Trump e la decinesizzazione degli Stati Uniti, a cura della redazione

Qui sotto il testo tradotto di due brevi articoli apparsi sulla stampa americana. Rivela un aspetto, quello del recupero del controllo della logistica, della vera e propria guerra economica intrapresa con sempre maggior convinzione dagli Stati Uniti. Non è solo un confronto di natura economica, quanto l’aspetto economico di un confronto politico sempre più serrato, aperto e ampio. Spazia ormai dall’ambito militare, a quello tecnologico più raffinato, al controllo delle comunicazioni e dei trasporti. La permeabilità della formazione sociale statunitense, contestuale al processo di globalizzazione così come si è sviluppato negli ultimi trenta anni, sta subendo una battuta di arresto che nemmeno un eventuale rovesciamento della Presidenza Trump potrà rimettere interamente in discussione. E’ il prodromo alla formazione di più sfere di influenza entro le quali la potenza egemone dovrà mantenere un fermo controllo. Il corollario nel frattempo è che negli Stati Uniti si è innescato un processo di reindustrializzazione e di ricostruzione delle infrastrutture in grado di garantire maggiore coesione e forza alla formazione sociale, registrando tassi di crescita sino ad ora sconosciuti in questo millennio_Buona lettura_Giuseppe Germinario

 

ll Dipartimento per la Sicurezza Interna (Department of Homeland Security) dell’Amministrazione Trump ha costretto, per motivi di sicurezza, la compagnia statale cinese Cosco a cedere il controllo del porto di Long Beach in California. Long Beach è uno dei maggiori porti degli Stati Uniti (il quarto per esattezza). Il terminal di Long Beach ha registrato, nel 2018, un valore contabile netto di 345,24 milioni di dollari. Il suo utile netto lo scorso anno ha raggiunto 85,86 milioni di Dollari, in aumento di quattro volte rispetto all’anno precedente, il 2017.

Orient Overseas (International) Limited (OOCL) ha dichiarato di aver venduto il 100% del terminal container di Long Beach (LBCT) per $ 1,78 miliardi a un consorzio guidato da Macquarie Infrastructure Partners. Macquarie Infrastructure Partners Inc. è una società specializzata in investimenti infrastrutturali. L’azienda investe in strade, ferrovie, progetti di ponti, aeroporti, porti, acqua e acque reflue, energia e servizi pubblici, nonché infrastrutture sociali e di comunicazione. Gli investimenti di Macquarie Infrastructure Partners Inc si concentrano in Nord America, in particolare Stati Uniti e Canada. Macquarie Infrastructure Partners ha sede a New York.

OOCL è stato obbligato a vendere il terminale, uno dei più automatizzati del paese, ai sensi dell’Accordo sulla sicurezza nazionale con il Dipartimento di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti e il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti.

Il governo federale ha intimato la cessione del terminale dopo che una verifica dell’anno scorso, ha confermato l’acquisto di OOCL da parte di COSCO Shipping Holdings. La società cinese Cosco Shipping Holdings, acquirente di OOCL (Orient Overseas International), con sede ad Hong Kong, è stata costretta quindi a vendere la proprietà del Terminal californiano.

L’amministrazione Obama aveva concesso nel 2012 il via libera ad OOCL per la firma di un contratto di locazione di 40 anni con la Città di Long Beach per il controllo del porto. La maggior parte dei movimenti di container Asiatici (Cinesi)in America, passa per Long Beach. L’accordo faceva parte del “Middle Harbor Redevelopment Program” per finanziare l’espansione per 1,5 miliardi di dollari del porto di Long Beach entro il 2020.

Ma una delle prime azioni del Department of Homeland Security, sotto l’amministrazione Trump, è stata la formazione, nel marzo 2017,  del Comitato per gli  Investimenti Esteri negli Stati Uniti. Una commissione di revisione e controllo su investimenti fatti da compagnie straniere che potrebbero minare la sicurezza nazionale. La commissione era nata sulla scia di una denuncia dell’acquisizione da parte di Cosco di un ex impianto portuale della Marina statunitense.

La Cina gestisce sei dei dieci porti container più trafficati del mondo. Il governo cinese ha anche finanziato la costruzione e la gestione di 43 porti in 35 paesi nell’ambito dell’iniziativa “One Belt and One Road” (OBOR) lanciata cinque anni fa dal Ministero dei Trasporti Cinese.

A complemento dei suoi sforzi per ottenere il predominio sulle attività, la Cina ha indotto le proprie compagnie statali ad acquistare esclusivamente prodotti e servizi da altre imprese statali cinesi.

Di conseguenza, il China International Marine Containers Group è diventato il più grande produttore mondiale di container e Shanghai Zhenhua Heavy Industries ha guadagnato una quota di mercato internazionale del 70% per le gru portuali e ora esporta in 300 porti di 100 paesi.

Secondo i termini dell’acquisizione di Macquarie, Orient Overseas International intascherà un guadagno di 1,29 miliardi di dollari; continuerà a controllare il traffico di navi e ferrovie negli impianti di container per i prossimi vent’anni, poiché i termini del precedente accordo fatto durante il regno dell’amministrazione Obama, non è annullabile in tutte le sue forme.

 

 

https://www.americanthinker.com/blog/2019/05/trump_administration_forces_china_to_sell_the_port_of_long_beach.html

https://www.americanshipper.com/news/macquarie-consortium-buying-long-beach-container-terminal?autonumber=848093

https://www.bloomberg.com/research/stocks/private/snapshot.asp?privcapId=8642218

Macron, il re bambino_di Emmanuel Todd_Traduzione di Giuseppe Germinario

Emmanuel Todd: “Lo stato non può essere incarnato da un bambino … o Emmanuel Macron è ora visto come un bambino dai francesi”

Fonte: Atlantico, Emmanuel Todd , 20-12-2018

Esclusivamente per Atlantico, Emmanuel Todd ci fornisce la sua analisi del fenomeno dei giubbotti gialli. Per lo storico, i Yellow Vests rappresentano una forma di padre collettivo in un paese disorientato da un re bambino.

Atlantico: in un contesto segnato dall’emergere del movimento dei giubbotti gialli, qual è oggi la principale sfida affrontata da Emmanuel Macron?

Emmanuel Todd: Al di là di tutte le politiche economiche, sociali, politiche, europee che sorgeranno nel 2019, che sembra terribile, Emmanuel Macron sarà di fronte ad un problema di legittimità assolutamente nuova. Max Weber aveva usato il concetto di potere carismatico; un individuo, un leader, che affascina in modo subliminale e irrazionale ma che non è necessariamente un dittatore pericoloso. E mi sembra che Emmanuel Macron arricchirà le nostre tipologie del concetto di presidente anti-carismatico. Mi spiego Dobbiamo riprendere la sequenza. C’era un elemento carismatico nell’elezione di Macron, che affascinava le classi medio-alte. Ho visto questo intorno a me. Parlava con un’aria un po’ allucinatoria, in un modo che percepivo assolutamente privo di interesse, ma che, nell’ambiente piuttosto macronista in cui vivo, trasportava le persone. Era percepito come giovane e molto intelligente. Credo che la questione della sua intelligenza superiore sia risolta per tutti, tuttavia ha prodotto una crisi sociale senza precedenti in Francia. Ma rimane giovane. E, infatti, quando sentiamo parlare di lui, dei manifestanti o anche dei giornalisti, è chiaro che ora ha l’immagine di un bambino per tutti noi francesi. “È un bambino” “È un bambino cattivo, viziato.”

La possibilità teorica di un’incarnazione stabile dello stato da parte di un bambino non esiste. Nella funzione di governo c’è la funzione paterna; una banalità che non ha atteso Freud e la psicoanalisi. Il re, il presidente, il capo, devono essere un padre. E oggi siamo in una situazione strutturalmente invertita in cui il leader è un bambino e dove non è impossibile che, simmetricamente, i Gilets Gialli rappresentino una forma di padre collettivo. Perché ciò che colpisce di queste rotonde era l’età delle persone. Erano occupati, tra gli altri, da persone dai capelli bianchi, pensionati, padri nel senso generico del termine. Un paese non può vivere con una sfida che rappresenta un’immagine paterna e un leader che rappresenta l’immagine di un bambino.

Quindi, come si fa a interpretare il fatto di un movimento dagli effettivi contenuti, ma sostenuto da una larga maggioranza della popolazione, in un clima insolitamente violento?

Forse uno dei motivi della loro approvazione generale da parte della popolazione corrisponde al modello di autorità inversa. Se iGiubbotti Gialli sono il padre, allora è normale che essi sono, essi stessi, un potere carismatico collettivo e sono supportati dal 70-75% di opinione. Sono la legittimità. Il modello interpretativo funziona molto bene qui. Spiegherebbe anche la tolleranza per la violenza, la cosa più sorprendente. Sarebbe una forma simbolica di sculacciata politica. Più semplicemente: stiamo vivendo una nuova forma di potere vacante che ha tutti i tipi di applicazioni. Ci soffermiamo sull’autorità implicita dei Giubbotti Gialli, ma si pone anche  la questione di un efficace controllo dell’apparato statale da parte di Emmanuel Macron. Non conosciamo quale sia il suo livello di controllo della forza di polizia i cui leader sindacali vengono ad annunciare il primo atto delle loro rivendicazioni il giorno dopo l’atto quinto dei Gilets. Ricadiamo sull’idea che l’autorità non può essere incarnata da un bambino che a partire dai suoi attacchi verbali contro la gente comune a terra, dal caso Benalla, si è costruito anche l’immagine di un bambino violento.

La sua politica europea è in genere immatura. Emmanuel Macron, con le sue riforme radicali, voleva che i francesi si comportassero come bambini saggi e che i tedeschi gli dessero un buon punto. La politica di Emmanuel Macron è da un capo all’altro completamente infantile. L’attuale dibattito a cui stiamo assistendo sulla resistenza di Bercy rafforza questa immagine di un presidente bambino. Un presidente adulto avrebbe già decimato Bercy.

Vedi questo movimento trovare la via della strutturazione politica?

Al di là di Emmanuel Macron, ciò che abbiamo potuto vedere, specialmente negli spettacoli televisivi, è stato un rovesciamento generalizzato del rapporto dell’autorità intellettuale. Abbiamo visto macronisti, enarchi o meno, deputati LREM, persone con un minimo di istruzione e pulizia su di loro di fronte a Giubbotti Gialli emersi dalla base. Ma era così ovvio che erano più intelligenti e dinamici dei superiori istruiti che erano di fronte a loro! Siamo di nuovo qui davanti a un problema di inversione di autorità. Sono rimasto molto colpito dal livello di coerenza e determinazione di queste persone, tuttavia presentato dal sistema dei media come incoerente e incapace di unirsi. Si potrebbe immaginare l’emergere di un partito politico. Daniel Schneidermann, nei suoi commenti a RT France, tendeva verso questa ipotesi. Ma gli ultimi sondaggi di opinione non evocano questo percorso.

Durante i tuoi primi interventi su questo movimento, hai mostrato dispiacere per il fatto che i giubbotti gialli non attacchino l’Europa. Tuttavia, possiamo vedere che i giubbotti gialli sono sovrarappresentati nei cosiddetti partiti “euroscettici”. Come spiega questo paradosso?

Ho deplorato che i gilet gialli non non mettano sotto accusa direttamente, non solo l’euro come cintura monetaria europea, responsabile di gran parte dei mali dell’economia francese, ma anche l’impossibilità di una protezione commerciale nell’Unione europea. Mi dispiace che non ci sia alcun riferimento all’Europa. D’altra parte, quello che colpiva era l’abbondanza di riferimenti alla nazione rivoluzionaria. C’erano bandiere francesi ovunque, cantavano la marsigliese, c’era una richiesta esplicita della nazione come processo rivoluzionario. Questo è molto importante perché se siamo in un processo di rinascita nazionale, il movimento marcia lui stesso verso lo shock frontale con il concetto europeo.

Qualcosa viene lanciato a un livello ideologico profondo. Penso di essere stato un po’ ingenuo, un po’ techno, nella mia concezione delle cose, dicendo solo che dovevamo uscire dall’euro, che è un discorso tecnico. Quello che sta accadendo è molto più profondo e ci mette in una traiettoria di rottura con l’euro. E, naturalmente, è un processo generale in Europa. Ognuna delle nazioni europee viene rinazionalizzata: i tedeschi hanno iniziato il processo, poi gli inglesi con la Brexit, e oggi gli italiani e i francesi. Lo stile di ciascuno è caratteristico della moltiplicazione delle nazioni. Credo che ciò che dobbiamo integrare in Francia sia questa idea della rinascita della nazione rivoluzionaria.

Non ho una visione astratta delle nazioni, non voglio tornare a un’essenza del popolo come è stato fatto in precedenza in deliri nazionalisti, ma le sottostanti strutture familiari tradizionali, che hanno i loro valori legati al mondo moderno o post-moderno. La Germania rimane condizionata dai valori autoritari e ineguali della famiglia, con la sua primogenitura maschile; il liberalismo inglese si riferisce a una famiglia nucleare individualista che fa ampio uso della volontà; la tradizione rivoluzionaria francese si riferisce alla famiglia nucleare egualitaria del bacino parigino, cioè a una precoce autonomia dei bambini e ad un egualitarismo intransigente delle regole ereditarie. Negli ultimi anni, di fronte ad una inerte Francia, come ferma nella storia, con le sue classi dirigenti germanofile, il suo tasso di disoccupazione del 10%, e la sua popolazione passiva, non ero lontano dall’immaginare che la tradizionale cultura francese fosse morta. Ma il movimento dei Giubbotti Gialli, questa formidabile protesta spontanea contro lo Stato, è il risorgere della potente cultura liberale francese, approvata dalla maggioranza della popolazione. Quello che abbiamo appena riscoperto è che, all’interno dell’Unione europea, la Francia esiste ancora. E ora, i politici, se hanno un minimo di intelligenza, dovranno smettere di sognare di trasformare i francesi in tedeschi, e accettare l’idea che è sempre la Francia che si tratta di governare. Questa formidabile protesta spontanea contro lo stato è la potente rinascita della cultura liberale egualitaria francese, approvata dalla maggioranza della popolazione. Quello che abbiamo appena riscoperto è che, all’interno dell’Unione europea, la Francia esiste ancora. E ora, i politici, se hanno un minimo di intelligenza, dovranno smettere di sognare di trasformare i francesi in tedeschi, e accettare l’idea che è sempre la Francia che si tratta di governare.

Come analizzi le difficoltà della sinistra nell’incarnazione di questo movimento?

Se prendiamo gli ultimi sondaggi per le prossime europee, vediamo il Rassemblement National al 24%, Debout France all’8%, quindi France Insoumise al 9%. Quello che stiamo attraversando, forse per me, è un’altra battaglia persa. Ho combattuto per una rinascita della nazione a sinistra, ma quello che sembra emergere è l’incapacità della France Insoumise di incarnare l’idea nazionale. Si sono appena separati da Djordje Kuzmanovic che ha rappresentato questa corrente sovrana. È davvero triste per me, questa incapacità della sinistra, persino quella contestataria, di incarnare e prendere in mano l’idea di nazione.

Seguendo la logica dell’elezione di Donald Trump o Brexit, è la destra di governo che è riuscita a canalizzare e incarnare quelli che potremmo chiamare i Gilet gialli anglosassoni; questo ruolo dovrebbe quindi spettare a LR?

C’è una generalità occidentale del supporto dell’aspirazione nazionale da parte della destra, con Trump e Brexit per esempio. Ma in Francia, la servitù volontaria delle classi superiori nei confronti della Germania frammenta il modello. I LR mi sembrano sempre più vicini a LREM, probabilmente tentati da una fusione degli europeisti, vale a dire gli anti-nazionali, in un’unica forza. Questo è il significato della consultazione di Sarkozy da parte di Macron prima del suo discorso riparatore ai francesi. Noto di sfuggita che Wauquiez soffre anche della sua immagine di bambino.

Perché oggi solo le forze di destra sono in grado di occuparsi delle aspirazioni popolari? C’è un’apparente contraddizione. Ma tutto diventa sorprendente. La rappresentazione ideologica è vacillante, oscillante. Sentiamo che i giovani sovranisti di destra riprendono un discorso di lotta di classe, parlano come il Marx della “lotta di classe in Francia”. Esiste tuttavia una logica di simmetria nella confusione: la realtà socialista prima di Macron era di persone che si ritenevano di sinistra quando erano di destra. Quindi, perché non ora il contrario? L’assurdo bussa alla porta: la scienza politica avrà bisogno di un’ampia infusione di psicoanalisi, di fantascienza e umorismo.

Quindi ho difficoltà a immaginare una traduzione politica dei giubbotti gialli. Quello che osservo è piuttosto un aumento della sovranità di destra che si incarna nella DLF e nella RN e, incidentalmente, Florian Philippot al suo piccolo livello. Sarebbe pericoloso per gli europeisti rallegrarsi di questo implicito rinnovamento della scissione delle ultime elezioni presidenziali. La situazione diventa così grave che non è più certo che “il bambino” sarà rieletto.

Quali sono le particolarità francesi di questa tendenza “voto Brexit e Trump”?

La più grande di queste è in Francia la violenza dello scontro tra un mondo popolare e di classi medie che aspirano alla rinazionalizzazione e le classi superiori che raggiungono un livello eccezionale di universalismo post-nazionale. Io lo percepisco come una perversione dell’universalismo Francese sostenuto dalle sue classi superiori, un sogno umano universale per i soli potenti. “Educati in alto di tutti i paesi, unitevi!” È, naturalmente, di solito il sogno della globalizzazione, ma è probabile che in Francia, con il nostro concetto di uomo universale, il mito ha preso forme isteriche che si fonde in modo sottile con il nostro bisogno di sottomissione alla Germania. “Uomo universale borghese ben oltre il trauma del 1.940” la strada maestra per una denazionalizzazione della classe dirigente francese. O per meglio dire, il tradimento.

Come anticipi le conseguenze di questo movimento a medio-lungo termine?

Il movimento attuale può portare a qualcosa di diverso da quello che abbiamo vissuto con le elezioni politiche del 2017. L’ortodossia politologica benpensante ci dice: da una parte ci sarebbe una forza fascista xenofoba, il Rassemblement National (RN), e dall’altra una forza democratica, moderata e universalista, l’europeismo. Ma non è la realtà. è ciò che David Adler ha rivelato nel New York Times lo scorso maggio: i centristi sono i più ostili alla democrazia. La realtà del mondo è che le forze europee sono autoritarie e antidemocratiche, i vettori del fascismo 2.0. I referendum sono inutili nell’Unione e il punto di svolta per la Francia in questo campo è stato il 2005. Nel 2018, la personalità di Emmanuel Macron ha svelato una natura autoritaria e violenta dell’europeismo con la pretesa di rappresentare valori democratici e liberali. Il macronismo è un estremismo.

Mi sembra che la polarità che si instaura sia un’opposizione tra la “nazione rivoluzionaria”, con una dimensione xenofoba, evidente nella dottrina del RN “e un” impero autoritario europeo “. Democrazia xenofoba contro sistema imperiale. Nel mio ultimo libro, “Dove siamo? Sono tornato alle origini della democrazia e ho notato che era sempre, in un primo momento, più o meno xenofoba. Un particolare popolo che si organizza liberamente internamente ma contro un altro. Questo era il caso della democrazia ateniese, della democrazia americana, razzista nei confronti dei neri e degli indiani, della proto-democrazia inglese, anticattolica. D’altra parte, l’idea di uomo universale ci viene da Roma, derivata dal principio del dominio imperiale.

La polarità che si sta stabilendo in Europa è quindi un ritorno al punto di partenza. L’impero europeo agita il concetto universale, con la riserva che non tutti gli uomini sono realmente uguali nello spazio europeo. Il voto dei francesi vale meno di uno tedesco, quello di un italiano meno di uno francese, quello greco meno di tutti. Ma l’impero europeo sembra affermare un universalismo senza gradazione nel suo sogno di aprire ai profughi. Ci sentiamo paradossalmente di fronte a un ansia crescente di persone che vogliono un maggiore controllo delle frontiere, contrapposta a un crescente immigrazionismo delle classi istruite. Questa polarizzazione aggiuntiva e totalmente irragionevole è affascinante per lo storico.

Vivremo un incredibile anno 2019. Non sappiamo come cambierà la Brexit, ma è difficile immaginare che gli americani accettino un’Europa dominata dai tedeschi; non sappiamo come andranno le cose anche in Italia. La Francia è paralizzata e la Germania mostra segni di instabilità. La nostra unica certezza è che il tenore di vita continuerà a diminuire per le persone comuni. In tale contesto, si potrebbe davvero imporre l’idea che il vero confronto non sia più tra “fascismo xenofobo” e “democrazia liberale” (l’ortodossia degli ultimi vent’anni), ma tra “democrazia xenofoba” e ” impero autoritario”. E il possibile cambiamento non finisce qui: l’immigrazionismo delle élite, con demografi ufficiali del regime che continuano ad affermare che non vi è alcun problema di immigrazione o integrazione, potrebbe trasformare nelle menti di persone moderate l’originale “xenofobia” del Front National in un legittimo desiderio di un minimo di sicurezza territoriale per la popolazione francese, compresi bambini e nipoti di immigrati nordafricani. Nessuna democrazia rappresentativa è possibile senza un minimo di sicurezza territoriale. Solo l’Impero può far fronte al caos migratorio. E se, inoltre, in un tale contesto, il candidato dell’Impero europeo autoritario ha un’immagine infantile, allora non possiamo escludere la vittoria nel secondo turno delle forze combinate del RN e di Dupont-Aignan.

Quindi escludi l’ipotesi che le élite attuali tengano conto delle aspirazioni delle classi medie e medie?

Considero il peggio, ma ben inteso per evitare il peggio. L’idea che io difendo nel post scriptum al mio ultimo libro è quella di una nuova negoziazione tra la classe superiore e il mondo popolare, conla presa in carico della necessità di nazione da parte delle élite tradizionali. Se cito situazioni di polarizzazione drammatica, è, naturalmente, con la speranza che le persone diventino consapevoli dei rischi e facciano il necessario per evitarli. Sembra, tuttavia, che Emmanuel Macron sia ora un ulteriore ostacolo in questo processo. Ci si chiede se sarà in uno stato intellettuale, psicologico e di legittimità per governare nei prossimi tre anni. Si può sognare un miracolo: lo Spirito Santo che cade su Emmanuel Macron, che capirebbe che dobbiamo uscire dall’euro. Ma non vedo da nessuna parte, né in economia, o nel suo rapporto con Donald Trump, o Vladimir Putin, o il suo approccio alla Brexit, un qualsiasi elemento di flessibilità mentale e originalità. Vedo un elettroencefalogramma piatto. La mia sensazione è che lo shock liberatorio verrà a noi dal di fuori; da un cattiva gestione della Brexit che devasta l’economia europea oppure dalla Germania talmente irrigidita da costringere le classi superiori italiane e francesi alla indipendenza.

Nell’episodio dei Giubbotti Gialli, l’elemento più inquietante è stato l’aumento della violenza da entrambe le parti e la tolleranza della società francese a questa crescente violenza. L’elemento più rassicurante era la simpatia del 70-75% della popolazione per i giubbotti gialli, una simpatia che, a vari livelli, comprendeva ancora l’intera società francese, tutte le categorie sociali, che coinvolgeva persino persone che hanno votato per Emmanuel Macron. Questa solidarietà globale significa che esiste la possibilità di riconciliazione in Francia. La verità della società francese non è l’odio universale. Ma per conseguire una riconciliazione praticabile tra le élite e il popolo, dobbiamo abbandonare gli ormeggi europei, ritrovarci tra francesi, rimboccarci le maniche per riavviare l’economia e la società.

Fonte: Atlantico, Emmanuel Todd , 20-12-2018

UNA VITTORIA STORICA PER L’ONU: GLI ACCORDI GLOBALI SULLE MIGRAZIONI E SU I RIFUGIATI SONO STATI ADOTTATI QUESTA SETTIMANA_traduzione a cura della redazione

Una constatazione più che un giudizio di merito esplicito. La valutazione critica attenta meriterà apposite riflessioni_Germinario Giuseppe

 

UNA VITTORIA STORICA PER L’ONU: GLI ACCORDI GLOBALI SULLE MIGRAZIONI E SU I RIFUGIATI SONO STATI ADOTTATI QUESTA SETTIMANA

 

Il Global Compact on Migration, l’accordo per la migrazione sicura, ordinata e regolare è stato ufficialmente adottato mercoledì scorso dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York; due giorni dopo l’adozione del Global Compact on Refugees. L’approvazione di entrambi i patti conclude un itinerario durato due anni, iniziato con la Dichiarazione di New York 2016 per rifugiati e migranti e terminato con una vittoria storica degli sforzi messi in atto dalle Nazioni Unite volti a regolare i flussi di migranti e rifugiati su scala globale.

Il patto migratorio è stato adottato con un voto che ha registrato 152 stati a favore, cinque contro (Repubblica ceca, Ungheria, Israele, Polonia e Stati Uniti), con 12 astenuti (Algeria, Australia, Austria, Bulgaria, Cile, Italia, Lettonia, Libia , Liechtenstein, Romania, Singapore e Svizzera). 24 paesi non hanno votato: Afghanistan, Antigua e Barbuda, Belize, Benin, Botswana, Brunei Darussalam, Repubblica popolare democratica di Corea, Repubblica Dominicana, Guinea, Kiribati, Kirghizistan, Micronesia, Panama, Paraguay, São Tomé e Príncipe, Seychelles, Slovenia, Somalia, Timor-Leste, Tonga, Trinidad e Tobago, Turkmenistan, Ucraina e Vanuatu.

Ciò significa che 41 dei 193 Stati membri delle Nazioni Unite hanno scelto di non approvare questo pacchetto migratorio. Il numero di scettici è cresciuto dal 10 dicembre, quando 33 paesi non parteciparono alla conferenza intergovernativa per adottare il patto di migrazione a Marrakesh, in Marocco.

A confronto il Global Compact on Refugees ha ottenuto un maggiore sostegno probabilmente dovuto a causa all’aspetto umanitario accentuato delle crisi dei rifugiati. È stato adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite lunedì scorso con un voto che ha visto 181 stati a favore, due contrari (Stati Uniti e Ungheria) e tre astenuti (Eritrea, Libia, Repubblica Dominicana). Sette paesi non hanno votato: Repubblica democratica popolare di Corea, Israele, Micronesia, Nauru, Polonia, Tonga e Turkmenistan.

Solo gli Stati Uniti e l’Ungheria hanno votato no su entrambi i patti. Israele e Polonia hanno votato no sul pacchetto di migranti ma non hanno votato su quello dei rifugiati. La Repubblica ceca ha votato no sul pacchetto di migranti e sì su quello dei rifugiati. La Repubblica Dominicana non ha votato sul patto migratorio ma si è astenuta da quello sui rifugiati. La Libia si è astenuta dal voto su entrambi i patti. L’Eritrea ha votato sì sul patto migratorio ma si è astenuto sull’altro. Repubblica democratica popolare di Corea, Micronesia, Tonga e Turkmenistan non hanno votato su entrambi.

 

L’Alto commissario delle Nazioni Unite per i profughi; Filippo Grandi, ha accolto favorevolmente l’adozione del Migration Compact: “L’efficace attuazione di entrambi i patti contribuirà a rafforzare gli obiettivi l’uno dell’altro“. I due compact sono infatti interconnessi. Coloro che hanno deciso di rinunciare a uno degli accordi dovrebbero logicamente uscire dall’altro; entrambi sono basati sulla Dichiarazione di New York 2016 per i rifugiati e i migranti. Sia i diritti dei migranti che quelli dei rifugiati sono ora destinati a ricadere sotto un nuovo modello di legislazione internazionale.

Sotto il controllo delle Nazioni Unite, le politiche migratorie e di rifugiati saranno dettate dal “multilateralismo” (dopo che il multiculturalismo ha mostrato i suoi limiti). La mobilità umana (sia per migranti che per i rifugiati) non sarà mai più regolata allo stesso modo, questo anche per le nazioni che si sono opposte ai patti.

 

https://cis.org/Rush/Historic-Victory-UN-Global-Compacts-Migration-and-Refugees-Adopted-Week

sovranità, sovranismo e sovranismi, di Giuseppe Germinario

L’esito clamoroso delle elezioni politiche dello scorso marzo e l’avvento repentino ed inatteso del Governo Conte hanno contribuito a rinnovare il vocabolario politico ormai stantìo come lo erano del resto i portatori  della cultura politica corrispondente ad esso. Uno dei termini assurti ad improvvisa notorietà è “sovranismo”. Un termine che in Italia ha fatto capolino da meno di un decennio, ma che in paesi come gli Stati Uniti e la Francia è utilizzato senza scandalo da lungo tempo.

Ad ascoltare le vecchie trombe, sempre onnipresenti sui giornali e nei rotocalchi, nelle rubriche e nei servizi di cosiddetta informazione televisiva non ostante il netto ridimensionamento e la sonora sconfitta, si tratterebbe di un mero insulto associabile tranquillamente a quelli da sempre in auge di fascismo, di nazionalismo, di populismo e via dicendo. Un repertorio ultradecennale di etichette ormai ritrito e dal significato sempre più vacuo riproposto da personaggi sempre meno credibili; una rimozione di concetti che impedisce ogni parvenza di confronto.

Non c’è da attendersi, per altro, da una vecchia classe dirigente decadente e smarrita, addomesticata da decenni a delegare a terzi le scelte fondamentali, ormai nessuno sforzo di comprensione della nuova fase di competizione e conflitto nell’agone internazionale.

Eppure la radice e l’etimologia e il significato del termine originario, sovranità, dovrebbe indurre a maggior curiosità e rispetto proprio perché sottende uno dei principi fondanti dell’impegno politico; di qualsiasi impegno politico di qualsivoglia orientamento.

LA SOVRANITA’

Il concetto di sovranità sottende senz’altro la decisione sulla base di propri orientamenti generali, senza la quale ogni attività politica sarebbe priva di senso; sottende quindi un discrimine. La decisione, a sua volta, per avere senso deve quantomeno cercare di essere messa all’opera e in qualche maniera essere riconosciuta anche dagli oppositori, se presenti in maniera significativa. La normazione e l’istituzionalizzazione forniscono le modalità e i luoghi operativi del complesso delle decisioni e diventano quindi l’oggetto, i regolatori e i condizionatori del conflitto politico tra centri tra loro cooperanti e/o conflittuali, almeno sino a quando quelle modalità sono accettate dalla comunità in maniera prevalente. Il presupposto basico di questa abilità operativa è la disponibilità di forza e la capacità di potenza. Lo stato nazionale è la forma istituzionale che a partire dall’età moderna regola e conduce in maniera sempre più diffusa e pervasiva le dinamiche politiche all’interno e tra le varie formazioni sociali nel mondo nei vari ambiti dell’attività umana.

IL SOVRANISMO

Il termine sovranismo viene coniato e utilizzato, più nella polemica politica che, purtroppo, nel confronto teorico, per affermare la necessità di salvaguardare e potenziare appunto le prerogative dello stato.

Rispetto, però, a chi e cosa?

Pare poco contestabile che esso assuma la maggiore nitidezza e potenza di significato nel confronto e nella contrapposizione con il processo di globalizzazione. Una dinamica quest’ultima di uniformizzazione e di progressivo abbattimento di frontiere per certuni innescata e gestita da un ristretto cartello di potentati organizzato in gruppi elitari (Bilderberg, ect) ed espressione diretta dell’alta finanza. In esso lo Stato viene visto come mero strumento a condizione che sia ridotto di dimensione e svuotato di funzioni oppure come una entità destinata a liquefarsi a vantaggio di organismi sovranazionali sempre più determinanti sotto il ferreo controllo del cartello. Per altri il processo di globalizzazione viene visto come un processo naturale che porterebbe alla costruzione di un governo unico mondiale, fondato per lo più su principi morali minimi e sul diritto universale. In esso gli attuali stati verrebbero a fondersi in unità continentali e quindi a sciogliersi o subordinarsi sotto una unica entità. La conduzione delle società al di là di quei principi minimi comuni sarebbe affidata a comunità particolari autogovernate o attraverso una regolazione spontanea tra individui.

È un successo e nitore di significato poggiati su basi fragili e su una rappresentazione inadeguata delle dinamiche politiche. Il nemico è tanto rappresentato nitidamente quanto inafferrabile e sfuggente all’atto pratico.

La finanza è nient’affatto un cartello unico, tantomeno la detentrice del potere assoluto mondiale e il burattinaio delle infinite trame nello scacchiere geopolitico; nemmeno l’artefice unico delle disuguaglianze tra un pugno di satrapi ed una massa di diseredati così come rappresentate con pressapochismo preoccupante.

Naufragata miseramente l’illusione della contrapposizione tra masse peripatetiche all’inseguimento dei notabili riuniti periodicamente nelle località più amene e il POTENTATO le cui prerogative sono realizzate soprattutto attraverso gli organismi sovranazionali (FMI, BM, WTO, ect), rimarrebbe quindi la contrapposizione tra gli stati e il cartello suddetto. Da qui la rivendicazione delle prerogative sovrane dello Stato ai danni di questo e degli organismi sovranazionali usurpatori.

I LIMITI POLITICI DI CERTO SOVRANISMO

Una chiave di lettura che induce a indirizzi e obbiettivi politici sterili se non controproducenti

I potenti della finanza, in realtà, non costituiscono un cartello compatto, tantomeno sono i decisori ultimi dei destini del mondo. Sono parte integrante dei vari centri strategici decisionali in cooperazione e conflitto tra loro i quali devono disporre e far parte in via prioritaria delle leve istituzionali, quindi degli apparati statali, per il perseguimento delle loro strategie in conflitto. Non si tratta di un uso meramente strumentale. Sono centri che hanno bisogno di leve e di radicamento, quindi di istituzioni, di un territorio dei quali fanno parte; sono espressione e guida di una comunità e di una formazione sociale originaria. In questa dinamica i decisori della finanza sono quindi condizionabili al pari di altri.

Quella rappresentazione infatti induce ad una contrapposizione sterile e meramente declamatoria nei riguardi di figure praticamente inafferrabili.

La contrapposizione Stati/cartello della finanza spinge alla proposta e creazione di un cartello degli stati, pressoché tutti indistintamente sminuiti e svuotati dall’avversario ed interessati, in alcuni casi con il necessario ricambio di classe dirigente, quindi alla Santa Alleanza. Nell’attuale e futuro contesto geopolitico verrebbero a formarsi alleanze politiche paradossali ed improbabili del tutto irrealistiche, le quali riproporrebbero sotto mentite spoglie il consueto conflitto tra centri decisionali e tra stati nazionali, con le loro gerarchie, le loro subordinazioni e i loro dualismi.

Agli organismi sovranazionali si tende ad attribuire una potestà propria che non hanno oppure possiedono di riflesso per conto di questi centri e degli stati nazionali dominanti. Sono il frutto di trattati e il luogo entro i quali e attraverso i quali si esercita l’egemonia e nei momenti transitori la rivalità dei centri e degli stati dominanti. La loro giurisdizione, nei pochi casi di affermazione, non è equiparabile a quella esercitata dagli stati nazionali al proprio interno ed è nel migliore dei casi di tipo riflesso; devono appoggiarsi, quindi, alla forza degli stati. Quelli che sono dei semplici strumenti e servitori assumono, secondo la chiave offerta dal dualismo sovranismo/globalismo, il ruolo di attori dominanti con tutte le incongruenze del caso. In alcuni casi tendono a conquistarsi alcuni margini di autonomia operativa come succede ad esempio in alcune fasi alla Commissione Europea. Tali margini sono però il frutto della prevalenza dello spirito comunitaristico che tende ad attribuire pari peso a tutti i numerosi paesi della Unione Europea, un filo conduttore tipico, ad esempio, della diplomazia comunitaria italiana notoriamente pesantemente subordinata ad indirizzi esterni; soprattutto, tali margini sono possibili grazie alla subordinazione diretta, in una fase di frammentazione politica, e non mediata al deus ex machina dell’Unione Europea, gli Stati Uniti.

Il dualismo sucitato nasconde inoltre un altro grande dilemma irrisovibile secondo lo schema proposto.

Il dualismo sovranismo/cartello finanziario vorrebbe rappresentare efficacemente una dinamica universale alla quale vengono sussunti i vari eventi politici. Il duro confronto con la realtà geopolitica spinge però a ridurre surrettiziamente il dominio del cartello in realtà al solo mondo occidentale. Diventa difficile, allora, spiegare e collocare correttamente il ruolo degli agenti finanziari operanti nei paesi emergenti e rivali del polo statunitense ancora prevalente. Un dominio universale diventerebbe, quindi, relativo e soprattutto localizzato. Gli avversari di questo presunto dominio tendono ad assumere l’aura dei paladini dell’emancipazione e dei fautori di un nuovo ordine sociale più giusto ed egualitario perché capaci di riaffermare “la priorità del politico sull’economico” e di regolare meglio il potere degli agenti finanziari. Si tende quindi a nascondere il fatto che anche gli avversari del polo occidentale, per altro tutto da ricostruire, sono altrettanti agenti di influenza tesi a creare proprie aree geopolitiche di controllo e di dominio di dimensione regionale o globale a seconda delle capacità delle rispettive classi dirigenti. Fautori di nuove formazioni sociali dove comunque si esercita il dominio di élites e centri decisionali con le proprie gerarchie di comando, i propri conflitti, le proprie modalità di sopraffazione e di costruzione delle gerarchie sociali, pur rappresentando alternative positive rispetto ad una prospettiva di dominio unipolare, vengono esibiti come paladini di un modello e di un riscatto sociale a dir poco mitizzato.

In realtà quella rappresentazione attribuisce all’economico, addirittura ad un particolare aspetto di esso, la finanza, una funzione malposta e sopravvalutata. Non è l’economico che predomina; prevale in alcuni contesti e in alcune fasi l’esercizio delle strategie politiche nell’economico rispetto agli altri ambiti. Strategie che hanno comunque bisogno del supporto della forza e normativo proprio degli Stati. Prevale in particolare nei momenti di predominio unipolare quando l’uso della forza e dell’influenza politica diretta può essere più discreto e velato. Assume una appariscenza abbagliante per il carattere ancora particolarmente sofisticato del sistema di dominio ed influenza dell’area occidentale rispetto a quello dei poli emergenti alternativi e sempre più contrapposti, siano essi regionali che globali. L’apparenza del dominio della finanza, così come la rappresentazione liberista dei legami economici, del tutto misitficante rispetto alla realtà delle barriere e dei vincoli che la stessa potenza prevalente, analogamente ai competitori tende a frapporre, tende a nascondere l’ambizione di dominio unipolare di una potenza, dei suoi centri decisionali dominanti, del suo Stato rispetto ai concorrenti. La stessa finanza, i suoi agenti, sono compartecipi di queste dinamiche ed oltre ad assumere la veste scontata di predatori sono i coartefici di un traghettamento di risorse economiche teso a garantire la coesione minima delle formazioni sociali e le risorse che consentano l’esercizio e la realizzazione delle strategie politiche.

I SOVRANISMI

La dura realtà delle dinamiche geopolitiche e delle trasformazioni sociali sempre più convulse sta facendo scivolare di fatto la rappresentazione sempre più inadeguata del dualismo sovranismo(Stato)/cartello della finanza verso un confronto tra “sovranismi”. Tra centri decisionali i quali, attraverso l’affermazione delle prerogative dello Stato, riescono a prevalere e predominare ed altri che tendono prevalentemente a subire da alcuni e influenzare in maniera subordinata altri di rango inferiore. In questo contesto il termine “sovranismo” è destinato ad affermarsi, ma a sfumare di significato e valenza simbolica, giacché tende a rappresentare sia gli aspetti di emancipazione che quelli di predominio dell’esercizio delle prerogative statuali. In ogni caso l’azione politica e la strategia politica, nei suoi vari ambiti di azione, è destinata a riprendersi il suo ruolo nel dibattito teorico e nella rappresentazione degli eventi. Con essa tornerà ad assumere una più corretta collocazione il ruolo della forza, della potenza, dell’egemonia e più prosaicamente il ruolo e la funzione dello Stato e delle sue istituzioni sia nel sistema di relazioni internazionali, sia nelle dinamiche interne proprie di funzionamento attraverso il confronto tra centri decisionali, sia nella funzione di plasmare le formazioni sociali.

Alcuni studiosi più avveduti hanno stigmatizzano l’uso del termine da parte di forze politiche approssimative le quali ipotizzano la necessità di un’azione solitaria, solipsistica, atomistica degli stati nazionali, in particolare dell’Italia, nel contesto geopolitico. Una condizione irrealistica anche rispetto a quelle di alleanze instabili e mutevoli tipiche di paesi in grado di esercitare una significativa sovranità e propria di fasi politiche di transizione. Non si tratta solo di primitivismo; spesso si tratta di una particolare forma di sovranismo che tende ad attribuire ancora una volta alle relazioni economiche la prevalenza se non l’esclusività. Una posizione, ad esempio, espressa sino a poco tempo fa da un personaggio politico lucido come Claudio Borghi nella Lega. Una espressione tipica, ad esempio, di ceti imprenditoriali medi e piccoli i quali vedono in uno stato nazionale del tutto sganciato da alleanze e vincoli la possibilità di costruire relazioni economiche ed affari con qualsivoglia soggetto. Ancora una volta un modo di riproporre l’irrealistica superiorità e l’universalismo mitizzato dell’economico rispetto alla limitatezza dell’azione politica. Certamente la dura realtà sta costringendo Borghi a modificare nei fatti tali convinzioni. La mancata razionalizzazione di tali cambiamenti può però spingere a situazioni nefaste ed imprevedibili, almeno rispetto alle intenzioni dell’attuale nuova classe dirigente in via di formazione.

IL FUTURO DEL SOVRANISMO

Tutto ciò sembra spingere i più accorti ad accantonare il termine, piuttosto che salvaguardarlo e potenziarlo di significato rispetto a queste rappresentazioni riduttive. Una rinuncia che somiglia ad un rinvio e ad una resa in una fase di battaglia politica aperta da risolvere sul campo del confronto teorico e dell’analisi politica. Così come appare pericoloso il tentativo di attribuire un attributo, sia esso popolare, costituzionale o altro, al termine sovranità in modo tale da contrapporre in termini antagonistici, nel classico schema destra-sinistra, i vari sovranismi, patriottismi e nazionalismi che dir si voglia in una fase in cui gli antagonisti da sconfiggere sarebbero altri. Una tentazione ricorrente che sente il bisogno di associare il termine sovranità ad entità astratte o reali, come quella di popolo, le quali non esercitano per costituzione o fattualmente il loro potere decisionale se non attraverso l’influenza e la azione di élites e centri decisionali. Un discorso che meriterebbe e meriterà attente considerazioni a parte.

Sono limiti ed incomprensioni che non riguardano fortunatamente solo questo campo politico.

LE FAGLIE

George Soros, presentato come l’essenza del protagonismo e l’onnipotenza del predominio globalista, lo ha implicitamente disvelato nella insolita sequela di interventi ed interviste di questo, in particolare nel suo intervento, ben coadiuvato dai suoi adepti e serventi ossequiosi, al festival dell’economia di Trento.

Ha semplicitamente incluso in un “annus horribilis”, giustificato da imprecisati errori la sequela di sconfitte politiche iniziate con l’elezione di Trump e proseguite con l’affermazione di Orban in Ungheria, Kurtz in Austria, la triade Conte-Salvini-Di Maio in Italia e la mancata elezione di procuratori legali di fiducia (avete letto bene) negli Stati Uniti; ha risolto il dilemma politico, confortato dalla sola elezione di Macron in Francia, rivelatasi progressivamente effimera, suggerendo semplicemente pragmatismo.

Soros, non ostante la vulgata, non è il deus ex machina della globalizzazione. È una pedina importante ed influente di un centro strategico e finanziario colossale, i Rotschild, a loro volta parti di centri decisionali ben più importanti e dal raggio di azione ben più ampio dell’ambito finanziario.

Dispongono di un armamentario ideologico, di apparati e di forza ancora impressionanti, superiori ma non più esclusivi; non dispongono di una strategia vincente e soprattutto ancora in grado di prendere atto della incipiente formazione di nuovi poli di potenza autonomi.

Un logoramento evidente, reso con ogni evidenza trasparente negli Stati Uniti, laddove nuove élites stanno riuscendo a cristallizzare in centri di potere e negli apparati le loro azioni politiche e le loro strategie sia pure al prezzo di pesanti compromessi. Meno determinante in Europa laddove la loro crisi si manifesta in una condizione di stasi nei paesi egemoni (Francia e Germania) e nella prevalenza di forze “sovraniste” in Europa Orientale imbrigliate dalla russofobia e suscettibili quindi di prestarsi a nuove e più stringenti subordinazioni di stampo atlantista. Nel mezzo la situazione italiana ormai oscillante verso questa seconda opzione.

Come chiarito da Piero Visani nella recente intervista su questo blog, si tratta di una di quelle rare faglie che periodicamente si aprono nel contesto geopolitico e nella coesione delle formazioni sociali le quali, però, non durano indefinitamente. Il miracolo raro nelle contingenze politiche deve essere la concomitanza tra contingenza politica favorevole e la formazione di un ceto politico adeguato a coglierla. I tempi di formazione dell’una il più delle volte non coincidono con quelli dell’altra.

Esiste una prima traccia della formazione di due internazionali. Quella globalista, consolidata e strutturata, forte della sapienza maturata negli ultimi quaranta anni, prosegue pervicacemente anche se annaspa nella visione generale. Quella cosiddetta “sovranista”, rappresentata dall’avvento in Europa di Bannon, un personaggio politico come minimo ormai ai margini della battaglia politica negli USA, portatore della ipotesi sovranista criticata da questo articolo. Potrebbe essere, purtroppo, il prodromo di una deriva di questi movimenti ancora nascenti. Il fatto che le redini siano in mano a due esponenti politici militanti americani dovrebbe indurre a qualche cautela maggiore nelle scelte. Altra cosa è il dibattito politico e teorico sul quale gli studiosi e strateghi americani sono più avanti di parecchie spanne. Su questo il confronto dovrebbe essere molto più serrato.

 

A trenta chilometri da Macerata, di Roberto Buffagni

I nostri lettori, per lo meno alcuni di essi, si chiederanno il motivo dell’ostinazione con la quale la redazione di Italia e il Mondo si stia concentrando sui fatti di Macerata e dintorni a partire dall’assassinio atroce di Pamela Mastropietro. Un accanimento proprio di un giornale di inchiesta piuttosto che di un gruppo sparuto impegnato con scarsi mezzi e ancor meno tempo nell’analisi politica e geopolitica.

Tranquilli!

Non si tratta di un cedimento alla attenzione morbosa e ossessiva al gossip più macabro; nemmeno di uno snaturamento della natura e delle intenzioni che stanno sorreggendo l’impegno della redazione. Tutt’altro!

Alberga la sensazione sempre più netta che i fatti di Macerata, se messi a nudo nella loro integrità e nella loro profondità, possano contribuire a smascherare in maniera decisiva la grettezza, la pochezza, l’ignoranza, la complicità, l’accondiscendenza, la perversione della gran parte di una classe dirigente che ha preso in mano, per la precisione si è vista consegnare le redini del paese da trenta anni, a partire da Tangentopoli. Una classe dirigente in evidente crisi di credibilità, che sta perdendo il controllo di alcune leve, ma che detiene ancora saldamente, anche se in maniera sempre più disarticolata, il resto delle funzioni di controllo e di comando, il reticolo di strutture e apparati in grado di conformare una comunità e una nazione.

Quello che i fatti di Macerata rischia di evidenziare è:

  • il pressapochismo e l’ignoranza con la quale si è affrontato il problema dell’immigrazione consentendo la formazione di enclaves e comunità chiuse spesso in territori sui quali lo Stato, alcuni settori di essi, fatica a detenere anche storicamente il controllo e nei quali spesso e volentieri scende a patti, si fa permeare e convive con le forze più retrive e dissolutrici
  • il peso crescente e abnorme che il cosiddetto “terzo settore” ha assunto progressivamente nella formazione di risorse economiche, di una classe dirigente e di un ceto politico; un processo non a caso concomitante con la politica di dismissione e spoliazione della grande industria privata e soprattutto pubblica e di disarticolazione di alcuni apparati centrali dello stato. Tutti ambiti dai quali si formavano gli esponenti più lungimiranti e capaci di strategie politiche di una qualche consistenza apparsi sino agli anni ’80. Non si vuole certo sminuire l’importanza del settore e la buona fede e l’impegno di gran parte degli operatori. Va sottolineato piuttosto il peso abnorme rispetto al resto delle attività di una formazione sociale e l’inerzia che innesca la creazione di apparati burocratici di tali dimensioni specie negli ambiti assistenziali
  • la progressiva e supina remissività e subordinazione, senza alcun sussulto e capacità di trattativa, a strategie politiche esterne al paese e contrarie e ostili agli interessi della parte preponderante della nazione e del paese sino ad arrivare ai mercimoni più miserabili. Gli accordi europei passati, riguardanti i punti di approdo marittimo, sono certamente uno di questi

I fatti di Macerata, probabilmente, non sono nemmeno l’epicentro di fenomeni che stanno attraversando il paese. Sono, piuttosto, la punta di un iceberg che si estende in altre parti ben più importanti del territorio. Sono emersi lì, perché si tratta di un territorio ancora non del tutto compromesso e dove l’assassinio di una ragazza può emergere ancora come un fatto di cronaca rilevante capace di porre interrogativi esistenziali.

Le pressioni per mantenere sotto traccia o addirittura rimuovere l’episodio devono essere enormi e il comportamento oscillante degli organi inquirenti sono l’indizio probabilmente del loro peso.

Una situazione che altrimenti, sfuggita di mano, rischia di assestare un colpo definitivo alla credibilità residua di una classe dirigente, affetta com’è dalle tare del cosmopolitismo, del pensiero liberale debole, dell’umanitarismo compassionevole. Tutte categorie in crisi evidente, ormai incapaci di offrire adeguate chiavi di interpretazioni, tanto meno di politiche adeguate. L’ascesa di Trump ha offerto l’occasione per scatenare queste dinamiche. Categorie alle quali sembrano ancora abbarbicate i superstiti di questa classe dirigente e che rischiano di essere la causa ultima del loro declino e dell’erosione del loro potere_Buona lettura, Germinario Giuseppe

A trenta chilometri da Macerata

 

Nel marzo del 2018, a 29,7 chilometri da Macerata, a 11,3 chilometri dal Colle dell’Infinito leopardiano, sono stati ritrovati una cinquantina di resti umani[1] sotterrati nei pressi dell’ Hotel House, “grattacielo multietnico” di Porto Recanati.

Due giorni fa, esami di laboratorio eseguiti sulla polpa di un dente hanno accertato che tra i resti ci sono anche quelli di Camey Mossamet, quindicenne bengalese scomparsa nel 2010[2]. Camey abitava a Tavernelle, all’Hotel House aveva un fidanzatino. E’ nei pressi dell’Hotel House che è stata vista per l’ultima volta.[3]

Il 29 maggio 2010 l’incantevole ragazzina uscì di casa per andare a scuola, ad Ancona, e sparì nel nulla. Nel nulla finirono anche le indagini. L’avvocato Luca Sartini dell’ Associazione Penelope, che assiste i familiari di persone scomparse, all’epoca seguì le indagini[4]. L’Associazione voleva incaricare delle ricerche un investigatore, e chiese alla Procura di vedere il fascicolo delle indagini, per non sprecare tempo cercando dove la polizia già avesse fatto sopralluoghi. La Procura negò l’accesso al fascicolo perché Sartini non aveva indicato gli atti precisi da visionare. Cosa tutt’altro che facile: l’Avv. Sartini non è chiaroveggente, e non poteva sapere quali indagini avessero condotto gli inquirenti. Secondo l’Avv. Sartini, gli inquirenti s’erano formata la convinzione che all’interno della famiglia ci fosse omertà, e che insomma Camey, una ragazzina che voleva vivere all’occidentale e amava giocare a calcio, fosse stata riportata in Bangladesh contro la sua volontà: tant’è vero che si fecero indagini anche colà, naturalmente senza risultati. Per smentire questa ipotesi investigativa, Sartini accompagnò la madre e il fratello di Camey a un colloquio con il Procuratore. Non è servito, a quanto pare. Tuttora non si sa dove abbiano svolto ricerche gli inquirenti. Non si può che convenire con l’Avv. Sartini, quando dichiara che “non dovessero aver cercato lì, a pochi metri dall’Hotel House, dove è stata vista per l’ultima volta, sarebbe scandaloso.” Aggiunge Sartini che gli è capitato di seguire diversi casi, e “senza polemiche, ci sono indagini di serie A e di serie B.”[5]

Non c’è dubbio: senza polemiche, ci sono indagini di serie A e di serie B. Da che cosa sia dipesa l’iscrizione dell’indagine su Camey nel campionato minore, non è facile capire. Può essere la ragione più vecchia del mondo: socialmente, la famiglia di Camey conta zero, e per chi conta zero gli inquirenti, salvo eccezioni, tendono a impegnarsi meno. Oppure: se l’ipotesi degli inquirenti era “Camey riportata contro la sua volontà in Bangladesh a scopo matrimonio forzato”, l’argomento era delicato perché si presta a polemiche contro i mussulmani, l’integrazione degli immigrati, le magnifiche sorti della società multietnica e progressiva, etc. O anche: il “grattacielo multietnico” Hotel House, dove vivono e convivono, male, duemila e passa persone, quasi tutte immigrati di varie etnie e religioni, già nel 2010 era un focolaio di crimini[6] e malvivenza che le autorità non riuscivano a controllare e tanto meno a sanare. Ma sino a quel momento, si parlava di spaccio di droga, furti, prepotenze: reati odiosi, ma non atrocità terrificanti. Alla microcriminalità endemica le popolazioni possono, tristemente, abituarsi e rassegnarsi. Abituarsi e rassegnarsi all’orrore senza nome è meno facile, in tempo di pace (almeno nominale). Possibile che il timore di scoprirsi in precario equilibrio sull’orlo di un “pozzo degli orrori”, come anni dopo i giornalisti avrebbero chiamato la fossa comune con i resti di Camey e di altre vittime sinora ignote, abbia infuso negli inquirenti una semiconsapevole propensione a quieta non movere?

Non so. Non so neanche se il ritrovamento dei resti umani a due passi dell’Hotel House possa essere collegato all’assassinio e allo smembramento di Pamela Mastropietro, per il quale sulle prime qualcuno (tra i quali anch’ io) parlò di omicidio rituale.

Un letterato del IV secolo, Onorato, nei suoi Commentarii in Vergilii Aeneidos libros VIII scrive: “…in omnibus sacris feminei generis plus valent victimae”, in ogni tipo di rito le vittime migliori sono di genere femminile. Ma sono passati millesettecento anni, e da quei tempi bui tutto è cambiato. O no?

[1] https://www.cronachemaceratesi.it/2018/03/29/pozzo-dellorrore-trovati-oltre-50-reperti-il-sindaco-la-citta-e-sicura/1084978/

[2] https://www.cronachemaceratesi.it/2018/06/29/pozzo-dellorrore-le-ossa-sono-di-Cameyi/1121347/

[3] https://www.cronachemaceratesi.it/2018/03/29/unamica-di-Cameyi-non-so-se-siano-i-suoi-resti-ma-lascio-un-fiore/1084906/

[4] https://www.cronachemaceratesi.it/2018/04/01/il-legale-che-segui-il-caso-Cameyi-volevamo-cercarla-con-un-detective-ci-fu-negato-di-vedere-il-fascicolo/1085465/

[5] Ibidem

[6] https://www.cronachemaceratesi.it/2018/06/14/hotel-house-al-setaccio-in-sei-mesi-di-controlli-12-arresti-e-177-denunce/1114776/ ; https://www.cronachemaceratesi.it/2018/04/24/al-setaccio-hotel-house-e-river-perquisite-diverse-case-foto/1094802/ ; https://www.cronachemaceratesi.it/2018/04/24/blitz-in-21-appartamenti-due-denunce-per-spaccio-sette-persone-saranno-espulse/1094640/ ; https://www.cronachemaceratesi.it/2018/06/21/forze-dellordine-allhotel-house-necessario-un-presidio-permanente/1118049/ ; https://www.cronachemaceratesi.it/2018/03/31/hotel-house-sfuggito-di-mano-problema-piu-grande-delle-nostre-forze/1085595/ ; https://www.cronachemaceratesi.it/2018/04/18/hotel-house-lira-dellopposizione-cittadini-umiliati-il-sindaco-agisca/1092037/ eccetera, eccetera.

La complessità di un mondo multipolare. Videointervista a Pierluigi Fagan_3a parte

Qui sotto il link della terza ed ultima parte dell’intervista. Pierluigi Fagan ha svolto per oltre venti anni la professione di imprenditore e manager. Da oltre tredici si è dedicato intensamente allo studio in vari campi, privilegiando in particolare l’ambito filosofico e teorico-politico. Nel 2016 ha pubblicato un libro edito da Fazi dal titolo: VERSO UN MONDO MULTIPOLARE, il gioco di tutti i gioche nell’era Trump. Buon ascolto

La complessità di un mondo multipolare. Videointervista a Pierluigi Fagan_2a parte

Qui sotto il link della seconda delle tre parti dell’intervista. Pierluigi Fagan ha svolto per oltre venti anni la professione di imprenditore e manager. Da oltre tredici si è dedicato intensamente allo studio in vari campi, privilegiando in particolare l’ambito filosofico e teorico-politico. Nel 2016 ha pubblicato un libro edito da Fazi dal titolo: VERSO UN MONDO MULTIPOLARE, il gioco di tutti i gioche nell’era Trump. Buon ascolto

NOTE SU DIPENDENZA DEGLI STATI E GLOBALIZZAZIONE, di Teodoro Klitsche de la Grange

NOTE SU DIPENDENZA DEGLI STATI E GLOBALIZZAZIONE

Indice:

1) Posizione del problema; 2) Dipendenza giuridica e politica; 3) Forme e regolarità politiche; 4) Sovranità e indipendenza: Bodin 5) Transizione di epoche e idee della globalizzazione; 6) Loro inconvenienti; 7)  Fini della politica; 8) Conclusione.

1.0 Il pianeta è diviso tra tanti Stati sovrani, i quali formalmente – ossia sul piano giuridico – sono uguali, ma la cui differenza di potere reale ne riduce – correlativamente – la possibilità di esercitare (parzialmente) prerogative e diritti, in applicazione del detto di Spinoza per cui tantum juris quantum potentiae.

Santi Romano (tra i tanti) scriveva che «essendo la comunità internazionale, di regola, paritaria, nel senso che i suoi membri non dipendono l’uno dall’altro, ciascuno di essi… si dice che ha una sovranità perché non è in una posizione subordinata verso altri soggetti»[1]. Tuttavia, proseguiva, tale regola non è assoluta[2]; ma derogarne è sicuramente un’eccezione[3]. Ed occorre distinguere «l’appartenenza ad un’unione amministrativa o alla Società delle nazioni, tanto meno una semplice alleanza, non significa da per sé perdita della sovranità. Viceversa, gli Stati soggetti a protettorato o alla tutela della Società delle nazioni sono eccezionalmente degli Stati internazionalmente non sovrani, cioè subordinati agli Stati protettori o alla Società medesima, che, rispetto ad essi, sono quindi sovrani». Secondo il giurista siciliano, contrariamente all’opinione di altri «la verità è invece che lo Stato protetto, come quello tutelato, non assume solo obbligazioni singole e determinate, ma entra in un complesso “status subiectionis”, si sottomette ad altri soggetti per una sfera più o meno ampia della sua personalità, e tutto ciò riguarda non la sua libertà nel campo dei rapporti veramente obbligatorii, ma la sua posizione d’indipendenza, la sua sovranità e, come conseguenza, anche la sua capacità».

Effetto della mancanza di sovranità è «la limitazione della capacità internazionale degli Stati protetti o tutelati: limitazione che si ha anche…. verso i terzi, il che conferma (trattarsi)… di una posizione personale»[4].

Tale limitazione di capacità non è incompatibile con la personalità internazionale[5]; come conferma, scrive Santi Romano, la condizione degli Stati vassalli (dell’Impero ottomano).

Diverso era il regime giuridico delle colonie, in particolare perché la presenza dello Stato colonizzatore si estendeva anche all’amministrazione interna e diffusa dei territori coloniali.

Tutte tali classificazioni hanno il connotato comune di essere giuridiche – e non solo politiche – e di tradursi in modificazioni degli ordinamenti (e dei collegamenti tra questi) e della normativa conseguente.

Tuttavia, vi sono altre forme di dipendenza assai note, che rispettano formalmente il carattere sovrano dello Stato dipendente[6].

Così ad esempio all’epoca della Guerra Fredda si parlava di «Stati-satellite» in relazione agli Stati dell’Est europeo a regime comunista, quali nazioni egemonizzate da una grande potenza, ma formalmente sovrane (tale carattere era, di rimando, attribuito da oltre cortina a Stati facenti parte della Nato, come Italia e Germania Ovest). Tenuto conto che il dominio politico della potenza egemone nell’Est europeo era esercitato attraverso «partiti fratelli» (comunisti) più che regolamentato in istituti giuridici (i quali comunque, non mancavano) il termine era adeguato alla realtà politica. Com’era naturale, il crollo del comunismo fu anticipato dalla de-comunistizzazione di alcuni di tali Stati e la regolamentazione giuridica dello stato di «satellite», seguì la fine politica dei partiti comunisti.

Stato-fantoccio è un concetto assai prossimo a quello di Stato-satellite. Per lo più l’espressione è usata per Stati – o regimi politici – che devono la loro esistenza a un soggetto più potente, quasi sempre un altro Stato. Spesso è un modo per esercitare l’occupazione militare: in altri casi, anche se il rapporto di «filiazione» tra Stato fantoccio e sconfitta – occupazione militare è (quasi) una regolarità, lo Stato-fantoccio subentra all’occupazione. Non è detto tuttavia che tale carattere implichi una subordinazione giuridica (anzi in genere non esiste) ma è dovuto a motivi politici e militari. Stati-fantoccio hanno ottenuto spesso anche il riconoscimento non solo delle potenze occupanti (o ex-occupanti) ma anche di Stati terzi.

2.0 La distinzione tra l’una e l’altra categoria di Stati per così dire «a sovranità limitata»  (o a indipendenza relativa) consiste sotto il profilo giuridico, dalla assenza, nel primo caso (protettorati, colonie) di una (completa) capacità internazionale, e sul piano interno dalla presenza di organi di «controllo»            (in effetti di governo o meglio – secondo i casi – di sorveglianza del governo) nominati dallo Stato protettore (ovvero dominante); nella seconda invece la capacità internazionale è piena e l’intromissione nelle attività di governo interne è esercitata (quasi) sempre per influenza politica sull’attività e spesso sulla nomina delle cariche di governo e/o di (alta) rilevanza politica.

Ovviamente in tale ultima classe, vale quanto scriveva Santi Romano per il protettorato (v. sopra): la forma e gli istituti concreti che il dominio politico può assumere non consente di tracciare confini netti; in astratto la differenza degli uni e degli altri è distinguibile agevolmente, in concreto no. Questo soprattutto perché il concetto di dipendenza politica è più ampio e determinante, ovvero è difficile che una dipendenza giuridica non si traduca in politica; nonché – e anche come conseguenza, perché le forme che il dominio assume possono cambiare senza che ne muti la sostanza. L’Egitto moderno ad esempio fu giuridicamente un protettorato della Gran Bretagna solo per pochi anni durante il primo conflitto mondiale, e poi fino al 1922. Ciò non toglie che prima e dopo la Gran Bretagna ne condizionava la politica in modo determinante, di guisa che l’Egitto «indipendente» fu teatro di battaglie tra potenze dell’Asse ed alleati nella seconda guerra mondiale, a quasi vent’anni dalla concessa «indipendenza».

3.0 Le forme (giuridiche) di dipendenza tra gli Stati (o tra Stati ed altri territori) costituiscono un reperto archeologico dopo la fine della seconda guerra mondiale e la decolonizzazione. È difficile trovare un trattato di diritto internazionale, di recente pubblicazione, che li prenda in esame. In qualche modo è comprensibile, atteso che di Stati protetti e di colonie (in senso giuridico, ben s’intende) non risulta che ne esista uno.

Peraltro l’esistenza di unità politiche «dipendenti» si riscontra costantemente nella storia. Lo erano la Giudea, l’Arabia Nabatea, l’Armenia (e altri) ai tempi dell’Impero romano. La Cipro dei Lusignano dipendeva da Venezia, la Transilvania dall’Ungheria nel Medioevo. Le repubbliche rivoluzionarie e poi i regni napoleonici dopo la rivoluzione francese dalla Francia. E così fino alla seconda guerra mondiale (ed oltre).

Tuttavia tale (apparente) assenza – a noi contemporanea – non significa che il rapporto di dominio sia venuto meno. Vale pur sempre la regolarità del politico esposta da Tucidide nel famoso dialogo tra gli ambasciatori ateniesi e i maggiorenti di Melo[7]. Pertanto il dominio (e la differenza tra rapporti di forza che presuppone) si esercita in modo diverso. Ciò per varie ragioni.

In primo luogo perché così viene occultato: non traducendo in istituti giuridici il rapporto di comando-obbedienza, questo è meglio nascosto. Si ubbidisce meglio e con minor resistenza a chi non comanda palesemente e con frastuono di «grida». Inoltre così è attenuata anche la responsabilità: uno Stato sovrano – anche se satellite o fantoccio – è responsabile pienamente dei propri atti (e omissioni), una colonia o un protettorato no (o non pienamente).

4.0 I giuristi, come Santi Romano, pongono il problema in termini giuridici (capacità-personalità); a un pensiero politico realista occorre qualcosa di diverso: più sein che sollen. Si può definire – com’è stato fatto – la sovranità come «competenza sulle competenze»; la si può denotare in un elenco di attività e funzioni (le vraies marques di Bodin); o come decisione sull’idea di diritto che debba valere nella comunità, o semplicemente negandola come fa Kelsen.

Ma, a basarla sul dato reale e concreto, la migliore definizione la si ricava da Sieyés, nelle sue considerazioni sulla Nazione, applicabili alla sovranità «La Nazione esiste prima di ogni cosa, essa è l’origine di tutto. La sua volontà è sempre conforme alla legge, essa è la legge stessa. Prima di essa e al di sopra di essa non c’è che il diritto naturale… una nazione non può né alienare né interdire a se stessa la facoltà di volere; e qualunque sia la sua volontà, non può perdere il diritto di mutarla qualora il suo interesse lo esiga»[8]. È il volere libero, il connotato sostanziale del sovrano.

La stessa impostazione che dava Bodin della sovranità ruota intorno alla volontà del sovrano ed ai suoi limiti, ovvero se sia obbligato dai trattati con gli Stati esteri; o dalla legge; o dalla costituzione; o dal diritto naturale[9].

Bodin si pone anche il problema se possa dirsi sovrano un principe che sia feudatario o tributario e inizia affermando «Abbiamo detto poc’anzi che si può dire sovrano solamente chi non dipende, eccezione fatta per Dio, altro che dalla sua spada. Se uno dipende da altri non è più sovrano»[10].

Nel capitolo successivo, dopo aver dato una soluzione così semplice (sovranità = non dipendenza da altri) Bodin espone quali sono le vraies marques de la souveraineté. E scrive: «Infatti, chi non riterrebbe sovrano colui che possa dettar legge a tutti i suoi sudditi, decidere la guerra e la pace, nominare tutti gli ufficiali e magistrati del paese, levare taglie e affrancare chi meglio creda, dar la grazia a chi abbia meritato la morte? Che altro ancora si può richiedere per considerare sovrano un principe?»[11]; ma subito dopo ritorna sullo stretto rapporto sovranità/indipendenza «come potrebbe essere sovrano chi riconosca la giurisdizione di un superiore il quale possa annullare i suoi giudizi, modificare le sue leggi, castigarlo se commette abusi?»[12] e aggiunge, in sostanza, che il tutto è un principio d’ordine[13].

Anche quando scrive della prima marque (cioè del potere di dare, modificare, abrogare le leggi) specifica «Perciò possiamo concludere che la prima prerogativa sovrana è il potere di dare la legge a tutti in generale e a ciascuno come singolo; ma ancora questo non è sufficiente, se non si aggiunge: “senza il bisogno del consenso di nessuno”. Se il principe dovesse attendere e osservare il consenso di un superiore, non sarebbe che un suddito; se di un uguale, avrebbe un compagno di potere; se dei sudditi, del senato o del popolo, non sarebbe sovrano».

Quando poi scrive di un’altra marque, quella di nominare gli alti magistrati, afferma: «Ma ho parlato di ufficiali più alti o di primi magistrati, perché in realtà non vi è Stato ove non sia permesso ai più alti magistrati e a certi corpi e collegi di eleggere qualche ufficiale minore»[14]; così quando tratta del potere di giudicare in ultima istanza (cioè – anche – di annullare le sentenze) sostiene «Ma, al contrario, quando il principe sovrano lascia il suo suddito o vassallo il potere del diritto di giudizio in ultima istanza, o addirittura delle prerogative sovrane che apparterrebbero a lui, egli fa del suddito un principe sovrano»[15].

Bodin doveva cercare di ricondurre alla propria teoria dello Stato (moderno) proiettata nell’avvenire, istituti e rapporti giuridici esistenti in un’età di transizione tra il vecchio ordine feudale (policratico) e il nuovo ordinamento statale; peraltro, forse perché era un giurista, finiva in qualche misura, anche nel cadere in un eccesso di giuridificazione della sovranità[16].

5.0 La teoria di Bodin elaborata, come scritto, in un’epoca di transizione (Hauriou chiamava epoche le diverse fasi di una civiltà o «era»; così l’epoca medievale o quella del rinascimento[17]), può essere rivisitata per valutare la situazione contemporanea anch’essa di transizione (assai avanzata) tra l’ordine westphaliano e uno futuro di cui si percepiscono i contorni.

All’uopo le maggiori differenze tra il vecchio e nuovo ordine sono:

1) Il carattere della globalizzazione. Ovviamente questa non è nata con la fine dell’ordine di Yalta (o con internet), come spesso creduto. Va avanti almeno dalle gradi «scoperte» dei navigatori europei dell’inizio dell’età moderna. La differenza tra il tempo di Filippo II e Elisabetta I e l’attuale è che, fino a qualche decennio fa la globalizzazione era «gestita» o meglio «regolata» e «limitata» dagli Stati (dalla politica): tutela cui si sta sottraendo (o meglio si è già in notevole misura) sottratta.

Il primato dell’economia nella politica si sviluppa riducendo la capacità ordinatrice della seconda e quindi degli Stati.

2) La diffusione dei soggetti «politici».  Non sono solo partiti e movimenti partigiani, ma anche lobbies e centri di potere economico e finanziario, sette e chiese. Qualcuno potrebbe obiettare: nulla di nuovo. E in effetti una situazione del genere ha più punti di contatto con l’assetto policratico dei feudatari, delle gilde e degli ordini monastico-militari che con l’età moderna.

3) Le ideologie pacifiste e la diffusione di forme di guerra «alternativa». Ossia non violente o comunque a «bassa intensità».

Il lavoro che ne tratta è l’ormai «classico» «Guerra senza limiti» dei colonnelli cinesi Quiao Liang e Wang Xiangsui. Quel che ne consegue è che simili forme di guerra rientrano facilmente nella disponibilità di soggetti non-politici (nel senso sopra precisato). Come scrivono i colonnelli suddetti «Quando la gente comincia ad entusiasmarsi e a gioire proponendo per la riduzione di forze militari come mezzo per la risoluzione dei conflitti, la guerra è destinata a rinascere in altre forme e su di un altro scenario, trasformandosi in uno strumento di enorme potere nelle mani di tutti coloro che ambiscono ad assumere il controllo di altri paesi o aree. In tal senso esistono fondate ragioni per sostenere che l’attacco finanziario di George Soros all’Asia Orientale, l’attacco terroristico di Osama Bin Laden all’ambasciata militare in Sudan, l’attentato chimico alla metropolitana di Tokyo da parte dei discepoli  di Aum Shiri Kyo e i disastri perpetrati ai danni della rete da personaggi come Morris Jr., il cui livello di distruzione non è certo secondario a quello di una guerra, rappresentano una “semi-guerra”, una “quasi-guerra” e una “sotto-guerra”, vale a dire la forma embrionale di un altro genere di guerra»[18].

4) Il potere indiretto. Diversamente dagli imperi europei dell’era moderna dove la potenza colonizzatrice (e dominante) aveva responsabilità per la gestione dei territori soggetti, nel caso delle forme di dominio contemporanee, proprio perché esercitato più con strumenti politici che formalizzate giuridicamente, la responsabilità della potenza (o del potere) egemone non è giuridicamente configurabile. Anche se poi è chiaro che dietro a certi belligeranti e a certe guerre, vi sono potenze che «tirano i fili». Ma è una situazione estremamente comoda quella di uno Stato (o altro soggetto) che esercita un potere senza assumerne la responsabilità. Per questo è molto ricercata e sviluppata in questo tempo di pacifismo imperante (e d’ipocrisia diffusa), anche se non sconosciuta nei secoli passati.

5) Il consenso di terzi nell’esercizio di prerogative sovrane. È questo, come scrive Bodin che de-sovranizza il principe (v. sopra citato rif. nota 11). Nella realtà la dipendenza politica di uno Stato da un altro si è sviluppata, nel corso del XX secolo, in forme diverse, prima sconosciute o comunque meno frequentate.

Tipica è la dipendenza «ideologica» (a partire dalle repubbliche giacobine), dopo la pausa del XIX secolo, è aumentata nel secolo passato; il fattore d’incremento principale è stato il partito (e quindi lo Stato) totale, in effetti anche transnazionale. Com’è evidente nel comunismo «organizzato» prima nel Comintern e poi nel Cominform, ma anche nella diffusione, già nel secondo anteguerra, di partiti fascisti, giunti per lo più al potere nei rispettivi Stati a seguito dell’occupazione militare delle potenze dell’Asse.

La stessa dipendenza economica è incrementata (ideologicamente). Se si reputa ottimale un assetto libero-scambista, questo, in generale è preferibile: ma se si vuole negare che uno Stato abbia il diritto d’imporre limitazioni alla circolazione di merci, servizi e persone, anche nei casi di necessità estrema (eccezione), non lo è. Al contrario: il tutto riduce drasticamente la legittimità del  potere politico, il quale istituito per il conseguimento del bene comune, trova in questo la propria regola di comportamento.

Altri tipi di dipendenza – spesso correlativi alla «permeabilità» degli Stati, si possono sviluppare attraverso il progresso tecnologico: se i due bravi colonnelli sopra citati configurano un atto di guerra con attacchi informatici, il relativo mezzo può essere utilizzato come strumento d’influenza e quindi di dipendenza.

Il potere mediatico può ottenere lo stesso risultato: anche in tal caso la corrispondente forma di guerra, ossia la guerra psicologica può convertirsi, in periodo di pace, in un’influenza/dominio sull’opinione pubblica di un popolo, determinandone scelte e orientamenti.

6) La negazione del nemico. L’aspirazione diffusa alla pace, convertita in «dottrina» dalle ideologie pacifiste che hanno come connotato comune di aver trovato l’elisir per eliminare la lotta (i mezzi sono diversi secondo l’una o l’altra)[19] comporta anche la negazione del nemico; ma la lotta è una condizione generale della politica, e l’ostilità (attuale o potenziale) ne è il corollario (e il presupposto).

La negazione del nemico è l’altra faccia di quella della guerra (convenzionale o meglio, tradizionale): solo assai più radicale. Per cui si crede che evitando la prima venga meno anche il secondo; nella realtà anche mancando quella la competizione per il potere tra diversi gruppi umani rivali continua ad esistere, e a generare altre forme di lotta per il potere: quelle, sopra ricordate, dei «bravi colonnelli» cinesi.

7) Pluralismo e responsabilità. Il pluralismo e le creazioni di aree – per lo più riferibili al diritto privato (quello che Hauriou chiamava droit commun – internazionale per natura) – attraverso Tribunali internazionali, costituiscono altre occasioni appetibili di rendere permeabili gli Stati. Ancor di più quando norme e decisioni internazionali divengono vincolanti attraverso meccanismi appositi, previsti anche per disposizione costituzionale (come l’art. 10 della nostra Costituzione). La responsabilità del sovrano è così dispersa – come il potere – nell’organizzazione policratica e nelle riserve di competenza correlate. Un’esigenza e assetto condivisibile ma che crea delle ghiotte opportunità di influenza.

Nella realtà il diritto, sia che consista in trattati che in decisioni di Corti interne o internazionali, secondo il pensiero politico (e giuridico) classico non poteva prevalere sulla politica e sulla necessità di protezione della comunità che la connota. Vale in generale ciò che diceva Bismarck dei trattati «Nessuna grande nazione potrà essere indotta a sacrificare la propria esistenza sull’altare della fede nei patti».

8) L’economia cosmopolitica e l’economia politica. Scriveva Friedrich List che i primi economisti come «Quesnay, che fece sorgere per primo l’idea della libertà universale del commercio, fu il primo ad allargare le ricerche su tutto il genere umano, senza però tener conto del concetto di nazione»[20].

In realtà List capiva assai bene come tra economia «cosmopolitica» e «politica» il fundamentum distinctionis era proprio l’insopprimibilità della politica come essenza (à la Freund) e come protezione dell’esistenza e conseguimento del bonum commune. Se le idee di Adam Smith sono astrattamente fondate, sono del tutto applicabili solo in un contesto senza guerra e senza volontà di dominio (cioè nel collodiano paese dei balocchi o qualche utopia del genere). Infatti scrive di Smith «Anche se, qua e là, parla della guerra, succede solo di passaggio e assai raramente. Tutti i suoi argomenti si basano sulla pace eterna…Evidentemente Adam Smith ha concepito la pace come pace eterna al modo dell’abate di St. Pierre». E lo stesso J. B. Say, il quale «chiede esplicitamente, per poter concepire l’idea della libertà di commercio, che si ammetta l’esistenza di una Repubblica Universale»[21]; e che se avesse scritto di economia politica (e non cosmopolitica) «difficilmente avrebbe potuto fare a meno di partire dal concetto e dalla natura della nazione e di dimostrare quali cambiamenti essenziali l’economia del genere umano deve subire per il solo fatto che il genere umano è suddiviso in nazionalità distinte, formanti un fascio di forze e di interessi, e poste, nella loro libertà naturale, di fronte ad altre società simili a loro»[22].

E List sostiene che «Tutti gli scrittori teorici hanno ripetuto questo errore. Anche Sismondi chiama l’economia politica “la science qui se charge du bonheur de l’espèce humaine”». Differente è la politica. Questa ha il compito di proteggere l’esistenza (particolare) di una comunità umana e come conseguire il bene comune della stessa[23].

Ed è perciò concettualmente e (spesso) oggettivamente contrapposta al principio cosmopolitico. List ricorda che Thomas Cooper «nega perfino l’esistenza della nazionalità. Egli chiama la nazione “una invenzione grammaticale fatta solo per evitare perifrasi, una cosa inesistente (a non entity) che esiste solo nelle teste degli uomini politici”»[24] affermazione che l’economista tedesco considera coerente «perché è chiaro che se si ammette l’esistenza della nazione, con la sua natura ed i suoi interessi, si presenta anche la necessità di modificare l’economia della società umana in relazione a questi interessi speciali»[25].

E proseguiva insistendo sugli inconvenienti, per l’economia di una nazione, che possono derivare dal differente grado di sviluppo con le altre; onde per beneficiare realmente di un sistema di libero scambio internazionale occorre che le comunità nazionali raggiungano «un uguale grado di civiltà, di formazione politica e di potenza»[26]; per cui «Perché la libertà di commercio possa agire liberamente e naturalmente, occorre prima di tutto che i popoli meno progrediti vengano portati, mediante interventi  di vario genere, allo stesso livello di sviluppo al quale è pervenuta l’Inghilterra»[27].

List, che è considerato spesso un avversario del laissez-faire, appare più esattamente come un realista difensore delle insopprimibili esigenze e presupposti della politica (e del politico).

9) I diritti umani. Che dei diritti umani e delle loro violazioni si sia fatto un uso improprio (per l’intervento negli affari – un tempo interni – degli Stati sovrani) è cosa spesso affermata e nota. Già Hobson stigmatizzava l’analogo uso, da parte della Gran Bretagna nel XIX secolo dell’affermazione che «la nostra politica imperiale e coloniale è animata dalla volontà di diffondere in tutto il mondo le arti del libero autogoverno di cui godiamo in patria» e la contestava affermando che «alla vasta maggioranza dei popoli del nostro impero noi non abbiamo attribuito alcun vero potere di autogoverno, né abbiamo alcuna seria intenzione di farlo, né d’altra parte crediamo seriamente che sia possibile farlo» dato che «dei trecentosessantasette milioni di sudditi che vivono fuori dalle isole britanniche, non più di undici milioni, ossia uno su trentaquattro, hanno una qualche forma di autogoverno per quanto riguarda la legislazione e l’amministrazione»[28] e che «da quando le prime luci del nuovo imperialismo negli anni settanta hanno dato piena coscienza politica all’impero, è divenuto un vero luogo comune del pensiero liberale sostenere che la missione imperiale dell’Inghilterra è quella di diffondere l’arte del libero governo»[29].

Un giudizio simile mutatis mutandis, merita l’uso strumentale dei diritti umani.

  1. Le idee sopra elencate sono le principali giustificazioni ideologiche di una globalizzazione che cerca di eliminare (o ridurre) i limiti che la politica e gli Stati possono porle.

In effetti le controindicazioni che una situazione del genere possa provocare sono già indicate nel pensiero politico (ed economico) di cui gli autori sopra ricordati costituiscono una (quantitativamente) piccola parte.

Il primo di tali inconvenienti è che l’ordine mondiale globalizzato non si pone – o non lo fa adeguatamente – il presupposto e la conseguenza che si accompagnano a quello: ossia il potere e la responsabilità.

Maurice Hauriou sosteneva che «il potere è una libera energia della volontà che si fa carico d’intraprendere il governo di un gruppo umano attraverso l’ordine ed il diritto»[30]. In tale definizione, proseguiva, vi sono tre elementi essenziali: 1) che il potere è una libera energia della volontà; 2) che il potere è un imprenditore di governo; 3) e che lo fa con la creazione dell’ordine e del diritto. Nelle concezioni globalizzatrici, a parte il richiamo all’idea d’impero, d’altra parte non meglio precisata, questa è soprattutto di assai dubbia praticabilità. Infatti in primo luogo si pone il problema di chi è lo Stato imperiale. Forse gli USA? E allora perché, malgrado guerre umanitarie e interventi di peace-keeping, non riescono a «normalizzare» i popoli (e gli Stati) occupati dalla NATO (o da coalizioni di Stati membri della NATO)[31]. E Cina e Russia che fanno?

Per cui l’idea d’impero – data la scarsa probabilità che la «testa» ne siano gli USA, diventa evanescente, ma più realistica. Così nel notissimo saggio di A. Negri e M. Handt, «Impero» in cui la forma di governo dell’Impero è una galassia formata da organizzazioni di Stati, Banca             mondiale, clubs vari e multinazionali[32]. È chiaro che un sistema siffatto, in effetti policratico, è «governabile» solo a prezzo di guerre, talvolta «tradizionali» (anche se mascherate da «operazioni di polizia internazionale»), più spesso asimmetriche (nel senso dei colonnelli cinesi più volte ricordati): a regolarlo sono assai più i rapporti di forza che il diritto.

Per cui come un governo siffatto possa garantire un’impresa di governo attraverso l’ordine e il diritto è difficile da immaginare. Di fatto non c’è un governo nel senso di un centro di riferimento in fatto e in diritto irresistibile; non c’è neppure una volontà, che richiede di essere personale (o pluripersonale) di un organo deputato a decidere (parlamento, consiglio dei ministri, Capo dello Stato), ma solo procedure informali riconducibili ad accordi, evidentemente fondati sui rapporti di forza; non c’è neanche un ordine, intesto nel senso di ordine sotto un’autorità (e una gerarchia) riconosciuta[33]; ne è configurabile un diritto – almeno completamente – perché questo va comunque distinto – come scriveva Hauriou – in droit disciplinaire (quello emanato dall’istituzione e basato sul rapporto di comando-obbedienza) e droit commun (quello fondato sulla socievolezza umana e quindi internationale)[34]. E il droit disciplinaire qui  manca (il che non significa che non vi sia il rapporto comando-obbedienza).

  1. Scrive Freund peraltro che il bene comune – scopo dell’azione politica – si distingue, secondo il presupposto dell’amico/nemico (e del comando/obbedienza) nei due aspetti della sicurezza esterna e della concordia interna. Ma, in una società globalizzata la prima ha un senso depotenziato, almeno se la globalizzazione è intesa, come generalmente ritenuto, quale percorso per eliminare guerra e ostilità. Una volta che si fantastica di toglierle di mezzo, il problema (si immagina) è risolto. Quindi niente Stati (in senso westphaliano) né «politica» in un mondo globalizzato.

Quanto alla concordia interna, fondata più sul presupposto del comando-obbedienza, che su quello dell’amico-nemico, questo appare un obiettivo ancor più difficile da conseguire per un potere globalizzatore. Alla base di quella c’è il romano idem sentire de re publica, cioè la condivisione in un gruppo umano della fiducia in istituzioni, valori, interessi nonché la consapevolezza di una comune appartenenza (per lingua, tradizione, religione). Ovviamente tutti tali elementi determinano la particolarità e la specificità del gruppo politico, come tale già contrapposto ad un potere che si pretende universale[35].

Peraltro, nel processo di formazione delle unità politiche è l’idem sentire, o per dirla alla Payne, il common sense comunitario che favorisce e determina il costituirsi dell’unità politica e non viceversa (o per lo meno è questo il percorso normale e maggiormente praticato).

Questo in una società planetaria manca o è carente e inidoneo a costituire una base di consenso e condivisione a un potere universale, mentre fondamentalisti, nazionalisti, gruppi etnici (e così via) tuttora hanno la capacità di costituire sintesi politiche. Finché le identità delle varie comunità saranno così diverse è bizzarro pensare che, nella modestia di un sentire comune «universalista» si possa costituire (qualcosa che somigli a) una unità politica.

In Europa le ultime costituite, cioè Italia e Germania, a parte i fattori unificanti (lingua, territorio, «razza», consuetudini, e per l’Italia la religione cattolica), hanno richiesto un’opera di convinzione dello spirito pubblico durata oltre mezzo secolo (almeno: dall’età napoleonica a oltre metà dell’800); e comunque diverse guerre. Pretendere di costruirne anche solo un surrogato a tavolino e con la collaborazione di banche e burocrazie è frutto di aspirazioni scambiate per realtà possibili.

  1. Senza le condizioni possibili per realizzare l’unità politica, come può fondarsi un ordine internazionale «globalizzato»?

Machiavelli nel Principe scriveva che «Dovete adunque sapere come e’ sono dua generazioni di combattere: l’uno, con le legge; l’altro, con la forza. Quel primo è proprio dello uomo; quel secondo, delle bestie. Ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo: pertanto ad uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo»[36]. Tale passo è stato interpretato in più modi e d’altra parte il pensiero denso e la scrittura efficace e concisa del Segretario fiorentino esprimono spesso meno parole che giudizi: uno dei quali è quello, ripreso secoli dopo da de Maistre che dove non c’è sentenza c’è lotta. Istituzioni (politiche) leggi, sentenze e ciò che presuppongono (cioè consenso, idem sentire, tradizione e così via) sono sistemi per produrre ordine e decisioni alternativi alla lotta. Giudizio che anche nei tempi presenti appare confermato. Dopo la caduta dell’ordine di Yalta – che era un ordine di sistemi politici «regionali» (occidente, comunismo, e – al massimo – «terzo mondo») le guerre convenzionali e «innovative» appaiono aumentate, ed estese a regioni del pianeta prima risparmiate, come l’Europa orientale, il Caucaso e parte del Medio Oriente. Dei soggetti «guerreggianti» oltre agli Stati e ai movimenti di liberazione nazionale, abbiamo un po’ di tutto.

D’altra parte la stessa invocazione alla «pace» e alla riduzione degli armamenti appare diventata uno strumento di guerra. Se la deterrenza della guerra consiste nel fatto che i contendenti possono arrecarsi danno reciproco, il limitare giuridicamente la possibilità di reazione è il tentativo di usare del diritto per impedire – nella maggior parte dei casi – la resistenza alla forza, e così cristallizzare i rapporti di potere, mantenendone le ineguaglianze.

Il che è soprattutto temibile nel caso di guerre condotte con mezzi non violenti, come quelle descritte dai «bravi colonnelli». Il tutto finisce col somigliare ad una rivisitazione attualizzata alla situazione contemporanea dei Trattati ineguali tra potenze europee ed asiatiche dell’800.

Con in più due caratteri specifici: che – per lo più, ciò serve a ridurre i rischi dell’aggressore, il quale, se sa di non dover subire una reazione violenta, può tranquillamente esercitare l’azione non violenta. E la seconda, usuale, che il tutto più che nei trattati è sancito attraverso la persuasione dell’opinione pubblica. La pace (intesa come non-violenza) è così mezzo di dominio.

Che «forza» e «legge» siano modi di combattere, come scrive Machiavelli, ossia d’imporre la propria volontà, è spesso dimenticato; così del pari, è – anche se in misura minore – trascurato che forza e legge sono anche modi di governare, non (totalmente) alternativi, ma piuttosto complementari. La «legge» senza forza è inutile: la forza senza legge è arbitrio violento.

Nella realtà occorrono entrambi. Se la combinazione di forza e regola è la normalità del governo dei gruppi umani, così come il potere responsabile è l’ordinatore ideale, quello che si profila nel mondo globalizzato appare tra i meno preferibili. Perché si risolve nell’affidare prevalentemente alla forza e all’astuzia (del potere esistente) il massimo della potenza disponibile senza la prospettiva che possa riuscire a creare un ordine che sia veramente tale.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

 

[1] V. Corso di diritto internazionale, Padova 1933, p. 115.

[2] V. «poiché la regola dell’indipendenza internazionale dei soggetti, non è assoluta, ma ha delle eccezioni, ne viene che un soggetto può assumere una posizione di superiorità verso un altro, in base allo stesso diritto internazionale, e quindi si possono avere degli Stati che sono titolari di una potestà sovrana di mero diritto internazionale su Stati che, per la loro posizione sempre internazionale, sono subordinati ai primi e per ciò non sovrani. Così, p. es., nel protettorato» op. loc. cit.

[3] V. «Come si è visto, che un soggetto sia per diritto internazionale sovrano rispetto ad un altro non sovrano, nel senso che su questo eserciti una potestà, non è la regola, ma l’eccezione» op. cit.

[4] Op.cit., p. 117; e conclude «data la grande varietà che il protettorato può assumere, è difficile formulare principii generali, ma si può affermare che essi implicano sempre una limitazione della capacità di diritto e inoltre la perdita in taluni casi, o la diminuzione in altri, della capacità di agire».

[5] Op. cit., p. 118

[6] Anche giuridicamente, ma solo fino a un certo punto. Diversamente dallo «status» dei protettorati, le limitazioni vi sono, ma a parte la minore entità, non si traducono in una condizione stabile e regolata da dipendenza, ma a modifiche secondarie, ma talvolta significative, dei diritti degli stessi. Così le collaborazioni tra amministrazioni civili e militari.

[7] «Le nostre opinioni sugli Dei, la nostra sicura scienza degli uomini ci insegnano che da sempre, per invincibile impulso naturale, ove essi, uomini o Dei, sono più forti, dominano» v. La guerra del Peloponneso trad. it. di P. Sgroj V, 105/110.

[8] Qu’est-ce le tiérs État trad. it. di G. Troisi Spagnoli, in Opere Tomo I, Milano 1993, pp. 255-257.

[9] Scrive Bodin «Se dunque il principe sovrano è per legge esente dalle leggi dei predecessori, ancor meno egli sarà obbligato a osservare le leggi e le ordinanze fatte da lui stesso: si può ben ricevere la legge da altri, ma non è possibile comandare a se stesso, così come non ci si può imporre da sé una cosa che dipende dalla propria volontà, come dice la legge: nulla obligatio consistere potest, quae a voluntate promittentis statum capit; ragione necessaria, che dimostra in maniera evidente come il re non possa essere soggetto alle leggi» Six livres de la République, trad. it. di M. Isnardi Parenti, Torino 1988, p. 360.

[10] Op. cit., p. 407 (il corsivo è nostro).

[11] Op. cit., p. 480.

[12] Op. cit., p. 481.

[13] «E in breve abbiamo dimostrato le assurdità intollerabili che conseguirebbero se i vassalli fossero sovrani, anche nel caso che non abbiano nulla che non dipenda da altri; e che cosa avverrebbe se si considerassero uguali il padrone e il servitore, il signore e il suddito, chi presta giuramento di fedeltà e chi lo riceve, chi comanda e chi è obbligato all’obbedienza» (il corsivo è nostro) op. loc. cit.

[14] Op. cit., p. 503.

[15] Op. cit., p. 511 (il corsivo è nostro).

[16] V. J. Freund secondo cui «i giuristi, seguiti da certi filosofi della politica, hanno cercato di spogliare della sovranità il comando. E Bodin è in parte responsabile di questa opera» L’essence du politique, Paris 1965, p. 117.

[17] V. La science sociale traditionnelle, rist. in Ecrits sociologiques, Dalloz, Paris 2008, p. 233 ss.

[18] Guerra senza limiti, L.E.G., Gorizia 2001, p. 39 e i colonnelli aggiungono «Comunque si scelga di definirla, questa nuova realtà non può renderci più ottimisti che in passato. Ciò perché la riduzione delle funzioni della guerra in senso stretto non implica affatto che quella guerra abbia cessato di esistere. Anche nella cosiddetta era postmoderna e post-industriale la guerra non sarà mai eliminata del tutto. E’ solo tornata a invadere la società in modi più complessi, più estesi, più nascosti e sottili», op. loc. cit. (il corsivo è nostro).

[19] V. Sul pacifismo e sulla pace le considerazioni di Freund, op. cit., pp. 620 ss; v. A. Salvatore, Il pacifismo, Roma 2010. In genere sull’incompatibilità tra sovranità dei popoli e globalizzazione v. l’attento studio di Alain de Benoist, Oltre la sovranità, Arianna Editrice, Bologna 2012, in particolare pp. 97-106.

[20] Das nationale system der Politischen Ökonomie, trad. it. Di H. Avi e P. Tinti Milano 1972, p.149 (il corsivo è nostro); e prosegue «Quesnay tratta evidentemente dell’economia cosmopolitica, cioè di quella scienza che insegna come tutto il genere umano può raggiungere il benessere, mentre per contro l’economia politica ed altre scienze si limitano ad insegnare come solo una data nazione possa raggiungere il benessere, la civiltà e la potenza, nelle condizioni mondiali date e per mezzo della sua agricoltura, industria e commercio. Adamo Smith diede alla sua dottrina la medesima estensione, ponendosi il compito di giustificare l’idea cosmopolitica dell’assoluta libertà del commercio mondiale… Adamo Smith non si pose il compito di trattare dell’oggetto dell’economia politica, vale a dire della politica che ogni paese deve seguire per fare dei progressi nelle sue condizioni economiche. Egli intitola la sua opera: Della natura e delle cause della ricchezza delle nazioni, cioè di tutte le nazioni delle quale si compone il genere umano. In una parte speciale della sua opera egli parla dei diversi sistemi dell’economia politica, ma solo con l’intenzione di dimostrare la loro vanità e per provare che al posto dell’economia politica o nazionale deve subentrare l’economia universale».

[21] E prosegue «Quei principi, però, che riguardano gli interessi di nazioni intere come tali ed in rapporto alle altre nazioni, formano invece l’economia pubblica (économie publique). Mentre l’economia politica tratta gli interessi di tutte le nazioni, di tutta la società umana in generale», op.cit., p. 50 (i corsivi sono nostri).

[22] Op. loc. cit. (il corsivo è nostro).

[23] Come scrive Freund: «qual è il bene specifico dell’attività politica… come Hobbes non cessa di ripetere il bene comune dello Stato e quello del popolo che formano insieme una collettività politica. In effetti se gli uomini continuano a vivere in collettività politiche, è perché vi trovano un interesse. Ci sono forti probabilità che se la natura umana non trovasse alcuna soddisfazione (bien) in tale genere di vita nessuna unità politica potrebbe essere stabile e durevole», v. Qu’est ce-que la politique, Paris 1965,p. 38.

[24] Op. cit., p. 151.

[25] Op. loc. cit..

[26] Op. cit., p. 155.

[27] Op. cit., p. 159.

[28] V. Imperialism. A study, trad. it., di L. Meldolesi, Milano 1974, p. 102.

[29] Op. cit., p. 105.

[30] Précis de droit constitutionnel, Sirey, Paris 1929, p. 14.

[31] Volutamente ho rispolverato il termine di «normalizzazione» di bresneviana memoria, perché, malgrado tutto, l’intervento del 1968 in Cecoslovacchia del patto di Varsavia (cioè di un vero impero regionale) riuscì a ricondurre all’«obbedienza» una nazione riottosa, senza che ciò degenerasse in guerre civili o partigiane: fu un intervento di successo, come, in passato, molti del XIX secolo. Che poi il comunismo sia imploso è un fatto che trascende la dimensione politica e strategica dell’ordine nell’impero sovietico: il crollo del comunismo è dovuto all’incompatibilità del sistema con i presupposti del politico e, più in generale, con le innate tendenze dell’uomo.

[32] Il carattere informale e non strutturato del potere globalizzatore è stato notato da molti. Tra i quali ricordiamo F. Cardini, La Globalizzazione, Rimini 2004; G. Ferrara, Derubati di sovranità, Vicenza 2014.

[33] Che è poi il senso agostiniano di ordine e di pace «la pace della città è l’ordinata concordia dei suoi cittadini nel comandare e nell’obbedire; la pace della città celeste è la più perfetta e armoniosa concordia nel gioire di Dio e nel godere vicendevolmente in Dio; la pace di tutte le cose è la tranquillità dell’ordine. E l’ordine è la disposizione degli esseri uguali e disuguali che assegna a ciascuno il posto che gli conviene» v. De civitate Dei, trad. it., Roma 1979, p. 1161.

[34] V. M. Hauriou, op. cit., p. 97 ss.

[35] Come scrive M. Veneziani Comunitari o liberali, Laterza, Bari 2006,p. 105 «Da una parte la globalizzazione congiunta all’internazionalismo porta a superare i confini territoriali; ma può esistere una comunità illimitata, che coincide alla fine con l’umanità? Puoò esistere cioè una comunità che non riconosce tratti specifici, provenienze condivise, tradizioni comuni ma solo la comune appartenenza al genere umano? Più giusto in questo caso è parlare di cosmopolitismo e non di democrazia comunitaria»; il che pone il problema del politico e della sua pretesa estinguibilità.

[36] Principe XVIII (il corsivo è nostro).

L’Italia nella transizione globale ed epocale, di Gennaro Scala

Qui sotto un contributo alla lettura, offerta dal sociologo Gennaro Scala, delle recenti vicende politiche italiane alla luce delle dinamiche di conflitto e confronto geopolitico. Buona lettura_Germinario Giuseppe

L’Italia nella transizione globale ed epocale*

Siamo nel pieno di una transizione che è allo stesso tempo globale ed epocale. Per comprendere tale transizione dobbiamo ritornare indietro, fino alla nascita del mondo moderno che avviene proprio in Italia, precisamente nelle città di Venezia, Genova, Milano e Firenze, e che mostra già in Venezia una vocazione all’espansione commerciale a-territoriale e priva di limiti. Lo storico marxista e globalista Immanuel Wallerstein esaltava nel suo I volume sul “moderno sistema-mondo” quale dimostrazione di precoce modernità e “grande saggezza” la decisione di Venezia, che aveva dato un contributo decisivo alla sconfitta di Costantinopoli, attraverso la flotta e il finanziamento commerciale della IV crociata, di non assumersi l’eredità dell’Impero bizantino, preferendo piuttosto assicurarsi solo lo sbocco sui principali porti commerciali. Dopo la sconfitta delle città italiane, all’inizio del XVI secolo, la palla passerà alle altre potenze dell’epoca, che seppur meno ricche delle città italiane (secondo Braudel la sola Genova ancora nel XVI secolo aveva una ricchezza maggiore dell’intera Francia), ma che erano riuscite, a differenza dell’Italia, a costituirsi come stato unitario (vedi in merito la fondamentale correzione di Charles Tilly al metodo marxiano che insieme alla concentrazione del capitale considera la concentrazione del potere coercitivo – Stato – quale seconda variabile decisiva per la comprensione delle dinamiche delle società moderne.) Con la progressiva scomparsa dell’eredità del Sacro Romano Impero, le due principali potenze, il cui conflitto determinerà le sorti dell’Europa saranno la Francia e l’Inghilterra, il cui secolare conflitto si concluderà con la sconfitta di Napoleone e con la vittoria delle tendenze centrifughe all’interno dell’Europa, cioè con la tendenza a risolvere i conflitti interni dell’Europa attraverso l’espansione esterna che diventerà globale, mentre le tendenze centripete (cioè volte al raggiungimento di un ordine interno all’Europa), troveranno in Napoleone la maggiore quanto inadeguata espressione, a causa dell’approccio fondamentalmente militaristico (vedi in merito il fondamentale lavoro di Victoria Tin-Bor Hui, War and State Formation in Ancient China and Early Modern Europe).

Con straordinario intuito il grande storico inglese Arnold Toynbee, considerato che quando scrisse il suo libro Civiltà al paragone, qualche anno dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’Unione Sovietica, appena uscita vincitrice dalla II guerra mondiale, sembrava costituirsi come l’affermarsi in scena di una potenza “comunista” stabile, ipotizzò che in realtà il comunismo era stato il modo in cui la civiltà russa-ortodossa aveva reagito ad una minaccia mortale, attraverso l’adozione di un’ideologia frutto della crisi della civiltà europea. Sia la civiltà russa-ortodossa che la civiltà sinica sono uscite vincitrici dalla prova del fuoco della modernità, adottando tramite delle rivoluzioni, gli aspetti delle società occidentali necessari al fine di costituire quella potenza industriale e militare atta a far fronte all’espansionismo occidentale. Mentre non sono riuscite a superare questa prova la civiltà islamica e la civiltà africana, il che sarà fonte di enormi problemi in futuro (ad es. il fatto che il continente africano sia in piena espansione demografica, si ritiene che raddoppierà la popolazione in trenta anni, va vista all’interno di un conflitto demografico tra civiltà).

Dopo il “crollo dell’Unione Sovietica” era sembrato alla potenza guida dei paesi occidentali che si potesse rilanciare l’espansionismo globale e che gli Usa, con l’alleanza dell’Europa, potessero diventare l’unica potenza globale. Invece, come già oggi evidente, era stato solo un processo attraverso cui la Russia si era liberata dell’involucro comunista, utilizzato all’uopo per far fronte alla “minaccia mortale” di cui parlava Toynbee, ma non più adeguato agli scopi della potenza russa. Quindi il “crollo del comunismo” è stata una crisi di trasformazione che ha riportato sulla scena mondiale la potenza russa senza più i limiti dell’ideologia comunista.

Con la crisi del mondo bipolare Usa-Urss (iniziato prima del “crollo del muro” vero e proprio, quando già, a chi ha strumenti di informazioni più efficaci rispetto ai mass media, l’Unione Sovietica appariva in crisi irreversibile) le classi dominanti occidentali avevano perso lo stimolo fondamentale che aveva portato, fino alla fine degli anni sessanta a curare l’ordine interno, il consenso e l’inclusione della classi popolari (termine con cui intendo sia le classi medie che inferiori)e a trattare con le loro rivendicazioni. Iniziava la lunga fase del cosiddetto neo-liberismo che è stato soprattutto un lungo e micidiale attacco alle conquiste delle classi popolari, mirante alla loro esclusione e subordinazione (il vero obiettivo della precarizzazione dei rapporti di lavoro). Questo attacco è stato dovuto al fatto che le classi dominanti occidentali, scomparso il loro nemico principale, hanno ritenuto che non fosse più necessario conservare il consenso all’interno.

L’epoca seguita al crollo dell’Unione Sovietica è già terminata. Con il progressivo ritorno in scena della potenza russa, chiaritosi definitivamente con il decisivo intervento nella crisi siriana che ha evitato alla Siria una sorte simile a quella dell’Iraq, della Jugoslavia e della Libia, si è visto che gli Usa, come guida del mondo “occidentale”, non possono aspirare ad essere l’unica potenza mondiale. Essi dovranno fare i conti con l’esistenza della Russia e della Cina.

L’Italia è un pezzo minore, seppur non del tutto marginale, dell’Occidente. Queste elezioni italiane che hanno visto il prevalere dei partiti “populisti” vanno viste in questa fase di transizione di cui una tappa, sicuramente più importante, sono state le elezioni statunitensi che hanno visto la vittoria di Trump (il cui significato anch’esso epocale, quale fine dell’epoca della globalizzazione, ho cercato di delineare in un intervento in occasione della vittoria di Trump*). L’Italia mostra una fase avanzata di questa crisi all’interno delle nazioni europee, mentre in altre essa sembra ancora ad uno stadio iniziale, anche se il sistema politico ad es. della Germania, con l’allenza tra CDU e SPD, è già entrato in una crisi profonda. Il “populismo” è un riflesso di questa trasformazione in corso, che rende necessario curare l’ordine interno e l’inclusione delle classi popolari. Anche se il “populismo” la rappresenta in modo del tutto inadeguato, e di meglio non ci si poteva aspettare, data la distruzione di ogni cultura, non solo politica, un vero e proprio rimbecillimento collettivo, che si è avuto in questi ultimi decenni in “occidente” Mentre il “protezionismo” è necessario per difendere le industrie occidentali dalla globalizzazione che si è rivelata un boomerang (è oggi la Cina a dichiararsi a favore della globalizzazione). E’ evidente che tanto la Lega che il M5S sono inadeguati ad affrontare i problemi del paese, tuttavia almeno con essi resta la possibilità di un miglioramento, mentre invece l’Italia sarebbe sicuramente affondata nelle mani dell'(anti)berlusconismo, cioè il sistema politico basato sulla pseudo-opzione berlusconi sì/berlusconi no che ha asfissiato il contesto politico italiano per vent’anni, mentre gli apparenti contendenti hanno poi finito per allearsi, con gli ultimi governi basati sul sostegno di Pd e Fi.

Il significato del “populismo” è questo: le classi dominanti devono capire che è necessaria un’inversione di rotta, verso la cura dell’ordine interno che recuperi il consenso delle classi popolari, se invece continuerà la disgregazione interna dei paesi occidentali essi perderanno la sfida globale del domani rispetto ad altre civiltà che sono più compatte per il fatto stesso che sono in crescita. Il rischio maggiore è che le classi dominanti non siano in grado di compiere questa inversione di rotta e vogliano invece risolvere questa crisi attraverso la Tecnica, cioè attraverso l’utilizzo di armi terribili (Putin ha detto qualche giorno fa con la massima chiarezza di essere in grado di neutralizzare, con la realizzazione di nuove armi tra cui un nuovo tipo di missile intercontinentale, questo obiettivo). Il compito comune della politica in “occidente” è oggi realizzare questa inversione di rotta, e il compito di tutte le persone di buona volontà in tutto il mondo è evitare i rischi immani di uno scontro di civiltà.

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* Questo intervento molto sintetico riprende, per quanto riguarda il quadro storico, alcuni temi trattati più ampiamente in altri scritti interventi pubblicati in internet, tra i quali principalmente:

Il paradigma machiavelliano oltre i soliti schemi ideologici
1) http://www.lintellettualedissidente.it/filosofia/niccolo-machiavelli-paradigma/
2) http://www.lintellettualedissidente.it/filosofia/niccolo-machiavelli-paradigma-2/

3) http://www.lintellettualedissidente.it/filosofia/niccolo-machiavelli-paradigma-3/

Ripensare la rivoluzione francese

http://www.opinione-pubblica.com/ripensare-la-rivoluzione-francese/

Il paradigma machiavelliano (video)

https://www.youtube.com/watch?v=cXIRTx6oMdQ

Per quanto riguarda l’analisi della vittoria di Trump

Endgame for globalization

https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=58220

Tutto finisce a questo mondo, anche gli imperi_ di Roberto Buffagni

 

Italiaeilmondo ha appena pubblicato, qui: http://italiaeilmondo.com/2018/01/08/il-piano-a-il-piano-b-il-piano-c_-le-attenzioni-su-trump-a-cura-di-giuseppe-germinario/  un’ interessante e preoccupante intervista a Roger Stone, che ci permette di sbirciare dal buco della serratura uno scorcio della violenta lotta di potere in corso a Washington. Alla radice di questo scontro c’è un nodo di importanza storica: l’Impero americano ha superato il culmine della sua parabola ascendente, è overextended, incerta la sua egemonia mondiale, in crisi il suo sistema di alleanze e la sua coesione interna; e la sua potenza militare, per quanto tuttora insuperata, colleziona da decenni vittorie operative e sconfitte strategiche. Le risposte possibili alla sfida sono due: un rilancio di potenza espansiva, o un ripiegamento strategico. La prima risposta può rivelarsi una fuga in avanti dalle conseguenze imprevedibili e potenzialmente rovinose, la seconda un consolidamento in apparenza saggio, ma in realtà più pericoloso della fuga in avanti, perché di fatto irrealizzabile.

I due campi non coincidono al millimetro con i due grandi partiti americani, anche se nel Partito Democratico la vocazione mondialista è maggioritaria e consolidata, e la tradizione nazional-conservatrice, per quanto minoritaria, non è del tutto spenta nel Partito Repubblicano. Gli interpreti più autentici della risposta “rilancio di potenza” sono i neoconservatori, un gruppo di potere “mondialista” ideologicamente coeso ma politicamente bipartisan. I sostenitori della risposta “ripiegamento strategico” sono un gruppo di potere grosso modo “nazionalista”, ideologicamente frammentato, politicamente radicato nell’ala dissenziente del Partito Repubblicano e nella galassia apartititica della Alt-Right.

L’urgenza di dare una risposta al problema storico dell’Impero si è manifestata nell’ascesa alla Presidenza di Trump, un uomo estraneo all’establishment imperiale; la violenta reazione dell’establishment illustra quanto alta sia la posta in gioco, e gareggiando in avventatezza con la sconclusionata direzione politica di Trump, rischia di scassare e delegittimare le istituzioni statunitensi.

Che una decisa sterzata alle strategie imperiali americane sia necessaria, sembra chiaro. Il problema è che la politica, come in generale la vita umana, è tragica perché non si fa con il senno di poi, ma nell’angoscia dell’ignoranza e dell’incertezza, e sotto il gravame delle scelte, degli errori e delle colpe del passato. Ad esempio: è possibile cambiare non solo direzione, ma natura dell’Impero americano? Perché un consolidamento difensivo imperiale, come quello proposto da E. Luttwak nel suo recente libro La grande strategia dell’impero bizantino[1], sembra sì una scelta prudente e quasi obbligata: ma non è affatto detto che sia una scelta possibile. Sin dalla loro nascita, gli Stati Uniti d’America si trovano di fronte due vie possibili: repubblica (confederale, aristocratica, centripeta) o impero (federale, democratico, centrifugo). Il bivio è così profondamente inciso nell’immaginazione americana che lo ritroviamo, tale e quale tolto il nodo della schiavitù, nella saga di maggior successo di tutta la storia del cinema, Guerre stellari. Per ottant’anni gli USA sono riusciti a rinviare la scelta della via da imboccare, ma il 12 aprile 1861 il momento della scelta è arrivato, ed è costato circa 750.000 caduti sul campo, più la morte di un numero imprecisato di civili e uno strascico di divisioni e rancori non ancora riconciliati. Stime recenti valutano le sole perdite sul campo in un 10% di tutti i maschi in età militare  (20-45 anni) al Nord, 30% al Sud.

La vittoria dell’opzione federale ha deciso anche la natura sui generis dell’Impero americano: un impero democratico e ideocratico (vi si appartiene per adesione ideologica, non per radicamento territoriale, etnico, storico), e dunque costantemente espansivo, non ecumenico (centro di un mondo) ma tendenzialmente universale: il simbolo immaginale più profondamente impresso nella psiche americana, da allora in poi, sarà la Frontiera, che sempre va inseguita e sempre si allontana, come l’orizzonte dominato dallo sguardo dell’animale totemico degli USA, l’aquila marina incisa sul Grande Sigillo del Governo Federale americano[2].

In estrema sintesi e sul piano strettamente politico, il dubbio è questo: è possibile all’Impero sui generis americano rinunciare all’espansione illimitata, riconvertirsi e consolidarsi in una repubblica nazionale che si limita a dominare il Continente e a intervenire nel mondo solo quando sono in gioco i suoi interessi vitali? Perché dalla fine della Guerra di Secessione in poi, le molteplici e profonde linee di frattura politica interne alla madrepatria imperiale – fra Stati e governo federale, fra Stati del Nord e del Sud, fra etnie, lingue e razze, fra centri e periferie, fra confessioni religiose, fra confessioni religiose e laicismo politically correct, etc.  –  non hanno innescato conflitti incomponibili perché tutte le mille frizioni latenti sono state deviate e risolte nell’espansione imperiale: ideologica, militare, economica, e last but not least psichica; perché gli USA sono un impero euforico e geneticamente ottimista: il tono del suo umore è maniaco-depressivo, e la fine della fase maniacale lo precipita in una depressione psichica che innesca una crisi politica profonda, come dimostra l’altra crisi che, dopo la Guerra di Secessione, ha messo a rischio l’esistenza simbolica degli USA: la Grande Crisi del 1929.

L’Impero statunitense può essere distrutto soltanto dall’interno, come sapeva bene il suo fondatore Abraham Lincoln: “Dovremmo temere che qualche gigantesca potenza militare d’oltreoceano lo attraversi e ci schiacci in un colpo? Mai! Tutti gli eserciti di Europa, Asia e Africa congiunti, con tutti i tesori della terra (escluso il nostro) a finanziarli, con un Bonaparte a comandarli, mai riuscirebbero con la forza a bere un sorso del fiume Ohio o a tracciare un sentiero sul Blue Ridge, neanche se ci provassero per mille anni. Da dove dobbiamo temere che venga, allora, il pericolo? Rispondo. Se mai il pericolo ci raggiungerà, esso dovrà scaturire in mezzo a noi; non può venirci da fuori. Se la distruzione è il nostro destino, dovremo noi stessi esserne autori e responsabili. Dovremo per sempre vivere come nazione di uomini liberi, o morire suicidi.”[3]

La situazione odierna degli USA di Trump, insomma, richiama alla mente per analogia la situazione dell’URSS di Gorbacev, un altro impero sui generis perché (in parte) ideocratico, scosso da una crisi profonda. Per ricordare quanto grave fosse la crisi dell’URSS, ecco alcune testimonianze in diretta di membri della sua classe dirigente dell’epoca:

L’ottusità del paese ha raggiunto un picco: dopo, c’è solo la morte. Nulla è fatto con cura. Rubiamo a noi stessi, prendiamo e diamo mazzette, mentiamo nei nostri rapporti, sui giornali, dal podio, ci rivoltoliamo nelle nostre menzogne e intanto ci conferiamo medaglie a vicenda. Tutto questo dall’alto in basso, e dal basso in alto.” N.I. Ryzkov, segretario e capo del Dipartimento economico del Comitato centrale con Ju. I. Andropov, e K.U. Cernenko, poi primo ministro con M.S. Gorbacev.

Sono anni che tradisco me stesso, dubito e mi indigno tacitamente, cerco ogni tipo di scuse per addormentare la mia coscienza. Tutti noi, soprattutto la classe dirigente, conduciamo una vita doppia se non tripla: pensiamo una cosa, ne esprimiamo un’altra e ne realizziamo un’altra ancora.” E. V. Jakovlev, giornalista, ambasciatore dell’URSS in Canada, collaboratore di M.S. Gorbacev.

Nessun nemico avrebbe potuto conseguire quello che abbiamo conseguito noi con la nostra incompetenza, ignoranza e autoincensamento, con il nostro separarci dai pensieri e dai sentimenti della gente comune.” Generale Markus Wolff (“Mischa”), capo dei servizi segreti della D.D.R.[4]

E’ a questa crisi caotica e dissolutiva che Gorbacev tentò di rispondere. Ora sappiamo com’è andata, cioè molto male: ma non tentare una risposta, continuare come prima era impossibile. Era possibile rispondere alla crisi consolidando anziché dissolvendo? Quanta parte di responsabilità hanno avuto i limiti personali di Gorbacev e della sua cerchia nell’esito infausto della riforma imperiale? Sarebbe bastato che al timone dello Stato ci fosse un uomo migliore? Per concludere l’analogia: Trump è forse il Gorbacev americano?

Altri imperi, prima del sovietico e dell’americano, hanno tentato di rispondere alle crisi storiche che li hanno colpiti, di solito all’inizio della parabola discendente, dopo aver superato il culmine della potenza e dell’espansione. All’Impero romano riuscì, con Adriano, il consolidamento difensivo, che garantì secoli di equilibrio; ma la crisi interna, economica e politica, non si arrestò, e con i Severi giunse al punto di non ritorno: il segno fatale fu l’emigrazione di percentuali significative di cittadini romani dalle zone amministrate dai funzionari imperiali alle zone amministrate dai barbari, le cui pretese fiscali erano assai più miti di quelle degli esattori romani:[5] se ne angosciava sul letto di morte l’imperatore Settimio Severo. L’impero spagnolo entrò nella sua crisi storica, economica e politica, pochi decenni dopo aver raggiunto la sua massima espansione con le conquiste americane. E’ un monito istruttivo rileggere le proposte di riforma economica e politica degli gli arbitristas della Scuola di Salamanca[6], diverse delle quali, esaminate con il senno di poi, sembrano diagnosticare con precisione i problemi di fondo e proporre soluzioni brillanti: eppure, sempre col senno di poi, sappiamo come andò.

Oggi, come allora i sudditi dell’Impero romano o spagnolo, non sappiamo come andrà. Vedremo, e per la verità non vedremo soltanto, perché purtroppo non siamo seduti nelle poltrone di un cinema per assistere all’emozionante kolossal La crisi dell’Impero americano, ma ci troviamo in una periferia non troppo lontana dal centro imperiale e per nulla esente dalle conseguenze delle sue scelte, giuste o sbagliate che siano.

L’unica cosa che sappiamo, come già allora sapevano i romani e gli spagnoli, è che tutto finisce, a questo mondo: anche gli imperi, e anche noi.

[1] V. qui una buona recensione: http://www.imperobizantino.it/la-grande-strategia-dellimpero-bizantino-di-edward-n-luttwak/

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Stemma_degli_Stati_Uniti_d%27America

[3] Abraham Lincoln, 27 gennaio 1838, discorso agli studenti dello Young Men’s Lyceum di Springfield, Illinois:  “The Perpetuation of Our Political Institutions”. Qui il testo originale: “Shall we expect some transatlantic military giant to step the ocean and crush us at a blow? Never! All the armies of Europe, Asia, and Africa combined, with all the treasure of the earth (our own excepted) in their military chest, with a Bonaparte for a commander, could not by force take a drink from the Ohio or make a track on the Blue Ridge in a trial of a thousand years. At what point then is the approach of danger to be expected? I answer. If it ever reach us it must spring up amongst us; it cannot come from abroad. If destruction be our lot we must ourselves be its author and finisher. As a nation of freemen we must live through all time or die by suicide.”.

[4] Citazioni tratte da Andrea Graziosi, L’Urss dal trionfo al degrado, Il Mulino, Bologna 2008.

[5] . Salviano di Marsiglia, De Gubernatione Dei, V, 5, 22. V. anche gli storici citati da S. Mazzarino ne La fine del mondo antico, Milano 1988, da Orosio a Prisco.

[6]  V. qui un riassunto ben fatto: http://spainillustrated.blogspot.it/2012/01/arbitrismo-politico-economico.html

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