LO YIN E LO YANG DELL’ORDINAMENTO MODERNO, di Pierluigi Fagan
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Non si tratta comunque di determinare chi sia il più europeista, quanto di precisare una realtà il più delle volte rimossa: l’esistenza stessa di questa classe dirigente tedesca dominante dipende dai suoi legami e dalla sua subordinazione agli Stati Uniti e la ricerca del proprio interesse non può e non intende prescindere oltre un certo limite da questo dato; essa è parte integrante di una componente ben definita di classe dirigente americana. Tutto è apparso alla luce del sole durante la presidenza Trump. L’attuale Unione Europea è un ingranaggio di questa dinamica. Le ambiguità e i cedimenti della Francia in quest’ultimo ventennio sono cresciuti parallelamente ai suoi proclami di autonomia europea anche se si deve riconoscere quantomeno l’esistenza in essa di un confronto ed un conflitto tra centri decisionali contrapposti. Giuseppe Germinario
I TEDESCHI SONO “BUONI EUROPEI”? O…Portfolio – 25 settembre 2021
News Note … stanno solo usando l’UE per rafforzare il proprio potere nazionale? Sul tema delle elezioni tedesche, è dilagante la speculazione su cosa significherebbe questo e quest’altro nuovo governo tedesco per la costruzione dell’Europa. Sarebbe senz’altro utile tornare prima a cosa significa Europa, in generale, per la Germania e viceversa. Perché ci sono poche possibilità che le linee principali, le stesse da molti decenni, cambino. Nel 1963 il presidente francese Charles de Gaulle tagliò corto: “I tedeschi si comportano come maiali. Tradiscono l’Europa”. Questa visione, certamente accuratamente celata dietro formule diplomatiche, è comunque largamente condivisa in tutto il Reno, anche oggi. Allo stesso tempo, in altri luoghi è comune considerare Berlino come il buon studente dell’UE: La Germania pagherebbe come una vera vacca da mungere; darebbe sempre più potere alle istituzioni comunitarie; non ci sarebbe stato più verde di lei; e sui temi della difesa è modesto (al massimo si spende qua e là qualche parola sul disarmo globale e la pace universale). Potrebbe essere che tutto questo sia solo una tattica intelligente? Attivista per la pace, con le bombe atomiche L’osservazione che paragonava i tedeschi ai “maiali” è stata fatta in relazione al trattato di amicizia franco-tedesco, detto dell’Eliseo. Questo accordo aveva originariamente una forte dimensione di sicurezza e difesa e deliberatamente non faceva menzione né degli Stati Uniti né della NATO. Ma il Bundestag lo ratificò alla sola condizione di allegare un preambolo collocandolo immediatamente nel quadro dell’alleanza con l’America. Il generale de Gaulle notò, furioso, che non ci si poteva fidare dei tedeschi: “sono appiattiti davanti agli americani”. Sessant’anni dopo, niente di nuovo sotto il sole. L’ex presidente del Parlamento europeo Pat Cox ha recentemente osservato: “L’autonomia strategica è fonte di tensione tra Francia e Germania: non sono d’accordo su quanto l’Europa possa e debba fare affidamento sugli Stati Uniti”. Qua e là, i politici tedeschi si sono lasciati sfuggire che l’UE avrebbe guadagnato acquisendo “un certo grado di sovranità”. Ma quando la Francia insiste che è tempo che gli europei diventino indipendenti, la Germania ribatte che “le illusioni di autonomia strategica devono finire”. Berlino continua a ripetere: “L’Europa dipende dall’alleanza transatlantica, non può difendersi”. Quando il presidente Macron evoca il fatto che la forza d’attacco francese difende, senza dirlo, l’intero continente europeo e chiede cooperazione ai suoi partner, la Germania si fa notare per la sua riluttanza. A volte sostiene che esiste già un ombrello americano, a volte suggerisce che prima ci liberiamo dell’atomo, meglio è. Alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2020, il presidente francese ha messo in evidenza le contraddizioni dell’ardente pacifismo di Berlino. Come dice lui: questa riluttanza verso le questioni militari è finta, perché la Germania è bagnata fino all’osso in una politica di potere, inclusa la sua componente nucleare, attraverso la NATO – tranne che è una politica americana. Infatti: sotto l’egida della condivisione nucleare (alla quale Parigi non partecipa) dell’Alleanza, gli Stati Uniti hanno una ventina di cariche nucleari sul territorio tedesco. Inoltre, i servizi segreti federali (BND) occasionalmente spiano l’Eliseo e la Commissione europea per conto di Washington. L’atlantismo patentato di Berlino nasce da un ragionamento lucido. Da un lato, Berlino spera che in cambio del suo incrollabile sostegno al primato USA/NATO nella sicurezza europea, Washington sarà più indulgente con i suoi scherzi in altre aree (i suoi legami commerciali con Russia e Cina, in particolare). D’altra parte, la stessa Berlino beneficia di questo primato americano: questo relativizza il peso e la portata degli assetti militari francesi, e riduce così il vantaggio politico di Parigi negli equilibri di potere all’interno dell’UE. (Credito fotografico: Portfolio.hu) Zelo europeo per egoismo? In ogni caso, l’atteggiamento della Germania nei confronti dell’integrazione europea è, per così dire, complesso. Berlino è sempre stata una fervente sostenitrice delle istituzioni sovranazionali dell’Unione, tanto più che le aveva investite per molto tempo e la sua influenza lì è schiacciante. Resta il fatto che il freno più netto al futuro dell’integrazione è arrivato dalla Corte costituzionale di Karlsruhe. Nella sua decisione del 2009 che interpreta il Trattato di Lisbona, questo organo supremo dichiara nero su bianco che il quadro nazionale è l’unico rilevante per la democrazia e la sovranità tedesche. Il diritto europeo non ha la precedenza, l’Europa non è un’entità sovrana, non ha quella che si chiama “la competenza della competenza”. Quanto alle azioni concrete, l’ex ministro degli Esteri Joschka Fischer osserva: “I governi tedeschi ora vedono sempre più l’Europa in termini di promozione degli interessi tedeschi. E lì c’è un pericolo per l’Europa”. Berlino sta ora anteponendo sempre più apertamente le proprie considerazioni a ogni “comune interesse europeo”. Era disposto a sacrificare anche il più importante progetto strategico europeo fino ad oggi, il sistema di navigazione satellitare Galileo, a meno che il sistema tedesco OHB, ma totalmente incompetente per il compito, non si aggiudicasse l’appalto. In questi giorni, la Germania si rifiuta di discutere del futuro del razzo Ariane, anche se ciò significa mettere a repentaglio uno degli strumenti strategici (e commerciali) più cruciali dell’Europa, il suo accesso indipendente allo spazio. Certo, Berlino può anche essere generosa, purché trovi un profitto clamoroso. Se ha tanto sostenuto l’allargamento dell’Unione verso Est, è perché ha trovato il suo tradizionale “Hinterland”, con manodopera a basso costo a disposizione delle sue aziende, nello stesso spazio normativo. Per quanto riguarda l’attuale piano di stimolo dell’UE, la Germania ha accettato solo l’idea del pooling del debito per garantire meglio gli sbocchi europei di cui la sua industria ha estremo bisogno (a causa della contrazione dei mercati internazionali). Sul versante della diplomazia, Berlino non esita più a far sentire la propria voce, anche a discapito delle considerazioni europee, a seconda dei casi. Quando la Turchia si avventura, ad esempio, nelle acque greche e cipriote, l’UE nel suo insieme è il bersaglio delle sue provocazioni. Atene insiste: “La Grecia protegge i confini europei”. Tuttavia, L’eterno avversario: la Francia Caso dopo caso, Berlino si trova ripetutamente di fronte alla Francia. Sono le due potenze centrali dell’UE, e la storia del nostro continente è in gran parte quella dei loro scontri. La Germania è principalmente interessata all’idea europea nella misura in cui questa può far pendere a suo favore gli equilibri di potere tra i due paesi. Prendiamo l’esempio di questa idea, a priori simpatica, secondo la quale Parigi potrebbe rinunciare al suo status di membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’ONU, a favore dell’Unione europea. Sorpresa, sorpresa: ancora una volta la Germania intende “rafforzare” l’Europa sacrificando un… asset francese. Inoltre, l’UE ne trarrebbe ben poco. Infatti, finché gli Stati membri concordano su una posizione, è meglio avere diversi membri del Consiglio di sicurezza per difenderlo (un seggio equivale a un voto – e ci sono sempre uno o due paesi dell’UE tra i membri non permanenti). E se i Ventisette non dovessero trovare un accordo, la cosiddetta voce unica “comune” rimarrebbe in silenzio. Ovviamente a Berlino non interessa. Lo stesso vale per il cambiamento climatico. La Germania ha deciso di chiudere al più presto tutte le sue centrali nucleari a favore delle energie rinnovabili (risultato: riprende la produzione di carbone, e Berlino punta, con Nord Stream 2, sull’aumento dei consumi di gas naturale. ). D’altra parte, quasi il 70% dell’elettricità francese proviene dal nucleare, una fonte non solo economica e permanente (affidabile sia in inverno che in estate), ma che riduce anche al minimo le emissioni di CO2. Tuttavia, il Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (IPCC) e il Centro comune di ricerca (JRC) dell’UE affermano entrambi che l’energia nucleare, nonostante tutti i suoi difetti, è attualmente uno dei nostri migliori strumenti per passare a un modello senza carbonio, La Germania sta conducendo una dura battaglia contro di essa. Di recente è riuscita ad escludere il nucleare dai bond “verdi” dell’Ue, per un importo di 250 miliardi, a differenza dei cosiddetti progetti “transitori” sul gas naturale che vi troveranno posto. Ancora una volta, gestendo bene le istituzioni dell’UE, Berlino sta lavorando per indebolire le risorse francesi, gettando nel processo gli interessi europei. Quando reindirizza le risorse e gli investimenti dell’UE a società e progetti tedeschi, distrugge anche le prospettive per l’energia nucleare europea. Che avrebbe però il multiplo vantaggio di contribuire al raggiungimento dell’obiettivo della neutralità climatica per l’UE entro il 2050, di promuovere la competitività delle industrie, di garantire energia elettrica stabile a un prezzo accessibile anche ai cittadini, il tutto senza che l’Europa non cada in un mercato energetico dipendente da potenze esterne come Russia, Turchia o Stati Uniti. Il settimanale tedesco Der Spiegel ha recentemente riassunto i 16 anni al potere della cancelliera Merkel sotto il titolo “Opportunità mancate”. Questa osservazione vale anche, se non soprattutto, per l’Europa. Il giornale cita il filosofo Jürgen Habermas, per il quale Angela Merkel ha cercato soprattutto la pace – da qui la grave mancanza di qualsiasi strategia degna di questo nome durante le crisi successive e l’attenzione sul solo armeggiare per far ripartire la macchina, senza fare di più. In effetti, c’è una ragione molto più profonda per questo ostinato rifiuto di imparare dalle difficoltà. Il problema, per la Germania, è che la maggior parte degli eventi degli ultimi quindici anni, dalla crisi finanziaria alla pandemia passando per la presidenza Trump, hanno confermato la rilevanza degli obiettivi francesi per l’Unione, sovente agli antipodi delle priorità tedesche. Che si tratti di emancipazione dagli Stati Uniti (la famosa autonomia strategica), di riportare in Europa le filiere produttive, di rafforzare il ruolo dello Stato nell’economia, di necessità di un’agricoltura autosufficiente, di utilità del nucleare nella lotta al riscaldamento globale, o l’importanza degli eserciti e di un’industria degli armamenti indipendente in un contesto internazionale caratterizzato da una crescente rivalità tra poteri – il mondo intero è consapevole di queste tendenze e cerca di trarne le conseguenze. Ma la Germania, dal canto suo, si oppone con le unghie e con i denti a che l’Europa faccia lo stesso, per paura che ciò favorisca troppo il suo partner francese. Perché, ovviamente, perseguire una politica capace di dare risposte concrete a tutte queste sfide significherebbe, per l’Europa, intraprendere la strada che Parigi ha sempre raccomandato. In questo caso, l’influenza della Francia sarebbe rinforzata automaticamente e le sue risorse ancora esistenti sarebbero immediatamente valorizzate. Tuttavia, Berlino vuole evitare a tutti i costi un simile spostamento negli equilibri di potere tra i due paesi. Il generale de Gaulle ha detto: “E’ destino della Germania che nulla possa essere costruito in Europa senza di lei”. D’altra parte, c’è da temere che con essa non ci possano essere che “anticipi” che, a ben guardare, finiranno sempre per giovare all’Europa molto meno che a Berlino. |
https://hajnalka-vincze.com/list/notes_dactualite/604-les_allemands_sontils_de__bons_europeens__ou/
I collaboratori del sito si sono soffermati più volte sul rapporto tra politica ed economia, sulla relazione tra geoeconomia e geopolitica. Antonia Colibasanu ci offre il suo punto di vista. Una precisazione: il recente passato, in particolare negli anni ’70, ci dice che il trinomio inflazione-disoccupazione- stagnazione (stagflazione) non è poi così inedito. Buona lettura, Giuseppe GerminarioSulla GeoeconomiaC’è un cambiamento in corso che potrebbe cambiare le regole del sistema globale.Di: Antonia ColibasanuLa scorsa settimana ho parlato e moderato di persona in diverse conferenze – una cosa rara dall’inizio della pandemia – i cui argomenti andavano dalla difesa e sicurezza al commercio regionale agli affari europei. Il denominatore comune, ovviamente, era la geopolitica, ma ciò che mi ha colpito di più delle mie conversazioni è stato che, piuttosto che il ritiro dall’Afghanistan o le elezioni in Germania, quasi tutti erano preoccupati principalmente dell’inflazione e della conversione ecologica dell’economia in corso in Europa. In effetti, quasi tutte le conversazioni avevano una cosa in comune: le sfide economiche della nostra società alla luce della pandemia. Fino ad agosto, l’inflazione era generalmente innescata dal settore energetico e da un ristretto insieme di beni come i semiconduttori i cui aumenti di prezzo erano legati alla crisi della catena di approvvigionamento. Ma, come evidenziato dai recenti aumenti dei prezzi di cibo e servizi, sembra che gli effetti si stiano ampliando. Condizioni meteorologiche avverse, siccità insolite e inondazioni che hanno distrutto i raccolti , spesso citati come danni collaterali del cambiamento climatico, hanno contribuito all’aumento dei prezzi dei generi alimentari. E sebbene fosse così anche prima dell’inizio della pandemia, la stessa ha effettivamente evidenziato le vulnerabilità del sistema alimentare, influendo sulla produzione, l’offerta e la distribuzione. L’aumento delle tariffe di trasporto marittimo, l’aumento dei prezzi del carburante e la carenza di autisti di camion stanno facendo aumentare i costi dei servizi di trasporto. Inoltre, la pandemia ha creato ai produttori difficoltà di accesso alla forza lavoro di cui hanno bisogno per far consegnare i raccolti in tempo utile (per non parlare dei lavoratori necessari per consegnare e distribuire altri beni). È stato così per i produttori di pomodori, arance e fragole in Europa nel 2020. In Australia, i gruppi industriali temono che le sfide legate alla pandemia possano far deperire quello che dovrebbe essere un raccolto stellare di cereali invernali in questa stagione. L’industria alimentare non è certo l’unica industria alle prese con questo tipo di sfide. Una spiegazione avanzata dagli specialisti delle risorse umane cita il fatto che sembra esserci una discrepanza tra le industrie che assumono e coloro che cercano lavoro, una dinamica apparentemente confermata dalla ripresa irregolare in diversi settori. Un’altra spiegazione si riferisce al fatto che, durante la pandemia, molti lavoratori si sono allontanati dalle città in cui lavoravano, lasciando i loro posti di lavoro vacanti fino a quando non si percepisce una migliore sensazione di quando la pandemia potrebbe placarsi. Questo parla dell’importanza per la forza lavoro di essere in grado – e disposta – a migrare da un luogo all’altro. Per la prima volta, assistiamo sia a un’elevata disoccupazione che a un’elevata inflazione, qualcosa di anomaloe quando le economie si stanno riprendendo dalla recessione, e generalmente anormale. L’inflazione in genere si accompagna alla ripresa e alla crescita, dinamiche che in genere riducono la disoccupazione. Il problema è che l’inflazione è sbilanciata: ci sono troppi posti di lavoro e poche persone disposte ad accettarli. L’estate del 2021 è stata tutt’altro che normale, ovviamente. La pandemia non è finita. La variante Delta, unita a bassi tassi di vaccinazione, ha nuovamente aumentato le infezioni da COVID-19 e ha quindi rallentato la ripresa del settore dei servizi. Oltre alla carenza di approvvigionamento che colpisce sia la spesa dei consumatori che quella delle imprese in tutto il mondo; una costante ondata di notizie tristi riguardanti l’Afghanistan, la stabilità politica globale e anche eventi estremi come uragani e incendi hanno eroso la fiducia dei consumatori. La fiducia è essenziale per il funzionamento di un’economia. La pandemia ha dimostrato ancora una volta quanto sia vulnerabile il nostro attuale sistema sociale. Come con la crisi finanziaria globale del 2008, le persone stanno assistendo in prima persona agli effetti negativi della globalizzazione, anche se conciliano il fatto che l’interconnessione e l’interdipendenza sono realtà che non possono essere annullate rapidamente. È solo ragionevole che mettano in discussione le attuali regole del gioco se quelle regole creano dolore e sofferenza. E, dopo tutto, è la tolleranza della gente per il dolore che innesca il cambiamento politico. Con così tanto malcontento generale per il modo in cui funziona il sistema globale, l’idea che ci sia qualcosa di intrinsecamente sbagliato nella nostra società ha a suo modo fatto avanzare la conversazione sulla sostenibilità e il cambiamento climatico. La percezione che viviamo in un mondo fragile richiede che chiediamo ai nostri governi di fortificare la nostra stessa esistenza, il tutto stabilizzando l’economia. Certo, è un cambiamento radicale, che richiede una ristrutturazione socio-economica. Da un punto di vista geopolitico, agli stati viene chiesto di utilizzare il loro potere economico per garantire condizioni di vita sicure e stabili per la loro gente. Questo è stato a lungo il caso, ma l’urgenza dei cambiamenti necessari in un momento di intensa competizione economica internazionale porta alla trasformazione della geopolitica in geoeconomia. Il significato tradizionale della geoeconomia è che le nazioni impiegano strumenti del commercio estero per raggiungere gli imperativi. Nell’attuale contesto di tempi profondamente incerti – grazie alla pandemia, ai cambiamenti climatici e alla rivoluzione digitale – la funzione geoeconomica dello stato-nazione si riferisce all’utilizzo di strumenti economici per raggiungere obiettivi politici e aumentare il potere dello stato-nazione. Il controllo dei mercati, la gestione delle eccedenze commerciali e il ricorso a sanzioni economiche o investimenti strategici per rafforzare l’influenza politica fanno parte dell’arsenale che un paese può utilizzare per costruire, mantenere e aumentare il proprio potere economico. Ma cos’è il potere economico? Come possiamo misurarlo, data la complessità dei tempi di pandemia in cui viviamo? La crescita del prodotto interno lordo reale e le dipendenze commerciali forniscono solo alcune idee di base sulla stabilità economica di un paese. Con la pandemia, abbiamo appreso che il potere di disposizione sulle materie prime strategiche svolge un ruolo importante nel mantenere vivi i settori strategici. Ciò che costituisce un settore strategico, e quindi una materia prima strategica, cambia anche in base al luogo e al tempo. Il petrolio non è così determinante ora come lo era negli anni ’70. L’approvvigionamento idrico, sebbene essenziale per tutti, è strategicamente più prezioso in alcuni luoghi rispetto ad altri. Fenomeni estremi attribuiti al cambiamento climatico pongono anche questioni specifiche a lungo termine. La capacità di produrre innovazione tecnologica darà ai paesi influenza sulle infrastrutture critiche e quindi consentirà loro di garantire la loro stabilità in tempi di eventi estremi come siccità e pandemie. Allo stesso tempo, la capacità di un paese di far rispettare gli standard e le norme internazionali è la chiave per stabilire le regole del sistema economico globale e per esercitare un’influenza su altri stati. Con la globalizzazione, abbiamo già paesi che utilizzano norme diverse che operano nella stessa economia di mercato, ma l’accesso ai mercati strategici è ancora difficile a causa della prevalenza di standard occidentali. Ci sono quindi tre elementi su cui uno stato dovrebbe concentrarsi nella costruzione della sua strategia geoeconomica. In primo luogo, deve mantenere la forza economica di cui dispone attualmente. In secondo luogo, deve ridurre le dipendenze economiche unilaterali. Terzo, deve sviluppare una strategia che catturi ed espanda il valore della sua forza economica. Nel compiere questi tre passi, lo stato si concentra sulla definizione dei suoi punti di forza economici, che sono in ultima analisi modellati dalla popolazione. Le risorse umane dello stato sono il bene più prezioso per la strategia geoeconomica, soprattutto in tempi di incertezza. Ecco perché il rapporto instabile tra inflazione e disoccupazione deve essere preso come un serio segnale di ristrutturazione economica. Il comportamento umano provocato dal dolore umano sta potenzialmente innescando una rivoluzione che potrebbe cambiare le regole del sistema globale. |
Sul campo i due principali contendenti iniziano a sfidarsi sempre più apertamente. La competizione economica è sempre meno esaustiva; è parte ed è sussunta sempre più alle dinamiche geopolitiche. Le apparenze ci mostrano una potenza in costante ascesa, la Cina ed una in crescente difficoltà, gli Stati Uniti; una con un quadro dirigente da anni stretto attorno ad un leader, l’altra in preda a continue fibrillazioni. Una ascesa che può portare ad una condizione di soffocamento dettata dalla posizione geografica, una stabilità che può tradire una difficoltà di ricambio e di alternative all’attuale gruppo dirigente sino ad un decennio fa garantiti da avvicendamenti più o meno concordati dalla parte cinese. Dalla parte americana una difficoltà attutita dalle numerose opzioni disponibili sul campo e dalle possibilità di ricambio offerte dalle sorprendenti e violente fibrillazioni in corso da anni nella classe dirigente. Nel mezzo un corteo di paesi in parte paralizzati dalla situazione sempre più caotica, in parte disposti ad approfittare degli spazi offerti dalle incertezze e dalla complessità del quadro politico; tutti al proprio interno spesso dibattuti tra le varie opzioni e le varie cordate di interessi. Almeno sino a quando la natura conflittuale tra i due principali contendenti prenderà il sopravvento e costringerà alla scelta di campo netta rendendo sempre più ardua ed impegnativa, anche se lucrosa nel lungo periodo, una posizione di neutralità o quantomeno di attesa. Tra questi la Russia sembra godere delle migliori opportunità. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
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Messi insieme, questi due sviluppi apparentemente non correlati segnalano una nuova strategia degli Stati Uniti nella competizione con la Cina.
La rapida conquista dell’Afghanistan da parte dei talebani ha fatto notizia in tutto il mondo. Pochi avrebbero potuto prevedere che il gruppo fondamentalista islamico, prevalentemente pashtun, avrebbe resuscitato il proprio potere nell’estate del 2021, dopo aver condotto un’insurrezione ventennale contro il governo di Kabul sostenuto dagli Stati Uniti.
All’indomani dell’invasione guidata dagli Stati Uniti del 2001, i talebani hanno iniziato a sfidare la NATO e a riprendersi vasti territori nel sud-ovest dell’Afghanistan dopo il pesante raggruppamento in Pakistan. La firma di un accordo di ritiro con gli Stati Uniti a Doha ha incoraggiato i talebani a sfruttare il proprio vantaggio e a porre fine alla guerra che dura da 20 anni. Sostenuti dall’Inter-Services Intelligence (ISI) pachistano, i talebani hanno ottenuto rapidi successi quando gli Stati Uniti hanno ritirato le truppe rimanenti dall’Afghanistan. Nell’agosto 2021, i talebani avevano conquistato tutte le principali città dell’Afghanistan e, infine, Kabul. A settembre controllavano l’intero paese dopo aver conquistato la montuosa valle del Panjshir, dove il Fronte di resistenza nazionale, guidato da Ahmad Masoud, aveva promesso di continuare a combattere i talebani.
Meno di un mese dopo la caduta di Kabul, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, il primo ministro britannico Boris Johnson e il primo ministro australiano Scott Morrison hanno lanciato un partenariato di sicurezza trilaterale, chiamato AUKUS, per contrastare la Cina. Il patto AUKUS consentirà all’Australia di schierare sottomarini a propulsione nucleare, che dovrebbero essere costruiti ad Adelaide, rendendo Canberra il settimo paese al mondo ad avere sottomarini azionati da reattori nucleari. L’obiettivo principale di questo patto trilaterale è contenere la minaccia proveniente dalla maggiore influenza della Cina nell’Indo-Pacifico e dalle sue ambizioni mondiali. Non sorprende che la formazione di AUKUS si sia estesa a intensificate tensioni indo-pacifiche, in particolare su Taiwan, sul Mar Cinese Meridionale e sull’Oceano Indiano orientale.
A prima vista, sembra che gli sviluppi in Afghanistan e in Australia siano eventi non correlati. Uno centrato nelle montagne dell’Hindukush; l’altro echeggiava a 9.500 chilometri di distanza, in mezzo alle acque dell’Indo-Pacifico. Tuttavia, in un contesto più ampio, questi due eventi sono interconnessi al centro della competizione Cina-Stati Uniti, formando i reggilibri di una nuova strategia che chiamo “lascia la cintura, premi la strada”. Con questo, intendo dire che gli Stati Uniti prenderanno sempre più di mira la Via della Seta marittima cinese, abbandonando in gran parte la Cintura economica della Via della Seta terrestre. In poche parole, il principale fronte della guerra delle infrastrutture sino-americane è il confine indo-pacifico, mentre il cuore dell’Eurasia sarà lasciato alle forze destabilizzanti della regione.
L’istituzione di AUKUS riafferma il fatto che la pietra angolare della strategia di contenimento della Cina di Washington è posta nella zona indo-pacifica. Pertanto, l’attenzione degli Stati Uniti alle posizioni geografiche nel cuore dell’Eurasia sarà degradata, ma questo fa parte del piano. La mancanza di volontà o capacità degli Stati Uniti di mantenere la propria presenza in Eurasia potrebbe interrompere intenzionalmente la stabilità della Cintura generando un minaccioso vuoto di potere. Il rapido ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan e il successivo potenziamento dei talebani hanno il potenziale per destabilizzare i progetti terrestri cinesi in Asia centrale, Pakistan e persino nello Xinjiang. Sebbene il caotico ritiro della guerra in Afghanistan abbia messo a dura prova la permanenza di Biden in patria, il vuoto geopolitico in Afghanistan in seguito al ritiro degli Stati Uniti potrebbe essere utilizzato per controbilanciare Mosca, Pechino,
Nonostante gli sviluppi apparentemente improvvisi degli ultimi due mesi, questa tendenza nella competizione globale non è nuova. Dopo quasi dieci anni di pausa, il Dialogo quadrilatero sulla sicurezza, noto anche come Quad, è stato ufficialmente ripreso nell’agosto 2017 per contenere la proiezione della potenza marittima di Pechino nel Mar Cinese Meridionale e nell’Oceano Indiano. Fondato inizialmente nel 2007, il Quad è composto da Australia, India, Giappone e Stati Uniti, preannunciando la possibile formazione di una NATO asiatica per contrastare la Shanghai Cooperation Organization (SCO). Ci sono state persino voci su un “Quad Plus” quando la Corea del Sud, la Nuova Zelanda e il Vietnam si sono uniti agli incontri nel marzo 2020. Gli esercizi di Malabar ospitati ogni anno dall’India sono una delle principali manifestazioni della sua componente militare.
In una dichiarazione congiunta del 2021 su “The Spirit of the Quad”, i leader di Australia, India, Giappone e Stati Uniti hanno evidenziato “una visione condivisa per un Indo-Pacifico libero e aperto (FOIP)” e un “regole- ordine marittimo basato nei mari della Cina orientale e meridionale” per contrastare la minaccia marittima della Cina. Questo progresso è stato concomitante con l’attenzione sempre più strategica dell’UE verso la zona indo-pacifica, poiché Francia, Germania e Regno Unito hanno accelerato la loro cooperazione con il dialogo Quad Plus. In questo contesto, il patto AUKUS integrerebbe il Quad nel controbilanciare la crescente influenza della Cina nell’Indo-Pacifico.
Sebbene AUKUS e Quad mostrino entrambi potenza di fuoco muscolare e tecnologica militare, mancano di una proporzionalità fondamentale. La Belt and Road Initiative è la principale strategia geoeconomica di Pechino per sfidare l’egemonia statunitense in tutto il mondo, mentre Quad e AUKUS sono strumenti geostrategici e militari per contrastare la Cina nella zona indo-pacifica. In altre parole, c’è un divario strategico tra la forza minacciosa e la controforza deterrente. È stato questo divario di proporzionalità a spingere l’amministrazione Biden a lanciare una specifica controforza geoeconomica contro Belt and Road: Build Back Better World, o B3W, annunciato a giugno al vertice del G-7 in Cornovaglia, nel Regno Unito.
Guidata dagli Stati Uniti, B3W mira a contrastare la leva globale cinese attraverso massicci investimenti nello sviluppo infrastrutturale dei paesi in via di sviluppo entro il 2035. Il piano dovrebbe fornire circa 40 trilioni di dollari, principalmente dal settore privato, ai paesi a basso e medio reddito , dall’America Latina e dai Caraibi all’Africa e all’Asia. Guidati dagli standard e dai principi del Blue Dot Network (BDN), i progetti B3W promettono di concentrarsi su diversi domini, in particolare il clima, la salute e la sicurezza sanitaria, la tecnologia digitale e l’equità e l’uguaglianza di genere. La portata globale del B3W fornirebbe ai suoi partner del G-7 diversi orientamenti geografici per rivolgersi a specifici paesi a basso e medio reddito in tutto il mondo. Mentre gli Stati Uniti si concentrano sull’Indo-Pacifico, il Giappone e l’UE si concentreranno rispettivamente sul sud-est asiatico e sui Balcani,
L’imminente competizione tra B3W, ora sostenuta da Quad e AUKUS, e la BRI cinese è un preludio alla guerra delle infrastrutture tra Cina e Stati Uniti. Il B3W non è solo una risposta finanziaria degli Stati Uniti alle ambizioni economiche della Cina; piuttosto è uno sforzo strategico per trasformare il crescente assetto geopolitico della Grande Eurasia e delle sue acque costiere stabilendo un nuovo modello di sviluppo. In altre parole, gli Stati Uniti stanno scatenando una controforza geoeconomica contro la BRI cinese per raggiungere i suoi grandi obiettivi geopolitici mobilitando le sue aziende private e quelle dei suoi alleati in massicci investimenti infrastrutturali per controllare i corridoi BRI. La nuova guerra delle infrastrutture determinerà la traiettoria e il percorso della battaglia geopolitica tra Cina e Stati Uniti per il dominio del mondo nel 21° secolo.
Dall’altra parte dell’equazione del potere globale, la Cina ha controllato con successo i mercati dell’Asia centrale perseguendo la sua dottrina del “equilibrio positivo” tra tutte le parti dell’Asia occidentale, in cui l’espansione della cooperazione con Pechino potrebbe essere l’unico punto su cui tutte le potenze regionali possono concordare. La drammatica crescita economica e la stabilità interna della Cina hanno allettato sistemi politici non democratici nella regione. Pechino ha allo stesso tempo stabilito strette relazioni economiche con gli sceiccati del Golfo Persico, Israele, Iran e Turchia. Tuttavia, la politica di successo di Pechino nel cementare la sua connessione con l’Asia occidentale attraverso l’Asia centrale potrebbe essere interrotta dalle minacce provenienti dall’Afghanistan. Il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan destabilizzerà la cintura terrestre mentre la forte pressione del Quad e ora dell’AUKUS contrasterà la strada marittima.
Il mondo è sull’orlo della competizione internazionale Cina-USA. Gli sviluppi regionali, come AUKUS, e le trasformazioni interne, come l’acquisizione di Kabul da parte dei talebani, saranno entrambi elementi cruciali nel grande scacchiere tra Stati Uniti e Cina. Ora che la polvere si è calmata a Kabul, si può vedere come il crescente potere dei talebani sia concomitante con il patto trilaterale AUKUS. Entrambe sono pietre miliari per una nuova fase della competizione sino-americana: lasciare la Cintura, premere la Strada.
https://thediplomat.com/2021/09/what-aukus-and-afghanistan-tell-us-about-the-us-asia-strategy/
Henry Levavasseur, L’identità come fondamento della città. Riconciliare ethnos e polis, Passaggio al bosco edizioni, 2021, € 10,00.
Questo saggio, chiaro e sintetico, si pone il problema di come conciliare ethnos e polis, ovvero in altri termini, ma di senso vicino, comunità e istituzione (politica).
Nella decadenza della modernità, cioè l’epoca in cui viviamo, ethnos e polis sono stati progressivamente separati: nel senso che si pensa possa costituirsi un’istituzione senza una certa omogeneità tra i cittadini. E tale omogeneità non è necessario che si fondi su dati concreti e reali.
L’autore cita a tale proposito, tra le tante, le interpretazioni moderne della celebre conferenza di Renan Cos’è una nazione? Il passo in cui Renan definisce la nazione come sintesi tra passato (possesso in comune di una quantità di ricordi, cose, rapporti, usi) e il presente (la volontà di vivere insieme ed avere un destino comune) è intesa pretendendo di ridimensionare e svalutare il passato, e attribuire alla volontà arbitraria (Tönnies) dei partecipanti la capacità di costruire un futuro comune tra persone prive di ogni passato comune. Un’esegesi che annichilisce totalmente ciò che nel pensiero di Renan era collegato necessariamente.
Alla volontà (arbitraria) e al diritto, inteso anch’esso riduttivamente (come atto volontario) dei consociati è rimessa la costituzione dell’ordine sociale o almeno della magna pars di esso, cioè la costituzione dell’istituzione. Così l’atto relativo è il risultato di una decisione comune degli associati, direttamente o per rappresentanza.
Il tutto non presuppone l’esistenza di una comunità: anche un’assemblea multietnica, multirazziale e multi religiosa potrebbe agevolmente trovare un modo d’esistenza comune e scriverlo su un pezzo di carta, sulla base della sola ragione. Una costituzione diventa così la sorella maggiore di un regolamento condominiale.
Ovviamente, nella realtà, non è così; anche le costituzioni frutto di un procedimento come quello descritto (come quasi tutte quelle moderne) sono poste in essere – e vengono bene – se espressione di una volontà comunitaria e di un ordine già – almeno in parte – esistente. Se non c’è in un gruppo politico almeno un certo tasso di omogeneità tra gli associati, l’impresa è destinata al fallimento.
Anche la storia recente l’ha provato. Oltre trent’anni fa, nella crisi (terminale) dell’URSS, Gorbaciov propose di stipulare (tra le repubbliche sovietiche) un nuovo trattato dell’unione (connotato da pluralismo e democrazia). L’impresa finì come tutti sappiamo: in gran parte perché era difficile tenere insieme repubbliche con maggioranza di cittadini cattolici o protestanti (come quelle baltiche) con altre a maggioranza cristiano ortodossa, o musulmana; peraltro tutte organizzanti popoli ed etnie diverse. In altra anche perché si può cercare di farlo, e molti imperi ci sono riusciti, ma a patto che il potere “federale” o meglio unificante non fosse democratico ma assoluto come quello zarista e, poi, comunista. Voler coniugare potere, disomogeneità e democrazia è un’impresa che non risulta riuscita nella storia.
Proprio questa refrattarietà al reale e al concreto è il principale connotato della modernità decadente. Scrive Levavasseur “questa situazione ricorda quella della fine del mondo sovietico, la cui ideologia marxista sembrava imporsi a tutti i popoli che controllava… sembrava che non ci fossero altri esiti possibili, se non quello del collettivismo, fino al giorno in cui il regime è crollato come un castello di carte, poiché la sua ideologia si basava su parole e concetti che non avevano più nulla a che fare con la realtà” e “La democrazia liberale potrebbe subire un giorno la stessa sorte, con la fondamentale differenza che la sua scomparsa provocherà un caos molto più consistente”. Distruggendo poi il passato comune, cancella l’ethos, che è fondamento dell’esistenza dell’ethnos. È necessario ricostruire il rapporto tra ethnos e polis, e così tra identità e sovranità “è più che mai necessario ritornare a una concezione dell’ordine politico che riconcilia nazione etnica (l’ethnos) e nazione civica (la polis)”.
In conclusione la concezione criticata della “democrazia liberale” – che a ben vedere è poco democrazia e anche poco liberale – rischia, assai più della caduta del comunismo, di far uscire non l’umanità, ma almeno i popoli europei dalla storia.
Teodoro Klitsche de la Grange
Poiché la geografia da sola non può essere sufficiente a determinare e fissare i limiti del continente, si pone la questione delle caratteristiche dell’identità collettiva europea come legittimazione o invalidazione dell’appartenenza di territori e società all’Europa. Questi sono i confini dell’appartenenza. Se le coste delimitano facilmente il nord, l’ovest e il sud dell’Europa, è nei confronti della zona orientale che l’elemento identitario e culturale, attraverso il prisma storico e politico, deve sovrapporsi agli apporti della geografia. Ovviamente, come i recenti Stati baltici, Estonia, Lettonia e Lituania, la delimitazione geografica copre la Bielorussia, la Moldova e l’Ucraina. La Russia è bicontinentale eurasiatica, ma ha una popolazione molto prevalentemente europea e soprattutto fissata ad ovest degli Urali, anche se il suo territorio è situato per il 75% in Asia; L’Europa continentale include quindi la Russia occidentale geografica. Le relazioni tra la Russia e l’Europa occidentale hanno a lungo alimentato dibattiti e continuano a scatenare passioni in Russia e in Occidente. L’europeismo russo – inteso come il modo in cui i russi comprendono l’Europa e si vedono all’interno del continente europeo – ha regolarmente agitato la società russa, la questione europea essendo indissolubilmente legata alla questione dell’identità così profondamente radicata nelle peculiarità nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali: anche se il suo territorio è per il 75% situato in Asia; L’Europa continentale include quindi la Russia occidentale geografica. Le relazioni tra la Russia e l’Europa occidentale hanno a lungo alimentato dibattiti e continuano a scatenare passioni in Russia e in Occidente. L’europeismo russo – inteso come il modo in cui i russi comprendono l’Europa e si vedono all’interno del continente europeo – ha regolarmente agitato la società russa, la questione europea essendo indissolubilmente legata alla questione dell’identità così profondamente radicata nelle peculiarità nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali: anche se il suo territorio è per il 75% situato in Asia; L’Europa continentale include quindi la Russia occidentale geografica. Le relazioni tra la Russia e l’Europa occidentale hanno a lungo alimentato dibattiti e continuano a scatenare passioni in Russia e in Occidente. L’europeismo russo – inteso come il modo in cui i russi comprendono l’Europa e si vedono all’interno del continente europeo – ha regolarmente agitato la società russa, la questione europea essendo indissolubilmente legata alla questione dell’identità così profondamente radicata nelle peculiarità nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali: Le relazioni tra la Russia e l’Europa occidentale hanno a lungo alimentato dibattiti e continuano a scatenare passioni in Russia e in Occidente. L’europeismo russo – inteso come il modo in cui i russi comprendono l’Europa e si vedono all’interno del continente europeo – ha regolarmente agitato la società russa, la questione europea essendo indissolubilmente legata alla questione dell’identità così profondamente radicata nelle peculiarità nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali: Le relazioni tra la Russia e l’Europa occidentale hanno a lungo alimentato dibattiti e continuano a scatenare passioni in Russia e in Occidente. L’europeismo russo – inteso come il modo in cui i russi comprendono l’Europa e si vedono all’interno del continente europeo – ha regolarmente agitato la società russa, la questione europea essendo indissolubilmente legata alla questione dell’identità così profondamente radicata nelle peculiarità nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali: L’europeismo russo – inteso come il modo in cui i russi comprendono l’Europa e si vedono all’interno del continente europeo – ha regolarmente agitato la società russa, la questione europea essendo indissolubilmente legata alla questione dell’identità così profondamente radicata nelle peculiarità nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali: L’europeismo russo – inteso come il modo in cui i russi comprendono l’Europa e si vedono all’interno del continente europeo – ha regolarmente agitato la società russa, la questione europea essendo indissolubilmente legata alla questione dell’identità così profondamente radicata nelle peculiarità nazionali del Paese. Seguendo Vasily Tatishchev, due famosi occidentali avevano in particolare fissato questo limite europeo per gli Urali:“Raduno dagli Urali a Gibilterra, dalla Tracia alle Ebridi; e seguita dalle sue processioni di imperi, [l’Europa] avrebbe potuto sfidare il mondo” (Jules Romains, Les hommes de bon will ) e il generale de Gaulle con l’obiettivo di “creare la solidarietà europea dall’Atlantico agli Urali” , ma anticipando che “l’URSS non è più quello che è, ma la Russia” . Gli Urali manifestano una scelta di europeizzazione senza fissare un termine politico, poiché Mosca conserva la scelta di proiettarsi anche sulle sue periferie orientali ( Michel Foucher ).
La questione si pone quindi più particolarmente in primo luogo per il Caucaso meridionale, la Transcaucasia o quella che fu chiamata un tempo Asia occidentale comprendente gli Stati di Armenia, Georgia e Azerbaigian; sorge anche per l’Asia Minore o l’Anatolia, la Turchia per la maggior parte.
Il Caucaso è stato a lungo considerato l’asse di separazione tra l’Europa a nord e l’Asia a sud, ma il suo cuore georgiano e armeno beneficia del contributo di analisi storiche e politiche al servizio della profonda comprensione delle caratteristiche identitarie e culturali, per il riconoscimento europeo e respingere al fiume Araxe il vero limite con l’Oriente turco, la Persia e le sponde occidentali del Mar Caspio. La porzione di confine turco nel continente europeo è la Tracia orientale, confine politico che rappresenta meno del 3% della superficie totale del territorio turco schierato quasi esclusivamente nell’Asia anatolica. Ciò che la geografia suggerisce facilmente da questo rapporto totalmente squilibrato tra Europa e Asia è confermato dalla rigorosa linea di demarcazione tra i due continenti rappresentati dal Mar di Marmara. L’origine territoriale degli assi di penetrazione turca o ottomana in Europa è molto asiatica e si tratta di proiezioni orientali verso l’Europa fondate sul loro retroterra religioso, culturale e politico specificamente extraeuropeo, che ogni volta spiega il fallimento del tentativo di creare un continuum sul territorio europeo dalla matrice orientale. Prima potenza orientale dopo la linea di demarcazione tra Europa e Asia, la Turchia è per il continente europeo la porta d’accesso agli orizzonti vicini e mediorientali. L’origine territoriale degli assi di penetrazione turca o ottomana in Europa è molto asiatica e si tratta di proiezioni orientali verso l’Europa basate sul loro background religioso, culturale e politico specificamente extraeuropeo, che ogni volta spiega il fallimento del tentativo di creare un continuum sul territorio europeo dalla matrice orientale. Prima potenza orientale dopo la linea di demarcazione tra Europa e Asia, la Turchia è per il continente europeo la porta d’accesso agli orizzonti vicini e mediorientali. L’origine territoriale degli assi di penetrazione turca o ottomana in Europa è molto asiatica e si tratta di proiezioni orientali verso l’Europa basate sul loro background religioso, culturale e politico specificamente extraeuropeo, che ogni volta spiega il fallimento del tentativo di creare un continuum sul territorio europeo dalla matrice orientale. Prima potenza orientale dopo la linea di demarcazione tra Europa e Asia, la Turchia è per il continente europeo la porta d’accesso agli orizzonti vicini e mediorientali. il che spiega ogni volta il fallimento del tentativo di creare un continuum sul territorio europeo di matrice orientale. Prima potenza orientale dopo la linea di demarcazione tra Europa e Asia, la Turchia è per il continente europeo la porta d’accesso agli orizzonti vicini e mediorientali. il che spiega ogni volta il fallimento del tentativo di creare un continuum sul territorio europeo di matrice orientale. Prima potenza orientale dopo la linea di demarcazione tra Europa e Asia, la Turchia è per il continente europeo la porta d’accesso agli orizzonti vicini e mediorientali.
Se Michel Foucher evoca i “frammenti d’Europa” è in particolare perché il continente ha vissuto una moltiplicazione dei suoi confini interni secondo un processo continuo e accelerato dalle crisi; inoltre, “più di ogni altro, l’Europa è il continente dei confini” (Yves Gervaise). La creazione e poi la generalizzazione del concetto di stato-nazione è la causa principale di un periodo inaugurato a distanza dal Trattato di Westfalia.(1648), ma la cui vera portata si fonde con l’ideologia del diritto dei popoli all’autodeterminazione, favorita dal crollo dei maggiori gruppi politici storici. La scomparsa degli imperi russo, ottomano, austro-ungarico e tedesco è il risultato di un conflitto che ha visto il suo completamento la creazione di nuovi stati, in particolare Austria, Cecoslovacchia, Ungheria, i tre Stati baltici, la nuova Polonia e Jugoslavia nonché il mantenimento di rivendicazioni di indipendenza da altre minoranze nazionali o il loro manifestarsi per contestare le disposizioni dei Trattati di Versailles (anche Saint-Germain, Trianon, Sèvres). Nuovo conflitto, nuovo sconvolgimento dei confini interni del continente europeo: la sovietizzazione, poi chiamata “sovranità limitata”dell’Europa centrale e orientale e di parte dei Balcani, la divisione della Germania e il recupero dei paesi baltici da parte dell’URSS. La Guerra Fredda (1947-1991) ha rappresentato un periodo di glaciazione geopolitica per l’Europa continentale durante il quale non si sono verificati notevoli cambiamenti di confine nello spazio continentale.
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Poi, improvvisamente, la caduta del comunismo ha provocato una riconfigurazione dello spazio europeo, degli Stati e dei loro rispettivi confini, secondo schemi derivanti dalla storia o in un inedito quadro essenzialmente orientale. La caduta dell’impero sovietico rende la loro rilevanza politica ai confini delle regioni sotto il giogo comunista, consente la riunificazione della Germania, ma mantiene l’enclave di Kaliningrad o Koenisberg. Più tardi, la Cecoslovacchia si divise in due entità e la Germania causò la disgregazione della Jugoslavia. In totale, è stata la comparsa di una quindicina di nuovi stati al suo interno e il numero di diadi corrispondenti, a cui l’Europa continentale ha assistito senza contare gli stati di fatto e contesi, come, ad esempio, Kosovo. , Cipro del Nord, Transnistria,Repubbliche Lugansk e Donetsk , Nagorno-Karabakh, Abkhazia, Ossezia del Sud, quasi cinquanta Stati di fatto o e de jure. Va precisato che l’Unione Europea a 27, quindi, non copre, tutt’altro, l’intero territorio europeo. La principale particolarità di questa frammentazione europea, e ciò che tendiamo a dimenticare troppo, è che queste delimitazioni politiche dei confini europei sono il risultato di crisi, insediamenti postbellici e lotte di potere. Un certo numero di questi confini non sono ancora stati accettati dai popoli e portano, in tutte le loro possibili varianti, a reazioni, sia contro l’isolamento politico serbo e per l’accesso alle coste dell’Adriatico, sia per la non adeguatezza del confini politici dell’Ungheria con le popolazioni magiare per citare solo questi due esempi. Sottolineando il posto unico dell’Europa nel mondo,“89 diadi o il 28 % del totale mondiale per il 23% del numero degli stati, l’8% della popolazione e il 3% della superficie. In totale, il continente europeo è aumentato di 26.000 km dagli anni ’90. Da questo punto di vista, l’Europa è il più nuovo dei continenti”.
La particolarità del rapporto dell’UE con la frontiera è che “ qualsiasi riflessione che voglia fissare definitivamente i limiti dell’Unione è in contraddizione con il processo di costruzione europea che, dal 1950, è una “creazione continua”” (Pascal Fontaine) . Deriva dal processo di integrazione sul tema delle frontiere sia interne che esterne dell’UE, la cancellazione del quadro territoriale e il disuso della linea di confine a favore del concetto di grande mercato interno, l’allargamento di uno spazio deterritorializzato gestito da istituzioni integrate e da una nuova identità plurale garantita dalla cittadinanza europea da un lato, e dalla moltiplicazione dei partenariati, della politica di vicinato e della gestione dei candidati, dall’altro.
I cambiamenti geopolitici degli anni ’90 hanno portato all’adesione 2004-2007-2013 all’Unione Europea e hanno raddoppiato il numero dei suoi chilometri di frontiere esterne e diadi. Oggi l’UE condivide più di 14.500 km di confini terrestri con 21 Stati. Confini di fattofurono anche erette come quelle che delimitano la Transnistria, il Kosovo, ecc. Ci sono anche casi particolari come l’isolamento di territori non membri dell’UE nel suo spazio territoriale, come Svizzera, Liechtenstein, Kaliningrad (Russia) e i piccoli stati, Andorra, Monaco, San Marino e lo Stato del Vaticano. Anche gli Stati balcanici extra UE possono essere considerati privi di sbocco sul mare a causa del loro accerchiamento in un asse nord-ovest-sud-est, da Croazia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Grecia, e ad ovest con la chiusura costiera dal mare Adriatico. Esiste una situazione geografica inversa con l’area senza sbocco sul mare spagnola di Ceuta e Melilla (16 km) al centro del territorio marocchino dall’indipendenza di quest’ultimo nel 1956, nonché la vicinanza dell’arcipelago delle Isole Canarie . L’ondata di adesioni del 1995, Austria, Finlandia, Svezia, ha dato un confine di 1.300 km con la Russia, ampliato di ulteriori 1.000 km con l’adesione, nove anni dopo, della Polonia (Kaliningrad), della Lituania, dell’Estonia e della Lettonia. È con l’adesione della Bulgaria nel 2007 che la Turchia (446 km) può ormai condividere un confine con l’UE sulla rotta che era stata fissata nel 1923 dal Trattato di Losanna. Un altro caso particolare è l’uscita del Regno Unito dall’UE: quest’ultima perde i suoi 244.820 km 2di superficie e i vantaggi del dispositivo geopolitico globale offerto fino ad allora dalla presenza di Londra al suo interno. I negoziatori europei credevano di poter imporre, giocando sulla rete di sicurezza nordirlandese e nonostante la manifesta volontà popolare del Regno Unito per la Brexit, le regole di un’unione doganale con l’UE separando di fatto Gran Bretagna e Irlanda del Nord. Tuttavia, questo per dimenticare che la prima ragione del desiderio britannico di lasciare l’UE era il suo rifiuto del suo sistema di integrazione normativa e giudiziaria. Non va inoltre trascurato l’impatto sulla Brexit della presenza di oltre 3 milioni di stranieri europei nel Regno Unito. Ovviamente l’uscita britannica riguarda anche tutte le regioni ultraperiferiche del Regno Unito e in particolare Gibilterra.
All’interno dei meccanismi annessi alle frontiere esterne, i collegamenti tra l’Unione Europea e il continente sono realizzati sulla scala, in parte, dei Balcani occidentali; per l’altra parte dell’Europa orientale nell’ambito del partenariato orientale: Ucraina, Moldova, Bielorussia e Caucaso meridionale. Le articolazioni tra l’UE ei suoi margini esistono con la Turchia, la Russia, gli Stati del Maghreb e del Medio Oriente e l’arco di crisi mediorientale. L’UE ha svolto nella sua politica di vicinato alternativamente la ricerca realistica di poli di stabilità e l’avvio di grandi politiche di stretti accordi di associazione al servizio di una visione atlantica propositiva, soprattutto con il vicinato orientale,
È così che si conferma, su una base identitaria comune, la grandissima diversità delle caratteristiche che definiscono i territori all’interno della delimitazione dei confini dell’Europa continentale. Questa varietà europea ha radici profonde, in particolare mitiche, spirituali e culturali. Nulla può, però, garantirne la sostenibilità in modo assoluto rispetto alle diverse sfide e minacce che si sono recentemente accumulate al suo interno, senza un periodico richiamo ai limiti che ne costituiscono il quadro.
La qualità dei pensatoi (think tank) possono essere considerati una cartina di tornasole dello stato di salute di un paese egemone o al centro di un impero. Sono in gran parte strumenti di influenza, di manipolazione sino a diventare veri e propri portatori impropri di interessi lobbistici. Tutte caratteristiche però che non differenziano sostanzialmente la natura e il peso di questi rispetto a quelli operanti nella provincia e nella periferia imperiale ossequiente se non nel livello di sciatteria, rozzezza e provincialismo e nella collocazione gerarchica di questi ultimi. Significativa è invece la presenza o meno in esso di aree e centri di elaborazione indipendenti e alternativi, magari anche autonomi. Non sono necessariamente solo il segno di una tolleranza e di un paternalismo di centri decisionali ed egemoni sicuri della propria posizione; sono anche l’indizio di vitalità e soprattutto della necessità dei centri decisori di disporre di diversi punti di vista e della propensione ad accettare proficuamente spazi conflittuali necessari a rigenerare il sistema. Un equilibrio difficile da mantenere la cui caduta può altresì rivelare una condizione inquietante di declino o il limite che impedisce di assumere stabilmente una posizione egemonica. Buona lettura_Giuseppe Germinario
Che i celebri pensatoi americani – e non solo -fossero privi della necessaria neutralità e imparzialità nell’analizzare le scelte di politica estera americana e di politica militare lo aveva già ampiamente compreso Noam Chomsky analizzando i report dei pensatoi americani durante l’impegno fallimentare della guerra del Vietnam. Uno dei tanti impegni fallimentari sul piano militare gli Stati Uniti… Grazie alle indagini del periodico indipendente americano The Intercept sappiamo che il governo ha assegnato un massiccio contratto da 769 milioni di dollari ad Alion Science and Technology, un appaltatore della difesa, per soluzioni tecnologiche e di intelligence “all’avanguardia” “che supportano direttamente il combattente”. Tuttavia parte del denaro contenuto in quel contratto è andato anche ai più importanti think tank della nazione, che di routine sostengono budget più elevati del Pentagono e una maggiore proiezione della forza militare americana. Il Center for Strategic and International Studies, o CSIS, e il Pacific Forum sono solo due degli istituti di ricerca indipendenti a cui sono state assegnate parti dei 769 milioni di dollari ad Alion Science come subappaltatori. (Gli altri – Russia Research Network Limited, Center for Advanced China Research e Center for European Policy Analysis – sono meno importanti). sovvenzioni che affluiscono agli istituti di ricerca. Nello specifico Andrew Schwartz, un portavoce del CSIS, che ha ricevuto poco meno di 1 milione di dollari dal contratto di intelligence di Alion, ha scritto in una e-mail che il finanziamento è stato utilizzato “per aiutare gli analisti del governo degli Stati Uniti, incluso ma non limitato al personale militare, a comprendere meglio il processo decisionale russo, impatti climatici sulla sicurezza nell’Artico, problemi di sicurezza africana, compresi i legami sempre più profondi della Cina con il settore della sicurezza africano, e minacce alla sicurezza interna, compresa la cibernetica”. A luglio, Alion Science and Technology è stata acquisita da Huntington Ingalls Industries, un importante costruttore navale e una delle più grandi aziende di difesa del mondo. La società ha rifiutato di commentare i suoi legami con i pensatoi o come è stato utilizzato il contratto di intelligence. Il Pacific Forum non ha risposto a una richiesta di commento. L’organizzazione ha ricevuto $ 586.555 dal contratto di Alion. Il Forum del Pacifico ha fatto pressione in modo aggressivo per una maggiore difesa missilistica e spese navali. L’Hudson Institute – che non a caso fu oggetto di pesanti ironie da parte Chomsky -è un altro think tank aggressivo che fa molto affidamento sui finanziamenti del Pentagono. Il gruppo ha recentemente spinto per “avanzamenti all’avanguardia come aerei stealth”ft” per competere con la Cina e una maggiore attenzione alle capacità di guerra informatica. Il gruppo ha ricevuto quest’anno un contratto da 356.263 dollari direttamente dal Pentagono per produrre un report sulla difesa aerea. L’anno scorso, il gruppo ha ricevuto quasi mezzo milione di dollari per produrre rapporti e seminari per conto del Dipartimento della Difesa. Il Center for a New American Security, un think tank che quest’anno ha testimoniato davanti al Congresso per sollecitare maggiori finanziamenti per la tecnologia militare avanzata sul campo di battaglia e una maggiore attenzione alle armi che potrebbero essere utilizzate per uno scontro con la Cina, ha ricevuto almeno 1,1 milioni di dollari in Finanziamento del Pentagono. Ma perché è così importante analizzare il rapporto diretto tra il report prodotti da questi pensatori e finanziamenti provenienti dal Pentagono? Il ruolo dei think tank nel dibattito politico non può essere sottovalutato. Dalla metà del XX secolo, centri accademici apparentemente indipendenti, spesso con fonti di finanziamento opache, hanno svolto un ruolo smisurato nel consigliare il Congresso e le agenzie federali sulle principali priorità politiche. I media spesso si appoggiano all’opinione del gruppo di esperti quando cercano l’opinione degli esperti. E dato che i funzionari dei think tank raramente si registrano come lobbisti, sono visti come esperti politicamente neutrali che vengono assunti per lavorare all’interno di varie amministrazioni presidenziali. Opportuno- nonché ironico -è il giudizio di Ben Freeman direttore della Foreign Influence Transparency Initiative presso il Center for International Policy, un istituto di ricerca che non accetta finanziamenti militari secondo il quale con così tanti think tank che ottengono una fetta del budget del Pentagono, non sorprende che il coro dei think tank di Washington canti le lodi del Pentagono. Ma ancora più interessanti sono i dati rilevati dal Center for International Policy che ha esaminato i 50 migliori think tank del paese. Il rapporto ha rilevato ampi legami tra il Pentagono e gli appaltatori militari con i think tank più influenti. Il CSIS, osserva il rapporto, ha ricevuto oltre $ 5 milioni di finanziamenti dal governo e dagli appaltatori della difesa dal 2014 al 2019. Proprio per questo Freeman ha commentato “Nascondere potenziali conflitti di interesse nelle testimonianze del Congresso o nei lavori pubblicati dai gruppi di esperti dà al pubblico e ai responsabili politici l’impressione di leggere ricerche imparziali o ascoltare un esperto veramente obiettivo, quando in realtà potrebbero ascoltare qualcuno il cui lavoro viene finanziato da un’organizzazione con un’immensa partecipazione finanziaria nell’argomento di quella ricerca”. Un’ultima considerazione: i consigli di questi esperti profumatamente pagati dal Pentagono hanno condotto l’America a scelte spesso disastrose . Per questo i loro report, le loro relazioni e le loro pubblicazioni dovrebbero essere oggetto di un pubblico dibattimento all’interno del Congresso ma soprattutto da parte delle organizzazioni della società civile. Certe scelte non solo costano soldi ma costano anche il sangue dei cittadini americani.