarebbe visto come un segno di risentimento o irritazione. Lui e il suo team sono in una posizione unica per dire ai nostri partner europei che questo passo è nell’interesse a lungo termine di tutti. Intendiamoci, non mi aspetto davvero che Biden & Co. faccia questo passo , per ragioni che ho spiegato altrove , ma dovrebbero.

Finalmente Svezza l’Europa al largo di Washington

Di Stephen M. Walt

Quando la politica estera ha chiesto per la prima volta l’impatto della guerra in Ucraina sulla strategia degli Stati Uniti cinque mesi fa, ho sostenuto che l’invasione illegale dell’Ucraina da parte della Russia era un’opportunità ideale per avviare il processo di svezzamento degli alleati europei degli Stati Uniti dalla loro eccessiva dipendenza dalla protezione degli Stati Uniti. Semmai, da allora la tesi per una nuova divisione del lavoro si è rafforzata.

La guerra ha dimostrato che l’hard power conta ancora nel 21° secolo, ha messo in luce le carenze militari dell’Europa, ha sottolineato sottilmente i limiti dell’impegno degli Stati Uniti e ha rivelato i limiti militari duraturi della Russia. Ricostruire le difese dell’Europa richiederà tempo e denaro, ma fare in modo che l’Europa si assuma maggiori responsabilità per la propria difesa consentirà agli Stati Uniti di spostare maggiori sforzi e attenzione sull’Asia per affrontare le numerose sfide poste da una Cina più potente e assertiva.

Sfortunatamente, l’amministrazione Biden sta ignorando queste implicazioni e sta rafforzando la dipendenza europea dallo Zio Sam. Se questo corso continua, gli Stati Uniti rimarranno sovraccarichi e la loro capacità di bilanciare efficacemente la Cina ne risentirà.

Cosa è successo negli ultimi cinque mesi per sostenere la tesi dello svezzamento dell’Europa da Washington?

La tesi per una nuova divisione del lavoro tra Stati Uniti ed Europa si è rafforzata solo dall’inizio della guerra.

In primo luogo, le prestazioni militari della Russia non sono migliorate in modo significativo e le sue forze armate continuano a subire perdite sostanziali. Anche se il maggiore potere latente di Mosca le consentirà di ottenere una sorta di vittoria di Pirro in Ucraina, la sua capacità di minacciare il resto dell’Europa in futuro sarà minima. La Russia ha perso una parte considerevole delle sue armi più sofisticate e della sua forza lavoro militare meglio addestrata. Le sanzioni occidentali hanno danneggiato in modo significativo la sua economia. Le restrizioni alle esportazioni renderanno molto più difficile l’acquisizione da parte dell’industria della difesa russa dei semiconduttori avanzati e altre tecnologie che richiedono armi all’avanguardia. Nel tempo, gli sforzi europei per ridurre la dipendenza dal petrolio e dal gas russi priveranno Mosca delle entrate e ostacoleranno ulteriormente la sua capacità di ricostruire le sue forze militari una volta che i combattimenti in Ucraina saranno finiti.

In secondo luogo, Svezia e Finlandia sono state accolte nella NATO. A differenza di altri nuovi membri del blocco, entrambi i paesi hanno potenti forze militari e il loro ingresso complica enormemente la pianificazione della difesa russa, trasformando il Mar Baltico in un lago virtuale della NATO. Questo inclina gli equilibri di potere in Europa in modo ancora più decisivo a favore della NATO.

Terzo, gli eventi in Asia, come le vaste esercitazioni militari cinesi seguite alla recente visita della presidente della Camera degli Stati Uniti Nancy Pelosi a Taiwan, hanno sottolineato il ruolo centrale del potere statunitense nel preservare un favorevole equilibrio di potere in Asia. Se impedire l’emergere di un egemone rivale in una regione strategica vitale rimane un principio cardine della grande strategia statunitense, allora è essenziale orientarsi verso l’Asia, indipendentemente da ciò che accade in Ucraina.

Sfortunatamente, l’amministrazione Biden potrebbe ora ripetere gli stessi errori che in passato hanno incoraggiato i partner europei di Washington a trascurare le proprie capacità di difesa. Gli Stati Uniti si sono assunti la responsabilità primaria di armare, addestrare, sovvenzionare e consigliare l’Ucraina. A febbraio, l’amministrazione ha annunciato il dispiegamento a tempo indeterminato di 20.000 truppe americane aggiuntive in Europa, con l’aggiunta di altre nuove forze a giugno. Non sorprende che la determinazione europea a fare di più stia svanendo e le abitudini radicate nel free-riding stiano riemergendo. L’imminente recessione europea non farà che esacerbare queste tendenze, mettendo in dubbio le audaci promesse che la Germania e altri stati europei hanno fatto alcuni mesi fa.

Se questa tendenza non viene invertita, Washington si ritroverà a fare più del necessario in Europa ma non abbastanza in Asia. Per la grande strategia statunitense, sarebbe un errore fondamentale.

Stephen M. Walt è editorialista di Foreign Policy e Robert e Renée Belfer professore di relazioni internazionali all’Università di Harvard.

https://foreignpolicy.com/2022/09/14/nato-future-europe-united-states/

https://foreignpolicy.com/2022/09/02/us-grand-strategy-ukraine-russia-china-geopolitics-superpower-conflict/

“Non c’è bisogno di combattere come un guerriero lupo”, una conversazione con Xiang Lanxin

Proseguiamo con la serie di articoli di analisti cinesi, presenti in Cina, ma con posizioni divergenti, rispetto alla linea al momento largamente maggioritaria e dominante espressa da Xi Jinping. La finalità di questa pubblicazione è, ancora una volta, di avvalorare che il confronto e lo scontro geopolitico si realizza attraverso il conflitto tra centri decisori e di influenza i quali si intersecano, nelle proprie relazioni, all’interno e all’esterno delle formazioni sociali. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Come si è trovato un giornalista britannico all’origine di una nuova dottrina diplomatica cinese? L’ascesa pacifica è ancora un paradigma rilevante per i pensatori geopolitici cinesi? La Cina dovrebbe assolutamente pretendere di imporre una nuova governance globale? Traduciamo e pubblichiamo questa intervista chiave con uno dei più originali e importanti specialisti della diplomazia di Pechino. Una nuova puntata della nostra serie “Dottrine nella Cina di Xi Jinping” — introdotta e commentata da David Ownby.

Xiang Lanxin (nato nel 1956) è un famoso studioso cinese di relazioni internazionali che ha trascorso gran parte della sua carriera negli Stati Uniti e poi in Europa. Dopo aver conseguito la laurea presso la Fudan University di Shanghai, ha conseguito il master e il dottorato presso la Johns Hopkins School of Advanced International Studies. Ha insegnato alla Clemson University fino al 1996, quando è entrato a far parte del Graduate Institute of International Studies di Ginevra (IHEID). Come molti intellettuali cinesi della sua generazione, ha un piede in diversi mondi: se la maggior parte degli articoli accademici di Xiang sono stati pubblicati in inglese, fa ad esempio parte della redazione di Dushu1ed è ben noto in Cina. Ma Guochuan, il giornalista che conduce l’intervista, è il direttore del quotidiano liberale Caijing.2.

Questa intervista3, pubblicato all’inizio della pandemia, nell’aprile 2020, si distingue principalmente per le aspre critiche di Xiang alla “diplomazia dei guerrieri lupo”, termine usato per descrivere le risposte molto combattive della Cina agli attacchi stranieri sulla gestione della pandemia di coronavirus. Il termine “guerriero lupo” si riferisce a due film di guerra d’azione, Wolf Warrior (2015) e Wolf Warrior 2 (2017), che presentano battaglie tra un’unità d’élite dell’Esercito popolare di liberazione (chiamata, appunto, i lupi guerrieri) e vari gruppi di mercenari, tra i quali spiccano gli americani.

Questi film hanno avuto un immenso successo popolare in Cina, paragonabile ai successi di Hollywood che celebrano la guerra e il patriottismo negli Stati Uniti. Uno dei rappresentanti emblematici di questa diplomazia guerriera-lupo è il portavoce del Ministero degli Affari Esteri, Zhao Lijian赵立坚 (classe 1972), che è arrivato a diffondere l’idea che sia l’esercito americano a diffondere il virus a Wuhan. Questi stessi guerrieri lupo hanno più recentemente fatto un passo indietro in risposta alle richieste di responsabilità, persino di rettifica, che sono arrivate da più parti.4.

La diplomazia dei guerrieri lupo, secondo Xiang, sta contribuendo alla destabilizzazione dell’ordine mondiale in un momento in cui la Cina si è in qualche modo convinta, attraverso affermazioni propagandistiche del Partito, della superiorità del “cinese modello”. Xiang ne attribuisce la maggiore responsabilità al giornalista britannico di sinistra Martin Jacques, il cui bestseller del 2009, Quando la Cina governa il mondo, ha entusiasmato i lettori cinesi, soprattutto perché è stato scritto da un occidentale. La responsabilità è in realtà condivisa con l'”accademico” cinese Zhang Weiwei 张维为 (nato nel 1957), che ha riconfezionato l’idea di Jacques per diventare il campione ufficiale delle virtù dello “Stato di civiltà” unico della Cina. Il disprezzo di Xiang per Zhang (che non cita nell’intervista) è palpabile e sembra condiviso da molti altri intellettuali liberali cinesi. Comunque sia, il punto di vista di Xiang è questo: continuare su questa strada corre il rischio che la Cina distrugga l’ordine mondiale che ha consentito la realizzazione del “sogno cinese”, apparentemente senza riguardo alle conseguenze, militari o economiche che questo comporterebbe.

Le osservazioni di Xiang sono interessanti perché la sua posizione di cinese che lavora all’estero gli consente un candore che i suoi compatrioti nella Cina continentale non possono permettersi. Altrimenti, le sue opinioni concordano ampiamente con quelle di altri liberali cinesi della sua generazione, che sono orgogliosi dell’ascesa della Cina ma continuano ad aderire a molti dei valori universali dell’Illuminismo. In una delle sue prime risposte all’intervista, Xiang ha osservato: “Ho lasciato la Cina 37 anni fa e non ho mai preso un nome straniero o acquisito un passaporto straniero. Oltre allo studio e all’insegnamento, ho dedicato tutti i miei sforzi al miglioramento delle relazioni tra Cina e Stati Uniti, Cina ed Europa.

NON C’È BISOGNO DI COMBATTERE COME UN “GUERRIERO LUPO”

La diffusione del coronavirus nel mondo ha suscitato molte riflessioni. In un articolo pubblicato all’inizio di aprile 2020, Henry Kissinger ha predetto che la pandemia avrebbe cambiato per sempre l’ordine mondiale.5. Come accademico che ha studiato a lungo le relazioni internazionali, condividi la sua opinione?

Xiang Lanxin

Per un certo periodo sono stato Henry Kissinger Fellow presso la Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti e ho discusso molte volte con lui la complessa questione delle relazioni USA-Cina. Kissinger è un grande pensatore strategico e ha una visione unica dei cambiamenti e delle tendenze in via di sviluppo nel sistema globale. Sono sostanzialmente d’accordo con lui su questo punto. Ma in sintesi, ciò che più mi preoccupa non sono le istituzioni dell’ordine internazionale esistente, quanto piuttosto la tendenza al calo della fiducia tra le principali nazioni, e in particolare tra Cina e Stati Uniti, che raggiunge un punto di non ritorno.

A mio parere, l’osservazione di Kissinger è un riflesso del suo modo di pensare generale. Il suo primo lavoro accademico, A World Restored (1957), si è concentrato sul pacifico nuovo ordine mondiale costruito dal Congresso di Vienna nel 18156. Anche se il capo di questo nuovo ordine internazionale non era la superpotenza mondiale (gli Stati Uniti), ma l’impero austro-ungarico, l’accordo durò comunque un secolo. Il fattore chiave di questo successo è stata l’attenta progettazione dell’ordine mondiale, costruito sulla base di un equilibrio di potere tra le maggiori potenze, che ha favorito la fiducia reciproca, tanto che tutte desideravano che questo ordine fosse mantenuto. Questo libro ci permette di vedere i principi guida del pensiero di Kissinger.

Kissinger ha trascorso mezzo secolo cercando di costruire un rapporto armonioso tra gli Stati Uniti e la Cina. Dalla fine della guerra di Corea (1950-1953), non c’è stata praticamente nessuna guerra tra le grandi potenze. Questa guerra contro il coronavirus ha messo in luce gravi distorsioni nella natura umana e la diplomazia irrazionale tra le grandi potenze è diventata la nuova normalità. Già prima della fine della pandemia è iniziata una guerra di “passaggio di palla (甩锅战)” tra le grandi potenze. Discussioni simili a Versailles su “colpa e responsabilità di guerra” hanno indebolito la nostra attenzione sulla lotta contro il coronavirus e discussioni ridicole sulle “riparazioni” sono state persino espresse nei circoli diplomatici. Da appassionato storico e pensatore, Kissinger deve essere estremamente rattristato. Senza la fiducia tra le grandi potenze, qualsiasi sistema pacifico è molto difficile da mantenere. È una scommessa sicura che le tensioni tra Cina e Stati Uniti non faranno che aumentare.

Attualmente, sulla scena internazionale, e in particolare negli Stati Uniti, le persone cercano di “ritenere la Cina responsabile” e persino di pretendere che paghi dei “danni”. Come dobbiamo capire questo?

Dal punto di vista del diritto internazionale, tenere conto di un paese sovrano non ha senso, perché quel paese gode dell’immunità sovrana. È vero che la mancanza di trasparenza nel sistema cinese ha portato all’inizio alla soppressione degli informatori, che di fatto ha rallentato la lotta al virus7. Ma il mondo intero ha assistito agli enormi sforzi e sacrifici fatti dalla Cina dopo la chiusura di Wuhan. Nel complesso, la lotta della Cina contro il virus ha avuto successo. Questa è una tattica politica comune per i leader stranieri che non riescono a trovare capri espiatori. Dovremmo quindi affidarci al giudizio della maggioranza dell’opinione pubblica, e non lasciarci trascinare in dibattiti sulla questione.

La Cina dovrebbe sfruttare il periodo in cui la pandemia continua a imperversare per raccogliere la sfida di riassumere l’esperienza del Paese con il coronavirus. Chiunque riesca prima a produrre un white paper (o una guida pratica) credibile e basato sull’evidenza può quindi trasmettere questa esperienza di lotta al virus ad altri paesi, il che sarebbe un grande vantaggio nella lotta internazionale per la libertà di espressione in il mondo post-pandemia.

Kissinger ha trascorso mezzo secolo cercando di costruire un rapporto armonioso tra gli Stati Uniti e la Cina.

XIANG LANXIN

Tutti i tipi di teorie del complotto sull’origine del virus sono strettamente legate alla questione della “responsabilità”. Tutte le discussioni che sono fiorite su questo argomento sono diventate terreno fertile per controversie diplomatiche.

Sulla questione dell’origine del virus, la Cina non deve essere troppo sulla difensiva, perché è una questione puramente scientifica e nessun altro punto di vista è credibile. Non importa quante teorie del complotto ci siano, nessuna ha credibilità internazionale. In un momento in cui non c’è una risposta definitiva alla domanda sull’origine del virus, la Cina dovrebbe rimanere estremamente cauta, e non c’è assolutamente bisogno di difendersi adottando la postura offensiva del “lupo guerriero”.”. Quanto ai diplomatici, dovrebbero capire come comunicare con la gente comune sulla scena internazionale, e dovrebbero sapere che non si può abusare del diritto internazionale per esprimersi per diffamazione tit for tat (以谤止谤).

Eppure, negli ultimi anni, sembra essere diventato normale che i diplomatici cinesi rispondano immediatamente con parole molto dure, come se non farlo fosse una prova di mancanza di “patriottismo”. Cosa ne pensi di questa diplomazia del “lupo guerriero”?

La maggior parte dei diplomatici cinesi è stata formata in lingue straniere, il che ci dà questa straordinaria immagine dell’Istituto di Lingue Straniere di Pechino come culla della diplomazia cinese. Se i traduttori si prendono cura dei nostri affari esteri, incontreremo sicuramente dei problemi. Anche quando la dinastia Qing (1636-1911) era sull’orlo del collasso, i traduttori non potevano guidare lo Zongli yamen[Ministro degli Affari Esteri]. Le abilità di un traduttore sono determinate dalle abilità linguistiche e dalle reazioni rapide, mentre la diplomazia di grande potere richiede un pensiero strategico a lungo termine e un’attenta capacità di pianificazione. Sarebbe abbastanza facile correggere la cultura del guerriero lupo nel campo della diplomazia: ciò che sarà più difficile correggere è questa stessa cultura nel campo della propaganda straniera.

LE ORIGINI DELLA CULTURA DEL LUPO GUERRIERO

Dal 1989, quando Deng Xiaoping disse che dovevamo ‘tenere basso’8, i diplomatici cinesi hanno adottato una posizione più calma. Perché allora vediamo l’emergere di questa cultura del lupo guerriero? Da dove viene ?

Ciò che ha dato origine alla cultura del guerriero lupo è la “teoria della superiorità del modello cinese”. Questa teoria non ha avuto origine in Cina, ma è stata copiata da un “guerriero lupo straniero”, il famoso giornalista britannico di sinistra Martin Jacques (nato nel 1945). Dieci anni fa Jacques pubblicò un libro intitolato Quando la Cina governa il mondo , che è la fonte dell’arroganza mostrata oggi da alcuni cinesi. All’epoca, la Cina era ancora in una fase in cui prevaleva l’atteggiamento di “tenere un profilo basso”, ma da quando la crescita economica della Cina ha superato quella dell’Occidente, la fiducia del popolo cinese ha iniziato a crescere.

Jacques è un personaggio dei media e un autoproclamato studioso. Molte persone in Cina pensano che ci capisca e la traduzione cinese di Quando la Cina governa il mondo è diventata un bestseller.

Questo libro ha ricevuto molta attenzione ad un livello molto alto, ma la sua base teorica è sbagliata. La sua idea di “la Cina che governa il mondo” è stata in realtà copiata da altre persone. È una versione della teoria dell'”ascesa e caduta delle grandi potenze” o della teoria dell'”evoluzione delle egemonie” che esiste da tempo in Inghilterra e negli Stati Uniti.

A prima vista, molte delle argomentazioni avanzate da James assomigliano a quelle dei missionari gesuiti che vennero in Cina molto tempo fa. Ad esempio, Matteo Ricci (1552-1610) ha elogiato il governo e la cultura cinese durante la dinastia Ming (1368-1644), affermando che la Cina “non è solo un regno, ma un intero mondo a sé stante”. Ma Matteo Ricci ha insistito sul fatto che la cultura cinese e quella occidentale potessero capirsi e coesistere e, appena arrivato in Cina, ha lavorato duramente per imparare la lingua e le tradizioni cinesi. Martin Jacques, invece, non parla cinese e conosce poco la storia e le tradizioni cinesi. Nel suo libro stabilisce un dualismo tra bene e male, in cui la Cina viene presentata come un modello per l’Occidente.

A prima vista, molte delle argomentazioni avanzate da James assomigliano a quelle dei missionari gesuiti che vennero in Cina molto tempo fa.

XIANG LANXIN

Pertanto, l’elogio di Jacques alla Cina e al modello cinese si basa sugli attacchi contro il sistema occidentale.

Durante l’Illuminismo in Europa, nel XVIII secolo, apparve una nuova teoria basata su un antagonismo assoluto tra il bene e il male, il bianco e il nero. Questa teoria, con sfumature profondamente teologiche, rifiutava ogni sistema politico diverso da quello che difendeva, e subordinava la legittimità di un sistema al rovesciamento della legittimità di un altro. L’argomentazione di Jacques rientra in questo stesso paradigma.

La tradizione cinese non ha rifiutato altre tradizioni e sistemi culturali , ma ha invece sottolineato l’importanza delle condizioni locali, come nel detto “L’arancia è un’arancia quando cresce a Huainan, ed è un limone quando cresce”. cresce a Huaibei ” (橘生淮南则为橘, 生于淮北则为枳)9. La tradizione cinese non distingueva tra superiore e inferiore, né c’era l’idea di “colpire l’Occidente per promuovere la Cina (抑西扬中). Questo è il motivo per cui, nel corso della storia cinese, confuciani, buddisti e taoisti hanno convissuto pacificamente per lunghi periodi di tempo e praticamente non ci sono state guerre di religione.

Per quanto riguarda la Cina di oggi, ancora in ascesa, la cosa più importante da coltivare è un’immagine internazionale di tolleranza. Tuttavia, all’interno della Cina, alcuni opportunisti politicamente esperti vedevano la “teoria del dominio della Cina” di Jacques come un nuovo modo per acquisire notorietà. Secondo loro, poiché la Cina è destinata a sostituire gli Stati Uniti come egemone mondiale , il modo migliore per proteggere gli interessi del Paese è resistere all’Occidente adottando la postura del guerriero lupo, e cantare le lodi della superiorità di il modello cinese per “denigrare l’Occidente e promuovere la Cina”. Non si rendono conto che questo modo di pensare non ha nulla a che fare con la realtà, e allo stesso tempo tradisce la tradizione cinese.

NON DISTRUGGERE PUBBLICAMENTE IL TUO NEMICO (棒杀) E NON “AUTODISTRUGGERSI ATTRAVERSO UN’ECCESSIVA AUTOPROMOZIONE” (捧杀)10

Jacques sviluppò una “teoria dello stato di civiltà” e divise le nazioni sovrane odierne in due campi: “civilizzato” e “nazionale”. In questo paradigma esisterebbe solo la Cina sia come “civiltà” che come “stato-nazione”11. Ha affermato che i problemi che devono affrontare questi due tipi di paesi sono fondamentalmente diversi. 

La “teoria della civiltà-stato-nazione” è una finzione totale e non regge affatto a livello scientifico. Jacques afferma che la Cina è l’unico “stato-nazione” e “civiltà” esistente e che deve quindi beneficiare di un trattamento culturale privilegiato nel mondo. Infatti, nel mondo di oggi, è impossibile dividere i paesi in “civiltà” e “stato-nazione”. In qualunque modo la si guardi, la Cina è una combinazione dei due. Inoltre, questa teoria distorce lo spirito di base della tradizione cinese. Non c’erano “valori universali” nella tradizione cinese e questa tradizione non distingueva tra culture superiori e inferiori.

Nell’ultimo decennio, alcuni uffici governativi hanno attivamente promosso una cultura del guerriero lupo nei loro rapporti con gli stranieri e hanno formato un corpo di “guerrieri lupo propagandistico”. La base della teoria della superiorità del modello cinese che promuovono è la stessa assurdità dell’idea di una “civiltà stato-nazione”. Dal momento che dicono senza mezzi termini che la Cina è l’unico vero “stato-nazione”, l’unica vera civiltà, ciò significa che i paesi occidentali possono essere solo delle semplici “forme meno avanzate di stato-nazione”. In realtà, la ricchezza della civiltà umana beneficia dello scambio e del dialogo tra le culture. Se tutto l’Occidente risulta essere senza “civiltà”, allora la logica impone che tutto al di fuori della Cina sarebbe territorio barbaro,

Martin Jacques elogia il modello cinese e cerca anche di definirlo, affermando che è sorto sullo sfondo della crisi finanziaria globale del 2008.

In termini di metodologia, questo argomento è l’esatto opposto del pensiero alla base della riforma e dell’apertura della Cina del 1978, che consiste nell’aderire alla tradizione e “cercare la verità dai fatti”12, come in detti come “attraversare il fiume sentendo i sassi”13e l’argomento del “gatto” di Deng Xiaoping14. Questa argomentazione rende i cinesi aderenti all’ontologia dello stesso tipo degli occidentali.

La Cina non ha una tradizione ontologica, e non è così che i cinesi vedono le cose. Una classica formulazione cinese sarebbe piuttosto “dov’è la via?” »15. L’obiettivo del gioco di Jacques, che dipinge la Cina come una “civiltà-stato-nazione”, è infatti quello di condurre le discussioni sulla Cina nell’impasse dell’ontologia occidentale. Quando i cinesi iniziano a pensare ontologicamente, discutendo “qual è il modello cinese”, hanno già perso la strada ( dao o tao nella filosofia cinese). Perché una volta che un “modello” ha una definizione, allora devi supportare il modello, il che porta necessariamente all’autopromozione.

Tuttavia, non si può ignorare che la teoria di Jacques era molto popolare in Cina ed è stata accreditata da molti uffici governativi e università.

Per i cinesi, la “novità” di Jacques era che l’idea del “dominio cinese” proveniva da un Occidente egocentrico. È un ragionamento che gli piaceva, ma rimane uno stile di analisi che ritrae l’Occidente e la Cina come antagonisti. Il fatto che Jacques, venendo da sinistra, lanci l’idea che “la Cina sfida l’ordine mondiale” farà danni infiniti.

C’è una tradizione in Occidente di mettere alla gogna la Cina nella pubblica piazza. Questo continua oggi nonostante il potere della Cina. I neoconservatori americani non hanno mai abbandonato l’idea della “minaccia cinese”. Ma da un’altra prospettiva, ciò che è più difficile da affrontare è che la Cina si fa male promuovendosi eccessivamente. Essere attaccati in pubblico non è un problema, perché tutto è noto e la verità verrà alla luce. Ma indulgere in fantasie di auto-glorificazione non è la stessa cosa, poiché coloro che sono elogiati dimenticano facilmente chi sono, o addirittura si perdono in sogni irrealizzabili. Attualmente, ci sono un certo numero di cinesi che stanno “rileggendo” con entusiasmo la cultura cinese con l’obiettivo di reinventare il “modello cinese”. Sono tutti manipolatori

I neoconservatori americani non hanno mai abbandonato l’idea della “minaccia cinese”. Ma da un’altra prospettiva, ciò che è più difficile da affrontare è che la Cina si fa male promuovendosi eccessivamente.

XIANG LANXIN

Da quello che vedo, non sono solo “lupi guerrieri alieni”. Abbiamo anche il nostro…

I lupi guerrieri di qui e altrove hanno una cosa in comune: sono molto tecnici e non hanno niente nella testa. Con ‘tecnico’ intendo che sono specializzati nell’opportunismo, che sanno sempre da che parte tira il vento e che hanno occhi solo per i loro superiori. Quando parlano del mondo esterno attaccano le culture straniere e quando parlano di affari interni usano il nazionalismo estremo per frodare le masse popolari. Ma nonostante tutto il rumore che fanno, sono sempliciotti. Non portano nulla di nuovo, non hanno posto sulla scena internazionale e sono odiati dagli accademici tradizionali. Questo perché non hanno basi scientifiche, moralità o background.

Ad esempio, l’opinione pubblica cinese ha scambiato Martin Jacques per qualcuno di grande influenza internazionale, quando in realtà è solo una figura marginale che ha scritto un bestseller e non ha posto nel mondo accademico. Quando i giornali cinesi lo hanno chiamato pubblicamente professore di scienze politiche a Cambridge, penso che lo stesso Jacques fosse probabilmente imbarazzato. C’è un altro individuo cinese che è stato un interprete di lunga data per le Nazioni Unite a Ginevra, e che è stato il primo a copiare la teoria della civiltà di Jacques, che ha usato per esaltare la superiorità della Cina sui cieli, e che ha cercato di dimostrare con resoconti di viaggi all’estero che nessuno poteva verificare16. Tale persona, il cui curriculum include un lavoro part-time presso una scuola straniera non riconosciuta dal sistema di istruzione superiore (nota come “scuola del pollo selvatico”17), divenne tuttavia un famoso professore in una famosa università cinese18 !

Allora, qual è la tua opinione su questa “autodistruzione attraverso un’eccessiva autopromozione”?

Sia dal punto di vista della metodologia che dell’opinione pubblica internazionale, “l’autodistruzione attraverso un’eccessiva autopromozione” è stupidità di alto livello (高级黑). Danneggia l’immagine internazionale della Cina e il popolo cinese dovrebbe mantenere un alto grado di vigilanza nei suoi confronti. Dovresti sapere che nella tradizione cinese, la legittimità politica era un concetto dinamico, sempre in evoluzione, un processo di movimento continuo, e non aveva nulla a che fare con una definizione ontologica occidentale. Nel contesto attuale, la legittimità del PCC è definita dalle sue conquiste politiche e non ha nulla a che fare con alcun modello.

Il tentativo di costruire un cosiddetto “modello cinese”, per promuovere teorie sull’unicità della cultura cinese o sulla superiorità del sistema tra le persone, è contrario alla tradizione cinese e non è coerente con i fatti. Prendendo come esempio la lotta contro il coronavirus, nessuno può negare l’enorme impresa che il popolo cinese ha realizzato sconfiggendo il virus, ma le parole e il comportamento dei diplomatici e dei propagandisti cinesi hanno suscitato il disprezzo dell’opinione pubblica mondiale. Da un lato, questi guerrieri lupo hanno colto l’occasione per propagandare il “modello cinese” al mondo, pubblicizzando pubblicamente la sua superiorità e insistendo sul fatto che il modello di governo dei paesi occidentali è allo stremo e sarà presto rovesciato, e che la vera natura degli Stati Uniti,

Questo tipo di arroganza è privo di fatti e manca di umanità; danneggia gravemente l’immagine internazionale della Cina. D’altra parte, usano i social media e le conferenze stampa per impegnarsi in attacchi e critiche invettive e indiscriminate dal mondo esterno, e persino i siti web del governo diffondono pubblicamente teorie del complotto. Il terzo problema è quello delle parole e dei comportamenti arroganti e del disaccordo con le misure del coronavirus adottate da altri Paesi. Quando i diplomatici cinesi chiedono costantemente, direttamente o indirettamente, al resto del mondo di ringraziare la Cina, non sorprende quindi che crei una cattiva impressione.

UNA “TEORIA DELL’ASCENSIONE PACIFICA” DIFFICILE DA SOSTENERE

Al di fuori del governo, molte persone sono interessate alle questioni diplomatiche. Ma altri pensano che queste questioni dovrebbero essere lasciate agli specialisti delle relazioni internazionali. Qual è la tua opinione su questo spartito?

In passato, su questi temi facevamo affidamento sull'”opinione pubblica (舆论)”; il popolo non faceva commenti oltraggiosi sugli affari internazionali perché questi argomenti non erano considerati “banali”, e questo era ancor più vero per la diplomazia e importanti questioni militari. La società si è evoluta e negli ultimi anni la posizione internazionale della Cina ha guadagnato slancio e il grado di trasparenza riguardo alla politica internazionale non è più lo stesso. Ad un certo punto, i commentatori di affari internazionali hanno cominciato a moltiplicarsi come torte calde. Negli ultimi vent’anni, il “commento internazionale” in Cina è diventato un esercizio popolare a cui tutti partecipano.

Certo, è positivo che tutti siano interessati alle questioni internazionali, ma sembra difficile elevare il “commento internazionale” al di sopra di qualcosa come la “selezione dei titoli”. In Cina, il “commento internazionale” di massa è condotto principalmente da un quotidiano sensazionalista chiamato Global Times . Purtroppo, io stesso ho già scritto per questo giornale. Ma allora c’erano dibattiti e discussioni accademiche, mentre oggi è una pubblicazione completamente populista. Questo giornale guida da tempo la vendetta della folla in una direzione nazionalista e le conseguenze che ciò avrà non devono essere prese alla leggera.

Man mano che il “commento internazionale” si è infiammato, anche il campo accademico delle relazioni internazionali si è trasformato, diventando improvvisamente un argomento popolare.

Dobbiamo ammettere che il campo delle “relazioni internazionali” in Cina, come le scienze politiche o l’economia, sono “alberi senza radici, un fiume senza una fonte”. Gli studiosi cinesi non avevano basi teoriche e quindi nessun modo per distinguersi. E quando questo campo, per sempre incuneato tra giornalismo e scienze umane, è diventato improvvisamente un “campo di studio popolare”, è stato solo per via della parola “internazionale”.

In effetti, il campo delle relazioni internazionali rimane alquanto problematico, poiché le fonti di informazione degli specialisti sono di gran lunga inferiori a quelle dei diplomatici in prima linea e, nella loro torre d’avorio, le relazioni internazionali mancano del rigore accademico di altre discipline. Quindi, a livello accademico, hanno difficoltà a trovare il loro posto e, a livello internazionale, hanno solo poca influenza: sono solo la ripresa di altri lavori accademici occidentali. È un paradosso: nel contesto storico dell’ascesa al potere della Cina, le relazioni internazionali sono diventate per essa sempre più importanti; eppure è rimasto al livello di riciclare le teorie occidentali sulle relazioni internazionali, copiando concetti e discorsi occidentali,

Sullo sfondo della rapida ascesa della Cina, ci sono quelli nel campo delle relazioni internazionali che sostengono che la diplomazia cinese dovrebbe essere più dura, mentre altri sostengono la dottrina di Deng Xiaoping del “fare di basso profilo”. I dibattiti su questo tema nella società cinese sono piuttosto vivaci. Come vedi questo dibattito?

In effetti, al momento, la questione non è se essere duri o meno, ma piuttosto presentare bene il caso della Cina. Tutti conoscono la storia della Cina dall’attuazione della politica di riforma e apertura, non c’è bisogno di soffermarci su di essa. Ma la conoscenza della Cina del mondo esterno rimane parziale e finiamo per sollevare dubbi sulle nostre intenzioni all’estero.

In questo momento, la domanda non è se essere duri o meno, ma piuttosto presentare bene il caso della Cina.

XIANG LANXIN

Ad esempio, i ministri del Partito hanno promosso attivamente la teoria dello “shock cinese”, che ha causato una sorpresa globale.19. Che colpo ? Non è altro che giocare con le regole dell’attuale sistema mondiale. Che lo “shock” sia un evento naturale o un tentativo attivo di sovversione, dobbiamo renderci conto che l’ascesa della Cina è il risultato dello sforzo collettivo del popolo cinese che ha costruito decenni di un ambiente esterno pacifico. Non c’è assolutamente bisogno di sconvolgere il sistema mondiale. Anche dal punto di vista della politica nazionale, tali discorsi sono estremamente pericolosi. Abbiamo appena raggiunto lo status di superpotenza e tuttavia stiamo pubblicamente abbandonando il nostro atteggiamento di “tenere un basso profilo”. Il nostro esercito è impreparato, eppure ci presentiamo come la potenza dominante. Come potrebbe il resto del mondo non avere paura?

Forse la teoria dell'”ascesa pacifica” della Cina è più rilevante della teoria dello “shock cinese”?

Quando si discute di concorrenza tra grandi potenze, non dovremmo concentrarci su scambi e dibattiti all’interno del quadro teorico di altre potenze (occidentali). La nostra preoccupazione non dovrebbe essere la “trappola di Tucidide”, ma piuttosto la “trappola del concetto” – e la “teoria dell’ascensione pacifica” è una di queste. Quando la teoria dell'”ascensione pacifica” era di gran moda, accettai l’invito del Washington Post e scrissi un lungo editoriale che sottolineava i difetti significativi della teoria.

Da un punto di vista scientifico, “pacifico” è un avverbio che modifica l’azione di “sorgere”, ma la parola “sorgere” in cinese è in contraddizione con “pace” e ha il significato di “rompere il sistema esistente”, come l’ascesa di una montagna dopo un terremoto. In altre parole, “pace” e “elevazione” si contraddicono a vicenda.20. Questa teoria riflette la psicologia di un piccolo paese, che erroneamente immagina che un grande paese plasmi la propria politica estera in modo indipendente, illustrando la mancanza di una comprensione fondamentale della logica della geopolitica internazionale.

L’idea di una pacifica ascesa non potrebbe essere utile a livello puramente strategico?

Strategicamente, ogni grande potenza che sta vivendo cambiamenti significativi nel suo status internazionale dovrebbe astenersi dal parlare di “ascesa”. Da un punto di vista storico, nessun grande potere ha dato grande importanza alla discussione dei mezzi con cui è sorto al momento della sua ascensione. In primo luogo, se elabori i mezzi con cui “rialzi”, inevitabilmente ti troverai di fronte a domande sulle politiche che utilizzerai quando sarai in declino. In secondo luogo, proclamare unilateralmente che non utilizzerai mai la forza militare per risolvere alcun conflitto internazionale non solo non convince i partner stranieri, ma crea anche dilemmi per te stesso.

Il motivo per cui ho detto che la teoria dell'”ascesa pacifica” riflette la mentalità di un piccolo paese è che presuppone che ci sia una soluzione diplomatica a qualsiasi conflitto internazionale. È veramente l’ideale più alto della visione del mondo [espresso da Laozi, padre fondatore del taoismo, in Il classico della via e del potere ], ovvero che “sebbene i suoni di galli e cani siano uditi da un [villaggio] all’altro, il gli abitanti dell’uno non visiteranno mai l’altro, anche se invecchiano e muoiono”21. L’idea di una “ascesa pacifica” non è sostenibile né ora né in futuro, e la Cina non può evitare la realtà o persuadere il mondo con argomentazioni “pacifiche” su come opera all’interno della governance globale.

L’idea di una “ascesa pacifica” non è sostenibile né ora né in futuro, e la Cina non può evitare la realtà o persuadere il mondo con argomentazioni “pacifiche” su come opera all’interno della governance globale.

XIANG LANXIN

Come vede il dibattito sullo scontro di civiltà nel contesto delle relazioni Cina-USA. Questo conflitto è necessario?

Alcuni anni fa, lo “scontro di civiltà” di Huntington non aveva posto nel mainstream delle relazioni estere americane. Il fatto che alcuni americani ne parlino di nuovo è in realtà una forte risposta ad argomenti come quello cinese sulle “grandi e piccole civiltà”.

Il dibattito non è una brutta cosa. Perché non è solo un dibattito accademico, ma piuttosto idee di governance globale. Ciò che dovrebbe essere chiaro è che le idee cinesi e straniere sulla governance interna e internazionale sono in realtà diverse, ma ciò non dovrebbe dar luogo a conflitti. Se vogliamo chiarire la visione cinese della governance globale, la questione chiave è la differenza tra la concezione cinese e quella straniera dell’ordine mondiale.

Nel mondo anglosassone, attualmente governato dagli Stati Uniti, le discussioni sull’ordine mondiale tornano sempre alle teorie dell'”ascesa e caduta delle grandi potenze”, che ebbe origine nel 19° secolo con lo storico Edward Gibbons e la sua opera The Ascesa e caduta dell’Impero Romano . Ha sottolineato che la distribuzione del potere era basata sulla forza nazionale, il che significa che ciò che determina se l’ordine mondiale è stabile o meno è meccanico e immutabile. Ciò ha avuto un enorme impatto sulla politica estera americana. Dopo la seconda guerra mondiale, gli americani adottarono la teoria dell ‘”egemonia stabile” e promossero la “pace americana”. La “trappola di Tucidide” è una versione più recente.

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Qual è la versione tradizionale cinese della governance?

Se diciamo che la visione occidentale dell’ordine mondiale si basa sulla distribuzione del potere nazionale, ciò che il sistema vestfaliano chiama “ordine” in opposizione a “disordine” e nel senso di dover scegliere tra l’uno e l’altro, allora il tradizionale La visione cinese della governance si basa su una logica in cui “ordine” e “caos” convivono in un reciproco rapporto di scambio.

Prendi l’esempio del controllo dell’acqua. Ci sono fondamentalmente due modi per controllare l’acqua. Il primo è costruire dighe sempre più alte per evitare che l’acqua trabocchi, che è l’idea di base della politica americana della Guerra Fredda [contenimento ] . Il secondo è cambiare la direzione della corrente. Le dighe hanno sempre, alla fine, un limite. Lavorare sulla direzione della corrente è la migliore strategia a lungo termine.

Pertanto, la tradizionale strategia di governance cinese contraddice sia la teoria dell'”ascesa e caduta delle grandi potenze” sia la teoria dell'”egemonia stabile”. La Cina deve implementare sistematicamente la propria visione della governance globale. La missione più importante della Cina, che cerca di integrare pacificamente l’attuale ordine mondiale, è quella di fornire una visione relativamente chiara e positiva del suo modo di pensare. Da una prospettiva a lungo termine, il tema principale delle relazioni estere della Cina dovrebbe essere la comprensione interculturale e la comunicazione di civiltà.

FONTI
  1. Dushu (读书, letteralmente “leggere”) è una rivista letteraria mensile influente nei circoli intellettuali cinesi.
  2. Caijing (财经) è una rivista indipendente con sede a Pechino che copre fenomeni politici, sociali, ecc.
  3. 相蓝欣, intervista di 马国川, “著名国际政治专家 相蓝欣教授:反思战狼文化,呼唤文明沟通”, 30 aprile 2020.
  4. Vedi in particolare le dichiarazioni degli ambasciatori cinesi nei paesi europei, ad esempio l’ intervista a Lu Shaye su BFMTV .
  5. Henry Kissinger, “La pandemia di coronavirus altererà per sempre l’ordine mondiale”, Wall Street Journal , 3 aprile 2020
  6. Henry Kissinger, Un mondo restaurato: Metternich, Castlereagh e i problemi della pace, 1812–22, 1957.
  7. Si fa qui riferimento al caso del primo famoso informatore del dicembre 2019, il dottor Li Wenliang.
  8.  Letteralmente “tieni la luce sotto il moggio” (韬光养晦). Nel contesto del dopo Guerra Fredda e del dopo Tienanmen, queste sono le parole pronunciate da Deng Xiaoping nel 1992 che sono all’origine della sua strategia diplomatica di “tenere basso il profilo”. Agli occhi della Cina, è meglio che il Paese nasconda i propri beni, soprattutto in risposta alle “interferenze” degli Stati Uniti che avevano deciso di sospendere le vendite di equipaggiamenti militari dalla Cina dopo gli eventi di Tienanmen, per reagire meglio in seguito.
  9. Huaibei e Huainan sono due grandi città nell’entroterra della provincia dell’Anhui, situate a nord ea sud l’una dall’altra. La loro vicinanza geografica evidenzia l’importanza delle condizioni microlocali in Cina: sebbene i frutti che crescono in queste due città geograficamente vicine sembrino simili, il sapore dei frutti è diverso.
  10.  棒杀: picchiare a morte qualcuno, 捧杀: letteralmente lusingare a morte qualcuno facendolo sentire compiacente
  11.  Nota dell’autore: in effetti, ci sarebbe una civiltà, la Cina, e il resto del mondo sarebbe versioni meno evolute dello stato-nazione. In altre parole, agli occhi della Cina, è l’unico paese al mondo in cui la civiltà coincide ancora con un moderno stato-nazione.
  12. “Cercare la verità dai fatti” (实事求是) è uno dei principali slogan del periodo maoista che promuove una visione realistica delle riforme ed è alla base dell’ideologia socialista cinese.
  13.  Questo proverbio cinese è un riferimento alla politica sperimentale della Cina durante il decennio di apertura che inizia dal 1978 con l’attuazione di misure graduali sugli investimenti esteri, sulle privatizzazioni e sull’apertura del mercato in generale. .
  14. Riferimento alla famosa citazione di Deng Xiaoping (1961) “Non importa se un gatto è bianco o nero, se cattura i topi, è un buon gatto”. In altre parole, non importa l’ideologia o la nazionalità degli imprenditori purché contribuiscano allo sviluppo economico della Cina. Ciò rientra nel contesto delle riforme di apertura difese da Deng già nel 1978.
  15. Concetto maestro del taoismo, la via si traduce in Dao o tao (道). Il taoismo è una delle tre grandi filosofie cinesi (con Buddismo e Confucianesimo) che pone al centro la via, il sentiero come principio fondante all’origine di tutto.
  16. Xiang fa riferimento a Zhang Weiwei, che iniziò la sua carriera di interprete prima di diventare un noto studioso nella trilogia di opere sull’ascesa della Cina degli anni ’90 (i primi due volumi sono stati tradotti in inglese), in cui prende liberamente in prestito da Martin Jacques . Zhang viaggia anche per il mondo per difendere il modello cinese; molte delle sue conferenze e dibattiti sono disponibili in inglese su Youtube.
  17. Xiang si riferisce alla Scuola di diplomazia e relazioni internazionali di Ginevra , un parente povero dell’Istituto universitario di Ginevra dove insegna Xiang. “Wild Chicken 野鸡” è un termine ampiamente utilizzato per qualcosa che non è brevettato.
  18. Zhang ricopre una posizione presso la Fudan University di Shanghai, l’ alma mater di Xiang , ed è anche preside dell’Istituto di studi cinesi all’interno della stessa università.
  19. Questo è un altro riferimento a Zhang Weiwei. Il titolo del secondo volume della sua trilogia è The China Shock (中国震撼).
  20. Un altro significato di “pace” (平) in mandarino è piatto, che contraddice anche il sorgere.
  21. Traduzione tratta da http://www.fang.ece.ufl.edu/daodejing.pdf , testo numero 80.

https://legrandcontinent.eu/fr/2022/09/10/il-ny-a-pas-besoin-de-se-battre-comme-un-loup-guerrier-une-conversation-avec-xiang-lanxin/?mc_cid=84212e0658&mc_eid=4c8205a2e9

Le conseguenze globali del grande riorientamento strategico dell’Asia meridionale, di Andrew Koribko

Mentre resta da vedere se il Pakistan si trasformerà in modo grottesco dalla “cerniera lampo dell’Eurasia” alla “faglia dell’Eurasia” come si teme, quello scenario è ancora abbastanza credibile da preoccupare seriamente tutte le parti interessate.

Il ruolo centrale dell’Asia meridionale nella grande biforcazione

La transizione sistemica globale al multipolarismo sta portando a profondi cambiamenti in tutto il mondo, in particolare la Grande Biforcazione del sistema precedentemente globalizzato nel Golden Billion occidentale guidato dagli Stati Uniti e nel Sud globale guidato dai BRICS . I complessi processi legati a questo megatrend stanno rapidamente convergendo in Asia meridionale, il che non è un caso. Questa regione geostrategica dell’Eurasia si trova tra la metà occidentale e quella orientale del supercontinente, ponendola così al centro della transizione sistemica menzionata in precedenza che sta spostando il centro di gravità globale dall’Atlantico al Pacifico.

Il precedente stato degli affari

Fino all’ultima fase del conflitto ucraino , provocata dagli Stati Uniti, scoppiata alla fine di febbraio, lo stato delle cose nell’Asia meridionale era relativamente semplice da capire: la decennale rivalità tra India e Pakistan era diventata parte della Nuova Guerra Fredda tra Superpotenze americane e cinesi . Il rafforzamento globale dei legami strategico-militari tra America e India è stato parallelo a quello di Cina e Pakistan. Inoltre, il dilemma di sicurezza cinese-indiano esacerbato dagli Stati Uniti è culminato durante gli scontri tra quei due nell’estate 2020 e quindi sembrava destinato a condannarli per sempre alla rivalità.

Gli osservatori quindi si aspettavano ragionevolmente che queste dinamiche sarebbero rimaste coerenti nel prossimo futuro. Considerando il ritmo e la profondità con cui le partnership strategiche di queste due coppie si erano sviluppate nell’ultimo decennio, e soprattutto tenendo presente come il dilemma della sicurezza cinese-indiana sembrava aver posto queste due grandi potenze asiatiche sulla strada di una rivalità irreversibile che gli Stati Uniti potrebbe facilmente manipolarli per dividerli e governarli perennemente, questa previsione aveva un senso. Sembrava davvero che non ci fossero sorprese serie in serbo per l’Asia meridionale a breve.

Ruoli geostrategici divergenti di India e Pakistan

Tutto ciò è improvvisamente cambiato dopo l’operazione militare speciale che la Russia è stata costretta ad avviare per difendere le sue linee rosse di sicurezza nazionale in Ucraina dopo che la NATO sostenuta dagli Stati Uniti le ha violate. L’America ha immediatamente chiesto all’India di condannare e sanzionare la Russia in solidarietà con il Miliardo d’Oro, sebbene Delhi abbia respinto con orgoglio tutte queste pressioni per difendere i suoi interessi nazionali oggettivi . I grandi calcoli dello stato-civiltà dell’Asia meridionale dovevano rafforzare la sua autonomia strategica nella Nuova Guerra Fredda mantenendo il suo multi-allineamento tra tutti gli attori rilevanti.

Il vicino Pakistan ha tentato qualcosa di simile, anche se purtroppo è caduto vittima di un colpo di stato postmoderno orchestrato dagli Stati Uniti ma guidato a livello nazionale che ha estromesso il suo Primo Ministro multipolare all’inizio di aprile come punizione per la sua politica estera altrettanto indipendente, in particolare la sua dimensione eurasiatica e il rifiuto di ospitare gli Stati Uniti basi o almeno concedere diritti di transito ai suoi droni. Sebbene Islamabad mantenga ufficialmente la sua politica di neutralità di principio nei confronti del conflitto ucraino, la realtà è che le sue autorità golpiste postmoderne sono in pratica prevedibilmente passate sotto il controllo quasi totale degli americani.

Il percorso del Pakistan verso lo status di vassallità

Non solo i talebani (con i quali il Pakistan si trova oggi in un pericoloso dilemma di sicurezza ) li hanno accusati di concedere segretamente diritti di transito al drone statunitense che ha attaccato un presunto obiettivo terroristico a Kabul all’inizio di agosto, ma avrebbero anche spedito munizioni a Kiev attraverso un ponte aereo transnazionale guidato dal Regno Unito. Inoltre, l’agenzia di spionaggio straniera russa sembrava aver suggerito un ruolo indiretto del Pakistan nell’attacco terroristico dell’ISIS-K contro la sua ambasciata nella capitale afgana, anche se solo le loro controparti si erano rifiutate di condividere informazioni rilevanti in anticipo per lasciare che gli eventi si svolgessero astutamente .

L’America sembrava quindi aver premiato i suoi delegati del colpo di stato postmoderno per aver promosso i suoi interessi strategici dopo che il Dipartimento di Stato ha annunciato mercoledì che stava approvando la potenziale vendita di apparecchiature F-16 per un valore fino a $ 450 milioni che erano state congelate sotto l’amministrazione Trump. In quella che non è stata una coincidenza, Cina e India hanno deciso un giorno dopo di disimpegnare reciprocamente le loro forze militari dalla frontiera contesa in quella che è stata una grande riduzione del loro dilemma sulla sicurezza , dovuto al fatto che Pechino ha apprezzato l’orgogliosa dimostrazione di Delhi di strategie strategiche autonomia di fronte alle pressioni statunitensi.

Le mutevoli percezioni della Cina sull’Asia meridionale

È stato a questo punto che è diventato possibile parlare del grande riorientamento strategico nell’Asia meridionale, che è una delle conseguenze più inaspettate della transizione sistemica globale, recentemente accelerata, alla multipolarità. Il precedente stato delle cose in questa regione che gli osservatori avevano finora dato per scontato sta indiscutibilmente cambiando dopo che gli Stati Uniti sono riusciti a ripristinare la loro influenza precedentemente perduta sul Pakistan a seguito del colpo di stato postmoderno da loro orchestrato, che contrasta con il declino dell’influenza degli Stati Uniti sull’India dopo che Delhi ha rifiutato di soddisfare le sue richieste anti-russe.

Questi sviluppi paralleli hanno contribuito a rimodellare la percezione cinese del ruolo che si aspettava che i due paesi più importanti dell’Asia meridionale svolgessero nell’emergente ordine mondiale multipolare. Mentre il Pakistan era stato precedentemente considerato come una risorsa e l’India come un ostacolo, da allora si sono scambiati di posto dopo che gli Stati Uniti hanno ripristinato con successo la loro egemonia sulla prima senza imporla sulla seconda. Fattori correlati sono stati l’India che ha espresso pubblicamente la speranza di aprire insieme il Secolo asiatico con Cina e Russia, sospettando ufficiosamente il Pakistan di un coinvolgimento indiretto nell’attacco dell’ISIS-K all’ambasciata di Kabul.

Tit-For-Tat ma senza intenzioni a somma zero (per ora)

Con il senno di poi, era inevitabile che queste variabili avrebbero portato la Cina a cercare di controbilanciare il “bracconaggio” statunitense del Pakistan migliorando in modo completo le relazioni con l’India, quest’ultima ha dimostrato la sua autonomia strategica e intenzioni sinceramente multipolari. La tempistica dell’accordo sull’equipaggiamento F-16 ripristinato dagli Stati Uniti con il Pakistan e la decisione di disimpegno militare cinese-indiano suggerisce che entrambe le superpotenze hanno previsto con precisione l’inversione del ruolo di quegli stati dell’Asia meridionale nella Nuova Guerra Fredda mesi prima e pianificato di conseguenza, ecco perché i loro sforzi hanno dato frutti più o meno nello stesso periodo.

Tuttavia, il grande riorientamento strategico in corso in questo momento nell’Asia meridionale non deve essere interpretato erroneamente come implicante la creazione di blocchi rigidi o l’ossessione immediata (parola chiave) di qualsiasi partito per le politiche a somma zero. L’India manterrà ancora stretti legami strategico-militari con gli Stati Uniti e continuerà per ora a non essere d’accordo con la Cina su alcune questioni, così come il Pakistan manterrà tali legami con la Cina (soprattutto quelli economico-finanziari tramite CPEC) pur continuando probabilmente ad essere occasionalmente criticato dagli Stati Uniti su alcune questioni interne (anche se questo diventa più raro e molto più mite).

Il significato della previsione strategica

L’importanza nel discutere il potenziale grande riorientamento strategico nell’Asia meridionale è prevedere l’impatto che potrebbe avere sulla più ampia traiettoria della transizione sistemica globale alla multipolarità, che a sua volta può consentire ai decisori di preparare meglio i loro paesi per gli scenari più credibili. Con questo in mente, proprio come la Cina ha risposto al “bracconaggio” del Pakistan da parte degli Stati Uniti attraverso il suo completo miglioramento dei legami con l’India, così anche i progressi della seconda coppia nel fare da pioniere insieme al Secolo asiatico potrebbero essere corrisposti dagli Stati Uniti che sfruttano il Pakistan come ostacolo.

Per non essere frainteso, ci sono ben note faglie preesistenti tra India e Pakistan (per lo più legate all’irrisolto Conflitto del Kashmir ) che occasionalmente portano all’aggravarsi organico di tensioni reciproche che ciascuno accusa sempre l’altro di provocare. Gli Stati Uniti, quindi, non devono svolgere alcun ruolo in questa dinamica poiché di tanto in tanto sono naturalmente decrescenti. Tuttavia, non si può escludere che possa cercare di incoraggiare il Pakistan a violare unilateralmente il cessate il fuoco in vigore dal febbraio 2021 come parte di un piano più ampio per manipolare le percezioni della sua gente sulla Cina.

L’affondamento del cessate il fuoco incoraggiato dagli Stati Uniti in Pakistan

Per spiegare, i pakistani considerano giustamente la Cina come il loro partner più vicino e affidabile in qualsiasi parte del mondo, anche se l’ottica di Pechino che rifiuta di sostenere Islamabad nello scenario che quest’ultima violi unilateralmente il cessate il fuoco con il tacito incoraggiamento di Washington ma incolpa pubblicamente Delhi potrebbe non stare bene con molti. Dopotutto, tutto ciò che è connesso al Kashmir è diventato una parte inestricabile dell’identità pakistana dall’indipendenza 75 anni fa, quindi un bel po’ della sua gente potrebbe essere indotto in errore a rimanere deluso dalla Cina se Pechino non li sostiene sempre su questo tema.

Nonostante la posizione della Cina verso la risoluzione di quel conflitto decennale sia molto vicina a quella del Pakistan, la Repubblica popolare è ancora fermamente contraria a qualsiasi parte che interrompa lo status quo. Ciò significa che Pechino non “tradirebbe” Islamabad non appoggiandola nello scenario in cui il suo regime golpista postmoderno violi unilateralmente il cessate il fuoco con l’incoraggiamento di Washington. Tuttavia, molti pakistani potrebbero ancora essere fuorviati dal momento che è ampiamente considerato patriottico sostenere le loro autorità sul Kashmir indipendentemente dal contesto, il che può fornire un’apertura narrativa per gli Stati Uniti.

Argomenti contro l’India che provocano prima il Pakistan

Gli obiettivi della guerra dell’informazione americana in questo scenario sono diversi, ma prima di raggiungerli, dovrebbe essere brevemente spiegato perché è improbabile che sia l’India a violare unilateralmente il cessate il fuoco. Delhi è fiduciosa che il Global South guidato dai BRICS abbia già concluso che gli Stati Uniti hanno ripristinato con successo il precedente status di vassallità del Pakistan e quindi considerano il suo vicino come se avesse invertito i ruoli con esso diventando il più grande ostacolo regionale alla multipolarità. La violazione del cessate il fuoco fermerebbe anche immediatamente il riavvicinamento cinese-indiano e saboterebbe così lo scenario del secolo asiatico.

Mantenendo lo status quo, tuttavia, l’India calcola che il grande riorientamento strategico dell’Asia meridionale continuerà a procedere rapidamente. Ciò a sua volta accelererebbe la sua ascesa come Grande Potenza influente a livello globale in grado di plasmare la transizione sistemica globale verso il multipolarismo, mentre il ritrovato isolamento regionale del Pakistan determinato dalla sottomissione strategica del regime post-golpe agli Stati Uniti si intensificherebbe. Lasciando semplicemente che gli eventi si svolgano in modo naturale lungo questa prevedibile traiettoria, gli obiettivi nazionali dell’India verrebbero portati avanti senza alcun costo per se stessa, compreso il miglioramento della sua reputazione.

Gli attacchi americani di Infowar contro il partenariato strategico cinese-pakistano

Dopo aver chiarito ciò, è giunto il momento di parlare degli obiettivi della guerra dell’informazione che l’America mirerebbe a raggiungere incoraggiando i suoi delegati pakistani a violare unilateralmente il cessate il fuoco con l’India. Fabbricare artificialmente percezioni negative sulla Cina manipolando l’ottica di quel suddetto scenario rispetto alla falsa insinuazione che la Repubblica popolare abbia “tradito” il Pakistan non sostenendolo durante un altro ciclo di tensioni sul Kashmir è prima di tutto volto a migliorare gli Stati Uniti’ stando agli occhi del pubblico per contrasto.

Questo ha lo scopo di renderli simultaneamente più ricettivi alla crescente conformità del loro regime di colpo di stato postmoderno alle richieste strategiche regionali americane, parallelamente alla produzione artificiale di sostegno popolare per quegli stessi burattini con un finto pretesto patriottico. Per non avere l’intuizione precedente fraintesa o falsata da forze ostili della guerra dell’informazione, non è implicito che il sostegno alla posizione di Islamabad sul conflitto del Kashmir non sia veramente una posizione patriottica per i pakistani. Piuttosto, ciò che viene trasmesso è che ci sono ulteriori motivi per provocare una crisi su di esso.

Lo scenario uigura/Xinjiang

Quelli collegati alle richieste strategiche regionali americane includono il regime di colpo di stato postmoderno che chiude un occhio sulla coltivazione sostenuta dall’estero del sentimento anti-cinese nella società che utilizza come arma le false percezioni sullo Xinjiang al fine di produrre artificialmente il sostegno di base per cambiare la posizione di Islamabad verso quello problema inesistente nel tempo. Lo scopo alla base di ciò è indebolire i loro legami strategici in modo che gli Stati Uniti possano poi prendere il controllo del CPEC e quindi porre l’economia pakistana interamente sotto il suo controllo egemonico, il che perpetuerebbe indefinitamente la vassallità di quel paese.

Lo scenario peggiore sarebbe che il regime di colpo di stato postmoderno appoggiato dagli Stati Uniti alla fine fornisca rifugio (e forse varie forme di supporto) a forze che la Cina considera giustamente terroristi, anche se ciò sembra ancora lontano e può ancora essere compensato molto prima che accada. In ogni caso, il punto per richiamare l’attenzione su questo è descrivere la sequenza di eventi che dovrebbero prima verificarsi, che molto probabilmente sarebbero legati alla manipolazione dell’ottica della Cina che rifiuta di sostenere il Pakistan nel caso in cui quest’ultimo violi unilateralmente il cessate il fuoco con l’India dopo essere stato incoraggiato dagli Stati Uniti.

Mantenere il colpo di stato postmoderno al potere

Il secondo obiettivo della guerra dell’informazione connesso all’ulteriore motivo dietro l’avvio di quello scenario è quello di fabbricare artificialmente un supporto di base per il regime golpista postmoderno con un finto pretesto patriottico. L’ex primo ministro Khan è riuscito selvaggiamente a esporre i suoi sostituti come burattini americani agli occhi della maggior parte dei pakistani, il che spiega perché ha ispirato le più grandi proteste pacifiche nella storia del suo paese e poi ha portato il suo partito a una vittoria schiacciante alle elezioni suppletive del Punjab. Anche se il regime golpista postmoderno lo imprigiona o lo uccide, Dio non voglia, il suo messaggio continuerà a vivere.

Ciò significa che le basi socio-politiche dell’influenza egemonica degli Stati Uniti sul loro vassallo pakistano appena restaurato rimarranno perennemente instabili, cosa che temono possa, nella peggiore delle ipotesi (dal loro punto di vista), alla fine fare una manifestazione moderna dell’antitesi dell’Iran. -Rivoluzione americana inevitabile. Gli Stati Uniti potrebbero facilmente evitarlo ordinando ai loro burattini di tenere elezioni libere ed eque il prima possibile al fine di fungere da valvola di pressione democratica, anche se ciò riporterebbe al potere il loro leader estromesso, dopodiché libererebbe il Pakistan dalla sua nuova stato di vassallo ripristinato.

L’ex primo ministro Khan non è antiamericano come i suoi nemici interni e internazionali lo hanno maliziosamente interpretato, ma filo-pakistano, motivo per cui quasi certamente cercherà di replicare l’equilibrio della vicina India nella Nuova Guerra Fredda coltivando contemporaneamente a vicenda relazioni vantaggiose sia con il Golden Billion dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti che con il Global South guidato dai BRICS. Ciò, tuttavia, è assolutamente inaccettabile per l’America dal momento che l’egemone unipolare in declino ha orchestrato il suo rovesciamento proprio a causa dei suoi grandiosi progetti strategici nella Nuova Guerra Fredda legati all’ostacolo della multipolarità.

Dalla “cerniera lampo dell’Eurasia” alla “faglia dell’Eurasia”

Gli Stati Uniti non rinunceranno mai volontariamente alla loro egemonia appena restaurata sul Pakistan poiché intendono sfruttare il loro tradizionale vassallo allo scopo di ostacolare l’emergente Ordine Mondiale Multipolare nell’Asia meridionale attraverso i mezzi spiegati in precedenza. Va anche da sé che l’America aspira a che il suo fantoccio destabilizzi attivamente anche l’Afghanistan, il che danneggerebbe indirettamente gli interessi di sicurezza di tutte le parti interessate vicine e della Russia . Se il Pakistan alla fine ospita uiguri violenti, lo stato cardine globale potrebbe interrompere la multipolarità a est, ovest e nord.

Questo è esattamente il risultato potenzialmente rivoluzionario che l’America vuole portare avanti nella Nuova Guerra Fredda attraverso la sua “riconquista” del Pakistan e il conseguente grande riorientamento strategico che ha catalizzato nell’Asia meridionale. Lo scopo è trasformare il suo host in una piattaforma unipolare armata per esportare la destabilizzazione nell’Asia meridionale, orientale, centrale e occidentale come la “faglia dell’Eurasia” invece di lasciarle mantenere il ruolo multipolare positivo che aveva precedentemente svolto nel riunire quelle regioni come la “cerniera lampo dell’Eurasia” tramite CPEC+ , come spiegato nella tesi di dottorato dell’autore sulle relazioni russo-pakistane .

Compensazioni di scenario

Per quanto tutto questo suoni terribile, non è comunque inevitabile. ” Il potere del popolo pachistano sconfiggerà il loro impopolare governo importato ” se si terranno elezioni libere ed eque il prima possibile nella remota possibilità che i membri della scuola di pensiero multipolare all’interno dell’establishment pakistano in qualche modo convincano i loro più potenti pro- I coetanei americani lo fanno per ragioni patriottiche. Dopotutto, il ritorno al potere dell’ex primo ministro Khan in quello scenario non porterebbe a risultati “antiamericani” ma puramente filo-pakistani, considerando la sua visione del mondo multipolare e le sue intenzioni equilibranti.

Anche nell’oscuro scenario in cui viene incarcerato o ucciso, Dio non voglia, il suo messaggio continuerà a vivere e ispirerà i suoi compatrioti a continuare la loro ricerca per liberare il Pakistan dalle catene del neoimperialismo. Mettere al bando il più grande movimento nella storia del loro paese dall’indipendenza, per non parlare di perseguitare i suoi milioni di membri o peggio Dio non voglia, indebolirebbe ulteriormente la già molto fragile base socio-politica su cui è costruita l’egemonia restaurata degli Stati Uniti. Ciò significa che il suo crollo è destinato al tempo, anche se non è chiaro se sarà pacifico e/o accadrà prima che vengano inflitti troppi danni regionali.

Pensieri conclusivi

Dopo aver riflettuto su tutto ciò che è stato condiviso in questa analisi, ora non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che un grande riorientamento strategico è attivamente in corso nell’Asia meridionale. È stato catalizzato dalla “riconquista” del Pakistan da parte degli Stati Uniti in seguito al colpo di stato postmoderno che hanno orchestrato e portato al livello successivo dal riavvicinamento cinese-indiano che alla fine è avvenuto in risposta. Mentre resta da vedere se il Pakistan si trasformerà in modo grottesco dalla “cerniera lampo dell’Eurasia” alla “faglia dell’Eurasia” come si teme, quello scenario è ancora abbastanza credibile da preoccupare seriamente tutte le parti interessate.

Capire la dottrina della Cina di Xi Jinping, una conversazione con David Ownby, di DAVID OWNBY

La rivalità fra la Cina e gli Stati Uniti organizza il mondo. La Cina è ovunque e noi non ne sappiamo praticamente nulla. La struttura del nostro dibattito pubblico fa in modo che noi siamo molto più informati sulle dinamiche interne al partito socialista francese rispetto a come funziona il più grande partito al mondo, il Partito comunista cinese. L’ignoranza quasi assoluta del sistema politico cinese, della sua dottrina e delle sue tensioni ci impediscono di riflettere collettivamente a come posizionarci nel mondo che Xi Jinping ha intenzione di creare. Questo è un problema. 

Con la pandemia, la Repubblica popolare Cinese sembra essersi allontanata ancora di più e aver tagliato i ponti con il resto del mondo. A novembre, il XX° Congresso del Partito Comunista Cinese dovrebbe rieleggere Xi Jinping al potere. Mentre l’invasione dell’Ucraina concentra l’attenzione dei media sulla Russia, la vita intellettuale e politica cinese resta sconosciuta. 

Con il Grand Continent, abbiamo deciso di dedicare una nuova serie settimanale – La dottrina della Cina di Xi Jinping – coordinata dal sinologo David Ownby, professore all’Università di Montréal che ha appena tenuto una serie di corsi al Collège de France1, direttore di Voices from the Chinese Century2 e di Reading the China Dream3.

Una volta a settimana, pubblicheremo dei testi chiave, inediti in italiano, contestualizzati e commentati. Come spiega David Ownby: “La Cina è diventata una grande potenza, le idee cinesi sono importanti, quale che sia la loro qualità di fondo. Questa serie ha come scopo di aiutare il pubblico europeo a capirle.”

In questa serie pubblicheremo dei testi, inediti in italiano, tradotti e commentati da lei di “intellettuali pubblici” influenti nella Cina di Xi Jinping. Che cosa intende con questa formula?

Il concetto di intellettuale pubblico – establishment intellettuale secondo la formulazione inglese – può essere inteso in molte maniere. In questa serie, ci concentreremo soprattutto sugli accademici, spesso professori all’università, che, oltre alle loro pubblicazioni specifiche nell’ambito dei loro studi, scrivono anche con l’obiettivo di influenzare la politica del governo e l’opinione pubblica.

Questi intellettuali pubblici in Cina accettano le regole del gioco politico che vengono definite dalle autorità cinesi, il che non significa che fanno da pappagalli alla propaganda del Partito-Stato; al di fuori degli argomenti tabù – lo Xinjiang, Taiwan, Hong Kong, Tibet – c’è un forte dibattito, senza esclusione di colpi, che si svolge costantemente in CIna, e il mondo intellettuale non è poi così “armonioso” come desidererebbero lo autorità cinesi, ma neppure così totalitario come i media occidentali sembrano suggerire.

Ovviamente gli intellettuali pubblici molto raramente sono dei dissidenti, parola che per le autorità cinesi designa chi cerca attivamente di sovvertire il regime. Trovarsi fuori dal sistema i Cina porta a conseguenze severe: la prigione o l’esilio, la perdita quasi totale dell’influenza in Cina. Quindi, utilizzando diverse strategie di scrittura, gli intellettuali pubblici devono trovare dei metodi per segnalare alle autorità la loro fedeltà al progetto del Partito-Stato, pur essendo, con i loro interventi, dei fornitori di contenuti per un regime che molti vorrebbero vedere evolversi in un senso più democratico.

Che relazione hanno gli intellettuali pubblici cinesi con l’Europa e l’Occidente?

Anche se agli inizi del XX° secolo ci fu una grande rottura con la tradizione confuciana, l’immagine che gli intellettuali cinesi hanno di loro stessi rimanda sempre a una forma di continuità e di fierezza con una lunga tradizione percepita come specificatamente cinese.

Con l’allontanamento della Cina dall’ideologia e dalla rivoluzione e il rivolgersi verso il pragmatismo e lo sviluppo economico, lo status degli intellettuali dell’establishment cinese è passato da quello di “preti” al servizio della “chiesa” ortodossa del marxismo-leninismo in chiave maoista a quello di “professionisti” impegnati nel loro ambito, come avviene per gli intellettuali di tutto il mondo.

Gli intellettuali cinesi hanno cominciato a essere influenzati dalle correnti di pensiero esterne. Ormai molto spesso hanno ricevuto una parte della loro educazione in Occidente, specialmente nelle grandi università degli Stati Uniti. Oggi in Cina quasi tutti gli intellettuali pubblici pensano con concetti, categorie o riferimenti che vengono dall’Occidente. Anche chi sostiene il regime di Xi Jinping utilizza le nostre categorie e cita autori occidentali.

Possiamo sorprenderci di come una parte di questi intellettuali usi Carl Schmitt… Carl Schmitt è diventato un riferimento, soprattutto per la Nuova Sinistra, ma l’influenza delle idee occidentali è allo stesso tempo più vasta e più anodina. I Liberali analizzano il movimento Black Lives Matter con dei libri di Samuel Huntington, come “L’incontro delle civiltà”, un libro del 2004 dove dice che gli Stati Uniti perdono la loro identità anglosassone e quindi il loro consenso politico a causa dell’immigrazione di massa, Gan Yang rivisita i testi originali in Greco e in Latino per commentare la trappola di Tucidide, Yao Tang costruisce un “liberalismo confuciano” in risposta alle teorie di Rawls. Non si tratta quindi di riferimenti di nicchia o di autori citati solo per mostrare l’erudizione degli intellettuali cinesi. Ne hanno assorbito il canone…

Questo movimento fa parte della relazione della Cina con l’Occidente dalla fine del XIX° secolo, ma il tutto ha acquisito velocità dopo la stagione di riforme e di apertura.

Questo movimento è abbastanza nuovo. Al punto che talvolta diventa difficile identificare negli scritti dei più importanti intellettuali cinesi contemporanei gli elementi specificatamente cinesi. Anche chi oggi difende un marxismo-leninismo ortodosse, passa da concetti occidentali. Un buon numero di intellettuali cinesi parlano e soprattutto leggono correntemente l’inglese. Essere un buon intellettuale nella Cina di oggi significa essere cresciuto in un mondo globalizzato.

Si tratta di un cambiamento radicale rispetto alla guerra fredda…

Durante la guerra fredda, eravamo abituati a vedere la relazione fra gli intellettuali e le autorità nei regimi comunisti come qualcosa di conflittuale. Ogni intellettuale degno di questo nome era contro il regime e a favore della democrazia, il che ha dato un ruolo fondamentale alla storia della dissidenza e ai dissidenti.

Questa storia esiste ancora in Cina: i soli intellettuali conosciuti fuori dalla Cina sono dei dissidenti come Ai Weiwei e Liu Xiaobo. Ma oltre questo mondo – piuttosto ristretto – dei dissidenti esiste un altro vasto mondo di intellettuali pubblici che sono più importanti dei dissidenti, per la Cina stessa e per i nostri tentativi di capire la Cina.

Per quale motivo?

Gli intellettuali e le idee sono importanti perché la Cina è alla ricerca di una nuova fonte di legittimità politica dopo la morte di Mao e la sua adesione alle “rivoluzione continua”.

Deng Xiaoping ha portato come bandiera il progresso materiale, le riforme, l’apertura e lo sviluppo economico stupefacente della Cina dopo gli anni 1980 sono testimoni della “saggezza” della sua visione. Tuttavia, malgrado le centinaia di milioni di cinesi che non vivono più in povertà negli ultimi decenni, malgrado la trasformazione completa del paesaggio urbano cinese, dei dubbi profondi persistono sull’identità e sul futuro della Cina. Sempre più ci si chiede: quando la Cina avrà sconfitto l’Occidente al suo proprio gioco, diventando la nuova superpotenza planetaria, che cosa ne sarà della “Cina” e della “civiltà cinese”? Gli intellettuali pubblici hanno un ruolo importante nel cercare di rispondere a queste domande.

In che senso?

Negli anni 1980, nonostante delle importanti divergenze di opinioni nello spettro intellettuale e politico, la maggior parte degli intellettuali, anche in Cina, si aspettava che la Cina divenisse una sorta di democrazia. Forse non una democrazia liberale, forse non una democrazia che avrebbe seguito il principio di “una persona, un voto”, ma qualcosa di molto diverso dal modello autoritario/totalitario che caratterizzava la politica cinese dalla rivoluzione del 1949.

Il massacro di Tienanmen e la dissoluzione dell’Unione sovietica hanno posto in dubbio la fede nell’ineluttabilità della democrazia, poiché hanno fatto intravedere che inseguire libertà e democrazia potevano condurre al caos. Il Partito-Stato ha risposto a questa sfida con una serie di misure che hanno come obiettivo una riforma del mercato e della competitività mondiale e, allo stesso tempo, il rafforzamento del regime autoritario. Queste decisioni hanno distrutto il debole consenso “liberale” che aveva caratterizzato gli anni 1980, aprendo al contempo la finestra per un dibattito serio nella comunità degli intellettuali pubblici.

Come si è configurato il dibattito cinese dopo il massacro di Tienanmen?

I “liberali” che avevano dominato le discussioni negli anni 1980 si sono divisi in più gruppi in concorrenza. Alcuni sostenevano che la riforma del mercato non avrebbe solamente reso l’economia più dinamica, ma avrebbe anche fatto scomparire le vestigia dell’autocrazia feudale (e maoista) della Cina, sul piano politico e sociale.

Altri temevano che le forze di mercato avrebbero creato un nuovo capitalismo di convivenza, principalmente oligarchico, che avrebbe arricchito lo Stato e i grandi capitalisti alle spese del popolo. Simili preoccupazioni avevano fatto nascere la “Nuova Sinistra”, un gruppo di intellettuali non liberali che si proponevano di rinnovare il socialismo tramite una lettura creativa  delle tradizioni socialiste e maoiste, unite a un’adesione al post-modernismo occidentale e alla teoria critica.

A destra, un gruppo di intellettuali conservatori dal punto di vista culturale, conosciuti sotto il nome di “nuovi confuciani” denunciava insieme i liberali e la nuova sinistra, insistendo sul fatto che la tradizione cinese, reinventata correttamente, forniva già tutte le risposte che la Cina aveva bisogno per trovare una via stabile per il suo futuro sviluppo. Questi gruppi hanno preso parte a dibattiti dai tratti feroci duranti tutti gli anni 1990.

Questo dibattito continua anche quando Xi Jinping arriva al potere nel 2012?

Assolutamente sì. Anche se i temi e il contesto politico sono cambiati in Cina e a livello mondiale. Agli inizi del XXI° secolo, le riforme e l’apertura hanno prodotto la crescita impressionante della Cina, e si è diffusa l’idea che il ritorno della Cina allo status di grande potenza era un evento mondiale di proporzioni storiche, che avrebbe inaugurato un’era di cambiamenti fondamentali, equivalenti a quando le monarchie hanno fatto spazio alle democrazie o a quando gli Stati Uniti hanno ereditato dalla Gran Bretagna la leadership mondiale. Questo ha spinto gli intellettuali a ripensare i miti fondatori della loro comprensione del passato, del presente e del futuro della Cina e del mondo.

La fiducia nascente della Cina è stata rinforzata dal declino apparente della democrazia liberale occidentale: il blocco del Congresso americano, la crisi finanziaria mondiale del 2008 (come risultato dell’incapacità del governo americano a regolare il settore finanziario), la Brexit e la crescita del populismo in Europa, l’elezione di Donald Trump, il fallimento delle guerre senza fine in Medio Oriente…

E in questo contesto che il presidente cinese Xi Jinping, all’inizio del suo mandato nel 2012, ha parlato di “sogno cinese” (zhongguo meng), insistendo sul rinascimento del grande popolo – la nazione cinese -, come obiettivo strategico di lungo periodo del Partito comunista sotto la sua direzione.

Non si tratta invece di uno strumento di propaganda, di uno vuoto slogan politico?

Il “sogno cinese” è uno slogan politico. Se sembra uno slogan vuoto, è perché il contenuto di questo sogno non è stato specificato e molti intellettuali sono stati più che felici di proporre ciò che mancava.

Da un lato, “il sogno cinese” vuole sfidare “il sogno americano” e suggerire che la crescita della Cina le farà superare gli Stati Uniti, restituendole lo spazio che le appartiene di diritto in quanto potenza mondiale. Tenendo conto dei progressi materiali spettacolari della Cina nell’ultimo decennio, la realizzazione del “sogno cinese” sembra un orizzonte di prosperità possibile per la classe media cinese.

D’altra parte, Xi Jinping vuole che il “sogno cinese” sia specificatamente cinese – anche se può essere un modello per il resto del mondo. Consolidando il suo potere, Xi ha fatto appello a un ritorno all’ideologia che disciplini il partito e motivi il popolo. Questa ideologia deve fondere lo spirito comunista con la ricchezza della civiltà confuciana tradizionale.

Che risposta danno gli intellettuali pubblici a questa proposta?

Gli intellettuali pubblici cinesi hanno risposto con entusiasmo allo sviluppo della Cina e, con poche eccezioni, al “sogno cinese”. La possibilità che la Cina potesse ritrovare il suo status di grande potenza senza essere completamente occidentalizzata è stata, per molti, un’idea elettrizzante, ricca di potenziale per ripensare le basi della modernità.

Il sospetto, nato nel “secolo dell’umiliazione” della Cina, secondo il quale la Cina potrebbe essere inferiore all’Occidente, si fa sempre più raro, rimpiazzato dalla speranza che la legittimità che la Cina cerca dall’era delle riforme e dell’apertura è a portata di mano. Di conseguenza, e malgrado le misure di repressione di Xi Jinping rispetto alla diversità ideologica, la vita intellettuale cinese dallo sviluppo della Cina in poi è particolarmente dinamica, poiché i pensatori concorrono per fornire un contenuto al sogno cinese di Xi Jinping.

Come si è trasformato il ruolo degli intellettuali nel corso di questo periodo? Che ruolo viene lasciato loro da Xi Jinping, dal momento in cui il “pensiero di Xi Jinping” è scolpito dal 2017 nella Carta del Partito comunista cinese, vicino al pensiero di Mao Zedong e alla teoria di Deng Xiaoping?

Dal suo arrivo al potere, Xi Jinping si è trovato confrontato con un pluralismo intellettuale pericoloso per lui, perché si poteva coniugare pluralismo intellettuale e pluralismo politico? Dall’inizio del suo mandato cerca di imporre una disciplina ideologica e intellettuale che ricorda un po’ l’epoca di Mao. Ma il partito non ha più lo stesso livello di controllo, ed esiste tutto un mondo di giornali, riviste, libri e siti web in Cina che sono alla costante ricerca di contenuto “da vendere”.

Se quindi da un lato la vita delle idee in Cina ristagna un po’ rispetto agli anni 2000 e che molti intellettuali si sono fatti più moderati, la maggior parte continua a scrivere senza menzionare Xi Jinping e il suo pensiero. Allo stesso modo, lo sviluppo della Cina nel corso degli ultimi decenni ha creato delle forze economiche che rischiano di sfuggire al controllo del Partito-Stato, anche le “forze intellettuali” hanno la loro indipendenza.

Come si è evoluta la definizione del sogno cinese durante la pandemia da Covid-19?

Come sappiamo, le origini della pandemia si trovano in Cina. Ma il modo in cui la Cina ha messo in campo risorse per controllare la pandemia ha confortato i cinesi nell’idea che il loro governo sia superiore a quello che si può trovare altrove. La gestione della prima ondata da parte di XI Jinping ha aumentato la legittimità del partito. I Cinesi hanno potuto vedere con i loro occhi il costo disastroso della libertà. Il loro regime era superiore, più efficace.

Da meno di un anno, il resto del mondo ha però preso un’altra decisione, quella di vivere con il virus. La Cina, per ragioni largamente politiche, è rimasta sulla politica di tolleranza zero, che diventa sempre più difficile da difendere per più ragioni. La Cina vive del commercio estero. Di conseguenza, quando chiude le sue frontiere e limita il numero di persone che possono essere accolte, si da la zappa sui piedi, mettendosi in difficoltà. I Cinesi sono coscienti del terribile impatto della pandemia sulla loro economia. I coprifuoco molto stretti come quello che si è svolto a Shanghai sono sempre più difficili da far accettare dalla popolazione cinese.

La politica zero-covid è un disastro economico, sembra sempre meno giustificata per delle ragioni sanitarie e ha un costo politico sempre più evidente. Perché allora gode di un’inerzia così grande?

Qualche mese fa, la politica di tolleranza zero verso il Covid era giustificata dal governo cinese per il fatto che molti anziani in Cina non avevano il vaccino. C’era dunque un rischio che numerosi Cinesi morissero. Se negli Stati Uniti di Donald Trump l’idea di lasciar morire centinaia di migliaia di persone a causa del Covid era comprensibile nel discorso pubblico o in un contesto liberale o libertario, in Cina il governo ha una forte responsabilità nel proteggere la salute della popolazione. Se si immagina che la Cina abbandoni la sua politica zero-covid e che il Covid faccia disastri come ha fatto nel mondo negli ultimi anni, lo svolgimento del Congresso potrebbe essere messo in discussione. Xi Jinping però vuole a tutti i costi ottenere il suo terzo mandato. Il suo potere è abbastanza solido ma se dovesse esserci un aumento del numero dei morti, questo indebolirebbe la sua posizione e dovrebbe risponderne alla popolazione cinese. Sicuramente ciò non sarebbe sufficiente a indebolirlo a tal punto da lasciare il suo posto, ma potrebbe avere conseguenze abbastanza difficili da gestire in un momento delicato per lui. Si tratta quindi di una questione molto politica. E’ facile pensare che dopo il XX° Congresso del Partito comunista cinese in autunno il regime abbandonerà progressivamente la politica zero-Covid.

Il XX° Congresso del partito comunista a novembre sarà un momento cruciale dei prossimi mesi. La riconferma di Xi Jinping le sembra probabile? Che cosa significa la soppressione del limite di mandati riguardo ai progetti di Xi Jinping e più in generale per il regime politico cinese?

E’ una questione molto importante. Ammetto di non conoscere esattamente quali assi politici Xi Jinping abbia nella manica. Pensavo che la Cina avesse imparato la lezione della storia e dell’esperienza di Mao Zedong. Per altro, non sono davvero convinto che l’insieme della popolazione cinese pensi che la sua riconferma sia una buona idea. Gli intellettuali pubblici non mostrano alcuna forma di resistenza ma c’è chiaramente poco entusiasmo.

Come si esprimono queste esitazioni?

Xi Jinping ha investito molto sul suo pensiero e sugli sforzi per imporre più disciplina. La maggior parte degli intellettuali cinesi però non sono troppo convinti e continuano a proporre piste alternative, come per esempio un liberalismo-confuciano. Ci sono molti dibattiti. Se Xi Jinping lascia intendere che la linea è chiara e il quadro ben definito, gli intellettuali non sembrano così convinti.

La Cina è molto meno libera rispetto a prima dell’ascesa di Xi Jinping. Nei primi anni del XXI° secolo si poteva leggere, in pubblicazioni importanti, che la rivoluzione aveva perso il suo significato e che bisognava inventare qualcosa di nuovo. Gli stessi dibattiti presenti prima dell’arrivo di Xi Jinping continuano ma sono più moderati e discreti. Xi Jinping crede di aver trovato la formula che determinerà la direzione della Cina e del mondo. Tuttavia, non sono sicuro che riuscirà a convincere il semplice cittadino cinese.

Per quali motivi?

Credo che riguardi gli effetti della politica di riforme e di apertura sulla mentalità degli intellettuali cinesi. Pensano con categorie e concetti occidentali. Sotto Mao Zedong, c’era un solo linguaggio: quello dello Stato-Partito. Gli intellettuali dovevano utilizzarlo nei loro scritti. Dalla politica di riforma e apertura in poi, hanno imparato a parlare e a pensare diversamente, come gli occidentali. Un buon numero di intellettuali è giunto alla conclusione che l’ideologia di Xi Jinping sia obsoleta. La Cina è divenuta ricca e potente grazie alla mondializzazione. Tuttavia, il regime continua a impiegare un vocabolario marxista-leninista. Mi è capitato di tradurre diversi testi di un intellettuale cinese, Yuan Peng, grande specialista delle relazioni internazionali, soprattutto sino-americane. Quando scrive in quanto intellettuale pubblico, scrive più o meno come tutti, in uno stile accessibile. Poi un giorno scopro un testo in cui parla di sicurezza nazionale, un concetto veicolato costantemente da Xi Jinping dal suo arrivo al potere. In esso, Yuan Peng ha dovuto esprimersi in un registro differente, scrivendo in quanto membro del partito comunista cinese con lo stile e la lingua della propaganda. Per me, quel testo era quasi illeggibile. Ci sono uno stile e un vocabolario che sono propri della lingua del Partito-Stato e una lingua propria degli intellettuali. Gli slogan scompaiono nella lingua degli intellettuali. A volta, la lingua del Partito-Stato mi ricorda le messe in latino. Pur avendo i cattolici abbandonato l’uso del latino, la Chiesa ha continuato a utilizzarlo. In Cina c’è una situazione simile. Penso che la maggior parte degli intellettuali cinesi che sostengono il regime in maniera generale preferiscano di gran lunga che il regime volti pagina in termini di ideologia, sia per la sopravvivenza del regime, sia per il resto del mondo.

Molti intellettuali si rammaricarono dell’innalzamento della tensione fra Cina e Stati Uniti all’inizio della pandemia. Il fatto che la Cina continui a presentarsi come un regime comunista non gli permette di farsi molti alleati nel mondo. Di fatto, tutti gli Stati che sono favorevoli alla Cina non lo sono per delle ragioni ideologiche ma per delle ragioni materiali. Anche se gli intellettuali cinesi aderiscono al messaggio dietro la parola politica di Xi Jinping, pensano sovente che bisognerebbe trovare una nuova formulazione. Bisognerebbe rivedere il marketing del linguaggio di Xi Jinping per far sì che i Cinesi possano capire il messaggio politico dei loro dirigenti.

La guerra in Ucraina ha dato nuova linfa al fronte occidentale che sembrava sempre più disunito. La Cina da parte sua occupa una posizione ambigua di sostegno più o meno implicito rispetto alla Russia. Come viene interpretata questa dinamica in Cina?

Appena dopo l’invasione russa dell’Ucraina, decine di testi sono stati pubblicati per appoggiare la posizione del governo cinese, secondo la considerazione che la minaccia della NATO giustificava questa guerra. Tuttavia altri testi, che scopriremo in questa serie di pubblicazioni, hanno sollevato dei dubbi sul gesto russo. Questo ragionamento mi interessa. Molti intellettuali considerano che l’intervento in Ucraina non abbia alcun senso strategico. Putin è riuscito a ricostruire un’alleanza della maggior parte dei paesi sviluppati contro di lui. Si tratta di un potere in declino. La domanda che viene posta è quella del sostegno cinese. Una parte degli intellettuali avrebbe senza dubbio preferito che la Cina si fosse distanziata dalla Russia, ma si tratta di una questione abbastanza delicata. Non possono dire a chiare lettere che il sostegno della Cina alla Russia non ha senso ma pongono diverse domande. Penso però che la popolazione cinese sposi la linea del regime.

Vede dei paragoni con la situazione di Taiwan?

Assolutamente sì. Gli intellettuali non parlano di Taiwan. E’ un argomento tabù ed è raro vedere degli intellettuali scrivere delle cose interessanti su Taiwan. Io penso che la maggior parte dei Cinesi siano d’accordo con l’idea che Taiwan sia parte della Cina. Se però pochi sostengono l’indipendenza di Taiwan, questo non vuol dire che la maggior parte sia favorevole a una campagna militare. La maggior parte dei nazionalisti in Cina pensano che la fine dell’indipendenza di Taiwan sia inevitabile perché la considerano una verità storica. Tuttavia, sono altrettanto convinti che un simile intervento rischi di mettere in pericolo tutto ciò che la Cina ha raggiunto negli ultimi quarant’anni. Molti pensano che l’alleanza contro la Russia possa ricostruirsi se la Cina agisse contro Taiwan. La mia impressione è che gli intellettuali siano ampiamente convinti che la Cina debba adottare una postura moderata a proposito di Taiwan e dell’Ucraina. Se non ci fosse stata nessuna reazione europea dopo l’invasione russa, se i russi fossero arrivati a Kyiv, penso che la Cina avrebbe potuto farsi altre idee. Ma i risultati sono molto più ambigui – il che sembra incitare a essere moderati.

NOTE
  1. “La montée en puissance de la Chine et la réponse des intellectuels publics chinois”, Cours au Collège de France, Année 2021-2022 https://www.college-de-france.fr/site/anne-cheng/p482230892072591_content.htm
  2. Voices from the Chinese Century, Public Intellectual Debate from Contemporary China Edited by Timothy Cheek, David Ownby, and Joshua A. Fogel, New York, Columbia University Press, 2019
  3. https://www.readingthechinadream.com/about.html

https://legrandcontinent.eu/fr/2022/08/22/comprendre-les-doctrines-de-la-chine-de-xi-jinping-une-conversation-avec-david-ownby/

BILANCIO PROVVISORIO PRIMI SEI MESI DI GUERRA IN UCRAINA …e altro, di Pierluigi Fagan

BILANCIO PROVVISORIO PRIMI SEI MESI DI GUERRA IN UCRAINA. Fare un bilancio implica stabilire un parametro, ma qui i parametri sono almeno quattro, come i contendenti coinvolti.
Dal punto di vista ucraino, s’è perso non poco territorio ed è molto improbabile tornerà mai a casa. Al di là dei proclami, potrebbe tornare a casa solo con una catastrofica sconfitta russa, ma tale sconfitta è molto improbabile mai possa avvenire per ragioni di consistenza militare sul campo presente e futuro oltreché per il fatto che la Russia potrebbe reagire in maniera molto forte al manifestarsi di una tale situazione negativa. Nel senso che c’è sempre l’arma pesante da mettere sul piatto prima di anche solo iniziare a perdere la partita. Tutte le parti sanno di questa ultima ratio, quello che vediamo e sentiamo nelle dichiarazioni e negli articoli di analisti che più che analisti sono propagandisti, è solo guerra nel campo delle opinioni pubbliche. Di contro, gli ucraini possono contare ancora sul supporto americano, inglese ed europeo. Quello americano è solido e continuo (si parla di soldi e di armi che sono sempre soldi). Biden sta recuperando in patria e con lui anche il suo partito, rispetto alle elezioni di mid-term. Mancano ancora due mesi e poco più, ma ora la sconfitta DEM non è più scontata ed anzi cominciano a sperare in una doppia vittoria. Questa dinamica non ha nulla a che fare con la guerra ovviamente, sono altre le questioni che sviluppano la politica interna americana. Quanto ai britannici, a giorni (5 settembre) sapremo se la leadership conservatrice andrà a Sunak o Truss. Per gli ucraini, meglio la seconda molto aggressiva in politica estera. A riguardo, va detto che i brit se la passano piuttosto male in generale, nei sondaggi il Labour (ora in moderata versione “terza via”) oggi batterebbe di netto i conservatori, molti prevedono peggio andrà se vincesse Truss troppo sbilanciata e divisiva. Purtroppo, questa crisi interna rischia di diventare il classico ottimo motivo per peggiorare una crisi esterna e richiamare tutti all’unità di patria ovvero di supporto ad un governo aggressivo. Quanto agli europei essendo uno dei quattro attori vanno analizzati a parte.
Come al solito, non c’è un punto di vista europeo ma singoli punti di vista dei suoi vari attori principali o gruppi regionali. In macro, l’Europa s’è infilata in un dispositivo di tortura economica, finanziaria, politica e sociale che ha cominciato a tormentarla e che promette di intensificare e prolungare il dolore procurato. Perché l’ha fatto rimane il grande punto interrogativo. Rimango dell’idea che, oltre l’insipienza geopolitica con cui gli europei hanno gestito gli anni e decenni passati, ci sia stata da parte del socio americano un’azione molto dura e pesante i cui contenuti non conosciamo e forse non consoceremo mai, ai primissimi giorni da inizio conflitto. Un ricatto probabilmente, da cui era impossibile divincolarsi anche volendo e stante che davvero nessuno lo voleva o anche solo poteva pagarne gli eventuali prezzi molto alti. Da parte delle élite di potere in Europa, meglio accettarlo, restare in sella e far pagare i prezzi del gioco alle popolazioni. I prezzi sono e saranno sempre più alti. Si tratta di costi di quantità di energia che andrà scarseggiando ma anche costi alti per quella che comunque si avrà. Costi alti si riflettono su costi alti di produzione e quindi costi alti di merci e servizi. Aumento di inflazione internamente, diminuzione di esportazioni esternamente, quindi poi costi sociali e distruzione di alcune filiere produttive. Si badi che l’opzione rigassificatori, che semmai diventerà operativa non prima di un anno e mezzo, potrebbe migliorare la situazione (GNL comprato dagli USA, ma non è del tutto detto), ma sempre a costi più alti del passato e di quanto pagano l’energia gli americani. Il che creerà un gradino di costo permanente in termini competitivi. A ciò si aggiungerà l’equivalente su molte materie prime, nonché la perdita del mercato russo. Ne risente anche l’euro e chissà se questa precaria istituzione europea varata negli splendenti anni Novanta; quindi, votata ai fasti del big bang della allora irresistibile globalizzazione, resisterà ancora a lungo. La sua presenza percentuale nelle riserve delle banche centrali mondiali potrebbe diminuire a tutto vantaggio del dollaro. Intanto i capitali emigrano e vanno a rifugiarsi nei bond americani a tassi apprezzabili, un classico alla base di molte guerre “by americans”, oltre al commercio di armi e stante l’aumento delle spese di difesa deliberate e ritenute ormai essenziali. Sul piano narrativo potrebbe esser d’effetto qui dire che tutto ciò scatenerà reazioni, ma temo che sul piano del potere concreto, quello di cui abbiamo di solito solo una pallida idea, qualsiasi tentativo di reazione verrà soffocato prima di diventare davvero problematico. Sarebbe ad esempio utile conoscere quanti, chi e come si sta adoperando per far digerire la Meloni agli americani e gli interessi americani alla Meloni che non essendo stupida pagherà la cambiale atlantista per ottenere il suo quarto d’ora di governo.
E veniamo ai russi. S’era qui ipotizzato che a fine agosto i russi potevano arrivare ai confini del Donbass e quindi prendersi una pausa per congelare il conflitto (militare) per l’inverno, dato anche che la logistica da quelle parti diventa molto problematica nella lunga stagione piovosa, fredda, nevosa. Non ci arriveranno, la concentrazione delle difese ucraine nel nord del Donetsk è insuperabile, al momento. Sappiamo che i russi continuano ad incassare bei soldi dalla vendita del gas, hanno in parte riorientato i flussi verso est, non manifestano gravi danni dalle sanzioni, almeno per il momento. Non sappiamo quanta riserva d’arma abbiano e sebbene alcuni c.d. “analisti” abbiano previsto la consunzione a breve ormai da mesi, tale consunzione non pare ci sia ed è improbabile ci sarà. I russi non s’imbarcavano in tale operazione ragionando come ragionano i c.d. “analisti” occidentali, avranno fatto i loro calcoli visto che da subito hanno accettato e promesso un conflitto molto lungo. Solo gli sprovveduti fan amatoriali dei wargames da tavolo, sin delle prime settimane, hanno creduto alla strategia blitzkrieg. Non parliamo di quelli che vedevano i russi al confine con la Romania in pochi giorni (Macron) o a Berlino (Zelensky). Altresì non c’è stato alcun vero isolamento dei russi sul piano diplomatico globale, tranne la rescissione del corpo calloso che univa l’emisfero russo a quello europeo. Tuttavia, rimane del tutto non conoscibile per noi, gli effetti medio lunghi del dispositivo sanzionatorio a molti livelli, si tratta come sempre in questi casi di questioni di tempo e di calcolo su cose che non consociamo. Certo è che avranno fatto i loro calcoli a riguardo per cui non è escluso che semmai vedessimo una improvvisa e massiccia azione sul campo nei prossimi mesi, si potrà dedurre si trovino nel momento “ora o mai più”. Vedremo.
E chiudiamo con gli americani veri master of game del caso in questione. È tutta una questione di tempo. L’Ucraina diventa nei fatti un satellite americano per sempre, tutti i soldi liquidi e solidi in forma di armi non sono donazioni, sono prestiti da rimborsare, debiti visti dalla parte di Zelensky, debiti inestinguibili per l’eternità (UDD Land-Lease Act ’22). Per questo la guerra non potrà aver fine perché, sotto ricatto di debito, gli ucraini non potranno mai decidere altrimenti a meno di un colpo di stato interno che poi sopravviva alla reazione americana. Quindi gli USA si sono comprati l’Ucraina e la useranno come spina dolorosa nel fianco russo per sfinirli, ovvero il “più a lungo” possibile. Quindi, in sostanza, è da vedere come hanno calcolato il tempo gli americani ed i russi per capire come andrà a finire. Per il resto la cattura egemonica dell’Europa appare forte, irreversibile e duratura, le questioni interne di elezioni di stanno aggiustando (c’è anche una sfida per la leadership del GOP di modo che i neocon vincano in ogni caso, ma questa è una faccenda complicata). La vera partita principale diventa Taiwan ma su questo dovremo riflettere a parte.
Sarebbe utile alcuni potessero onestamente riflettere su ciò che hanno detto e scritto in questi sei mesi, per domandarsi cosa davvero hanno compreso della questione ucraina. Ma tanto non lo faranno, molti discorsi pubblici hanno a traguardo solo la guerra virtuale delle opinioni combattenti, la mia contro l’opinione altrui, senza passare per la bruttezza concreta della guerra reale.
AMBASCIATOR PORTA PENA. Come previsto, la questione dell’Artico procede inesorabile. Gli Stati Uniti hanno previsto di nominare un Ambasciator-at-Large per l’Artico. La carica che si può tradurre come “Ambasciatore generale” verrà data ad un diplomatico con ampi poteri che rappresenterà gli USA per le questioni artiche presso tutte le istituzioni, formali ed informali, presenti o che si occupano della regione.
Scatta subito sull’attenti il fido Stoltenberg, annunciando che “La NATO deve aumentare la sua presenza nell’Artico” perché i russi stanno trafficando nelle loro basi portando missiloni di ultima generazione. In più, sappiamo degli appetiti cinesi verso questa regione che permetterebbe loro di aggirare le forche caudine degli stretti indo-pacifici. Insomma, si sta apparecchiando il nuovo gioco che porterà la nuova guerra fredda sottozero. O visto che da quelle parti non c’è praticamente nessuno, molto soprazero tanto l’ambiente lì si sta già scaldando di suo. Motivo per il quale poi tutti si stanno agitando visto che sottacqua è pieno di minerali appetitosi ed energie fossili molto poco green.
Finalmente, anche i più tonti potranno così capire cosa c’era sotto l’urgenza inderogabile ad accorpare la Finlandia e la Svezia nella NATO, due nazioni storicamente non allineate, pacifiche, conviventi da tempo col vicino russo, prive di materie prime che non siano alberi e renne, senza apparente alcun rilievo strategico che non sia il Mar Baltico che è praticamente un mare chiuso, ma membri del Consiglio dell’Artico.
Si noti invece come la punta nord-est della Finlandia sia ad un tiro di schioppo (si fa dell’ironia) dalla città (Murmansk) più grande al mondo sopra il Circolo polare Artico ed unico porto russo che non ghiaccia d’inverno, quindi strategica base militare navale.
Ma tanto non serve a niente dirlo, quando scoppierà il casino annunciato, torme di invasati caricati a molla dai media brain-washing, presi da una aggressiva emotività ingestibile ed insopprimibile, ci faranno sapere la loro inutile opinione formata il giorno stesso in cui succederà qualcosa, ignari che ogni storia ha cause pregresse che loro ignorano, come ignorano tutto l’argomento della politica di potenza in questa fase storica. Così come hanno fatto e fanno per l’Ucraina. Ci vuole pazienza, tanta.
REALISMO STRATEGICO. Charles A. Kupchan è un più che noto studioso di relazioni internazionali americano. Già direttore degli affari europei per il Consiglio Nazionale di Difesa degli Stati Uniti nonché Consigliere capo per gli affari europei della presidenza Obama, Senior fellow del Council on Foreign Relations, insegna alla Georgetown di Washington. In italiano, il suo interessante “Nessuno controlla il mondo”, Il Saggiatore, 2013.
L’articolo allegato esce su The National Interest, rivista bimestrale di IR di taglio conservatore, repubblicano diciamo in senso largo. Come si intuisce, in America, un democratico può pubblicare su testata avversaria, anche perché in incrocio condivide più l’impostazione realista che idealista (detta “liberal”, ma in sostanza e per simmetria se uno è realista l’altro è idealista per potare i fronzoli terminologici), di solito fortemente radicata proprio in campo democratico.
Per comprendere meglio questo incrocio ed il suo riflesso epistemologico (sebbene una epistemologia della disciplina sia rimasta al compianto Morghentau e poco poi sviluppata come del resto è capitato all’economics vista l’ampia funzione ideologica più che “scientifica” -sempre si possa dare “scienza” delle discipline socio/umane- delle due discipline), va ricordato che la disciplina di Relazioni Internazionali è prettamente americana, tanto quanto la geopolitica nacque europea. Ma il punto epistemologico interessante da notare è che realisti o idealisti, sono sempre americani, condividono cioè fortemente e senza alternative il punto di vista sull’interesse americano. Ora, il punto di vista su un problema come i soggetti di potenza nel loro sviluppo di relazioni internazionali dovrebbe esser almeno un po’, se non tanto, diverso a seconda che lo studioso sia francese o britannico, o tedesco o italiano. E ciò vale anche per la geopolitica. Così non accade quasi mai, salvo rare eccezioni per lo più francesi.
Quelli di Limes, hanno spesso notato e giustamente, la mancanza di un fondato punto di vista italiano su queste faccende, punto di vista cioè tornito intorno ad un ben definito punto di interesse nazionale nostro proprio. L’interesse nazionale, in genere, è semplice quanto unitario, si divergerà poi sul come perseguirlo. A riguardo, permettetemi una punta che suonerà polemica ma non lo è, è un semplice fatto.
Consocerete l’esperta di IR Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto Affari Internazionali di ampia visibilità mediatica, che tuonava con il prof. Orsini negandogli il diritto di parlare di Ucraina perché non ci era mai stato fisicamente. Ha poi detto che non sarebbe più andata in televisione se ci fosse stato lui, quindi, lui è stato ostracizzato e lei salta da un programma all’altro. Vabbe’, non era questo il punto, il punto è che se andate sul sito del suo istituto, sotto Istituto, Chi Siamo, Amministrazione trasparente, trovate l’ultimo bilancio pubblico che chissà perché è ancora solo quello del 2019. Alla pagina 3, Ricavi, l’IAI denuncia di ricevere il 61% dei suoi fondi da “Fondazioni ed Enti Internazionali”. Più o meno la stessa percentuale del 2018 sembra un fatto strutturale. Che munificenza! Ma chi sono questi enti e fondazioni estere che hanno così tanto interesse a finanziare il lavoro di un istituto italiano di relazioni internazionali? E quanto dovremmo prender sul serio un’analista che sicuramente è stata in Ucraina a differenza di Orsini ma il cui stipendio e status professionale è per lo più mantenuto da interessi stranieri? Ce lo vedete uno studioso americano che parla a nome di un istituto finanziato dai cinesi o dai russi?
Be’ così va il mondo dietro le quinte dello spettacolo cui molti contribuiscono lanciandosi fatwe al veleno radioattivo sui social, basandosi su quello che ha detto tizio e caio, senza domandarsi chi sono tizio e caio, cosa sanno, cosa credono di sapere, come lo sanno, a chi parlano, da chi sono pagati, come tutto ciò incide sulla loro immagine di mondo da cui traggono giudizi che zelanti zeloti rilanciano ed amplificano, senza neanche esser stipendiati da “enti e fondazioni estere”.
Pazienza, indispensabile materia prima dei tempi che ci sono toccati in sorte di vivere.
Ad ogni modo, l’americano da cui siamo partiti, sviluppa una sua analisi compiuta della strategia americana, nel tempo e nello specifico dell’affare ucraino. Leggetela, fa cultura del campo se vi interessa coltivarlo. Ovviamente avrei da discutere diversi suoi punti. Tuttavia, ne consiglio ugualmente la lettura, non è che si debba leggere solo l’intemerata consonante i nostri apriori ideologici.
Il succo però va riportato. In sintesi, Kupchan dice al decisore americano che sarebbe meglio contenere le velleità di egemonia esterna perché si rischia troppo e troppe brutte cose. Tra cui effetti molto negativi interni al campo delle c.d. “democrazie di mercato” occidentali e non solo, che pure sono uno dei più solidi successi della strategia egemonica americana di questi ultimi decenni. In particolare, ricorda l’ovvio ovvero che si chiamano “relazioni internazionali” perché riguardano due o più soggetti di potenza. Essendo una relazione c’è un emittente ed un ricevente. L’emittente che dice “guarda sto portando la mia alleanza militare ai tuoi confini ma non ti preoccupare, è solo un’alleanza difensiva”, in una relazione consapevole ed onesta, dovrebbe tener conto che il ricevente potrebbe inquietarsi comunque dal momento che rampe di missili sono sempre rampe di missili e le intenzioni con cui tu puoi usarli possono cambiare com’è ovvio che sia. Ed anche come tutte le dottrine difensive americane prevedono impedendo in via di principio che supposti o potenziali avversari si presentino, non ai confini, ma nell’intero continente e nei suoi due oceani adiacenti.
Questa si chiama “reciprocità” tema del mio secondo post dopo il 24 febbraio ed è considerata etica universale, molto più universale di ogni diritto umano o altro valore che a noi sembra universale quando non è affatto detto che lo sia. Lo hanno certificato 143 rappresentati di altrettante religioni (wow, i religiosi di etica qualcosa sanno, no?), riuniti nel parlamento delle religioni mondiali nel 1993, definendolo l’unico punto incontrovertibile di una etica mondiale!
Lo si è detto e ripetuto più volte all’inizio del conflitto ma molti pupazzi caricati a molla continuano a scrivere post ed articoli che sostengono che questa è una falsa argomentazione. Chissà se leggendolo detto da un americano personalità riconosciuta del campo e della disciplina, consigliere di Obama, gli entra in testa. Non credo, la fede dello zelante zelota è impermeabile all’argomentazione logica, però perché non tentare? Buona lettura.

La guerra in Ucraina e il ritorno della Realpolitik

(riprodotto con traduttore_Giuseppe Germinario)

Il ritorno di un mondo a due blocchi che gioca secondo le regole della realpolitik significa che l’Occidente dovrà ridurre i suoi sforzi per espandere l’ordine liberale, tornando invece a una strategia di paziente contenimento volta a preservare la stabilità geopolitica ed evitare una grande guerra di potere .

La competizione GREAT POWER è tornata. L’alleanza transatlantica deve rivedere di conseguenza la sua grande strategia e ridimensionare le sue ambizioni idealistiche a favore di un realismo pragmatico. Durante la crisi sull’Ucraina, la stella polare ideologica dell’Occidente – la promozione della democrazia – ha guidato l’arte di governo, con la NATO che ha sostenuto e incoraggiato le aspirazioni di Kiev di unirsi all’alleanza occidentale. Ma il presidente russo Vladimir Putin, non volendo lasciare che l’Ucraina lasci l’ovile russo ed emerga come una democrazia ancorata in Occidente, ha lanciato una guerra per riportare Kiev sotto il dominio di Mosca. Putin possiede questa guerra , con la morte e la distruzione che ha prodotto.

La reazione dell’Occidente – armare l’Ucraina, sanzionare la Russia, rafforzare il fianco orientale della NATO estendendo l’adesione a Finlandia e Svezia – è pienamente giustificata. Tuttavia, il legittimo indignazione per la presa a pugni dell’Ucraina da parte della Russia minaccia di oscurare la necessità di trarre sobrie lezioni dalla guerra. Forse la cosa più importante è che il mondo stia tornando alle regole della politica di potere, richiedendo che l’ambizione ideologica ceda più regolarmente alle realtà strategiche per garantire che gli scopi dell’Occidente rimangano sincronizzati con i suoi mezzi. Questo adeguamento significa che l’Occidente dovrà concentrarsi maggiormente sulla difesa, anziché sull’espansione, della comunità democratica. Certamente, combinando i suoi valori con il suo potere, l’Occidente ha piegato l’arco della storia lontano dalla pratica della realpolitik e verso una maggiore libertà, dignità umana e pace.

Il mondo indisciplinato e più competitivo che sta prendendo forma rafforzerà naturalmente l’unità transatlantica, proprio come la minaccia rappresentata dall’Unione Sovietica ha contribuito alla coesione della NATO durante la Guerra Fredda. Eppure i mali politici che hanno afflitto l’Occidente non si sono dissipati; L’invasione della Russia, insieme alla prospettiva di una nuova guerra fredda, non è sufficiente a curare gli Stati Uniti e l’Europa dall’illiberalismo e dalla disfunzione politica. In effetti, la guerra in Ucraina ha prodotto effetti di ricaduta economica che potrebbero indebolire ulteriormente il centrismo politico. Di conseguenza, l’America e l’Europa affrontano una doppia sfida: devono continuare a mettere in ordine le proprie case anche mentre stanno insieme per resistere alla guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina.

QUESTA TENSIONE tra alta ambizione e realtà strategica non è una novità, in particolare per gli Stati Uniti. Fin dai primi giorni della repubblica, gli americani hanno compreso che lo scopo del loro potere implicava non solo la sicurezza, ma anche la diffusione della democrazia liberale in patria e all’estero. Come scrisse Thomas Paine nel 1776, “abbiamo il potere di ricominciare il mondo. Una situazione, simile a quella attuale, non si è verificata dai giorni di Noè fino ad ora”.

Paine si stava sicuramente impegnando nell’iperbole, ma le generazioni successive di americani hanno preso a cuore la vocazione eccezionalista della nazione, con risultati piuttosto impressionanti. Grazie al potere del suo esempio e ai suoi numerosi sforzi all’estero, tra cui la prima, la seconda guerra mondiale e la guerra fredda, gli Stati Uniti sono riusciti a espandere l’impronta della democrazia liberale. Al momento della fondazione della nazione, le repubbliche erano lontane tra loro. Oggi, più della metà dei paesi del mondo sono democrazie totali o parziali. Gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo di primo piano nell’attuazione di questa trasformazione.

Ma queste aspirazioni ideologiche hanno a volte alimentato il superamento, producendo risultati che compromettono le ambizioni idealistiche della nazione. La generazione fondatrice era determinata a costruire una repubblica estesa che si estendesse fino alla costa del Pacifico, un obiettivo che la nazione raggiunse a metà del diciannovesimo secolo. Gran parte dell’espansione verso ovest degli Stati Uniti ha avuto luogo sotto la bandiera esaltata del Destino manifesto, che ha fornito una giustificazione ideologica per espandere la frontiera, ma anche una copertura morale per calpestare i nativi americani e lanciare una guerra d’elezione contro il Messico che ha portato all’annessione degli Stati Uniti di circa la metà del territorio messicano.

Il presidente William McKinley nel 1898 intraprese una guerra per espellere la Spagna da Cuba, una delle poche colonie rimaste nell’emisfero, insistendo sul fatto che gli americani dovevano agire “per la causa dell’umanità”. Eppure la vittoria nella guerra ispano-americana trasformò gli stessi Stati Uniti in una potenza imperiale, poiché affermò il controllo sui possedimenti spagnoli nei Caraibi e nel Pacifico, comprese le Filippine. “Non ci restava altro da fare che prenderli tutti, educare i filippini, elevarli, civilizzarli e cristianizzarli”, ha insistito McKinley mentre le forze statunitensi occupavano le Filippine. L’insurrezione che ne è derivata ha portato alla morte di circa 4.000 soldati statunitensi e centinaia di migliaia di combattenti e civili filippini. Gli Stati Uniti resistettero alle Filippine fino al 1946.

Mentre preparava il paese all’ingresso nella prima guerra mondiale, il presidente Woodrow Wilson dichiarò davanti al Congresso che “il mondo deve essere messo al sicuro per la democrazia”. Dopo che le forze statunitensi hanno contribuito a portare a termine la guerra, ha svolto un ruolo di primo piano nei negoziati sulla Società delle Nazioni, un organismo globale che doveva preservare la pace attraverso l’azione collettiva, la risoluzione delle controversie e il disarmo. Ma tali ambizioni idealistiche si sono rivelate eccessive anche per gli americani. Il Senato ha respinto l’appartenenza degli Stati Uniti alla Lega; Il superamento ideologico di Wilson aprì la strada al testardo isolazionismo dell’era tra le due guerre.

Poco prima di lanciare l’invasione americana dell’Iraq nel 2003, il presidente George W. Bush ha affermato che “riteniamo che il popolo iracheno meriti e sia capace della libertà umana … può dare l’esempio a tutto il Medio Oriente di una vita vitale, pacifica e nazione autonoma”. Il risultato della guerra in Iraq è stato molto diverso: sofferenze a livello regionale e conflitti settari pronti a continuare per generazioni. Quanto all’Afghanistan, ha proclamato Bush nel 2004: “Ora il Paese sta cambiando. Ci sono i diritti delle donne. C’è uguaglianza sotto la legge. Le ragazze ora vanno a scuola, molte per la prima volta in assoluto, grazie agli Stati Uniti e alla nostra coalizione di liberatori”. Ma due decenni di esaurienti sforzi degli Stati Uniti per portare stabilità e democrazia in Afghanistan sono stati imbarazzanti, con il ritiro degli Stati Uniti la scorsa estate che ha lasciato il posto al governo talebano e a un incubo umanitario. In questi episodi storici, le nobili ambizioni si sono ritorte contro con conseguenze terribili.

La questione UCRAINA ha allo stesso modo messo in luce le inevitabili tensioni tra alte ambizioni e realtà geopolitiche. Queste tensioni erano, per la maggior parte, sospese nel bipolarismo della Guerra Fredda, quando l’espediente geopolitico guidava la strategia di contenimento degli Stati Uniti. L’accordo di Yalta raggiunto da Franklin D. Roosevelt, Winston Churchill e Joseph Stalin alla fine della seconda guerra mondiale fu l’ultimo compromesso realista, lasciando gran parte dell’Europa orientale sotto il dominio sovietico. Roosevelt e Churchill stavano saggiamente cedendo i principi al pragmatismo fornendo alla Russia sovietica una zona cuscinetto sul fianco occidentale. Tale moderazione strategica ha dato buoni frutti; ha contribuito alla stabilità durante i lunghi decenni della Guerra Fredda,

L’espansione verso est della NATO iniziò quindi negli anni ’90, l’era dell’unipolarità, quando Washington era fiduciosa che il trionfo del potere e degli obiettivi americani avrebbe inaugurato l’universalizzazione della democrazia, del capitalismo e di un ordine internazionale liberale e basato su regole. L’amministrazione Clinton ha abbracciato una grande strategia di “allargamento democratico” – un punto chiave della quale era aprire le porte della NATO alle nuove democrazie europee e accogliere formalmente in Occidente gli stati del defunto e screditato Patto di Varsavia.

L’allargamento verso est della NATO ha favorito guadagni sia morali che strategici. L’Occidente ha sfruttato l’opportunità di invertire Yalta; I membri della NATO potrebbero riaffermare la loro autorità morale integrando le ultime democrazie europee. Il fascino di soddisfare gli standard politici per l’ingresso nell’alleanza occidentale ha aiutato a guidare attraverso le transizioni democratiche più di una dozzina di paesi che hanno sofferto a lungo sotto il dominio comunista. L’apertura delle porte della NATO ha anche fornito all’alleanza profondità strategica e una maggiore forza militare aggregata. La garanzia di difesa che viene fornita con l’adesione funge da forte deterrente all’avventurismo russo, un bene prezioso dato il rinnovato appetito di Mosca di invadere i suoi vicini. Finlandia e Svezia, infatti, si sono lasciate alle spalle decenni di neutralità per avvalersi di tale garanzia.

Ma nonostante questi vantaggi pratici e di principio, l’allargamento della NATO ha comportato anche un significativo svantaggio strategico: ha gettato le basi per un ordine di sicurezza post Guerra Fredda che escludeva la Russia mentre avvicinava sempre più ai suoi confini l’alleanza militare più formidabile del mondo. Proprio per questo motivo l’amministrazione Clinton ha inizialmente lanciato il Partenariato per la Pace, un quadro di sicurezza che ha consentito a tutti gli Stati europei di cooperare con la NATO senza tracciare nuove linee di divisione. Ma quell’alternativa cadde nel dimenticatoio all’inizio di gennaio 1994, quando il presidente Bill Clinton dichiaròa Praga che “la domanda non è più se la NATO assumerà nuovi membri, ma quando e come”. La prima ondata di espansione ha esteso l’adesione alla Repubblica Ceca, all’Ungheria e alla Polonia nel 1999, seguita da allora da quattro ulteriori periodi di allargamento. Finora, la NATO ha ammesso quindici paesi (che comprendono circa 100 milioni di persone) che erano precedentemente nella sfera di influenza della Russia.

Il Cremlino si è opposto fin dall’inizio all’allargamento della NATO. Già nel 1993, il presidente russo Boris Eltsin avvertì che i russi di tutto lo spettro politico “lo percepirebbero senza dubbio come una sorta di neo-isolamento del nostro paese in diametralmente opposta alla sua naturale ammissione nello spazio euro-atlantico”. In un incontro faccia a faccia con il presidente Clinton nel 1995, Eltsin è stato più diretto:

Non vedo altro che umiliazione per la Russia se procedi… Perché vuoi farlo? Abbiamo bisogno di una nuova struttura per la sicurezza paneuropea, non di quelle vecchie! … Per me accettare che i confini della NATO si espandano verso quelli della Russia – ciò costituirebbe un tradimento da parte mia del popolo russo.

Il disagio di Mosca è cresciuto solo quando Putin ha preso il timone nel 1999 e ha ribaltato il flirt di Eltsin con un tipo di governo più liberale. Alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco nel 2007, Putin dichiarò che l’allargamento della NATO “rappresenta una seria provocazione” e chiese: “Perché è necessario mettere infrastrutture militari ai nostri confini durante questa espansione?”

La Russia iniziò presto sforzi concreti per fermare un ulteriore allargamento. Nel 2008, non molto tempo dopo che la NATO aveva promesso che Georgia e Ucraina “diventeranno membri della NATO”, la Russia è intervenuta in Georgia. Nel 2012, Mosca avrebbe tentato di organizzare un colpo di stato in Montenegro per bloccarne l’adesione all’alleanza , e in seguito avrebbe lavorato per impedire l’adesione della Macedonia del Nord. Questi sforzi nei Balcani furono inutili; Il Montenegro ha aderito all’alleanza nel 2017 e la Macedonia del Nord ha seguito l’esempio nel 2020. Ora Putin ha invaso l’Ucraina, in parte per bloccare il suo percorso verso la NATO. Nel suo discorso del 24 febbraioalla nazione che giustifica l’inizio della “operazione militare speciale”, Putin ha indicato “le minacce fondamentali che i politici occidentali irresponsabili hanno creato per la Russia … Mi riferisco all’espansione verso est della NATO, che sta spostando le sue infrastrutture militari sempre più vicino a il confine russo”.

Gli Stati Uniti hanno in gran parte respinto le obiezioni della Russia. Mentre il Cremlino osservava con ansia l’avanzata della NATO, Washington ha visto l’espansione della NATO verso est principalmente attraverso la lente benevola della vocazione eccezionalista dell’America. L’allargamento dell’alleanza ha significato diffondere i valori americani e rimuovere le linee di divisione geopolitiche piuttosto che tracciarne di nuove.

Quando ha lanciato la politica della porta aperta della NATO, il presidente Clinton ha affermato che ciò avrebbe “cancellato la linea artificiale in Europa tracciata da Stalin alla fine della seconda guerra mondiale”. Madeleine Albright, la sua segretaria di stato, ha affermato che “la NATO è un’alleanza difensiva che … non considera nessuno stato come suo avversario”. Lo scopo di espandere l’alleanza, ha spiegato, era costruire un’Europa “intera e libera”, osservando che “la NATO non rappresenta un pericolo per la Russia”. Questa è la linea che Washington ha adottato da allora, anche per quanto riguarda la potenziale adesione dell’Ucraina. Con l’aumentare della crisi sull’Ucraina, il presidente Joe Biden ha insistito su questo, “gli Stati Uniti e la NATO non sono una minaccia per la Russia. L’Ucraina non sta minacciando la Russia”. Il segretario di Stato Antony Blinken ha convenuto: “La stessa NATO è un’alleanza difensiva … E l’idea che l’Ucraina rappresenti una minaccia per la Russia o, se è per questo, che la NATO rappresenti una minaccia per la Russia è profondamente sbagliata e fuorviante”. Gli alleati dell’America sono stati per lo più sulla stessa pagina. Jens Stoltenberg, segretario generale della NATO, ha affermato durante il periodo che precede l’invasione della Russia che: “La NATO non è una minaccia per la Russia”.

Eppure la Russia vedeva le cose in modo molto diverso, e non senza ragione. La geografia e la geopolitica contano; Le grandi potenze, indipendentemente dalla loro inclinazione ideologica, non amano quando altre grandi potenze si allontanano nei loro quartieri. La Russia nutre comprensibili e legittime preoccupazioni per la sicurezza riguardo all’apertura di un negozio da parte della NATO dall’altra parte del suo confine di oltre 1.000 miglia con l’Ucraina. La NATO può essere un’alleanza difensiva, ma mette in atto una potenza militare aggregata che la Russia, comprensibilmente, non vuole parcheggiare vicino al suo territorio.

In effetti, le proteste di Mosca sono state, ironia della sorte, molto in linea con la stessa politica americana, che ha cercato a lungo di tenere le altre grandi potenze lontane dai propri confini. Gli Stati Uniti trascorsero gran parte del diciannovesimo secolo a far uscire Gran Bretagna, Francia, Russia e Spagna dall’emisfero occidentale. Da allora in poi, Washington si è regolarmente rivolta all’intervento militare per dominare le Americhe. L’esercizio dell’egemonia emisferica continuò durante la Guerra Fredda, con gli Stati Uniti determinati a cacciare l’Unione Sovietica ei suoi simpatizzanti ideologici dall’America Latina. Quando Mosca dispiegò missili a Cuba nel 1962, gli Stati Uniti lanciarono un ultimatum che portò le superpotenze sull’orlo della guerra. Dopo che la Russia ha recentemente lasciato intendere che potrebbe schierare nuovamente le sue forze armate in America Latina, il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price ha risposto: “Se vediamo qualche movimento in quella direzione, risponderemo in modo rapido e deciso”. Data la propria esperienza, Washington avrebbe dovuto dare maggiore credito alle obiezioni di Mosca all’ingresso dell’Ucraina nella NATO.

Per quasi tre decenni, la NATO e la Russia si sono parlate l’una contro l’altra. Come ha scherzato il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov in mezzo alla raffica di diplomazia che ha preceduto l’invasione russa, “stiamo conversando da una persona muta con una persona sorda. È come se ci ascoltassimo, ma non ci ascoltassimo”.

L’invasione russa dell’Ucraina chiarisce che questa disconnessione tra Russia e Occidente è esplosa allo scoperto, finalmente per una serie di motivi. Mosca ha considerato l’ingresso nella NATO di una banda di paesi che si estende dai Baltici ai Balcani come una battuta d’arresto strategica e un insulto politico. L’Ucraina, in particolare, appare molto più grande nell’immaginario russo; nelle stesse parole di Putin, “Russi e ucraini sono un popolo. Kiev è la madre delle città russe”. La scissione nel 2019 della chiesa ortodossa ucraina dalla sua controparte russa è stata una pillola particolarmente amara; la chiesa ucraina era subordinata al patriarca di Mosca dal 1686. La Russia oggi è molto più capace di respingere di quanto non lo fosse all’inizio del dopoguerra, rafforzata dalla sua ripresa economica e militare e dalla sua stretta collaborazione con la Cina.

Eppure il Cremlino ha commesso diversi gravi errori di calcolo nel procedere con la sua invasione dell’Ucraina. Ha ampiamente sottovalutato la volontà e la capacità degli ucraini di reagire, producendo le prime battute d’arresto russe sul campo di battaglia. Mosca ha visto numerose fonti di debolezza occidentale – Brexit, il ritiro caotico dall’Afghanistan, la pandemia di COVID-19, l’inflazione, la polarizzazione in corso e il populismo – portando a una sottovalutazione della forza e della portata della risposta dell’Occidente. Nella mente di Putin, una combinazione di forza russa e fragilità occidentale ha reso il momento opportuno per lanciare la sfida in Ucraina. Ma Putin aveva torto; l’Occidente ha dimostrato una notevole fermezza poiché ha armato l’Ucraina e imposto severe sanzioni contro la Russia.

Questi errori di calcolo aiutano a far luce sul motivo per cui Putin ha scelto di affrontare le sue lamentele attraverso la guerra piuttosto che la diplomazia. In effetti, Putin ha avuto l’opportunità di dirimere le sue obiezioni all’adesione dell’Ucraina alla NATO al tavolo dei negoziati. L’anno scorso, il presidente Biden ha riconosciuto che se l’Ucraina si unirà all’alleanza ” resta da vedere “. In mezzo alla raffica di diplomazia che ha preceduto l’invasione russa, il presidente francese Emmanuel Macron ha lanciato l’idea di “finlandizzazione” per l’Ucraina – neutralità effettiva – e sono circolate proposte per una moratoria formale su un ulteriore allargamento. Lo ha ammesso il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyyche la prospettiva che l’Ucraina aderisca alla NATO possa essere “come un sogno”. Il suo ambasciatore nel Regno Unito ha indicato che Kiev voleva essere “flessibile nel tentativo di trovare la migliore via d’uscita” e che un’opzione sarebbe quella di abbandonare la sua offerta per l’adesione alla NATO. Il Cremlino avrebbe potuto raccogliere queste piste, ma invece ha optato per la guerra.

LA SAGA dell’allargamento della NATO mette in luce il divario tra le aspirazioni ideologiche dell’Occidente e le realtà geopolitiche che si è allargato dagli anni ’90. Durante l’entusiasmante decennio successivo alla fine della Guerra Fredda, gli Stati Uniti ei loro alleati erano fiduciosi che il trionfo del loro potere e del loro scopo avrebbe aperto la strada alla diffusione della democrazia, un obiettivo che l’allargamento della NATO avrebbe presumibilmente contribuito a garantire.

Ma fin dall’inizio, l’establishment della politica estera occidentale ha permesso al principio di oscurare gli aspetti negativi geopolitici dell’allargamento della NATO. Sì, l’adesione alla NATO dovrebbe essere aperta a tutti i paesi che si qualificano e tutte le nazioni dovrebbero essere in grado di esercitare il loro diritto sovrano di scegliere i propri allineamenti come meglio credono. E sì, la decisione di Mosca di invadere l’Ucraina è stata in parte informata dalle fantasie di ripristinare il peso geopolitico dei giorni sovietici, dalla paranoia di Putin su una “rivoluzione colorata” insorta in Russia e dalle sue delusioni sui legami indissolubili di civiltà tra Russia e Ucraina.

Eppure l’Occidente ha commesso un errore continuando a respingere le obiezioni della Russia all’allargamento in corso della NATO. Nel frattempo, la politica delle porte aperte della NATO ha incoraggiato i paesi dell’Europa orientale a sporgersi troppo dai loro sci strategici. Mentre il fascino dell’adesione all’alleanza ha incoraggiato gli aspiranti a realizzare le riforme democratiche necessarie per qualificarsi per l’ingresso, la porta aperta ha anche spinto i potenziali membri a impegnarsi in comportamenti eccessivamente rischiosi. Nel 2008, subito dopo che la NATO ha ignorato le obiezioni russe e ha promesso un’eventuale adesione alla Georgia e all’Ucraina, il presidente della Georgia, Mikheil Saakashvili, ha lanciato un’offensiva contro i separatisti filo-russi nell’Ossezia meridionale con cui il paese combatteva sporadicamente da anni. La Russia ha risposto prontamente prendendo il controllo di due parti della Georgia: l’Ossezia meridionale e l’Abkhazia.

In modo simile, la NATO ha esagerato incoraggiando l’Ucraina a aprire la strada verso l’alleanza. La rivoluzione di Maidan del 2014 ha rovesciato un regime pro-Mosca e ha portato l’Ucraina su una rotta verso ovest, provocando l’intervento della Russia in Crimea e nel Donbas. La porta aperta della NATO ha fatto cenno, spingendo gli ucraini nel 2019 a sancire le loro aspirazioni NATO nella loro costituzione, una mossa che ha fatto scattare nuovi campanelli d’allarme al Cremlino. Data la sua vicinanza alla Russia e la devastazione causata dall’ulteriore aggressione di Mosca, l’Ucraina avrebbe fatto meglio a giocare sul sicuro, costruendo in silenzio una democrazia stabile pur mantenendo lo status neutrale che aveva abbracciato quando è uscita dall’Unione Sovietica. In effetti, il potenziale ritorno dell’Ucraina alla neutralitàha avuto un ruolo di primo piano nei colloqui sporadici tra Kiev e Mosca per porre fine alla guerra.

La NATO ha saggiamente evitato il coinvolgimento diretto nei combattimenti per scongiurare la guerra con la Russia. Ma la riluttanza dell’alleanza a difendere militarmente l’Ucraina ha messo in luce un preoccupante disconnessione tra l’obiettivo dichiarato dell’organizzazione di rendere il paese un membro e il suo giudizio secondo cui proteggere l’Ucraina non vale il costo. In effetti, gli Stati Uniti ei loro alleati, anche se impongono severe sanzioni alla Russia e inviano armi all’Ucraina, hanno rivelato di non ritenere la difesa del Paese un interesse vitale. Ma se è così, allora perché i membri della NATO hanno voluto estendere all’Ucraina una garanzia di sicurezza che li obbligherebbe a entrare in guerra in sua difesa?

La NATO dovrebbe estendere le garanzie di sicurezza ai paesi che sono di importanza strategica intrinseca agli Stati Uniti e ai suoi alleati, non dovrebbe rendere i paesi strategicamente importanti estendendo loro tali garanzie. In un mondo che sta rapidamente tornando alla logica della politica di potenza, in cui gli avversari possono regolarmente mettere alla prova gli impegni degli Stati Uniti, la NATO non può permettersi di essere dissoluta nel fornire tali garanzie. La prudenza strategica richiede di distinguere gli interessi critici da quelli minori e di condurre di conseguenza l’arte di governo.

La PRUDENZA STRATEGICA richiede anche che l’Occidente si prepari al ritorno di una continua rivalità militarizzata con la Russia. Alla luce della stretta collaborazione emersa tra Mosca e Pechino e delle ambizioni geopolitiche della Cina, la nuova Guerra Fredda che sta prendendo forma potrebbe benissimo mettere l’Occidente contro un blocco sino-russo che si estende dal Pacifico occidentale all’Europa orientale. Come la Guerra Fredda, un mondo di blocchi rivali potrebbe significare divisione economica e geopolitica. Il grave impatto delle sanzioni imposte alla Russia sottolinea il lato oscuro della globalizzazione, portando potenzialmente a casa sia la Cina che le democrazie occidentali che l’interdipendenza economica comporta rischi piuttosto considerevoli. La Cina potrebbe prendere le distanze dai mercati globali e dai sistemi finanziari, mentre gli Stati Uniti e l’Europa potrebbero scegliere di espandere il ritmo e la portata degli sforzi per disaccoppiare dagli investimenti, dalla tecnologia e dalle catene di approvvigionamento cinesi. Il mondo potrebbe entrare in un’era prolungata e costosa di de-globalizzazione.

Il ritorno di un mondo a due blocchi che gioca secondo le regole della realpolitik significa che l’Occidente dovrà ridurre i suoi sforzi per espandere l’ordine liberale, tornando invece a una strategia di paziente contenimento volta a preservare la stabilità geopolitica ed evitare una grande guerra di potere . Un nuovo conservatorismo strategico dovrebbe cercare di stabilire equilibri stabili di potere e deterrenza credibile nei teatri europei e dell’Asia-Pacifico. Gli Stati Uniti hanno un playbook per questo mondo: quello che gli ha permesso di prevalere nella prima Guerra Fredda.

Quello per cui Washington non ha uno stratagemma è navigare nella divisione geopolitica in un mondo che è molto più interdipendente di quello della Guerra Fredda. Anche se resiste alle autocrazie, l’Occidente dovrà superare le linee di divisione ideologiche per affrontare le sfide globali, tra cui l’arresto del cambiamento climatico, la prevenzione della proliferazione nucleare e il controllo degli armamenti, la supervisione del commercio internazionale, il governo della cybersfera, la gestione della migrazione e promuovere la salute globale. Il pragmatismo strategico dovrà temperare la discordia ideologica.

Washington manca anche di uno stratagemma per operare in un’era in cui l’Occidente deve affrontare minacce nostrane alla democrazia liberale che sono almeno altrettanto potenti delle minacce esterne poste da Russia e Cina. Durante la Guerra Fredda, l’Occidente era politicamente sano; le democrazie liberali su entrambe le sponde dell’Atlantico godevano di moderazione ideologica e centrismo, sostenute da una prosperità ampiamente condivisa. Un marchio fermo e mirato della grande strategia statunitense poggiava su solide fondamenta politiche e godeva di un sostegno bipartisan.

Ma l’Occidente oggi è politicamente malsano e il populismo illiberale è vivo e vegeto su entrambe le sponde dell’Atlantico. Negli Stati Uniti, il patto bipartisan dietro l’arte di governo statunitense è crollato, così come il centro politico della nazione. La moderazione ideologica e il centrismo hanno lasciato il posto a un’amara polarizzazione in mezzo a una prolungata insicurezza economica e a una disuguaglianza spalancata. La guerra in Ucraina non ha aiutato le cose; L’ambiziosa agenda di Biden per il rinnovamento interno, già ridimensionata a causa dell’ingorgo al Congresso, ha ulteriormente sofferto a causa dell’attenzione di Washington sul conflitto. E gli alti tassi di inflazione, alimentati in parte dalle perturbazioni economiche derivanti dalla guerra, stanno alimentando il malcontento pubblico, probabilmente costando ai Democratici il controllo del Congresso nel prossimo semestre di novembre.

In Europa, il centro politico ha tenuto largamente. I partiti tradizionali di centrosinistra e centrodestra hanno perso terreno rispetto ai partiti anti-establishment, ma sono rimasti ideologicamente centristi e, per la maggior parte, sono rimasti al potere. Eppure i populisti illiberali continuano a governare l’Ungheria e la Polonia, ei loro compagni di viaggio esercitano un’influenza politica nella maggior parte degli stati membri dell’Unione Europea (UE). In effetti, il governo centrista italiano è crollato a luglio e l’estrema destra potrebbe benissimo impennarsi in vista delle elezioni. Il Regno Unito si è impegnato in uno straordinario atto di autoisolamento e autolesionismo uscendo dall’UE: Londra rimane coinvolta in difficili negoziati con Bruxelles sui termini della Brexit. Il danno economico provocato dall’inflazione, dall’aumento dei prezzi dell’energia e dalla potenziale carenza di energia favorita dalle sanzioni occidentali alla Russia,

Mentre gli Stati Uniti ei loro alleati contemplano l’aumento della tensione con un blocco sino-russo, devono assicurarsi di continuare a correggere le vulnerabilità interne dell’Occidente. È vero che durante la Guerra Fredda, la disciplina che la minaccia sovietica imponeva alla politica americana contribuì a smorzare il conflitto partigiano sulla politica estera. Allo stesso modo, l’attuale prospettiva di una nuova era di rivalità militarizzata con Russia e Cina sta facendo rivivere la cooperazione bipartisan in materia di governo.

È tuttavia probabile che questo ritorno al bipartitismo sia di breve durata, proprio come è stato dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Gli americani non dovrebbero operare nell’illusione che un ambiente internazionale più competitivo ripristinerà di propria iniziativa il paese salute politica, soprattutto in mezzo al tasso di inflazione statunitense più alto degli ultimi quarant’anni. In modo simile, anche se l’Europa ha dimostrato unità e determinazione impressionanti durante la guerra in Ucraina, indubbiamente dovrà affrontare nuove sfide politiche mentre affronta un enorme afflusso di rifugiati ucraini e affronta ulteriori oneri economici, incluso lo svezzamento dall’energia russa .

Entrambe le sponde dell’Atlantico hanno quindi un duro lavoro da fare se vogliono mettere in ordine le proprie case e rinvigorire l’ancora dell’ordine liberale del globo. Dato il potenziale ritorno della politica del risentimento negli Stati Uniti, l’amministrazione Biden ha urgente bisogno di continuare a portare avanti la sua agenda interna. Investire in infrastrutture, istruzione, tecnologia, assistenza sanitaria, soluzioni per il clima e altri programmi interni offre il modo migliore per alleviare il malcontento dell’elettorato e far rivivere il centro politico malato del paese . L’agenda di rinnovamento dell’Europa dovrebbe includere la ristrutturazione economica e gli investimenti, la riforma della politica di immigrazione e il controllo delle frontiere e una maggiore spesa e messa in comune della sovranità sulla politica estera e di difesa.

L’invasione russa dell’Ucraina annuncia il ritorno di un mondo più realistico, che richiede che le ambizioni idealistiche dell’Occidente cedano più regolarmente alle fredde realtà strategiche. Anche se la guerra ha certamente contribuito a rilanciare l’Occidente e la sua coesione, le minacce interne alla democrazia liberale che erano al centro prima della guerra richiedono ancora un’attenzione urgente. Sarebbe ironico se l’Occidente riuscisse a trasformare la scommessa di Putin in Ucraina in una clamorosa sconfitta, solo per vedere le democrazie liberali soccombere al nemico interiore.

Charles A. Kupchan è Professore di Affari Internazionali alla Georgetown University e Senior Fellow presso il Council on Foreign Relations. Il suo libro più recente è Isolationism: A History of America’s Efforts to Shield Itself from the World .

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