M5S, la stampella del potere Scritto il 12 giugno 2015 by Federico Dezzani

Mi pare utile riprendere un articolo di Federico Dezzani, con il quale l’autore ricostruisce la genesi del movimento- Giuseppe Germinario

M5S, la stampella del potere

Scritto il 12 giugno 2015 by Federico Dezzani

Twitter: @FedericoDezzani

link originario dell’articolo:  http://federicodezzani.altervista.org/m5s-la-stampella-del-potere/
Le recenti elezioni regionali certificano l’arretramento del M5S che perde 900.000 voti rispetto alle europee del 2014 e quasi 2 mln di voti rispetto alle politiche del 2013: è il prezzo della defezione di Beppe Grillo, ritiratosi nel novembre 2014 dalla guida del movimento perché “un po’ stanchino”. Perché Grillo abdica quando la situazione economica dell’Italia, sempre più esplosiva, permetterebbe di assestare il colpo definitivo al governo Renzi e realizzare la “rivoluzione araba” promessa nel 2013? La risposta è che M5S è la stampella dell’establishment euro-atlantico. Dall’American Chamber Of Commerce alla Telecom Italia, come è stata assemblata la piattaforma di Gian Roberto Casaleggio: l’arroganza è che tale che è apposta pure la firma “nuovo ordine mondiale”.

Italia: poligono per le sperimentazioni politiche

Quando una nuova arma è perfezionata è abitudine sperimentarla in qualche poligono di tiro lontano dal territorio metropolitano, oppure in qualche teatro bellico: ne sanno qualcosa i cittadini sardi che subiscono gli effetti del poligono sperimentale Salto di Quirra, il più grande della NATO in Europa, oppure i ribelli Houthi dello Yemen, contro cui è stata di recente scagliata una bomba termobarica, immortalata nel video che mostra tutta la potenza devastatrice dell’ordigno1. Le armi convenzionali sono solo uno degli strumenti cui il sistema euro-atlantico ricorre per esercitare il proprio dominio. Esiste poi un vasto arsenale di armi riconducibile alla “guerra psicologica”, combattuta contro nemici esterni o contro le opinioni pubbliche di paesi alleati se non, come sempre più spesso capita, direttamente contro i propri cittadini: rientrano tra le armi psicologiche gli attentati falsa bandiera, la propaganda contro governi ostili, gli omicidi politici e le rivoluzioni colorate.

Anche in questo campo l’Italia, uscita sconfitta dall’ultima guerra, ha il triste primato di essere uno dei poligoni preferiti dalla NATO, dove sono testate le nuove armi psicologiche che, se funzionanti, sono poi applicate all’occorrenza in altri Paesi. È nel Bel Paese ad esempio che è sperimentata la strategia delle tensione, applicata poi negli stessi USA con gli attentati dell’11 settembre e le lettere all’antrace.

Le basi della strategia della tensione sono poste nel settembre 1963, tre mesi prima che nasca il primo governo di centrosinistra (DC,PSI, PSDI, PRI) presieduto da Aldo Moro: è in quei giorni che dall’Ufficio Ricerche Economico Industriali del SIFAR parte una relazione riservata indirizzata al generale Giovanni Allavena, capo del controspionaggio del Servizio Informazione Forze Armate. Qui si contempla, pur di arginare l’avanzata comunista, la possibilità di2:

“creare gruppi di attivisti, di giovani, di squadre che possano usare tutti i sistemi, anche quelli non ortodossi, dell’intimidazione, della minaccia, del ricatto, della lotta di piazza, dell’assalto, del sabotaggio, del terrorismo”.

Ad attuare questo innovativo, eversivo, disegno (che metabolizza molti concetti della guerra rivoluzionaria marxista-leninista) è chiamato il maggiore Adriano Magi Braschi, tra i massimi esperti della NATO in guerra psicologica e futuro ponte tra servizi segreti e terrorismo nero, anche internazionale (è infatti in stretto contatto con l’Organisation armée secrète francese).

Due anni dopo, nel maggio del 1965, si svolge presso l’hotel romano Parco dei Principi, il convegno organizzato dall’Istituto di studi militari Alberto Pollio che posa il primo mattone della futura strategia della tensione: intervengono alla conferenza il suddetto maggiore Magi Braschi, alti esponenti delle forze armate e dei servizi, accademici e figure di spicco dell’estremismo di destra (tra cui Pino Rauti e Guido Giannettini).

La fine del mondo bipolare e la volontà di procedere a tappe forzate verso il “nuovo ordine mondiale” (Stati Uniti d’Europa, allargamento della NATO a est, neoliberismo e finanza selvaggia) comporta per l’establishment euro-atlantico la necessità di sbarazzarsi della vecchia classe politica dei “paesi alleati”, con sui si è vinta la guerra fredda: abituati a ritagliarsi una certa libertà di manovra entro i paletti della NATO e propugnatori dell’intervento dello Stato nell’economia, questi politici sono infatti obsoleti nel nuovo assetto unipolare.

In Italia è quindi testata una nuova arma psicologica che negli anni a venire sarà largamente impiegata in tutto l’Occidente: gli scandali mediatici-giudiziari, con cui si discreditano e/o eliminano politicamente singole figure o intere classi dirigenti. Quest’arma psicologica, recentemente impiegata contro i vertici della FIFA rei di non aver cancellato i mondiali in Russia del 2018, si avvale di illeciti o di ipotesi di reato, portati alla luce se e quando la vittima disobbedisce alle direttive o occorre sostituirla con uomini più freschi e fidati.

La prima e, la più potente in Europa Occidentale, bomba mediatica-giudiziaria è sganciata su Milano nel 1992, facendo leva sul finanziamento illecito dei partiti che, fino a quel momento, era stato il segreto di Pulcinella della politica italiana: è l’inchiesta Mani pulite condotta, come ha ammesso l’ex-ambasciatore americano Reginald Bartholomew prima di morire per un tumore3, dal pool milanese di Francesco Saverio Borrelli in stretto contatto con il consolato americano di Milano. Il console generale americano a Milano, Peter Semler, riceve nei suoi uffici il futuro uomo simbolo di Mani Pulite, il magistrato Antonio Di Pietro, quattro mesi prima dello scoppio dell’inchiesta: scopo dell’incontro è essere “informato” sulle implicazioni politiche delle indagini.

Antonio Di Pietro (che attira l’ammirazione del console Semler perché sa usare il computer “a differenza di gran parte degli italiani”) entra alla procura di Milano nel 1985 e la sua padronanza degli strumenti informatici (poi persa nel tempo se, come vedremo in seguito, per aprire il suo blog deve avvalersi di Gianroberto Casaleggio) gli consente di essere cooptato nel 1989 dal Ministero della Giustizia come consulente per l’informatizzazione.

Di Pietro, il cui italiano incerto corrobora le voci di una laurea in giurisprudenza parecchio opaca, ha un trascorso nel SISDE: negli anni ’80 figura tra i poliziotti di scorta al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa4 ed un appunto del centro Sisde di Milano afferma che in quegli stessi anni Di Pietro è in contatto con un diplomatico USA attivo nel nord Italia e con una società vicina alla CIA5. Perché gli americani inseriscono Di Pietro nel pool di Mani pulite, quando la squadra di Borelli sarebbe capace di condurre l’inchiesta contro i vertici della Prima Repubblica anche senza il suo apporto? La spiegazione è duplice: la volontà di avere un proprio referente fidato dentro la squadra di Mani Pulite e, non meno importante, il piano di lanciare Di Pietro, l’eroe nazionale che libera l’Italia dal marciume del DC ed il PSI, come nuovo astro nascente della politica italiana.

Tutti i media del periodo infatti, dal Corriere a Repubblica, preparano il terreno in questo senso6 e, non appena Di Pietro lascia la toga nel dicembre del 1994, gira l’ipotesi che l’ex-magistrato si schieri a destra dell’arena politica, usando come base di partenza il Movimento Mani pulite.

Nel luglio del 1995 Antonino Di Pietro compie il terzo misterioso viaggio negli USA dalla scoppio di Mani Pulite (un primo nell’ottobre del 1992 finanziato dalla United States Information Agency ed il secondo nel 1994 prima di lasciare la magistratura): là è ricevuto dall’American Enterprise Institute7 (lo stesso pensatoio che 15 anni dopo sforna Matteo Renzi) e dal politologo Edward Luttwak.

Al suo ritorno in Italia, stupendo tutti i collaboratori, Di Pietro decide di non entrare in politica con un soggetto autonomo bensì appoggiandosi al centro-sinistra. A Washington devono avergli spiegato che saranno infatti i governi di sinistra a spadroneggiare negli anni successivi, dopo l’effimera esperienza del governo Berlusconi I: il loro compito sarà smantellare l’industria di Statoagganciare l’Italia all’euro a qualsiasi costo e piegarsi alla politica angloamericana nei Balcani.

Tonino è ministro dei lavori pubblici del governo Prodi I (1996) e poi nuovamente ministro delle infrastrutture del governo Prodi II (2006-2008): è nella veste di responsabile di questo dicastero che l’ex-pm, in ottimi rapporti con gli USA, nomina nel febbraio 2007 Gianroberto Casaleggio ed i fondatori della Casaleggio associati (Mario Bucchich e Luca Eleuteri) come esperti del ministero per le strategie comunicative ed i nuovi media8.

Siamo entrati nella sperimentazione dell’ultima arma psicologica, concepita ed applicata con discreto successo già in Ucraina con la rivoluzione arancione del 2004: l’impiego della rete per influenzare l’opinione pubblica, screditare i governi ostili e, all’occorrenza, organizzare manifestazioni di piazza o moti contro le istituzioni.

È nel 2004 che Casaleggio allestisce il sito Beppegrillo.it e, a distanza di tre anni, replica l’operazione con il sito di Antonio Di Pietro: è singolare che tra le centinaia di esperti di comunicazione operanti in Italia, un ministro della Repubblica italiana si affidi “per imparare a schiacciare i bottoncini di Twitter e di Facebook”9allo stesso guru informatico che sta preparando il primo Vaffanculo-day contro il governo Prodi.

La collaborazione tra l’ex-pm di Mani Pulite e Casaleggio prosegue per tre anni, finché Di Pietro si accorge che non è più lui a dettare la linea politica del proprio sito, bensì a subirla, talvolta anche con imbarazzo a causa del toni sempre più aggressivi e denigratori dei contenuti: nel settembre del 2009 si consuma il divorzio tra il segretario dell’Idv e l’esperto informatico.

Da quel momento Di Pietro non è più un socio, seppur di minoranza, della corazzata Casaleggio bensì un rivale politico con cui spartirsi il voto di protesta: a due riprese, man mano che il governo Berlusconi IV affonda sotto il peso degli scandali-mediatici giudiziari e si avvicinano le elezioni, Tonino è liquidato. Nel febbraio del 2010 è pubblicata sul Corriere delle Sera un foto di 18 anni prima che immortala Di Pietro a cena con l’allora capo del Sisde del Lazio, Bruno Contrada, ed uno 007 in servizio all’ambasciata americana. Poi, nel novembre del 2012, la conduttrice di Report Milena Gabanelli assesta il colpo letale all’Italia dei Valori con un’inchiesta sui rimborsi elettorali.

Addio Di Pietro!

Il sol dell’avvenire è ora il Movimento 5 Stelle, nato e cresciuto attorno al blog beppegrillo.it messo a punto dalla Casaleggio Associati. È quindi tempo di indagare sul passato del guru informatico, diviso tra Olivetti, esoterismo e finanza anglosassone.

 

Casaleggio: tra Olivetti, Telecom, Goldman Sachs e nuovo ordine mondiale

Telecomunicazioni e servizi segreti sono pressoché diventati sinonimo dopo le rivelazioni dell’ex-tecnico informatico della CIA Edward Snowden, che nel 2013 dimostra come l’NSA intercetti e sorvegli illegalmente americani e stranieri, semplici cittadini o capi di Stato, appoggiandosi anche a servizi segreti alleati per coprire i rispettivi territori nazionali. Al vertice della piramide che vaglia centinaia di petabite al giorno è il Five Eyes, l’alleanza spionistica tra le potenze anglosassoni (USA, Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda e Canada). Sotto, in base ad affinità politiche e peso internazionale, scendono a cascata gli altri Paesi della NATO.

È superfluo dire che l’Italia, dove il governo Letta neppure fiata quando esplode lo scandalo NSA, è considerata un’espressione geografica, preziosa solo perché dalla Sicilia transitano i fondamentali cavi sottomarini che connettono l’Europa con tutto l’Oriente ed il Sud America: il controllo di Telecom Italia cui fa capo la rete fissa e le linee transoceaniche (Telecom Sparkle) è quindi fondamentale per Washington, tanto che ciclicamente ricorre l’ipotesi di una fusione con la texana AT&T. La penetrazione dei servizi angloamericani nell’ex-monopolio dei telefoni affonda le radici già nel dopoguerra e, dal confezionamento di dossier alle intercettazioni diffamatorie, è sempre stata usata per esercitare il ferreo controllo sul Paese.

È nella cornice Telecom/servizi segreti che deve essere inquadrata la figura di Gianroberto Casaleggio. Perito informatico, mai laureato, entra nel 1975 alla Olivetti dove incontra la prima moglie, la britannica Elizabeth Clare Birks da cui ha un figlio. Il padre di Gianroberto è interprete di lingua russa e questo è un dato interessante perché Adriano Olivetti (1901-1960), l’imprenditore visionario che lascia un’impronta indelebile all’azienda, è appassionato di letteratura russa. In particolare Adriano Olivetti, che con il nome in codice “Brown” è in stretto contatto con i servizi segreti inglesi sin dalla primavera del 194310, è un fervido appassionato di occultismo russo11Helena Blavatsky, fondatrice della Società Teosofica ed autrice del libro Iside Svelata, ed il teosofo russo Vladimir Sergeevič Solov’ëv.

Ad un occultista russo, George Gurdjieff (1877-1949), Gianroberto Casaleggio si richiama espressamente, definendosi suo discepolo12. Il profilo esoterico di Gianroberto Casaleggio si arricchisce poi di nuovi importanti particolari nel marzo del 2013, quando sul settimanale Panorama compare l’intervista al massone Giuliano Di Bernardo, ex-Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, dove, commentando la visione del guru di M5S, sono evidenziate le forti analogie tra il Casaleggio-pensiero e l’esoterismo della massoneria speculativa. Sia per Casaleggio che per l’ex- Gran Maestro del GOI, in un futuro non troppo lontano scompariranno le differenze ideologiche, politiche e religiose, ma secondo Di Bernardo13:

Per me a governare sarà una comunione di illuminati, presieduta dal “tiranno illuminato”, per Casaleggio a condurre l’umanità sarà la rete.

Nel 1999, con un’azzardata scalata a debito che lascerà un segno indelebile, la Olivetti di Roberto Colaninno, attiva nella telefonia con Omnitel ed Infostrada, lancia un’offerta pubblica d’acquisto su Telecom Italia, arrivando a detenerne il 51%. Da circa un anno l’ex-monopolio dei telefoni è guidato da Franco Bernabé che, legato a doppio filo con l’establishment euro-atlantico (è uno dei massimi referenti italiani del Round Table, nella veste di membro del Council on Foreign Relations, gruppo Bilderberg, International Council di JP Morgan e vice presidente di Rothschild Europe14), è reduce dell’esperienza in ENI, dove da amministratore delegato ha curato la privatizzazione del gigante petrolifero italiano al motto di “vendere, vendere, vendere”15.

Il 22 febbraio del 2000 l’Olivetti acquista, per 52 mld di lire, dalla britannica Logica Plc il 45% della società Logicasiel, di cui Finsiel (controllata da Telecom Italia) detiene il restante 55%: la società, che cambia il nome in Webegg Spa, è quindi ora in mano al 100% al gruppo Telecom Italia/Olivetti16.

La britannica Logica plc non è un’azienda qualsiasi, bensì il colosso inglese delle nuove tecnologie: nel 1974 è la prima azienda europea ad importare sul Vecchio Continente il papà di internet (Arpanet) quando è ancora un tecnologia militare statunitense e, in quegli stessi anni, disegna la rete elettronica per lo scambio di dati tra banche (il celebre SWIFT, Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication).

La neonata Webegg Spa che, si legge nel comunicato aziendale,“offre consulenza e soluzioni informatiche alle aziende che si organizzano in rete su modello delle web company17 è davvero ben inserita nel comunità economica anglofona, se si considera che appena un anno prima, nel 1999, ha siglato un accordo di collaborazione con la società di nuove tecnologie Neon (New Era Of Networks, con sede in Colorado), fondata nel 1995 dal responsabile informatico di Goldman Sachs, Rick Adam18 (laurea a West Point, già ufficiale della US Air Force ed ex-esperto informatico presso il colosso degli armamenti Litton Industries19, poi Northrop Grumman. Un personaggio decisamente in odore di servizi).

Amministratore delegato delle ex-Logicasiel, ora Webegg spa, è nientemeno che Gianroberto Casaleggio, affiancato dai fidi collaboratori che il guru porterà poi con sé nelle future esperienze aziendali e politiche: Luca Eleuteri (direttore generale tra il 2000 ed il 2003), Mario Bucchich (responsabile della comunicazione tra 2000 e 2003) e Enrico Sassoon (membro del cda dal 2001 al 200320). Merita qualche approfondimento quest’ultimo: Sassoon, membro del consiglio della camera di commercio americana in Italia sin dal 1998 e direttore responsabile della Harvard Business Review dal 2006, ha le sembianze del classico “agente di collegamento” tra l’ambasciata americana di Via Vittorio Veneto e gli uffici della Webegg Spa.

Come sono le prestazioni economiche del gruppo Webegg? Nel 2011 il bilancio si chiude con 91 mln di fatturato ed un utile di 6 mln 21; nel 2002 la società è consolidata da Telecom, gli utili crollano a 45 mln e l’utile a 2,8 mln; nel 2003 continua la caduta dei ricavi che si attestano per la Webegg Spa a soli più 19 mln22. Nonostante i non eclatanti risultati, la Webegg di Casaleggio non bada a spese per i propri dipendenti, come se la società godesse di qualche connaturato privilegio: tre sedi con uffici avveniristici, feste di fine anno con celebri personaggi delle tv, trasferte internazionali per partecipare a tornei di calcio aziendali, etc. etc.

L’enigmatica attività di Casaleggio in Webegg, tale da richiedere la collaborazione del responsabile informatico di Goldman Sach e la consulenza della camera di commercio americana, si interrompe bruscamente sotto il governo Berlusconi II: nel giugno del 2001 il Cavaliere vince le elezioni, il presidente di Pirelli Marco Tronchetti Provera acquista nel luglio successivo, grazie al placet del governo, il controllo di Telecom Italia e, a distanza di due anni, Gianroberto Casaleggio è costretto a lasciare la Webegg Spa. Poi, nel giugno del 2004, la controllata della Telecom è venduta alla società Value Partners.

Con l’avvento del governo Prodi II (2006-2008), Tronchetti Provera perde la sponda con l’esecutivo: prima si dimette dalla presidenza e poi accetta un nuovo patto di controllo che diluisce progressivamente la percentuale di Pirelli fino all’uscita definitiva. È facile scorgere nella salace satira23 di Beppe Grillo contro Tronchetti Provera, eletto a suo bersaglio preferito finché questi non cede Telecom, una vendetta di Casaleggio per la chiusura del “laboratorio Webegg”.

L’ex-perito informatico dell’Olivetti non si perde d’animo: traghetta i suoi uomini più fidati e soprattutto il consigliere della American Chamber of Commerce in Italy, Enrico Sassoon, verso nuovi lidi e nel gennaio del 2004 nasce la Casaleggio Associati. È molto significativo che il blasonato Sassoon (è corrispondente de il Sole 24 Ore e consulente per le maggiori multinazionali americani operanti in Italia), anziché permanere nel cda di Webegg, decida di seguire Casaleggio nella neonata impresa. Corrobora il sospetto che Sassoon, più che alle nuove tecnologie, sia interessato alla specifica attività cui sta lavorando l’enigmatico perito.

Siamo nel 2004 ed internet è parte integrante dell’allora innovativa strategia angloamericana per rovesciare i governi ostili: l’Ucraina è teatro di un primo tentativo di cambio di regime, la rivoluzione arancione finanziata da George Soros e dal Dipartimento di Stato americano24, dove sono massicciamente impiegati blog e siti d’informazione, ampiamente pubblicizzati dai media anglofoni.

Proprio in quell’anno, stando alla ricostruzione ufficiale, Beppe Grillo legge un libro di Casaleggio, ne rimane affascinato e gli telefona25. I due si incontrano al termine di uno spettacolo a Livorno e stordendolo con racconti sull’esoterista Gurdjieff e sul celebre scrittore dell’imperialismo inglese, il massone Rudyard Kipling, Casaleggio convince il comico genovese (fino ad allora un fervente luddista26) ad affidarsi alle sue mani per la creazione del blog Beppegrillo.it.

La verità deve essere probabilmente un’altra: il comico genovese (che con l’ex agente del Sisde Antonio di Pietro condivide il profilo giustizialista, anti-casta e demolitore) deve essere stato segnalato da qualcuno come idoneo al progetto che Casaleggio sta sviluppando. Chi è questo qualcuno? Gli indizi portano all’ex-colonnello della Guardia di Finanza Umberto Rapetto: amico di Grillo sin dagli anni ’9027, in contatto sin dal 2000 con Franco Bernabé che lo nomina 12 anni dopo consulente strategico in Telecom, Rapetto è docente alla NATO School di Oberammergau e consulente del Pentagono in materia di sicurezza28.

Una peculiarità che Casaleggio conserva dalla precedente esperienze in Webegg è la prodigalità negli investimenti: nell’autunno del 2004 la neonata società di Casaleggio sigla infatti un accordo di collaborazione con Enamics, società di Stanford fondata “dall’esperto mondiale di IT ed autore di best seller internazionali”29 Faisal Hoque, che costruisce le architetture informative per giganti come GE, MasterCard, American Express, Northrop Grumman, PepsiCo, IBM, Netscape, Infosys, JP Morgan Chase, etc. etc.

Come è possibile che un divo dell’informatica che lavora per i colossi delle finanza e degli armamenti americani si lasci coinvolgere nei progetti di una neo-costituita ed anonima azienda italiana? Bisogna forse porre la domanda ad Enrico Sassoon ed ai suoi amici dell’American Chamber of Commerce in Italy, perché difficilmente la Casaleggio Associati avrebbe le risorse finanziarie per pagare la parcella di Faisal Hoque.

Arriviamo ad un punto fondamentale: se in Telecom Italia i progetti del guru di Beppe Grillo erano finanziati direttamente dall’ex-monopolio dei telefoni, dove trae ora sostentamento la Casaleggio Associati? In rete sono disponibili i bilanci per il triennio 2009-201230 che mostrano ricavi ed utili in costanti calo, passando da un 1,6 mln a 1,4 e da un attivo di 118.000 € ad un perdita di 57.000 €. Nulla si sa circa i clienti, ma se si considera che nel 2012 il sito beppegrillo.it è già nato da otto anni, M5S da tre, e che circa un milione di ricavi proviene dai servizi venduti dall’ex-Sisde Antonio Di Pietro31, sorgono spontanei i dubbi sulla capacità della Casaleggio Associati di stare sul mercato senza qualche aiuto interessato.

Di certo, come nel caso di Antonio Di Pietro, è la Casaleggio Associati che produce i contenuti del blog di Grillo, stabilisce la linea politica, decide quando e contro chi alzare i toni.

Direttamente prodotti dalla Casaleggio Associati e diffusi in rete dalla società milanese sono i celebri video Prometheus – la Rivoluzione dei media32 (2007) e Gaia – The future of politics (2008): prescindendo dagli scenari ivi contenuti (terza guerra mondiale, pace perpetua, fusioni tra colossi della rete, trionfo dell’informazione angloamericana), è interessante soffermarsi sui richiami esoterici che, come abbiamo precedentemente visto, sono parte integrante del profilo di Casaleggio. Si cita espressamente il “nuovo ordine mondiale” che, da George Bush senior a Giorgio Napolitano passando per Jacques Delors è sulla bocca di tutti i membri dell’élite euro-atlantica. Inoltre, al termine di “Prometheus” (personaggio chiave della dottrina massonica/teosofica), compare il celebre occhio divino nel triangolo raggiante.

Siamo nel 2008: sfruttando il sito Meetup per l’organizzazione di incontri e manifestazione, Grillo ha iniziato da tre anni a radicarsi sul territorio e, l’8 settembre dell’anno precedente, si è tenuto in diverse piazze italiane il Vaffanculo-Day con cui il comico genovese (condannato nel 1985 a 14 mesi di reclusione per omicidio colposo) pubblicizza l’iniziativa “Parlamento pulito” contro la casta, la corruzione, i segretari di partito, i politici condannati in appello, etc. etc.

Già in quell’occasione a dare un particolare rilievo mediatico al Vaffanculo-day di Grillo sono, ça va sans rien dire, i media anglofoni: in particolare la BBC inglese (che fomenta disordini a casa altrui dai tempi della rivoluzione iraniana del 1979) non perde mai di vista il comico giustizialista, diffondendo su radio34, televisione e internet, gli spettacoli con cui, come ai tempi di Mani Pulite, si demolisce la classe politica italiana.

I tempi sono quindi maturi per il primo incontro ufficiale tra l’astro nascente della politica italiana ed il corpo diplomatico americano in Italia: nell’aprile del 2008, George Bush junior imperante, si consuma il pranzo/esame tra Beppe Grillo e l’ambasciatore americano Ronald Spogli (lo stesso che di lì a poco ammonirà Silvio Berlusconi per i suoi pericolosi legami con la Russia).

Al termine dell’incontro, l’intimo amico di Bush, consigliere tra l’altro della J. William Fulbright Foreign Scholarship (emanazione del Round Table), scrive soddisfatto un cablo al segretario di Stato Condoleeza Rice dal titolo “Lunch with italian activist Beppe Grillo: No hope for Italy. Un obsession with corruption35. Grillo, dice Spogli, è un tipo berbero ma capisce di tecnologie ed è all’avanguardia nella lotta contro la corruzione che mina l’economia italiana (insomma, il Di Pietro degli anni 2000).

L’esame è superato e dalla politica arriva il via libera al progetto sui cui i servizi d’informazione britannici e statunitensi lavorano dai tempi della Logicasiel/Webegg: il 4 ottobre 2009, al Teatro Smeraldo di Milano, nasce il Movimento 5 Stelle come filiazione del blog di Beppe Grillo, appena eletto dalla rivista americana Forbes a settima celebrità mondiale della rete36.

Dalla “rivoluzione araba” allo “sono un po’ stanchino”

Arriviamo all’interrogativo decisivo: a cosa serve il Movimento 5 Stelle?

In base alla storia recente, i movimenti politici finanziati dagli angloamericani e costruiti attorno alla rete, sono riconducibili a tre tipologie: movimenti per rovesciare governi ostili, per rovesciare governi amici e, infine, per mantenere lo status quo, fornendo una valvola di sfogo al malcontento.

Alla prima categoria è riconducibile il golpe ucraino del 2014 o l’attuale tentativo angloamericano di rovesciare il governo macedone di Nikola Gruevski: tramite siti d’informazione, blog e microblog si organizzano manifestazioni e proteste contro l’esecutivo in carica, accusandolo normalmente di corruzione, brogli elettorali e repressione dei dissidenti (stranamente nessuna protesta è mai scoppiata nel Regno Unito contro l’infamante piaga delle pedofilia che da sempre affligge la BBC e Westminister37). La protesta ha la tendenza a fallire perché l’apparato di sicurezza, fedele al governo, reprime i disordini: occorrono quindi attentati falsa bandiera di grande impatto mediatico, come l’impiego di cecchini o attentati dinamitardi, per conseguire il risultato.

Il secondo caso è quello della Tunisia o dell’Egitto del 2011: fantomatici blogger incitano alla rivolta con l’ausilio della rete Otpor!/CANVAS, il movimento di protesta si evolve in un’aperta disobbedienza alle istituzioni, le forze di sicurezza fedeli agli USA non reprimono i disordini, ed il cambio di regime si conclude con un limitato spargimento di sangue e la fuga del premier.

Il terzo caso è invece quello del Movimento 5 Stelle che, dopo aver dato ottimi risultati Italia, è riprodotto perfino negli Stati Uniti attraverso il movimento Occupy Wall Street, finanziato dal miliardario George Soros, come ammesso dall’agenzia Reuters nell’ottobre del 2011 prima di ritrattare rapidamente38.

Scrive infatti il fondatore di Occupy Wall Street, il trentenne Micah White, sul blog di Grillo39:

Al momento il M5S è il più importante movimento sociale al mondoSiete voi che ci state mostrando la strade dove andare, la direzione. E adesso vi voglio spiegare perché il vostro movimento è così importante. Noi siamo come il popolo eletto, siamo i prescelti, i prescelti per creare una nuova realtà. Ci troviamo davanti a tre grosse sfide, che hanno bisogno di soluzioni urgenti.

Sia in Italia, colonia americana sin dal 1945, che, a maggior ragione negli USA, non c’è nessuna volontà di rovesciare l’establishment né di metterlo in discussione: come le rivoluzioni colorate di Ucraina, Georgia o Libia, si agisce sì sul malcontento e sulla frustrazione della popolazione per organizzare manifestazioni e occupazioni di luoghi pubblici, ma lo scopo è offrire una valvola di sfogo, impedendo che l’accumularsi della tensione esploda in autentici disordini o moti di piazza contro la classe dirigente.

Da quando l’Italia è precipitata nella depressione economica, l’unica genuina ed autentica protesta è stata quella dei Forconi, commercianti e piccoli imprenditori piegati dalla crisi, non a caso ignorati o disprezzati dai media, messi in quarantena dal M5S40 e duramente repressi dalle autorità giudiziarie41.

Il Movimento 5 Stelle ha quindi il compito, in una prima fase, di catalizzare la protesta esacerbando i toni, e poi, superate le scadenze elettorali decisive, sterilizzare i voti raccolti, lasciando ai partiti d’establishment la possibilità di governare indisturbati, autonomamente o in coalizione se necessario.

Il sito Beppegrillo.it e M5S fa proprie le tematiche più impellenti per l’elettorato e più scottanti per la UE/NATO (l’ostilità verso la moneta unica, il rifiuto alle installazioni militari americani, l’impopolarità delle sanzioni alla Russia, lo sdegno per la responsabilità degli angloamericani nel golpe ucraino, etc.) ma poi le castra, proponendo soluzioni irrealistiche o limitandosi a qualche innocua invettiva (il referendum sull’euro cui la nostra Costituzione non riconoscerebbe nessun valore, l’esultanza per la sentenza per il provvedimento della procura di Caltagirone con cui è stato sospeso il MOUS, generiche indignazioni contro la rivoluzione colorata ucraina, etc. etc.).

Ripercorriamo la breve parabola del M5S per dimostrare la nostra tesi.

Nell’autunno del 2012 imperversa la campagna elettorale per le imminenti politiche, dove, tra l’altro, l’apparato del PD è riuscito a bloccare l’Opa ostile di Matteo Renzi, cavallo di Troia degli americani, presentando Pierluigi Bersani come candidato premier.

Il duo Casaleggio-Grillo alza al massimo i toni dello scontro, non perché voglia espugnare i palazzi romani con la forza e mettere in discussione il sistema, ma perché deve risucchiare tutto il voto di protesta: è la fase dei “giornalisti carogne”, “se va avanti così ci sarà una rivoluzione violenta”, “il sistema sta collassando”, “la rivoluzione è iniziata” etc. etc..

L’imponente tsunami tour che porta Grillo in 87 città, e di cui manca qualsiasi rendicontazione sui costi e sulle fonti di finanziamento42, è un grande successo di piazza. Il 25 febbraio 2013, prima ancora che le urne siano chiuse, sul sito OpenDemocracy finanziato da George Soros si può leggere43:

There is no telling what the outcome of today’s remarkably uncertain Italian elections will be. But the real story might just be Beppe Grillo’s Movimento 5 Stelle, which could become the third political force in the country, and set a model for others in Europe to follow.

La profezia di Soros è corretta, perché M5S, raccogliendo il 25% delle preferenze, si afferma come la terza forza del Paese, dietro alle coalizioni guidate da Pierluigi Bersani e Silvio Berlusconi.

A questo punto scatta la seconda fase della strategia per cui M5S è stato studiato, ovvero la sterilizzazione del voto di protesta: entrati in Parlamento, i grillini bocciano qualsiasi tipo di alleanza in Parlamento, bollato come “inciucio”, condannando così all’irrilevanza gli 8 mln di voti raccolti.

Il problema che si pone per gli angloamericani è ora quello di sbarazzarsi di Pierluigi Bersani, portando Matteo Renzi prima alla segretaria del PD e poi a Palazzo Chigi.

A inizio di aprile 2013, in vista delle elezioni del nuovo presidente della repubblica, Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo si recano in pellegrinaggio all’ambasciata inglese per discutere sulle votazioni del nuovo presidente della Repubblica44.

È significativo che gli inglesi propongano loro la riconferma di Giorgio Napolitano: il loro obbiettivo è infatti bloccare ad ogni costo l’elezione di Romano Prodi, considerato anti-americano e filo-russo, assestando così un colpo definitivo anche a Pierluigi Bersani. Grillo si adegua, dichiarando che i suoi parlamentari non voteranno mai il professore bolognese45, mentre Matteo Renzi coalizza i famosi 101 parlamentari che affossano Prodi46: l’effetto domino non riserva sorprese e cadono prima Bersani e poi il premier Letta. L’americano Matteo Renzi è finalmente a Palazzo Chigi e può recitare un simpatico teatrino con il sodale Beppe Grillo, quando si incontrano tête-à-tête nel febbraio del 2014.

Siamo nella primavera del 2014 e si avvicinano le fondamentali elezioni europee di maggio, importanti non perché si decide la composizione dell’inutile Parlamento europeo, ma perché servono a dare un’investitura pseudo-democratica a Matteo Renzi, il cui ultimo vaglio elettorale risale alle comunali di Firenze del 2009.

Grillo riveste i panni dell’agitatore blanquista, coadiuvato dai sondaggi falsati e dai media che danno il M5S ad un soffio dal PD o addirittura in testa47: urlando come un ossesso “Siamo il primo partito! Siamo al 60%! Chiederemo le dimissioni di Napolitano e vinceremo le politiche!”, Grillo spinge il voto moderato, allarmato da una vittoria del M5S, verso il PD di Renzi. È la celebre vittoria del 40%, stranamente sfuggita a qualsiasi sondaggista, che consente a Renzi di presentarsi come il trionfatore delle europee, celebrato da tutti i media di regime (“Si legge PD, si scrive DC”48, “Con Renzi ha vinto il partito della Nazione”49).

Arriviamo all’autunno del 2014: malauguratamente per Renzi, ma soprattutto per 60 mln di italiani, le ricette della Troika si confermano fallimentari, il terzo trimestre del 2014 si chiude con un PIL a -0,1% rispetto all’anno precedente e ci si avvia verso l’ennesima stagione di recessione, con un PIL a -0,4% su base annua50.

La congiuntura economica dovrebbe fornire l’assist decisivo a Beppe Grillo: la cura della BCE-UE-FMI ha precipitato l’Italia nella depressione economica, Renzi ha fallito nell’impresa di rivitalizzare l’economia, la disoccupazione continua a crescere e il malcontento pure… È tempo di assestare il colpo decisivo al governo e scatenare quella “rivoluzione araba” promessa nel 201351.

Invece Giuseppe Piero Grillo che fa?

Sostiene di essere “un po’ stanchino, come direbbe Forrest Gump”52 e, tra lo sconcerto della base, passa la palla ad un direttorio di cinque parlamentari del M5S, sotto l’occhio vigile della Casaleggio Associati. Adieu, révolution!

Da allora, ghiottissime occasioni per mandare al tappeto le fatiscenti istituzioni della Repubblica italiana scorrono placidamente sotto i ponti (perché M5S non organizza un oceanico Vaffanculo-day in Piazza del Popolo contro Mafia Capitale? Misteri d’Italia).

In cambio, l’establishment euro-atlantico, lo stesso che marchia i video della Casaleggio Associati coll’occhio divino nel triangolo irradiato, prepara l’ennesima mostruosa trasformazione del M5S, questa volta in partito di governo da sostituire/affiancare al già fuso PD di Matteo Renzi.

Sull’americana La Stampa del 3 giugno si legge l’articolo53 “D’Alimonte: l’anti Renzi non può essere Salvini. Il politologo: con l’Italicum sarebbe più favorito Di Maio”.

Stanno apparecchiando un governo Renzi-Di Maio per tenerci agganciati alla UE?

P.S.: non ce ne vogliano i grillini per il nostro articolo. A noi interessa solo la verità. Per il resto, chioserebbe Gianroberto Casaleggio con un equivocabile motto massonico54, “honi soit qui mal y pense”.

 

 

1https://www.youtube.com/watch?v=OTE_Eshm2xw

2La altre Gladio, Giacomo Pacini, Einaudi Storia, 2014, pag. 275

3http://www.lastampa.it/2012/08/29/italia/cronache/cosi-intervenni-per-spezzare-il-legame-tra-usa-e-mani-pulite-tTSX3uC51vAtqfACDDKGUI/pagina.html

4http://www.italiaoggi.it/giornali/dettaglio_giornali.asp?preview=false&accessMode=FA&id=1617080&codiciTestate=1

5http://www.ilgiornale.it/news/usa-007-e-seychelles-lato-oscuro-pietro.html

6http://www.liberoquotidiano.it/news/libero-pensiero/936673/Facci-racconta-Mani-Pulite–cosi.html

7http://www.ilgiornale.it/news/interni/tonino-pendolare-stati-uniti-quattro-viaggi-avvolti-nel-833406.html

8http://www.liberoquotidiano.it/news/politica/11619935/Quando-Casaleggio-lavorava-al-ministero-con.html

9http://www.liberoquotidiano.it/news/politica/11619935/Quando-Casaleggio-lavorava-al-ministero-con.html

10Il Golpe Inglese, Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella, Chiare Lettere, 2011, pag. 58

11http://spazioinwind.libero.it/gburrini/arch2002/olivetti.html

12http://archivio.panorama.it/news/politica/Gianroberto-Casaleggio-l-uomo-che-ha-inventato-Grillo

13http://www.panorama.it/news/politica/gianroberto-casaleggio-massoneria/

14http://www.auditorium.com/download/download/?file_id=5767123

15http://archiviostorico.corriere.it/1993/giugno/09/NUOVO_PIGNONE_ceduta_entro_anno_co_0_93060910298.shtml

16http://www.01net.it/il-45-di-logicasiel-a-olivetti-che-lancia-webegg/

17http://www.marketpress.info/notiziario.php?g=20000223

18http://www.01net.it/logicasiel-neon-alleanza-per-il-middleware/

19http://www.avweb.com/news/profiles/182463-1.html

20http://www.affaritaliani.it/politica/casaleggio-ecco-il-guru-che-ha-creato250512.html

21https://www.telecomitalia.com/content/dam/telecomitalia/it/archivio/documenti/Investitori/AGM_e_assemblee/2005/Olivetti-2001-bilancio.pdf

22http://www.valuepartners.com/downloads/PDF_Comunicati/scrivono%20di%20noi/2004/rep_040615_computerworld_acquisizione.pdf

23https://www.youtube.com/watch?v=_KOR4EmTouU

24http://www.theguardian.com/world/2004/nov/26/ukraine.usa

25http://www.blitzquotidiano.it/politica-italiana/chi-e-gianroberto-casaleggio-influencer-beppe-grillo-1339710/

26https://www.youtube.com/watch?v=mRhqllCLjss

27http://mag.corriereal.info/wordpress/?p=20432

28https://it.linkedin.com/in/rapetto

29http://www.faisalhoque.com/pdf/NetForum1104.pdf

30http://www.ilfattoquotidiano.it/wp-content/uploads/2013/05/AA-CASALEGGIO-ASSOCIATI-6626519-Bilancio-Ottico.pdf

31http://www.unita.it/italia/m5s-di-pietro-casaleggio-grillo-web-grillini-guru-movimento-cinquestelle-italia-valori-idv-pm-blog–1.506600

32https://www.youtube.com/watch?v=HsJLRX-nK4w

34http://www.beppegrillo.it/2005/12/radio_londra.html

35http://www.lastampa.it/rw/Pub/Prod/PDF/4aprile2008.pdf

36http://www.forbes.com/2009/01/29/web-celebrities-internet-technology-webceleb09_0129_land.html

37http://www.corriere.it/esteri/14_luglio_05/scandalo-pedofilia-westminster-mistero-dossier-scomparso-10033346-042a-11e4-80b4-bb0447b18f3b.shtml

38http://www.corriere.it/esteri/14_luglio_05/scandalo-pedofilia-westminster-mistero-dossier-scomparso-10033346-042a-11e4-80b4-bb0447b18f3b.shtml

39http://www.beppegrillo.it/2013/12/oltre_-_v3day_micah_white_e_la_solidarieta_globale.html

40http://www.ilpost.it/2013/12/11/morra-m5s-forconi/

41http://www.adnkronos.com/fatti/cronaca/2015/01/13/forconi-blocchi-nel-torinese-processo-nel_4M2G8WINwgJAiHoP6K1OtN.html

42http://www.panorama.it/news/politica/grillo-il-rendiconto-dello-tsunami-tour-e-falso/

43https://www.opendemocracy.net/jamie-bartlett/beppe-grillos-five-star-revolution

44http://www.secoloditalia.it/2014/05/gli-strani-incontri-di-casaleggio-e-grillo-allambasciata-inglese-con-letta-che-pranzava-al-piano-di-sotto/

45http://www.lastampa.it/2013/04/19/italia/speciali/elezione-presidente-repubblica-2013/grillo-votare-prodi-non-esiste-DWxYl9vvEDtafqaw205gaP/pagina.html

46http://www.ilgiornale.it/news/politica/fassina-accusa-renzi-era-capo-dei-101-che-fecero-fuori-prodi-1085115.html

47http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-europee2014/2014/05/26/news/sondaggi_flop_europee-87221057/

48http://espresso.repubblica.it/palazzo/2014/05/26/news/si-scrive-pd-si-legge-dc-1.166704

49http://www.unita.it/politica/elezioni-2014/voto-renzi-vinto-partito-nazione-evento-italia-europa-argine-garanzia-sinistra-grillo-protesta-stato-1.572042

50http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-11-14/istat-pil-01percento-iii-trimestre-04percento-2013-economia-italiana-ai-livelli-2000-100100.shtml?uuid=AB5wcqDC

51http://www.giornalettismo.com/archives/869691/la-primavera-araba-di-beppe-grillo/

52http://www.corriere.it/politica/14_novembre_28/grillo-io-blog-non-bastiamo-piu-nomina-cinque-vice-voto-rete-f65f46e8-76e6-11e4-90d4-0eff89180b47.shtml

53http://www.lastampa.it/2015/06/03/italia/politica/dalimonte-salvini-non-pu-essere-lanti-renzi-e73xzRtvBnEkSZwO11X0jN/pagina.html

54http://www.beppegrillo.it/2012/05/honi_soit_qui_mal_y_pense.html

 

WALTER BENJAMIN, IPERDECISIONISMO E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO: LO STATO DI ECCEZIONE IN CUI VIVIAMO È LA REGOLA*, di Massimo Morigi

Angelus Novus di Paul Klee

WALTER   BENJAMIN,     IPERDECISIONISMO   E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO: LO STATO DI ECCEZIONE IN CUI VIVIAMO È  LA  REGOLA*

 C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che gli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.

Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia (IX tesi)

 L’Angelus Novus di Paul Klee, che divenne il messianico protagonista della  IX tesi   di Tesi di filosofia della storia, era stato acquistato nel 1921 da Walter Benjamin e da allora lo accompagnò quasi sempre nelle sue peregrinazioni in Europa. Forse in un nessun altro luogo della produzione benjaminiana come nella tesi IX è espresso il disprezzo benjaminiano per l’ideologia del progresso,  un progresso che secondo l’ingenua mentalità positivistica – esemplata poi anche dal totalitaristico diamattino marxismo orientale e dall’ingenua visione  della stragrande maggioranza dei  dirigenti e dei militanti di base otto-novecenteschi dei movimenti rivoluzionari  – si doveva sviluppare all’infinito e lungo un vettore assolutamente lineare. Del tutto realisticamente Benjamin rifiutava questa ottimistica e consolatoria visione ma, apparentemente del tutto irrealisticamente, per Benjamin quello che il futuro negava e non ci poteva garantire era riservato al passato: per Benjamin la rivoluzione doveva, in primo luogo, compiere un’azione di salvezza verso tutti coloro che dai dominatori della storia erano stati sottomessi ed eliminati sia a livello individuale che come gruppi sociali e/o etnici.  Apparentemente,  dal punto di vista personale ed anche dell’elaborazione dottrinale del repubblicanesimo geopolitico,  nulla ci potrebbe di essere più distante – fatta eccezione per il  rifiuto dell’ideologia del progresso – dal messianismo rivolto al passato  dalla IX tesi  e  dalla  struggente immagine  dell’Angelus Novus  Benjaminiano,  nulla ci potrebbe di essere più distante  dal messianismo rivolto al passato  dalla IX tesi e dalla straziante immagine dell’Angelus Novus Benjaminiano che passivamente trasportato dal vento che gli spira fra le ali ha “il viso rivolto verso il passato” ma la grandissima attualità di Benjamin insiste sul fatto che in quest’autore convivono due aspetti che a prima vista sembrano assolutamente antitetici. Del misticismo soteriologico rivolto a resuscitare gli sconfitti abbiamo già accennato, vediamo ora di focalizzarci sul suo realismo politico. Scrive Benjamin nella VIII tesi di Tesi di filosofia della storia:

La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di eccezione’ in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di eccezione; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che i suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono ‘ancora’ possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi.

Cogliamo qui un Benjamin iperdecisionista ben oltre il decisionismo di Carl Schmitt, un iperdecisionismo benjaminano che aveva ben capito, sempre oltre Schmitt, che la decisione non era tanto quell’elemento che stava fuori dalla norma pur costituendone la base logica ma, molto più semplicemente (e fondamentale) era (ed è) sempre stata l’unica elementare norma di comportamento (e giudizio) degli agenti strategici, di quelle classi, cioè, dominanti che da sempre fanno la storia. E concordando a questo punto interamente con Benjamin, il repubblicanesimo geopolitico intende portare questa consapevolezza del perenne “stato di eccezione in cui viviamo” a conoscenza di tutti coloro che sono stati abbagliati dall’ideologizzazione della democrazia operata dagli agenti strategici, per i quali la decisione è da sempre sicura norma ispiratrice della loro azione concreta e di giudizio generale per comprendere come funzionano le cose del mondo.

Ancor più radicale di Carl Schmitt per il quale lo stato di eccezione pur stando alla base dell’ordinamento giuridico non faceva parte, comunque, dello stesso, Walter Benjamin aveva compreso che lo stato di eccezione andava ben al di là  della visione schmittiana del paolino katechon,  ultima mitica risorsa  per arrestare la rivoluzione per il grande giuspubblicista fascista di Plettenberg, cui fare ricorso per impedire la dissoluzione dello stato ma costituiva, bensì, la natura stessa dello stato e della vita associata. Per essere ancora più chiari: per Carl Schmitt uno stato di eccezione che entra in scena solo nei momenti di massima crisi; per Walter Benjamin uno stato di eccezione continuamente ed incessantemente operante e in cui il suo mascheramento in forme giuridiche è funzionale al mantenimento dei rapporti di dominio. Se giustamente, ma con intento nemmeno tanto nascostamente denigratorio, il pensiero di Carl Schmitt è stato definito ‘decisionismo’, Walter Benjamin apre al pensiero politico la dimensione dell’iperdecisionismo. Questo ‘iperdecisionismo’  è un aspetto  del pensiero di Walter Benjamin che finora non ha ricevuto alcuna attenzione. Sì, é vero che molto è stato scritto sui rapporti fra Walter Benjamin e Carl Schmitt, molta acribia filologica è stata spesa sull’argomento ma quello che è totalmente mancato è un discorso sul significato in Benjamin di una visione iperdecisionista e sul significato per noi dell’iperdecisionismo benjaminiano. Quella che è mancata, insomma, è un’autentica visione filosofico-politica, un vuoto di pensiero che è segno, prima ancora di una incomprensione di Benjamin, della totale cecità dell’attuale pensiero politico, tutto, sui tempi che stiamo vivendo. “L’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi”, quello che per Benjamin era letteralmente spazzatura, una propaganda ancor peggio del fascismo, era il concetto che la storia fosse un processo immancabilmente tendente al progresso, un progresso che avrebbe immancabilmente sollevato l’uomo, in virtù di regole e leggi sempre più razionali, dalla fatica della decisione extra legem. Sconfitto il fascismo, le società del secondo dopoguerra, quelle capitalistiche e quelle socialiste indifferentemente, sono state basate proprio su questo principio, il principio cioè che la norma (che assumesse più o meno una forma giuridica, poco importa: le società socialiste avevano un rapporto più sciolto con la lettera della legge ma assolutamente ferreo sulla loro costituzione materiale, l’impossibilità cioè di mettere in discussione il ruolo del partito) non poteva essere messa in discussione se non soppiantandola con un’altra norma successiva generata secondo determinate regole elettorali del gioco democratico (o della democrazia socialista, nei paesi nella sfera d’influenza sovietica o politicamente organizzati sulla scia della tradizione politica della rivoluzione bolscevica). Su questo principio si sono edificate le liberaldemocrazie e i cosiddetti regimi del socialismo reale ma si tratta di un principio, come ben aveva visto Benjamin, che non sta letteralmente in piedi e svolge unicamente la funzione di mascheramento dei rapporti di dominio (rapporti di dominio che, anche se disvelati con prudente linguaggio dagli iniziati alle scienze politiche, si cerca di giustificare, da parte dell’intellighenzia e dai detentori del potere politico dediti alla riproduzione e mantenimento di questi rapporti, col dire che costituiscono un progresso rispetto al passato: un passo verso sempre maggiore democrazia o un passo verso il comunismo, si diceva nei defunti paesi socialisti). Causa, principalmente, la loro inefficienza economica e rapporti di dominio all’interno di queste società non proprio così totalitari come la pubblicistica e la scienza politica delle liberaldemocrazie hanno sempre voluto far credere, le società socialiste sono finite nel mitico bidone della storia e quindi oggigiorno, eredi della vittoria sul nazifascismo, rimangono su piazza le cosiddette società basate sulla democrazia elettoralistica a suffragio universale. A chiunque sia onesto e non voglia stancamente ripetere le illogiche assurdità sulla libertà e la democrazia che queste società consentirebbero, risulta solarmente evidente che la democrazia in queste società è del tutto allucinatoria mentre la libertà è – per dirla brevemente e senza bisogno di far sfoggio di tanta dottrina –  per molti strati della popolazione, la libertà di morire di fame e di essere emarginati da qualsiasi processo decisionale. Se i nonsense ideologici sono però utili per stabilizzare presso i ceti intellettuali – che è meglio definire per la loro intima insipienza ceti semicolti –  la teodicea della liberaldemocrazia, per gli strati con un livello di istruzione inferiore è necessario qualcosa di diverso e di un livello ancora più basso non tanto per celare la natura radicalmente violenta dei rapporti di dominio ma, nel loro caso, per celare la presenza stessa di questi rapporti. E senza dilungarci ulteriormente su questo punto, la “società dello spettacolo”, una società dello spettacolo che con quiz, informazione guidata e di livello cavernicolo, terroristi di cui l’Occidente non ha mai alcuna responsabilità e farlocche invasioni aliene che, oltre ad instillare il bisogno di un’autorità protettrice, non sono altro che la ridicola copertura di esperimenti militari, svolge egregiamente questo ruolo di “distrazione di massa”.

Concordando quindi pienamente con Benjamin, il repubblicanesimo geopolitico intende portare questa consapevolezza del perenne “stato di eccezione in cui viviamo” a conoscenza di tutti coloro che sono stati abbagliati dall’ideologizzazione della democrazia operata dagli agenti strategici, per i quali la decisione è da sempre sicura norma ispiratrice della loro azione concreta e di giudizio generale per comprendere come funzionano le cose del mondo. Se il timido decisionismo di Schmitt era in funzione conservatrice e in perenne attesa – ed evocazione –  del mitico Katechon, il frenatore che avrebbe arrestato la rivoluzione sempre incombente, l’ ‘iperdecisionismo’ benjaminiano è invece il miglior farmaco mai messo punto per la diffusione della consapevolezza presso i dominati che la norma non è altro che la cristallizzazione di una decisione originaria. E se per comprendere che “Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta è necessario il passaggio attraverso una soteriologia rivolta al passato, ben venga allora anche il misticismo di Benjamin: un realismo giunto alla sua massima maturazione ha ben compreso la lezione della I tesi di Tesi di filosofia della storia dove si parla di un automa infallibile nel gioco degli scacchi, il materialismo storico, che è imbattibile al gioco degli scacchi ma al quale questa imbattibilità gli è fornita da un nano gobbo nascosto sotto il tavolo (la teologia) che abilissimo nel gioco manovra l’automa. Per Benjamin è il nano teologico che comanda la partita e lo deve fare di nascosto (perché è piccolo e brutto e quindi la sua presenza, oltre ad essere un barare sulle regole del gioco, non sarebbe stata apprezzata da un pensiero, benché progressista, solidamente realista, come pretendeva di essere la vulgata marxista del tempo infestata, come del resto l’odierno pensiero liberaldemocratico, dalla mala pianta del positivismo). Per noi, meno mistici ma forse consapevolmente più dialettici di Benjamin – e come lui integralmente antipositivisti,  massimamente contro, anche se non solo!, la sua ridicola versione neo à la Popper, tanto per essere chiari – , è alla fine difficile distinguere ciò che è veramente realista da ciò che è mistico e forse, a questo punto, ci  siamo ricongiunti in toto con la IX tesi di Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin.

 

LA DEMOCRAZIA CHE SOGNÒ LE FATE (STATO DI ECCEZIONE, TEORIA DELL’ALIENO E DEL TERRORISTA E REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO)*, di Massimo Morigi

 

*A pagina 8,  Miracolo della neve di Masolino da Panicale

 

Triste l’uomo che vide in sogno le fate!

Con un unico sogno sciupò l’intera sua vita.

 

Po-Chu-i, L’uomo che sognò le fate (da Liriche cinesi, Einuadi, p.170)

 

Scrive Walter Benjamin nella tesi n.8 di Tesi di filosofia della storia: “La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di emergenza’ in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di emergenza; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che i suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono ‘ancora’ possibili nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi.”  (1)  Ancor più radicale di Carl Schmitt per il quale lo stato di eccezione (2) pur stando alla base dell’ordinamento giuridico non faceva parte, comunque, dello stesso, Walter Benjamin aveva compreso che lo stato di eccezione andava ben al di là  della visione schmittiana di katechon ultimo cui fare ricorso per impedire la dissoluzione dello stato ma costituiva, bensì, la natura stessa dello stato e della vita associata. Per essere ancora più chiari: per Carl Schmitt uno stato di eccezione che entra in scena solo nei momenti di massima crisi; per Walter Benjamin uno stato di eccezione continuamente ed incessantemente operante e in cui il suo mascheramento in forme giuridiche è funzionale al mantenimento dei rapporti di dominio. Se giustamente, ma con intento nemmeno tanto nascostamente denigratorio, il pensiero di Carl Schmitt è stato definito ‘decisionismo’, Walter Benjamin apre al pensiero politico la dimensione dell’iperdecisionismo. Questo iperdecisionismo  è un aspetto  del pensiero di Walter Benjamin che finora non ha ricevuto alcuna attenzione. Sì, è vero che molto è stato scritto sui rapporti fra Walter Benjamin e Carl Schmitt, molta acribia filologica è stata spesa sull’argomento ma quello che è totalmente mancato è un discorso sul significato in Benjamin di una visione iperdecisionista e sul significato per noi dell’iperdecisionismo benjaminiano. Quella che è mancata, insomma, è un’autentica visione filosofico-politica, un vuoto di pensiero che è segno, prima ancora di una incomprensione di Benjamin, della totale cecità dell’attuale pensiero politico, tutto, sui tempi che stiamo vivendo. “L’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi”, quello che per Benjamin era letteralmente spazzatura, una propaganda ancor peggio del fascismo, era il concetto che la storia fosse un processo immancabilmente tendente al progresso, un progresso che avrebbe immancabilmente sollevato l’uomo, in virtù di regole e leggi sempre più razionali, dalla fatica della decisione extra legem. Sconfitto il fascismo, le società del secondo dopoguerra, quelle capitalistiche e quelle socialiste indifferentemente, sono state  basate proprio su questo principio, il principio cioè che la norma ( che assumesse più o meno una forma giuridica, poco importa: le società socialiste avevano un rapporto più sciolto con la lettera della legge ma assolutamente ferreo sulla loro costituzione materiale, l’impossibilità cioè di mettere in discussione il ruolo del partito) non poteva essere messa in discussione se non soppiantandola con un’altra norma successiva generata secondo determinate regole elettorali del gioco democratico (o della democrazia socialista, nei paesi nella sfera d’influenza sovietica o politicamente organizzati sulla scia della tradizione politica della rivoluzione bolscevica). Su questo principio si sono edificate le liberaldemocrazie e i cosiddetti regimi del socialismo reale ma si tratta di un principio, come ben aveva visto Benjamin, che non sta letteralmente in piedi e svolge unicamente la funzione di mascheramento dei rapporti di dominio (rapporti di dominio che anche se disvelati si cerca di giustificare, da parte dell’intellighenzia e dai detentori del potere politico dediti alla riproduzione e mantenimento di questi rapporti, col dire che costituiscono un progresso rispetto al passato: un passo verso sempre maggiore democrazia o un passo verso il comunismo nei defunti paesi socialisti). Causa, principalmente, la loro inefficienza economica e rapporti di dominio all’interno di queste società non proprio così totalitari come la pubblicistica e la scienza politica democratiche hanno sempre voluto far credere, le società socialiste sono finite nel mitico bidone della storia e quindi oggigiorno, eredi della vittoria sul nazifascismo, rimangono su piazza le cosiddette società liberaldemocratiche. A chiunque sia onesto e non voglia ragliare le scemenze sulla libertà e la democrazia che queste società consentirebbero, risulta solarmente evidente che la democrazia in queste società è del tutto allucinatoria mentre la libertà è, per dirla brevemente e senza bisogno di far sfoggio di tanta dottrina, per molti strati della popolazione, la libertà di morire di fame e di essere emarginati da qualsiasi processo decisionale. (3) Se i ragli ideologici sono però utili per stabilizzare presso i ceti intellettuali, che è meglio definire per la loro intima somaraggine ceti semicolti, la teodicea della liberaldemocrazia, per gli strati con un livello di istruzione inferiore è necessario qualcosa di diverso e di un livello ancora più basso non tanto per celare la natura dei rapporti di dominio ma nel loro caso per celare la presenza stessa di questi rapporti. Tralasciando in questa sede i risaputi discorsi sul Panem et circenses (per la verità, man mano che le democrazie elettoralistiche tradiscono le loro promesse, sempre meno panem e sempre più circenses), è un su un particolare aspetto della società dello spettacolo che vogliamo focalizzare la nostra attenzione, un aspetto che come vedremo è intimamente legato, per quanto in maniera deviata e degradata, con la percezione benjaminiana che lo stato di eccezione in cui viviamo è la regola. In breve: riservata fino a non molto tempo fa ai racconti e ai film di fantascienza, è ora in corso attraverso documentari televisivi che trattano l’argomento con un taglio apparentemente scientifico, una imponente invasione di alieni. E se alcuni di questi prodotti televisivi riescono, nonostante tutto, a non sbragare completamente e a trattare la questione quasi unicamente dal punto di vista della esobiologia, la maggior parte di questi dà l’invasione come un fatto già avvenuto e ancora non universalmente riconosciuto come vero perché le autorità, quelle militari in primis, avrebbero compiuto una costante opera di insabbiamento della verità. E, in effetti, quello della manipolazione della verità da parte delle autorità è la pura e semplice verità, solo che, per somma ironia, in senso diametralmente opposto rispetto a quello che credono gli ingenui ufologi. In altre parole, oltre che dall’esame delle fonti in merito, è di tutta evidenza che le apparizioni ufologiche sono legate allo svolgimento di esperimenti nel campo delle nuove armi e che lo smentire, da parte delle autorità militari, l’esistenza degli UFO non è altro che una loro astuta mossa per far credere in un insabbiamento dell’esistenza dell’extraterrestre   mentre quello che in realtà si vuole celare è l’esperimento militare. E dal punto di vista dei detentori del potere (siano essi militari o civili) un altro non disprezzato frutto della credenza dell’invasione aliena è che, comunque, di un potere c’è un dannato bisogno per proteggere l’umanità da una tale terribile minaccia (quello che vogliono gli ufologi non è tanto mettere in discussione le autorità ma metterle di fronte alle loro responsabilità dichiarando che siamo in presenza di una minaccia aliena e chiedendo espressamente al popolo il suo aiuto per fronteggiarla). (4) Perché, al di là di questa funzione di soggiogamento delle masse indòtte, questi prodotti intratterrebbero allora un rapporto, per quanto malato, con lo stato di eccezione benjaminiano? Molto semplicemente perché se c’è una verità che essi ci consentono di cogliere, è che, a causa della invasione degli alieni,  noi viviamo in un stato di eccezione permanente. Ovviamente per gli ingenui tremebondi dell’omino verde che si diverte a compiere esperimenti su poveretti rapiti e portati allo scopo  sull’astronave aliena, lo stato di eccezione è scatenato da una forza esterna ma noi si sarebbe altrettanto ingenui se ci si limitasse a giudicare questa psicosi unicamente o come indotta da documentari spazzatura o, se si vuole andare più a fondo, come una sorta di despiritualizzazione delle forme della religione tradizionale dove il diavolo viene sostituito dall’omino verde. Al fondo c’è anche la percezione che i cosiddetti doni della liberaldemocrazia non sono per sempre e che il baratro è lì che ci aspetta ad un solo passo. Se almeno a livello di coscienza degli strati meno acculturati delle popolazioni appartenenti alle democrazie elettoralistiche occidentali esiste effettivamente la percezione di un disastro incombente ( i bassi livello di reddito se non generano una consapevolezza sui rapporti di forza che vigono nelle democrazie, sono comunque ben propedeutici a profondi stati d’ansia),  a livello di scienza e di filosofia politica questa percezione è stata definitivamente rimossa. Per farla breve. Il pensiero marxista, nonostante negli ultimi anni si dica che assistiamo ad una sua rinascita, non è riuscito nemmeno  a sviluppare una coerente analisi perché l’esperienza del socialismo realizzato sia miseramente franata. Alcune frange lunatiche che pretendono essere gli eredi del grande pensatore di Treviri continuano a farfugliare di imminenti e terrificanti crisi del sistema capitalistico, ignorando i poverini che, come insegna Schumpeter,  la crisi è il motore stesso del sistema capitalistico (distruzione creatrice et similia). Sul cosiddetto pensiero liberaldemocratico meglio stendere un velo pietoso, perché se storicamente dopo il secondo dopoguerra è servito nella sfera geopolitica di influenza statunitense a svolgere il ruolo di occultamento dei rapporti di dominio, oggi è totalmente incapace di svolgere addirittura questa funzione. È un fenomeno riservato al dibattito accademico, per promuovere più o meno qualche carrieruzza in quest’ambito o, tuttalpiù per essere preso di rimbalzo da qualche giornalista trombone che diffondendo questa menzogna si vuole cucire qualche spallina da intellettuale per vantarsi di fronte ai colleghi che trattano la cronaca nera, ma per tenere dominate le masse, molto meglio una informazione di livello cavernicolo e totalmente etero guidata , (5) qualche quiz, qualche film, pornografia internettiana a volontà e per i più ansiosi e percettivi dello stato di eccezione permanente con le sue potenzialità catastrofiche, molto meglio le invasioni aliene. Peccheremmo però di falso per omissione se considerassimo il pensiero politico di questo inizio di terzo millennio come un immenso campo di macerie. In primo luogo – primo solo perché la responsabilità di questo indirizzo è direttamente e unicamente a noi ascrivibile – il ‘repubblicanesimo geopolitico’ (6) pur riconoscendo al neorepubblicanesimo alla Philip Pettit o alla Quentin Skinner il merito storico di aver iniziato un’operazione di progressivo distacco dal mainstream liberaldemocratico, da questo si allontana nettamente per aver messo l’accento sul problema del potere, dei conseguenti rapporti di dominio e su come democrazia non significhi, come nel neorepubblicanesimo, una difesa dal potere ma la suddivisione molecolare – e felicemente conflittuale – del potere stesso. Nel campo del pensiero marxista, fondamentale, per mettere in evidenza lo stato di eccezione permanente che informa tutta la vita politica e sociale, è il lavoro teorico svolto da Gianfranco la Grassa e le sue illuminanti riflessioni sulla razionalità strategica versus razionalità strumentale, sugli agenti strategici e sugli strateghi del capitale . (7) Sia il repubblicanesimo geopolitico sia il lavoro teorico di La Grassa sono quindi basati sul tentativo di svolgere un’analisi puntuale del potere, sia che questo si manifesti nei rapporti sociali sia nelle sue espressioni istituzionali, e dalla consapevolezza che ogni pratica politica volta ad aumentare il tasso di libertà all’interno della società non sia un fatto di enunciazione di eterni principi (enunciazioni che invece sono dissimulazioni di pratiche di dominio) ma di continui e pratici tentativi per effettuare una effettiva diffusione e parcellizzazione di questo potere. Inoltre sia in  La Grassa che nel  ‘repubblicanesimo geopolitico’, è centrale la consapevolezza, tratta dall’evidenza storica, che il capitale è solo un strumento attraverso il quale si svolgono le lotte di potere (il ‘repubblicanesimo geopolitico’ sostiene che la libertà, sia individuale che dei gruppi sociali, per essere esercitata necessita di un suo spazio vitale di esercizio ed espansione conflittuale e quindi, il repubblicanesimo geopolitico, ispirandosi alla terminologia della geopolitica tedesca, può essere definito, ‘Lebensraum repubblicanesimo’; (8) mentre in La Grassa fondamentale è il ruolo svolto dagli agenti strategici che lottano continuamente per espandere la loro sfera di influenza servendosi anche, ma non solo, degli strumenti finanziari e della produzione capitalistica). Detto sinteticamente: se con La Grassa il marxismo esce definitivamente, per individuare gli strumenti di riproduzione del potere, dalla mitologia marxiana dei rapporti di produzione capitalistici, il ‘repubblicanesimo geopolitico’ fa piazza pulita della mitologia liberaldemocratica che la libertà sia una questione di norme e di regole del gioco. In entrambi centrale è la benjaminiana consapevolezza che la vera norma che regola il gioco sociale e politico è lo stato di eccezione. L’uomo che sognò le fate era stato condotto da uno svolazzare di fate davanti all’imperatore di giada  che gli aveva assicurato che dopo quindici anni di sacrifici sarebbe stato ammesso al regno degli immortali. Ma gli anni passarano e tutto quello che accadde fu che quest’uomo, come tutti, invecchiò e poi morì (non aveva capito, in altri termini, che ogni esistenza, sia sociale che individuale, è intessuta in uno stato di eccezione che non ammette utopiche attese). La poesia di Po-Chu-i si conclude con “Triste l’uomo che vide in sogno le fate!/Con un unico sogno sciupò l’intera sua vita.” Parafrasando possiamo concludere con “Triste l’uomo che vide in sogno la democrazia!/Con un unico sogno sciupò l’intera sua vita.” A meno che la consapevolezza dello stato di eccezione non sia lasciata solo agli agenti strategici continuamente lottanti per un loro lebensraum e la sua oscura percezione ai credenti della nuova demonologia aliena e/o terroristica, c’est tout.

 

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Note

 

1)  W. Benjamin, Angelus novus. Saggi e frammenti, introduzione a cura di Renato Solmi, con un saggio di Fabrizio Desideri, Torino, Einuadi, 1995, p. 79.

 

2) Nella precedente citazione dell’ottava tesi di Benjamin la locuzione impiegata è “stato di emergenza”. Tuttavia la traduzione più corretta è “stato di eccezione”, locuzione che da adesso in poi manterremo nel corso della presente comunicazione.

 

3) Su cosa sia realmente la democrazia nessuno meglio di Gianfranco La Grassa ha saputo cogliere nel segno: “In linea teorica, poiché la sedicente “democrazia” non è certo mai stata il “governo del popolo” (una bugia invereconda), si potrebbe sostenere che la tendenza migliore (o meno peggiore), riguardo alla (molto) futura evoluzione dei rapporti sociali, sarebbe quella  in cui apparisse infine alla luce del Sole – e senza condensazione e concentrazione di potere nei “macrocorpi” esistenti nelle sfere politica o economica o ideologico-culturale – la politica, quale rete di strategie conflittuali tra vari centri di elaborazione delle stesse, centri rappresentanti i diversi gruppi sociali. Non un “Repubblica dei Saggi” (ideologia in quanto “falsa coscienza”, che predica invano la possibilità di equilibrio sociale nel dialogo), ma una rete di scoperto, luminoso conflitto tra visibili strategie, apprestate da questi centri di elaborazione in difesa degli interessi di differenti gruppi sociali componenti una complessa formazione sociale.” (Gianfranco  La Grassa, Oltre l’orizzonte. Verso una nuova teoria dei capitalismi, Nardò, Besa Editrice, 2011, p.169).

 

4) Lo stile retorico e comunicativo  dei documentari televisivi sugli UFO segue, nella maggior parte dei casi, schemi pesantamente paratattici che più a trasmissioni vagamente informative li fa assomigliare a  comunicazioni di tipo religioso – preghiere e funzioni religiose –   con iterazioni ad nauseam degli stessi concetti, immagini e suggestioni senza che fra questi elementi vengano mai stabiliti legami logici significativi. Ma qui non ci vogliamo soffermare sul fenomeno UFO inteso come una sorta di religione sostitutiva (dove gli alieni, a seconda dei gusti, possono assumere il ruolo degli angeli o dei demoni) ma sul fatto che questo fenomeno è arrivato ad interessare, e fin qui nulla di strano, anche il massimo esponente vivente della teoria delle relazioni internazionali, il costruttivista  Alexander Wendt. In Sovereignty and the UFO,  agli URL http://ptx.sagepub.com/content/36/4/607.full.pdf (WebCite: http://www.webcitation.org/6dt6pJRsx e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fptx.sagepub.com%2Fcontent%2F36%2F4%2F607.full.pdf&date=2015-12-19), Alexander Wendt afferma che il fenomeno UFO, si creda o no nell’esistenza effettiva degli extraterrestri, ha l’effetto di provocare una diminutio di sovranità delle vecchie autorità terrestri a favore di quelle ipotetiche provenienti da altri mondi. In linea di principio potremmo anche concordare su questa fenomenologia dei rapporti di dominio di fronte al fenomeno UFO ma Wendt ignora completamente che, all’atto pratico, la gran massa degli ufologi e dei credenti negli omini verdi, sono dei patrioti fedeli alle autorità costituite che chiedono una sola cosa: che le autorità prendano il toro per le corna stabilendo un contatto con queste entità e all’occorrenza, dove queste dovessero risultare ostili, per combatterle più efficacemente denunciando pubblicamente il pericolo  e chiedendo l’aiuto e la collaborazione del popolo precedentemente tenuto avventatamente all’oscuro. In pratica, quindi, contrariamente a quanto sostiene Wendt, il fenomeno UFO consolida le autorità costituite e la translatio della sovranità verso gli extraterrestri rimane un fatto più virtuale che reale. Questo sul piano delle istituzioni diciamo secolari. Per non parlare poi del fenomeno UFO come una sorta di religione sostitutiva. In questo caso vale il caso di ripristinare la marxiana religione oppio dei popoli … e quando l’oppio viene percepito di scarsa qualità (crisi delle religioni tradizionali), ci si rivolge ad altri fornitori, con massima soddisfazione dei consumatori e degli agenti strategici che non chiedono nulla di meglio di dominati tranquilli (anche se un po’ troppo allucinati).

 

5) Vedi il caso di come viene trattato il fenomeno del cosiddetto terrorismo, prescindendo dal fondamentale aspetto geopolitico della questione. A questo proposito rimandiamo ai nostri interventi svolti sul blog “Il Corriere della Collera”, dove a titolo di esempio, trattando all’URL  http://corrieredellacollera.com/2015/01/19/antiterrorismo-e-nata-una-stella-di-sceriffo-oppure-e-la-solita-truffa-allitaliana-buona-la-seconda-di-antonio-de-martini/#comment-51015 (WebCite: http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com%2F2015%2F01%2F19%2Fantiterrorismo-e-nata-una-stella-di-sceriffo-oppure-e-la-solita-truffa-allitaliana-buona-la-seconda-di-antonio-de-martini%2F%23comment-51015&date=2015-04-19 e http://www.webcitation.org/6Xuok31dj) della recente isteria antiterroristica, il terrorista svolge il ruolo che in passato era affidato al diavolo (ed oggi, in gran parte, al suo valido compagno di merende, l’alieno: “Ad un livello immensamente più degradato di come l’intendeva Carl Schmitt, verrebbe voglia di citare, in relazione all’odierna isteria antiterroristica, la Politische Theologie, quando il giuspubblicista di Plettenberg affermava che “tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”: tradotto, per comprendere il ruolo dell’odierna disinformatia, quando il terrorista prende, nell’immaginario secolarizzato, il ruolo del diavolo. [Concludiamo] con un ulteriore rinvio a Carl Schmitt e al suo Theorie des Partisanen, dove il ‘partigiano’ è portatore di un’inimicizia assoluta ma un’inimicizia assoluta, di tipo veramente demoniaco, che ha la sua origine nella moderna guerra totale che ha distrutto la vecchia concezione di justus hostis. E così torniamo ai tagliagole mediorientali, figli non solo di una caotica strategia del caos statunitense che ha foraggiato per i suoi interessi geostrategici i demoni più distruttori presenti nell’area ma anche della nostra modernità politica che non può ammettere, pena la perdita totale della sua legittimità, l’esistenza di un justus hostis, ma solo l’esistenza, appunto, del nemico totale dell’umanità, il terrorista.”

 

6) Sul repubblicanesimo geopolitico, oltre a quanto apparso sul blog “Il Corriere della Collera”, vista la sua consolidata presenza nel Web, si rimanda  genericamente all’aiuto dei benemeriti ed efficienti browser – Google in primis, ça va sans dire, con un’unica ulteriore precisazione: consigliamo caldamente di visitare il sito di file sharing Internet Archive (all’URL https://archive.org/index.php).

 

 

 

7) Sugli strateghi del capitale si rimanda alla  esaustiva trattazione fattane in G. La Grassa, Gli strateghi del capitale. Una teoria del conflitto oltre Marx e Lenin, Roma, Manifestolibri, 2005. A dimostrazione di quanto, pur non nominandolo espressamente, il concetto di stato di eccezione svolga un ruolo fondamentale in La Grassa possiamo leggere: “Inoltre, la razionalità strumentale  del minimo mezzo è subordinata a quella strategica. La prima consente la generalizzazione di alcune “leggi” dell’efficienza e la minuta analisi delle condizioni che rendono possibile il conseguimento di quest’ultima. La seconda non ha leggi,  forse qualche principio, ma sempre da adattare poi alla situazione concreta, che è appunto quella che ho indicato quale singolarità. La ricchezza di mezzi è certo importante per l’attuazione delle categorie vincenti; e nel sistema capitalistico, in cui tutti i prodotti sono merci, i mezzi sono essenzialmente quelli monetari (nelle diverse forme). Tuttavia, la potenza non è solo questione di disponibilità  di mezzi, né bastano – per il loro impiego – le semplici regole dell’efficienza.” (G. La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, 2008,  p. 150).

 

8) Il concetto di Lebensraum fu coniato da  Friedrich Ratzel  e, soprattutto attraverso l’altro geopolitico tedesco Karl Haushofer entrò a far parte a pieno titolo dell’ideologia nazista (Karl Haushofer, tramite Rudolf Hess, si recò più volte nella prigione di Landsberg am Lech dove era detenuto Hitler in seguito al fallito putsch di Monaco per dare lezioni di geopolitica al futuro Führer). Quindi damnatio memoriae per tutta la geopolitica e per il termine Lebensraum centrale nella geopolitica stessa. È giunto il momento di rimuovere questa damnatio. Senza tanto dilungarci sull’ammissibilità di rispolverare concetti che il politically correct vorrebbe morti e sepolti, in queste sede diciamo una sola cosa. Al netto dell’uso scopertamente criminale ed ideologico che il nazismo ha fatto della geopolitica e dei suoi ammaestramenti, basti sapere che gli agenti strategici del capitale e i loro centri studi agiscono e programmano la loro azione alla luce del concetto di spazio vitale. E per essere fino in fondo politicamente scorretti, ricordiamo che l’economista austriaco Kurt W. Rothschild affermò che per capire  come funziona l’economia piuttosto che compulsare Adam Smith o i neoclassici, era meglio rivolgersi a Carl  von Clausewitz e studiare il suo Vom Kriege. Speriamo che per questo di non essere tacciati di guerrafondismo e/o criptico neonazismo.

 

L’ASCESA E LA CADUTA DI FLYNN, di Gianfranco Campa

Il pathos che traspare dal testo rivela non solo lo stato d’animo dell’autore, cittadino americano, ma la drammaticità stessa dello scontro politico, in atto negli Stati Uniti ma dalle profonde implicazioni nel resto del mondo (nota editoriale)


L’ASCESA E LA CADUTA DI FLYNN

In queste ore di profonda incertezza sul futuro dei rapporti Occidente-Russia, osserviamo i soliti media, ambasciatori asserviti ai poteri forti, che trasudano odio e rincorrono elaborati esercizi mentali nel tentativo di interpretare e far coniugare le dimissioni di Michael Flynn, il consigliere della sicurezza nazionale appena nominato dall’Amministrazione Trump, con la loro agenda ideologica, cercando nel contempo anche di screditare tutto l’apparato dello striminzito Governo Trump e infliggergli di conseguenza il colpo mortale. Queste gimcane servono in questo contesto solo al tavolo degli idioti di turno; non tutti però sono imbecilli da credere alla propaganda divulgata dai poteri anti-Trump.

Le “accuse” sono semplici: Flynn si è reso responsabile, secondo loro, di alto tradimento quando ha parlato al telefono più volte con l’Ambasciatore di Mosca a Washington; in particolare la telefonata più incriminata è quella del 29 Dicembre, giorno in cui l’amministrazione Obama prese la decisione di espellere i diplomatici russi dal suolo nazionale.

Procediamo con ordine. Da tempo Flynn era marcato stretto, bersaglio primario dei nemici mortali di Trump. Come avevo già scritto precedentemente, la situazione di Flynn era già apparsa, negli ultimi giorni, molto precaria. Flynn si è ritrovato strattonato da più parti sugli indirizzi di politica estera da perseguire. Flynn era dibattuto fra il suo desiderio, in linea con Trump, di attuare una nuova distensione con la Russia e la sua insofferenza verso l’Iran. Questa insofferenza insieme ai suoi rapporti più o meno amichevoli con i Russi sono stati usati come cuneo, prima per indebolire e poi per neutralizzare il Generale Flynn. Questi personaggi, come avvoltoi, hanno annusato la preda ferita e si sono avventati contro per straziarla. Il pretesto usato è stato una probabile serie di telefonate intercorse lo scorso dicembre fra Flynn e l’Ambascitore russo a Washington, Sergey Kislyak. Telefonate che secondo le accuse si incentravano sulle sanzioni imposte da Obama alla Russia e sulla possibilità di rimuoverle una volta Trump subentrato alla Casa Bianca. L’arma usata contro Flynn è stata la riesumazione  del cosiddetto  Logan Act del 1799 che recita: “Si impone una multa e/o l’imprigionamento di ogni cittadino il quale negozi, non autorizzato,  con governi stranieri con un contezioso in corso con il Governo attuale degli Stati Uniti.” Essendo le telefonate fra Flynn e Kislyak tenutesi a Dicembre, quando Obama era ancora alla Casa Bianca, allora queste telefonate possono considerarsi una violazione del Logan Act.

Questa è l’accusa, ma in sostanza non c’è niente di criminale nelle telefonate tra Flynn e Kislyak. Non c’è nessuna violazione del Logan Act per il semplice motivo che Flynn, letteralmente parlando, non era un privato cittadino nel momento in cui ha condotto la telefonata, bensì un funzionario di un governo, non ancora insediato, ma già eletto democraticamente dal popolo. L’unica accusa che gli si può imputare è il fatto che non abbia dichiarato integralmente tutta la natura delle conversazioni fra lui e Kislyak.  In aggiunta voglio fare presente che in tutta la storia Americana, mai nessuno era stato accusato di violare il Logan Act. Inoltre è provato che i Democratici come il compianto Ted Kennedy, John Kerry, Nancy Pelosi e altri hanno commesso atti di gran lunga peggiori di quello portato avanti da Flynn. In particolare mi viene in mente un episodio di qualche anno fa quando Michael McFaul, nel 2008,  prima  ancora che Obama fosse eletto, andò a incontrarsi direttamente con in funzionari Russi a Mosca per trattare linee diplomatiche da perseguire fra i due governi. McFaul dopo la vittoria di Obama divenne ambasciatore a Mosca. Se c’è stato uno che ha violato il Logan Act, questo è appunto McFaul il quale prese l’iniziativa di recarsi, da cittadino comune, in Russia (sicuramente con il beneplacito di Obama) per rappresentare un presidente non ancora ufficialmente eletto.  Andatelo a spiegare voi a questi quattro pagliacci di giornalisti che si stracciano pubblicamente le vesti, la differenza fra una accusa finta e una vera.

Un altro punto importante; queste telefonate erano già state trattate da Flynn con il vice presidente Mike Pence in dettaglio e già allora si era chiarita la situazione. Flynn aveva negato che la natura delle telefonate fosse stata esclusivamente incentrata sulle sanzioni. Ora si è trovata la scusa che Flynn non sia stato del tutto sincero e nasconda una sinistra attrazione verso la Russia. Non c’è nessuna prova che Flynn sia un personaggio compromesso. Le accuse che arrivano a Flynn provengono dalla stessa melma che da anni batte i tamburi di una guerra fredda con la Russia e usano i contatti con la Russia per screditare Trump.

La formula e già colludata; infiltrati, usualmente di estrazione del Dipartimento di Giustizia o del Dipartimento di Stato, rimanenze delle falangi Obamiane, rappresentanti di quel governo ombra, inquinato di neocons, i quali imperversano indisturbati nelle stanze del potere, fanno trapelare informazioni sull’ amministrazione Trump consegnando questi “sensazionali scoop” ai portavoce di regime come il Washington Post o il New York Times, giornali screditati, diventati ormai da spazzatura, neanche buoni da usare al bagno. Una volta che queste notizie vengono rese pubbliche, i soliti cecchini ormai ben noti, tipo l’ex direttore della National Intelligence James Clapper (uno che ha mentito sotto giuramento) e l’ex direttore della CIA John Brennan , alimentano questa caccia alle streghe. Una volta che uno come Clapper , Brennan, Sally, Yates o MacCain (tanto per fare dei nomi conosciuti), ufficializzano  le accuse, la melma raccoglie la palla al balzo giocandoci con impunità.

Flynn paga inoltre il dazio della sua dura critica ai servizi di Intelligence sui vari dossier anti Trump divulgati durante la campagna elettorale. L’assassinio politico di Flynn ci consegna più domande che risposte. Chi sono i traditori spia, inflitrati nei vari sistemi di governo che impunemente rilasciano ai media informazioni considerate riservate se non segrete? Chi ha dato l’ok a NSA, CIA e FBI di intercettare le telefonate di Flynn? Quanti altri tabulati di intercettazioni  sono in mano a questi terroristi domestici? Chi sarà il prossimo bersaglio?

Trump deve stare molto attento; già i collaboratori fidati sono pochi, ma con la perdita di Flynn si assottigliano ancora di più. La tattica è chiara; prendere uno alla volta i colaboratori più fedeli e demolire la Casa Trump un pezzo alla volta. Flynn è solo l’inizio. Sono in serio pericolo anche i vari Bannon, Conway, Spicer, Miller e via dicendo. Il guru Roger Stone ha oggi dichiarato, in una intervista a Newsmax TV, che la decisione di Trump di non erigere un muro di sbarramento in difesa di Flynn, costi quel che costi, equivale a una “Pearl Harbor” di chi ha sostenuto il Presidente fino a questo momento. Secondo Stone, Trump sente la pressione e avendo incaricato Flynn di tessere relazioni con i Russi prima ancora della sua entrata alla Casa Bianca, ha deciso di spingerlo alle dimissioni per coprire quella tessitura di rapporti che era stata pianificata da tempo, mirante ad una relazione più amichevole con la Russia. Venuto meno il supporto a tale rapporto e sentendo il montare della pressione, Trump si è tirato indietro e ha lasciato Flynn in pasto ai lupi. Così si spiega, secondo Stone, la dichiarazione fatta oggi dalla Casa Bianca di ritenere la Crimea un territorio Ucraino.

Tornando a Flynn, ci sono uomini che nonostante tutto, anche sbagliando, non perdono la loro integrità. Sono fedeli alle loro convinzioni e valori, qualunque essi siano e promuovono queste convinzioni e questi valori al di là di ogni calcolo di interesse personale. Vengono descritti in gergo comune come uomini tutti di un pezzo. Il generale Michael Flynn appartiene a questa categoria di uomini che, nella melma del mondo occidentale, si rarefanno. Uomini in via di estinzione, spianati dal rullo compressore di interessi e poteri avversi a chi, come Flynn, non si ribassano a compromessi per questione di calcoli politici miserabili o economici.

Flynn apparteneva al gruppo più vicino a Trump, quello storico, quello che ha creato il fenomeno Trump. Senza Flynn e pochi altri non ci sarebbe stato un Trump. Flynn e il suo amico Sebastian Gorka, sono stati i primi veri personaggi di estrazione militare ad appoggiare la candidatura di Trump, apertamente, senza se e senza ma, mettendosi in prima fila, senza vergogna, al servizio stesso dell’attuale Presidente. Per questo supporto, Flynn si sottometteva con stoicità alle critiche che gli piovevano da tutte le parti. Venendo anche attaccato sulla sua stessa integrità morale, una cosa che sicuramente non gli è mai mancata. Le sue dimissioni da consigliere sulla sicurezza dell’amministrazione Trump ne sono la prova; piuttosto che continuare a sottoporsi alle vessazioni di una stampa meschina e di nemici potenti, Flynn ha preferito ritirarsi dalla scena, scegliendo la via più a lui consona, quella dell’orgoglio e della dignità personale.

Questa marmaglia può solo pulire le scarpe a Flynn, un uomo che ha pagato con la sua onorata carriera l’opposizione prima allo stesso Clapper e poi a Obama definendolo un “ presidente bugiardo” e denunciando il sistema corrotto non solo dei servizi di intelligence ma anche della giustizia della vecchia amministrazione. Un’altra dura critica di Flynn era rivolta contro quella che riteneva una posizione troppo debole nei confronti del Terrorismo Islamico, e aveva più volte fatto sottintendere che il connubio fra l’amministrazione Obama e i terroristi usati come strumento di destabilizzazione e caos nel Medio Oriente era inaccettabile e distruttivo.

Dopo la chiara presa di posizione contro Obama e James Clapper, Flynn fu spinto a dimettersi dal suo incarico di direttore della Defense Intelligence Agency. In trentatre anni di carriera militare Flynn non è mai stato accusato di nessun reato. Un patriota di vecchia generazione che non si è mai ribassato a giochi politici di convenienza.

Michael Flynn si ritira nell’oblio, la sua partenza rappresenta un colpo durissimo a chi cercava una nuova distensione con la Russia. L’ultima speranza rimane Rex Tillerson; ma è come scalare l’Everest senza ossigeno.

 

Sotto trovate la lettera di dimissioni di Flynn:

 

February 13, 2017

In the course of my duties as the incoming National Security Advisor, I held numerous phone calls with foreign counterparts, ministers, and ambassadors. These calls were to facilitate a smooth transition and begin to build the necessary relationships between the President, his advisors and foreign leaders. Such calls are standard practice in any transition of this magnitude.

Unfortunately, because of the fast pace of events, I inadvertently briefed the Vice President Elect and others with incomplete information regarding my phone calls with the Russian Ambassador. I have sincerely apologized to the President and the Vice President, and they have accepted my apology.

Throughout my over thirty three years of honorable military service, and my tenure as the National Security Advisor, I have always performed my duties with the utmost of integrity and honesty to those I have served, to include the President of the United States.

I am tendering my resignation, honored to have served our nation and the American people in such a distinguished way.

I am also extremely honored to have served President Trump, who in just three weeks, has reoriented American foreign policy in fundamental ways to restore America’s leadership position in the world.

As I step away once again from serving my nation in this current capacity, I wish to thank President Trump for his personal loyalty, the friendship of those who I worked with throughout the hard fought campaign, the challenging period of transition, and during the early days of his presidency.

I know with the strong leadership of President Donald J. Trump and Vice President Mike Pence and the superb team they are assembling, this team will go down in history as one of the greatest presidencies in U.S. history, and I firmly believe the American people will be well served as they all work together to help Make America Great Again.

 

Michael T. Flynn, LTG (Ret)

 

TEORIA DELLA DISTRUZIONE DEL VALORE (TEORIA FONDATIVA DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO E PER IL SUPERAMENTO/CONSERVAZIONE DEL MARXISMO), di Massimo Morigi

TEORIA DELLA DISTRUZIONE DEL VALORE (TEORIA FONDATIVA DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO E PER IL SUPERAMENTO/CONSERVAZIONE DEL MARXISMO)

Polemos è di tutte le cose padre, di tutte re, e gli uni rivela dei e gli altri uomini, gli uni fa schiavi e gli altri liberi. Eraclito, Frammento 53

La ‘Teoria della Distruzione del Valore’, pur inserendosi direttamente e a pieno titolo nella tradizione della critica marxiana e marxista all’economia politica classica e neoclassica e all’individualismo metodologico a queste inerente, intende rovesciare la teoria marxiana del plusvalore – viziata alla radice dall’economicismo dell’economia classica di Adam Smith e David Ricardo, economicismo che pur Marx intendeva respingere –, sostenendo, contrariamente alla teoria del plusvalore, che il modo di produzione capitalistico non si caratterizza per una sottrazione del plusvalore generato dal pluslavoro erogato dal lavoratore e di cui si appropria il capitale ma che, bensì, attraverso il nuovo rapporto sociale materializzatosi con l’avvento del capitalismo (“Al possessore di denaro, che trova il mercato del lavoro come particolare reparto del mercato delle merci, non interessa affatto il problema del perché quel libero lavoratore gli compaia dinanzi nella sfera della circolazione. E a questo punto non interessa neanche a noi. Noi, dal punto di vista teorico, ci atteniamo al dato di fatto, come fa il possessore di denaro dal punto di vista pratico. Però una cosa è evidente. La natura non produce da un lato possessori di denaro o di merci e dall’altro semplici possessori della propria forza lavorativa. Tale rapporto non risulta dalla storia naturale né da quella sociale ed esso non è comune a tutti i periodi della storia. È evidente come esso sia il risultato d’uno svolgimento storico precedente, il prodotto di molte rivoluzioni economiche, della caduta di una intera serie di più vecchie formazioni della produzione sociale.”: Karl Marx, Il Capitale, trad. it., Roma, Newton Compton, 1970, I, pp. 199-200; “Ma il capitale non è una cosa, bensì un certo rapporto di produzione sociale che rientra in una determinata formazione storica della società. Questo rapporto si presenta in un oggetto e conferisce ad esso uno specifico carattere sociale. Il capitale non è la somma dei mezzi di produzione materiali e prodotti. Esso è formato dai mezzi di produzione che sono divenuti capitale, che in se stessi non sono capitale, come oro e argento non sono in se stessi denaro. Il capitale è formato dai mezzi di produzione monopolizzati da una certa porzione della società, dai prodotti e dalle condizioni in cui agisce la forza lavorativa, resisi indipendenti nei confronti della viva forza lavorativa che tramite questa contrapposizione si incorporano nel capitale.”: Idem, III, pp.1086-1087), si opera una distruzione reale e concreta del valore del lavoro richiesto al dipendente operaio dell’impresa capitalista. La ‘Teoria della Distruzione del Valore’ si colloca nell’ambito della dottrina filosofico-politica denominata ‘Repubblicanesimo Geopolitico’ (o ‘Lebensraum Repubblicanesimo’) ed è complementare, specialmente per le epoche storiche ed i rapporti sociali precedenti o non riconducibili al primo capitalismo industriale e successive sue evoluzioni, ad una più generale ‘Teoria della Predazione/Distruzione/Equilibrio/Incremento del Valore’, a sua volta afferente alla ‘Teoria Polemodinamica Evolutiva dei Cicli di Creazione/Conservazione/Trasformazione del Conflitto’, teorie anche quest’ultime due costitutive del ‘Repubblicanesimo Geopolitico’. Fondamentale corollario. Alla luce della decisiva categoria di Gianfranco La Grassa degli ‘agenti strategici’, la distruzione del valore del lavoro – distruzione consustanziale alla nascita dell’impresa capitalista che dà forma al nuovo rapporto sociale che vede l’incontro sul mercato, su un piano di formale libertà per entrambi, del lavoratore salariato e dell’agente capitalista, in realtà in un rapporto totalmente Massimo Morigi, Teoria della Distruzione del Valore, p.2 di 3 20 marzo 2015 squilibrato a favore del secondo, il quale proprio per la disparità di forze a suo vantaggio acquista un lavoro ‘svalorizzato’ – deve anche intendersi parallela, concomitante e complementare alla distruzione agente in quell’altro versante del potere, distruzione, cioè, della capacità di agire – seppur in senso lato – politicamente dei ‘non agenti strategicioperai/lavoratori di bassa fascia/non capitalisti’ (da adesso in poi definiti ‘decisori omegastrategici’ o ‘omega-strategic decisors’). In questo modo, la ‘Teoria della Distruzione del Valore’, affine per molti versi al concetto di Joseph Schumpeter di ‘distruzione creatrice’, è lo strumento fondamentale per completare la messa a fuoco e l’inquadramento teorico dell’operato degli ‘agenti strategici’ lagrassiani (da adesso in poi definiti ‘decisori alfastrategici’ o ‘alpha-strategic decisors’), che agiscono (o, meglio, decidono) costantemente per accrescere il loro potere attraverso mosse strategiche indirizzate sia sul versante – apparentemente solo – economico e mosse – apparentemente solo – politiche, entrambi ambiti che però, se guardati attraverso l’univoca ed unica finalità di conquista della supremazia tipica dei ‘decisori alfa-strategici’, rivelano il loro consustanziale legame, cementato dalla loro comune politicità. Nella presente situazione postdemocratica che accomuna tutte le democrazie occidentali elettoralistico-rappresentative, siamo in presenza di una reale estensione formale dei diritti politici e civili a fronte di una reale distruzione sostanziale della loro efficacia e vigenza politica (l’Italia – more solito – è un caso a parte: in questo paese, l’arretratezza politica è di un tale livello che anche dal punto di vista formale assistiamo ad una contrazione/distruzione non dissimulata, esplicita e smaccata, dello spazio politico di azione dei ‘decisori omega-strategici-lavoratori di bassa fascia/non capitalisti’). Per tornare alle maggiori “democrazie” occidentali, questo significa, per i ‘decisori omega-strategicilavoratori di bassa fascia/non capitalisti’, un’estensione formale dei diritti politici e, soprattutto, dei diritti civili (esemplare, a tal proposito, l’ideologia del “politicamente corretto” e dei “diritti alla diversità” – di genere o culturali che siano – , che trovano la loro massima realizzazione – e simbolo – nel diritto al matrimonio fra omosessuali), una estensione formale del loro ambito di decisione/azione a fronte, però, di una sostanziale distruzione del valore dei loro diritti e tutele lavorativi per opera dei ‘decisori alfa-strategici’, distruzione del valore il cui unico effetto è un’ulteriore contrazione/distruzione dei già miseri ambiti di azione politica reale dei ‘decisori omega-strategici’, fatti salvi, ovviamente, gli “importantissimi” diritti afferenti al “politicamente corretto”, al “diritto alla diversità” – comunque lo si voglia declinare – e alla sfera dell’orientamento sessuale. La ‘Teoria della Distruzione del Valore’ consente così di ripercorrere un filo rosso continuo fra la nascita in Occidente delle prime società industriali/capitaliste (con il contemporaneo affermarsi del summenzionato rapporto sociale, plasmato dal capitalismo, di formale libertà sul mercato e conseguente ingannevole vicendevole autonomia fra capitalisti e ‘decisori omega-strategicilavoratori di bassa fascia/non capitalisti’ afferenti all’ impresa capitalista, formalmente liberi nello scambiare con i ‘decisori alfa strategici-imprenditori capitalisti’ la loro forza lavoro ma con un’incommensurabile disparità di forza contrattuale in questo mercato a causa della distruzione del valore operata dal nuovo rapporto sociale ingenerato dal capitalismo, una distruzione del valore del tutto simile a quella che avviene fra i combattenti nelle guerre armate, dove, per giungere al risultato strategico voluto, la vittoria o la non sconfitta, si distrugge non solo la vita del nemico ma anche di quella carne da cannone che per convenzione si suole chiamare amico: non a caso l’economista austriaco Kurt. W. Rotschild ha affermato che se si vuole comprendere l’economia, piuttosto che studiare Adam Smith e tutti gli altri allegri studiosi della triste scienza, meglio è concentrarsi nella lettura del Vom Kriege di Carl von Clausewitz… e viene facile notare la profonda analogia e legame fra la prima fase del capitalismo e la nascita della guerra assoluta analizzata da Clausewitz, dove in entrambe la distruttività veniva portata a livelli mai prima conosciuti dall’umanità, fino a giungere ai giorni nostri, nei quali le possibilità di annientamento manu militari e manu scientifica, con la nuova generazione di armi sempre più basate sulla cibernetica – fino ad Massimo Morigi, Teoria della Distruzione del Valore, p.3 di 3 20 marzo 2015 arrivare al computer quantistico e alle sue potenzialmente numinose capacità computazionali e di conseguente produzione/riproduzione/creazione di un potere un tempo solo riservato agli dei olimpici, e alle forme sempre più evolute di intelligenza artificiale e alla possibilità di manipolazioni della pubblica opinione e della natura fisica e biologica, “un lavoro che, lungi dallo sfruttare la natura, è in grado di sgravarla dalle creature che dormono latenti nel suo grembo”–, rendono persino la guerra totale di settanta anni fa, compresa la stessa arma atomica, un gioco da ragazzi e dove il capitalismo del XXI secolo non solo ha eliminato, almeno in tempi commensurabili con l’umana esistenza, ogni realistica possibilità di poter costruire un diverso rapporto sociale ma ha ormai addirittura annientato la stessa memoria storica dei tentativi portati avanti dai ‘decisori omega-strategici’ – o, meglio, dalle burocrazie socialistiche che sostenevano, in parte in buona e in parte in cattiva fede, di agire in nome e per conto del proletariato e per instaurarne l’ossimorica dittatura ma che, a tutti gli effetti, altro non erano che una diversa forma di ‘decisori alfa-strategici’ – per costruire un’alternativa al capitalismo) e le odierne società industriali/capitaliste, caratterizzate quest’ultime – come le prime società industriali/capitaliste – da ‘decisori alfa-strategici’ che costantemente agiscono – e per ora, nonostante tutta la dissimulativa retorica democratica, con grande ed inarrestabile successo e senza alcun reale avversario – per una distruzione del valore del lavoro sull’apparentemente libero mercato e dei diritti dello stesso a livello giuridico dei ‘decisori omega-strategici’. ‘Decisori alfa-strategici’ che – oggi come sempre ed in particolare, per quanto riguarda l’epoca moderna, dall’inizio della rivoluzione industriale, in altre epoche storiche possono essere state prevalenti modalità predatorie, e.g. la schiavitù antica e la servitù della gleba – operano, in definitiva, per annichilire – sfrontatamente o più o meno nascostamente ma sempre con modalità distruttivamente del tutto analoghe a quella dei summenzionati conflitti armati, per una critica dei quali è quindi fondamentale, oltre che per l’economia, la politica e la cultura, la ‘Teoria della Distruzione del Valore’ – i già infimi ed unicamente consolatori spazi di decisione/azione dei ‘decisori omega-strategici’. ‘Decisori omega-strategici’ per i quali, ne siano consapevoli o meno, vale sempre, indipendentemente dall’epoca storica e predazione o distruzione del valore che sia, la condizione vitale ed esistenziale – “dove anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.”– descritta dall’iperdecisionista Walter Benjamin – l’Angelus Novus per un rinnovamento ab imis della geopolitica e del repubblicanesimo, soteriologicamente ben più radicale e realista del “timido” e katechontico decisionista giuspubblicista nazifascista Carl Schmitt – alla ottava tesi di Tesi di filosofia della storia: la terribile e mortale condizione di ‘stato di eccezione permanente’. Massimo Morigi – Ravenna, 20 marzo 2015 “Massimo Morigi”; “Karl Marx”; “Marx”; “Ant ropos St rategikon”; “Hom o St rategicus”; “Homo S trategicvs”; “Gianf ranco La Grassa”; “Gianfranco la G rassa”; “La Grassa”; “Joseph Alois Schumpeter”; “distruzio ne creatrice”; “ Teoria del plus valore”; “ Teoria del plusvalore”; Teoria del plus-valo re”; “Teo ria del valo re”; “Teo ria marx iana del valo re”; “Theor y of plus value”; Theory o f plus-val ue”; “théorie de plus-value”; “ Theorie des Mehrwerts”; “teor ia do mais- valor”; “teo ria do mais valor”; “théo rie de plus value”; “teoria de p lusvalor”; “plusvalore”; “Theor ien über den Mehrwert”; “ Teorie su l plusvalore”

IL TEATRO DELL’OLOCAUSTO, di Max Bonelli

Cronaca di una serata culturale, dove il genocidio degli ebrei viene usato come strumento per produrre consenso per una pseudo sinistra liberista e mondialista.

 

Mi trovavo a trascorrere un paio di giorni presso il luogo di origine della mia famiglia. Un tipico paese dell’appennino laziale, per sua fortuna non toccato dalle tristi vicende dei continui terremoti. Una parente, dopo una piacevole chiacchierata, m’invita a seguirla ad un evento culturale locale tenuto da un politico del luogo esponente della sinistra mondialista  e docente in un  liceo, conosciuto per ricorrenti iniziative culturali su temi di attualità. Il tutto sponsorizzato dalla municipalità  che pur avendo un colore politico teoricamente opposto acconsente alla sponsorizzazione di questi eventi in nome di una apartiticità della cultura.

La serata è la seconda di un ciclo di due che ha per tema l’Olocausto, con relatore un giovane professore universitario di filosofia che solo casualmente ha il cognome coincidente con quello di un ministro della repubblica di uno dei primi governi Berlusconi.

Il giovane intellettuale presenta il suo libro sul genocidio ebraico e ne illustra i suoi punti salienti, partendo dall’assioma  che il genocidio degli ebrei perpetrato dal nazismo sia fenomeno unico nel corso della storia per dei motivi che il bravo professore partenopeo si dimentica simpaticamente di dimostrare.

Gli spettatori della riunione pur essendo in media di cultura superiore non riescono onestamente ad afferrare perché il 27 gennaio, in tutto il mondo dobbiamo ricordare il genocidio degli ebrei e non quello degli zingari che morirono nello stesso modo e negli stessi luoghi. In silenzio non assertivo afferrano il concetto che questa ricorrenza è unica per la coniugazione di un movimento politico che dopo la presa al potere di Hitler nel 1933 pianifica a tavolino la pulizia etnica dell’area geografica a predominanza culturale tedesca. Dopo di che è un continuo di immagini verbali e mediatiche di atti di violenza bestiale e testimonianze toccanti che non possono che scuotere la coscienza umana dell’ascoltatore.

Ma la mia coscienza critica è in rivolta. Come si può affermare impunemente l’unicità di questo genocidio rispetto agli altri genocidi che la storia con ricorrenza cadenzata ci vomita addosso?

Cosa differenzia sul piano della componente razziale, l’olocausto ebraico rispetto al genocidio degli indiani di America perpetrato dai coloni americani i quali affermavano con franchezza tutta anglosassone che: “l’unico indiano buono era quello morto”? Cosa differenzia in metodicità la distribuzione delle coperte infettate di vaiolo, rispetto ai tentativi sperimentali teutonici di genocidio tramite le camere a gas?

Dove si distingue l’efferatezza del genocidio degli ebrei polacchi e russi da quello messo in pratica dalle milizie turche e curde nei confronti degli armeni?

Pecca di capacità tecnologica il monito di genocidio dato al Giappone ormai inerme con le due bombe di Hiroshima e Nagasaki rispetto ai forni crematori dei campi di concentramento?

Mi sovviene il sospetto che l’unicità dell’olocausto è che per un caso raro nella storia dei genocidi, il colpevole ha perso la guerra e viene processato dal vincitore.

 

Sono certo che il giovane professore il quale per sicuro merito ha occupato una prestigiosa cattedra con il corrispondente buon stipendio saprà illuminare il mio innato spirito critico. D’altronde come potrà mancare una sessione interattiva di domande e robuste risposte in una serata culturale patrocinata da locali esponenti di partiti con salde tradizioni democratiche?

Ma i miei interrogativi rimarranno tali e irrisolti da un frettoloso “Tutti a casa” prontamente lanciato dal rampante esponente politico globalista dal look da moderno sessantottino. La perplessità nella platea è visibile negli occhi delle persone e questa può generare inopportune domande; d’altronde lo scopo d’informazione è raggiunto, l’impegno culturale è compiuto, la ricaduta politica per futuri impegni elettorali conseguita, l’amicizia con il giovane professore universitario consolidata e con essa la rete di sue conoscenze ed influenze.

La mia rabbia cresce per questo teatrino umano che uccide per la seconda volta quegli uomini, donne, bambini vittime di una pazzia razziale collettiva che ebbe luogo nei campi di concentramento. Il loro sacrificio viene usato per il fine di una grande lobby finanziaria che deve nascondere un altro genocidio che si potrebbe fermare oggi, quello dei palestinesi rinchiusi nella striscia di Gaza. Il grande ghetto palestinese con i bambini denutriti che crescono in un esasperante vita se non quando deturpati ed uccisi dalle pallottole israeliane. La memoria degli ebrei di Treblinka, Auschwitz usata come velo per oscurare gli odierni genocidi, dimostrazione giornaliera che non esistono popoli eletti e razze superiori, bensì un animale a due gambe capace di qualsiasi ferocia chiamato uomo.

Ma i peggiori sono loro; quelli che si pensano giusti, portatori di verità che in realtà usano per i loro fini, piccoli uomini senza etica.

L’etica suggerirebbe: stabiliamo il giorno della memoria per tutti i genocidi, grandi e piccoli che sono avvenuti, tutti paritetici nella dimostrazione della pazzia umana.

 

 

Max Bonelli

 

Autore del libro

Antimaidan

(le ragioni del genocidio del popolo dell’Est Ucraina)

Esperto di Scandinavia ed Ucraina

GEOPOLITICA-SPIETATA ( LUCIDA), ANALISI DI MARCO BERTOLINI

tratto dal sito http://www.congedatifolgore.com/it/geopolitica-spietata-lucida-analisi-di-marco-bertolini/#.WGazcU58Hep.facebook
Mi pare l’ulteriore conferma che nei centri vitali dell’amministazione del paese ci siano personaggi e forze sensibili a un recupero delle prerogative nazionali. Manca una espressione politica che possa dare loro espressione e forza

Pubblicato il 30/12/2016
GEOPOLITICA-SPIETATA ( LUCIDA) ANALISI DI MARCO BERTOLINI
Sicurezza Internazionale:
Intervento del Generale Marco Bertolini

edito da http://www.atlantismagazine.it/

Sicurezza Internazionale: Intervento del Generale Marco Bertolini – ATLANTIS

Italia e “Comunità Internazionale”

analisi di una crisi

Attorno a noi, nell’area euromediterranea della quale rappresentiamo il centro, il punto nel quale dalla società romana prima e cristiana poi è nata l’idea stessa di occidente, si stanno verificando crisi di portata epocale che consegneranno ai nostri figli un mondo diverso e molto più difficile e pericoloso di quello nel quale abbiamo vissuto noi, figli della guerra e spettatori della guerra fredda.

E’ una realtà che ormai si sta imponendo alla consapevolezza generale, anche se spesso prevale la tentazione di limitarsi a una microanalisi delle singole situazioni di crisi, nell’illusione di venirne a capo. Così facendo, però, si perde la visione d’insieme di quello che continua a riproporsi come il solito scontro tra gli interessi statunitensi e russi, di antica memoria, che non ci lascia che il ruolo rassegnato delle comparse, e spesso delle vittime, delle frizioni tra i due giganti.

Questa situazione è particolarmente pericolosa per un paese come l’Italia, esposto geograficamente come nessun altro e che nonostante questo pare avere optato entusiasticamente per il rifiuto di individuare “originali” interessi nazionali da difendere. Al contrario, preferisce di norma appiattirsi su quelli di una Comunità Internazionale (CI) volubile, volatile e difficilissima da definire.

Gioca un ruolo chiave in questo approccio passivo una impostazione costituzionale che sembra fatta apposta per tagliarci fuori dalla realtà.

L’esempio dell’inutile articolo 11 della Costituzione è emblematico: al di là dell’inconsistenza di un “ripudio” (della guerra) che non può che essere solo retorico, tale presa di posizione impedisce all’Italia di fare i conti (almeno a parole) con una costante della storia e toglie dignità agli strumenti militari dei quali continua comunque ad essere dotata (le Forze Armate). Conseguentemente, al nostro paese non resta che mettersi disciplinatamente al seguito di coloro che tali remore non nutrono e che continuano ad essere ben determinati a perseguire i propri interessi – ovviamente travestiti da interessi “comuni” – con tutti i mezzi, inclusi quelli bellici. E non parlo di qualche dispotico regime africano o centro asiatico, ma di paesi come la superpotenza statunitense, nonché di Russia, Gran Bretagna e Francia, per rimanere all’ambito europeo. Quanto alla Germania, non si pronuncia in merito per ovvie ragioni, ma continua da tempo a mantenere in salute e in esercizio uno strumento militare decisamente importante che sta ulteriormente potenziando.

Comunità Internazionale sopra tutti e prima di tutto, quindi. Ma di cosa stiamo parlando? L’idea di Comunità che nei desideri di molti illusi dovrebbe assicurare dignità a una nostra supposta vocazione alla passività in campo internazionale è quella che si dovrebbe concretare in una profonda comunanza di valori e di interessi, primo fra tutti quello della pace. Pace innanzitutto, anzi. Ma è effettivamente così? No, e lo confermano proprio le crisi che ci circondano.

Iniziamo da quella più vicina a noi e per la quale stiamo pagando un prezzo notevolissimo, la Libia. La CI fu quella che, smentendo platealmente tutte le precedenti iniziative italiane in quel paese, nella sua connotazione anglo-francese, pseudo-NATO e para-EU, nel 2011 decise unilateralmente di intervenire, prescindendo assolutamente dai nostri interessi e addirittura dal nostro parere di principale vicino a quell’area. C’è da chiedersi se si sarebbe comportata nella stessa maniera, vale a dire mettendoci di fronte al fatto compiuto, se nello Stivale ci fosse stato un altro Stato, non necessariamente uno di quelli rammentati in precedenza. Ma tant’è: in ogni caso, ci ha poi concesso la grazia di saltare sul suo carro di esportatori di democrazia e progresso fino a renderci compartecipi o complici della creazione della situazione che ci sta deliziando da oltre un lustro. In sostanza, la CI ci ha scalzato da una posizione molto favorevole nel mercato degli idrocarburi libici, ha messo a rischio molte nostre imprese che dopo decenni di buio erano riuscite a reimpiantarsi in Libia e ci espone ora ad un flusso migratorio epocale, dal quale gli ottimi rapporti con Gheddafi ci ponevano al riparo.

Oggi, nella sua rappresentazione europea (EU) ci sta supportando nella ciclopica opera di salvamento delle centinaia di migliaia di migranti economici che prendono mare clandestinamente dalla costa della Tripolitania verso le nostre coste, facendo comunque molta attenzione a farli sbarcare solo da noi e a mantenerli confinati al sud delle Alpi. Gran bella prova di solidarietà!

Quanto alla situazione politica in Libia, nella sua rappresentazione ONUsiana la CI, dopo aver supportato a lungo il parlamento di Tobruk e il suo Generale Haftar (uomo degli USA, si diceva), si è esibita nel classico salto della quaglia, passando all’appoggio di Serraj, neo Primo Ministro a Tripoli, a sua volta supportato dalle milizie simil-islamiste di Misurata. Ed è soprattutto a questo punto che la Comunità ha smesso di essere tale: si è divisa infatti in due, con una parte capeggiata da ONU e USA al fianco di Serraj puntando ad una Libia unita e presumibilmente sotto tutela ONU/USA/NATO (la EU si adeguerà), mentre un’altra parte continua ad appoggiare Tobruk. Quest’ultima non nasconde l’aspettativa di una divisione del paese che apra alla Francia la possibilità di sfruttare i giacimenti della mezzaluna petrolifera, consenta alla Russia di evitare un altro paese sotto tutela americana, magari riservandole un ulteriore sbocco mediterraneo alternativo o complementare a Tartus, e non faccia tramontare le mire territoriali egiziane nell’est del paese, almeno a livello di ingerenza. L’Italia, ovviamente e giustamente, si inquadra nel primo gruppo e c’è da chiedersi quanto questa sua collocazione strategica sia collegata alla strana ostinazione con la quale ha iniziato a cavalcare il caso Regeni dopo un lungo periodo di corte spietata all’Egitto, negandogli ora ogni possibilità di scampo onorevole, stretto come l’ha in un angolo fatto di accuse che se sono difficili da provare lo sono altrettanto da confutare.

Sul fronte europeo, la CI subisce fortemente il peso degli interessi globali degli USA che spingono NATO e conseguentemente la sua rappresentazione virtuale locale, l’EU, a una forte contrapposizione con il loro competitor russo. Da qui, il rafforzamento del fianco nord, con la scusa di tacitare le preoccupazioni delle Repubbliche baltiche e della Polonia ma soprattutto per consentire agli US di spostare molto più a destra la propria presenza in quello che vent’anni fa era il territorio del Patto di Varsavia. Poco più a sud, invece, incombe la spaventosa crisi ucraina, per la quale non si vedono ancora vie d’uscita. In questo paese, infatti, balena da un lato una ghiotta opportunità per gli statunitensi di escludere per sempre la Russia dal Mar Nero, privandola delle basi in Crimea, mentre da parte Russa al contrario continua a materializzarsi il rischio di essere tagliata fuori definitivamente dall’Europa e da ogni forma di presenza nel Mediterraneo. Quindi, uno sviluppo da non farsi sfuggire da parte americana e una opposta minaccia da evitare in campo russo che ha portato alla situazione di stallo armato attuale.

Ed ecco, a questo punto, ricomparire la stessa CI, nelle sue manifestazioni NATO ed EU, più che mai determinata a tagliare le unghie all’orso russo utilizzando uno dei più classici strumenti di pressione di sempre, le sanzioni. Peccato che con esse, che non intaccano assolutamente l’economia degli USA che le hanno fortissimamente volute, oltre alle unghie dell’orso cadano pure i denti del resto dell’Europa – e soprattutto dell’Italia – legate alla Russia da stretti vincoli economici e commerciali ora messi a rischio, nonché da una continuità territoriale che al contrario non c’è con “l’isola americana” (un oceano a ovest, uno a est e una munitissima recinzione a sud).

A ben vedere, tale situazione è strettamente collegata a quanto accade anche nel Medio Oriente, con particolare riferimento alla Siria, dove la Russia è intervenuta per mettere una pezza ai guai fatti da un’ipocrita idiosincrasia occidentale per le “dittature”, ma soprattutto per mettere al riparo le sue residue possibilità di essere presente nel Mediterraneo dopo i rischi corsi in Ucraina. La base navale di Tartus, infatti, è il punto di approdo tradizionale delle navi della Flotta russa del Mar Nero, basata a Sebastopoli in Crimea, e la sua perdita rappresenterebbe un vulnus micidiale.

Insomma, la Russia non può ritirarsi dalla Siria per buona parte delle ragioni per le quali non può lasciare la Crimea (e l’Ucraina). In tale contesto si inquadra anche l’attivismo russo volto a ricavarsi altri spazi nel bacino, dopo la richiesta statunitense al Montenegro di entrare nella NATO (il Montenegro nella NATO!), riducendole al lumicino la possibilità di trovare altri approdi in paesi non ostili nel Mare Nostrum. La recente apertura egiziana per l’uso a tal fine della base di Sidi el Barrani potrebbe rappresentare un importante punto di svolta a suo favore.

Non c’è quindi dubbio che il punto più dolente di questa epocale tensione politico-militare è rappresentato dal Medio Oriente (o meglio, Vicino Oriente, per noi), con particolare riferimento a Siria e Irak. Per la prima volta dalla crisi di Cuba, infatti, soprattutto in Siria si corre un rischio concreto di scontro diretto tra statunitensi e russi che potrebbe portare ad una conflagrazione generale. La Russia, per i motivi sopraindicati, è infatti intervenuta militarmente, bloccando l’avanzata dell’ISIS e di Jabath Al Nusra (Jabath Fatah al Sham, dopo una recente operazione di cosmesi terminologica per occultarne le antiche radici qaediste) ma soprattutto congelando il tentativo statunitense (e saudita e turco ed emiratino e qatarino e israeliano e francese e ….) di sostituire Assad con un regime favorevole. E ora, di fronte alla prospettiva di una vittoria siriana (e russa e iraniana ed Hezbollah) con la liberazione di Aleppo dai terroristi come in precedenza avvenuto a Palmira (evento importantissimo da un punto di vista non solo simbolico ma stranamente ignorato da tutti i media), compare sgradevole la prospettiva di un Mediterraneo con una forte presenza della Russia, determinata a giocare ancora alla potenza globale. La campagna mediatica (STRATCOM – Strategic Communication) tesa a presentare come crimini di guerra i tentativi russi e siriani di sgomberare Aleppo est dai terroristi e l’improvviso attivismo contro Mosul, dopo anni di souplesse militare, non possono togliere il dubbio che il tutto sia soprattutto finalizzato ad impedire che di qua a qualche mese ci sia un solo vincitore sul campo, la Russia coi suoi alleati, con le conseguenze del caso per “l’Occidente”, costretto da tempo a considerare alcuni di essi “terroristi”.

Tornando agli interessi nazionali, anche in questo caso non sussiste alcuna significativa coincidenza tra quelli italiani e quelli della Coalizione a guida US. Il regime di Assad è notoriamente molto vicino alle numerose comunità cristiane del paese, cosa che non dovrebbe essere indifferente per quella patria del cristianesimo che è ormai a torto considerata l’Italia, e alle Forze Armate siriane, con il significativo contributo di Hezbollah, si deve la liberazione e la messa in sicurezza di numerose e antichissime comunità cristiane locali. Inoltre, non c’è dubbio che la caduta di Assad ad opera dei terroristi non comporterebbe la fine della guerra ma il probabile inizio di una nuova fase, con curdi, turchi, sunniti e sciti tutti in guerra tra di loro, appassionatamente; senza contare le ovvie ingerenze statunitensi, israeliane, francesi e britanniche da mettere in conto. Le conseguenze di una situazione del genere nel vicinissimo Libano, che è appena riuscito a eleggere un Presidente della Repubblica dopo oltre due anni di crisi, sarebbero devastanti e dalla costa orientale del Mediterraneo potrebbe iniziare un traffico migratorio verso le nostre coste capace di far impallidire quello epocale in atto dalla Libia.

Insomma, è proprio un bel pasticcio.

Per concludere, una riflessione sul gran parlare che si fa in Italia di “Esercito Europeo”, trasposizione militare dell’innamoramento per l’idea stessa di Comunità Internazionale che non si capisce da cosa derivi, visti i precedenti. Si tratta di un tentativo per coinvolgere i paesi europei nei problemi di sicurezza continentale, con soluzioni valide per tutti. In realtà si limita ad una discussione sterile, priva di possibilità di realizzazione per la differente percezione che i singoli paesi hanno di se stessi, nel contesto internazionale. Come mettere d’accordo, ad esempio l’attivismo militare francese nel sud Sahara e in Medio Oriente, o quello britannico nell’ambito della Comunità “five eyes” in tutto il mondo, con l’atteggiamento ripiegato sui propri problemi interni del nostro paese?

Si tratta, a mio modesto avviso, di un tentativo ingenuo e maldestro di conferire dignità al nostro “costituzionale” disinteresse per le questioni militari e inerenti alla difesa; una specie di disperata offerta ad altri della nostra “sovranità militare”, visto il fastidio col quale per mille motivi (tutti assurdi) non ce ne vogliamo far carico da decenni. Si tratta, infine, di un modo per rinforzare una vocazione allo “stare in gruppo” che al contrario non ci possiamo più permettere, vista la pervicacia con la quale “gli altri” pensano prima di tutto ai fatti loro. Ci accontenteranno, magari, con un Comando multinazionale in Italia, come già fatto in passato a Firenze, nel quale fare svernare a rotazione qualche Generale o Colonnello a fine carriera. Ma sulle questioni sostanziali, che incidono sul futuro delle prossime generazioni, le loro generazioni, certamente tutti terranno le carte ben coperte, come sempre.

Invece, è necessaria una riflessione sulla peculiarità dei nostri interessi, selezionando attentamente i paesi in grado di condividerli, se necessario riconsiderando i dettagli di alleanze come la NATO e l’EU se si dimostreranno eccessivamente a trazione atlantica e nord europea. Ciò si renderà necessario e di vitale importanza qualora tali alleanze continuino a non dimostrarsi sensibili alle nostre particolari esigenze, come avvenuto anche nel passato recente, con particolare riferimento a Libia, Siria e Ucraina in primis, senza dimenticare i Balcani, trasformati in un coacervo di staterelli ostili tra di loro e alla mercè dei movimenti jihadisti che durante la guerra alla Serbia si sono radicati nell’area. Oggetto di particolare riflessione dovrebbero essere anche i rapporti con la Russia, come noi interessata, anche semplicemente per mere questioni geografiche, ad avere stabilità nel Mediterraneo e nel Medio Oriente e a prevenire processi migratori dall’Africa come quelli che stiamo subendo. Non si tratta di tradire l’alleanza atlantica, ma di convincerla che gli interessi del nostro continente non possono essere definiti e decisi solo da 6000 km di distanza, oltreatlantico.

Ma la vedo dura!

GLOBALIZZAZIONE E STATI NAZIONALI-CONFLITTI TRA STATI E AUTONOMIA NAZIONALE. PERCHE’?,di Gianfranco La Grassa

Con questo intervento si completa la quadrilogia ripresa dall’incontro di metà aprile organizzato dal gruppo di www.conflittiestrategie.it e da questi già pubblicato. In basso a destra ddi questa pagina web, nella sezione dossier troverete tutti e quattro gli interventi
Incontro di C&S sul tema: Stato, Interesse Nazionale. Perché scegliamo in questa fase l’Autonomia Nazionale.
Questo è l’intervento che farò a Bologna nel seminario del prossimo fine settimana (di fatto domani). Ho preferito scriverlo perché poi, a voce, sarò molto succinto; sia per ragioni di tempo che per le condizioni della mia voce (e anche un po’ fisiche in generale). Consiglio perciò anche ai partecipanti all’incontro di leggerselo per capire quanto sostengo. Spero di essere stato sufficientemente chiaro.
CONFLITTI TRA STATI E AUTONOMIA NAZIONALE. PERCHE’?
Gianfranco La Grassa
1. Tratto normalmente Stato, paese o anche nazione quasi si trattasse di sinonimi. So che non è così, ma per quanto riguarda quanto devo dire in merito al problema dell’autonomia nazionale, credo si capisca comunque il discorso. Ammetto di non sapere mai con precisione che cosa debbo intendere con la parola Stato. Mi sembra che se ne parli sempre in modo metafisico o quasi; e in ogni caso come ci si riferisse ad un vero e proprio soggetto, di cui si possa disquisire quasi avesse volontà, desideri, intendimenti, finalità, ecc. propri, esattamente come quando si parla di un singolo individuo umano o di un determinato gruppo sociale, insieme di individui espletanti funzioni specifiche o che assuma decisioni in comune. Diciamo pure che per Stato si potrebbe intendere un grande raggruppamento di individui, in genere con ben preciso insediamento territoriale definito da confini, spesso (ma non sempre) unito da una sola lingua, che accetta un dato complesso di regole di comportamento fissate da leggi e il cui non rispetto viene sanzionato mediante un sistema di perseguimenti e di punizioni posto in atto da organi unanimemente accettati nel loro funzionamento a tali fini.
Preferirei tuttavia che si specificasse meglio il complesso, strutturato, di apparati che costituisce quello che chiamiamo Stato, sia nell’esercizio dei compiti relativi all’intero territorio posto sotto la sua potestà sia in quello decentrato nelle diverse parti in cui è suddiviso quest’ultimo. In particolare, darei la massima rilevanza a quegli apparati addetti all’esercizio della politica, intesa quale insieme organico di mosse – che possiamo definire strategia – compiute per raggiungere determinate finalità all’interno di un dato paese così come all’esterno d’esso, nei confronti degli altri paesi. Un conto è quella che potremmo definire l’amministrazione di determinati affari riguardanti il coordinamento d’insieme di una data comunità territoriale (suddivisa in diversi gruppi sociali); un altro è il vero potere di esplicare la politica diretta all’interno o all’esterno di quel paese. Il controllo degli apparati dotati di tale potere è il vero oggetto della lotta che si svolge tra diverse associazioni di individui (partiti o altri organismi di vario genere).
Di questi apparati (di potere) si dovrebbe soprattutto discettare per meglio definire i compiti che si pone chi intende perseguire l’autonomia del proprio paese. In questi ultimi anni si era diffusa una particolare concezione, che tuttavia mi sembra oggi un po’ in decadenza. Si sosteneva la fine della funzione degli Stati nazionali. Con ciò s’intendeva sostenere precisamente che quegli apparati di potere (interno ed esterno), di cui ho appena detto, non avevano più alcun reale compito in quanto ormai il potere in questione spetterebbe ad organismi sovranazionali, in particolare di carattere finanziario; vere massonerie che ormai comanderebbero in tutto il mondo o quasi. A tali organismi dovrebbero ribellarsi tutti i cittadini (le “moltitudini”), senza più distinzione di questo o quel paese (di tutto il mondo appunto). Tale tesi, che sembra voler essere una sorta di versione aggiornata e moderna dell’antico “internazionalismo proletario” (essa è in genere propagandata da vecchi arnesi della pseudorivoluzione sessantottarda e sue propaggini ulteriori), mira di fatto a salvaguardare il potere di quei gruppi che, all’interno di ogni paese, controllano gli apparati statali in questione (sia rivolto all’interno che verso l’estero). I “vecchi arnesi” sono ormai parte integrante, reazionaria, dei gruppi dominanti.
In realtà, in ogni paese (o nazione, se si preferisce) vi sono gruppi dominanti dotati di potere (decisionale), che controllano gli apparati statali di cui stiamo parlando; questi sono costantemente in funzione, per nulla superati e riposti in un qualche museo. Il problema è diverso. Esistono complessi (e spesso ben mascherati) legami internazionali tra i vari gruppi decisionali nei diversi paesi. E tali legami assicurano a quelli attivi nei paesi preminenti – oggi sopra tutti stanno gli Stati Uniti – un particolare potere di “influsso” (chiamiamolo così) sui gruppi decisionali di paesi che si pongono in una determinata filiera di potere via via discendente; per cui abbiamo gruppi che potremmo definire subdominanti, subsubdominanti, ecc. fino a quelli via via sempre più subordinati. I gruppi di potere nei vari paesi, anche i più subordinati, hanno pur sempre capacità decisionali nell’ambito degli apparati statali appositamente addetti alla politica, alla strategia, alle mosse da compiere per giungere a certe finalità interne ed esterne. Semplicemente, i loro poteri decisionali si subordinano a quelli dei gruppi dominanti di altri paesi, secondo una gerarchia che muta di fase storica in fase storica; e ha gradazioni differenti anche nell’ambito di ognuna di queste fasi.
Tanto per fare un “banale” esempio, i gruppi decisori italiani sono sempre stati subordinati a quelli statunitensi dalla fine della seconda guerra mondiale. E oggi siamo sempre in quella fase storica iniziata nel 1945, in cui sono stati creati vari organismi per sanzionare la supremazia Usa, fra cui la Nato e poi le varie organizzazioni intereuropee, ecc. Tuttavia, il grado di subordinazione dei gruppi decisori italiani ha avuto un netto scatto in crescita con la fine della prima Repubblica, con la sporca operazione di falsa “giustizia” denominata “mani pulite” e tutto ciò che ne è seguito. E oggi appare in ulteriore continuo accrescimento.
Bene, una volta chiarito questo punto, e dichiarata pura mistificazione la tesi della fine degli Stati nazionali, passerò ad un altro ordine di considerazioni. In effetti, la nostra attuale attenzione ai problemi dell’autonomia nazionale potrebbe sembrare un semplice cambiamento di impostazione teorica. In quanto marxisti, eravamo interessati un tempo alla lotta di classe e al problema dell’abbattimento e trasformazione della società capitalistica; ci siamo oggi innamorati della geopolitica, dell’interazione tra Stati? Oppure siamo stati folgorati da una visione nazionalistica e quindi abbandoniamo ogni discorso di conflitto (in verticale) tra classi per abbracciare quello (in orizzontale) tra comunità nazionali? Non è affatto questa la nostra effettiva posizione.
2. Personalmente, continuo a ritenere importante, in linea di principio, la struttura dei rapporti sociali (rapporti tra diversi gruppi in cui è suddivisa la società). Proprio per questo, malgrado la mia critica non marginale al marxismo, continuo tuttavia ad avere grande attenzione per tale teoria della società. E, sempre in linea di principio, la ritengo più avanzata rispetto all’individualismo tipico delle teorie liberali. Tuttavia, in Marx è fondamentale, nella costituzione di società, la sfera produttiva. Ci si ricordi sempre la sua lettera a Kugelman del 1864 in cui si dice che anche i bambini sanno che, se non si producesse per un breve periodo di tempo, ogni società verrebbe a dissolversi. E’ quindi logico che i rapporti sociali per questo pensatore decisivi sono quelli di produzione. E simili rapporti si annodano intorno al problema della proprietà (potere effettivo di disposizione) o meno dei mezzi produttivi. In base a quest’ultima, Marx distinse, nella società capitalistica, la classe borghese (i proprietari) e quella proletaria (o operaia) solo in possesso della propria capacità lavorativa da vendere in qualità di merce come ogni altro bene circolante nella società in questione. Da qui – corro perché ho scritto in proposito ormai centinaia di pagine – deriva l’ipotesi della dinamica capitalistica che avrebbe condotto infine ad una borghesia assenteista rispetto alla direzione dei processi produttivi, mentre in questa sfera sociale si sarebbe andato consolidando un corpo di produttori associati; dal massimo gradino dirigente fino all’ultimo di carattere esecutivo. Già nel grembo del capitalismo, quindi, si sarebbe formata la condizione base della nuova società socialista, primo gradino di quella comunista.
Nulla di tutto questo si è storicamente verificato; in nessuna delle società a capitalismo avanzato si è mai andato costituendo il “lavoratore collettivo cooperativo” (i produttori associati) così come previsto da Marx. E, soprattutto, le rivoluzioni più radicali si sono avute in società a prevalenza contadina e non operaia. Il cosiddetto socialismo del XX secolo – o quanto meno la “costruzione” dello stesso – si è rivelato essere una società estremamente verticistica, in cui la sfera produttiva era completamente sottomessa alla direzione di quella degli apparati del potere strettamente politico. Non intendo qui diffondermi su che cosa è stata questa particolare formazione sociale venuta a crearsi con le rivoluzioni guidate da partiti comunisti in paesi sostanzialmente precapitalistici. Mi sembra comunque evidente che non si è creata alcuna società socialista nel senso marxiano del termine. Lascio perdere i tentativi di diffondere l’idea (del resto tarda, ultimo sbiadito tentativo di difendere l’indifendibile) che si trattava di un socialismo di mercato.
Di fronte al fallimento storico di un movimento rivoluzionario guidato da una specifica teoria – del resto ormai molto modificata rispetto all’originale e ridotta a pura agitazione di tipo ideologico con presa sempre minore fino al suo azzeramento – ho proposto già da tempo l’abbandono del principio guida della proprietà o meno dei mezzi produttivi, andando invece nella direzione della politica intesa appunto quale conflitto tra le strategie di più gruppi sociali in cerca di una supremazia nel controllo dei vari apparati funzionanti nelle diverse sfere sociali: produttiva, politica, ideologico-culturale. Credo che questo mutamento abbia effetti abbastanza positivi nella considerazione realistica delle lotte sociali sussistenti all’interno della società in cui viviamo; anche perché fa vedere come gli “attori” in conflitto non siano, prevalentemente, quelli attivi nella sfera produttiva, ma vi siano invece svariati rapporti, e spesso piuttosto stretti, tra agenti in opera nelle diverse sfere per la conquista di una supremazia sociale complessiva. Tuttavia, è ovvio che la teoria del conflitto tra strategie non consente alcuna divisione netta tra le classi in lotta, riducendole a due soltanto. E non pone in luce alcuna dinamica, intrinseca all’attuale formazione sociale di tipologia capitalistica, diretta alla sua trasformazione in altra nettamente differente che possa pensarsi quale fase di transizione ad una qualsiasi forma di socialismo o comunismo.
I gruppi sociali, insomma, non possono essere definiti classi nel senso in cui queste erano intese nel marxismo in base al criterio, rivelatosi piuttosto semplicistico, della proprietà o meno dei mezzi produttivi. Inoltre, tali gruppi non possono mai ridursi a due; a meno che il conflitto diventi tanto acuto da spingere vari gruppi ad allearsi tra loro in modo che, alla fine, si trovano a confrontarsi due schieramenti contrapposti, che non saranno mai comunque due classi in lotta, ma due coacervi di gruppi riunitisi per le concrete esigenze “di combattimento” in quella particolare fase storica e in quella determinata formazione sociale, in cui si è prodotto un contrasto così netto e ormai irrisolvibile con semplici mediazioni. Vi è di più. Si possono verificare – per contingenze non riconducibili all’intenzione consapevole di trasformare quella data formazione sociale in un’altra considerata superiore – dei cosiddetti “sollevamenti di masse”, causati dal malcontento e disagio sociale particolarmente acuti, in genere susseguenti all’incapacità ormai manifesta di coloro, che hanno in mano gli apparati del potere, di saperli gestire in modo minimamente appropriato ai bisogni complessivi di quella società. Questi sollevamenti non produrranno mai effetti stabili e di reale trasformazione, se nel loro ambito non agiscono dati nuclei dirigenti di gruppi sociali, che vanno appunto alleandosi e unendosi a fini comuni in risposta alla gravità della crisi provocata dalla suddetta incapacità dei vecchi nuclei al potere.
In ogni caso, sia se si producono, abbastanza raramente, situazioni così estreme sia se ci si trova in una situazione di più “normale” e non sconvolgente conflitto tra strategie per ottenere la supremazia (in base ad esigenze di lungo periodo o invece per risolvere problemi di portata momentanea e d’ambito ristretto), non si è in presenza del semplificato scontro tra dominanti e dominati di cui troppo spesso si blatera. In un certo senso esiste un confronto, più o meno serrato, tra gruppi sociali con maggiori o minori (in certi casi magari nulle) prerogative decisionali. Tuttavia, nel reale conflitto, sempre condotto in base alla politica (cioè secondo varie linee strategiche), si enucleano alcune élites dirigenti, che tendono a rappresentare più gruppi sociali. E anche quando si tratti di gruppi formati principalmente da “non decisori”, le loro dirigenze partecipano comunque, con maggiore o minore forza, alle decisioni sociali di maggiore portata. Esempio tipico ne è la lotta sindacale. I nuclei dirigenti di quei gruppi situati alla base della piramide sociale non sono certo privi di qualsiasi potere decisionale in merito a questioni interessanti l’intera collettività di quel dato paese.
3. Giungiamo adesso al problema centrale che ci interessa. E che ci interessa – almeno per quanto mi riguarda e riguarda, credo, anche coloro che con me hanno dato vita a “Conflitti e Strategie” – proprio in quanto abbiamo dovuto prendere atto del fallimento delle finalità poste al movimento delle cosiddette “masse popolari” da una data concezione dello sviluppo sociale, quella concezione che è appunto il marxismo. Si è dovuto prendere atto che non c’è stata finora alcuna effettiva possibilità di evoluzione dell’attuale società verso strutture di rapporti da definire oltre-capitalistiche. Quello che abbiamo sempre chiamato capitalismo (e così continuiamo a denominarlo) si è andato indubbiamente trasformando profondamente rispetto al suo punto di partenza; o anche semplicemente considerando l’ultimo secolo. Tuttavia, alcuni suoi moduli non si sono modificati; non si è certo giunti al rivolgimento della sua configurazione piramidale caratterizzata dalle concentrazioni imprenditoriali e dal correlato assetto degli apparati politici, fortemente verticistico anche nei paesi dove si ciancia sempre di “democrazia parlamentare” e si esaltano le periodiche “chiamate al voto”, che si fanno passare per espressione genuina della “volontà popolare” in grado di governare gli affari del paese, sempre invece nella sostanza affidati a contrapposizioni tra date élites.
Intendiamoci bene. Nessuno di noi svaluta quelle lotte sociali che mirino a migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle più vaste “masse” situate nei gradini medi e bassi della piramide sociale. E dobbiamo ammettere che oggi, anzi, quelle lotte stentano perfino a mantenere vecchie “conquiste” in tema di benessere. Di conseguenza, un rilancio di queste lotte sarebbe senz’altro visto da tutti noi con estremo favore. Tuttavia, dobbiamo rilevare alcuni semplici fatti. Simili lotte diventano sempre più difficili, sono viepiù spezzettate e condotte spesso in modo da lasciare largo spazio a quella divisione tra strati sociali medio-bassi che favorisce i vertici della società (il ben noto “dividere per imperare”). E’ però un caso che ciò avvenga? E soprattutto nella presente fase storica (che dura da due-tre decenni)? Non posso dilungarmi nella considerazione delle condizioni storiche che avevano consentito un qualche elevamento della posizione degli strati sociali in questione. Noto solo che l’attuale peggioramento di tale posizione dimostra a iosa come non si fosse compiuto alcun decisivo passo in direzione dell’indebolimento di quella società denominata capitalismo.
Si è dovuto constatare un fatto ancora più rilevante per le nostre convinzioni ideologiche (e anche teoriche). Sia l’iniziale successo (relativo) di certe lotte sociali, sia la loro crescente irrilevanza attuale, sono fondamentalmente dipesi dalla predominanza di fatto che sempre hanno mantenuto gli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale in poi. Credevamo che il mondo bipolare fosse un contrasto tra capitalismo e socialismo. Siamo stati messi in crisi dalla rottura tra Urss e Cina, ma non abbiamo interpretato correttamente (e non sappiamo farlo ancora adesso) che cosa in realtà fosse accaduto. Abbiamo preso il successo di certe lotte anticoloniali (vedi Vietnam) come si trattasse di un allargamento del campo “socialista”; un allargamento durato l’espace d’un matin, con conflitto tra Vietnam e Cina e poi il progressivo spostarsi di quel paese verso l’orbita statunitense (sia pure dopo il crollo dell’Urss, che comunque non è stato un caso “sfortunato”). Oggi dobbiamo prendere atto – in una considerazione di più lungo periodo; ed è su questo che la storia deve essere “misurata” nei suoi effettivi andamenti – che gli Stati Uniti sono stati sempre il perno più solido dell’andamento degli affari mondiali.
In definitiva, è ora di ammettere infine che non esiste più da molto tempo (ammesso che sia mai esistita nei termini pensati dai marxisti) la lotta di classe su cui tante speranze erano un tempo riposte. Non esiste soprattutto un antagonismo tra due grandi blocchi sociali alternativi, foriero di trasformazioni anticapitalistiche. Nei paesi a capitalismo sviluppato – che ha conosciuto varie trasformazioni da giudicarsi interne a quel certo “modulo” sociale – si sono verificati contrasti, anche assai forti a volte, che sono sempre stati di tipo redistributivo; soprattutto di reddito, in parte anche di potere. E’ tuttavia mancato proprio l’effetto che alcuni attribuivano a tale conflitto, la trasformazione in senso anticapitalistico. Chiunque ancora ne parli – ormai alcuni rimasugli di dementi – va proprio ignorato. Ripeto che questo tipo di lotte va appoggiato proprio per quello che può al massimo conseguire: la difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei ceti medio-bassi, oggi in deciso peggioramento. E sempre con la precisa consapevolezza che simili conflitti sono diretti da determinati gruppi dirigenti politici e sindacali, i maggiori beneficiari degli eventuali risultati positivi dello scontro.
Cosa invece si nota nettamente nell’attuale fase storica? I conflitti più acuti e più significativi sono quelli tra Stati. Di conseguenza, diventa in un certo senso scopo preminente seguire gli eventi di quella che è la politica internazionale, l’interrelazione tra i diversi Stati, lo stabilirsi di determinati rapporti di forza tra essi, il loro eventuale modificarsi i cui effetti ricadono immediatamente anche sull’andamento dei sistemi economici. Tuttavia, abbiamo già ricordato come gli Stati siano un insieme organico di svariati apparati, di cui alcuni sono quelli adibiti all’effettivo uso del potere (mentre altri hanno un carattere più propriamente amministrativo, diciamo così). E’ allora rilevante la comprensione dei contrasti in atto tra quei gruppi d’élite che si battono per il controllo e l’uso di tali apparati. Poiché questo “battersi” è appunto la politica, è un intreccio tra differenti strategie svolte per conquistare la supremazia, i gruppi d’élite (se tali sono effettivamente) debbono essere strettamente correlati con dati nuclei in cui si elaborano le strategie. E poiché le mosse della politica mirano al successo nell’ambito di uno scontro tra le varie élites, la segretezza è d’obbligo; e ogni venir meno della stessa o è una di queste mosse o è lo sgretolamento della “copertura” (lo sbucciarsi della “corteccia”) dovuto ad un acuirsi del combattimento tra due o più “attori”.
Del resto ho già ricordato un fatto ben noto a chiunque segua minimamente le vicende politiche. Non esistono élites dirigenti dei gruppi sociali nei diversi paesi, che non siano variamente interrelate tra loro in senso economico, politico, culturale. E certamente nel nostro paese, e più generalmente in tutti i paesi europei, in misura maggiore o minore queste élites sono strettamente collegate con quelle statunitensi, ponendosi nei loro confronti in una situazione di maggiore o minore subordinazione. In questo senso, gli Stati Uniti sono ancor oggi il centro di un ampio sistema mondiale di paesi; in particolare, hanno la guida, per quanto a volte appena mascherata, dell’intera UE che, come già detto, è in definitiva un’organizzazione parallela a quella della Nato. E’ impossibile seguire le vicende politiche interne di un qualsiasi paese europeo senza tener conto dei rapporti di subordinazione rispetto al paese predominante. Questo è particolarmente valido per l’Italia, paese la cui subordinazione è di alto livello e va crescendo. E continuerà a crescere per quanto diremo subito appresso.
4. Con quanto appena sostenuto, sia pure succintamente, abbiamo svelato il “segreto” della nostra pretesa preferenza per la geopolitica e per il tema dell’indipendenza o autonomia nazionale. Abbiamo semplicemente preso atto della fine della mitica lotta di classe e constatiamo che attualmente sono in ribasso anche le lotte sindacali per la semplice “redistribuzione”, nel tentativo di evitare l’arretramento delle cosiddette “conquiste sociali” di alcuni decenni fa. Dopo circa mezzo secolo di mondo bipolare e con i pericoli, spesso esagerati e montati a bella posta, relativi alla “guerra fredda”, si è avuto il “crollo” del campo sedicente socialista ed è sembrato che ci si avviasse verso una sorta di monocentrismo Usa. La sensazione è durata poco e ormai, malgrado sia ancora predominante quel paese, pare assai probabile che ci si avvii intanto verso un multipolarismo per quanto ancora imperfetto. Il caos nel mondo va accentuandosi come sempre avviene in epoche del genere; più volte ho fatto il paragone con la fine del secolo XIX.
In una situazione simile, è del tutto evidente un crescente impegno degli Stati Uniti per accentuare la presa sull’Europa e scongiurare quanto indubbiamente sembra serpeggiare al suo interno con il rafforzarsi di movimenti detti “euroscettici”; per quanto essi sembrino ancora abbastanza deboli. Il “Trattato transatlantico” (TTIP) dal punto di vista economico (che ha sempre riflessi politici), gli sconvolgimenti, più o meno ben riusciti, suscitati nel Nord Africa e in Medioriente, la crisi ucraina (dopo il primo approccio in Georgia), l’impulso dato alle organizzazioni islamiche “estremiste” poi ovviamente combattute (con forti ambiguità e senza ancora una conclusiva decisione; e qualche perplessità la nutro pure intorno alle mosse russe), le situazioni estremamente confuse e di sostanziale stallo (pur assai sanguinoso) in Libia e Siria, così come altre egualmente poco chiare (in Egitto come in Turchia o Iran, ecc.), sono operazioni che avranno certo motivazioni legate ai rapporti di forza nelle aree interessate; e tuttavia non vi è dubbio che il principale obiettivo degli Stati Uniti è, in ultima analisi, il mantenimento della presa in Europa e l’isolamento massimo possibile della Russia.
Se veniamo al nostro paese, credo che esso sia massimamente importante per le suddette finalità perseguite dagli Stati Uniti. La posizione geografica dell’Italia è in tutta evidenza significativa per le operazioni nelle aree investite, non sempre direttamente, dagli Usa (con l’Amministrazione Obama ci si è largamente serviti di “sicari”). Tuttavia, con l’operazione “giudiziaria” che mise fine alla prima Repubblica (solo dopo il crollo del campo “socialista”) si è reso del tutto manifesta la funzione che a noi spetta nelle intenzioni americane di tenere strettamente agganciata l’Europa. Dobbiamo essere decisamente affermativi in proposito. L’Europa è l’area in cui ancora si giocheranno i destini del probabile prossimo scontro policentrico per conquistare una nuova centralità preminente (uno scontro non temporalmente vicino, meglio essere espliciti in proposito). E l’Italia è paese fondamentale per il controllo europeo. Ci sono forti tendenze – a mio avviso tutte ben finanziate da chi di dovere – a sostenere l’ormai irreversibile decadenza europea e la crescente irrilevanza italiana.
Se con questo si vuole sostenere che mai si era visto in quest’area e in questo paese un degrado sociale (e culturale) come quello odierno, siamo d’accordo. Tutto questo avviene però proprio perché l’Europa (e, al suo interno, l’Italia) sono aree di importanza decisiva per gli Usa nel loro tentativo di restare preminenti; anzi di arrivare un giorno a porsi in una situazione di sostanziale monocentrismo, magari attraverso un futuro regolamento generale di conti. In questa fase, la pressione Usa sul nostro paese è massima, anche se non viene solitamente rilevata perché ovviamente non si esprime con le vecchie modalità coloniali. Di conseguenza, nella presente fase storica di non breve momento, chiunque straparli di lotta anticapitalistica, inganna scientemente quelle minoranze che cominciano a rendersi conto della situazione di degrado e sfascio sociale (e anche istituzionale), in cui ci hanno condotto le forze politiche padrone dell’andamento degli “affari” nel nostro paese.
Non ci sono per nulla prospettive di superamento del capitalismo in Italia (e in Europa); e nemmeno si saprebbe in che direzione si dovrebbe andare in una simile fantasiosa prospettiva. Ripeto che nessuno (di noi) si oppone a che i ceti medio-bassi difendano le proprie condizioni di vita aggredite dal potere esistente. Questo però non significa abbattere il capitalismo (e di quale si sta parlando, del resto, se non a vanvera?). E non c’è nessuna difesa possibile se restiamo un paese governato da élites che si pongono nella relazione di subordinazione rispetto a quelle del paese predominante. E’ di una evidenza palmare che il primo passo da compiere è (diciamo sarebbe) togliere il governo ai servi del potere statunitense. E vorrei essere preciso. Quando parlo in questo contesto di governo non mi riferisco soltanto a quelle forze politiche che hanno in mano la direzione dell’Italia. Valuto negativamente pure le sedicenti opposizioni, invischiate in quel gioco elettorale che fa dimenticare ogni problema di reale potere, con il mero scopo di conquistare favori nell’“opinione pubblica” onde migliorare la propria posizione all’interno dell’attuale struttura politica, comunque sempre subordinata alla predominanza degli Stati Uniti.
Ecco allora spiegato perché è indispensabile battersi oggi per l’autonomia nazionale. E per porsi in quest’ottica, è necessario dedicare i nostri sforzi soprattutto all’analisi degli intrecci internazionali tra i vari paesi; nelle loro filiere di predominanti, subdominanti, subsubdominanti….ecc. fino alle ultime propaggini della subordinazione, laddove siamo tutto sommato situati noi italiani. E mi sembra lampante che passi in avanti di questa autonomia sarebbero favoriti dall’affermarsi crescente della tendenza al multipolarismo. Quindi ci si deve battere per il rafforzamento delle relazioni – non solo economiche, bensì proprio politiche e di collegamento tecnico-scientifico e di “Informazione” e magari anche militari – con i paesi che hanno maggiori prospettive “oggettive” di ergersi quali antagonisti degli Stati Uniti; e fra questi, a mio avviso, il principale è la Russia. Nessuna particolare simpatia per questa e nessuna particolare antipatia per gli Stati Uniti. Semplicemente, è necessario battersi per l’accentuarsi del multipolarismo e, dunque, per la nostra autonomia. Multipolarismo e indipendenza sono in relazione biunivoca. E sono il primo compito per la fase attuale.
5. C’è poco da aggiungere, io credo. Ritengo auspicabile – nella fase storica che viviamo e che non sarà di breve momento – una politica tesa all’autonomia dei paesi europei rispetto a quello ancora oggi preminente, pur se a mio avviso procediamo, in modo certo non lineare e continuo, verso una situazione multipolare. Qualcuno potrebbe obiettare che sarebbe bene allora battersi per una profonda revisione dell’attuale organizzazione dell’Europa Unita in modo da ottenere l’effetto voluto. Credo che ci si avvierebbe lungo una strada fallimentare. La UE non mi sembra affatto riformabile per come è nata e si è andata configurando sulla base dell’accettazione di una chiara subordinazione – sia pure con accenti diversi nei vari paesi – agli Stati Uniti. Mi sembra anche non molto chiara l’agitazione di alcuni movimenti per l’uscita del proprio paese dalla UE e dall’euro.
Il problema centrale è la lunga subordinazione che, soprattutto i più sviluppati paesi europei (quelli “occidentali”), hanno dovuto subire rispetto agli Usa. Bisogna invertire questo processo – economico, politico, culturale – di subordinazione. Per far questo, nei vari paesi europei devono crescere movimenti consapevoli della difficoltà e complessità di tale compito, che comporterà infine la necessità di abbattere con energia i governi del servilismo. E’ un processo che va sviluppato all’interno dei vari paesi; e che, se avrà successo, lo avrà in modi e tempi specifici per ognuno d’essi. Ogni movimento dovrà rispettare le caratteristiche del proprio paese, delle proprie popolazioni (e, in questo senso, tornerà utile anche l’analisi delle differenti strutture dei rapporti sociali).
I movimenti di autonomia devono senza dubbio ricercare il reciproco collegamento nel contesto europeo, ma senza mai dimenticare le differenze del proprio paese rispetto agli altri; pena il diffondersi di una nuova “mistica” europeista che ha già prodotto in passato i guasti che vediamo oggi sotto i nostri occhi. E’ stata proprio la propaganda di questa idea di una generica Europa unita a consentire il prevalere nella nostra area di élites dirigenti che – oggi finalmente è venuto in chiara luce – si sono piegate, spesso con pingui finanziamenti, agli intendimenti e voleri degli Stati Uniti. Alcuni si saranno anche “venduti”, ma altri hanno superficialmente creduto che, come si erano fatti gli Stati Uniti d’America, si potessero fare quelli d’Europa, i cui paesi hanno ben più complessa e “antica” storia.
Ulteriore problema. Malgrado molti paesi europei siano economicamente piuttosto avanzati, è altrettanto evidente la loro debolezza politica e – perché voler essere pacifisti ad oltranza – bellica. Ogni movimento che si batta per l’autonomia del proprio paese – lo ripeto ossessivamente, autonomia soprattutto in direzione degli Usa – dovrà non soltanto cercare i collegamenti con i propri simili europei, bensì sviluppare precise politiche verso est; in particolare nei confronti della Russia. Inutile nascondersi che simili politiche potrebbero un giorno provocare il passaggio dalla tendenza multipolare all’affermarsi di un reale policentrismo conflittuale, con tutti i rischi che ben conosciamo dal XX secolo. Se si teme questo, è inutile mettersi sulla strada dell’autonomia; si resti subordinati come lo si è adesso.
E veniamo così all’ultimo punto. Ci sono molti sciocchi che credono ad un’Italia di benessere diffuso sulla base del turismo, sfruttando i suoi mari blu, i cieli azzurri, le cosiddette bellezze paesaggistiche (come se altrove mancassero), i suoi cibi (che nemmeno gli italiani più giovani sanno ormai apprezzare); e altre litanie del genere. Se l’Italia rimane a questo livello, resterà pure tranquillamente subordinata; e avvizziranno progressivamente in essa tutti quei settori che consentono il maggiore sviluppo di un qualsiasi paese nell’epoca moderna (a meno che non si tratti di quei paeselli, magari isole, che sono piccole oasi per i “ricchi del mondo”). E mancando l’autonomia e il tipo di sviluppo ad essa connesso, inutile anche pensare a chissà quali possibilità di lotta sociale per difendere le proprie condizioni di vita, soprattutto da parte dei già più volte ricordati ceti medio-bassi.
Lasciamo perdere per favore la lotta anticapitalistica; abbiamo una concezione arretratissima di capitalismo, ancora primonovecentesca se va bene. Non abbiamo assolutamente l’idea di quel che dovrebbe essere una società non più capitalistica (a parte le ubbie anti-grande finanza diffuse oggi). Ho però sostenuto che è approvabile la resistenza dei ceti meno abbienti di fronte ad un chiaro peggioramento delle prospettive nei nostri paesi detti avanzati. E’ bene mettersi in testa che in un periodo di multipolarismo in accentuazione, si amplifica il “caos” nelle relazioni internazionali; e non solo politicamente, ma pure economicamente. In poche parole, quella che chiamiamo crescita (aumento del Pil) non conoscerà andamenti travolgenti per molto tempo. Molti finalmente cominciano ad arrivare a simili conclusioni. Tuttavia, la debole (o nulla) crescita non impedisce uno sviluppo, cioè un miglioramento di certe strutture sociali e l’arresto del progressivo smantellamento delle “conquiste” ottenute già da tempo.
Tuttavia, non vi sarà nulla di tutto questo se si cede sul punto dell’autonomia propria, dello sviluppo di settori innovativi che la subordinazione invece sacrificherà sempre più. Cari “amici delle lotte sociali”, volete che possano essere ancora condotte almeno in un certo grado? Ebbene, battetevi per l’autonomia del paese rispetto all’attuale piatta subordinazione agli Stati Uniti. Battetevi per una diversa politica internazionale. Invece di fissarvi sul superamento del capitalismo (che si supera da solo in sempre nuove forme che vi lasciano poi a mani, e testa, vuote), concentratevi sull’attuale evoluzione dei rapporti di forza tra Stati (paesi), in modo da giocare nel suo ambito con opportune politiche di “nuove alleanze” al fine di non veder peggiorare gravemente le condizioni del vostro paese e, dunque, dei ceti sociali in esso meno favoriti.
E con questo fervorino finale, veramente Amen.

GLOBALIZZAZIONE E STATI NAZIONALI _ I fondamenti dell’idea di nazione a partire dal punto di vista del pensiero liberale e del decisionismo giuridico, di Mauro Tozzato

I fondamenti dell’idea di nazione a partire dal punto di vista del pensiero liberale e del decisionismo giuridico, di Mauro Tozzato
Già apparso sul sito di www.conflittiestrategie.it terza parte del seminario di Bologna su Globalismo e Stati Nazionali, tenutosi a metà aprile ad opera del gruppo di www.conflittiestrategie.it del quale hanno fatto parte Giuseppe Germinario e Luigi Longo

Bozza preparatoria per l’intervento al seminario di Bologna rielaborata con alcune aggiunte.
La tradizione del liberalismo continentale europeo trova nella conferenza su La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni di Benjamin Constant, tenuta nel 1819 all’Ateneo di Parigi il suo manifesto classico fondativo. Per quanto riguarda l’aspetto concernente la tematica della nazione e quindi gli elementi storico-genetici che connettono le idee liberali alla tradizione del costituzionalismo giuridico un ruolo altrettanto decisivo è svolto dal testo della conferenza di Ernest Renan alla Sorbona, del 1882, dal titolo Qu’est-ce qu’une nation? All’inizio Renan elenca le varie tipologie di formazioni storico-politiche a partire dai “grandi agglomerati” come gli antichi imperi orientali caratterizzati da una centralizzazione dispotica; seguono i “gruppi tribali” come gli Ebrei e gli Arabi, le città-stato (polis), gli imperi plurinazionali, le comunità religiose e quelle etno-linguistiche ed infine gli Stati-nazione moderni con le varianti delle loro aggregazioni in federazioni e confederazioni. Il punto di partenza del suo discorso si basa sull’affermazione che l’etnia, intesa come ethnos e come “razza”, non definisce quell’entità coesa determinata territorialmente come insieme di individui (popolazione) che chiamiamo nazione. I gruppi etnico-linguistici non si identificano con i “popoli realmente esistenti”. Il periodo antico e medioevale europeo caratterizzato dalle scansioni che, a partire dalla caduta dell’Impero romano d’occidente, hanno poi visto la “restaurazione” di Giustiniano e l’ascesa e il declino del Sacro Romano Impero carolingio trova la sua risoluzione con l’avvento delle monarchie nazionali assolute agli albori della modernità. A quel punto
<<l’Europa occidentale (e poi anche il resto d’Europa) appare divisa in nazioni [Stati-nazione].>>
Questo tipo di formazione politica appare, quindi, a Renan come un fatto sostanzialmente nuovo, a partire dal quale si è creato un contesto nel quale ogni struttura sovrana territoriale-popolare ha stabilito relazioni conflittuali con le altre, senza che nessuna di esse fosse in grado di assumere una stabile supremazia. Gli imperi asiatici – tra i quali, a partire da Hegel, poteva essere incluso anche l’antico Egitto e la civiltà degli Incas – erano invece
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In queste società secondo lo schema hegeliano “uno solo era libero” anche se l’assoluta “trascendenza” dell’Imperatore era importante prevalentemente a livello simbolico per garantire e mantenere l’unità del corpo politico e l’assoluta centralizzazione della comunità “organica” così costituita. In questa struttura avevano, infatti, un ruolo fondamentale i funzionari amministrativi (scribi e sacerdoti) ed esecutivi (nobili e guerrieri) attraverso i quali si pianificavano le attività economico-produttive e la redistribuzione dei beni prodotti. Nell’antichità classica greco-romana la partecipazione dei cittadini (individui liberi) alle faccende politiche, secondo Renan, aveva portato alla sostanziale mancanza di uno stabile apparato amministrativo fino all’avvento delle istituzioni imperiali a Roma. In precedenza le repubbliche e monarchie municipali e le confederazioni di repubbliche locali avevano garantito la più grande partecipazione del popolo agli affari pubblici ma anche una debole coesione dell’apparato amministrativo-burocratico. Prima dell’Impero romano l’Europa occidentale era formata da “agglomerati di popolazioni, spesso coalizzate tra loro, prive di istituzioni centrali e dinastie”. Solo con l’Impero di Roma ci si avvicinò alla formazione di qualcosa che poteva essere definita “patria”. La “dominazione romana” portò così, dopo le guerre di conquista, a
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Ma un impero esteso come quello romano non poteva portate alla formazione di uno Stato, nel senso moderno del termine. Il vero cambiamento ebbe inizio a partire dalle invasioni germaniche che stabilirono i due fondamentali pilastri del sistema dinastico e del predominio di una aristocrazia militare. Il sistema feudale, con lo spezzettamento del territorio in piccole unità economico-politiche quasi autonome, impedì lo stabilizzarsi delle prime formazioni statali. La Francia, la Burgundia, la Lombardia, la Normandia e poi l’Impero franco-carolingio vissero perciò, nell’Alto Medioevo, una persistente situazione di instabilità e di crisi. Ma piano piano, attraverso questo travagliato processo, presero forma i primi embrionali coaguli che avrebbero portato agli Stati-nazione assoluti di Francia, Inghilterra e Spagna e successivamente – con il superamento della Respublica Christiana e il declino dell’Impero e della Chiesa come entità almeno formalmente sovra ordinate agli Stati – anche all’unificazione di Germania e Italia. Renan poi contrappone il processo che caratterizzò l’Impero turco-ottomano – in cui convivevano Turchi, Slavi, Greci, Armeni, Arabi, Siriani e Curdi e in cui non si realizzò mai una autentica integrazione perché le identità linguistiche e religiose mantennero sempre la loro autonomia seppure, in alcuni periodi, in un clima di sostanziale reciproca tolleranza – a quello che si manifestò nell’occidente cristiano. In occidente, infatti, i vincitori, per lo più, adottarono la religione dei vinti: il cristianesimo. I conquistatori spesso rinunciarono anche alla loro identità linguistica così che in Italia, Francia e Spagna adottarono un “idioma romanzo”. Tra i barbari conquistatori le donne erano in netta minoranza e alla lunga questo risultò un fattore importante di integrazione. In Inghilterra, viceversa, i matrimoni misti risultarono meno necessari e anche il latino non si diffuse molto tra i popoli invasori. Renan ritiene che in Francia nel periodo successivo al regno di Ugo Capeto le differenze etniche avessero perso quasi tutta la loro importanza e i “francesi” si differenziassero prevalentemente in verticale con i due estremi rappresentati dai nobili e dalla plebe rurale. Anche nelle zone oggetto delle conquiste normanne si verificarono fenomeni di rapida integrazione etnica sotto la guida di un ceto nobiliare particolarmente portato alla guerra e ad enfatizzare il patriottismo. La progressiva diffusione di una mentalità che giustificava ed accettava come necessari i fatti di violenza, i conflitti e le guerre che erano stati alla base della fondazione dei nuovi Stati portarono progressivamente alla formazione di una cultura nazionale con la relativa mitizzazione degli eventi fondativi. In maniera realistica bisogna riconoscere che la tirannia e la giustizia sono entrambe necessarie per la nascita e la durata degli stati. Viceversa l’enfatizzazione delle identità religiose come nel caso dell’Impero turco-ottomano ha portato alla rovina del Medio Oriente. L’impero asburgico, invece, bastione di frontiera tra l’occidente e l’islam, ha mostrato la sua debolezza nella persistenza di tradizioni, linguaggi e costumi (ethnos e ethos) diversificati tra le sue varie nazionalità: tedesca, boema, ceca, magiara, slava e austriaca. Comunque all’origine della creazione delle varie identità nazionali sono risultate decisive dinamiche politico-militari del tutto contingenti mentre nei casi in cui è prevalsa la disgregazione è stata la frammentazione etnica, linguistica e religiosa che ha determinato il fallimento di quel processo che avrebbe portato alla costituzione di un blocco nazionale coeso. Ma in definitiva
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Alcuni teorici della politica affermavano che
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In molti casi, afferma Renan, il vincolo che mantenne uniti per un periodo più o meno lungo vincitori e vinti risultò essere quello dinastico ovverosia, specifichiamo noi, una egemonia connessa al prestigio di una élite dominante detentrice di strumenti di coercizione militare. Ma non sempre è così: Svizzera e Stati Uniti che si sono formate come agglomerazione di aggiunte successive non “hanno alcuna base dinastica” e comunque gli Stati-nazione consolidati ed economicamente e culturalmente coesi riescono, per lo più, a sopravvivere alle crisi “dinastiche”. Con il XVIII secolo, poi, la patria e la cittadinanza, in se stesse, divengono elementi decisivi di identificazione e coesione nazionale: il diritto “dinastico” lascia progressivamente posto al principio nazionale. Su che cosa risulta fondato allora il principio e il diritto nazionale? Sappiamo bene che spesso si è messo in primo piano il “criterio etnico”. Il principio etnico può portare a guerre di conquista verso territori abitati da “consanguinei” ma, osserva lo studioso francese, “il diritto primordiale delle razze è un errore gravissimo”. E difatti già con l’Impero romano il principio etnocentrico era stato falsificato: fondata dalla violenza, mantenuta dall’interesse, la Pax romana era diventata una unione di cittadini e stranieri tenuti assieme da un ordinamento giuridico universalistico. Ad esso si aggiunse il cristianesimo con il principio della eguale dignità e “personalità” di tutti gli esseri umani di fronte a Dio. Neanche le invasioni barbariche né Carlo Magno seguirono il principio etnico. Queste formazioni pre-statuali erano basate sui rapporti di forza e infatti la Francia dei capetingi e altre grandi nazioni si sono sviluppate proprio negando le identità dei numerosi gruppi etnici che le avevano originariamente popolate. Ogni gruppo etnico, tra l’altro, è una famiglia ben distinta nella specie umana che, però, si costruisce effettivamente solo nella storia, come unità culturale e linguistica. Rispetto a questa il rapporto stabilito dal legame biologico (fisiologico, genetico) appare incerto e sostanzialmente indecifrabile.
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Anche la “lingua” comune invita ma non forza ad unirsi, come nel caso dell’America Latina e della Spagna oppure di Stati Uniti ed Inghilterra, mentre in alcuni Stati, tipo la Svizzera, possono coesistere anche tre o quattro idiomi. La volontà, la volontà “di stare insieme”, è superiore alla “lingua” a patto che non vengano prese iniziative che mirino ad una unità linguistica forzata. Le “lingue” non stanno in corrispondenza diretta con le etnie: “le lingue sono formazioni storiche che non c’entrano con l’unità di sangue”. Così scrive Renan:
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L’approccio universalistico liberale-borghese si esprime nella convinzione che prima della cultura nazionale c’è la “cultura umana”. Per quanto riguarda le religioni e i riti essi all’inizio erano legati alla famiglia, poi alla città e allo Stato; a Roma la religione di Stato divenne un problema politico e chi la attaccava veniva perseguito e perseguitato. A partire dalla modernità e dalla Riforma la religione è diventata una “questione personale, riguarda la coscienza di ognuno”. La comunanza di interessi non costituisce una nazione e lo Stato che ne comprende una o più d’una (comunità), se è un vero Stato, non è, quindi, soltanto una unione commerciale. Nemmeno la geografia e i confini naturali stabiliscono un criterio fondante per la costituzione di una realtà nazionale ma essi vengono, a volte, usati come una scusa per intraprendere azioni politiche e militari determinate da strategie che hanno lo scopo di accrescere la potenza.
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Il principio “spirituale” che si chiama nazione sussiste perché è presente una comune
<<eredità di ricordi e il desiderio di vivere insieme, la volontà di mantenere indivisa l’eredità ricevuta e le glorie del passato da prolungare nel futuro>>.
Una coesione culturale, di mentalità (ideologia) e modi di vita è quella che costituisce la nazione in senso etico-politico mentre solo in un secondo tempo si può valutare l’importanza di dogane in comune, frontiere conformi ai principi strategici, “razza, “lingua”. Una autentica nazione si fonda sulla solidarietà per i sacrifici compiuti e per quelli da compiere e sul consenso per mantenere questi impegni e restare uniti. Ma i gruppi esterni o esterni allo Stato rimangono uniti o vengono attratti da esso solo se gli abitanti di un territorio, mediante un voto, manifestano la loro volontà in questo senso. Renan pensava che gli Stati-nazione europei potessero evolvere verso una forma confederale ma, con una sorta di preveggenza, nutriva forti dubbi sul valore e sui risultati di simili iniziative. Gli Stati-nazione devono tutelarsi contro i propositi di secessione arbitrari; in questo senso, mi sembra, egli ritiene che essi debbano risultare legittimi, ovverosia conformi a norme universali di diritto e quindi non sottoposti a decisioni che, seppure prese legalmente, sulla base di iniziative della maggioranza della popolazione, vengano determinate da umori contingenti di forze sociali manipolate e manipolabili. Enfatizzando l’elemento etico Renan ripete:
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Essa è, pur tuttavia, anche identificabile tramite una popolazione che risiede permanentemente in un determinato territorio così che l’appartenenza di un suolo ad un determinato popolo, per tradizione, sarebbe un fattore determinante dell’identità nazionale.
Secondo il filosofo e studioso Mario Albertini la nazionalità si fonda sulla fedeltà e sulla “identificazione” degli individui con essa. Esisterebbe una “nazionalità naturale” legata al territorio e alla “lingua” e una “nazionalità artificiale” basata sull’attaccamento al territorio, alla lingua e alle origini comuni e fondamentalmente tesa a svilupparsi in un area più vasta della prima. Albertini partiva da una ideologia di tipo federalista che ipotizzava una “supernazionalità” spontanea dei popoli a partire dalla Respublica Christiana del medioevo e dalla successiva cosiddetta “repubblica europea dei letterati”. In realtà il principio federale e confederale è sempre subordinato a quello statuale: esso ha valore soltanto quando è inserito in una formazione politica coesa capace di esercitare egemonia, “ordine” e “sicurezza” all’interno e forza espansiva verso l’esterno.
Mises osserva che, in Renan, Nazione e Stato risultano praticamente sinonimi. La nazione nasce dalla volontà degli uomini di vivere insieme in uno “stato” comune, ovvero dal diritto inalienabile delle popolazioni di decidere autonomamente del proprio destino. Ma il diritto all’autodeterminazione di cui parla Renan non è un diritto all’autodeterminazione delle comunità linguistiche bensì degli individui. In ossequio ai fondamenti del liberalismo Renan non dà peso alle minoranze e alle migrazioni nazionali, ma, piuttosto, alla volontà di un popolo, che pur risultando delimitato da una autorità statuale, può essere inteso sempre e solo come una somma di “liberi individui”.
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Nel suo saggio Appropriazione/Divisione/Produzione del 1953 Carl Schmitt inizia con alcune precisazione etimologiche e terminologiche. Le parole tedesche Nehmen e Teilen hanno il significato rispettivamente, a partire dal fatto dell’appropriazione, di “prendere” e “divisione” con riferimento al concetto di “partecipazione”. Weilen, invece, rimanda all’idea di “produzione”, a partire del significato arcaico di “pascolare”, con allusione ad un originaria economia nomade riferita alla tradizione germanica antica. Il termine greco Nomos si riferisce normalmente alla nozione di “legge”, come legge scritta oppure come costume e/o consuetudine; la parola si oppone anche a Physis in quanto caratterizzante ciò che ha “valore”. In quanto derivata dal verbo Nemein la parola Nomos ha, però, le sue radici in un concetto almeno apparentemente molto diverso come “prendere”, “conquistare” e da qui il suo collegamento con il termine tedesco Nehmen. L’associazione del verbo Nemein e di Nomos, secondo Schmitt, può essere collegata, per analogia, a Legein e Logos, con i loro corrispettivi tedeschi Sprechen e Sprache, i cui significati sono traducibili sostanzialmente con “parlare” e “lingua”. Il Nomos sembra possa essere letto, perciò, come la “parola” che sanziona e stabilisce formalmente il momento dell’appropriazione e della conquista. Così Schmitt afferma:
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Dal verbo greco Nemein – e dalle parole tedesche Nehmen, Nahme – nel senso di cui sopra proviene, in secondo luogo, lo “spartire”, il “dividere” (Teilen) e da questo anche il “distribuire” e, in ultima istanza, il “giudizio” come “fatto” sociale (Ur-Teil) ed il suo risultato. Schmitt introduce, poi, una lunga citazione da il Leviatano di Hobbes:
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Ma, in terzo luogo, da Nemein deriva ancora la nozione del coltivare/produrre (Weiden), del lavoro produttivo fondato sulla proprietà personale. La giustizia commutativa (l’acquisto, lo scambio) e quindi l’eguaglianza formale degli attori nel mercato presuppone una proprietà che nasce, secondo uno schema che rimanda al diritto naturale, da una divisione “primitiva” coordinata con una corrispondente produzione. Da Nemein “derivano”, quindi, i fenomeni economico-sociali del coltivare, dell’agire economicamente, dell’utilizzare, del produrre così che si può dire che in ogni ordine giuridico e sociale organizzato politicamente si è preso, diviso e prodotto. Questi atti sociali sono il fondamento – in un approccio, diverso da quello schmittiano, denominato comunemente col termine “istituzionalismo” – di quell’agglomerato di istituzioni reali ed effettive che vengono tenute assieme dal potere statuale e che sono caratterizzate da un corpo sociale, da una organizzazione gerarchica e da un sistema normativo disciplinante il funzionamento delle istituzioni stesse. Comunque, a questo punto, Schmitt si domanda:”Dove e come si svolgono gli atti del prendere, dividere e produrre?” Fino al XVIII secolo e alla Rivoluzione Industriale si pensava che l’appropriazione dovesse precedere la “divisione” e la produzione. L’appropriazione veniva intesa come un atto eminentemente politico: essa si presentava come guerra verso l’esterno e come messa al bando, privazione di diritti, spoliazione nei conflitti interni ai vari corpi politici statuali. Essa si presentava come una serie di azioni esercitate tramite la forza coercitiva e, quindi, come un processo non particolarmente differente da quello che caratterizzava l’accumulazione originaria vista all’interno della teorizzazione marxiana. Successivamente, secondo Schmitt, tutti gli ordinamenti e i rapporti giuridici concreti che conseguivano all’acquisizione della terra “sorgono solo dalla divisione, dal mio e il tuo delle stirpi, tribù, gruppi e individui”. Nell’antichità e nel medioevo anche la “divisione” si presenta come un atto di forza, nella forma di guerre e conquiste spesso determinate nel loro risultato dalla “sorte” e culminanti in un ideale “giudizio di dio”. A proposito del colonialismo e dell’imperialismo Schmitt riferisce che per Chamberlain essi rappresentavano la soluzione della questione sociale mentre in Lenin l’appropriazione così intesa doveva essere considerata come un atto di predazione e usurpazione. In maniera corrispondente il socialismo viene qui inteso, non del tutto scorrettamente dal suo punto di vista, secondo una formula pseudo-leniniana che l’interpretava come “sviluppo delle forze produttive, pianificazione ed elettrificazione”. Liberalismo e socialismo darebbero il primato, entrambi, alla produzione e alla distribuzione. Lo sviluppo delle forze produttive “libere”, o “centralizzate”, comporterebbe un aumento tale della produzione, e quindi della massa dei beni di consumo, che porrebbe termine ai conflitti “violenti” per l’appropriazione e al problema dell’equità della “divisione”. In questa ottica, liberale e socialista ad un tempo secondo Schmitt, lo sterminato aumento della produzione mediante la tecnica – ma sarebbe meglio parlare di tecnoscienza – relegherebbe l’”appropriazione” a una sorta di residuo atavico del diritto primordiale di preda, retaggio di una età di miseria. Nel liberalismo, tramite l’aumento delle produzione e del consumo, si risolverebbe la questione sociale mentre nel comunismo, come compimento del socialismo, il telos sarebbe rappresentato dall’aspirazione ad una giusta divisione e distribuzione, ad una redistribuzione che può essere resa possibile solo da una sovrabbondanza di beni. Al di là delle utopie sulla fine della “scarsità” rimane comunque da affrontare un reale problema di divisione e redistribuzione che mette in gioco anche la possibilità di limitazioni e regolazioni dei diritti dei privati alla proprietà, in senso egualitario, partendo da processi politici “democratici” in cui la partecipazione della maggioranza dei cittadini – compresi i membri di gruppi normalmente “esclusi” – alle decisioni politiche avrebbe un ruolo decisivo. Schmitt inizia poi un breve excursus descrivendo alcuni aspetti dei movimenti socialisti a partire dai cosiddetti “utopisti”. Fourier vede la possibilità della realizzazione di una società di giusti e eguali per mezzo di una organizzazione (falansteri) che permetterebbe la realizzazione di una produzione illimitata fondata su uno sviluppo tecnoscientifico incessante. In Proudhon, viceversa, prevale il moralismo, così che la giustizia troverebbe la sua realizzazione in una redistribuzione della proprietà in piccole quote permettendo, perciò, ai lavoratori di rimanere autonomi come liberi produttori – nell’illusoria ipotesi che la piccola produzione mercantile possa permanere indefinitivamente – premiando per l’appunto la laboriosità a detrimento degli oziosi parassiti e dei rentier. Di fronte a questi cosiddetti utopisti si pone Marx che porterebbe avanti la tesi dell’irrazionale tendenza del capitalismo a non redistribuire beni e servizi nonostante che i rapporti di proprietà siano ormai divenuti obsoleti a causa dell’aumento rapido e continuo della produzione. In Marx sarebbe presente, però, anche l’idea dell’appropriazione che si presenta, in effetti, nella forma della riappropriazione a spese dei rentier parassitari. A questo rivoluzionamento seguirebbe una “divisione” e una produzione adeguata e conforme. Così in Marx il momento decisivo è rappresentato dalla “espropriazione degli espropriatori” ovvero dalla “appropriazione industriale” e dalla riconquista del possesso dei mezzi di produzione da parte della massa dei lavoratori. In maniera molto acuta Schmitt pone, poi, un problema che è stato sviluppato in maniera notevole da La Grassa nella sua rivisitazione critica del pensiero di Marx:
<<Tuttavia, tutti i sistemi economici e sociali costruiti sulla base della mera produzione contengono in sé qualcosa di utopico. Se davvero non vi sono altro che problemi di produzione e la semplice produzione dà origine ad una tale ricchezza e a possibilità di consumo così estese che né l’appropriazione né la divisione costituiscono più alcun problema, in tal caso vien meno la stessa attività economica come tale, poiché quest’ultima presuppone sempre una certa scarsità>>.
Un’ altra tesi errata già considerata dal giurista tedesco e che viene in qualche modo riproposta anche nel nostro periodo storico, in quanto caratterizzato dalla mondializzazione e dalla globalizzazione – anche se dominate in questa fase da conflitti multipolari che dimostrano la debolezza della lettura liberale e “cosmopolitica” dei fenomeni suddetti – concerne l’idea che l’”appropriazione” perda d’importanza con l’espansione globale delle relazioni capitalistiche che porterebbero, nell’ottica della retorica liberale classica, a sviluppare una “cooperazione competitiva” in un “sistema commerciale universale” . Nel marxismo questa tesi era, in certo qual modo, esemplificata negli scritti di Rosa Luxemburg ma più in generale essa appare alimentata da una visione che interpreta il conflitto per la supremazia come un effetto di relazioni estrinseche tra forze separate e irrelate che solo casualmente entrano in contrasto. Lo squilibrio incessante, come afferma La Grassa, caratterizza invece tutte le dinamiche di lotta che vengono a generarsi tra gruppi e comunità di individui, statuali o sub-statuali che siano, così che il momento del Nomos – come legittimazione ad intraprendere un azione di ostilità nei confronti dell’avversario per la supremazia economica, territoriale e politica – viene a fondersi con l’agire “politico” in quanto momento che stabilisce la distinzione tra il nemico privato (inimicus) e quello pubblico (hostis). Nel primo tipo di conflitto, quello “privato”, viene a svilupparsi una competizione per quote di mercato, in un ambito solidale di accettazione di regole (e violazione implicite delle stesse) comuni, che vede la centralizzazione dei capitali come risultato di una dinamica impersonale nella quale i soggetti giocano una partita in cui anche gli sconfitti accettano le regole del gioco. All’interno degli Stati-nazione succede però, in determinate congiunture, che quelli che erano soltanto dei nemici privati, a seguito di varie coalizioni tra loro, e successivamente all’acutizzazione di svariate tipologie di conflitti si trasformino l’uno rispetto all’altro in “nemici pubblici”, in nemici dal punto di vista “politico”. I gruppi sociali dominanti all’interno di una formazione sociale particolare difficilmente sono individuabili nelle loro interrelazioni, che implicano schieramenti potenzialmente conflittuali, sino a quando non si faccia avanti una situazione di antagonismo estremo. Solo quando si entra nella situazione in cui il contrasto diventa quasi una “guerra civile” (quella che Agamben analizza a partire dalla parola greca stasis) i gruppi e le coalizioni sociali assumono una forma e una visibilità politica e gli attori del conflitto, che prima si potevano stimare solo in “potenza”, diventano protagonisti dell’atto “politico” decisivo (per la supremazia). Riassumendo, di passaggio, alcune osservazioni tratte da una recensione al suo saggio, intitolato Stasis. La guerra civile come paradigma politico, ricordiamo che il termine stasis, secondo la lettura di Agamben, risulta all’inizio particolarmente ambiguo perché va ad indicare tanto il concetto di immobilità, stabilità e mantenimento dello status quo, quanto quello di sedizione, rivolta e infine rivolgimento politico. Nella sua prima accezione, il termine giunge fino ai nostri giorni nelle forme note di stato ed istituzione (entrambi derivando, come lo stesso termine stasis, dal radicale “–sta” del verbo greco hìstemi [N.d.R. Da internet:<>]. Agamben arguisce però che nel suo secondo senso, il lemma ricade di fatto in una forma di ambiguità concettuale, in base alla quale la guerra civile esulerebbe tanto dall’oikos (ossia dal focolare domestico), quanto dalla pòlis (ossia dalla collettività urbana). Essa sarebbe quindi la zona di indifferenza tra lo spazio impolitico della famiglia e quello politico della città: «nel sistema della politica greca, la guerra civile funziona come una soglia di politicizzazione o di depoliticizzazione, attraverso la quale la casa si eccede in città, e la città si depoliticizza in famiglia» (p.24). In definitiva, la stasis opera come un reagente che rivela l’elemento politico nel caso estremo, ossia come una soglia di politicizzazione che determina di per sé il carattere politico o impolitico di un certo essere. Schmitt comunque ribadisce che le costituzioni politiche, e quindi lo stesso potere costituente, si intrecciano e derivano dall’appropriazione in quanto fenomeno “primario” per cui lo stesso divenire storico non sarebbe altro che il progresso nei mezzi e nei metodi dell’appropriazione. Lo stesso Stato amministrativo – uno dei quattro tipi ideali di Stato secondo il pensatore tedesco – rispetto al quale lo “Stato sociale” rappresenterebbe solo una specificazione, presuppone l’appropriazione di ciò che, poi, viene redistribuito. La relazione e il legame tra il “politico” e il Nomos, intesi nel senso di cui sopra, si oppone al modello dello Stato legislativo inteso come Stato di diritto nella tradizione liberale classica. La legalità, considerata come mera procedura e forma, nel momento in cui surdetermina l’atto politico in quanto creatore ed effetto, ad un tempo, di ogni ordinamento legittimo, impedirebbe l’affermarsi della democrazia “sostanziale” la quale presuppone che il popolo-nazione si presenti come una entità omogenea. La democrazia “identitaria” così intesa, quando si “realizza”, promana da una autorità che “trascende” le singole volontà individuali – in quanto transustanziazione mistica della nazione “una” e “unica” – e tale da risultare, a tutti gli effetti, un potere legittimo che si afferma come indiscusso e indiscutibile agli occhi delle masse. Ma nell’epoca della fine della filosofia, e in particolare della filosofia politica, il politico, inteso come “guerra” per la supremazia e il potere, ha spazzato via ogni ricerca problematizzante di senso legata a considerazioni razionali sul valore dei vari regimi politici ritenuti possibili e/o auspicabili. La politica, come scienza, deve ormai partire dalla contrapposizione tra gruppi sociali alleati tra loro che rappresentano l’antagonista nella modalità del nemico “pubblico” (hostis). Il sistema globale capitalistico a predominanza Usa ha ancora bisogno, però, dell’enorme copertura ideologica in cui viene affermato come dogma la presunta congruenza e armonia prestabilita tra diritto e legge, giustizia e legalità, contenuto e procedura. Questo “corpus” dogmatico viene portato avanti dal pensiero giuridico dominante e dagli estensori e cultori del sistema internazionale dei diritti umani “sacri e inviolabili”. Per concludere e riallacciandomi alla parte iniziale di questo discorso proponiamo la tesi che la nazione – all’interno di uno Stato con gruppi sociali diversi per cultura, lingua, etnia, ecc. – si coagula e costituisce divenendo un popolo solo quando una maggioranza, formatasi storicamente, della popolazione, stabilisce che la minoranza rappresenta, rispetto a essa, il “nemico pubblico” (hostis). Il popolo diviene “nazione” nel momento in cui si identifica, per opposizione, rispetto ad una minoranza che nei casi estremi deve essere “scacciata”, “schiacciata” o comunque “esclusa”, cioè ridotta a un livello di estrema sudditanza.

GLOBALIZZAZIONE E STATI NAZIONALI_ LA NAZIONE E LO STATO: UNA GRANDE ILLUSIONE DEI POPOLI, DI LUIGI LONGO

LA NAZIONE E LO STATO: UNA GRANDE ILLUSIONE DEI POPOLI, DI LUIGI LONGO
LA ROTTURA TEORICA DEL CONFLITTO STRATEGICO. TEMPO E SPAZIO DELLA RICERCA.
Quello presente è il secondo dei quattro saggi e della introduzione presentati in un convegno a tema di metà aprile 2016 dal sito www.conflittiestrategie.it del quale hanno fatto parte sia Luigi Longo, relatore del presente saggio che il titolare di questo sito, Giuseppe Germinario. Il saggio è già apparso sul sito promotore del convegno e potrete trovarlo comodamente unitamente agli atti restanti, quando ripubblicati, nella sezione DOSSIER-GLOBALIZZAZIONE E STATI NAZIONALI in basso a destra della pagina di questo sito. Buona lettura.

Il grande principio che le moderne istituzioni debbono
favorire è quello di tenere a bada le classi povere dando
però la possibilità di farsi strada alle intelligenze superiori
che vi si trovano, ma insieme quello di assicurare la tranquil-
lità delle classi agiate.
Honorè de Balzac*

I vari momenti dell’accumulazione originaria si distribuiscono ora, più o meno in successione cronologica, specialmente fra
Spagna, Portogallo, Olanda, Francia e Inghilterra. Alla fine del
Secolo XVII quei vari momenti vengono combinati sistematicamente in Inghilterra in sistema coloniale, sistema del debito pubblico, sistema tributario e protezionistico moderni. I metodi poggiano in parte nella violenza più brutale, come per es. il sistema coloniale. Ma tutti si servono del potere dello Stato, violenza concentrata e organizzata dalla società, per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico e per accorciare i passaggi. La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. E’ essa stessa una potenza economica.
Karl Marx*

La nazione esiste.[…] Dal momento infatti che il << nazionalismo >> è stato storicamente un prodotto della costituzione delle borghesie in stato (lo stato nazionale, appunto), si è diffusa a lungo l’opinione per cui il proletariato non ha nazione, ma soltanto internazionalismo e rivoluzione.[…] Ebbe invece ragione a suo tempo Stalin, in un saggio pubblicato nel 1914 e approvato da Lenin, quando definì la nazione << una comunità umana stabile, storicamente costituita, nata sulla base di una comunanza di lingua, territorio,, vita economica e formazione psichica che si traduce in comunità culturale >>.
Costanzo Preve*

Premessa

La rottura teorica del conflitto strategico di Gianfranco La Grassa apre strade interessanti per nuovi scenari paradigmatici capaci di leggere sempre più in profondità la coda[1] (1) della realtà e di approntare, con dovute mediazioni relazionali, analisi di fase interessanti foriere di possibili pratiche politiche strategiche.
La rottura teorica, a mio avviso, si orienta in tre direzioni: 1) la eliminazione della relazione verticale tra struttura ( la base produttiva) e sovrastruttura ( relazioni sociali, politiche, ideologiche, culturali, eccetera) prevalentemente a base economica (produttiva e finanziaria) sia pure intesa come rapporto sociale [ciò non inficia completamente la validità dell’affermazione di Karl Marx << Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza >> (2) ]; 2) l’importanza degli agenti strategici dominanti sia delle diverse sfere sociali sia dell’insieme dei rapporti sociali della nazione nelle fasi di storia mondiale (monocentrica, multipolare, policentrica); 3) la concezione dello stato, inteso come luogo e strumento, interno non esterno alle relazioni sociali, ai rapporti sociali dove gli agenti dominanti egemoni realizzano le loro strategie di potere e di dominio sia a livello nazionale sia a livello mondiale.
All’interno di questo quadro interpretativo del conflitto strategico avanzerò alcune riflessioni sullo Stato; le suddette tre direzioni verranno, inoltre, trattate sinteticamente attraverso un caso di studio (che necessita di approfondimenti) su una impresa che era strategica per il nostro Paese: l’Ilva di Taranto.
A proposito di storia locale o casi di studio strategicamente individuati e studiati[2]), riporto dalla prefazione di Benedetto Croce al libro di Giuseppe Carlo Speziale (3) quanto segue: << Ecco un bel libro di storia, intelligente e vivo. E la vita e la chiarezza d’intelligenza gli vengono dal pensiero dell’autore, che tutte le vicende di Taranto, anche quelle edilizie, narra e lumeggia in relazione con l’ufficio militare e assegnato alla città dalla situazione geografica e dallo svolgimento della politica nel Mediterraneo. Si prova di frequente una sorta di diffidenza verso i libri che si chiamano di storia locale o municipale, giudicandoli di scarso o nullo interesse a causa dell’angusto campo in cui si aggirano. Senonchè non meno scarsi o privi di interesse riescono tanti volumi di storia nazionale o universale, quantunque si spazino in amplissime distese; e ciò mostra che il difetto non è già, né potrebbe essere, nella materia storica, sì invece soltanto nel modo incoerente e superficiale onde, in quei casi, è stata considerata […] appunto perché […] non è stata riportata e ricongiunta ai complessi storici a cui appartiene >> [ pp. 7-8].
Il problema diventa la priorità strategica di storia locale o casi di studio che si dà all’interno di una riflessione teorica che di volta in volta si affronta. Il mio caso di studio iniziale sull’Ilva di Taranto si inquadra nella logica del paradigma del conflitto strategico di Gianfranco La Grassa che permette di analizzare, sia nella teoria, sia nella pratica sia nella pratica politica, una situazione concreta della realtà per possibili azioni di pratiche politiche[3].

1. Cosa non sarà

Avverto subito che non sarà una ri-costruzione storica sulla nascita dello stato dalle origini fino ad oggi sia in occidente sia in oriente, cioè, una narrazione che inizia dallo Stato di Dio di Agostino il cui fondatore e sovrano è Cristo (4) allo Stato del conflitto strategico i cui fondatori e sovrani provvisori e dinamici sono gli agenti strategici dominanti (5). Né sarà una analisi sui diversi stati dei diversi capitalismi [per esempio, lo stato cinese[4] è differente da quello statunitense; nel primo ha inciso molto il peso che ha avuto la fase matriarcale e Mao Tsetung ne era molto consapevole più di Karl Marx, di Friedrich Engels e di Vladimir Il’ič Ul’janov (Lenin) (6); nel secondo ha inciso molto la peculiare forma di costituzione della nazione fondata sull’influenza della civiltà spagnola, francese, olandese e inglese (7) ]. Né sarà una analisi delle diverse concezioni dello stato nelle diverse teorie e dottrine che caratterizzano la “conoscenza” della società data [lo stato giuridico, le teorie contrattualistiche, le teorie costituzionaliste, eccetera per non parlare della concezione dello stato liberale, keynesiano e marxista]. Tutto ciò è tenuto sullo sfondo del ragionamento con la consapevolezza che occorre un lavoro immane di ri-pensamento e ri-costruzione critica che può essere svolto solo da un gruppo multidisciplinare.

2. Allora perché lo stato.

Le questioni da affrontare sono molte:
1. dalla conoscenza dei luoghi di potere e dominio allo svelamento dell’interesse generale e di un astratto luogo di potere della classe dominante;
2. dai luoghi del blocco politico e sociale dominante in costante disequilibrio agli strumenti del dominio nelle fasi unipolare, multipolare e policentrica;
 dalla costituzione del blocco politico e sociale degli agenti strategici pre e sub-dominanti come sintesi degli agenti strategici dominanti nelle diverse sfere sociali con relativo ruolo delle sfere egemoni ( fasci di luce che illuminano) alle relazioni interstatali tra le aree mondiali con i loro diversi ordinamenti statali;
1. dalle relazioni geo-politiche, geo-economiche, geo-territoriali al ruolo delle potenze mondiali con le aree di influenza (regioni, poli).
Mi interessa, però, discutere della problematica della sovranità perché in questa fase di multipolarismo da mobilità oscillante è strategicamente prioritaria.

3. Chi è lo Stato

Leggo lo Stato ( va da sé che faccio riferimento a quello italiano come modello), con le sue strutture di funzionamento ( parlamento, governo, pubblica amministrazione, organi ausiliari, magistratura) e le sue articolazioni territoriali istituzionali ( enti locali, enti intermedi, eccetera- le casematte gramsciane[5]-), come luogo e strumento di potere e di dominio per la realizzazione degli obiettivi degli agenti strategici dominanti nel conflitto strategico per l’egemonia nella società storicamente data.

4. Potere e dominio

Il potere vero quello che produce dominio è sempre ben nascosto[6]. Tant’è che lo respiriamo e non ce ne accorgiamo. Gli strumenti statali, con le loro articolazioni territoriali, diventano sempre più macchine complesse per gestire e organizzare il dominio dell’intera società. Il dominio per realizzarsi ha bisogno di emergere attraverso processi istituzionali e produrre ordine simbolico della società data: è un processo di lunga durata [vedasi i vari modelli egemonici mondiali espressi dalle potenze predominanti nelle diverse fasi della storia mondiale (8)]. A questo proposito diventa fondamentale capire quali sono gli agenti strategici dominanti. Mi permetto una digressione: non faccio distinzione tra agenti strategici dominanti nella sfera privata e quelli nella sfera pubblica, tra quelli che delinquono legalmente[7] e quelli che delinquono illegalmente[8] (9), perché l’intreccio è tale che non ha senso la distinzione. Esempi calzanti sono: il ruolo della Confindustria nella filiera del potere-dominio privato-pubblico; le funzioni degli enti locali nel programmare e gestire il potere-dominio; il ruolo della criminalità organizzata come soggetto politico (10): in quest’ultimo esempio per sottolineare la qualità del denaro come espressione e mezzo di rapporto di potere mi piace ricordare quanto detto dall’imperatore Vespasiano al figlio Tito che lo svergognava perché aveva messo una tassa persino sugli orinatoi, mise sotto il naso il primo denaro ricavato, chiedendogli se l’odore gli dava fastidio; e dopo che questi gli ebbe risposto di no, soggiunse Eppure viene dall’orina! (10*). Dicevo degli agenti strategici dominanti che producono dominio[9], attraverso il potere nelle diverse sfere sociali soprattutto quelle dominanti a seconda delle fasi storiche (monocentrica, multipolare e policentrica), sull’intera società. I gruppi di interessi particolari nazionali o mondiali producono potere non dominio. Il dominio delle potenze mondiali non viene certamente prodotto dai gruppi di potere.

5. Società, nazione, popolo, stato

La società storicamente data è la nazione con le sue specificità e peculiarità storiche, culturali, sociali, territoriali, economiche e politiche. Anche se mi rendo conto che vi è l’esigenza di ri-cercare un nuovo concetto in grado di racchiudere meglio l’idea di nazione ( per es. Paese) tenendo presente la interconnessione dei concetti ( la teoria) e del vissuto ( la pratica) nel tempo e nello spazio (11).
Intendo per nazione un popolo, una comunità ( un insieme di persone sessuate, di gruppi sociali sessuati) che vivono su un determinato territorio storicamente delimitato[10]. In essa si creano le istituzioni, le regole e gli strumenti di produzione e controllo delle stesse che chiamiamo Stato con le sue articolazioni territoriali. Non mi interessa adesso discutere chi produce e fa le regole[11] e l’influenza dei modelli sociali egemoni dei pre-dominanti mondiali (per esempio l’americanizzazione della vita italiana ed europea[12]). Mi interessa capire come si produce autonomia nazionale avendo sullo sfondo (non tanto, per adesso) le relazioni mondiali in fase di multipolarità per il configurarsi di stato-potenze in grado di mettere in discussione l’egemonia mondiale degli USA che sta perdendo la funzione di centro di coordinamento mondiale. Non solo, ma, mi interessa capire come si rapporta l’autonomia nazionale all’Europa, che è diventata, diciamo dalla seconda guerra mondiale, una espressione geografica degli USA (estendo all’intera Europa la definizione che il cancelliere di stato austriaco Klemens von Metternich diede dell’Italia). Altro che ruolo determinante tra occidente ed oriente e svolta politica verso quegli stati-potenze che lottano per una visione multipolare delle relazioni mondiali, come la Russia e la Cina! Inoltre, non discuterei, per ora, degli agenti strategici dominanti e sub-dominanti che danno le carte dei rapporti sociali; mi interessa, piuttosto, porre la seguente domanda: gli strumenti istituzionali, i luoghi istituzionali che sono fatti di violenza e consenso, che attraversano tutte le sfere della società e sono interni non esterni ai rapporti sociali, come vengono agiti, modificati, modellati per il controllo e la gestione del potere e del dominio[13] ?. Gli agenti strategici dominanti, storicamente dati, si sono costruiti questi strumenti di potere e di dominio per la loro egemonia interna (agenti pre-dominanti e sub-dominanti) ed esterna (le grandi Potenze) e sono stati così acuti da costruirsi anche istituzioni di coordinamento dei poteri per imporre e gestire la propria egemonia (i greci e i romani in questo sono stati maestri). Coordinamento non significa separazione dei poteri che è una illusione storica come ha dimostrato Louis Althusser rileggendo Montesquieu attraverso Charles Eisenmann (teorico del diritto) << …in realtà Montesquieu non aveva parlato affatto di separazione, bensì di combinazione, di fusione e di collegamento dei poteri…>> (12).

6. Potere di parte e dominio dell’insieme

Uso il termine potere per intendere una forma di rapporti di forza finalizzato all’accrescere delle proprie capacità di incidere nella società ed è limitata ai gruppi sociali che dispongono dei mezzi di produzione e di flussi finanziari (sfera economica produttiva-finanziaria), di strumenti politici ( sfera politica), di sistemi culturali e ideologici ( sfera culturale), eccetera.[ per esempio gli agenti strategici dominanti o sub-dominanti nelle singole sfere sociali[14], le èlites di potere (13) ].
Utilizzo il termine dominio per delineare una egemonia sociale (nell’accezione gramsciana, cioè consenso e coercizione) da parte degli agenti strategici dominanti o sub-dominanti costituitosi in blocco sociale come supremazia sugli agenti strategici delle diverse sfere sociali.
La filiera del potere è diversa nelle singole sfere sociali e il dominio dell’insieme sociale di una nazione è diverso, è altro dal potere delle sfere sociali.
Gli agenti dominanti egemoni (blocco sociale), una sorta di coordinamento dell’equilibrio dinamico[15] tra i diversi agenti strategici delle differenti sfere sociali, realizzano, nelle diverse articolazioni e nei diversi luoghi istituzionali dello Stato, velano le loro strategie con l’illusione dell’interesse del popolo o dell’interesse generale[16] costruendo ordine simbolico sociale.

7. Volontà di potenza

Ipotizzo che il motore del conflitto strategico sia dato dalla “volontà di potenza”, dalla relazione di potere e di dominio che trova la sua essenza primaria nella relazione tra i sessi. In particolare, dalla forma violenta della oppressione maschile su quella femminile (egregie sono le sintesi storiche di questa fase di passaggio sia nella letteratura maschile sia in quella femminile; un esempio per tutti: l’urbanista e sociologo statunitense Lewis Mumford (14) e l’archeologa inglese Margaret Ehrenberg (15).
La volontà di potenza[17] esprime la necessità del potere e del dominio (lunga è la filiera di costruzione di tale concetto da Tucidide a Macchiavelli, da Platone a Hobbes, da Shakespeare a Balzac, eccetera). Tutte le relazioni sociali storicamente date (dalle micro – la famiglia-, alle macro – lo Stato) esprimono questa volontà di potenza. Nei momenti di transizione, di passaggio da un’epoca ad un’altra, da un ordine ad un altro, è stata sempre usata violenza inaudita per la conquista del dominio. Perché? E perché, nonostante queste forme di violenza, c’è un qualcosa che salvaguarda il genere umano sessuato (non sto facendo una riflessione naturalistica, di conservazione, eccetera)?

8. Volontà di armonia

La mia ipotesi è che il pensiero deve ri-partire dalla prima forma di Stato, originatosi con la violenza, nel passaggio dalla fase matriarcale a quella patriarcale[18]; organizzazione statale che né Karl Marx né Friedrich Engels colgono quando collocano l’origine dello Stato nella necessità di proteggere la proprietà privata. E’ questo atto di violenza che ha avuto bisogno di una forma organizzata statale per esercitarsi, che ha permesso il passaggio da un fase egemonizzata dalla “volontà di armonia” (intesa come tensione e condivisione di relazioni e rapporti sociali) ad una dove domina la “volontà di potenza”. E’ nella “volontà di armonia” che va cercata la non “volontà di potenza”.
Storicamente l’uso della forza non sempre è stato il motore della storia. Vi è stato un periodo storico (sostanzialmente il neolitico) dove la prevalenza del pensiero femminile non solo è stato determinante per lo sviluppo dell’umanità ma ha segnato nel profondo l’umanità stessa senza la necessità prevalente della forza. Su questi temi sia Karl Marx sia Friedrich Engels (soprattutto) erano molto sensibili. Poi, il perché Karl Marx (soprattutto) approfondì lo studio delle relazioni sociali della produzione e non anche quello delle relazioni sociali della riproduzione (insieme sono i fattori determinanti del processo di trasformazione umana storicamente intesa) è tutta un’altra questione che interessa, a mio avviso, anche la nascente teoria del conflitto della razionalità strategica (16). Perché Karl Marx ha privilegiato l’aspetto della produzione (sia pure come rapporto sociale)? Perché grandi studiosi, acuti e intelligenti come Karl Marx ed Friedrich Engels non colgono l’aspetto della riproduzione sociale complessiva dove per forza si sarebbero imbattuti nell’altro soggetto della storia, la donna? Sfugge loro anche l’aspetto che la donna è creatrice di quell’individuo sessuato che diventa la merce per eccellenza, fondamentale per lo sviluppo della società a modo di produzione capitalistico, cioè la forza-lavoro? Perché, parafrasando il titolo di uno degli ultimi libri di Gianfranco La Grassa, non bastano centocinquant’anni per uscire da Karl Marx con Karl Marx? Svilupperò in un altro momento questa fondante questione, per il momento mi basta segnalarla.

9. Sovranità

Con la fine della seconda guerra mondiale l’Italia, insieme all’Europa intesa come sommatoria di Stati (17), perde la propria sovranità a favore della potenza egemone dell’Occidente, cioè gli USA usciti vincitori dalla guerra e sostituitisi all’egemonia mondiale inglese (18).
La sovranità perduta, una sorta di servitù volontaria a favore delle strategie dominanti degli USA che aspiravano a diventare potenza egemonica a livello mondiale (aspirazione avvenuta con l’implosione dell’ex URSS e per nostra fortuna durata più o meno un decennio), si materializza attraverso quel processo di lungo periodo che va sotto il nome di americanizzazione e che già Antonio Gramsci aveva visto nel suo “Americanismo e Fordismo”[19] (19).
Questa penetrazione del modello e della visione della società degli agenti strategici dominanti statunitensi viene esportata in tutto il mondo con strumenti di egemonia (politica, culturale, ideologica) con la creazione di agenzie di governance mondiale (Onu, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, eccetera) e con la coercizione per mezzo di strumenti militari (Nato, Servizi Segreti, eccetera).
Una sovranità perduta che va inquadrata nelle diverse fasi della storia mondiale (monocentrica, multipolare, policentrica) e assume aspetti diversi a seconda delle strategie di fase della potenza egemone prima nel mondo Occidentale, poi a livello mondiale con un ruolo di coordinamento, infine nell’attuale fase multipolare avviata, dove nuove nazioni- potenze mettono in discussione questa sua egemonia. Una sovranità perduta limitata nella fase monocentrica accompagnata da una fase di sviluppo e di espansione del modello di società americana che coinvolge le nazioni europee apportando crescita e sviluppo (penso, per esempio, al Piano Marshall).
Una sovranità perduta ampiamente nella attuale fase multipolare dove la strategia del caos[20] degli USA è indirizzata a bloccare il consolidarsi di nuove potenze (Russia e Cina)[21], a ritardare il proprio declino e a rilanciare nuove sfide per riaffermare l’egemonia su basi nuove.
Parafrasando Carl Schmitt (20) si può sostenere che con l’inizio della fase multipolare è giunto al culmine anche l’ammirazione e l’emulazione del modello statunitense.
Voglio dire che abbiamo strategie diverse di dominio nelle diverse fasi storiche mondiali : monocentrica, dove prevale un dominio basato sul consenso e sulla “democrazia” ( rispetto formale della Costituzione); multipolare, dove prevale un dominio basato su una forte riduzione della democrazia e si preparano nuove forme di istituzioni per l’accentramento del potere-dominio ( modifica della Costituzione); policentrica, dove prevale la forza del dominio con annullamento della democrazia attraverso varie fasi di eccezione (annullamento della Costituzione).
Le fasi multipolare e policentrica comportano una prevalenza delle sfere politica, istituzionale e militare nella direzione di un accentramento istituzionale del potere.

10. Caso di studio: Ilva di Taranto[22]

Voglio parlare brevemente della servitù volontaria italiana nell’attuale fase multipolare attraverso un caso di studio emblematico che racchiude in sé tutti gli aspetti a) subordinazione alle strategie USA, b) americanizzazione del territorio alle esigenze strategiche USA nel Mediterraneo e nel vicino Medio Oriente, c) funzione dei sub-dominanti italiani che attraverso i luoghi e le articolazioni istituzionali territoriali creano una filiera di comando in funzione dei pre-dominanti USA.
Il caso di studio è quello dell’Ilva di Taranto.

11. Un Paese subordinato alle strategie USA

La città di Taranto è diventata una città importante per la strategia USA-NATO[23]. Una città NATO. Gli agenti dominanti USA hanno bisogno della piena disponibilità del porto di Taranto, con i suoi Mar Piccolo e Mar Grande, per le loro infrastrutture militari strategiche (sommergibili nucleari, armi, sistemi di sorveglianza)[24]. E’ da un decennio (il tempo non è da leggere in maniera lineare e deterministico) che stanno lavorando a questa trasformazione che si innerva con quelle trasformazioni messe in atto in altre basi militari USA-NATO (soprattutto nelle città Nato-Usa in Italia: Napoli, Sigonella, Niscemi, Vicenza, altre) e alla trasformazione del ruolo della NATO.
Nel porto di Taranto è localizzata, dalla prima metà degli anni sessanta del secolo scorso, l’Ilva che è evidentemente incompatibile con la strategia della trasformazione delle basi NATO.
Noto una certa analogia, da prendere con cautela e calarla storicamente, con la storia industriale della più grande acciaieria di Napoli, l’Ilva di Bagnoli. Anche qui gli obiettivi erano le esigenze strategiche e territoriali della base NATO della città di Napoli (quartier generale della NATO, sede di vari comandi di unità di servizi USA, grande centro per le telecomunicazioni del Mediterraneo dell’US Navy che coordina tutta l’attività di comunicazione, comando e controllo del Mediterraneo, eccetera). In quegli anni si svolgevano fatti di importanza mondiale per il nuovo equilibrio che si andava configurando con la caduta del muro di Berlino e con la successiva implosione dell’ex URSS. Si aprivano nuovi scenari per gli USA come possibilità di un unico centro di coordinamento mondiale e un nuovo ruolo della NATO. La chiusura dell’Ilva di Napoli per le esigenze territoriali della base del quartiere generale della NATO non poteva essere detta. Tutto fu velato dietro un fumoso progetto per il risanamento e il rilancio dello sviluppo della città di Napoli che passava attraverso il conflitto tra i settori economici (industriale, edilizio, turistico) : il progetto Fiat-Partecipazioni Statali degli anni ’80, l’idea della NeoNapoli di Paolo Cirino Pomicino, la fase di Tangentopoli, le lotte di blocchi di potere per i finanziamenti della bonifica di Bagnoli, non realizzata ( dal 2003 sono stati presentati ben 6 progetti di bonifica[25]), gli indirizzi per la pianificazione urbanistica ( impianti di eccellenza per il turismo legato al sistema congressuale alberghiero, grande parco pubblico, rete di attività produttive connesse con la ricerca scientifica, eccetera).
L’Ilva di Bagnoli, una impresa in piena salute, fu chiusa e venduta ai cinesi.
Un sindaco, Antonio Bassolino, e un urbanista, Vezio De Lucia (i nomi sono l’espressione di gruppi di potere in riferimento agli agenti sub-dominanti), gestirono la fase di velamento culturale e ideologico della grande trasformazione della città di Napoli.
Anche qui occorse un decennio per preparare la trasformazione.

12. L’americanizzazione del territorio[26]

Qui torna utile una digressione che aiuta ad inquadrare meglio i processi che portano alla trasformazione da polo siderurgico a polo strategico della NATO. Non nascondo che faccio fatica ad immaginare una Europa che si autodetermina avendo sul suo territorio una miriade di basi militari NATO e NATO-USA (la Germania ne ha 70, l’Italia ne ha 111; sono dati da aggiornare ed escludono quelle che non si sanno)[27]. E’ fuori dubbio che gli USA sono egemoni nella NATO non fosse altro perchè è la potenza mondiale che spende in armamenti più della metà degli interi Stati mondiali (900 miliardi di dollari annui). Gli USA hanno chiesto e ottenuto un aumento della << […] spesa militare dei Paesi europei che fanno parte della Nato [e] aumenterà quest’anno per la prima volta dopo quasi un decennio. Non sono stati diffusi dati ufficiali ma è certo – come ha affermato il segretario generale dell’Alleanza Atlantica Jens Stoltenberg – che le tensioni, non solo economiche, con la Russia di Vladimir Putin e la crisi dei migranti stanno facendo aumentare i problemi di sicurezza in tutto il continente. «Le previsioni per il 2016, sulla base dei dati preliminari che ci hanno fornito le Nazioni alleate, mostrano che ci sarà per la prima volta, dopo molti, molti anni, un incremento delle spese tra i Paesi europei», ha detto Stoltenberg in un’intervista al Financial Times. Una svolta ancora più significativa in vista del vertice che si terrà a luglio in Polonia per decidere i movimenti delle truppe Nato ai confini con la Russia […] Nel 2015 gli alleati europei nella Nato hanno speso per la difesa 253 miliardi di dollari contro i 618 miliardi spesi dagli Stati Uniti. Per rispettare l’accordo che prevede una spesa minima pari al 2% del Pil, i Paesi europei dovrebbero aumentare di 100 miliardi il loro budget militare annuale. Il loro contributo attuale si ferma infatti all’1,43% del prodotto interno lordo >> (21).
Così come è fuori dubbio che le strategie americane di politica estera, che ricalcano il vecchio retaggio da guerra fredda che impone supremazia militare ed economica e strategie regionali tese a proteggere incondizionatamente i Paesi alleati, porteranno, mano mano che avanzerà la fase multipolare, ad una militarizzazione delle città[28] e dei territori europei che esprime capacità militare, capacità di sicurezza e di controllo, capacità economica in funzione prevalentemente anti Russia. Non è un caso che la NATO non fu abolita una volta imploso il vecchio nemico “comunista”, ma fu rifondata probabilmente per meglio prepararsi ad un cambio di politica estera fondata sugli USA come unica potenza mondiale egemone: la nazione “eccezionale” universale. Oggi, per fortuna mondiale, non è così. La fase multipolare si va delineando e le strategie di politica estera americane fanno fatica a confrontarsi con le nascenti potenze mondiali (soprattutto Russia e Cina).
Ho già trattato la infrastrutturazione del territorio europeo in funzione della Nato[29] e le città NATO ( negli scritti summenzionati). Voglio qui aggiungere una riflessione che riguarda la nuova polizia continentale con ampi poteri, l’Eurogendfor, istituita con il Trattato di Velsen (Olanda) e approvata all’unanimità dalla Camera e dal Senato all’assemblea di Montecitorio del 14 maggio 2010 (legge n.84 il “Trattato di Velsen”). Per indicare i caratteri principali del Trattato di Velsen riporterò i seguenti passi dell’articolo di Matteo Luca Andriola:<< […] la Forza di gendarmeria europea (European Gendarmerie Force), conosciuta come Eurogendfor o Egf, che viene ora a proporsi come il primo corpo poliziesco-militare dell’Unione Europea, a cui partecipano cinque nazioni, cioè l’Italia, la Francia, l’Olanda, la Spagna e il Portogallo ai quali, in seguito, si è pure aggiunta la Romania, un’istituzione, quindi, con valenza sovranazionale.[…] Fra il 2006 e il 2007 il processo di genesi dell’Eurogendfor fa passi da gigante: il 23 gennaio 2006 viene inaugurato il quartier generale a Vicenza, la stessa città dove ha sede il Camp Ederle delle truppe Usa, divenendo operativa a tutti gli effetti, mentre il 18 ottobre 2007 viene firmato il trattato di Velsen, sempre in Olanda […]All’art. 3 si legge che «la forza di polizia multinazionale a statuto militare composta dal Quartier Generale permanente multinazionale, modulare e proiettabile con sede a Vicenza (Italia). Il ruolo e la struttura del QG permanente, nonché il suo coinvolgimento nelle operazioni saranno approvati dal CIMIN – ovvero – l’Alto Comitato Interministeriale. Costituisce l’organo decisionale che governa EUROGENDFOR». Questa nuova “super-polizia” è, recita l’art. 1 del Trattato, «una Forza di Gendarmeria Europea operativa, pre-organizzata, forte e spiegabile in tempi rapidi al fine di eseguire tutti i compiti di polizia nell’ambito delle operazioni di gestione delle crisi», al servizio, non tanto dei cittadini dell’Ue o degli Stati firmatari del Trattato (le “Parti”), ma, sostiene l’art. 5, sarà «messa a disposizione dell’Unione Europea (UE), delle Nazioni Unite (ONU), dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e di altre organizzazioni internazionali o coalizioni specifiche». Quindi un’Arma che può essere a disposizione degli Stati Uniti, dato che la Nato è, a tutt’oggi, il braccio armato di Washington in Occidente […] Colpisce, inoltre, il fatto che l’European gendarmerie force goda di una completa immunità internazionale. L’art. 4, recita che l’«EGF potrà essere utilizzato al fine di: condurre missioni di sicurezza e ordine pubblico; monitorare, svolgere consulenza, guidare e supervisionare le forze di polizia locali nello svolgimento delle loro ordinarie mansioni, ivi comprese l’attività di indagine penale; assolvere a compiti di sorveglianza pubblica, gestione del traffico, controllo delle frontiere e attività generale d’intelligence; svolgere attività investigativa in campo penale, individuare i reati, rintracciare i colpevoli e tradurli davanti alle autorità giudiziarie competenti; proteggere le persone e i beni e mantenere l’ordine in caso di disordini pubblici; formare gli operatori di polizia secondo gli standard internazionali: formare gli istruttori, in particolare attraverso programmi di cooperazione»[…] A quali casi si fa riferimento nel trattato di Velsen? A quelli inquadrati «nel quadro della dichiarazione di Petersberg». Cioè? A Petersberg, nei pressi di Bonn, si riunì il 9 giugno 1992 il Consiglio ministeriale della Ue che approvò una Dichiarazione che individuava una serie di compiti precedentemente attribuiti all’Ueo da assegnare all’Unione europea, cioè le cosiddette «missioni di Petersberg», cioè le “missioni umanitarie” o di evacuazione, missioni intese cioè al mantenimento dell’ordine pubblico, nonché operazioni costituite da forze di combattimento per la gestione di crisi, ivi comprese operazioni di ripristino della pace. Ergo, oltre all’intervento in caso di catastrofe naturale, l’Eurogendfor può intervenire per sedare delle manifestazioni in assetto da «forze di combattimento» >> (22).
Questa nuova istituzione europea di polizia continentale, che fa capo alla NATO, di controllo e sicurezza territoriale, con sede in una città NATO simbolo come Vicenza, trova comprensione in tre direzioni da approfondire: 1. Il ruolo della NATO che non è un ruolo direttamente militare (viene sempre più velato) ma economico, di sviluppo di territori, di sicurezza, di controllo, di penetrazione e di ampliamento di territori in funzione di contrasto delle potenze mondiali emergenti, soprattutto la Russia; 2. La perdita della peculiarità territoriale (di città e di territori) europea trova nel modello sociale e territoriale egemonico americano, direttamente e indirettamente tramite l’egemonia nelle istituzioni internazionali, una delle cause fondamentali del suo declino e della sua specificità storica:<< L’Europa si formò con l’emigrazione, l’America con la conquista. Per usare il linguaggio dei geologi, diremo che quella procede da alluvione e questa da azione vulcanica. E’ questo un primo tratto che differenzia la vita europea dall’americana. Eccone un altro: la civiltà dell’America fu un’opera di governo, un’impresa di Stato, un grande atto amministrativo; quella dell’Europa un’opera anonima, popolare, senza azione legislativa […] Ogni civiltà ha un’opera genuina che è la città. La città è la sintesi di una civiltà, il gesto o il ritmo che traduce la sua anima. Atene è la Grecia, come Roma è l’Impero, Firenze è il Rinascimento, Siviglia è l’anima spagnuola (New York è la modernità:” tutto ciò che è di solido, si dissolve nell’aria”, mia aggiunta) >> (23); 3.La politica di coesione e la cooperazione territoriale europea è funzionale alla strategia americana per aprire varchi ad Est risucchiando sempre più territori dalla sfera di influenza Russa ( ultimo caso: l’Ucraina).
Un esempio: si dice che << Una pluralità di questioni è associata alla coesione territoriale: il coordinamento delle politiche in regioni estese come quella del Mar Baltico, il miglioramento delle condizioni lungo le frontiere esterne orientali, la promozione di città sostenibili e competitive a livello mondiale, la lotta all’emarginazione sociale in alcune parti di regioni più ampie e nei quartieri urbani sfavoriti, il miglioramento dell’accesso all’istruzione, all’assistenza sanitaria e all’energia in regioni remote e le difficoltà di alcune regioni che presentano determinate caratteristiche geografiche.[…] Il modello di insediamento europeo è unico. In Europa sono sparse circa 5 000 città piccole e quasi 1 000 città grandi, che fungono da centri di attività economica, sociale e culturale. In questa rete urbana relativamente densa le città molto grandi sono però poche. Nell’UE solo il 7% delle persone abita in città con oltre 5 milioni di abitanti, rispetto al 25% negli USA, e solo 5 città europee sono annoverate fra le 100 più grandi città del mondo. Questo modello di insediamento contribuisce alla qualità della vita nell’UE, sia per gli abitanti delle città, che sono vicini alle zone rurali, sia per i residenti delle zone rurali, che beneficiano della prossimità dei servizi. È inoltre un modello più efficiente dal punto di vista dell’utilizzo delle risorse in quanto evita le diseconomie dei grandi agglomerati e l’elevato uso di energia e di terre che caratterizzano l’espansione urbana; tali diseconomie assumeranno dimensioni ancora più preoccupanti con il progredire dei cambiamenti climatici e l’adozione di misure per adeguarvisi o per contrastarli >> (24), questo modello così delineato cosa ha a che fare con il TTIP che è la distruzione delle aree rurali e la creazione di squilibri territoriali europei? Cosa ha a che fare con la realtà urbana e territoriale sempre più modellata su quella americana? (25).

13. Funzione dei sub-dominanti italiani

Il ruolo della magistratura. L’inizio della fine (che avrà i suoi tempi) dell’Ilva di Taranto è datato dall’azione della magistratura che il 26 luglio 2012 dispone il sequestro preventivo, senza facoltà d’uso, degli impianti dell’area a caldo dell’Ilva. L’azione è intrapresa per tutelare, con mezzo secolo di ritardo, i sacri principi costituzionali di tutela della salute dei lavoratori, della popolazione e del territorio. E’ logico pensare, considerato che la magistratura agisce sull’intero territorio nazionale, che tutti i poli siderurgici e petrolchimici abbiano lo stesso interessamento, se così non fosse rimarrebbe sempre la domanda in sospeso: perché l’Ilva di Taranto?
Se dovessimo tutelare i suddetti sacri principi costituzionali dovremmo chiudere qualsiasi impresa di produzione di merce, ma a questo punto non saremmo più nella società capitalistica. E non credo che la magistratura pensasse ad un’altra società. Infatti la sua azione sembra quella di difendere i sacri principi costituzionali elevandoli su un edificio sociale costruito con fondamenta di ingiustizie, di sperequazioni, di privilegi, di inganni, di ruberie, di pazzie e di guerre.
Giorgio Nebbia, che è un noto merceologo, ha scritto di recente che <<… la produzione dell’acciaio, come di qualsiasi altra merce, è accompagnata, inevitabilmente [corsivo mio], da scorie, rifiuti e nocività: la natura non dà niente gratis [lui essendo un merceologo si ferma alla natura e non pensa ai rapporti sociali che determinano la forma, lo sviluppo della produzione e l’uso della natura, mia critica] >> (26). Ha sostenuto un grande medico e scienziato, Giulio Maccacaro, che << …c’è un solo MAC [Massima Concentrazione Accettabile di una sostanza, mia precisazione] accettabile ed è quello zero…>> (27). Nella società a modo di produzione capitalistico non esiste un processo produttivo a MAC zero.
La magistratura sa che non ci sono le risorse finanziare per risanare e bonificare il territorio, ammesso e non concesso che ciò sia possibile!, e per questo dà la caccia al tesoro finanziario della famiglia Riva la quale metterà in campo, visto il potere che le deriva dal condurre un’impresa di livello mondiale ( il gruppo Riva nel 2011 è il primo nel settore in Italia, quarto in Europa e ventitreesimo nel mondo), tutte le sue relazioni economiche, politiche, finanziarie, istituzionali ( la grande impresa non è solo ciclo economico), per contrastare il sequestro delle sue risorse finanziarie.
La storia economica reale dei poli siderurgici e petrolchimici dimostra che c’è la privatizzazione dei benefici e la socializzazione delle perdite (umane, ambientali e territoriali).
Le risorse finanziarie che la magistratura intende confiscare alla famiglia Riva, tramite la capogruppo Riva Fire, sono pari a 8 miliardi e 100 milioni di euro. La somma stabilita equivale, secondo la magistratura, ad << …un indebito vantaggio economico all’Ilva ai danni della popolazione e dell’ambiente >> e sarebbero destinate agli interventi di risanamento e bonifica territoriale. Dalle risorse finanziarie da confiscare sono esclusi i costi per la bonifica di acqua e suolo ai parchi minerali, oltre al profitto necessario per continuare la produzione. E’ evidente che con queste condizioni l’impresa Ilva non è in grado di pianificare il piano industriale 2013-2018. Ed è evidente che il peso per contrattare a livello europeo, in una fase competitiva sempre più agguerrita [francesi, tedeschi e turchi stanno già beneficiando della crisi dell’ILVA], gli aiuti del piano siderurgico predisposto dalla Commissione Europea sarà pari a zero, per non parlare del ruolo, nella sostanza assente, dello Stato italiano. Ricordo che l’Ilva è stata decapitata del gruppo dirigente strategico e tecnico.
A Napoli fu la sfera economica, intrecciata alla sfera ideologica, la teste di ariete per la base NATO, a Taranto è la sfera della magistratura, innervata alla sfera ideologica, ad essere la testa di ariete della NATO.

Il ruolo del governo. L’Ilva, è utile ricordarlo, è una impresa di livello mondiale, con il più grande impianto siderurgico d’Europa, che produce acciaio, una merce base dell’economia italiana e mondiale. E’ un’impresa strategica per l’economia italiana. Ha una occupazione diretta di circa 12 mila lavoratori, a cui deve aggiungersi un indotto strettamente collegato sul piano verticale che porta l’occupazione diretta a oltre 15 mila unità. A questo dato devono sommarsi 9.200 unità legate all’indotto, per un totale complessivo di occupazione pari a oltre 24 mila occupati.
L’intervento del governo si concentra in tre direzioni: a) l’esproprio di una grande impresa (con la beffa del richiamo agli articoli 32, 41 e 43 della Costituzione, mai vista nella storia dell’industria italiana); b) la bonifica dell’ambiente, la tutela della salute e la salvaguardia del territorio; c) l’applicazione dell’ AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) al processo produttivo dell’Ilva, anticipata e integrata con le migliori tecnologie disponibili da impiegare nel settore della siderurgia a livello europeo per assicurare la protezione dell’ambiente e la protezione della salute così come da decisione della Commissione Europea 2012/135/UE ( la Commissione Europea dà tempo fino 2016 per uniformarsi)[30].
La domanda viene spontanea: perché anticipare di tre anni il recepimento della suddetta decisione della Commissione UE creando uno squilibrio nel mercato della concorrenza tra le imprese del settore siderurgico (scusate il linguaggio neoclassico)? E il recepimento della suddetta decisione della Commissione Europea nell’AIA non significa non rendere competitiva l’Ilva e avviarla alla chiusura? E’ questo il modo di difendere un’industria strategica da parte del governo italiano?
Andiamo avanti nel ragionamento.
Tutto questo, ovviamente, avverrà di pari passo con la elaborazione del piano industriale per il rilancio dell’Ilva e del piano ambientale per la tutela del territorio (città, mare e territorio rurale) e della salute dei lavoratori e della popolazione.
Così ragiona il ministro dello sviluppo economico Flavio Zanonato: << Il costo di un’eventuale chiusura dell’impianto avrebbe conseguenze negative gravi sul piano economico e, comunque, determinerebbe il consolidamento di una situazione che, secondo i magistrati di Taranto, è da considerarsi di disastro ambientale. L’impatto economico negativo è stato valutato attorno ad oltre 8 miliardi di euro annui, imputabili per circa 6 miliardi alla crescita delle importazioni, per 1,2 miliardi al sostegno al reddito ed ai minori introiti per l’amministrazione pubblica e per circa 500 milioni in termini di minore capacità di spesa per il territorio direttamente interessato. In una fase di calo globale del mercato, è evidente che l’eventuale uscita dello stabilimento di Taranto sarebbe guardata con estrema soddisfazione dai maggiori competitor europei e mondiali, che vedrebbero aumentare le proprie prospettive di mercato a tutto danno del sistema produttivo italiano. Anche un’eventuale vendita ad operatori internazionali esporrebbe il nostro Paese al rischio di un forte impoverimento della capacità tecnologica e di innovazione. L’importanza strategica di questo complesso industriale non può, però, far venir meno gli obblighi di tutela ambientale da cui dipende la qualità della vita dei cittadini di Taranto. La crescita economica e la salvaguardia della salute non sono, in particolare in questo caso, due diritti contrapposti e la prima non si può certo perseguire facendo soccombere la seconda [corsivo mio]. Il Governo, quindi, tende ad adottare tutte le azioni utili a tutelare l’ambiente e la vivibilità della città di Taranto nella consapevolezza che un’interruzione della produzione peggiorerebbe ulteriormente la situazione rendendo impossibile la bonifica dei siti inquinati. La sopravvivenza dello stabilimento è, oggi, dunque, legata alla capacità dell’azienda di mettere in atto gli investimenti necessari a rendere compatibile l’impianto con le norme ambientali e di sicurezza sulla salute dei cittadini [ corsivo mio]>> (28).
La priorità del governo nella questione Ilva è tutta incentrata sulla questione ambientale, sulla tutela della salute e sul risanamento della città. Basta avere la pazienza di leggere i dibattiti parlamentari, gli atti delle Commissioni Parlamentari (VIII e X), i decreti legge, i disegni di legge di conversione dei decreti, per rendersene conto direttamente. Anche il Vice presidente della Commissione Europea, Antonio Tajani, privilegia l’aspetto ambientale della questione Ilva anche perché nel piano siderurgico dell’Unione Europea, che illustra uno scenario di grande crisi, non c’è spazio per una grande impresa come l’Ilva, tra l’altro impossibilitata ad agire perchè in fase di esproprio temporaneo, e le condizioni di rilancio del settore siderurgico previste nel suddetto piano necessitano di una forte presenza dello Stato che abbia un minimo di strategia di politica economica sovrana e che sappia difendere le sue industrie strategiche e, in una logica di sviluppo economico, sappia ridurre i costi eccessivi dell’energia che <<… pesa fino al 40% sui costi di produzione di un impianto siderurgico, per cui il settore risente fortemente del trend dei costi energetici che, in Europa, sono tra i più alti al mondo >> e rilanciare i due settori di maggior consumo di acciaio (le costruzioni e la produzione di auto) così come fanno la Germania e la Francia (29).
L’Unione Europea sta indagando sull’Ilva di Taranto e vuole sapere dal Governo italiano, dalla regione Puglia e dall’Arpa/Puglia, come si sta combattendo l’inquinamento, come si gestiscono le discariche, i rifiuti e le acque reflue. Chiede inoltre di sapere se sono stati violati il diritto alla vita e il rispetto della vita privata e familiare (articolo 2 e 7 della Carta dei diritti fondamentali della UE)[31].
Il governo italiano sta chiudendo tutte le imprese strategiche appartenenti ai settori innovativi (inutile fare l’elenco); è in forte crisi anche il tanto lodato e non strategico made in Italy; la Banca d’Italia è preoccupata per la tenuta dell’intero sistema industriale (si vedano gli ultimi bollettini economici della Banca d’Italia). Stiamo in una crisi profonda di portata epocale per la quale l’80% della popolazione non vive bene.
A chi pensate che la UE taglierà la produzione, per ridurre la propria sovraccapacità, che ammonta a 80 milioni e rappresenta oltre 1/3 della produzione complessiva?
Il governo italiano, mentre chiude le sue imprese strategiche, per assecondare gli agenti strategici americani, con grandi perdite nelle relazioni geopolitiche e geoeconomiche, diventando sempre più un territorio dove << i gabinetti stranieri [sono] a decidere la sorte della nazione >> , decide per decreto (articolo 1 del decreto legge del 3 dicembre 2012 n.207) di trasformare l’Ilva in impresa strategica ed espropriarla per affidarla alla gestione pubblica per il risanamento aziendale e territoriale per poi restituirla ai proprietari. Come se i luoghi pubblici, i luoghi dell’interesse generale, i luoghi delle istituzioni ramificate territorialmente, i luoghi dello Stato, fossero luoghi dove si espleta la politica dell’interesse generale del Paese e non invece, luoghi dove i gruppi strategicamente egemonici (pre-dominati e sub-dominanti) realizzano i loro indirizzi strategici di dominio.
Non solo, ma la difesa ambientale e la salute delle popolazioni, per cui è stata espropriata l’Ilva, è ideologica ( nell’accezione negativa del termine) e strumentale da parte del governo italiano, tant’è che all’articolo 41, comma 1, del decreto legge n.69/2013[ il cosiddetto decreto del fare (sic)], si legge <<…nei casi in cui le acque di falda contaminate determinano una situazione di rischio sanitario, oltre all’eliminazione della fonte di contaminazione ove possibile ed economicamente sostenibile…>>. E’ ovvio che l’economicamente sostenibile si riferisce alle imprese. E, allora, i tanto decantati articoli 41 e 43 della Costituzione italiana si applicano soltanto all’Ilva? Se interpreto bene il citato articolo, mi ritorna di nuovo la domanda: perché L’Ilva? E i giuslavoristi, i costituzionalisti, i difensori estremi della Costituzione non hanno niente da dire sulla incostituzionalità del citato comma?
Se fosse vivente il grande storico Carlo Maria Cipolla certamente avrebbe aggiornato il suo magnifico saggio (Allegro ma non troppo) sulle leggi fondamentali della stupidità umana.
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Il ruolo dei Commissari. Per realizzare questo grande disegno di rilancio dell’Ilva e di risanamento ambientale e territoriale vengono nominati un Commissario Straordinario, nella persona di Enrico Bondi, già amministratore delegato dell’Ilva nominato dalla famiglia Riva, e un sub Commissario all’ambiente nella persona di Edo Ronchi ( un confusionario della generazione “sessantottopersa” nel distorto benessere capitalistico, che ha scambiato una rivoluzione di costume e di consumo per una rivoluzione sociale nell’accezione marxiana e leniniana, esperto di sviluppo sostenibile, stimato dagli ambientalisti e dai radicali di sinistra, in quota nel PD). Entrambi traghetteranno, in un continuo gioco delle parti, se le cose dette hanno un minimo di sensatezza, l’Ilva alla chiusura. Sono gli esecutori, insieme ai loro gruppi di potere, degli ordini degli agenti strategici sub dominanti italiani alla mercè dei desiderata dei predominanti USA via NATO. A ciò è servito l’applicazione del citato artico 1 del D.L. n.207/2012, altro che interesse pubblico o interesse generale o bene del Paese.
Enrico Bondi, con il suo gruppo di potere di riferimento, medierà con la proprietà una chiusura dignitosa dal punto di vista economico-finanziario.
Edo Ronchi, con il suo gruppo di potere di riferimento, lavorerà ad un grande piano di risanamento dell’ambiente, della città e del territorio rendendo << … gli stabilimenti Ilva un punto di riferimento in Europa, anticipando di tre anni le migliori tecnologie disponibili (Best Available Technologies, BAT) che saranno applicate in ambito europeo a partire dal 2016. Nella consapevolezza di una situazione di assoluta emergenza, il Governo intende tuttavia giungere alla realizzazione dello stabilimento più avanzato in Europa in termini di compatibilità ambientale…>>.
Oggi la strategia è cambiata, ma la soluzione finale resta sempre la chiusura dell’Ilva: 1. Si passa dalla fase di risanamento ambientale, di applicazione di tecnologie pulite e rilancio dell’impresa con il Commissario Enrico Bondi alla fase di mercato di Pietro Gnudi che dovrebbe vendere l’Ilva di Taranto in una situazione di grave crisi di produzione, di crisi di liquidità, di crisi ambientale, con la spada di damocle della magistratura; 2. Si svende in maniera poco chiara ai privati. Sono favoriti per tutta una serie di ragioni e di combinazioni, tra interessi di impresa, politiche energetiche e strategie mondiali dei grandi gruppi dell’acciaio ( settore che attraversa una fase di crisi), il colosso Arcelor Mittal e il gruppo Marcegaglia ( l’impostazione dei bandi, le offerte presentate, il peso dei soggetti strategici in campo confermano la mia ipotesi per la joint-venture Arcelor Mittal-Mercegaglia). Questa alleanza garantisce di fatto gli affari nel breve-medio periodo ( commessa tubi TAP e quote di produzione di acciaio ) e la chiusura dell’Ilva nel medio-lungo periodo (30).
Le due fasi ipotizzate hanno come obiettivo la chiusura dell’Ilva di Taranto che interessa sia gli equilibri dinamici dei sub-sub dominanti nazionali (flusso finanziario per risanamento ambientale, riqualificazione della città, nuova progettualità portuale, eccetera); sia dei sub-dominanti europei (eliminazione di una quota di 10 milioni/annuo di acciaio dell’Ilva pari al 25% del taglio che la UE si è dato per affrontare la crisi e la concorrenza mondiale); sia dei pre-dominanti USA ( realizzazione del polo USA-Nato per le sue strategie nel Mediterraneo e nel Medio Oriente di contrasto alle potenze mondiali emergenti soprattutto la Russia.

I luoghi istituzionali. La UE, il governo italiano, la regione Puglia e il comune di Taranto sono i luoghi istituzionali dove saranno gestite le risorse finanziarie ( derogando al Patto di stabilità) per il rilancio di uno sviluppo dell’area tarantina nei settori della bonifica ambientale, del risanamento del territorio, della rigenerazione urbana della città, della smart city, del riuso del porto ( l’Autorità Portuale vede con favore la chiusura dell’Ilva per puntare a un riuso del porto e al superamento dell’attuale crisi sul modello di quello di Rotterdam: fare di Taranto, la Rotterdam del Mediterraneo), eccetera, in stretta collaborazione con le strategie di intervento che integrano la dimensione militare e quella civile della NATO.
I sindacati, i partiti convergeranno, per gestire la fase di passaggio dal polo siderurgico al polo NATO, le loro azioni per difendere il lavoro e la dignità della popolazione con i meccanismi di difesa sociale, ridotti all’osso, del fu stato sociale.
I lavoratori e le lavoratrici si chiederanno, come Vincenzo Buonocore dell’Ilva di Bagnoli, perché l’Ilva è stata chiusa?
La popolazione di Taranto continuerà a credere che nella società capitalistica è possibile un modo di produzione rispettoso della salute, dell’ambiente e del territorio e dorme tranquilla perché sa che ha come Presidente della Repubblica un garante intransigente della Costituzione italiana.
La sfera ideologica è già al lavoro.
Non è la marxiana storia che si ripete diventando farsa, ma è la lagrassiana storia che torna in maniera diversa.

Le citazioni che ho scelto come epigrafe sono tratte da:

 Honorè de Balzac, Lettres sur Paris;
 Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975, Libro primo, pp.922-923;
 Costanzo Preve, Il tempo della ricerca. Saggio sul moderno, il post-moderno e la fine della storia, Vangelista, Milano, 1993, pag.25.

NOTE

1. Gianfranco La Grassa, Sempre in coda al flusso reale, inconoscibile, www.conflittiestrategie.it, 22/12/2015; Giorgio Gaber-Romano Luporini, La realtà è un uccello, www.giorgiogaber.org, 1994.
2. Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma, 1974, pag.5.
3. Giuseppe Carlo Speziale, Storia militare di Taranto negli ultimi cinque secoli, Laterza, Bari, 1930, pp.7-8.
4. Ernst Cassirer, Il mito dello Stato, Longanesi, Milano, 1971; Carla Maria Fabiani, a cura di, L’origine dello Stato. Un percorso da Platone a Marx, www.ilgiardinodeipensieri.eu .
5. Gianfranco La Grassa, Gli strateghi del capitale. Una teoria del conflitto oltre Marx e Lenin, Manifestolibri, Roma, 2005; Gianfranco La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, Roma, 2008.
6. Julia Kristeva, Donne cinesi, Feltrinelli, Milano, 1974.
7. Raimondo Luraghi, Gli Stati Uniti, Utet, Torino, 1974, volume sedicesimo.
8. Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e l’origine del nostro tempo, il Saggiatore, Milano, 1996; Giovanni Arrighi, Caos e governo del mondo. Come cambiano le egemonie e gli equilibri planetari, Bruno Mondadori, Milano, 2003.
9. Vincenzo Ruggiero, Perché i potenti delinquono, Feltrinelli, Milano, 2015.
10. Umberto Santino, La mafia finanziaria. Accumulazione illegale del capitale e complesso finanziario industriale, www.centroimpastato.com ; Isaia Sales, Napoli e Marsiglia. Storie criminali urbane a confronto, Limes, n.4/2016, pp.47-59; Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975, libro primo, settima sezione, capitoli XXIII e XXIV, pp. 753-950.
10*. Svetonio, Vite dei Cesari, Rizzoli, Milano, 1982, volume secondo, pag.751.
11. Su questi temi si rimanda alla lettura critica di Ludovica Pellizzetti, Globalizzazione e spaesamento, www.micromega.net ( Filosofia-Il rasoio di Accam, 2016).
12. Louis Althusser, Montesquieu, la politica e la storia, Savelli, Roma, 1974, pag.94; si veda anche Carl Schmitt, Parlamentarismo e democrazia, Marco editore, LUNGRO di Cosenza, 1998, pp.21-49.
13. 13. Giorgio Sola, La teoria delle èlites, il Mulino, Bologna, 2000.
14. Lewis Mumford, La città nella storia, Bompiani, Milano, 1967, tre volumi.
15. Margaret Ehrenberg, La donna nella preistoria, Mondadori editore, Milano, 1992.
16. Per una buona sintesi introduttiva che parte dalla differenza dei sessi e, quindi, dalla soggettività femminile ( che include quello di classe e non viceversa), si rinvia a Cristina Carpinelli, Il processo “bloccato” di emancipazione femminile nella pratica sovietica, www.ecn.org, maggio 2005; Sheila Rowbothan, Donne, resistenza e rivoluzione. Una analisi storica per una discussione attuale, Einaudi, Torino, 1976; Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale, Rivolta Femminile, Milano, 1974.
17. Perry Anderson ed altri, a cura di, Storia d’Europa, Einaudi, Torino, 1993, volume primo; Ludwig Dehio, Equilibrio o egemonia. Considerazioni sopra un problema fondamentale della storia politica moderna, il Mulino, Bologna, 1988.
18. Giovanni Arrighi, Caos.., op.cit.
19. Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, Volume III, quaderno 22, Einaudi, Torino, 1975, pp.2139-2181.
20. Carl Scmitt, Terra e mare, Adelphi, Milano, 2006.
21. Luca Veronese, Nato, torna a crescere (dopo 10 anni) la spesa militare dei Paesi europei in il Sole 24 Ore del 31/5/2016.
22. Matteo Luca Andriola, Il trattato di Valsen e l’Eurogendfor, www.comunismoecomunita.org, 13 marzo 2014.
23. Giovanni B. Teràn, La nascita dell’America spagnuola in Leonardo Benevolo e Sergio Romano, a cura di, La città europea fuori d’Europa, Libri Scheiwiller, Credito Italiano, Verona, 1998, pag.79; Fernand Braudel, Le strutture del quotidiano. Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), Einaudi, Torino, 1982, volume primo.
24. Commissione della Comunità Europee, Libro Verde sulla coesione territoriale. Fare della diversità territoriale un punto di forza, www.europa.eu, 6/10/2008, pp-3-5.
25. David Harvey, Città ribelli, il Saggiatore, Milano, 2013; Mike Davis, Il pianeta degli slums, Feltrinelli, Milano, 2006; Alessandro Petti, Arcipelaghi e enclave. Architettura dell’ordinamento spaziale contemporaneo, Bruno Mondadori, Milano, 2007.
26. Giorgio Nebbia, L’acciaieria non è un salotto, www.ecologiapolitica.org, luglio 2013.
27. Giulio Maccacaro, Per una medicina da rinnovare, scritti 1966-1976, Feltrinelli, Milano, pag. 314.
28. Intervento del Ministro dello sviluppo economico alla Camera dei Deputati del 4 giugno 2013, seduta n.28, www.camera.it
29. Antonio Tajani, Piano d’Azione Acciaio, conferenza stampa, Strasburgo, giugno 2013, www.europa.eu
30. Per una verifica quantitativa (da valutare con un approccio critico), completa della grave crisi dell’Ilva di Taranto, rimando all’articolo di impronta economicistica di Paolo Bricco (storico e giornalista del “Sole-24 Ore”), Ilva, Taranto un caso paradigmatico in “il Mulino” n.1/2016 e al modello econometrico dello Svimez, commissionato dal “Sole-24 Ore”, per valutare l’impatto della vicenda Ilva sul sistema industriale del Paese: per una sintesi in Paolo Bricco, La crisi dell’Ilva è costata 10 miliardi in “Il Sole-24 Ore” del 23/05/2016.
[1] La coda di Gianfranco La Grassa o la realtà è più avanti di Giorgio Gaber o di mia nonna, Ripalta Montano, che diceva che non voleva morire perché non aveva ancora capito tante cose della vita ( significativo perché detto da una donna che aveva attraversato due guerre mondiali. Detto senza parafrasi il senso della realtà delle donne è più avanti).
[2] I casi di studi sono da individuare all’interno delle sfere sociali ( economica, politica, militare, istituzionale, eccetera) che nelle determinate fasi storiche mondiali ( monocentrica, multipolare e policentrica) assumono un ruolo determinante in relazioni alle altre sfere sociali. Cioè sono i fasci di luce che illuminano la sfera sociale complessiva.
[3] Riporto una considerazione dello storico Carlo Maria Cipolla: il punto di vista fu sempre universale, l’occhio spaziò sempre oltre i confini della parrocchia per capire meglio il fenomeno locale nel più ampio tessuto europeo e per arricchire il fenomeno generale con l’apporto dell’esperienza locale.
D’altronde l’impostazione seguita da Karl Marx nel Capitale non coniugava la delineazione teorica della logica di sviluppo del capitale con le indagini empiriche sul modo di produzione capitalistico.
[4] […] In quanto la Cina mi sembra essere la sola grande civiltà che si è sviluppata al di fuori del pensiero europeo. Al di fuori della nostra lingua, la grande lingua indoeuropea, e allo stesso tempo al di fuori della nostra storia, almeno fino a un’epoca relativamente recente, fino al XVII secolo e addirittura, di fatto, fino al XIX secolo. Il vantaggio teorico di passare per la Cina è rappresentato dal fatto che essa offre un altrove distante dai nostri punti di vista di riferimento. Se si cerca un’esteriorità della lingua, non la si potrà infatti trovare in India, visto che il sanscrito appartiene alla famiglia delle lingue indoeuropee. Allo stesso modo, se si cerca un’esteriorità nella storia, non la si potrà rintracciare nel mondo arabo o ebraico, legati da mille fili alla storia dell’Occidente. Per chi intenda uscire dal pensiero europeo, volgendosi tuttavia verso un mondo ugualmente elaborato, civilizzato, testualizzato, come il nostro in Europa, non c’è che la Cina. [ Francois Jullien, Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente, Laterza, Roma-Bari, 2006, pp.3-4]
[5] [ …] nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta/ struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezza e di casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale[…] in Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Volume II, Einaudi, Torino, 1975, quaderno n.7, pag.866.
[6] Kevin Spacey (l’Underwood di House of Cards, gli intrighi del potere) ha affermato in una recente intervista che il suo personaggio si ispira al Riccardo III di Shakespeare ed è molto vicino alla realtà; anzi molte volte la realtà ci supera ancora. House of Cards è una serie televisiva statunitense sugli atroci meccanismi di potere nelle relazioni umane sessuate svolte principalmente nelle istituzioni USA ( Partito democratico, Camera, Congresso, eccetera). L’intervista è apparsa su “il Giornale” del 12/4/2016.
[7] E’ illuminante la scena del film ( La banda degli Onesti, 1956) nel dialogo tra Antonio (Totò) e Giuseppe (Peppino De Filippo) nel quale viene spiegato il ruolo del capitalista, del profittatore, dello speculatore, dei vari ragionieri Casoria (corrotti e prepotenti) che rasentano il codice penale ma non incappano dentro.
[8] Bertolt Brecht, L’opera da tre soldi in Teatro, Volume I, Einaudi, Torino, 1978, pp.412-513. Si veda il ruolo avuto dai derivati “tossici” nello scoppio della crisi finanziaria del 2008 e il ruolo delle società Offshore e delle strutture fiduciarie nel gioco tra legalità e illegalità in Amaru Barahona, Legalità ed illegalità economica nel capitalismo neoliberista in www.controinformazione.info del 19 aprile 2016.
[9] Il fine è il dominio non il profitto: Karl Marx la chiama “smania di dominio del capitale”.
[10] Lo spazio naturale assume valore antropologico, diventa un territorio. L’insieme degli interventi trasformativi che assicurano il passaggio dallo spazio al territorio si chiama territorializzazione. La mia definizione è: lo spazio naturale è uno spazio bianco, vuoto dove le trasformazioni territoriali sono peculiari al modo di produzione e riproduzione dei rapporti sociali dati. La società a modo di produzione capitalistico ( conscio di un significato insufficiente di questo concetto) vede e tratta il territorio come uno spazio vuoto, bianco su cui è possibile intervenire in modo illimitato e irrispettoso. Il territorio, invece, diventa quella territorialità che rispetta lo spazio dato secondo e seguendo le leggi della natura. Per rispettare le leggi della natura e le relazioni sociali, i rapporti sociali devono diventare altro.
La territorialità è l’innervamento di una cultura di una nazione e di una cultura della natura ( animata ed inanimata).
[11] Penso al processo storico di costruzione della Costituzione italiana e allo scarto con la realtà materiale dei rapporti sociali ( la farsa dei diritti e doveri tra rapporti sociali asimmetrici). Forse fu in questa fase che si preparò il lungo cammino che portò il PCI ad abbandonare il blocco dell’URSS e a portarlo nel campo occidentale ad egemonia USA. Il ruolo svolto da Giorgio Napolitano e da Enrico Berlinguer era agevolato da questo cammino storico. L’implosione dell’URSS ha permesso la visibilità di tale passaggio.
[12] Il potere-dominio definisce cos’è la democrazia che non è assolutamente la partecipazione e la decisione della maggioranza della popolazione alle scelte delle relazioni sociali e dei rapporti sociali che determinano l’insieme della vita sociale, si veda: Noam Chomsky, Capire il potere, Marco Tropea editore, 2008; Costanzo Preve, Il popolo al potere. Il problema della democrazia nei suoi aspetti storici e filosofici, Arianna editrice, Casalecchio (BO), 2006; Luciano Canfora, Intervista sul potere, Laterza editore, Bari-Roma, 2013; Anonimo ateniese, la democrazia come violenza, Sellerio editore, Palermo, 1982. Preciso che lo stesso Noam Chomsky definisce gli USA, nazione democratica per eccellenza, una nazione con una popolazione spoliticizzata, fortemente religiosa e profondamente ignorante.
[13] Lo Stato, con le sue articolazioni e i suoi luoghi, non è separato, non è uno strumento tecnico-meccanico, ma è parte del conflitto. L’ideologia lo rende separato, non la realtà. Gli agenti strategici dominanti gestiscono il dominio tramite lo Stato che è sempre difficile da svelare e destrutturare. Senza lo strumento Stato non si realizza il potere e il dominio. Il potere ha bisogno dello Stato per essere dominante ed egemonico. Sviluppa e costruisce funzioni e ruoli nei rapporti sociali. Funzioni e ruoli importanti per le strategie conflittuali tra gli agenti strategici dominanti e tra questi e i gruppi sociali, che formano la popolazione, dominati. Quindi lo Stato non è esterno ai rapporti sociali e ai conflitti tra dominanti e tra dominanti e dominati, ma è interno, è luogo per eccellenza per affermare il dominio degli agenti strategici egemonici. La trasformazione profonda dei suoi apparati, alcuni possono essere eliminati, altri creati, tutti possono essere cambiati o rivoluzionati, non significa la soppressione delle “regole del gioco”. Ho iniziato a ragionare su questa ipotesi dello Stato a partire dalla lettura del saggio di Gianfranco La Grassa, Impresa e Stato. Poli complementari della struttura capitalistica in Edoardo De Marchi, Gianfranco La Grassa, Maria Turchetto, Oltre il fordismo. Continuità e trasformazioni nel capitalismo contemporaneo, Edizioni Unicopli, Milano, 1999, pp.38-98.
[14] Le sfere sociali sono astrazioni che ci costruiamo per interpretare la realtà che sta sempre avanti. Le sfere sociali possono essere diverse a seconda delle ipotesi di ragionamento per costruire il campo di stabilità. Per esempio Gianfranco La Grassa ne utilizza tre (politica, economica, culturale) David Harvey ne utilizza sette, eccetera. Nelle sfere sociali è ipotizzabile parlare di potere non di dominio.
[15] Per analogia sulla dinamicità dell’equilibrio degli agenti strategici dominanti, riporto la descrizione del fisico Francesco Sylos Labini sull’equilibrio dei sistemi fisici << […] Da più di cinquant’anni, infatti, si conoscono e si studiano sistemi fisici complessi per i quali, anche se uno stato di equilibrio stabile esiste in teoria, esso può essere totalmente irrilevante in pratica, perché il tempo per raggiungerlo è troppo lungo. Altrimenti vi sono sistemi che sono intrinsecamente fragili rispetto all’azione di piccole perturbazioni, evolvendo in modo intermittente con un susseguirsi di epoche stabili intervallate da cambiamenti rapidi e imprevedibili. In altre parole, per molti sistemi fisici l’equilibrio stabile non è una condizione raggiunta in maniera naturale: diversi sistemi raggiungono invece una situazione di metastabilità e non un vero e proprio equilibrio, come quello di un gas in una stanza isolata o di una pallina in fondo a una valle, cioè una situazione di temporanea stazionarietà ma di potenziale instabilità, tanto che è sufficiente una piccola perturbazione per causare grandi effetti. Come succede quando, per esempio, si accumula l’energia potenziale per effetto del moto relativo di due faglie tettoniche. Questa energia, quando supera una certa soglia critica, sarà a un certo punto rilasciata sotto forma di onde sismiche e cioè ci sarà un terremoto: la dinamica dei terremoti è dunque rappresentata da periodi di apparente quiete in cui il sistema si carica e terremoti improvvisi (ciclici e non periodici) in cui l’energia accumulata è rilasciata […] >> in L’economia neoclassica? Una pseudoscienza. Conversazione con Francesco Sylos Labini a cura di Francesco Suman e Olmo Viola in www.micromega.it, 20/6/2016. Si veda anche l’interessante libro di Francesco Sylos Labini, Rischio e previsione. Cosa può dirci la scienza sulla crisi, Editori Laterza, Roma-Bari, 2016.

[16] Un esempio tratto da Honorè de Balzac ( La cugina Bette, scritto nel 1846, edito da Newton & Compton Editori, Roma,1994) per illustrare la fase di gestione del potere attraverso le istituzioni: << Il barone Hulot, braccio destro di Napoleone, invia lo zio Johann Fischer in Algeria per << Fornire i viveri della guerra, grani e foraggi; ho il vostro contratto firmato. Troverete nel paese il necessario al settanta per cento in meno del prezzo al quale vi si terrà conto…quanto alla riscossione delle imposte, la vostra probità non ne soffrirà; tutto dipende dalle autorità, e sono io che ho insediato laggiù le autorità: sono sicuro di loro…Le scorrerie, l’achour, i califfati. Vi è in Algeria ( paese poco conosciuto, anche se siamo da otto anni) una grandissima quantità di grano e di foraggi. Ora, quando queste derrate appartengono agli arabi, noi, con mille pretesti, cerchiamo di prenderle; poi quando sono nostre gli arabi tentano di riprendercele. Si combatte per il grano; ma non si sa di preciso le quantità che si sono rubate a vicenda. Non si ha il tempo, in aperta campagna di contare le staie di grano come alla Halle [ mercato coperto parigino, mia precisazione], e il fieno come in rue de l’Enfer [ mercato all’aperto, mia precisazione]. Tanto i capi arabi quando i nostri spahis [ brigate coloniali francesi montate a cavallo in Algeria, mia precisazione], preferiscono il denaro e vendono quelle derrate a un prezzo bassissimo. L’amministrazione della guerra ha dei bisogni fissi: passa i contratti a dei prezzi esorbitanti, calcolati sulla difficoltà di procurarsi i viveri e sui pericoli corsi dai trasporti. E’ un pasticcio temperato dalla bottiglia di inchiostro di una qualunque amministrazione nascente. Non potremo vederci chiaro che fra una decina d’anni, noi amministratori, ma i privati hanno buoni occhi. Dunque vi mando per farvi fortuna; vi metto, come Napoleone metteva un maresciallo povero alla testa d’un regno dove si poteva segretamente proteggere il contrabbando.>> [ pp 232-233].
[17] La volontà di potenza e volontà di dominio, con i relativi rapporti di dipendenza, sono il fine delle relazioni sociali della società data. Ciò significa che il profitto della società a modo di produzione capitalistico è un mezzo e non il fine che resta la volontà di dominio che è intrecciata alla analisi delle fonti del potere che non necessariamente hanno a che fare con la sfera economica.
[18] La civiltà occidentale e gli stati moderni nascono, ci tocca ricordarlo con Freud e Hobbes, da un patto tra uomini violenti, che si emancipano dall’autorità paterna e se ne spartiscono l’eredità escludendo le donne dalla vita pubblica e sottomettendole in quella privata. Nel corso della modernità, la libertà non è stata regalata alle donne dalla civiltà occidentale: sono le donne ad averla conquistata con le loro lotte anche contro la civiltà occidentale ( Ida Dominijanni, Speculum, l’altro uomo. 8 punti sullo spettro di Colonia in www.internazionale.it, 3 febbraio 2016.
[19] Costanzo Preve sosteneva che <<. […] Americanismo non significa assolutamente sostenere sempre servilmente tutto ciò che di volta in volta decidono di fare i governi americani. Il vero americanismo, anzi, consiste nel consigliare all’imperatore cosa dovrebbe fare per essere più amato dai sudditi, più multilaterale, meno unilaterale, ed in genere più portatore di un soft power. Il vero americanista consiglia di chiudere Guantanamo, di scoraggiare il Ku Klux Klan, di eleggere al comando il numero maggiore possibile di neri, donne, gay, eccetera. Il vero americanista vuole potersi riconoscere nella potenza imperiale che occupa il suo paese con basi militari e depositi di bombe atomiche a distanza di decenni dalla fine della seconda guerra mondiale (1945) e dalla dissoluzione di ogni patto militare “comunista” (1991). Il vero americanista vuole essere suddito di un impero buono, e pertanto gli spiace che l’impero a volte sia cattivo ed esageri. Massacrando l’Iraq l’impero non ha commesso un crimine, ma un errore. L’americanista utilizza due registri linguistici ed assiologici diversi, il codice del crimine ed il codice dell’errore. Tutti possiamo commettere errori, che diamine! Hitler, Mussolini, i giapponesi, i comunisti, Milosevic, Mugabe, la giunta militare del Myanmar, i talebani, eccetera, hanno commesso e commettono crimini. Churchill che massacra i curdi e gli indiani, Truman che getta la bomba atomica ad Hiroshima, Bush che invade l’Iraq nel 2003, commettono solo spiacevoli errori. L’americanista accusa di anti-americanismo tutti coloro che affermano che gli USA si comportano come un impero, e non dovrebbero farlo, e comportarsi invece come un normale stato-nazione, affidando il mondo ad un equilibrio fra le potenze, senza velleità messianiche imperiali. Qui l’americanista raggiunge il massimo della cialtroneria, perché accusa di anti-americanismo paradossalmente la stessa cultura americana, che afferma a chiare lettere di essere un impero, di voler essere un impero e di voler continuare ad essere un impero, e non è affatto disposta a rinunciare a questo eccezionalismo messianico […] >> in Costanzo Preve, Contro “il politicamente corretto”, www.petiteplaisance.it, 2010.
[20] Generalmente, il caos è il disordine esistente tra l’ultimo ordine di cui si è a conoscenza e l’ordine futuro ancora da realizzarsi. E’ una fase pericolosa e incerta, nella quale ogni elemento di solidità sembra sgretolarsi (Sun Tzu, L’arte della guerra, Mondadori, Milano, 2003).
[21] Claudio Mutti così analizza << Brzezinski ritiene che gli Stati Uniti debbano balcanizzare lo spazio compreso tra Nordafrica e Asia Centrale, se vogliono impedire il consolidamento della grande alleanza tra Russia, Cina e Iran, alleanza che presidierebbe il continente eurasiatico e ridimensionerebbe in maniera decisiva la potenza statunitense. Brzezinski formula la seguente ipotesi: “Se lo Spazio Centrale [“the middle space“, lo Spazio di Mezzo del continente eurasiatico] respinge l’Occidente, diventa un’unica imperiosa entità [an assertive single entity] ed acquisisce il controllo sul Sud o stabilisce un’alleanza col grande protagonista orientale [“the major Eastern actor“, ossia con la Cina], allora il primato dell’America in Eurasia crollerà in maniera drammatica. Avverrebbe la stessa cosa – aggiunge Brzezinski – se i due protagonisti orientali dovessero in qualche modo unirsi”. In altre parole: se la Federazione Russa riuscisse a respingere ed a far indietreggiare l’avanzata dell’Alleanza Atlantica e cercasse di riorganizzare lo spazio ex sovietico secondo una qualche forma di confederazione o di blocco sopranazionale, guadagnando influenza nel Vicino Oriente o stabilendo un’alleanza con la Repubblica Popolare Cinese, allora l’influenza di Washington in Eurasia verrebbe definitivamente eliminata. Ora, è chiaro che lo “Spazio Centrale”, la Russia, sta recuperando il peso geopolitico che aveva perduto col crollo dell’Unione Sovietica. Non solo, ma lo “Spazio Centrale” (la Russia) e il “Paese di Mezzo” (Zhongguo, la Cina) hanno coordinato da tempo le loro forze. Ciò è avvenuto già prima che si formasse l’Unione Eurasiatica. Alla fine degli anni Novanta la Federazione Russa e una parte dello spazio postsovietico cominciarono a stabilire con la Cina un’intesa che ha prodotto l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai e il coordinamento strategico di Pechino con Mosca al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Il grande accordo russo-cinese del gas naturale non è se non un risultato di questa alleanza fra lo “Spazio Centrale” e il “Paese di Mezzo”>>. Claudi Mutti, Eurasia o euro babele in www.eurasia-rivista.org del 5/4/2006.
[22] Qui viene esposta una sintesi aggiornata dei miei due scritti apparsi su www.conflittiestrategie.it : 1. L’Ilva di Taranto. Dalla Trappola del capitale/lavoro e capitale/ambiente al conflitto strategico (2012), 2. Taranto: da polo siderurgico a polo strategico della Nato (2013).
[23] Nelle fasi della storia mondiale (monocentrica, multipolare e policentrica) si costruiscono le nuove geografie della centralità e della marginalità in cui si collocano luoghi destinati ad emergere e altri a rimanere sullo sfondo del tumultuoso processo di “rivoluzione urbana” mondiale.
[24] Altra infrastruttura in progetto è la piastra logistica per le strategie USA-NATO di Grottaglie ( 23 km da Taranto) con l’utilizzo di Droni con una compressione di tempo e spazio impressionante: si parla di 100 minuti da Los Angeles a Roma attraverso un corridoio nella stratosfera [Programma Ente Nazionale per l’Aviazione Civile (Enac)-USA]. Gli USA-NATO hanno bisogno di piastre logistiche per favorire gli spostamenti veloci nel Mediterraneo e nel Medio Oriente in funzione anti Russia e Cina. Ufficialmente i droni servono per il trasporto di merci.
[25] Ad oggi è da svelare l’intreccio e il conflitto tra i seguenti attori: Comune, Commissario, Governo, Cassa Depositi e Prestiti (Fintecna ex Italsider) e Caltagirone per la bonifica di Bagnoli. La bonifica è il cavallo di Troia per far passare le diverse strategie di intervento che si confrontano nell’intreccio tra pubblico e privato.
[26] Per approfondimenti rinvio al mio scritto, L’americanizzazione del territorio (2014) apparso suwww.conflittiestrategie.it
[27] Sul senso del potere politico e militare dell’occupazione del territorio europeo da parte degli USA attraverso le proprie basi militari e quelle della Nato, si veda l’intervista ad Alexander Dugin, L’occupazione è occupazione, 29/01/2014, www.millennium.org.
[28] Sull’attenzione e sulle problematiche che si aprono nel considerare l’intervento dell’esercito nelle meghe città mondiali si rimanda all’articolo sul dibattito militare negli USA in Federico Petroni, L’esercito degli Stati Uniti alla sfida delle giungle urbane in Limes n.4/2016, pp.245-252.
[29] Il mio scritto,Tav, Corridoio V, Nato e USA. Dalla critica dell’economia politica al conflitto strategico,www.conflittiestrategie.it ,2012.
[30] E’ irritante l’atteggiamento delle Istituzioni europee ( Commissione UE, Consiglio d’Europa) che, formalmente emanano le direttive contro le emissioni industriali, ma di fatto garantiscono alle grandi aziende dell’acciaio la piena libertà di produzione. Aggirano con vari tecnicismi quelle stesse direttive emanate in difesa della salute delle popolazioni, dell’ambiente, delle città e del territorio. E’ evidente che le grandi aziende per utilizzare le loro strategie di aggiramento delle varie direttive europee hanno il loro peso politico, le loro alleanze strategiche, le loro protezioni statali. E, allora, si ripresenta la solita domanda: perché solo all’Ilva di Taranto le istituzioni europee impongono le loro direttive? Sul non rispetto delle direttive europee sulle emissioni industriali si veda Stefano Valentino, L’Europa dal 2012 ha autorizzato le acciaierie a “risparmiare” sui dispositivi contro le polveri sottili, www.lastampa.it, 1 luglio 2016.
[31] Ancora oggi la UE continua a pressare in questa direzione con lo strumento dell’associazionismo ambientalista e pacifista locale.

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