Svezia, un paese sempre più allineato; in tanti aspetti. Intervista a Max Bonelli

La Svezia da almeno un decennio ha rimesso in discussione e praticamente distrutto i due principali pilasti sui quali ha fondato il proprio prestigio internazionale. La condizione di neutralità che le consentiva spesso di porsi come mediatrice nei conflitti internazionali; l’applicazione estensiva del welfare in tutti gli ambiti della vita civile, accompagnata da un elevato livello di tassazione. L’instabilità e la fragilità dei regimi di alcuni paesi dell’Europa Baltica e di quella Orientale l’hanno spinta ad un livello di interventismo addirittura più spregiudicato rispetto a quello statunitense seguendo una logica di ostilità verso la Russia e di sostegno all’aggressività americana. L’avvento di Trump ha disorientato e sconvolto le certezze della classe dirigente scandinava, senza però minarne la preminenza, almeno nel breve periodo. Per il momento riesce a galleggiare, abbarbicata al deep state americano, infiltratosi saldamente in vent’anni di relazioni tentacolari; la bussola, però, non riesce più ad indicare una direzione precisa. Sarà, comunque, un paese cruciale nel caso dovesse accrescersi la conflittualità anarchica tra gli stati europei; potrebbe rivelarsi uno dei cunei tesi a rendere più difficoltoso un processo di avvicinamento alla Russia dei più importanti stati europei. Buon ascolto_ Germinario Giuseppe

Guerra di secessione americana-le ragioni del protezionismo, a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto la traduzione di un interessante articolo del professore americano Thomas Di Lorenzo riguardante i motivi profondi della drammatica guerra di secessione interna agli Stati Uniti deflagrata a metà ‘800.

 Il saggio è importante per almeno due motivi.  https://www.paulcraigroberts.org/2017/12/01/professor-dilorenzo-explains-real-cause-war-northern-aggression/

Il primo riguarda il contributo ulteriore che riesce ad offrire, pur in una produzione letteraria ormai copiosa, sulle cause scatenanti di un evento sanguinoso e tragico, che portò alla morte violenta di circa il 3% della popolazione statunitense, concentrata nella sua parte più vitale e ammantato di una retorica umanitaria ed antirazziale in gran parte fuorviante rispetto a quel contesto storico; evento epocale, propedeutico alla irresistibile ascesa di quello stato nell’agone geopolitico mondiale.

Il secondo aiuta indirettamente a collocare più realisticamente e pragmaticamente il dibattito sul rapporto tra globalizzazione e protezionismo.

Il termine di globalizzazione tende ad essere identificato con il processo di liberalizzazione degli scambi. Con globalizzazione si dovrebbe intendere, invece, la possibilità e capacità incrementata di relazione, comunicazione e scambio resa possibile dagli impressionanti sviluppi della tecnologia in spazi talmente estesi e lassi di tempo talmente ridotti, impensabili sino a quaranta anni fa. Il processo di globalizzazione non comporta l’eliminazione e l’irrilevanza progressiva di regole, norme, imposizioni di fatto e compromessi che conformino tali scambi, tutt’altro; i campi di normazione e di azione si estendono in ambiti sino a poco tempo fa impensabili. Il discrimine che determina le peculiarità di sviluppo di questo processo è tra una situazione di dominio egemonico di una potenza sulle altre ed una nella quale sono più potenze a contendersi il predominio e le rispettive aree di influenza all’interno delle quali comunque avviene il gioco dei vari centri strategici e dei vari stati nazionali.

Nel primo caso è più facile che la normazione sia più uniforme, ma comunque conformata dando priorità alla visione e agli interessi della forza dominante; tendenzialmente l’ambito economico e le strategie politiche all’interno di esso assumono un carattere più autonomo.

Nel secondo la mediazione, i contrasti e la regolazione sono sicuramente più faticosi, imprevedibili e contraddittori. Ma sempre di regolazione si tratta. Gli Stati Uniti, specie nella periferia e nella semi periferia, sono presentati ostinatamente come i paladini del liberalismo tout court, quando sono in realtà i campioni di un liberalismo alquanto selettivo e di una definizione di regole e consuetudini conformi alle loro esigenze di sviluppo e di successo. Sarebbe interessante analizzare con cura e competenza le loro modalità operative e regolative. Sono un esempio, ma certamente anche gli altri soggetti politici, gli altri stati ambiscono ai medesimi obbiettivi, secondo le ambizioni e le possibilità delle rispettive classi dirigenti (qui di seguito un testo dove tratto più estesamente l’argomento ( http://italiaeilmondo.com/2016/10/02/globalizzazione-e-stati-nazionali/  – http://italiaeilmondo.com/category/dossier/globalizzazione-e-stati-nazionali/ ). Ogni stato ed ogni formazione sociale che abbia  voluto tentare la strada dello sviluppo e della crescita di potenza ha tentato di stabilire al proprio interno e nelle relazioni esterne particolari norme e filtri che consentissero il proprio sviluppo industriale.

La guerra di secessione americana rappresenta certamente un paradigma per tentare di inquadrare queste dinamiche. Un paradigma, però, che non deve nascondere l’attuale complessità dell’azione politica dei centri strategici. Allora la contesa riguardava praticamente l’entità delle barriere doganali e le modalità di funzionamento delle giovani istituzioni americane; oggi le contese riguardano apparati e ambiti operativi molto più sofisticati e complessi all’interno dei quali le barriere citate assumono un ruolo secondario e spesso distorcente. Gli Stati Uniti, ancora oggi, con le vicende legate all’avvento della presidenza Trump appaiono l’epicentro di questo scontro. A titolo di esempio per definizione parziale, riguarda la difesa del know-how, della conoscenza, della tecnologia, della determinazione degli standard di applicazione, delle caratteristiche dei prodotti, della regolazione dei flussi finanziari, dei dati, delle comunicazioni, dei confini entro i quali gli stati hanno giurisdizione. Tutto questo presuppone l’esistenza, non l’abolizione o l’indebolimento degli stati nazionali, come ancora sentiamo predicare soprattutto negli ambienti della sinistra, mondialista o del particulare che sia. Le modalità di sviluppo delle loro relazioni e dei loro conflitti sono, quindi, una chiave interpretativa fondamentale delle vicende del mondo. Buona lettura_ Germinario Giuseppe

PS_ Per la traduzione, per motivi di tempo, ho corretto le imprecisioni più vistose del traduttore utilizzato. Segnalate eventualmente ulteriori errori ed imperfezioni

guerra-civile-americana-27617055Il professor DiLorenzo spiega la vera causa della guerra dell’aggressione nordica

1 ° dicembre 2017 | Categorie: Contributi ospiti | Tag: | Stampa questo articolo

Il professor DiLorenzo spiega la vera causa della guerra dell’aggressione nordica

Le cause della “guerra civile” nelle parole di Abraham Lincoln e Jefferson Davis
Di Thomas DiLorenzo
, 30 novembre 2017
https://www.lewrockwell.com/2017/11/thomas-dilorenzo/the-causes-of-the- guerra civile-in-the-parole-di-Abraham-Lincoln-e-Jefferson-Davis /

“Quando [gli stati] entrarono nell’Unione del 1789, accompagnarono il loro ingresso con l’innegabile riconoscimento della facoltà del popolo di riprendere l’autorità delegata ai fini di quel governo, ogni volta che, a loro parere, le sue funzioni erano pervertite e i suoi fini sconfitti . . . gli Stati sovrani qui rappresentati si sono separati da quella Unione, ed è un grave abuso di linguaggio definire tale atto ribellione o rivoluzione. “ -Jefferson Davis, Primo discorso inaugurale, Montgomery, Alabama, febbraio 1861.

“Quindi . . . l’Unione è perpetua  ed [è] confermata dalla storia dell’Unione stessa. L’Unione è molto più antica della Costituzione. È stato formato, infatti, dallo Statuto nel 1774. È stato maturato e confermatoo dalla Dichiarazione d’Indipendenza nel 1776. È stato ulteriormente consolidato e la fede di tutti i tredici Stati si è espressa e impegnata espressamente nella affermazione che dovrebbe essere perpetua . . . . Da queste considerazioni risulta che nessuno Stato. . . può uscire legalmente dall’Unione. . . e quelli che agiscono. . . contro l’autorità degli Stati Uniti sono insurrezionali o rivoluzionari. . . “
-Abraham Lincoln, primo discorso inaugurale, 4 marzo 1861.

Queste due dichiarazioni di Abraham Lincoln e Jefferson Davis nei rispettivi discorsi inaugurali evidenziano forse la causa principale della guerra per prevenire l’indipendenza del Sud: Davis credeva, come fecero i padri fondatori, che l’unione degli stati fosse un’unione volontaria creata quando gli Stati liberi, indipendenti e sovrani hanno ratificato la Costituzione, come stabilito dall’articolo 7 della Costituzione; Lincoln affermò che non era volontaria; era più simile a quella che le generazioni future avrebbero conosciuto come Unione Sovietica – tenute insieme dalla forza e dallo spargimento di sangue. Murray Rothbard ha deriso la teoria di Lincoln circa l’unione americana non volontaria con una teoria dell’unione “Venere velenosa” descritta nel suo saggio, “Just War”. Infatti, nello stesso discorso Lincoln ha usato le parole “invasione” e “spargimento di sangue” per descrivere cosa sarebbe successo con qualsiasi stato che avesse lasciato la sua unione “perpetua”. La sua posizione era che dopo aver combattuto una lunga guerra di secessione dal tirannico impero britannico, i fondatori si voltarono e crearono uno stato centralizzato quasi identico, di tipo britannico, dal quale non ci sarebbe mai stata alcuna via di fuga.

Per quanto importante fosse questo problema, Jefferson Davis annunciò al mondo che una questione altrettanto importante se non più importante era il tentativo del Nord di usare finalmente i poteri dello stato nazionale per saccheggiare il Sud, con una tariffa protezionistica come suo principale strumento di predazione. Come ha affermato nel suo primo discorso inaugurale, il popolo del Sud era “ansioso di coltivare la pace e il commercio con tutte le nazioni”. Tuttavia:”Non c’è motivo di dubitare che il coraggio e il patriottismo del popolo degli Stati confederati si troveranno pronti a qualsiasi misura di difesa che potrebbe essere richiesta per la loro sicurezza. Dedicati alle attività agricole, il loro principale interesse è l’esportazione di una merce richiesta in ogni paese manifatturiero. La nostra politica è la pace e il commercio più libero che le nostre necessità consentiranno. È allo stesso modo il nostro interesse, e quello di tutti coloro a cui vorremmo vendere e da cui compreremmo, che ci dovrebbe essere la minor quantità di restrizioni praticabili sull’interscambio di merci. Non può esserci che poca rivalità tra noi e qualsiasi comunità manifatturiera o di navigazione, come gli Stati nordoccidentali dell’Unione americana. ”

“Deve seguire, quindi, che l’interesse reciproco dovrebbe invitare alla buona volontà e alla gentilezza tra loro e noi. Se, tuttavia, la passione o la lussuria del dominio dovessero offuscare il giudizio e infiammare l’ambizione di questi Stati, dobbiamo prepararci a fronteggiare l’emergenza e mantenere, con l’ultimo arbitraggio della spada, la posizione che abbiamo assunto tra le nazioni della terra.”

Per inserire queste affermazioni nel contesto, è importante capire che il Nord stava più che raddoppiando il tasso medio delle importazioni in un momento in cui almeno il 90% di tutte le entrate fiscali federali proveniva dalle tariffe sulle importazioni. Il livello di tassazione federale era più che raddoppiato (dal 15% al 32,7%), come accadde il 2 marzo 1861, quando il presidente James Buchanan, il protezionista della Pennsylvania,commutò l’ordinanza tariffaria di Morrill in legge; una legge che fu pervicacemente promossa da Abraham Lincoln e il Partito Repubblicano. (La delegazione della Pennsylvania era una componente chiave per la nomina di Lincoln. Prima della convention repubblicana mandò un emissario privato, il giudice David Davis, in Pennsylvania con copie originali di tutti i suoi discorsi in difesa delle tariffe protezionistiche degli ultimi venticinque anni per convincere gli stessi protezionisti della Pennsylvania, guidati dal produttore / legislatore d’acciaio Thaddeus Stevens, che era il loro uomo. Ha conquistato la delegazione della Pennsylvania e in seguito ha nominato Davis alla Corte Suprema.

Da quando entrarono in vigore la Tariffa del 1824 e la “Tariffa degli abomini” ancor più protezionistica del 1828, con una aliquota media del 48%, il Sud protestava e minacciava persino l’annullamento e la secessione dal saccheggio protezionistico, come fece la Carolina del Sud nel 1833 quando fu formalmente annullata la “Tariffa degli abomini”. I voti al Congresso su queste tariffe erano completamente sbilanciati in termini di sostegno settentrionale e opposizione meridionale – sebbene vi fossero piccole minoranze di protezionisti del Sud e commercianti liberi del Nord, specialmente a New York in quest’ultimo caso.

Il Sud, come il Mid-West, era una società agricola che veniva saccheggiata due volte dalle tariffe protezionistiche: una volta pagando prezzi più elevati per i manufatti “protetti” e una seconda volta riducendo le esportazioni dopo che le alte tariffe impoverivano i loro clienti europei ai quali era proibitivo vendere negli Stati Uniti a causa delle tariffe elevate. La maggior parte dei prodotti agricoli del Sud – quasi il 75% circa in alcuni anni – era venduta in Europa.

La Carolina del Sud annullò la tariffa degli abomini e costrinse il presidente Andrew Jackson ad accettare un tasso tariffario inferiore, di compromesso, introdotto per più di dieci anni, a partire dal 1833. Il Nord non aveva ancora il potere politico di saccheggiare il Sud, un atto che molti statisti del Sud ritenevano talmente una grave violazione del patto costituzionale da giustificare la secessione. Ma nel 1861 la crescita della popolazione nel Nord e l’aggiunta di nuovi stati del Nord, avevano dato al Nord stesso un potere politico sufficiente per saccheggiare il Sud e il Mid-West agricoli con tariffe protezionistiche. La Tariffa Morrill era passata alla Camera dei Rappresentanti durante la sessione del 1859-60, molto prima che qualsiasi stato meridionale si fosse separato, e era segnato sul muro che era solo una questione di tempo prima che il Senato degli Stati Uniti ne seguisse l’esempio.

La Costituzione Confederata ha messo fuori legge completamente le tariffe protezionistiche, chiedendo solo una modesta “tariffa di entrata” del dieci percento circa. Un atto talmente orribile per il “Partito delle grandi cause morali” che i giornali affiliati al Partito repubblicano nel Nord chiesero il bombardamento dei porti del Sud prima della guerra. Con una tariffa del Nord nella fascia del 50% (l’aumento tariffario che sarebbe intervenuto alla firma di Lincoln dei dieci articoli legislativi; e tale sarebbe rimasta per i successivi cinquanta anni) rispetto alla tariffa media del 10% meridionale, hanno capito che molto del commercio del mondo sarebbe passato attraverso i porti del Sud, non del Nord, e per loro è stato questo il motivo di guerra. “Ora abbiamo i voti e intendiamo saccheggiarti senza pietà; se resisti invaderemo, conquisteremo e soggiogheremo “è essenzialmente ciò che diceva il Nord.

Né Lincoln né il partito repubblicano si sono opposti alla schiavitù del sud durante la campagna del 1860. Si sono solo opposti all’estensione della schiavitù nei nuovi territori. Questo non era a causa di alcuna preoccupazione per la condizione degli schiavi, ma faceva parte della loro strategia di saccheggio perpetuo. Gli agricoltori del Mid-West, come gli agricoltori meridionali, sono stati duramente discriminati dalle tariffe protezionistiche. Anche loro sono stati doppiamente tassati dal protezionismo. Questo è il motivo per cui il Mid-West (chiamato “il Nord-Ovest” nel 1860) ha fornito una seria resistenza antebellum allo schema yankee di saccheggio protezionistico. (Il Mid-West ha anche fornito alcune delle più efficaci opposizioni al regime di Lincoln durante la guerra, essendo la casa dei “Copperheads”, così chiamato come un termine diffamatorio del Partito Repubblicano). Questa opposizione è stata annacquata, tuttavia, quando il Partito Repubblicano sostenne la politica di impedire la schiavitù nei territori, preservandoli “per il libero lavoro bianco” secondo le parole dello stesso Abraham Lincoln. I Mid-Western erano razzisti come chiunque altro a metà del diciannovesimo secolo, e la stragrande maggioranza di loro non voleva che i neri, liberi o schiavi, vivessero in mezzo a loro. Lo stato dell’Illinois di Lincoln aveva modificato la sua costituzione nel 1848 per proibire l’immigrazione di neri liberi nello stato, e Lincoln stesso era un “manager” della Illinois Colonization Society, che usava i dollari delle tasse statali per deportare il piccolo numero di neri liberi che risiedeva nello stato. La stragrande maggioranza di loro non voleva che i neri, liberi o schiavi, vivessero in mezzo a loro.

Anche i braccianti bianchi e le masse di contadini non volevano la concorrenza per il loro lavoro da neri, liberi o schiavi che fossero; il Partito Repubblicano era felice di assecondarli. Poi c’è il “problema” degli schiavi nei Territori che gonfia la rappresentanza congressuale del Partito Democratico a causa della clausola della Costituzione dei tre quinti. Con una maggiore rappresentanza democratica, il saccheggio protezionista sarebbe diventato molto più problematico da raggiungere.

Questa strategia fu spiegata nella relazione della commissione per gli affari esteri degli Stati Confederati d’America il 4 settembre 1861:

“Mentre la gente del Nord-Ovest, essendo come la gente del Sud, un popolo agricolo, era generalmente contraria alla politica tariffaria protettiva – la grande strumentalizzazione settoriale del Nord. Erano alleati del sud, per sconfiggere questa politica. Quindi è stato solo parzialmente, e occasionalmente di successo. Per renderlo completo e per rendere il nord onnipotente a governare il Sud, la divisione nel Nord doveva essere sanata. Per realizzare questo progetto, e per sezionare il Nord, iniziò l’agitazione riguardante la schiavitù africana nel Sud. . . . Di conseguenza, dopo il rovesciamento della tariffa del 1828 [cioè la tariffa degli abomini], con la resistenza della Carolina del Sud nel 1833, l’agitazione riguardante l’istituzione della schiavitù del sud. . . è stato immediatamente avviato nel Congresso degli Stati Uniti. . . . Il primo frutto di [questo] dispotismo settoriale. . . era la tariffa recentemente approvata dal Congresso degli Stati Uniti. Con questa tariffa la politica protettiva si rinnova nelle sue forme più odiose e oppressive, e gli Stati agricoli sono resi tributari agli Stati manifatturieri “.

Il primo discorso inaugurale di Lincoln: “Pay Up or Die!”
Il primo discorso inaugurale di Abraham Lincoln fu probabilmente la più forte difesa della schiavitù del Sud mai fatta da un politico americano. Cominciò dicendo che in “quasi tutti i discorsi pubblicati” aveva dichiarato che “non ho alcuno scopo, direttamente o indirettamente, di interferire con l’istituzione della schiavitù negli Stati in cui già esiste”. Credo di non avere alcuna diritto legale di farlo, e non ho alcuna inclinazione a farlo. “Ha poi citato la Piattaforma del Partito Repubblicano del 1860, pienamente approvata, che proclamava che” il mantenimento inviolato dei diritti degli Stati, e in particolare il diritto di ciascuno Stato per ordinare e controllare le proprie istituzioni nazionali. . . è essenziale per quell’equilibrio di potere da cui dipendono la perfezione e la resistenza del nostro tessuto politico. . .” (enfasi aggiunta). “Istituzioni domestiche” significava schiavitù.

Lincoln quindi si impegnò a far rispettare la legge sugli schiavi fuggiaschi, che in effetti fece durante la sua amministrazione, restituendo dozzine di schiavi fuggiaschi ai loro “proprietari”. Soprattutto, sul finire del suo discorso approvò i sette paragrafi dell’emendamento Corwin alla Costituzione, già approvati da Camera e Senato e ratificato da diversi stati. Questo “primo tredicesimo emendamento” proibirebbe al governo federale di interferire in ogni modo con la schiavitù del sud. Avrebbe inciso esplicitamente la schiavitù nel testo della Costituzione. Lincoln affermò nello stesso paragrafo che riteneva che la schiavitù fosse già costituzionale, ma che non aveva “alcuna obiezione al fatto che fosse reso esplicito e irrevocabile”.

Nel suo libro La squadra dei rivali Doris Kearns-Goodwin usa fonti primarie per documentare che la fonte dell’emendamento non era in realtà il deputato dell’Ohio Thomas Corwin ma lo stesso Abraham Lincoln che, dopo essere stato eletto ma prima di essere insediato, incaricò William Seward di ottenere l’emendamento attraverso il Senato degli Stati Uniti dominato dal Nord; cosa che ha fatto. Altri repubblicani videro che anche la Camera dei rappresentanti dominata dal Nord avrebbe votato a favore.

Così, il giorno in cui fu insediato, Abraham Lincoln offrì la più forte e intransigente difesa della schiavitù del Sud immaginabile. Egli annunciò efficacemente al mondo che se gli stati del Sud rimanessero nell’unione e si sottomettessero a essere saccheggiati dall’impero protezionista dominato dagli yankee, allora il governo degli Stati Uniti non avrebbe mai fatto nulla contro la schiavitù.

La risoluzione Aims War of the Senate degli Stati Uniti riecheggiava le parole di Lincoln secondo cui la guerra NON riguardava la schiavitù, ma il “salvataggio dell’unione”; una contesa che Lincoln ripeteva molte volte, inclusa la famosa lettera al direttore del New York Tribune Horace Greeley in cui diceva pubblicamente ancora una volta che questo scopo era “salvare l’unione”; il non fare nulla contro la schiavitù. In realtà il regime di Lincoln distrusse completamente l’unione volontaria dei padri fondatori. “Salvando l’Unione” intendeva costringere il Sud a sottomettersi al saccheggio protezionistico, non preservando l’unione altamente decentralizzata e volontaria della generazione fondatrice basata su principi come il federalismo e la sussidiarietà.

In drammatico contrasto, sulla questione della riscossione delle tariffe, Abraham Lincoln fu violentemente intransigente. “Niente” è più importante del passaggio della tariffa Morrill, come aveva annunciato a un pubblico della Pennsylvania poche settimane prima. Niente. Nel suo primo discorso inaugurale ha affermato nel diciottesimo paragrafo che “[T] qui non deve essere spargimento di sangue o violenza, e non ce ne sarà nessuno a meno che non sia forzata l’autorità nazionale”. Di cosa avrebbe potuto parlare? Cosa causerebbe “l’autorità nazionale” a compiere atti di “spargimento di sangue” e “violenza” contro i propri cittadini americani? Il presidente non fa un giuramento in cui promette di difendere le libertà costituzionali dei cittadini americani? In quale modo ordinare atti di “spargimento di sangue” e “violenza” nei loro confronti è coerente con il giuramento presidenziale per l’ufficio che aveva appena assunto,

Lincoln spiegò nella successiva frase: “Il potere confidato in me sarà usato per tenere, occupare e possedere la proprietà e i luoghi appartenenti al Governo, e per raccogliere i doveri e le imposte; ma al di là di ciò che potrebbe essere necessario per questi oggetti, non ci sarà nessuna invasione, nessuna forza sarà usata contro la gente da nessuna parte “(enfasi aggiunta). I “doveri e imposte” a cui si riferiva erano le tariffe da riscuotere secondo la nuova legge Morrill. Se ci dovesse essere una guerra, disse, la causa della guerra sarebbe in realtà il rifiuto degli Stati del Sud a sottomettersi al saccheggio della tassa federale appena raddoppiata, una politica che il Sud stava periodicamente minacciando di annullare con la stessa secessione finita per i precedenti trentatré anni.

In sostanza, Abraham Lincoln stava annunciando al mondo che non avrebbe fatto marcia indietro verso i secessionisti del Sud come aveva fatto il presidente Andrew Jackson accettando una riduzione negoziata della tariffa degli abomini (negoziata dall’idolo e dall’ispirazione politica di Lincoln, Henry Clay, autore della Tariffa degli Abomini in primo luogo!). Ha promesso “violenza”, “spargimento di sangue” e guerra alla riscossione delle tariffe, e ha mantenuto la sua promessa.

Thomas J. DiLorenzo è professore di economia alla Loyola University nel Maryland e autore di The Real Lincoln.

 

MARE NOSTRUM_UNA CHIOSA A “UN PIVOT MEDITERRANEO PER L’ITALIA”_ GIUSEPPE GERMINARIO

Qui sotto il link di un articolo decisamente interessante, apparso sulla rivista Eurasia, riguardante una possibile ricollocazione geopolitica dell’Italia che consentirebbe una maggiore autonomia di azione senza necessariamente rimettere radicalmente in discussione l’attuale sistema di alleanze incentrate sulla Unione Europea e sulla NATO. Il fulcro dell’azione politica, in sostanza, dovrebbe volgersi verso il Mediterraneo e verso l’Africa nel vicinato prossimo e verso l’Asia, la Russia e la Cina in quello lontano. E’ indubbio che, pur all’interno dei pesanti vincoli di subordinazione ed alleanza, ci siano margini di agibilità che la nostra classe dirigente nemmeno sogna di utilizzare. L’esempio positivo della Turchia, per altro, mi pare fuorviante; come pure quello della Polonia, giacché l’Italia gode, a dispetto della presunta perifericità del paese, della stessa attenzione strategica da parte delle potenza dominante. La condizione di frammentarietà e debolezza politica ed istituzionale difficilmente consentirebbe di sostenere  una pressione analoga a quella subita dalla Turchia. E infatti appare propedeutico e decisivo l’orientamento politico strategico della classe dirigente dominante per intraprendere una qualsiasi strada di maggiore autonomia. La vicenda delle sanzioni alla Russia, tra i tanti, assume la veste di un vero e proprio paradigma. Non sono solo uno strumento offensivo contro la Federazione Russa, sono anche uno strumento di compattamento dell’alleanza atlantica; si stanno rivelando, sorprendentemente, nella loro opacità ed arbitrarietà di applicazione un modo particolarmente subdolo di ridefinire i rapporti interni all’alleanza stessa e di danneggiare i paesi diretti dalla classe dirigente più prona. La volontà di una classe dirigente è, però, solo una condizione, sia pure determinante. Il problema è innanzitutto come si forma e costruisce una classe dirigente alternativa, visto che quella attuale non pare offrire nessuna capacità di analisi e possibilità di redenzione. E tuttavia occorre prestare un occhio più attento alla condizione oggettiva del paese. Su questo l’articolo assume, a mio avviso, una postura un po’ troppo ottimistica sia pur nella cautela in esso suggerita rispetto a soluzioni-panacea quali quella dell’uscita dall’euro. Intanto, ancora una volta, l’estensore sembra fondare sulle capacità economiche e sulle potenzialità produttive la possibilità di redenzione dalla condizione di asservimento. Purtroppo numerosi eventi ed episodi attestano ormai quanto queste potenzialità siano piegate e conformate dalle esigenze politiche e rese praticabili da una credibilità e autorevolezza politica della classe dirigente purtroppo in via di esaurimento. Il paese, inoltre, sta erodendo drammaticamente piuttosto che acquisendo le capacità tecnologiche e produttive necessarie a dar corpo a queste politiche. Ma non solo quelle; anche dilapidando le stesse capacità e qualità professionali che non ostante tutto riesce ancora a formare. La classe dirigente sta perdendo progressivamente e consapevolmente il controllo e la capacità di indirizzo dei residui atout disponibili. Non è un caso che gli americani si siano concentrati nell’acquisizione dei settori strategici, anche quelli in apparenza meno significativi come la ceramica; non è un caso che francesi e tedeschi si siano concentrati sulla logistica, sul drenaggio del risparmio e sull’acquisizione di marchi, in particolare di quelli che potessero qualificarli con miglior lustro, sotto mentite spoglie, in Medio Oriente. Due esempi tra tutti, l’Edison e l’Italcementi, concesse anch’esse allegramente rispettivamente in mano francese e tedesca. Una gran parte dell’apparato produttivo, per altro, è costituito da componentistica legata ormai mani e piedi al prodotto finito della grande industria tedesca. La storia dello sviluppo industriale del paese è lì a rammentarci, per altro, che i momenti di maggior espansione e di sviluppo qualitativo dell’economia, in particolare dell’industria, a partire da metà ‘800, si sono ottenuti guardando a nord e ad ovest, il più delle volte obtorto collo. Emblematico ed illuminante a proposito il contenuto dell’acceso dibattito degli anni ’50, propedeutico al “miracolo economico”. La stessa impresa straordinaria di Mattei all’ENI, pur con tutti i margini di audacia ed autonomia che costui si è concesso e per i quali ha pagato drammaticamente dazio, consistevano sì in una apertura verso i paesi mediterranei, africani e mediorientali, che consentisse soprattutto l’approvvigionamento necessario alla compartecipazione, però, del paese al miracolo economico euroccidentale. Non a caso Mattei contrastò l’ostracismo dei settori più retrivi dell’industria italiana, anch’essi favorevoli ad una espansione verso il Mediterraneo, sostenne lo sviluppo dell’industria di base, specie energetica, siderurgica e chimica, antagonista a quelli e si alleò con la nascente industria meccanica, notoriamente direttamente legata ai centri americani. Nell’attuale condizione, uno spostamento del baricentro rischierebbe di asservire ulteriormente il paese al vero dominus dal secondo dopoguerra ad oggi, gli Stati Uniti. La condizione preliminare di una svolta è, diversamente, l’assunzione del controllo delle principali leve di governo e di indirizzo del paese; il patto europeo, negli attuali termini, inibisce questi sforzi secondo modalità ben più complesse della mera introduzione della moneta unica, l’euro e della imposizione delle norme di stabilità finanziaria, sui quali si incentra purtroppo la quasi esclusiva attenzione dei critici. Una rinegoziazione piuttosto che una rottura presupporrebbe l’esistenza di una classe dirigente ancora più determinata e capace e di un contesto ben diverso, quanto meno di una Unione Europea molto più ristretta e gestibile degli attuali ventisette aderenti. Una rideterminazione del “pivot” non può prescindere quindi da un lavorio sagace in grado di favorire il cambiamento degli equilibri politici in Francia e Germania, senza il quale rischiamo di trovarceli come avversari sempre più dichiarati, in una Europa sempre più frammentata e rissosa, ma sempre a supporto della potenza dominante. A maggior ragione le implicazioni sarebbero determinanti se il paese, motu proprio, dovesse allargare il raggio di azione a Cina e Russia. Buona lettura_Giuseppe Germinario

UN PIVOT MEDITERRANEO PER L’ITALIA

17° podcast_La Guerra di Bannon, la guerra a Bannon, di Gianfranco Campa

Lo scontro politico negli Stati Uniti inizia a delineare connotati di volta in volta un po’ più chiari; connotati i quali caratterizzano entrambi i due partiti storicamente in contesa sulle le leve del governo. Dalla parte del Partito Democratico la soluzione pare passare attraverso la liquidazione del gruppo di potere aggregatosi attorno ai Clinton. Le incognite da quel versante, però, non mancano; la principale riguarda la componente più radicale e legata al classico elettorato democratico, in buona parte ormai astenutosi o addirittura passato a sostenere Trump, quella rappresentata da Bernie Sanders. Sanders, da alcuni mesi, non fa più parte del Partito Democratico. In futuro, sempre che non rientri, si vedrà quale funzione intenderà assumere: quella di un leader alternativo oppure collaterale al Partito Democratico. La prima opzione potrebbe innescare un processo irreversibile di riorganizzazione del sistema politico americano con la formazione di un partito centrista, frutto della esplicitazione della collusione attualmente sottotraccia tra democratici e parte dei repubblicani, e due movimenti radicali. Ne parleremo meglio nei prossimi podcast. Da parte repubblicana l’obbiettivo non è più il conseguimento della vittoria da parte di uno degli schieramenti, ma la sconfitta totale dell’altro. Una dinamica che, se protratta all’estremo, potrebbe diventare perfettamente complementare alla prima opzione di confronto nella componente democratica. Buon ascolto, cliccando sull’immagine qui sotto_ Germinario Giuseppe

RAZIONALITA’ STRATEGICA E RAZIONALITÀ STRUMENTALE di G. La Grassa

Pubblichiamo qui sotto un  interessante saggio di Gianfranco La Grassa sul concetto di razionalità strategica e razionalità strumentale. La definizione ad inizio dello scritto introduce, in realtà, rapidamente al tema dell’analisi concreta delle formazioni sociali partendo dalle dinamiche conflittuali tra centri strategici e dal tentativo di riproporre in maniera più corretta e realistica la questione di una loro trasformazione che porti all’emancipazione degli strati subalterni. Un chiaro superamento della rappresentazione dualistica del conflitto sociale.

Lo scritto, tuttavia, apre più o meno esplicitamente numerose questioni piuttosto che risolverne come del resto è ovvio che sia per un tentativo di rottura critica di chiavi di interpretazioni ormai inadeguate e deleterie.

  • tende a liquidare troppo sbrigativamente il lavoro di ricerca teorico-filosofico teso ad individuare le caratteristiche intrinseche del politico e le relazioni di questo con gli altri ambiti dell’agire umano e tra esse la funzione della cooperazione oltre che del conflitto; un tale impegno è ovviamente parte integrante del contesto storico, sociale e culturale nel quale agisce ma è altrettanto indispensabile per individuare ed inquadrare sistemicamente le nuove chiavi di interpretazione, l’analisi concreta e gli obbiettivi politici senza sostituirsi ad essi, specie in Italia dove il dibattito in merito langue da almeno quarant’anni
  • il saggio, al pari delle precedenti elaborazioni di La Grassa, attribuisce un ruolo prioritario all’azione dei centri strategici, quindi all’azione e ai loro disegni politici; sottolinea che, con il rapporto capitalistico, il politico pervade ed agisce nell’economico; per meglio dire, è una mia precisazione, il ruolo politico della e nella funzione economica si accresce. Ma sino a che punto in termini assoluti e soprattutto rispetto agli altri ambiti?
  • l’autore parla di conflitto tra formazioni sociali capitalistiche e tra centri strategici (capitalistici?) in esse e tra di esse. Poiché, secondo definizione marxiana, il capitalismo è un rapporto sociale di produzione, laddove il possessore dei mezzi di produzione sovrasta il salariato, non si rischia di tornare alla surdeterminazione dell’economico, al meglio del politico nell’economico, rispetto agli altri ambiti?
  •  GLG sancisce l’inesistenza del “popolo”; sembra ricondurre la sua estinzione al processo di frammentazione e specializzazione proprio delle formazioni capitalistiche più mature ed evolute e all’incapacità, quindi, dei loro centri strategici di garantire i sufficienti livelli di coesione e di assimilazione identitaria necessari a garantire la sostenibilità interna ed esterna di esse. Mi pare una affermazione troppo apodittica che tende a sottovalutare le capacità di ricomposizione, magari sotto nuove vesti e nuovi nuclei, dei centri strategici e ad assecondare la facile, ma a mio avviso poco fondata, contrapposizione tra ad esempio i comunitaristi portatori della positiva pienezza dei valori umani, alla Fusaro e de Benoist, e i mercificatori alienatori della natura umana, propri dei capitalisti globalizzatori
  • con l’occasione il prof. La Grassa riprende il tema dell’emancipazione degli strati subalterni e delle particolari condizioni di crisi sistemica di particolari formazioni che potrebbero favorire la loro sollevazione e affermazione. Non si tratterebbero più di classi in sé, ma di gruppi o strati ben condotti da centri ben determinati ed alternativi. Il discorso nella fattispecie, una caratteristica comune a tutti, compreso chi scrive, rischia di cadere nell’indeterminatezza ed oscillare inconsapevolmente tra l’utopia di una società libera e egualitaria e l’azione magari anche meritoriamente redistributiva interna al sistema, ivi comprese le gerarchie stabilite. GLG avverte per altro saggiamente delle capacità dinamiche, propulsive e di sviluppo di un sistema fondato sulla concorrenza; della capacità, quindi, di riassorbimento, il più delle volte, delle contraddizioni più esplosive. Si tratta comunque di un avvertimento molto più opportuno e proficuo se finalizzato ad individuare nelle formazioni sociali e nei processi riformatori e rivoluzionari quelle figure e strati sociali e quei centri strategici i quali, per acquisire il controllo del potere o la partecipazione ad esso siano disposti a riconoscere un ruolo ed una condizione diversa e migliore, ivi compresa la mobilità, agli strati più subalterni. Anche in questo caso, però, il rischio di scambiare il classico piatto di lenticchie alle prospettive di sviluppo dinamico e duraturo è sempre presente. L’esperienza dei paesi socialisti, ancorché poco studiata, è tutta lì a dimostrarlo.

Mi sembrano cinque dei punti già sufficienti a consentire un’ulteriore spinta alle ipotesi di ricerca suggerite dal professore. Buona lettura_ Giuseppe Germinario

 

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GIANFRANCO LA GRASSA _ RAZIONALITA’ STRATEGICA E RAZIONALITA’ STRUMENTALE  http://www.conflittiestrategie.it/razionalita-strategica-e-razionalita-strumentale-di-g-la-grassa

 

  1. Non intendo qui diffondermi troppo sui due tipi di razionalità (e di funzioni); su entrambe sono state scritte infinite pagine e considerazioni. Mi interessa semmai chiarire alcune differenze e distinzioni. Innanzitutto, la metis – l’astuzia, il raggiro, l’inganno, ecc. (“il cavallo di Troia”) – fa parte dell’arte strategica, ne può in certi casi costituire l’aspetto principale, ma non fa conseguire, in ultima analisi, una vera supremazia, non consente di prevalere se non in casi assai particolari e magari in presenza di una discreta dose di ingenuità dell’avversario. Nemmeno credo si possa identificare la funzione strategica con la mera volontà di potenza, comunque quest’ultima possa essere intesa.

La strategia non è solo “arte”, non è solo carattere vitalistico e prorompente di una “personalità” – anche collettiva, in senso allora assai lato – portata a prevalere e a subordinare le altre, quelle “nemiche”. La strategia esige un elemento intuitivo (almeno all’apparenza), il cosiddetto colpo d’occhio, ma deve strettamente intrecciarsi con una precisa valutazione della situazione sul campo: risorse a disposizione, articolazione e movimento delle forze in campo, attenta mappatura e studio di quest’ultimo; con rapida presa in esame di ogni mutamento della situazione stessa e delle risposte da dare ai cambiamenti.

D’altra parte, la valutazione della situazione sul campo non è eseguita in base alla semplice razionalità strumentale, quella del minimo mezzo o del massimo risultato; quest’ultima attiene principalmente all’ambito economico in senso stretto, pur se poi è stata ampliata ai vari aspetti della vita personale e collettiva (sociale). Sia per quanto concerne la sua applicazione in campo economico sia per il suo generalizzarsi ad altri settori di attività, detta razionalità si è affermata essenzialmente in epoca capitalistica. Nella stessa conduzione delle attività produttive, agricole e artigianali, in formazioni precapitalistiche, essa non veniva affatto in evidenza; i saperi produttivi, frutto di una lunghissima e in genere lenta accumulazione storico-culturale, non avevano molto a che vedere con una mentalità semplicemente strumentale, che sarebbe anzi stata una vera “palla di piombo ai piedi” per artigiani e contadini delle società precapitalistiche, e avrebbe condotto alla disgregazione delle stesse per l’impossibilità di conciliare la struttura produttiva con quella del potere (che è poi quanto in definitiva accaduto durante la lunga transizione dal feudalesimo al capitalismo). In ogni caso, anche nella formazione sociale del capitale la posizione di preminenza attribuita alla razionalità strumentale ha carattere largamente ideologico. Certamente essa è creazione del capitalismo, e in quest’ultimo viene largamente utilizzata nei vari ambiti dell’attività sociale, ma non assurge affatto alla posizione di vertice nell’agire delle “classi” dominanti nemmeno in questa forma di società.

E’ stato un errore dello stesso marxismo – tutto centrato sul problema dell’ottenimento del massimo profitto (e quindi della massima estrazione del pluslavoro/plusvalore) da parte del capitalista, visto come essenzialmente proprietario e non invece quale agente di strategie – pensare che la razionalità strumentale (quella della cosiddetta efficienza) sia non solo acquisizione fondamentale del “modo di produzione” capitalistico, ma sorregga l’insieme dei rapporti caratteristici della società da questo strutturata e ne alimenti la dinamica decisiva; e rappresenti addirittura una conquista della Ragione che, sciolta dall’esigenza (del puro proprietario) di conseguire il massimo utile individuale, sarebbe cruciale anche nella futura società comunista onde sviluppare le forze produttive e conseguire quella massa di beni, cui potrebbe attingere ogni membro della società “secondo i suoi bisogni”.

 

  1. L’analisi della situazione sul campo – configurazione di quest’ultimo, forze in campo, ecc. – e le risposte ai mutamenti della stessa non si basano quindi sul mero principio del minimo mezzo o del massimo risultato; nel contempo, esse non consistono certo esclusivamente nel colpo d’occhio, nell’intuizione dell’agente strategico. Quest’ultima ha un che dell’arte, ma l’analisi e le risposte di cui si parla sono più vicine allo spirito dell’osservazione scientifica. Infine, nella preliminare individuazione delle tecniche e delle metodiche da impiegare per far fronte ai problemi osservati e analizzati, inizia a farsi avanti la razionalità della “efficienza economica”, quella del minimo mezzo, insomma quella detta strumentale. Quest’ultima ha dunque un ruolo subordinato, non è funzione esplicata dagli agenti “dominanti” (sto parlando delle differenti funzioni, non degli individui empirici che le supportano e che possono esercitarne contemporaneamente più d’una). Per il dominio, cioè per conquistare la supremazia attraverso la lotta, occorre l’analisi – assimilabile all’osservazione scientifica – e l’“artistico” colpo d’occhio sull’insieme e le sue intrinseche, ma non manifeste, potenzialità dinamiche (forza e direzione dei possibili eventi da provocare o impedire o deviare, ecc.) che debbono essere volte al successo della propria lotta tesa a prevalere.

Per ottenere la “vittoria in battaglia” sono perciò necessarie soprattutto le funzioni del “comandante in capo” (che, ovviamente, non è obbligatoriamente un solo individuo), capace di cogliere quello specifico potenziale insito nell’insieme, e le funzioni dello “Stato Maggiore” atte a svolgere i compiti relativi alla lucida e “scientifica” analisi del campo e delle forze in campo, con tutto ciò che segue. Il potenziale dell’insieme è la ben nota singolarità, che non è soggetta a generalizzazioni; pur se le varie “battaglie” svoltesi in passato, e le innumerevoli mosse strategiche in esse impiegate, sono sempre sottoposte a studio e a vaglio accurato in previsione di quelle future. L’analisi e valutazione del campo e delle forze in campo sono invece soggette a queste generalizzazioni (di tipo scientifico, per l’appunto), ma non debbono pesare sulle decisioni da prendere in future “battaglie” secondo una loro scolastica e pedantesca ripetizione, che condurrebbe quasi sempre a “sconfitta”. Ancor meno debbono pesare, sulle decisioni strategiche cruciali prese nella lotta per la supremazia, le tecniche e metodiche secondo cui vengono in essa impiegate “efficientemente” determinate risorse; tecniche e metodiche che, come sopra rilevato, attengono ai compiti delle funzioni strumentali, quelle del minimo mezzo o massimo risultato.

 

  1. L’aver posto tali funzioni (rette dalla razionalità strumentale) come essenziali e pervasive dell’intera attività dei dominanti capitalistici (trattati quali meri proprietari dei mezzi produttivi e finanziari) – e averne addirittura fatto una conquista generale del pensiero umano per ogni futuro sviluppo e trasformazione della società, addirittura in direzione del presunto comunismo – ha veramente ottuso le capacità critiche degli anticapitalisti. Quella che è soltanto ideologia – con la solita funzione di mascheramento delle fonti effettive del predominio degli agenti capitalistici, che non sono affatto semplici proprietari – è passata per una conquista fondamentale del pensiero razionale; una conquista, come altre del capitalismo, da mantenere e sviluppare poiché se ne supponeva l’indispensabilità anche ai fini della transizione al socialismo e poi comunismo.

Se, come ho chiarito più volte negli ultimi anni, fosse stata valida l’ipotesi di Marx relativa alla formazione, per dinamica intrinseca al modo di produzione capitalistico, del lavoratore collettivo cooperativo, in cui tutte le diverse funzioni (intellettuali e manuali, direttive ed esecutive) si sarebbero integrate in un unitario e compatto tessuto produttivo, allora la sussistenza di tale mascheramento ideologico non avrebbe alla fine nuociuto più che tanto. Il movimento reale – non l’opera di costruzione del socialismo da parte di presunte avanguardie della Classe (per antonomasia) – avrebbe condotto all’esaurirsi delle funzioni produttive dei proprietari capitalistici, trasformati in rentier, e all’affievolirsi dello spirito di competizione per la supremazia di dati gruppi sociali su altri. A questo punto, la razionalità del minimo mezzo sarebbe in effetti divenuta quella prevalentemente applicata nelle attività sociali (non della sola sfera economica) in quanto dirette soprattutto allo “sfruttamento” del “fondo naturale” per ottenere di che soddisfare i bisogni degli individui stretti in una società coordinata e di cooperazione, senza conflitti antagonistici né sfruttamento degli uomini su altri uomini.

Poiché la dinamica capitalistica, intrinseca o meno che sia, non conduce affatto in simili direzioni virtuose, è ovvio che le conclusioni da trarre sono totalmente differenti. La razionalità strumentale diventa un semplice mezzo per procurarsi, nel migliore (più efficiente) modo possibile, le risorse necessarie all’espletamento delle funzioni legate alla lotta per la supremazia, e che sono quelle appena sopra illustrate. La formazione sociale si frammenta, si segmenta e si stratifica sempre più complessamente, le minoranze predominano sulle maggioranze, ma attraverso lo scontro tra i vari gruppi di agenti di cui sono composte, gruppi che applicano strategie di lotta ai fini della prevalenza di alcuni su altri. Non si va minimamente formando alcun vertice ristretto e sempre più unitario di sfruttatori. La lotta tra gruppi conosce varie “periodicità” – da me adombrate con i termini di monocentrismo e policentrismo – che sono fasi (epoche) diverse in riferimento sia a quella da me indicata quale formazione sociale in generale sia alla formazione globale, costituita da una mutevole articolazione di tante formazioni particolari fra loro in conflitto, con i connessi fenomeni comportanti lo sviluppo ineguale dei vari gruppi capitalistici, in sede “nazionale” come “internazionale”.

In una società per null’affatto interessata da un movimento interno di omogeneizzazione e compattamento “armonico”, bensì da processi di frammentazione crescente e di – più o meno acuta a seconda di un periodico “pulsare” per epoche o fasi dell’evoluzione capitalistica – interazione contraddittoria e conflittuale tra i suoi vari comparti (o raggruppamenti, dominanti e non), le funzioni strumentali, attinenti al conseguimento del massimo risultato, scadono a semplice mezzo per procurarsi, con la massima “economicità”, le risorse necessarie all’esercizio delle funzioni strategiche, compito precipuo degli agenti dominanti in reciproca lotta per gruppi (per “bande”) ai fini della supremazia. A questo punto, sono gli “Stati Maggiori” con i loro “Comandanti in capo” a rappresentare quella “classe capitalistica”, che il marxismo pensava fosse invece costituita da semplici proprietari. Questi avrebbero esercitato una funzione produttiva propulsiva nel capitalismo concorrenziale – poiché il conflitto era visto dai marxisti come un fatto prevalentemente economico, un fenomeno in ultima analisi orientato dalla finalità del massimo prelievo di plusvalore in quanto profitto dell’impresa capitalistica – mentre sarebbero divenuti parassiti e “similsignori” nel capitalismo monopolistico strutturato in grandi società per azioni. Si sarebbe trattato certamente di “signori” differenti da quelli feudali o protocapitalistici per il tipo di rendita percepita: non più dalla terra, non più dal semplice prestito in denaro, ma prevalentemente dalla proprietà azionaria, dalla “attività” di “staccare cedole”.

Nella società capitalistica realmente affermatasi, strutturata in gruppi sempre più numerosi e in crescente disarticolazione, con “successiva” (in senso logico) ri-connessione interattiva tramite forme varie di conflitto di periodicamente differente intensità e acutezza, i dominanti sono gli agenti strategici (del “colpo d’occhio d’insieme” e dell’analisi del campo e delle forze in campo) che rendono la società capitalistica un terreno di battaglia, in cui tutti, ai più vari livelli della scala sociale, sono coinvolti; anche se gli strati sociali bassi sono quasi sempre truppe al seguito degli “Stati Maggiori”, ecc. Solo raramente, in particolari frangenti storici (congiunture), le truppe –  “incontrando” dati gruppi di dirigenti e di capi – sono in grado di nuocere agli agenti dominanti in una certa fase di acuto scontro tra questi ultimi; ma non è affatto deciso ineluttabilmente, come il novecento ha ampiamente dimostrato, quale sia l’effettivo sbocco degli eventi “rivoluzionari”. Sia l’ideologia dei dominanti (agenti capitalistici), sia quella degli un tempo oppositori e intenzionati a trascinare le “truppe” (le masse popolari) contro il loro potere, hanno provocato un totale annebbiamento della strutturazione della formazione capitalistica: sia di quella in generale sia di quella globale con le sue articolazioni particolari.

 

  1. E’ ormai indispensabile uscire – puntando intanto su di essa il riflettore del pensiero critico – da questa ideologia della razionalità strumentale in quanto elemento fondante e carattere decisivo della struttura capitalistica e dunque del movimento dei suoi rapporti di dominazione/subordinazione; un elemento che sarebbe negativo se utilizzato dai proprietari (dei mezzi produttivi) per sfruttare il lavoro (estorsione del massimo pluslavoro/plusvalore), ma che la “rivoluzione comunista” avrebbe potuto rovesciare in positivo, “estraendone il nocciolo razionale”, eliminando la proprietà privata e affidando il coordinamento cooperativo della produzione alla classe lavoratrice (cioè alle sue pretese “avanguardie”).

Deve essere contrastato questo ottundimento del pensiero, che ha condotto a pratiche inizialmente anche “eroiche” e che hanno rappresentato il famoso “assalto al Cielo”, ma che poi si sono, loro, rovesciate in aberrante dominazione di masse “abbrutite” da parte di capi degenerati in perpetua lotta (assassina) fra loro. Un comunismo, incapace di uscire dalla ideologia “annebbiante” fin qui illustrata, ha avuto un suo grande periodo in cui è sembrato essere il movimento di emancipazione dei diseredati contro i bestiali sfruttatori capitalisti (e colonialisti e imperialisti), ma ha poi abdicato completamente ai suoi ideali originari per divenire il peggiore e più devastante dei movimenti politici esistenti nell’ambito del capitalismo. Basta dunque con il comunismo in tutte le salse lo si voglia cucinare; e basta con il marxismo che ha toccato l’apice di quanto poteva farci conoscere per poi decadere a “dottrina religiosa” del tutto ottenebrante; una “religione” che non è nemmeno più l’oppio dei popoli, ma solo di piccole sette di inutili cultori del nulla teorico e politico.

Tuttavia, la reazione a questo annebbiamento ideologico non deve portare a rivalutare le sconfortanti banalità dell’ideologia conservatrice neoliberista o delle sue versioni “riformiste” neokeynesiane. Dalla padella nella brace; peggio la toppa dello strappo! Questa è l’alternativa che ci offre un ceto intellettuale fra i più fatui e sciocchi annoverati nella storia dell’Umanità; un vero campionario di “idioti con alto quoziente di intelligenza”, come recitava un “salmo” del movimento sessantottardo, che volentieri sostituirei con la più incisiva battuta di quel genio che fu Ettore Petrolini: “idioti con lampi di imbecillità”.

Ogni inizio è senza dubbio difficile. E’ tuttavia necessario che soprattutto i più giovani, e liberi di mente, non ottenebrati da quel cumulo di fanfaluche ammassate dagli intellettuali soprattutto negli ultimi trenta-quarant’anni, si mettano in moto al più presto; e prendano a calci chiunque parli di liberismo, di keynesismo, di marxismo; chiunque ancora si riempia la bocca di quelle ormai sconce parole – sia chiaro: di ben altro significato ed elevatezza molto tempo addietro – che sono democrazia liberale, socialismo, comunismo, con tutte le loro infinite variazioni.

 

  1. Cominciamo con il riportare al centro della questione, cioè dell’organizzazione dell’attuale società nella sua globalità (mondialità), il principio della preminenza delle funzioni strategiche che sottomettono, piegano ai loro fini, quelle strumentali, quelle del minimo mezzo o massimo risultato. In questo contesto, non mi sembra di alcun interesse lanciarsi in disquisizioni filosofiche o simili chiedendosi se lo spirito di competizione – teso però alla preminenza tramite prepotenza, sopraffazione, asservimento (e anche inganno e raggiro) esercitati dagli uni sugli altri – sia connaturato o meno all’essere umano. La millenaria storia dell’Umanità non induce certo all’ottimismo in proposito, ma tenuto conto degli orizzonti temporali su cui siamo in grado di allargare la nostra “vista” (teorica), compiendo analisi e sviluppando argomentazioni dotate di un minimo di realismo e credibilità, è assolutamente inutile arrovellarsi sulla “natura” umana, sulle “costanti antropologiche”, e via dicendo. Credo che discussioni del genere abbiano senso, così come ha senso dibattere sulla religione, sull’esistenza o meno di un Essere chiamato Dio e su molti altri problemi dello stesso ordine che, se hanno da sempre spinto grandi intelletti a profondervi le migliori energie, non sono evidentemente destituite di significato come spesso pensano coloro che hanno cervelli simili a computer, e sistemi nervosi solo dediti alle più elementari sensazioni animalesche.

Tuttavia, per una analisi che in qualche modo si richiami alla scienza della struttura e dinamica della società nell’attuale epoca storica – un’analisi che voglia porre le basi di prese di posizione pratico-politiche in essa, pur se magari ancora assai generali e non indirizzate alla soluzione di problemi “puntuali” – non è gran che rilevante decidere se le tendenze al conflitto per la preminenza, tramite sconfitta e subordinazione dell’avversario, fanno parte dell’intima costituzione dell’essere umano oppure se vi sono speranze circa l’avvento, in un futuro imprecisato, di una società fondata su rapporti interindividuali, al limite ancora competitivi, non però caratterizzati dalla prevaricazione, dalla menzogna e subornazione, ecc. Penso che chi non accetta la società così com’è adesso, diciamo pure quella capitalistica (perché abbiamo in definitiva a che fare con strutture sociali di questo tipo), debba mantenere un atteggiamento di contrasto e di critica radicale dello spirito conflittuale, basato sulla prepotenza e ricerca del predominio, che in detta società si dispiega pienamente in tutte le sue sfere (economica, politica, ideologico-culturale); non ci si deve però porre nella situazione del “profeta disarmato”.

E’ ora di farla finita con la favoletta della non violenza gandhiana, che sarebbe il miglior modo di vincere le proprie battaglie e di porre le basi per una organizzazione sociale di pace e armonia. A parte le falsità storiche raccontate dall’agiografia di Gandhi, che non era poi così pacifico come si vuol far credere (ai gonzi), la sua vittoria è nata dalla reale sconfitta subita dall’Inghilterra nella seconda guerra mondiale. Apparentemente tale paese faceva parte delle potenze vincitrici, ma in realtà uscì dalla guerra nettamente ridimensionato, avendo definitivamente perso il suo ruolo di grande potenza capitalistica e imperialistica (coloniale). Non poteva in nessun caso mantenere l’India nella situazione precedente la guerra, così come dovette rinunciare alle sue altre sfere di influenza asiatiche e africane. Non parliamo del “pacifismo” attuale dell’India, dotatasi dell’arma atomica, in ricorrente conflitto con il Pakistan, con alcuni (molti) suoi governi locali che reprimono moti popolari tipici di un paese lanciatosi nello sviluppo ad alti ritmi, con le sue “naturali” conseguenze fortemente squilibranti in termini sociali.

Oggi, c’è solo da decidere se è relativamente prossima (qualche decennio) una nuova epoca policentrica, con il rinnovarsi dei conflitti per la supremazia tra le diverse formazioni particolari componenti quella globale; oppure se permarrà ancora a lungo una sostanziale preminenza, sempre più deficitaria comunque, degli USA mentre altri paesi (Russia, Cina, India, Giappone, ecc.) non riusciranno ad andare oltre un conflitto tra potenze di carattere “regionale” (degli outsiders insomma). Credo che la tendenza sia verso un autentico conflitto policentrico, preceduto comunque da un periodo, probabilmente di alcuni decenni, in cui si assisterà al rafforzamento delle potenze “regionali”. E tenendo sempre in debito conto il problema dello sviluppo ineguale, per cui si verificheranno durante tale periodo delle “sorprese”: qualche formazione particolare (paese), oggi in ascesa, si arresterà e “deluderà” le aspettative, mentre magari ne verrà fuori alla distanza qualche altra.

Non si deve comunque contare – per tutto il periodo lungo il quale si sarà in grado di formulare qualche previsione in base al processo di gestazione di nuove categorie teoriche interpretative (ipotetiche) – sull’affievolirsi delle tendenze al conflitto e al predominio. E si deve tener presente che le tendenze in questione saranno prevalentemente guidate dai gruppi dominanti strategici di diverse formazioni capitalistiche. I conflitti più acuti si svilupperanno tra: a) la potenza (formazione particolare) centrale odierna e le potenze per il momento regionali, che non possono rinunciare (pena la decadenza dei gruppi dominanti all’interno di esse) al tentativo di contrastare il predominio della prima; b) tra le formazioni particolari o pienamente sviluppate capitalisticamente (USA in testa) o in forte ascesa quanto a sviluppo capitalistico e quelle arretrate o che hanno appena iniziato il loro sviluppo (ad es. l’Iran). In queste formazioni, ancora non pienamente maturate dal punto di vista capitalistico, i gruppi dominanti appaiono in buona parte con-fusi con la massa del popolo, un aggregato anche in tal caso non del tutto omogeneo, ma comunque nemmeno scisso in raggruppamenti ben distinti come nel capitalismo avanzato; un aggregato spesso cementato da una solida cultura comune, spesso da una forte religione. Assai meno acuti e rilevanti appaiono, al presente, i conflitti interni alle formazioni particolari capitalisticamente avanzate, dove la frammentazione sociale è assai spinta e l’interazione tra i vari comparti, in orizzontale e in verticale, non sconvolge la riproduzione capitalistica dell’insieme societario, poiché ci si limita a ridiscutere sia la divisione della “torta” (prodotto complessivo sociale) – il che implica mutamenti di condizioni di vita e di lavoro dei vari comparti in oggetto – sia le rispettive posizioni quanto a “fette di potere”, a status, a diritti e doveri, ecc.

 

  1. Una volta fissato un quadro orientativo di larga (larghissima) massima, si deve decidere dove collocarsi nello svolgimento della propria attività teorica e pratica; ricordando che la teoria – nella misura in cui sia solo quella di carattere scientifico attinente alla “visione” della struttura e dinamica della società – è in definitiva un lato della pratica stessa. Ha certo suoi caratteri propri, esige particolari strumentazioni, ma non “sta da un’altra parte”, non risponde ad altre esigenze, quelle che definiamo, non importa se propriamente o meno, “spirituali”. In questo senso, “la teoria è grigia” e tale deve rimanere. Non è che ciò la renda impermeabile alla penetrazione, mascherata e inconsapevole, di una qualche ideologia; ma deve stare sempre in guardia contro simili influssi (pur non sapendo in anticipo da che parte arriva il pericolo), deve compiere i suoi passi con prudenza e sempre sorvegliandosi. Non punta in ogni caso ad accendere gli animi, a suscitare entusiasmi, a dare un senso alto alla propria lotta. Questi compiti spettano ad altri lati dell’agire umano.

Guai se Lenin fosse sceso nell’agone della rivoluzione russa con in mano Il Capitale o anche semplicemente il suo Che fare o il saggio sull’imperialismo; guai se avesse “predicato” la teoria del valore lavoro e insegnato che questa dà la certezza dello sfruttamento della forza lavorativa (dei dominati); guai se avesse spiegato il concetto di modo di produzione (e l’intreccio tra forze e rapporti produttivi), se si fosse messo ad elucubrare sullo sviluppo ineguale, e via dicendo. Avremmo una rivoluzione in meno e un mondo assai diverso; e chissà se in poche righe, in un qualche manuale di storia, verrebbe ricordato che in un qualche anno dell’inizio del novecento, in un qualche luogo della Russia, un pazzo furioso era stato picchiato a sangue (forse ucciso) da masse popolari mentre stava vaneggiando e pronunziando parole smozzicate, prive di senso compiuto; e aveva malamente reagito all’indifferenza degli astanti, li aveva insultati, minacciati, maledetti per la loro ignoranza.

 

  1. A me sembra evidente che chi vive nel nostro paese debba accettare la prospettiva di sviluppare la propria attività (teorica e pratica) nell’ambito di una formazione particolare appartenente all’area del capitalismo avanzato, di quella tipologia che in altra sede ho indicato quale formazione dei funzionari (strategici) del capitale. E’ nell’ambito di questa che si dovrà “studiare” come muoversi, almeno in un primo approccio orientativo. Viene in evidenza, innanzitutto, l’impossibilità di trascurare l’humus conflittuale in cui si attua la riproduzione dei rapporti tipici della società in questione. Due errori sono da evitare. In primo luogo credere di poter contrastare immediatamente e direttamente la mentalità del conflitto per il predominio, che permea la società ad ogni livello. Non si tratta di un comportamento tenuto soltanto dagli agenti dominanti. Questi, essendo una minoranza, avrebbero già perduto ogni potere – ed è quanto pensava Marx che non immaginava affatto un capitalismo tanto durevole – se la conquista della supremazia non fosse il movente dell’agire in ogni più piccolo ambito della società. L’ideologia dei dominanti chiacchiera in continuazione della cooperazione, dell’utilità di unirsi, ecc. Ma ogni coagulazione di gruppi di individui si verifica sempre con il fine di meglio lottare contro altri gruppi; non ci si allea per spirito di fratellanza, ma perché, come dice il detto popolare: “l’unione fa la forza”. Anche dove, a parole, si celebra ad ogni istante l’amore (ad es. nella famiglia), in realtà si vivacizza sovente un confronto più o meno aspro o invece attutito dalla “giusta” valutazione delle rispettive posizioni di forza.

E’ ovvio che si cerchino tutti i marchingegni (legali) possibili per contemperare l’uso reciproco della violenza, per non andare incontro alla generale disgregazione e indebolimento, ecc. Ma si tratta del conseguimento di equilibri del tutto instabili che, qualunque sia la loro assai diversa durata, sono comunque soltanto periodiche soste tra uno squilibrio e l’altro. Non si raggiunge per via puramente formale ciò che non diventa insito nel movimento riproduttivo dei rapporti sociali. Nella società capitalistica, d’altronde, si è solo verificata l’estensione alla sfera economico-produttiva del principio del conflitto, che in altre epoche storiche vigeva soprattutto in quella politico-militare e in quella ideologico-religiosa. Certamente, questa estensione ha “involgarito” le classi dominanti; la generalizzazione della forma di merce, che significa la pervasività sociale del pagamento in denaro, ha reso tutto “comprabile”: l’onore, la dignità, il coraggio, la lealtà, ecc. Tutte queste belle qualità, però, servivano nelle precedenti epoche a stabilire regole diverse, e forse più “nobili”, di scannamento generale (o di duello individuale). Il principio del conflitto per sopraffare gli altri e assumere la predominanza non è però differente da quello degli “ultimi”….cinque o diecimila anni (o quanti? Credo da sempre).

Lo sviluppo nella “pacifica” India è del tutto simile a quello in atto nella “crudele” Cina; poiché è comunque disarmonia, squilibrio, lotta. Prima si sviluppano alcune regioni del paese e poi, sussistendo certe politiche effettuate da dati gruppi dominanti, assistiamo ad un trasmissione del dinamismo all’insieme, ma senza che si verifichi alcun livellamento delle differenze; quasi sempre, invece, in accentuazione. L’arricchimento di una parte della società – dei gruppi dominanti – è poi seguito, sempre se vengono attuate le opportune politiche, da un più “timido” innalzamento del livello di vita degli strati sociali dominati, e non in modo uniforme ed eguale neppure in quest’ambito. Il realismo impone di prendere le mosse dalle considerazioni appena fatte, non dalle menzogne, consapevoli o meno che siano, di ideologi imbonitori al servizio delle classi dominanti (sempre, anche quando sembra che difendano i dominati). Qui si pone quel problema che i vecchi “marxisti” incanalavano, con “falsa coscienza”, nella discussione sul rapporto tra riforme e rivoluzione. Ormai, tale problema non mi sembra proprio debba essere più posto nei termini di un tempo ben lontano.

I vecchi comunisti e marxisti pensavano l’attività riformistica – necessitata qualora ci si trovasse in un contesto sociale ancora fortemente dominato dalla classe capitalistica proprietaria – quale periodo di training e di accumulazione delle forze della classe in sé portatrice della rivoluzione. Le riforme, attuate nella sfera della distribuzione e del miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori (salariati), avrebbero vieppiù messo in evidenza l’impossibilità di contrastare per tale via lo sfruttamento (estrazione di pluslavoro, sia pure nella ingannevole forma del valore-lavoro delle merci, che sembra assicurare il mero scambio di equivalenti); nel contempo, tramite le lotte riformistiche si sarebbe rinsaldata l’unione della classe deputata al rivolgimento dei rapporti capitalistici, già in via di compattamento a causa del movimento intrinseco alla riproduzione sociale, teso alla già rilevata formazione del lavoratore collettivo cooperativo.

Una volta abbandonata questa scorretta e ormai inaccettabile visione della dinamica capitalistica, e appurata la crescente frammentazione (segmentazione e stratificazione) del tessuto sociale, le lotte dei vari raggruppamenti – di lavoratori o meno; e di lavoratori sia salariati che cosiddetti autonomi – restano strettamente confinate al livello distributivo della riproduzione dei rapporti sociali. I problemi della crisi, non nel suo semplice aspetto economico che è il meno dannoso e pericoloso per i dominanti capitalistici (malgrado l’enfasi posta su di essa dagli epigoni di Marx), nascono proprio dalle modalità assunte dallo sviluppo nell’ambito sia della formazione in generale che, soprattutto, di quella globale con riferimento all’articolazione di quelle particolari che la compongono. Lo sviluppo, causato dalla forte tensione dinamica impressa dalla lotta per la preminenza (estesasi nel capitalismo anche alla sfera economico-produttiva), provoca scissioni e distanziamenti tra ceti sociali e tra le diverse formazioni particolari (in genere paesi o gruppi degli stessi); diventano così molto probabili periodiche acutizzazioni delle tensioni sociali e delle lotte che da queste derivano.

Tuttavia, la situazione si aggrava nettamente quando si verifica lo sviluppo ineguale: sia tra gruppi dominanti diversi in una certa formazione particolare sia tra differenti formazioni particolari nell’ambito di quella globale. E’ l’alterazione dei rapporti di forza tra gruppi sociali, in specie tra quelli dominanti e soprattutto quando i mutamenti avvengono rapidamente in seguito a lotte estremamente acute, a provocare crisi politico-istituzionali, ideologico-culturali, ecc. che lacerano il tessuto sociale con possibilità di ristrutturazioni radicali. Le stesse considerazioni valgono per le crisi legate all’affermarsi di differenti rapporti di forza tra formazioni particolari e al precipitare di scontri accesi tra di esse per la preminenza globale. Va anche detto che spesso, e più facilmente, le crisi interne a determinate formazioni e quelle inerenti al confronto tra più formazioni in ambito (geopolitico) globale si intrecciano e alimentano vicendevolmente.

E’ bene ricordare ancora una volta che, per quanto riguarda sia la lotta tra gruppi all’interno di una data formazione particolare sia il conflitto tra più formazioni particolari, le crisi di maggiore intensità e ampiezza si manifestano quando lotta e conflitto si inaspriscono soprattutto tra dominanti. Se una certa costellazione di forze dominanti (costituita da intrecci di agenti strategici delle varie sfere sociali) fa entrare una formazione particolare in situazione di difficoltà, stagnazione, crisi, malcontento sempre più generalizzato, ecc., è più probabile, almeno in un primo tempo, l’emergere di altri gruppi dominanti che si pongono in alternativa. Così pure, quando si transita alle fasi policentriche, il conflitto si acutizza specialmente, provocando i più netti risultati trasformativi (passaggi d’epoca), tra formazioni particolari dell’area a capitalismo avanzato, caratterizzate da differenti ritmi di sviluppo, che non accettano più di sottostare alla formazione particolare fino ad allora in posizione predominante.

 

  1. Non è qui il caso di riferirsi specificamente alla formazione particolare Italia, che andrà analizzata ad un “più basso” livello di astrazione teorica. Tuttavia, sia pure per linee assai generali e generiche, è bene trarre alcune conclusioni da quanto fin qui sostenuto. Non esiste intanto alcuna classe, in via di omogeneizzazione e compattamento, da cui emerga uno strato di élite in grado di avere una visione complessiva e ben delineata della necessaria prassi trasformativa del capitalismo; per di più nella direzione di una determinata società altra del tipo del comunismo. Nemmeno è più possibile pensare ancora alla formazione, pur in qualche modo artificiale, di avanguardie “di classe”, che presuppongono pur sempre la sussistenza dell’in sé di quest’ultima, dunque di un movimento oggettivo verso la suddetta sua omogeneizzazione e compattamento, che faccia da supporto alla soggettiva azione rivoluzionaria delle avanguardie in questione.

Esistono sempre, in ogni epoca e in numero maggiore o minore, singoli gruppi di soggetti (individui) – per null’affatto caratterizzati in maggioranza da una determinata collocazione “di classe”, anzi provenienti dai più svariati comparti in cui si frammenta vieppiù la società del capitale – che si pongono criticamente rispetto ai caratteri di prepotenza, sopraffazione (e certo inganno, raggiro, ecc.), tipici del conflitto in questa (come in precedenti) forma di società. Tali gruppi di “critici” si espandono e rafforzano nelle situazioni in cui le tensioni sociali si fanno via via più acute: sia all’interno di una formazione particolare come tra più formazioni (in sviluppo ineguale) nell’ambito di quella globale. Tali gruppi perdono le loro potenzialità – e al limite possono di fatto costituire una “carta di riserva” per i dominanti – se “distraggono” forze da una critica sociale adeguata; soprattutto quando, con estremismo apparente, predicano l’eguaglianza, il pacifismo e altre favole edificanti. In primo luogo, bisogna comprendere la positività della competizione, se sfrondata dei lati di aperta violenza per conquistare la supremazia eliminando o asservendo i competitori. In secondo luogo, va rilevato che la critica alla forma assunta dal conflitto nel capitalismo deve comunque tener debito conto di essa e saperla gestire e sfruttare per i propri fini.

Le “anime belle”, spesso non proprio in buona fede, sono comunque, quand’anche “oneste” (anzi, sono ancora più pericolose in tal caso), del tutto negative e vanno combattute perché indeboliscono l’azione critica. E’ perfettamente inutile cercare di sfuggire alla contraddizione: da una parte è obbligatorio criticare, anzi opporsi drasticamente alla forma capitalistica del conflitto per la preminenza; tuttavia, è nel contempo necessario condurre la propria azione contro i gruppi dominanti, sapendo di strategia e del misto di forza e malizia che l’agire trasformativo (“rivoluzionario”) comporta nell’attuale società. Così pure, è indispensabile orientare i dominati – e prima di tutto unire i raggruppamenti decisivi degli stessi (che non sono affatto in via di amalgama) – per ottenere i risultati trasformativi (di rivoluzionamento sociale); nel contempo, bisogna saper entrare, e proprio nei momenti in cui ciò diventa possibile, nelle contraddizioni tra gruppi dominanti, le cui interrelazioni conflittuali e rispettivi rapporti di forza sono differenti in epoche diverse, in fasi mono o invece policentriche. E via dicendo.

Di tutto ciò è meglio essere ben edotti, avendo inoltre la piena consapevolezza che la propria azione tende a convergere, e rischia di confondersi, con quella degli agenti politici da me denominati rivoluzionari dentro il capitale, messi in campo da nuovi gruppi di dominanti intenzionati, una volta rottisi gli equilibri precedenti, a rovesciare il potere dei vecchi gruppi, le cui strategie – sia interne ad una formazione particolare sia applicate al confronto tra più formazioni –  aprono congiunture di crisi, di tensione sociale, di sfarinamento delle istituzioni, di caduta del consenso, ecc. In definitiva, si tratta delle stesse congiunture in cui si manifestano le maggiori possibilità d’azione da parte dei gruppi anticapitalistici. A causa di questa confusione, di questa “fatale” vicinanza di intenti “rivoluzionari” profondamente diversi, non è mai assicurato il successo, nemmeno nei momenti di massima crisi interna a date formazioni particolari, delle forze che agiscono specificatamente contro il capitale.

 

  1. Riassumiamo. Quella che continuiamo a chiamare società capitalistica – composta da ondate successive di sviluppo di formazioni sociali caratterizzate da via via differenti strutture di rapporti (capitalismo “borghese”, dei “funzionari del capitale”, ecc.) – non ha (più) molto a che vedere con le indicazioni forniteci dalla teoria di Marx; a meno di non rifarsi alla banale ripetizione delle “giuste” previsioni marxiane circa la centralizzazione monopolistica dei capitali, la generalizzazione della forma di merce e la continua estensione del mercato globale, e via cianciando. Se Marx avesse “scoperto” solo simile “acqua calda”, sarebbe veramente uno studioso di secondo rango. Ha detto molto di più, può quindi stimolare ben altre formulazioni teoriche; queste però debbono oggi soltanto aiutarci a percorrere nuovi sentieri. Le riflessioni di Marx vanno prese come un invito pressante a rimuginarne di nuove, che si distanzino dalle sue; è ben noto che, quando ci si allontana criticamente da un grande pensatore, non lo si abbandona e tanto meno lo si tradisce, bensì lo si usa – proprio mediante la negazione determinata delle sue tesi – quale pungolo ancora fecondo e vitale. Solo i dottrinari “chiesastici”, quali sono i rimasugli marxistoidi d’oggi, non capiscono tale problema e ci propinano sterili rimasticature del passato remoto.

I gruppi dominanti non tendono a centralizzarsi ed unificarsi, permangono invece in conflitto continuo con alternanza di acutizzazione e attenuazione dello stesso; quell’alternanza che, al livello delle interazioni fra formazioni particolari nell’ambito di quella globale, danno vita alle epoche (di lunga durata) di mono e policentrismo. All’interno delle singole formazioni particolari, le fasi di accentuazione dello scontro tra dominanti conduce, non però necessariamente e ineluttabilmente, a congiunture di “rivoluzione” con sbocchi non predeterminati: contro o dentro il capitale (più facilmente si realizza la seconda soluzione). Le modalità del conflitto sono quelle da sempre in uso tra i dominanti nelle diverse forme storiche di società; solo che in quelle precapitalistiche, le strategie del conflitto per la supremazia, fondate su forza e astuzia (detto in estrema sintesi), erano utilizzate nelle sfere politico-militare e ideologico-culturale, mentre nel capitalismo pervadono pure l’intera sfera economica duplicatasi in merce e denaro (produzione e finanza), una sfera che fornisce a questo punto i mezzi essenziali per l’attuazione delle strategie in ogni ambito sociale.

Un conflitto del genere produce sviluppo, e tramite questo consente l’egemonia dei gruppi dominanti e l’accettazione del dominio da parte dei sottoposti che migliorano comunque – come tendenza di lungo periodo – le loro condizioni di vita; diciamo pure quelle materiali, ma con ciò non si incrina di un ette il consenso generalizzato per questa forma sociale. Oltre allo sviluppo, il conflitto produce anche segmentazione e stratificazione crescenti della società, con interazione, quanto meno non armonica, tra i vari spezzoni e comparti sociali (segmenti e strati). Lo sviluppo è esso stesso disarmonico, avviene con ritmi diseguali in tempi e spazi diversi e conduce a periodi (e aree) di acutizzazione. Soprattutto nei periodi e aree (formazioni particolari o loro gruppi) in cui si accentuano disarmonia e crisi, si rafforza la “disaffezione” e spesso l’antagonismo nei confronti delle modalità di uno sviluppo fondato sulle strategie del conflitto per prevalere con la forza e con l’inganno; inizialmente lo scontro si fa più acuto tra i dominanti, ma ne vengono poi investiti sempre più largamente tutti gli altri ceti sociali.

I gruppi di agenti che criticano apertamente le caratteristiche del conflitto strategico tra dominanti – gruppi del tutto minoritari e relativamente isolati nelle fasi di attenuazione delle lotte e di prevalente consenso al capitale – non sono avanguardia di “una classe”, ma hanno anzi “estrazione sociale” assai composita. Chiedersi che cosa li unisca e che cosa essi rappresentino oggettivamente non è senza senso, ma credo costituisca in determinati periodi un esercizio perfettamente inutile. E’ più interessante chiedersi come mai essi – in genere figli di una passata epoca di acutizzazione del conflitto interdominanti – si trovino in situazione di crescente debolezza e di isolamento nell’ambito di formazioni particolari, man mano che queste accedono agli alti gradini dello sviluppo capitalistico, nel raggiungimento dei quali il processo di differenziazione sociale ha sciolto la “massa” del popolo dai suoi legami con più antiche tradizioni e culture. Non esiste anzi nemmeno più un popolo in senso proprio, bensì un insieme articolato di vari comparti sociali fra loro in interazione, diversamente posizionati sia in orizzontale che in verticale.

I gruppi critici (anticapitalistici) debbono comportarsi piuttosto differentemente nei periodi di attenuazione e in quelli di accentuazione degli scontri. Essi si muovono necessariamente tra molte contraddizioni che vanno assunte consapevolmente e senza pretese di una “purezza” di intendimenti, che si pretendono rivolti all’“amore per il popolo”, ormai del tutto inesistente come appena rilevato. E’ necessario condurre una critica delle modalità strategiche del conflitto tra dominanti, demistificando le varie ideologie “armoniciste” (e di falsa cooperazione) che le occultano e mistificano; e tuttavia si debbono conoscere tali modalità e rivolgerle contro i dominanti. Vanno condotte azioni politiche – sottoposte all’attento vaglio di date ipotesi teoriche circa la struttura e dinamica capitalistiche – atte a favorire il collegamento tra gli strati “bassi” della società (quelli più nettamente dominati) e la possibile loro alleanza in un dato “blocco sociale”; sarebbe però un errore decisivo dimenticare la lotta interdominanti e non assumere determinate posizioni in grado di acuirla e di favorire comunque i gruppi nuovi e più dinamici contro quelli ormai intorpiditisi e tendenzialmente parassitari. E’ semplicemente sciocco e avventuristico – tanto da far pensare talvolta alla mala fede di certi finti critici del capitalismo – inimicarsi proprio gli strati sociali “bassi” predicando contro lo sviluppo (solo “materiale”; che “orrore”! Questo però lo affermano certi intellettuali dalla pancia fin troppo piena); e tuttavia non vi è dubbio che non ogni tipo di sviluppo favorisce la crescita delle forze dette “antisistema”.

In ogni caso, si tenga presente che le possibilità “rivoluzionarie” si presentano soprattutto nelle congiunture di crisi. Ovviamente, come più sopra rilevato, non si tratta mai di crisi puramente economiche; occorrono ben altre condizioni di sfilacciamento della trama sociale complessiva, di affievolirsi del consenso e di forti incrinature degli apparati politici e istituzionali. Condizioni simili rendono perciò problematico lo sviluppo; questo diventa del resto ancora più debole, incerto e soggetto ad inversioni di tendenza anche in seguito al sempre più duro confronto interdominanti, che vede spesso intrecciarsi il conflitto tra formazioni particolari nel contesto globale e quello tra gruppi dominanti “vecchi” e “nuovi” all’interno delle formazioni particolari. Qui nasce allora una ulteriore complicazione per i gruppi di agenti politici che nutrono aspirazioni anticapitalistiche. La loro lotta si interseca, e rischia di confondersi, con quella degli agenti “rivoluzionari” dentro il capitale, intenzionati a rilanciare il sistema capitalistico sostenendo sia i nuovi gruppi di agenti capitalistici in una data formazione particolare, sia la propria formazione particolare contro le altre sul piano internazionale (epoche policentriche). Anche per questo, pur in congiunture adatte è comunque difficile l’attività dei gruppi anticapitalistici, che debbono porre molta attenzione a quanto predicano, pena l’alienarsi le simpatie di gran parte dei segmenti e strati – perfino di quelli situati nei bassi gradini della scala sociale (ed economica) – che tendono allora a raggrupparsi in “blocco sociale” sotto la direzione dei suddetti “rivoluzionari” dentro il capitale.

Se l’esperienza del fascismo, ma soprattutto del nazismo, non ha insegnato nulla, allora poveri noi! Vogliamo ancora sostenere la menzogna, sciocca e illusoria, che le masse erano antifasciste e antinaziste, che sono state subornate (chissà come e perché), che sono state piegate antidemocraticamente con la pura violenza? Se vogliamo continuare ad autoingannarci, seguendo i mediocri antifascisti che blaterano sciocchezze da tempo immemorabile, sotto la copertura della vittoria delle “democrazie” capitalistiche (il “migliore involucro della dittatura borghese” per Lenin), facciamolo pure; ma non avremo imparato nulla dall’esperienza storica. E ripeteremo i clamorosi errori degli anni trenta; non solo l’errore di definire socialfascisti i socialdemocratici, ma anche quello di aver in seguito costituito con questi ultimi un’alleanza “antifascista” confusa e pasticciata, che ha posto una bella pietra tombale su ogni velleità anticapitalistica. Non entro evidentemente in questa sede in una discussione, più storica che teorica (ma comunque orientata da nuove ipotesi teoriche), che sarebbe lunga e qui sviante. Certo, se qualcuno infine assolvesse un compito del genere, si farebbe chiarezza su temi ormai avvolti dalla spessa nebbia ideologica sparsa dai vincitori (capitalisti tanto quanto i perdenti).

 

  1. Questo è un altro piccolo pezzo di una lenta e faticosa costruzione teorica, che tenta in ogni caso di staccarsi dai vecchi lidi senza affatto perderne la memoria. Pur dove magari non sembra, mi confronto in realtà sempre con il passato (non solo teorico), sforzandomi però di prendere un diverso indirizzo. Non ho certo la pretesa di possedere le capacità intellettive di alcuni grandi di tempi trascorsi – non mi riferisco semplicemente a Marx e ai marxisti – che hanno dato forti contributi alla crescita di una teoria della società, soprattutto di quella capitalistica; una teoria capace anche di suggerire precise pratiche politiche ed economiche. Resto inoltre ben saldo sulla posizione assunta da Althusser quando affermò che Marx ha aperto alla scienza il Continente Storia.

Malgrado quanto appena ricordato, sono sempre più convinto della necessità di percorrere nuove strade, tornando eventualmente sui propri passi se ci si accorge di essere incappati in un “cul di sacco”; non arretrando però fino a ritrovarsi al punto di partenza per poi fermarsi e segnare il passo con stanche giaculatorie. Del resto, tanto per fare un esempio eclatante, Galileo, pur essendo un genio, non giungeva all’altezza di pensiero di Aristotele; eppure seppe mandare al diavolo gli aristotelici del suo tempo. Non mi sembra di vedere oggi in giro geni “galileiani”, ma ciò non deve impedire ad alcuna persona appena un po’ sensata di mandare infine al diavolo i marxisti o i weberiani o gli schumpeteriani o i keynesiani….ecc. ecc. (tanti sono i grandi del passato) onde avviarsi lungo sentieri non ben segnati, estirpando intanto un bel po’ di erbacce che intralciano il cammino.

Quindi mi sento tranquillo: non sono presuntuoso e tanto meno folle, so bene di essere lontanissimo dai livelli di intelligenza di Marx, ma anche di tanti altri marxisti minori. Tuttavia, sono del tutto insoddisfatto delle attuali analisi della società da qualsiasi parte provengano; credo perciò che ci sia spazio per pensare e “innovare”. Comunque tento, e andrò avanti passin passino, con estrema prudenza. Solo alla fine, se ne avrò il tempo, sonderò la possibilità di elaborare il tutto in un nuovo libro che segni un deciso passo in avanti rispetto agli Strateghi del capitale.

 

 

La saga dei Saud_una conversazione con Antonio de Martini

L’Arabia Saudita sta vivendo da tempo una defatigante fase di successione all’interno della dinastia regnante. Il sistema di trasmissione del potere ha sino ad ora consegnato le leve di governo ad una paradossale gerontocrazia. L’ascesa di Selman sembra contraddire questa prassi e condurre all’epilogo la saga; con essa il perseguimento di alcuni capisaldi della politica estera e della politica interna sta trovando nuove ed inquietanti modalità operative, grazie anche agli sconvolgimenti in corso nella casa-madre americana_ Buon ascolto_ Germinario Giuseppe

https://www.youtube.com/watch?v=hyxQVMqEkG8&t=72s

Oliver Stone, le mezze verità sull’assassinio di JFK _ Pubblicazione autorizzata

Pubblichiamo, debitamente autorizzate, alcune considerazioni del regista Oliver Stone sulla recente pubblicazione di file riservati inerenti l’assassinio a Dallas del Presidente J.F. Kennedy, tutt’ora uno degli enigmi e delle macchie più oscure che marchiano le vicende politiche degli Stati Uniti. Un episodio ancora suscettibile di influenzare pesantemente il confronto politico in atto nel paese. Un confronto, per meglio dire uno scontro, per molti versi incredibile, ancora più acuto e feroce ma che a tutt’oggi non ha trovato un analogo epilogo cruento solo per la crescente perdita di credibilità del vecchio establishment, visti anche gli oscuri antefatti. Non a caso rivangati di tanto in tanto da Trump e dai componenti più fedeli e militanti del suo staff.

Non solo! La formazione sociale statunitense è molto meno coesa di allora e la contrapposizione tra élites emergenti e vecchia classe dirigente sempre meno ricomponibile_ Il rischio è quello di pervenire, in tempi relativamente brevi, ad una implosione drammatica da cui potremmo veder sorgere, nel bene e nel male, “un nuovo mondo”. 

Oliver Stone continua a distinguersi, dal suo punto di vista tipicamente americano, nella sua opera di informazione e riflessione_ Una delle poche voci che riescono a oltrepassare la cortina mediatica sapientemente stesa. In Italia gli acuti sono ancora più rari ed impercettibili. Buona lettura. Gianfranco Campa e Giuseppe Germinario.

 

A picture taken on July 5, 2017 shows a souvenir shops offering among others cup a tin mug depicting Russian President Vladimir Putin and US President Donald Trump, in Moscow. It was a constant refrain on the campaign trail for Donald Trump in his quest for the US presidency: "We're going to have a great relationship with Putin and Russia." Now, weighed down by claims that Moscow helped put him in the White House, Trump is set to finally meet his Russian counterpart in an encounter fraught with potential danger for the struggling American leader. / AFP PHOTO / Mladen ANTONOV

A picture taken on July 5, 2017 shows a souvenir shops offering among others cup a tin mug depicting Russian President Vladimir Putin and US President Donald Trump, in Moscow.
It was a constant refrain on the campaign trail for Donald Trump in his quest for the US presidency: “We’re going to have a great relationship with Putin and Russia.”
Now, weighed down by claims that Moscow helped put him in the White House, Trump is set to finally meet his Russian counterpart in an encounter fraught with potential danger for the struggling American leader.
/ AFP PHOTO / Mladen ANTONOV

Queste alcune mie considerazioni sui file di JFK:

 

  1. Trump è stato derubato. Penso che volesse davvero la pubblicazione di tutti gli archivi su JFK, ma come per qualsiasi altra cosa che riguarda il “Deep State”, i sommi sacerdoti gli hanno detto: “Non puoi farlo”,  appellandosi alla “sicurezza nazionale”; lo stesso pretesto che  viene utilizzato dal 1963.

 

  1. La pubblicazione degli archivi  è stata programmata per essere un “niente di interessante.” Il lancio di materiale cancellato / non eliminato / non più redatto è spesso illeggibile e ha lo scopo di assicurarci che “vedi, qui non c’è niente”.

 

  1. Ma nonostante tutto, alcune “peculiarità” sono venute in superficie come melma in uno stagno; il fascicolo CIA / Angleton / Oswald risale chiaramente al 1959 e Angleton aveva senza dubbio un interesse speciale per Oswald. Jeff Morley, che ha scritto una nuova biografia di Angleton (“Il fantasma: La vita segreta di CIA Spymaster James Jesus Angleton”, St. Martin’s Press, 2017) e che lavora anche come redattore sulle verità di JFK, descrive Oswald come “carta segnata” nel gioco, cioè un soldato, una pedina  da utilizzare secondo necessità; il che, a mio parere, si adatta molto bene al profilo di Oswald.

 

  1. Oswald a Città del Messico rimane ancora un mistero. Era o non era lì? Non esistono foto di lui; ho testimonianze che indicano la sua presenza in Messico . Angleton, a quanto pare, intendeva che Oswald andasse a Cuba, usando la permanenza a New Orleans per ottenere le necessarie credenziali come agente pro-Cuba. Il piano della CIA subì un arresto quando il governo cubano respinse la domanda di visto di Oswald non credendo genuina la sua presunta posizione pro Cubana.

 

  1. Al di là di questa questione,  quello che colpisce è la completa assenza di attori chiave nell’affare JFK. Gente come Howard Hunt, William Harvey, David Atlee Phillips (CIA, Messico), Anne Goodpasture (CIA, Città del Messico) e George Joannides (CIA, Miami), non vengono menzionati negli archivi pubblicati. Gli archivi completi con i nomi di questi principali attori non sono stati ancora pubblicati. Nel complesso, ci sono troppe pagine vuote. Ad esempio, apparentemente, la CIA dedica undici pagine a Garrison, ma otto sono completamente cancellate.

 

  1. I documenti più controversi sono “declassificabili”, ma secondo James DiEugenio (“Reclaiming Parkland”, “Citizens for Truth about the Kennedy Assassination”), anche se queste pagine dovessero essere pubblicate in futuro e passate sotto la macchina del riconoscimento ottico dei caratteri (OCR), non sarebbero lo stesso decifrabili. In altre circostanze, la sentenza “NON RITENUTO IMPORTANTE” diventa un’altra categoria di documenti da screditare. Persone di grande interesse come Earle Cabell, sindaco di Dallas nel 1963 e fratello del vice direttore generale Charles Cabell, l’agente di alto livello della CIA licenziato da Kennedy insieme ad Allen Dulles e Richard M. Bissell Jr. dopo il fiasco della Baia dei Porci, non sono considerati importanti, anche se hanno giocato un ruolo enorme nel tracciare il tragitto della macchina di JFK. considerato “non importante” era ANCHE il disertore russo Yuri Nosenko, la spia sovietica che aveva una teoria sull’assassinio di Kennedy completamente diversa rispetto a quella di Angleton, che invece era intento a coprirla. Nosenko fu vittima della terrificante “caccia alla talpa” di Angleton (vedi “Wilderness of Mirrors” e la nuova biografia di Morley su Angleton); sfortunatamente, il fiasco di “The Good Shepherd”, un film brutto, con Matt Damon e Angelina Jolie, ha impedito la realizzazione di altri film su questo argomento.

 

  1. Allo stesso modo, si può affermare che i sovietici – Nikita Khrushchev e il KGB – avevano chiaramente capito come  l’assassino di Kennedy fosse un colpo di stato, con elementi di forze di “destra” intente ad arrivare al potere negli Stati Uniti. Ciò si rivelò sfortunatamente vero, poiché Lyndon Johnson introdusse un nuovo sistema con politiche di linea dura in tutto il mondo, a cominciare dalla dittatura militare in Brasile e, più disastrosamente, l’invio di 525.000 truppe da combattimento in Vietnam. Il presidente francese Charles de Gaulle si trovò d’accordo con l’opinione dei Sovietici. Ma de Gaulle non fa parte di questa tornata di declassificazione degli archivi.

 

In generale, direi che questa pubblicazione degli archivi JFK è deludente nelle informazioni, ma come ho detto in apertura, è fatta apposta per essere in questo modo. Si perde interesse quando si passa da una documentazione illeggibile a una documentazione classificata “niente di interessante” per finire con un documentazione minore, non interamente redatta. Qualunque cosa di valore deve essere soppesata nei dettagli ed è proprio chi conosce i dettagli a poter interpretare al meglio questo inganno poderoso.

 

Oliver Stone.

REVIVAL: BERLUSCONI Sì, BERLUSCONI NO _ di Giuseppe Germinario

REVIVAL: BERLUSCONI Sì, BERLUSCONI NO

La prossimità della scadenza elettorale sta aiutando a dipanare l’intricata matassa degli schieramenti politici in Italia.

Sui programmi ci sarà poco da sottilizzare; tranne singole eccezioni, alla sommatoria di provvedimenti annunciati più o meno verosimili, mancherà l’indirizzo politico coerente, soprattutto riguardo alla collocazione internazionale, al mantenimento di prerogative statali e alla costruzione di una struttura produttiva solida, che possa renderle praticabili e realistiche.

Sulla dinamica degli schieramenti sembra invece incombere una “damnatio memoriae” che sta ricacciando il confronto indietro nel tempo, a venticinque anni fa; con l’ulteriore aggravante del sistema elettorale appena approvato il quale spingerà le forze politiche, in mancanza di successi netti e programmi incoerenti rispetto ai sodalizi iniziali, a sorprendenti giri di valzer postelettorali.

Come ampiamente preannunciato, Berlusconi è tornato ad essere la figura centrale dell’arena politica-politicante italiana. Con essa si pongono le premesse perché l’elemento centrale del dibattito ridiventi il pro o l’antiberlusconismo. Poiché l’immagine del leader, dopo quasi trenta anni protagonismo e ottantuno di età, risulta però troppo sbiadita, ad alimentare sufficientemente il desiderio di roghi e di girotondi contribuirà il suo epigone ed erede virtuale Matteo Renzi; una preda molto più abbordabile in questi ultimi mesi e facilmente affiancabile al protagonista originario.

Cambiano però i paladini della moralità. Cinque lustri or sono furono i leader della “gioiosa macchina da guerra” a inaugurare l’epopea e a rimanere con il sorriso a mezza bocca; oggi toccherà al M5S e all’arcipelago della sinistra riprendere il vessillo della morale e rinchiudersi, probabilmente con lo stesso esito, nella gabbia sterile dei moralizzatori, con annesso corollario di collaborazioni e collusioni istituzionali.

Cambia soprattutto il contesto di recitazione di un leitmotiv ormai logoro per gli anni.

Intanto la magistratura, per meglio dire, diversi settori di quella inquirente, ha perso gran parte della credibilità e dell’autorevolezza e Berlusconi l’esclusiva delle loro attenzioni.

Il Cavaliere detronizzato è tornato ad essere una figura centrale ma non è più il protagonista.

I capitali disponibili un tempo sono un lontano ricordo. La stessa Mediaset è solo in parte ormai la fucina di formazione da cui pescare dirigenti e trarre l’ossatura della formazione politica. Le scelte stesse dell’uomo politico negli ultimi dieci anni hanno incrinato pesantemente la sua credibilità. Oggi dispone di un gruzzolo più risicato, ma essenziale di voti che possono consentire nel migliore dei casi, con la vittoria eventuale del centrodestra, di condizionare e spegnere le pulsioni sovraniste in particolare della Lega di Salvini; in alternativa, in caso di un esito più equilibrato del responso, lo porterebbero alla formazione di un governo condominiale con il PD di Renzi e con ciò, nel male, quantomeno a costringere finalmente a una determinazione degli schieramenti su basi meno confuse ed equivoche.

In attesa delle redde rationem di primavera e dei mesi immediatamente a venire colpisce soprattutto il numero di convitati, a cominciare da Renzi per finire con Salvini, che gli ronzano intorno pronti a posizionarsi nel punto più favorevole.

A cagione della sua età e della tenuta precaria della sua formazione politica non si tratta più di ambiziosi impegnati a conquistare un posto al sole in un partito in fase ascendente; piuttosto, di pretendenti impegnati a spartirsi la parte più consistente delle spoglie politiche del Presidente.

Sarà il momento della verità.

Lo sarà soprattutto per Renzi, ostinatamente arroccato nel suo partito chiuso ad ogni apertura verso i suoi ex commilitoni; lo sarà per Salvini perché sarà il momento in cui si potrà qualificare la sua attuale posizione come puramente tattica o inesorabilmente opportunistica e ballerina.

14444248216Nei vari momenti della propria storia, l’uomo ha avuto una propria particolare idea della “buona morte”. Il Medioevo non sfugge a questa particolarità e poiché il ceto sociale aveva in esso una funzione molto più codificata e ritualizzata, ogni categoria ne assumeva una propria. Contrariamente alle aspettative la buona morte del CAVALIERE, specie di alto rango, non doveva avvenire sul campo di battaglia. L’auspicio comune e dello stesso soggetto interessato era invece quello di una fine lenta e consapevole, malinconica ma non drammatica. Il tempo e la lucidità, magari nel caso indotta e interpretata dai più prossimi al capezzale, gli avrebbe consentito la spoliazione progressiva dai beni terreni e il contestuale progressivo lenimento dell’anima dalle zavorre mondane, residenza d’elezione delle tentazioni luciferine; la condizione necessaria alla ascesa verso l’Essere Supremo.

Era il momento fatidico della soddisfazione delle aspettative più o meno interessate della pletora di questuanti. Dal popolino più miserabile, al cortigiano più infido e a quello più fedele, al delfino prediletto e a quello predestinato, ciascuno si aspettava il giusto riconoscimento e la giusta soddisfazione.

Era anche il momento in cui il protagonista, se in condizione o sapientemente ispirato, poteva cavarsi qualche ultima, definitiva e beffarda soddisfazione verso l’umanità o, cosa più alla portata del momento, verso qualche vicino poco gradito.

Ho il vago presentimento che il Cavaliere dei nostri tempi e delle nostre terre stia preparando nel suo lungo commiato qualche ultima sorpresa.Considerata, con poche eccezioni, la mediocrità del “parterre” che lo circonda e la natura luciferina dei legami stretti, specie negli ultimi dieci anni, è probabile che ci riesca.

LE ELEZIONI IN SICILIA

Le elezioni in Sicilia del 5 novembre scorso sono state in proposito un primo test rivelatore.

Il PD mostra di avere un nocciolo duro grosso modo equivalente all’esito elettorale delle elezioni del 2013 e difficilmente scalfibile, almeno nel breve termine. Una posizione contendibile in caso di risultato pressoché ex aequo tra centrodestra e M5S, ma che difficilmente potrebbe resistere a cinque anni di opposizione. Specie se dovesse proseguire con il suo atteggiamento ondivago. Nelle intenzioni vorrebbe imitare l’esperienza di Macron in Francia, definendo costui, almeno nei programmi e nei proclami, una linea politica netta europeista, governativa ed istituzionale; dall’altra sembra concedere spesso e volentieri molto agli atteggiamenti e alle parole d’ordine “populiste”. Il che la dice lunga sulle capacità e sull’immagine di coerenza di quel gruppo dirigente e di Renzi in particolare. Il conforto e le direttive, profferte in questi giorni ad Obama non saranno certamente sufficienti a compensare queste carenze. Potranno servire, molto più probabilmente, a contenere le esuberanze e le ambizioni del rivale apparente di Renzi: Berlusconi. Più che la forza intrinseca, potrà contare la manina d’oltreoceano.

Forza Italia ha dimostrato di poter contenere i danni, al netto delle transumanze di voto controllato tra uno schieramento e l’altro e in attesa dell’ingresso in campo del leader, per quanto logorato e consunto.

La Lega ha goduto apparentemente di un risultato poco lusinghiero; in realtà, nelle città dove c’è stato un impegno diretto, i risultati si sono visti. Bisognerà valutare la capacità di presenza capillare sul territorio nazionale, cosa del quale dubito. Si tratta, secondo me, di una tendenza comunque troppo lenta rispetto all’agenda prefissata da Salvini. Rimangono comunque gli equivoci di una formazione politica che ambisce a presentarsi come forza nazionale e sovranista ma che intende costruire questo carattere su una pericolosa e immaginaria rappresentazione di un “Italia Federata dei Popoli”; pericolosa e nefasta soprattutto per l’attuale condizione del Mezzogiorno. Un escamotage utile a rammendare le attuali lacerazioni interne al partito, ma del tutto inadeguata a costruire un partito realmente nazionale.

La sinistra, inoltre, sulla quale ho speso e spenderò parole in altre occasioni, ha rivelato la propria irrilevanza e minoritarismo, se non per contribuire allo stallo e alla regressione del Partito Democratico.

Il M5S pare in una situazione di stallo che lo porta a rappresentare al più un’opposizione sterile e di comodo, tanto più che le dinamiche tendono a ricacciarlo nel ruolo di oppositori moralisti meglio disposti a raccogliere dalle voragini e dalle propensioni della sinistra piuttosto che destrorse.

La crescente astensione non inibisce certamente l’azione e l’agibilità delle formazioni politiche. Ne accentua però la fragilità e la rissosità; ne riduce la capacità di estensione del potere piuttosto che la presa sui meccanismi.

Una situazione interlocutoria tipica di una classe dirigente, nella sua quasi totalità, in attesa di eventi determinati da altri e incapace di assumere un ruolo attivo e con un minimo di ambizione autonoma.

Qualche sussulto di ribellione pare emergere nell’affrontare la questione bancaria. Appare, però, il tentativo disperato di difendere il gruzzoletto e il minimo di agibilità politica di una ristretta oligarchia, chiusa in sé stessa e a pochi adepti collaterali, piuttosto che la delimitazione di un fronte da cui ripartire per la ricostruzione del paese.

 

MACRON, il grandiloquente – a cura di Giuseppe Germinario

Un vecchio ministro degli esteri e attualmente saggista, Hubert Védrine, ha qualificato la politica estera della Francia, in particolare quella adottata da Sarkozy e Holland, come “grandeloquente” e ripetitiva. Dietro proclami ambiziosi, pretese di condizionare e trasformare dall’interno il funzionamento dei sistemi di alleanza occidentali, si cela un velleitarismo che sta trascinando progressivamente il paese in una condizione umiliante di subordinazione politica e fallimentare nel perseguimento degli interessi nazionali. Il suo oltranzismo specie nelle politiche mediorientali, l’hanno spiazzata ridicolmente rispetto alle giravolte della diplomazia americana; la sua eccessiva esposizione a favore dei paesi arabi della penisola saudita hanno quasi azzerato la capacità di mediazione in quell’area in cambio di mere promesse di contratti commerciali, in gran parte inevase, e di una infiltrazione pericolosa e destabilizzante di quei regimi nella formazione sociale della Francia; il suo interventismo nell’Africa Subsahariana, con mezzi inadeguati e senza chiari obbiettivi politici, sta riaprendo la strada in realtà al nuovo interventismo americano in quell’area sotto la beffarda copertura del soccorso fraterno. Una nuova versione de “arrivano i nostri”. Macron, a dispetto della novità della Presidenza Trump, sembra proseguire su questa falsariga, trascinando la Francia a sacrificare i residui “atout”, tuttora significativi, che le consentirebbero di assumere un ruolo più autonomo ed autorevole, senza neppure la discrezione e la riservatezza che contraddistingue la posizione similmente miserabile di paesi “fratelli” come l’Italia_ Germinario Giuseppe

Qui sotto il testo tradotto dell’interessante recensione di Jacques Sapir del libro dell’ ex Capo di Stato Maggiore de Villiers, dimissionato l’estate scorsa da Macron. https://www.les-crises.fr/russeurope-en-exil-servir-de-pierre-de-villiers/  Buona lettura

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“La pubblicazione del libro dell’ex Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, il generale Pierre de Villiers, Servir (pubblicato da Fayard) mercoledì 8 novembre è una sorta di evento. Il generale de Villiers, che è ricordato per essersi dimesso  dopo un conflitto con il capo dello Stato, ci dà la sua versione degli eventi che hanno portato alla sue dimissioni. Questa versione illumina anche sulla natura e le modalità di  rapporto che il presidente Emmanuel Macron intrattiene con le forze di difesa nazionale.

Innanzitutto, c’è l’aspetto relativamente eccezionale di questo libro. Le dimissioni del General de Villiers si sono verificate a metà luglio 2017. Quindi è una testimonianza “calda” quella che ci offre. Inoltre, è raro che un ex capo di stato maggiore tornasse così in fretta sull’argomento del conflitto con il Presidente. Non possiamo fare a meno di notare che, facendo così, il generale de Villiers assume una posizione politica nel dibattito.

Detto questo la forza della testimonianza non viene sminuita. Soprattutto dal momento che il generale de Villiers fa politica senza essere mai un politico. Nella Repubblica, secondo la formula dei Romani, “la resa delle armi alla toga”. È inoltre necessario che la toga, in altre parole l’autorità politica, adotti una posizione coerente. Ed è da questo punto di vista che l’autore del libro è parte. Sottolinea l’incoerenza tra la posizione e le scelte politiche e la loro traduzione nelle cifre di bilancio. Ad una lettura attenta del libro, è quindi chiaro che ha voluto fornire una testimonianza diretta sia ad agli alti ufficiali che al pubblico in generale, non tanto per giustificare sé stesso (e questo lo avrebbe potuto rendere ” politicante “) quanto per illuminare gli uni e gli altri riguardo l’importanza del dibattito sulla politica di bilancio della difesa e del conflitto, quindi, da lui sostenuto con le autorità civili,

Quale rimprovero dunque del Presidente della Repubblica al generale de Villiers? Solo per aver, in termini certamente rudi, illuminare la rappresentazione nazionale delle implicazioni delle scelte di bilancio. Il generale ha pertanto indicato, era suo dovere, davanti al Comitato Nazionale di Difesa, che i risparmi di 850 milioni di euro richiesti quest’anno alle Armi nell’ambito degli aggiustamenti di bilancio, pur in un contesto di restrizioni del bilancio generale, non erano accettabili o potrebbero compromettere lo sforzo richiesto alle forze armate.

Perché è importante sapere che il generale de Villiers non si esprime sulla questione degli orientamenti della politica di difesa. Come un buon repubblicano, egli ritiene che questa questione sia totalmente nel registro del potere politico. Per contro, egli si sente qualificato nel dire che, date le scelte fatte in materia di politica di difesa, il nuovo sforzo di risparmio chiesto al Ministero della Difesa avrebbe conseguenze disastrose, in particolare negli impegni all’estero delle forze armate.

Abbiamo tutti il diritto di pensare il contrario. Ma se il capo di Stato non informa la rappresentanza nazionale del suo punto di vista, chi lo farà?

Il libro del generale de Villiers pone pertanto un problema politico: quale grado di controllo parlamentare è disposto ad accettare sulla politica di difesa Emmanuel Macron? Infatti, secondo la Costituzione della Quinta Repubblica e secondo le prassi consolidate per oltre un secolo, se l’esecutivo decide (e il generale de Villiers non mette in discussione), esso è anche soggetto a controllo la parte del Parlamento. Tuttavia, affinché tale controllo non sia puramente formale, è necessario che i parlamentari siano adeguatamente informati della situazione e in particolare della coerenza tra gli obiettivi e i mezzi.

Pertanto, non può esserci alcuna aspettativa per un capo di Stato Maggiore a autolimitarsi a commentare o illustrare la politica di difesa. Il generale de Villiers ha ritenuto che fosse suo dovere informare la Rappresentanza Nazionale dell’incoerenza tra gli obbiettivi assunti e la riduzione dei mezzi finanziari. Così ha fatto e per questo è stato punito.

“La vera fedeltà consiste nel dire la verità al proprio capo ” , scrive il generale de Villiers in un libro privo di ogni acrimonia. Questo è uno dei grandi punti di forza di questo libro. Ora, il capo del generale de Villiers non è solo il Presidente della Repubblica, ma è anche il Parlamento. “La vera libertà è essere in grado di farlo, qualunque siano i rischi e le conseguenze (…) La vera obbedienza si prende gioco dell’obbedienza cieca. È l’obbedienza dell’amicizia “, scrive anche lui. Quindi si percepisce che c’era tra i due uomini se non l’amicizia, almeno il rispetto. E questo rende più incomprensibile il metodo scelto da Emmanuel Macron per reagire alle dichiarazioni, tutto sommato normali, del generale de Villiers.

Il metodo adottato da Emmanuel Macron comporta pertanto un problema politico maggiore. Avrebbe potuto convocare il Capo di Stato Maggiore, esprimere le proprie rimostranze, al limite chiedere – ha il potere di farlo – le sue dimissioni. Ha scelto di umiliarlo pubblicamente. Non può essere una scelta di circostanza; a questo livello è soprattutto una scelta politica. Ma per voler umiliare uno assume il rischio di isolarsi, di tagliarsi fuori dalle realtà. Che in definitiva porta implicitamente alla seguente domanda: è Emmanuel Macron in grado di compiere la missione di cui è stato investito dal suffragio universale?

È quindi necessario leggere attentamente le frasi scritte da Pierre de Villiers che non sono senza profondità. Si ripete, non si tratta di un proclama risentito, ma di una relazione. E, ciò che rivela gela il sangue. Queste frasi indirettamente spargono una luce cruda sul metodo di Emmanuel Macron come sul suo carattere.

Questo libro verrà letto, nel pubblico ma anche nell’esercito. Questo è certamente quello che vuole Pierre de Villiers. Possiamo quindi fare riferimento a esso. Quindi non saremo sorpresi se, filo per filo, riveli un Emmanuel Macron molto diverso dal giovane un po’ affettato che i media ci hanno venduto.

Jacques Sapir”

 

PUTIN, INTERVENTO AL FORUM VALDAI 2017, a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto il testo di una lunga intervista a Vladimir Putin, tradotta e pubblicata al seguente link http://sakeritalia.it/sfera-di-civilta-russa/vladimir-putin/lintervento-di-vladimir-putin-al-forum-valdai-2017/  Le sue qualità di politico e di statista sono sempre meno messe in discussione tra i suoi stessi avversari e detrattori. E’ indubbio che in Russia si stia riformando una classe dirigente con un indirizzo politico coerente ed efficace nel sostenere il peso del confronto e dell’aperta ostilità, in primo luogo delle élites dominanti negli Stati Uniti. La precarietà della situazione interna, non ostante l’evidente coesione politica raggiunta, dovuta alle carenze demografiche, specie nell’area orientale debordante di materie prime, e dell’organizzazione e del livello tecnologico dell’economia, pendono ancora come una spada di Damocle sul potenziale strategico e sulla capacità di sostenere nel tempo il livello e la qualità del confronto che si va profilando. Non solo quello sempre più aperto con gli Stati Uniti, non ostante le vicende siriane e mediorientali lascino intuire una sorta di diplomazia sotterranea più accomodante certamente, ma grazie soprattutto all’efficacia diplomatica e militare messa in mostra, a volte volutamente ostentata; ma anche quella per ora latente con altre potenze emergenti, messa sottotraccia dai troppi fronti ostili aperti dalle élites americane verso troppi avversari. Basti pensare al flusso demografico di cinesi in Russia, in particolare in Siberia, in numeri assoluti ancora ragionevoli (dai tre ai cinque milioni), ma allarmanti in rapporto alla massa di popolazione locale (circa trenta milioni) e all’enorme estensione territoriale. Al momento si cerca di equilibrare il rapporto estendendo le collaborazioni ad altri paesi tecnologicamente evoluti e concorrenti della Cina, come il Giappone. Una compensazione tattica che però non la difenderebbe da eventuali sodalizi tra colonizzatori in un futura fase di policentrismo consolidato. La Cina, nel ‘800 e nel primo ‘900, fu la principale vittima di questi sodalizi predatorii; deve servire da monito ad aperture indiscriminate. L’illusione di trovare una sponda concreta nelle classi dirigenti europee, specie tedesca, francese ed italiana ha ritardato il consolidarsi di questa consapevolezza e il tentativo, in atto, di trovare con più efficacia al proprio interno le risorse e le capacità organizzative di sviluppo economico. 

Il senso della pubblicazione di questo intervento sul sito è un altro. In alcuni passi Putin parla apertamente di ricerca di egemonia condivisa; lo fa seguendo i canoni più classici del riconoscimento del ruolo degli stati nazionali. Una tesi “rivoluzionaria” rispetto alle politiche mestatorie e caotiche di impronta occidentale. Organizzare una tifoseria pro o contro Putin, come puntualmente accade da alcuni anni nel nostro paese, serve solo a consolidare una predisposizione, teorica alla sudditanza ad uno qualsiasi dei paesi dominanti, pratica a quella a preminenza americana. Contribuisce ad impedire, nel migliore dei casi ad ostacolare, la formazione di una classe dirigente capace di creare un blocco politico ed una formazione sociale sufficientemente coesa e dinamica, solida, in grado di sostenere con più autonomia ed efficacia il confronto che si va profilando. In questo solco “virtuoso”, tutt’altro che praticabile con l’attuale quadro politico, si possono tracciare due strade: la più ambiziosa e problematica, in grado di porre il paese alla pari delle altre potenze consolidate o emergenti, dovrebbe puntare a un sodalizio con Francia e Germania; una tale ipotesi presuppone il cambiamento contestuale delle classi dirigenti nei tre paesi. Quella più circoscritta prevede un ruolo significativo ed autonomo nell’area mediterranea; il presupposto necessario è il cambiamento della classe dirigente nazionale, una economia più equilibrata e controllata da forze nazionali, il consolidarsi definitivo di potenze concorrenti con gli Stati Uniti. Entrambe, ipotesi che non possono prescindere da un rapporto proficuo con l’attuale dirigenza russa. Buona lettura_ Giuseppe Germinario

Errori (domanda di Sabine Fischer, Fondazione Scienze e Politiche, Berlino).

Signor Presidente, Lei è stato molto critico verso le politiche dell’ Occidente a proposito delle sue relazioni con la Russia. A dire la verità, molti temi da Lei toccati richiedono una discussione critica approfondita. Allo stesso tempo sappiamo che in ogni rapporto (fra paesi come fra persone), entrambe le parti fanno errori. E dunque ho una domanda. Quali sono gli errori politici che, a parer Suo, ha commesso la Russia nelle relazioni con l’ Occidente nel corso degli ultimi 15 anni e cosa deve essere fatto, quali conclusioni devono essere tratte per il futuro di queste relazioni?).

Vladimir Putin – Il nostro errore più serio nelle relazioni con l’ Occidente è stato un eccesso di fiducia. E il vostro errore è stato che avete inteso la fiducia come debolezza, e ne avete approfittato. Quindi è necessario lasciarsi tutto ciò alle spalle, girare pagina e andare avanti, costruendo le nostre relazioni sulla base del reciproco rispetto e trattandoci l’un l’altro come interlocutori alla pari che esprimono valori alla pari.

Futuro della Russia

Vladimir Putin – Dobbiamo rendere la Russia molto flessibile e altamente competitiva. Flessibile in termini di forma e di metodo di governo, flessibile in termini di sviluppo di una economia che sia preparata ad affrontare il futuro, in termini di introduzione di tecnologia avanzata, di creazione di opportunità e di loro utilizzo. Inutile dire che dobbiamo rinforzare le nostre capacità difensive e migliorare il nostro sistema politico in modo da renderlo un organismo vivente e svilupparlo e tenerlo complessivamente aggiornato. E in tema di tecnologia, la persona alla mia sinistra, il fondatore di una grande compagnia globale, ha palato di Big Data. Sapete, noi non abbiamo davvero coscienza di cosa si stia parlando. Forse lo sapete, molti lo hanno sentito, di un caso recente verificatosi negli Stati Uniti, quando una società improvvisamente ha iniziato a mandare ad una ragazzina di 14 anni offerte per comprare prodotti per donne in stato interessante, il che ha offeso i suoi genitori. I due hanno scritto un reclamo alla società e la società si è scusata. Poi si è scoperto che la ragazza era davvero incinta. Né lei né i suoi genitori lo sapevano. Abbiamo saputo che sulla base di un gran numero di dati, del cambiamento negli interessi della ragazza, delle preferenze, delle domande e delle ricerche, una macchina può giungere alla conclusione di avere a che fare con una donna incinta e quindi ordinare ad un’ altra macchina di offrire prodotti per donne incinte. Siamo per la prima volta alle prese con una sorta di controllo su umani amministrati dalla tecnologia. Dobbiamo tenere conto del fatto che ci sono aspetti sia positivi che negativi in tutto questo. Dobbiamo riflettere su ciò nel nostro pese e usarlo per il bene della nostra gente. Questo è il nostro super-compito.

Guerra Fredda (nuova)

Avevamo [fra Stati Uniti e URSS/Russia] più divergenze e discordie ai tempi sovietici. In ogni caso sa di cos’altro c’era abbondanza? Rispetto. Fatico ad immaginare che ai tempi dell’Unione Sovietica si potessero ammainare le bandiere sovietiche dalle missioni diplomatiche sovietiche. E tuttavia lo avete fatto. Non è il solo segno di mancanza di rispetto. Tale mancanza si dimostra non solo in queste azioni formali, ma anche nelle questioni di sostanza. Ne abbiamo già parlato oggi, e quindi non è probabilmente il caso di tornarci. Avevamo più rispetto dei reciproci interessi. Certo, il rispetto deve essere sostento dalla potenza economica e militare, questo è chiaro. Va a noi stessi gran parte del biasimo per esserci messi da soli in questa posizione. In una posizione umiliante, come negli anni novanta, quanto vi abbiamo permesso di accedere alle nostre installazioni nucleari sperando che faceste altrettanto. Comunque non lo avete fatto, e aspettarsi qualcosa da voi è stato probabilmente una dimostrazione di stupidità da parte degli esponenti della “nuova Russia” che lo fecero. Comunque vorrei chiudere le mie osservazioni su di una nota positiva. Io credo molto che la soluzione delle questioni di reciproco interesse dipenda dal lavoro comune. Ciò dovrebbe aiutarci a rimanere concentrati sul pensiero che le nostre prospettive sono buone. Abbiamo appena parlato della Siria. Per ritornare sul tema (credo di non poter svelare i dettagli) teniamo incontri fra gruppi tematici, a livello di servizi segreti, di Ministero della Difesa, di Ministero degli Esteri, quasi su base settimanale. Abbiamo ottenuto alcuni risultati, il che significa che siamo in grado di farlo.

Multilateralismo

Il mondo è entrato in un’ era di rapidi cambiamenti. Cose che erano ancora poco fa considerate fantasiose o inattuabili sono diventate realtà e parte delle nostre vite quotidiane. Processi qualitativamente nuovi si stanno sviluppando simultaneamente in ogni sfera di attività. Veloci cambiamenti nella vita pubblica in molti paesi e la rivoluzione tecnologica sono interconnesse con cambiamenti sull’arena internazionale. La competizione per un posto nella gerarchia globale si va esacerbando. Quindi molte vecchie ricette di gestione globale, di soluzione dei conflitti e delle contraddizioni naturali non sono più applicabili, spesso falliscono, mentre non ve ne sono ancora disponibili di nuove. Naturalmente gli interessi degli stati non coincidono sempre, al contrario. Ciò è normale e naturale. E’ sempre stato così. Le potenze egemoni hanno diverse strategie e percezioni del mondo. Questa è l’ essenza immutabile delle relazioni internazionali, che sono costruite sul bilanciamento fra cooperazione e competizione. Vero è che quando questa bilancia è alterata, quando l’ osservanza o persino l’ esistenza di regole universali è messa in dubbio, quando gli interessi sono promossi costi quel che costi, le divergenze diventano imprevedibili e pericolose e portano a conflitti violenti. Non un solo problema internazionale può essere risolto in circostanze simili ed in un simile quadro e dunque le relazioni intestatali semplicemente si degradano. Il mondo diventa meno sicuro. Invece di democrazia e progresso viene lasciato campo libero ad elementi radicali e a gruppi estremisti che rifiutano la civiltà stessa e cercano di tornare ad un passato remoto, al caos, alla barbarie.

La storia degli ultimi anni fornisce una rappresentazione fedele di ciò. Basta guardare cosa è successo nel Medio Oriente, che alcuni attori hanno provato di risistemare e riformattare secondo i loro gusti, imponendo un modello di sviluppo estraneo attraverso colpi di Stato all’uopo organizzati, o semplicemente con la forza delle armi. Invece di lavorare assieme per aggiustare la situazione e portare un colpo effettivo al terrorismo, invece di condurre una lotta (nei fatti simulata ed inesistente), alcuni nostri colleghi fanno tutto il possibile per rendere permanente il caos in questa regione. Alcuni pensano ancora che si possa ancora utilizzare il caos a proprio vantaggio. Nel frattempo ci sono alcuni esempi positivi nell’esperienza recente. Come probabilmente avete capito, mi riferisco all’esperienza siriana. Dalla quale apprendiamo che esiste una alternativa a questo genere di politica arrogante e distruttiva. La Russia sta combattendo i terroristi al fianco del legittimo governo siriano e di altri stati della regione, e agisce sulla base del diritto internazionale.

Devo dire che queste azioni e i progressi che ne sono seguiti non sono stati facili. C’è un forte elemento di dissenso nella regione. Ma ci siamo rinforzati con la pazienza e, soppesando ogni mossa e ogni parola dei nostri nemici, abbiamo lavorato con tutti i partecipanti a questo processo con rispetto per i loro interessi. I nostri sforzi, il cui risultato è stato messo in dubbio dai nostri colleghi ancora recentemente, stanno ora (diciamolo con cautela) instillando una speranza. Si sono dimostrati molto importanti, corretti, professionali e tempestivi. O, prendete un altro esempio: il confronto intorno alla penisola coreana. Sono sicuro che abbiate affrontato questo argomento estensivamente. Sì, noi condanniamo senza ambiguità i test nucleari condotti dalla Repubblica Democratica Popolare di Corea e soddisfiamo completamente le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite relative alla Corea del Nord.

Colleghi, voglio sottolineare con enfasi questo aspetto in modo che non siano possibili interpretazioni soggettive. Noi osserviamo tutte le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. In ogni caso questo problema può naturalmente essere risolto solo attraverso il dialogo. Non dobbiamo spingere la Corea in un angolo, minacciare azioni di forza, inclinare alla rozza maleducazione ed all’invettiva. Piaccia o non piaccia il regime della Corea del Nord, non dobbiamo dimenticare che la Repubblica Democratica Popolare di Corea è uno stato sovrano. Tutte le controversie devono essere risolte in una maniera civile. La Russia ha sempre favorito tale approccio. Siamo fermamente convinti che anche i nodi più aggrovigliati (sia che si parli delle crisi in Siria, Libia, Penisola Coreana o, poniamo, Ucraina) debbano essere sciolti, non tagliati.

NorthStream

Una volta gli apologeti della globalizzazione provavano a convincerci che l’interdipendenza economica universale avrebbe prevenuto i conflitti e le rivalità geopolitiche. Tuttavia, questo non è accaduto. Al contrario, la natura delle contraddizioni si è fatta sempre più complicata, sviluppandosi su più livelli e lungo diverse linee. Per la verità, mentre le interconnessioni sono un fattore di contenimento e stabilizzazione, assistiamo anche ad un crescente numero di esempi di politica che entra in conflitto violento con l’ economia e con le logiche di mercato. Ci avevano messi in guardia: tutto questo è inaccettabile, controproducente e deve essere evitato.

Ora gli stessi che lanciavano avvertimenti fanno proprio loro tutto ciò. Alcuni non si preoccupano nemmeno di inventare dei pretesti politici per promuovere i loro immediati interessi commerciali. Per esempio, il recente pacchetto di sanzioni adottato dal Congresso USA è apertamente inteso ad escludere la Russia dai mercati energetici europei e a costringere l’Europa a comprare il più costoso gas liquefatto prodotto dagli Stati Uniti, sebbene la scala di questa produzione sia ancora troppo modesta. Si stanno facendo tentativi per alzare ostacoli ai nostri sforzi di creare nuove vie di approvvigionamento energetico (South Stream e North Stream) sebbene la diversificazione logistica sia economicamente efficiente, sia utile all’Europa e aumenti la sua sicurezza. Lasciate che lo ripeta: è solo naturale che ogni stato abbia interessi politici, economici e di altra natura. Il problema sono i mezzi con cui tali interessi sono tutelati e promossi.

ONU

Colleghi, come vediamo il futuro dell’ ordine internazionale e del sistema di governo globale? Per esempio, nel 2045, quando l’ ONU vedrà il suo centesimo anniversario? La sua creazione è divenuta un simbolo del fatto che l’ umanità, a dispetto di tutto, è in grado di sviluppare regole di condotta comuni e di seguirle. Non essendo poi tali regole state osservate, ne sono inevitabilmente derivate crisi e altre conseguenze negative.

In ogni caso, negli ultimi decenni, abbiamo assistito a diversi tentativi di sminuire il ruolo di questa organizzazione, di screditarla, o semplicemente di prenderne il controllo. Secondo noi l’ ONU, con la sua eredità universale, deve rimanere il centro del sistema internazionale. Il nostro fine comune è aumentare la sua autorità ed efficacia. Non ci sono alternative all’ONU, oggi.

Per quanto riguarda il diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza, che è a sua volta messo in discussione, bisogna ricordarsi che questo meccanismo è stato pensato e attuato per evitare confronti diretti fra gli stati più potenti, come garanzia contro l’arbitrio e la prepotenza, in modo che nessun singolo paese, nemmeno il più influente, possa rivestire le proprie azioni aggressive con una apparenza di legittimità. In ogni caso, parliamone, gli esperti sono qui, e sanno che l’ ONU ha legittimato a posteriori le azioni di singoli membri nel proscenio internazionale. Certo, è qualcosa, ma nulla che di per sé possa dare un contributo positivo. Servono riforme, il sistema dell’ ONU ha bisogno di essere migliorato, ma le riforme possono solo essere graduali, evolutive e, naturalmente, devono essere sostenute dalla maggioranza schiacciante dei membri in un procedimento internazionale all’interno della stessa organizzazione, con consenso corale. La garanzia dell’ efficacia dell’ ONU sta nella sua natura rappresentativa. Vi è rappresentata la maggioranza assoluta degli stati sovrani del mondo. I principi fondamentali dell’ ONU dovrebbero essere preservati per gli anni e i decenni a venire, visto che nessun’ altra entità è in grado di rappresentare l’ intero spettro delle politiche internazionali.

Rivoluzione d’ Ottobre

Una rivoluzione è sempre il risultato di un errore di calcolo sia di quelli che vogliono conservare, congelare in ogni modo un ordine di cose ormai superato che ha chiaramente bisogno di essere cambiato, e di quelli che aspirano a velocizzare i cambiamenti, e che devono ricorrere alla guerra civile ed alla resistenza distruttiva.

Oggi, se ci volgiamo alle lezioni di un secolo fa, per essere precisi della Rivoluzione Russa del 1917, vediamo come i suoi risultati siano stati ambigui, e come siano strettamente intrecciate le conseguenze negative e quelle positive, che pure dobbiamo riconoscere. Chiediamoci: sarebbe stato possibile seguire una via evolutiva piuttosto che passare per una rivoluzione? Avremmo potuto evolverci per graduali e sostanziali movimenti progressivi piuttosto che al prezzo di distruggere il nostro stato e di spezzare senza pietà milioni di vite umane? In ogni caso, il modello e l’ ideologia largamente utopistici che lo stato nuovamente formato tentò di realizzar subito dopo la rivoluzione del 1917 fu un potente vettore di trasformazione in tutto il mondo (il che è abbastanza evidente e deve essere riconosciuto), provocò una vasta riconsiderazione dei modelli di sviluppo, e innescò una competizione ed una rivalità il cui beneficio, direi, fu raccolto in prevalenza dall’Occidente. Mi riferisco non solo alle vittorie geopolitiche seguite alla Guerra Fredda.

Molti progressi del mondo Occidentale nel ventesimo secolo furono risposte alle sfide poste dall’Unione Sovietica. Parlo dell’ aumento della qualità della vita, alla formazione della classe media, alla riforma del mercato del lavoro e della sfera sociale, alla promozione dell’ educazione, alla tutela dei diritti umani, inclusi i diritti delle minoranze e delle donne, al superamento della segregazione razziale che, come forse ricorderete, era una vergognosa pratica di molti paesi, inclusi gli Stati Uniti, fino a pochi decenni or sono. In seguito ai cambiamenti radicali avvenuti nel nostro paese e in tutto il mondo all’inizio degli anni novanta, si è presentata una possibilità veramente unica di aprire un nuovo capitolo nella storia. Mi riferisco al periodo successivo alla fine dell’ Unione Sovietica. Sfortunatamente, dopo aver diviso l’eredità geopolitica dell’ Unione Sovietica, i nostri interlocutori occidentali si sono convinti della giustezza intrinseca della loro causa e si sono auto dichiarati vincitori della guerra fredda (come ho già accennato) e hanno preso ad interferire negli affari di paesi sovrani, ad esportare la democrazia proprio come la dirigenza sovietica aveva tentato di esportare la rivoluzione socialista al resto del mondo, a suo tempo.

Siria

La prima cosa che vorrei fare, a proposito dell’accordo sulla Siria e del processo di Astana, è ringraziare il Presidente del Kazakistan Nursultan Nazarbayev per aver reso possibile a noi ed agli altri partecipanti di questo processo incontrarci ad Astana. Il Kazakistan non è solo il posto dove ci siamo incontrati. E’ un contesto molto adatto visto che il Kazakistan mantiene la neutralità. Non interferisce nei complessi processi regionali ed è rispettato come intermediario. Vorrei notare che ad un certo punto il Presidente Nazarbayev si è preso la responsabilità di impedire alle parti di scontrarsi e ai negoziatori di abbandonare il tavolo. E’ stata una cosa molto positiva, e gli siamo molto grati per questo.

Per quanto riguarda la situazione dei negoziati, stanno procedendo lungo una direttrice positiva. Ci sono stati momenti buoni e momenti cattivi, dei quali parlerò in seguito ma, in definitiva, il processo avanza positivamente. Grazie alla posizione assunta dalla Turchia, dall’ Iran e, ovviamente, dal Governo Siriano, siamo stati in grado di ridurre le distanze nelle posizioni delle parti sul tema chiave della cessazione delle violenze e sulla creazione di zone di de-escalation. E’ il risultato più significativo che abbiamo ottenuto in Siria negli ultimi due anni, in particolare nel contesto del processo di Astana.

Devo notare che altri paesi, inclusi gli Stati Uniti, stanno dando un contributo rilevante. Sebbene non stiano partecipando direttamente ai colloqui di Astana, stanno influenzando il processo da dietro le quinte. Manteniamo una stabile cooperazione con i nostri interlocutori americani in questa sfera, su questa linea, sebbene non senza divergenze. Comunque nella nostra cooperazione ci sono più elementi positivi che negativi. Al momento abbiamo trovato un accordo su molte questioni, comprese le zone di de escalation meridionali, dove sono presenti anche interessi israeliani e giordani. Naturalmente questo processo non sarebbe stato ciò che è stato senza il contributo positivo di paesi come l’Arabia Saudita, l’Egitto, la Giordania, come di molti altri paesi, piccoli ma importanti incluso, a proposito, il Qatar. Che prospettive ci sono? Abbiamo ragione di credere (cercherò di esprimermi con cautela) che la faremo finita con i terroristi entro breve. Ma questo non è causa di particolare esultanza, non è sufficiente a dire che il terrorismo è morto e sepolto. Perché, in primo luogo, il terrorismo è un fenomeno molto radicato, radicato nell’ingiustizia del mondo contemporaneo, nei torti che molte nazioni, etnie e gruppi religiosi subiscono e nella mancanza di una educazione completa in interi paesi del mondo. La mancanza di una normale, effettiva, educazione di base è suolo fertile per il terrorismo.

Ma se liquidiamo la sacca di resistenza terrorista in Siria, di certo non significa che la minaccia alla Siria, alla regione ed al mondo nel suo complesso sia cessata, no di certo. Al contrario, bisogna sempre restare sul chi vive. Il processo, in via di definizione, fra l’ opposizione ed il governo è anch’esso fonte di preoccupazione. E’ in corso, ma procede molto lentamente, in maniera impercettibile; le parti in conflitto diffidano molto l’ una dell’ altra. Spero che sarà possibile superare questo ostacolo. Una volta stabilite le zone di de escalation, speriamo di muovere alla fase seguente. C’è un idea di convocare un congresso del popolo siriano, mettendo assieme tutti i gruppi etnici e religiosi, il governo e le opposizioni. Se riuscissimo in questo, anche con il supporto di paesi garanti e anche delle principali potenze fuori dalla regione (l’Arabia Saudita, gli Stati Uniti e l’Egitto) sarebbe un ulteriore passo, molto importante, sulla via della sistemazione politica. E a qual punto forse si potrebbe procedere alla stesura di una nuova costituzione. Ma è presto per parlarne ora. E’ un piano appena abbozzato.

(interviene il moderatore Fyodor Lukyanov): Signor Presidente, le zone di de-escalation porteranno ad una divisione della Siria?)

Vladimir Putin: un simile rischio esiste, ma come ho detto prima, non voglio che si tratti di un abbozzo di spartizione della Siria, al contrario, voglio che si crei una situazione per cui, una volta che le zone di de escalation sono stabilite, la gente che controlla queste zone entri in contatto con Damasco, con il governo. A dire il vero ciò accade già in molti posti. Per esempio a sud di Damasco, in un piccolo territorio controllato dall’opposizione, la gente va a lavorare a Damasco e torna a casa ogni giorno. Vede: la vita quotidiana incoraggia la comunicazione. Spero tanto che questa prassi evolverà nelle altre zone di de escalation così che gradualmente, passo dopo passo, la cooperazione incomincerà a livello quotidiano, il che, secondo me, dovrebbe estendersi in accordi politici di lungo termine.

Stati Uniti

(risposta all’analista americana Toby Gati che aveva chiesto: non vi importa di rinforzare ogni stereotipo negativo sugli Stati Uniti e di rendere più difficile superarli?)

Vladimir Putin: prima di tutto ciò è connesso alla reciproca disposizione critica. Vorrei segnalare alla vostra attenzione il fatto che, come sicuramente sapete, una campagna anti russa senza precedenti è stata lanciata negli Stati Uniti: è iniziata nelle ultime fasi dall’amministrazione Obama, e non è ancora finita. Non capisco perché siate sorpresi dalla mia disposizione critica verso l’ attività della precedente amministrazione USA, come verso quella dell’ attuale. Gli Stati Uniti hanno lanciato una campagna in alcun modo provocata contro la Russia. Qualcuno ha perso le elezioni contro il Signor Trump, la Russia è stata accusata di qualsiasi cosa ed è stata montata una perniciosa isteria anti Russa (non posso descriverla in altro modo). Ogni ostacolo, ogni fallimento, è attribuito alla Russia. Non è forse così? Certo, è proprio così: su ogni tema. Seguono la pista russa, e, guarda il caso, ne trovano immediatamente una. Questa è la mia prima considerazione.

Secondo: oggi ci siamo incontrati qui non per appuntarci l’un l’altro medaglie ed onorificenze. Stiamo discutendo e lo stiamo facendo con onestà e sincerità. Ho esposto la mia posizione su molti aspetti delle nostre relazioni che considero negativi. Non ho creato stereotipi: ho parlato di fatti. Per esempio: il fatto che le armi chimiche non siano state eliminate. E’ uno stereotipo o un fatto? E’ un fatto. Al posto di soddisfare i nostri impegni bilaterali li hanno cambiati unilateralmente e non stanno osservando il contenuto del trattato. Ho parlato di questo. In ogni caso questo non significa che le nostre relazioni nel passato non… Sì, a proposito, quando ho detto che abbiamo consentito a nostri interlocutori accesso a tutte le installazioni nucleari: cos’è questo, un qualche tipo di stereotipo anti americano? Ovviamente no. Ho parlato della nostra apertura, ed ho detto che quela apertura non è stata debitamente apprezzata. Poi è del tutto ovvio e devo ripeterlo: come ex direttore dell’ FSB, so per certo che c’è stato un supporto massiccio al separatismo ed al radicalismo nel Caucaso settentrionale. Non chiedetemi come lo so: lo so. Non ci sono stati bombardamenti a Belgrado? Senza approvazione del Consiglio di Sicurezza? E’ uno stereotipo? E’ un fatto. Sono gli Stati Uniti a creare questi “stereotipi”.

Comunque, ciò non significa che non vi sia nulla di buono nei nostri rapporti. Ci sono state anche cose buone, concordo con Lei: il sostegno all’adesione al WTO, è vero, e altri sviluppi positivi. Anche a livello personale abbiamo avuto discussioni e contatti proficui. Ad esempio non dimenticherò mai il sostegno di Bill Clinton quando muovevo i primi passi come Primo Ministro. Boris Eltsin mi mandò in Nuova Zelanda al suo posto e quella fu la prima volta che incontrai il Signor Clinton. Stabilimmo un rapporto umano molto positivo, buono e gentile. In altre parole, avremmo anche qualcosa di positivo di cui parlare, ma io voglio concentrarmi sull’ordine del giorno. Per cosa siamo qui: per farci complimenti? La situazione attuale lascia molto a desiderare, o no? Siete isterici, siete malcontenti, ammainate le nostre bandiere, chiudete le nostre missioni diplomatiche. Vede qualcosa di buono in tutto questo? Ed è tutto frutto di problemi accumulati. Ho spiegato da dove vengono. Dopo tutto, non siamo qui per farci complimenti e moine, ma per identificare i problemi, individuare la loro origine e pensare a come risolverli. Si possono risolvere o no? Credo di si. Lavoriamoci assieme. Aspettiamo i suoi consigli e le sue raccomandazioni.

Ucraina

Riguardo all’Ucraina Lei ha detto che, secondo gli europei, la palla è nel campo della Russia. Ebbene, noi pensiamo che la palla sia nel campo dell’Europa, perché, a causa della posizione del tutto priva di spirito costruttivo (come vedete sto scegliendo le parole in modo da non sembrare maleducato) dei precedenti componenti la Commissione Europea, la situazione si è spinta fino al colpo di Stato. Sapete che fecero. Il problema era solo relativo alla firma, da parte dell’Ucraina, di un accordo di associazione, un accordo economico con l’Unione Europea. Il Presidente Yanukovich ad un certo punto disse: “Ho un problema con questo testo, devo rivedere i tempi di sottoscrizione. Lavoriamo su questo testo ancora un po’”. Non ha mai rifiutato di firmarlo. Sono seguiti i disordini sostenuti dagli Stati Uniti (sostenuti finanziariamente, politicamente e mediaticamente) e da tutta l’Europa. Hanno sostenuto una presa di potere incostituzionale, una presa di potere sanguinosa, con morti sul terreno, ed hanno spinto la situazione verso la guerra nel sud est Ucraina. La Crimea ha dichiarato l’ indipendenza e la sua riunificazione con la Russia, e adesso pensate che siamo noi a doverci rimproverare tutto quello che è successo?

Chi è stato che ha sostenuto il colpo di Stato incostituzionale? L’attuale situazione è il risultato di una presa di potere incostituzionale in Ucraina, ed è l’Europa colpevole, perché è lei che l’ha sostenuta. Cosa sarebbe stato più facile che dirgli: “Voi avete fatto il colpo di Stato e, dopo tutto, anche voi siete garanti”? Come garanti i Ministri degli Esteri di Polonia, Francia e Germania hanno firmato un documento, un accordo fra il Presidente Yanukovich e l’opposizione. Tre giorni dopo, quell’accordo è stato calpestato, e dove erano i garanti? Chiedeteglielo: dove eravate voi garanti? Perché non gli avete detto “per favore, rimettete le cose a posto. Rimettete Yanukovich al potere e tenete elezioni democratiche e costituzionali”? Avevano ogni possibilità di vincere, il 100%. Nessun dubbio. No: hanno preferito fare un colpo di Stato. Bene. Abbiamo preso atto di questo fatto, lo abbiamo accettato e abbiamo firmato gli accordi di Minsk. A questo punto l’attuale dirigenza ucraina ha sabotato ogni paragrafo di quell’accordo, e ciascuno lo può vedere alla perfezione. Tutti quelli che partecipano al processo negoziale ne sono pienamente consapevoli, ve lo assicuro. Non un singolo passo è stato compiuto verso la realizzazione degli accordi di Minsk. E nonostante tutto questo tutti dicono: “le sanzioni non saranno tolte sino a che la Russia non realizza gli accordi di Minsk”.

Tutti quanti hanno ormai capito che l’attuale dirigenza ucraina non è in condizione di soddisfare gli accordi. Ora che la situazione in quel paese ha toccato il fondo sia in termini di economia che di politica interna, e che la polizia usa il gas contro i manifestanti, aspettarsi che il Presidente dell’Ucraina faccia il minimo passo verso l’attuazione degli accordi di Minsk è un esercizio futile. Non ho idea di come potrà farlo. Ma sfortunatamente non esistono alternative.

Comunque continueremo a lavorare nel Formato Normandia per tutto il tempo che piacerà ai nostri colleghi, e cercheremo di realizzare questi accordi di Minsk che Lei ha menzionato. Giusto di recente abbiamo sostenuto una iniziativa di inviare in loco una forza di interposizione delle Nazioni Unite. Nemmeno una forza di interposizione, ma unità armate delle Nazioni Unite con il compito di proteggere il personale dell’OSCE. Ci avevano sempre detto e chiesto di armare il personale dell’OSCE che opera sulla linea di contatto. Avevamo subito aderito a questa richiesta. Ma l’OSCE ha rifiutato di farlo. Sono sicuro che Lei ne è a conoscenza, e molti, fra il pubblico, che hanno a che fare con queste cose, ne sono a conoscenza. L’OSCE ha detto: “no, non possiamo farlo, non abbiamo le competenze, non abbiamo le armi, non abbiamo mai usato le armi nelle nostre operazioni. Inoltre temiamo che le armi ci trasformino in bersagli per le parti in conflitto”. E un no è un no. A questo punto il Presidente Poroshenko ha tirato fuori l’idea di creare condizioni adeguate per proteggere il personale OSCE con l’aiuto di unità armate dell’ONU. Abbiamo concordato e praticamente abbiamo iniziato il processo, per evitare di essere accusati di sabotare l’affare.

No: loro hanno pensato che non fosse abbastanza. Ora vogliono interpretare il tutto liberamente. Sa cosa temiamo? Glielo dirò, ammesso che si possa dire che temiamo qualcosa. Se loro non adottano la legge sull’amnistia prima di sciogliere i nodi politici e di provvedere questi territori di uno status speciale secondo quanto previsto dalla legge adottata dalla Rada ed estesa per un altro anno, chiudere il confine fra la Russia e le repubbliche separatiste porterà ad una situazione simile a quella di Srebrezniza. Ci sarà un bagno di sangue. Non possiamo permettere che succeda.

Quindi rimproverare la Russia di ogni cosa e dire che la palla e nel suo campo, e che noi dovremmo fare qualcosa, semplicemente non ha senso. Lavoriamoci assieme. Andate, ed usate la vostra influenza presso l’ attuale governo di Kiev, in modo che almeno facciano qualche passo verso una normalizzazione della situazione. Noi lavoreremo di conserva e faremo del nostro meglio per normalizzare la situazione. Abbiamo bisogno di una Ucraina democratica ed amichevole. Vedete: quando qualche impero si disintegra e qualche territorio passa di mano in mano in conseguenza di una guerra, questa è la situazione. Quando l’Unione Sovietica collassò, la Russia si privò volontariamente di questi territori. Noi abbiamo spontaneamente acconsentito che tutte le ex repubbliche sovietiche divenissero stati indipendenti. Non abbiamo pensato nemmeno lontanamente di chiedere qualcosa a qualcuno e di dividere i territori. Non dimenticatelo: abbiamo fatto tutto di nostra spontanea volontà. E nemmeno oggi vogliamo farlo. Vogliamo solo avere vicini amichevoli nei nostri confronti.

Credevate davvero che voi e l’Ucraina avreste firmato un accordo di associazione, avreste aperto tutti i mercati ed i confini ucraini, e l’Ucraina, come membro della vostra zona doganale, sarebbe stata una porta per i nostri mercati? Ve lo avevamo detto: “Ragazzi, non potete farlo, fermatevi”. Nessuno ci è stato a sentire. Ci hanno detto: “Noi non interferiamo nei vostri accordi con la Cina. Voi non interferite nei nostri accordi con il Canada. Allora state fuori dai nostri accordi con l’Ucraina”. Questo è quello che ci hanno detto, letteralmente. Che accidenti di posizione è questa? Nessuno ha mai voluto tener conto del fatto che noi abbiamo delle relazioni speciali con l’Ucraina, e che alcuni settori della nostra economica sono legati a quel paese. E allora, ritorniamo ad un dialogo costruttivo e sostanziale, direbbero i diplomatici. Siamo pronti, e siamo lieti di farlo, prima è meglio è, visto che nemmeno noi abbiamo bisogno di conflitti in corso ai nostri confini.

(…)

Spero fortemente che faremo dei progressi. Lo dico in assoluta sincerità. Ma non basta fare appello solo alla Russia: bisogna influenzare anche la posizione di Kiev. Ora hanno preso una decisione sulla lingua, essenzialmente proibendo l’uso di lingue di minoranze etniche nelle scuole. L’Ungheria e la Romania hanno avanzato riserve. Anche la Polonia ha fatto qualche commento a riguardo. Ma l’Unione Europea nel suo complesso è rimasta muta. Perché non condannate questa cosa? Silenzio. Poi hanno fatto un monumento a Petlyura. Un uomo con opinioni nazistoidi, un antisemita che uccise ebrei durante la guerra. A parte il Congresso Ebraico Sionista, tutti gli altri hanno taciuto. Avete paura di offendere i vostri pupilli di Kiev, vero? Tutto questo non è fatto per popolo ucraino, è fatto per soddisfare le esigenze delle principali autorità al potere. E perché tacete? Fino a che non viene compreso che questo problema non si può risolvere senza influenzare l’ altra parte, non succederà nulla. Spero che alla fine questa consapevolezza arriverà.

Io vedo l’interesse dei nostri interlocutori, principalmente dei nostri interlocutori europei, alla soluzione di questo conflitto. Vedo il loro interesse autentico. Angela Merkel si impegna parecchio, ci mette tempo, e sta prendendo grande confidenza con queste faccende. Sia l’ex presidente della Francia che il Presidente Macron fanno attenzione alla vicenda. Ci lavorano concretamente. In ogni caso non è sufficiente lavorarci sul piano tecnico e tecnologico, serve un intervento politico. E’ essenziale esercitare una pressione sulle autorità di Kiev, costringerle a fare almeno qualcosa. Per concludere: anche l’ Ucraina ha un interesse a che le nostre relazioni si normalizzino. Ultimamente hanno deciso di imporre sanzioni contro di noi, come ha fatto l’Unione Europa. Abbiamo risposto per le rime. Il Presidente mi ha chiesto: “Perché lo avete fatto?”. Dico: “Beh, perché voi lo avete fatto a noi.”. Allora lui (sentite, è fantastico!): “Si ma le nostre sanzioni non vi fanno nulla, mentre le vostre ci danneggiano sul serio!”. E allora? Pensavate che avreste fatto una cosa del genere senza una risposta? Sono rimasto senza parole.

Ma la situazione attuale è insostenibile e deve essere risolta, credo che ciò sia ovvio e, cosa più importante, credo che ciò sia ovvio per la stragrande maggioranza dei cittadini ucraini. A noi piace l’Ucraina, e io personalmente considero il popolo ucraino come una nazione sorella se non addirittura come la stessa nazione, parte della nazione russa. Sebbene ciò non piaccia ai nazionalisti russi, e nemmeno a quelli ucraini, questa è la mia posizione, il mio punto di vista. Presto o tardi succederà: ci sarà una riunificazione, non a livello interstatale, ma in termini di ripristino delle relazioni. Prima sarà, meglio sarà, faremo del nostro meglio per giungere a questo fine.

 

Arabia Saudita

Vladimir Putin: il mondo sta cambiando, tutti i paesi stanno cambiando e le relazioni tra gli stati stanno cambiando. In questo non c’è nulla di insolito. Infatti, ai tempi dell’Unione Sovietica, i rapporti tra l’Arabia Saudita e l’Unione Sovietica erano abbastanza buoni, ma vi erano vincoli di natura puramente ideologica. Oggi non ve n’è alcuno, e non c’è niente che possa fondamentalmente dividerci. Ora, cosa può unirci con l’Arabia Saudita o altri paesi della regione? Non vedo in realtà alcuna ragione per queste linee di divisione. Ho un rapporto personale molto buono, quasi amichevole, con quasi tutti i leader di questi stati.

La visita del Re dell’Arabia Saudita è stata un grande onore per noi. E’ stato un evento storico, tra l’altro si è trattato della prima visita del Re saudita in Russia. Da solo questo evento mostra l’atteggiamento dell’Arabia Saudita verso la costruzione di un rapporto con la Russia.

Non abbiamo assolutamente alcun problema con il fatto che questi paesi, inclusi l’Arabia Saudita, abbiano i loro particolari interessi, legami storici e relazioni d’alleanza con, tra gli altri, gli Stati Uniti. Perché dovrebbe preoccuparci? Questo non significa che ci è proibito lavorare con l’Arabia Saudita; lo faremo. Per quanto riguarda l’Arabia Saudita e gli altri paesi della regione, sceglieranno loro con chi preferiranno lavorare e su quali temi.

La Russia sta dimostrando stabilità, prevedibilità e affidabilità nella sua politica estera. E credo che questo possa interessare i nostri partners. Inoltre abbiamo interessi economici in comune – soprattutto interessi di natura globale. Ora, abbiamo coordinato la nostra posizione sul mercato dell’energia con le nazioni dell’OPEC, soprattutto con l’Arabia Saudita e il prezzo (del greggio) è rimasto stabile, circa 50 dollari (al barile). Lo consideriamo un prezzo equo; per noi è abbastanza adeguato. Questo è un risultato di sforzi congiunti.

Non ci sono altri risultati. Le prime opportunità sono emerse per la cooperazione nella tecnologia della difesa. Si, esistono contratti multi-miliardari con gli Stati Uniti. Ottimo! Sapete cosa dice la nostra gente? “I polli beccano un granello alla volta.” I nostri legami si espanderanno lentamente e forse questi contratti cresceranno.
Mi è stato anche chiesto se abbiamo paura che l’Arabia Saudita sarà nuovamente con gli Stati Uniti, non abbiamo paura di niente! Di cosa dovremmo avere paura? Sapete, è l’Arabia Saudita che dovrebbe avere paura, per così dire, che gli americani portino la democratizzazione in Arabia Saudita. Questo è ciò che dovrebbero temere. Ma cosa c’è da temere per noi? Abbiamo già la democrazia. Continueremo a lavorare.

Catalogna

La situazione in Spagna dimostra chiaramente quanto possa essere fragile la stabilità persino in uno stato prospero e consolidato. Chi se lo sarebbe aspettato, anche solo di recente, che la discussione sullo status della Catalogna, che ha una lunga storia, potesse risultare in una acuta crisi politica?

La posizione russa è nota. Tutto ciò che sta accadendo è una questione interna alla Spagna e deve essere risolta sulle basi della legge spagnola in conformità con le tradizioni democratiche. Siamo consapevoli che la leadership del paese sta prendendo misure in questa direzione.

Nel caso della Catalogna, abbiamo visto che l’Unione Europea e alcuni altri stati condannano all’unanimità i sostenitori dell’indipendenza.

Sapete, a questo proposito non posso fare a meno di notare che sarebbe stato il caso di pensarci prima. Cosa, nessuno era consapevole dell’esistenza di questi disaccordi centenari in Europa? Lo erano, non è vero? Certo che lo erano. Tuttavia ad un certo punto hanno accolto con favore la disintegrazione di un numero di stati in Europa senza nascondere la loro gioia.

Perché sono stati così sconsiderati, guidati da fugaci considerazioni politiche e dal loro desiderio di appagare il loro grande fratello a Washington, fornendogli sostegno incondizionato alla secessione del Kosovo, provocando così simili processi in altre regioni europee e nel mondo?

Ricorderete che quando la Crimea ha dichiarato l’indipendenza, e in seguito – dopo il referendum – ha dichiarato di voler far parte della Russia, tutto ciò non è stato accolto bene per qualche ragione. Ora abbiamo la Catalogna. C’è un problema simile in un’altra regione, il Kurdistan. Forse questa lista è tutt’altro che esaustiva, ma dobbiamo chiederci, cosa faremo? Cosa dovremmo pensare a riguardo?

Si scopre che alcuni dei nostri colleghi ritengono che ci siano “buoni” combattenti per l’indipendenza e la libertà, e che ci siano “separatisti” che non hanno alcuna possibilità di difendere i propri diritti, anche con l’uso di meccanismi democratici. Come diciamo sempre in casi simili, questi doppi standard – e questo rappresenta un esempio di doppio standard – costituiscono un grave pericolo allo sviluppo stabile dell’Europa e degli altri continenti, e al progresso dei processi di integrazione nel mondo.

Catalogna 2

Per quanto riguarda la “sfilata delle sovranità”, come ha affermato, e il nostro atteggiamento a riguardo… In realtà credo in una dimensione globale, la creazione di stati mono-etnici potrebbe portare a scontri nella lotta per la realizzazione degli interessi di stati mono-etnici di nuova costituzione. Questo è ciò che probabilmente accadrà.

E’ per questo che le persone che vivono in uno stato unificato all’interno dei confini comuni hanno una maggiore probabilità che il loro stato persegua una politica equilibrata. Guardate la Russia. I musulmani costituiscono circa il 10 per cento della nostra popolazione, che significa molto. Non sono stranieri o migranti. La Russia è la loro unica patria e la vedono come tale. Cosa ci ha incoraggiati a fare? Ho suggerito di puntare allo status di osservatore all’Organizzazione della Cooperazione Islamica. Ciò influenza le nostre politiche estere e domestiche, rendendo la nostra politica più bilanciata e attenta a questa parte della comunità internazionale. Lo stesso vale per altri paesi.

Per quanto riguarda la sentenza della corte delle Nazioni Unite, ce l’ho. Non l’ho citata in modo da non sprecare il vostro tempo. Ho letto la sentenza perché sapevo che avremmo affrontato la questione. Siete esperti, quindi sapete tutto a riguardo. Vorrei tuttavia ricordarvi che l’8 Novembre 2008, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato la Risoluzione 63/3. Domanda: la dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte delle istituzioni temporanee del Kosovo è conforme al diritto internazionale? Questa domanda è stata trasmessa alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia.

Il 22 Luglio 2010, dopo due anni di deliberazioni, la Corte dell’Aia ha emesso un Parere Consultivo secondo il quale la dichiarazione d’indipendenza del Kosovo, adottata il 17 Febbraio 2008, non ha violato il diritto internazionale. In linea di principio la decisione del tribunale riguarda non solo il Kosovo ma anche l’applicabilità del diritto internazionale alla dichiarazione d’indipendenza da parte di qualsiasi Stato. In questo senso avete assolutamente ragione che questa ampia interpretazione non sia applicabile al Kosovo. Era una sentenza che ha aperto la scatola di Pandora. Si, avete perfettamente ragione a questo proposito. Un centro perfetto.

Guardate cosa dice la sentenza del tribunale del 22 Luglio 2010. Il paragrafo 79: “La pratica degli Stati in questi ultimi casi non fa riferimento all’emergere di una nuova regola nel diritto internazionale che vieti la dichiarazione d’indipendenza in tali casi”. Punto 81: “Nessun divieto generale contro le dichiarazioni di indipendenza unilaterali può essere dedotto dalla pratica del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”. Paragrafo 84: “Il tribunale ritiene che il diritto internazionale generale non contenga alcun divieto applicabile alle dichiarazioni d’indipendenza. Di conseguenza, conclude che la dichiarazione d’indipendenza del 17 Febbraio 2008 non ha violato il diritto internazionale generale”. Eccolo qua, in bianco e nero.

Come hanno spinto e fatto pressioni alla Corte Internazionale dell’Aia, questi paesi Occidentali! Sappiamo per certo che gli Stati Uniti avevano una raccomandazione scritta per la Corte Internazionale. Il Dipartimento di Stato scrisse: “Il principio dell’integrità territoriale non esclude la creazione di nuovi stati nel territorio di stati già esistenti”.
Sotto: “Le dichiarazioni di indipendenza possono (e spesso lo fanno) violare la legislazione nazionale. Tuttavia ciò non significa che sia una violazione del diritto internazionale.” Inoltre “In molti casi, compreso il Kosovo, le circostanze della dichiarazione d’indipendenza possono significare un rispetto fondamentale del diritto internazionale da parte del nuovo stato”.

La Germania: “Questa è una questione di diritto dei popoli per l’autodeterminazione. Il diritto internazionale che riguarda l’integrità territoriale degli stati non si applica a tali popoli.” Decisero di dichiarare l’indipendenza, beh, bene per loro. E i loro principi di integrità non si applicano a questo stato.

L’ Inghilterra: “La secessione o la dichiarazione d’indipendenza non contraddice la legge internazionale”

La Francia: “Esso (il diritto internazionale) non la consente (la secessione o separazione) ma in generale non la vieta”.

Poi c’era la reazione alla sentenza della Corte. Ecco cosa scriveva la signora Clinton (qualcuno potrebbe aver lavorato con lei) dopo la sentenza: “Il Kosovo è uno Stato indipendente e il suo territorio è inviolabile. Invitiamo tutti gli Stati a non concentrarsi eccessivamente sullo status del Kosovo e dare il proprio contributo costruttivo a sostegno della pace e della stabilità nei Balcani. Invitiamo i paesi che non hanno ancora conosciuto il Kosovo a farlo”.

Germania: “La sentenza consultiva della Corte Internazionale conferma che la nostra valutazione giuridica della legittimità della dichiarazione d’indipendenza del Kosovo. Rafforza la nostra opinione che l’indipendenza e l’integrità territoriale della Repubblica del Kosovo siano innegabili”.

Francia: “L’indipendenza del Kosovo è irreversibile. La sentenza della Corte Internazionale, che ha terminato i dibattiti legali in materia, è diventata una pietra miliare e permetterà a tutte le parti di dedicarsi ad altre questioni importanti da risolvere”.

Ora, “altre questioni importanti” sono sorte oggi, e non è piaciuto a nessuno quando queste “altre questioni importanti” sono emerse. A nessuno! Questo è ciò che chiamo “doppi standard”. Questo esempio rappresenta la scatola di Pandora che è stata aperta e il genio a cui è stato permesso di uscire dalla lampada.
Qual’è la nostra posizione in questo caso? Ho detto, stavo dicendo, se avete ascoltato con attenzione, stavo dicendo che speravo che il problema fosse risolto sulla base della legislazione della Costituzione spagnola. Credo che questa sia la sua fine. La sua fine. Tuttavia, ovviamente, dobbiamo stare attenti a tali questioni e molto sensibili a tutto ciò che sta succedendo. Speriamo che tutto venga risolto nel quadro di istituzioni e procedure democratiche; non ci saranno più prigionieri politici e così via. Ma questo è un problema interno al paese. Credo sia sufficiente.

Cina

Come saprete durante i nostri incontri ci chiamiamo pubblicamente amici. Questo dimostra quanto sia evoluto il livello delle relazioni tra noi, sul piano umano.

Tuttavia, oltre a tutto ciò, sosteniamo gli interessi delle nostre nazioni. Come dicono i diplomatici, spesso questi interessi sono molto vicini o identici. Ha continuato ad evolversi una situazione incredibile e, volendo Dio, continuerà a farlo il più a lungo possibile: raggiungiamo sempre un consenso su ogni tema, anche apparentemente controverso; raggiungiamo sempre un accordo, cerchiamo soluzioni di compromesso e le troviamo.

In ultimo, questi accordi portano benefici ad entrambi gli stati, perché ci muoviamo in avanti, non ci fissiamo, non ci fermiamo, non conduciamo la situazione in un vicolo cieco, ma risolviamo le questioni controverse e andiamo avanti, e nasceranno nuove opportunità. Questa è una pratica molto positiva.

Quanto al congresso di partito in Cina, lo seguiamo attentamente e noto l’inusuale apertura di questo congresso. Credo che ci sia un numero di giornalisti e membri della comunità internazionale senza precedenti. Non vi è dubbio che tutto ciò che il Presidente della Cina ha detto, il suo discorso e le discussioni in corso mostrano che la Cina è focalizzata sul futuro.

Stiamo vedendo sia difficoltà che prospettive. Come accennato prima, la Cina ha prospettive economiche meravigliose: la crescita del 6-8 per cento del PIL, credo nei primi tre trimestri dell’anno. Questo sarà poco meno di prima, ma non fa differenza. Credo che i cambiamenti in corso nel mercato del lavoro e sull’economia in quanto tale siano dietro a questa crescita. Nel complesso la Cina, in linea con l’India che anche lei dimostra una crescita economica molto buona, è certamente un “trader” economico globale.

Abbiamo il più alto scambio commerciale tra stati con la Cina, ed enormi piani congiunti. Incluse alcune sfere veramente significative e importanti, come lo spazio, l’alta tecnologia e l’energia. Tutto ciò sta posando le basi per le nostre future relazioni intestatali.

Corea del Nord

Come sapete, la situazione è pericolosa. Parlare di un attacco preventivo di disarmo (abbiamo udito tali suggerimenti o persino minacce dirette) è pericoloso. L’ho detto così tante volte.

Chissà dove e cosa hanno nascosto i nord coreani, e se saranno in grado di distruggere tutto in una singolo attacco. Ne dubito. Sono quasi sicuro che sia impossibile. Anche se teoricamente sarebbe possibile, ma estremamente pericoloso.

Anche se supponiamo che siano messi alla prova per scoprire cosa hanno nascosto e dove, non tutto sarà trovato. Quindi c’è un solo modo, cioè raggiungere un accordo e trattare questa nazione con rispetto.

L’ho citato tra le mie osservazioni.

Che ruolo può giocare la Russia? In questo caso può agire come un intermediario. Abbiamo proposto una serie di progetti tripartiti congiunti che coinvolgono la Russia, Corea del Nord e Corea del Sud. Essi comprendono la costruzione di una ferrovia, trasporto tramite oleodotti e così via. Dobbiamo lavorare. Dobbiamo liberarci di una retorica belligerante, realizzare il pericolo associato a questa situazione e andare oltre le nostre ambizioni. E’ imperativo smettere di discutere. E’ così semplice.

Qualcosa che ho già menzionato qui. Siamo stati d’accordo ad un certo punto che la Corea del Nord avrebbe fermato i suoi programmi di armi nucleari. No, i nostri partner americani pensavano che non fosse abbastanza e, poche settimane dopo credo, dopo l’accordo, hanno imposto nuove sanzioni, dicendo che la Corea dovrebbe fare meglio. Forse può, ma non ha assunto tali obblighi. Inoltre si ritirò da tutti gli accordi, e riprese a fare tutto ciò che faceva prima. Dobbiamo utilizzare moderazione in tutte queste azioni. Allora abbiamo raggiunto un accordo, e penso che potremmo farlo di nuovo.

Disarmo

Poche ore fa mi è stato detto che il Presidente degli Stati Uniti ha detto qualcosa sui social media riguardo la cooperazione Russia-USA nell’importante ambito della cooperazione nucleare. E’ vero che questa è la sfera più importante dell’iterazione tra Russia e Stati Uniti, tenendo presente che la Russia e gli Stati Uniti hanno una speciale responsabilità nei confronti del pianeta, essendo le due più grandi potenze nucleari.

Tuttavia vorrei usare questa opportunità per parlare più in dettaglio di quanto è accaduto negli ultimi decenni in questa area cruciale, per fornire un quadro più completo. Ci vorranno almeno due minuti.

Negli anni ’90 sono stati firmati diversi accordi bilaterali. Il primo, il programma Nunn-Lugar è stato firmato il 17 Giugno 1992. Il secondo, il programma HEU-LEU è stato firmato il 18 Febbraio 1993. L’uranio a basso arricchimento, quindi HEU-LEU.

I progetti del primo accordo si sono concentrati sull’aggiornamento dei sistemi di controllo, la contabilità e la protezione fisica dei materiali nucleari, lo smantellamento e la rottamazione dei sommergibili e i generatori termoelettrici a radioisotopo.

Gli americani hanno fatto – e si prega di prestare la massima attenzione su questo punto, non è una informazione segreta, semplicemente pochi ne sono a conoscenza – 620 visite di verifica in Russia per verificare la nostra conformità agli accordi. Hanno visitato i più sacri complessi di armi nucleari russe, vale a dire le imprese impegnate nello sviluppo di testate nucleari e munizioni, plutonio per armamenti e uranio. Gli Stati Uniti hanno ottenuto l’accesso a tutte le infrastrutture segrete in Russia. Inoltre l’accordo era di natura quasi unilaterale. Sotto il secondo accordo, gli americani hanno visitato i nostri impianti di arricchimento altre 170 volte, visitando le aree con accesso limitato, come le unità di miscelazione e le strutture di stoccaggio. L’impianto di arricchimento nucleare più potente al mondo – la Ural Eletrochemical Combine – aveva persino un presidio d’osservazione americano. Lavori permanenti erano creati direttamente presso i laboratori dove gli specialisti americani andavano a lavorare quotidianamente. Le stanze dove queste persone sedevano, in queste strutture segrete russe, avevano bandiere americane, come sempre.

Inoltre è stata redatta una lista di 100 specialisti americani di 10 diverse organizzazioni statunitensi che avevano il diritto di effettuare ispezioni supplementari in qualsiasi momento e senza alcun avvertimento. Tutto questo è durato per 10 anni. Secondo questo accordo 500 tonnellate di uranio per armamenti sono state rimosse dalla circolazione in Russia, equivalente a circa 20.000 testate nucleari.

Il programma HEU-LEU è diventato una delle misure più efficaci del vero disarmo nella storia dell’umanità – lo dico con piena fiducia. Ogni passo sul lato russo è stato attentamente monitorato dagli specialisti americani, in un momento in cui gli Stati Uniti si sono limitati a riduzioni del loro arsenale nucleare molto più modeste e lo han fatto su una pura base di buona volontà.

I nostri specialisti hanno anche visitato le imprese del complesso degli armamenti nucleari statunitensi, ma solo a loro invito e a condizioni stabilite dagli Stati Uniti.

Come si vede, il lato russo ha dimostrato un’apertura e una fiducia assolutamente senza precedenti. Per caso – e parleremo probabilmente di questo in seguito – tutti sanno cosa ne abbiamo ricavato da tutto ciò: sono stati totalmente trascurati i nostri interessi nazionali, è stato dato sostegno al separatismo nel Caucaso, azioni militari che hanno circonvenuto il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, come il bombardamento della Jugoslavia e di Belgrado, l’introduzione di truppe in Iraq e così via. Ebbene, è facile da capire: una volta che la condizione delle forze armate e del complesso nucleare erano state osservate, la legge internazionale pareva inutile.

Negli anni 2000 la nostra collaborazione con gli Stati Uniti è entrata in una nuova fase di collaborazione veramente equa. E’ stato caratterizzato dalla firma di un certo numero di trattati strategici e di accordi sugli usi pacifici dell’energia nucleare, noto negli Stati Uniti come Accordo 123. Ma nonostante tutti gli intenti e gli scopi, gli Stati Uniti hanno interrotto l’accordo unilateralmente nel 2014. La situazione attorno al Plutonium Management and Disposition Agreement (PMDA) del 20 Agosto  2000 (firmato a Mosca) e del 1 Settembre (firmato a Washington) fa pensare ed è allarmante. Secondo il protocollo di questo accordo, le parti dovevano intraprendere passi reciproci per trasformare in modo irreversibile il plutonio degli armamenti in combustibile di ossido misto (MOX) e bruciarlo in centrali nucleari, in modo da non poter essere più usato per scopi militari. Qualsiasi modifica in questo metodo è stata consentita solo tramite il consenso delle due parti.

Questo è scritto nell’accordo e nei suoi protocolli.

Cosa ha fatto la Russia? Abbiamo sviluppato questo combustibile, abbiamo costruito un impianto per la produzione di massa e, come ci siamo impegnati nell’accordo, abbiamo costruito un impianto BN-800 che ci ha permesso di bruciare questo combustibile in sicurezza. Vorrei sottolineare che la Russia ha adempiuto a tutti i suoi impegni. Cosa hanno fatto i nostri partner americani? Hanno cominciato a costruire un impianto sul sito del fiume Savannah. Il suo prezzo iniziale era di 4,86 miliardi di dollari, ma hanno speso quasi 8 miliardi, sono arrivati al 70% della costruzione e poi han congelato il progetto. Ma a nostra conoscenza la richiesta di bilancio per il 2018 include 270 milioni per la chiusura e l’arresto di questa struttura. Come al solito ci si pone una domanda: dove sono i soldi? Probabilmente rubati. O hanno pianificato male qualcosa durante la costruzione. Queste cose succedono. E qua capitano troppo spesso. Ma questo non ci interessa, non ci riguarda. Ci interessa ciò che accade all’uranio e il plutonio. A che punto siamo con lo smaltimento del plutonio? Si propone la diluizione e lo stoccaggio geologico del plutonio. Ma questo contraddice completamente lo spirito e la lettera dell’accordo, e soprattutto non garantisce che la diluizione non sia riconvertita in plutonio da armamenti. Tutto questo è una sfortuna ed è sconcertante.

E ancora. La Russia ha ratificato il Trattato Globale di Blocco dei Test Nucleari più di 17 anni fa. Gli Usa non lo hanno ancora fatto.

Si sta sviluppando una massa critica di problemi nella sicurezza globale. Com’è noto, nel 2002 gli Stati Uniti sono usciti dal Trattato Anti-Missili Balistici. E pur essendo i promotori della Convenzione sul divieto delle armi chimiche e della sicurezza internazionale – essi stessi hanno avviato l’accordo – non riescono a rispettare i loro impegni. Restano ad oggi l’unico e più grande detentore di armi di distruzioni di massa. Inoltre gli Stati Uniti hanno posticipato la scadenza per eliminare le loro armi chimiche, dal 2007 al 2023. Non sembra opportuno per una nazione che sostiene di essere un campione di non proliferazione e controllo.

Al contrario, in Russia il processo è stato completato il 27 settembre di quest’anno. In questo modo il nostro Paese ha contribuito significativamente al rafforzamento della sicurezza internazionale. A tale proposito, i media occidentali preferivano tacere per non notarlo, v’è stata una menzione da qualche parte in Canada ma è stato tutto, poi il silenzio. Nel frattempo l’arsenale delle armi chimiche immagazzinato dall’Unione Sovietica è sufficiente da uccidere la vita sul pianeta più volte. Credo sia giunto il momento di abbandonare un programma obsoleto. Mi riferisco a ciò che era. Senza dubbio dobbiamo guardare avanti, dobbiamo smettere di guardare indietro. Sto parlando di tutto questo per capire le origini dell’attuale situazione che sta prendendo forma.

Disarmo 2

Se mi chiedete se il disarmo nucleare è possibile o no, direi, sì, è possibile. La Russia vuole un disarmo nucleare universale o no? Anche qui la risposta è sì, la Russia lo vuole e lavorerà per raggiungerlo. Questa è il lato buono.

Tuttavia, come sempre, ci sono problemi che fanno pensare. Le moderne potenze nucleari ad alta tecnologia stanno sviluppando altri tipi di armi, con maggiore precisione e solo leggermente inferiori alle armi nucleari nella loro forza distruttiva. Le armi nucleari includono bombe e missili che colpiscono grandi aree, trasportando una potente carica che colpisce un territorio enorme con il potere dell’esplosione e delle radiazioni. Le moderne forze armate ad alta tecnologia cercano di sviluppare e mettere in servizio armi ad alta precisione, che si avvicinano alle armi nucleari nel loro potere distruttivo; non proprio, ma vicino. Penso che se lo prendiamo questo problema seriamente – vedo cosa sta succedendo nel mondo: quelli che dicono di essere pronti sono pronti quanto hanno progredito nello sviluppo e nella distribuzione di nuovi sistemi d’arma. Devo subito dire che saremo pronti anche per questo mentre seguiremo attentamente ciò che sta succedendo nel mondo, non appena il nostro Paese avrà nuovi sistemi non nucleari, anche quelli non nucleari.

Disarmo 3

Non torniamo agli anni ’50. Sono stati fatti tentativi per rimandarci indietro. Avete citato alcuni accordi. Ci sono tre accordi in cui abbiamo sospeso la nostra partecipazione. Perché l’abbiamo fatto? Perché i nostri partner americani non stanno facendo nulla.

Non possiamo fare tutto da soli. Abbiamo preso una decisione unilaterale per eliminare le nostre armi chimiche e le abbiamo eliminate, come ho detto nei commenti di apertura. Ma i nostri partner americani han detto che non faranno ancora la stessa cosa, perché non hanno i soldi per questo.

Non hanno i soldi? La zecca americana sta stampando dollari, ma non hanno soldi. Abbiamo trovato i soldi per costruire gli stabilimenti per la distruzione delle armi chimiche. Credo abbiamo costruito otto impianti, investendo enormi fondi nella costruzione e nell’addestramento di personale. E’ stato un lavoro titanico. Stiamo pensando adesso ad altri modi per utilizzare queste strutture.

Come ho detto quando parlavo del plutonio, abbiamo creato un sistema per trasformare il plutonio degli armamenti in combustibile in combustibile ad ossido misto. Sono serviti oltretutto soldi e sforzi, perché la questione riguarda gli investimenti. Abbiamo costruito un reattore e coordinato il metodo per distruggere questo plutonio con gli americani. Ma poi hanno intrapreso un passo unilaterale in violazione dell’accordo senza neanche avvisarci, come si dovrebbe fare tra partner. Come lo sappiamo? Lo abbiamo appreso da una presentazione del bilancio al Congresso. Hanno chiesto milioni di dollari per finanziare un nuovo metodo di utilizzazione e hanno posticipato il processo per un periodo non specificato.

No, non dovrebbe essere così. Con questo nuovo metodo americano il plutonio può essere convertito in armi. Non ci siamo ritirati da questi accordi ma li abbiamo sospesi, aspettando una reazione normale dai nostri partner.

Speriamo riprendano i negoziati.

Per quanto riguarda il trattato anti-missilistico sono d’accordo con voi, l’ho detto molte volte, e altri l’han fatto – tutti gli esperti sono d’accordo su questo –, che questo trattato era la base della sicurezza internazionale nel campo delle armi strategiche. Ma no, anni di negoziati con i nostri amici americani non sono riusciti a convincerli a rimanere nei limiti del trattato.

Ora veniamo a conoscenza che anche il nuovo trattato START non funziona. Non ci stiamo ritirando dal trattato, anche se qualcosa può non funzionare con noi. Questo fa sempre parte di un qualche tipo di compromesso. Tuttavia è meglio avere alcuni accordi piuttosto che nessuno. Se lo capiamo, faremo qualsiasi cosa per rispettare i nostri impegni, e li rispetteremo.

Ora torniamo al trattato INF, sui missili a medio e breve distanza.

Hanno sempre detto, beh, non sempre, ma recentemente abbiamo sentito molte accuse, la Russia avrebbe violato questo trattato accampando qualche scusa. Saremmo tentati di farlo se solo non avessimo missili per aria e per mare. Ora li abbiamo. Gli Stati Uniti avevano tali missili, noi no.

Quando abbiamo accettato di eliminare i missili a medio e corto raggio, l’accordo riguardava i missili Pershing, che sono situati a terra, e i nostri sistemi missilistici.

Tra l’altro, quando i nostri missili intermedi e a corto raggio sono stati eliminati il nostro ingegnere capo si è suicidato, perché credeva di tradire il suo paese. Questa è una storia tragica, cambiamola.

Tuttavia gli Stati Uniti hanno ancora missili trasportabili per aria e per mare. Infatti questo è stato un disarmo unilaterale anche per il lato sovietico, ma ora abbiamo missili sia per aria che per mare. Avete visto quanto sono efficaci i missili Kalibr: dal Mar Mediterraneo, dal Mar Caspio, dall’aria o da un sommergibile, qualunque cosa si possa desiderare.

Abbiamo inoltre altri sistemi missilistici oltre al Kalibr che ha una portata di 1.400 km, molto potenti con una portata operativa di 4.500 km. Crediamo di aver solo bilanciato la situazione. Se a qualcuno non piacesse e desiderasse ritirarsi dal trattato, per esempio i nostri partner americani, la nostra risposta sarebbe immediata, vorrei ripeterlo come avvertimento. Immediata e reciproca.

Elezioni presidenziali Russe del 2018

Fyodor Lukyanov: si tratta delle elezioni. Ha intenzione di …?

Vladimir Putin: È giunto il momento di concludere …

Fyodor Lukyanov: Ecco perché non stiamo ponendo questa domanda. Tuttavia, vorrei dirlo in modo indiretto.
Innanzitutto, il Club di Valdai ha difficoltà ad immaginare come dovremo incontrarci se prenderà una decisione diversa. Ci siamo abituati. Lei è come un talismano per noi. Sarà difficile.

Vladimir Putin: Significa che non mi inviterà? O che mi cancellerà immediatamente dalla lista dei prodotti alimentari come un soldato smobilitato?

Fyodor Lukyanov: Va bene siamo s’accordo.

In secondo luogo, l’unico a cui mancherebbe tanto quanto a noi – per fortuna o purtroppo, non c’è niente che possiamo fare a riguardo – sarebbe il pubblico mondiale, in particolare il pubblico occidentale. Perché attualmente sta svolgendo una funzione molto importante.
Quando tutto è detto e fatto, lei è un polo – un polo del male probabilmente che consolida e mobilita. Non riesco semplicemente ad immaginare come potrebbero andare avanti senza di lei. Quindi mi sembra che dovrebbe pensare molto prima di prendere una decisione. Il mondo ha bisogno di lei!

Vladimir Putin: Guardai Petr Aven e mi vennero in mente i nostri oligarchi. In chiusura, vi racconterò una storia meravigliosa.
Un oligarca è andato in bancarotta (non Aven, sta andando bene, parleremo ancora dello sviluppo di Alfa Group, ma cose simili capitano) e sta parlando con sua moglie. Questo è una vecchia barzelletta- così vecchia che gli è cresciuta una barba – probabilmente più lunga della sua. Così le dice: “Sai, dovremo vendere la Mercedes e comprare una Lada.” “Bene.” “Dobbiamo spostarci dalla casa Rublyovka al nostro appartamento a Mosca.” “Okay.” “Ma mi amerai ancora? “E lei:” Ti amerò moltissimo, e mi mancherai tanto “. Quindi non credo che mancherò loro molto a lungo.

Fyodor Lukyanov: Anche a noi mancherà, fino alla prossima riunione del Club Valdai.

Un grande grazie a tutti i partecipanti. Grazie a tutti i nostri colleghi. Credo che oggi abbiamo coperto moltissimi temi, forse abbiamo registrato un record.
Grazie mille. Vi auguro il meglio.

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