IL GROVIGLIO DEI CETI MEDI, di Giuseppe Germinario

IL GROVIGLIO DEI CETI MEDI, tratto dal sito www.conflittiestrategie.it
19.06.2011 conflittiestrategie 0 Comments
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Questo blog ha evidenziato, sin dalla sua nascita, la natura del conflitto tra gruppi dominanti in corso nel nostro paese ed il carattere assolutamente opaco assunto da questo negli ultimi venti anni seguiti alla caduta del sistema sovietico.

La progressiva prevalenza della componente antinazionale più retriva, sia pure contrastata con qualche efficacia per alcuni brevi periodi, non è dipesa certamente dalla forza della componente economica di questi gruppi strategici. Se le vestigia superstiti della industria strategica, a fronte di una relativa ricostituita solidità economica susseguente alle scellerate privatizzazioni di fine secolo, hanno sofferto, nella definizione di una strategia minimamente coerente, delle oscillazioni e dei pesanti condizionamenti politici strategici, anche nella loro veste economica e finanziaria, interni ed esterni alle strutture, quelle della relativamente grande industria privata complementare hanno rivelato la sua pressoché inesistente autonomia, sia economica che finanziaria, ben più accentuata rispetto ad analoghe componenti di altri grandi paesi europei. Vicende come la Telecom, la Pirelli, il Nuovo Pignone, la Montedison, la Fiat; il destino in gran parte segnato dell’industria agroalimentare di grandi dimensioni; la propensione ben incentivata a riconvertire l’utilizzo degli scarsi capitali verso lo sfruttamento parassitario delle concessioni, l’utilizzo di figure imprenditoriali, Montezemolo e Della Valle tra i tanti, come semplici coperture dell’ingresso, senza alcuna garanzia di pariteticità delle condizioni operative negli altri paesi europei, di grandi società straniere anche nelle grandi infrastrutture delle comunicazioni hanno rivelato l’estrema debolezza di queste figure ed il loro asservimento supino alle componenti bancarie-finanziarie e di gruppi americani e franco-anglo-tedeschi. Una totale assenza di autonomia, sia pure nella loro subalternità strutturale, che impedisce la costruzione di una parvenza di blocco sociale che sia qualcosa di più di una sommatoria di interessi corporativi giustapposti. Niente di paragonabile alla forza e alla ricchezza espressa dai cotonieri americani che ha permesso loro di ritardare, per quasi un secolo, l’avvento della potenza statunitense. La loro debolezza e frammentazione è compensata, però, dalla presenza capillare, nei gangli vitali dello stato, di componenti che hanno saputo conciliare, in maniera articolata ed autonoma tra di loro, la difesa oltranzista delle proprie prerogative con il rafforzamento dei legami con i vari apparati della potenza dominante e di quelle di secondo rango, in questo facilitati dalla pervasività del sistema ormai pluridecennale di alleanze internazionali. Di fronte alla tenacia di questi legami, le componenti strategiche più autonome avrebbero dovuto compensare la debolezza di uno scenario internazionale ancora privo di potenze alternative di rango paragonabile a quello degli USA con la costruzione di una solida alleanza riformatrice e nazionale con i ceti produttivi medio-bassi, ormai da decenni pervasi da aspirazioni di rinnovamento tanto forti quanto incapaci, da soli, di costruire una reale piattaforma politica e, sulla base di questo, operare per una radicale rifondazione degli apparati statali, almeno di quelli più importanti . Sono state queste reciproche debolezze a produrre il “monstrum” politico di questi ultimi venti anni, fatto di coalizioni ibride nella loro composizione politica e sociale delle quali una, la sinistra, sempre più appiattita nel ruolo ancillare, l’altra percorsa da un dibattito carsico paralizzante; entrambe attraversate da fibrillazioni superficiali tanto frenetiche, quanto stucchevoli e artefatte.

Siamo, tuttavia, all’epilogo della farsa con qualche barlume chiarificatore, valido non solo per i pochi illuminati e raziocinanti, ma anche con il rischio concreto che settori significativi di questi ceti, per reazione, finiscano volontariamente nelle fauci dei loro carnefici divoratori. L’eventuale conferma del trend delle elezioni amministrative e dei referendum lascerebbe presagire ben poco altro di buono se non la nudità penosa dell’attuale re Silvio.
L’incantesimo si è rotto, con il rischio di produrne un altro, più breve, ma da incubo.
Sui riferimenti e referenti internazionali delle parti in causa il blog si è espresso con dovizia di analisi.
Nell’agone nazionale l’oggetto della contesa, quello che determinerà il successo definitivo, almeno nei prossimi anni, di uno dei contendenti, sarà certamente il ceto medio.
Ma, affidarsi allo strumento concettuale, alla categoria di “ceto medio” per dirimere la questione e individuare strategie politiche, è come assumere il nodo gordiano come intreccio idealtipico da adottare per imparare a districare, appunto, i nodi.
In una visione dualistica dei rapporti sociali la quale assume direttamente la teoria della formazione e realizzazione di plusvalore come criterio di analisi di una formazione sociale e come strumento di formulazione di una battaglia politica e di composizione del relativo blocco sociale, il concetto di ceto medio si risolve regolarmente, da un secolo a questa parte, in una categoria ripostiglio dove nel peggiore dei casi sono incasellate figure residuali più o meno ricondotte, a torto o a ragione, a modi di produzione precedenti sopravvissuti, se non proprio parassitarie; nel migliore, anche figure innovatrici delle quali non si riesce a comprendere, però, del tutto la natura.
E’ il dilemma su cui si è impantanato, tra i tanti, per oltre venti anni, il PCI e che, alla fine, con l’ultimo suo autorevole gruppo dirigente, quello berlingueriano, ha risolto sbrigativamente e capziosamente con il “compromesso storico”.
Ma già parlare di ceto per individuare un segmento tanto informe quanto esteso in un sistema teorico fondato sulle classi e sul rapporto sociale di produzione evidenzia un salto logico che rende impossibile
ogni analisi scientifica e ogni strategia politica coerente e conseguente. Da una parte frammenta, in diversi blocchi sociali antitetici, figure sociali che, in determinate formazioni e in determinati contesti politici, dovrebbero invece convivere e contrapporsi, uniti, ad altri blocchi sociali; dall’altra le aggrega forzosamente impedendo l’individuazione delle differenze di ruolo e di interessi e creando di fatto situazioni di conflitto sterile e controproducente.
Sulla schizofrenia di una divisione fondata, secondo le convenienze, a volte sul binomio classe operaia, padroni, a volte su quello dipendente, datori di lavoro, entrambe con il terzo incomodo degli autonomi-proprietari, ha poggiato l’incapacità di vedere ad esempio, anche tra i dipendenti, ampi settori di ceti intermedi e tra gli autonomi, importanti segmenti pauperizzati e dequalificati o, ancora, ceti intermedi qualificati professionalmente, importanti dal punto di vista della funzione, senza, però, un riconoscimento economico corrispondente.
Altrettanto mistificatoria e controproducente, da questo punto di vista, è la visione sociologica prevalente di ceto medio legato al concetto di status sociale, alla percezione di sé della figura, alla capacità di reddito e alla modalità di consumo, esplicitamente tesa alla riproposizione e affermazione del sistema democratico occidentale. Vero è che, nella sua attuale componente critica più seria e impegnata politicamente, la sociologia intravede i pericoli “autoritari” insiti in questa fase di transizione; cerca di risolverli, però, con una politica di “costruzione del ceto medio” fatto di tutela dei redditi, formazione professionale e politiche liberali generalizzate che prescindono da strategie concrete di potenza e di investimenti correlati.
Sulla prima si sono fondate le battaglie, tanto radicali quanto suicide, condotte dalla metà degli anni settanta, degli appiattimenti salariali, degli inquadramenti avulsi dalle capacità professionali, degli inquadramenti nel pubblico impiego legati, a seconda dei casi, più che altro all’anzianità e alla discrezionalità più o meno complice e connivente; per non parlare delle battaglie ultradecennali, moralistiche e legalitarie, sull’evasione fiscale che hanno avuto la capacità quasi miracolosa di accomunare da una parte i ceti intermedi autonomi e borghesi parassitari e “generativi”, secondo la definizione recente di Bagnasco, e dall’altra i dipendenti a prescindere dalla loro collocazione produttiva, con reciproche scomuniche e reciproci anatemi tesi, comunque, a giustificare la sempiterna contrapposizione tra destra e sinistra ormai fuori dallo spazio e fuori dal tempo; per non dimenticare, a proposito di parassitismo, l’uso criminale e indecente di strumenti come la cassa integrazione straordinaria abbinata all’immobilismo nella riconversione industriale.
Contrapposizioni, in realtà connivenze più o meno consapevoli che hanno creato le premesse, con la degenerazione delle aziende strategiche in carrozzoni chiamati “industria pubblica” e, con il gonfiamento parassitario della spesa pubblica, per la svendita del patrimonio industriale e l’inamovibilità di abnormi quantità di ceti parassitari.
Con questo siamo praticamente arrivati ad oggi.
Riguardo alla seconda visione, quella sociologica, essa appare in evidente difficoltà per tre motivi:
non riesce a spiegare come mai i ceti intermedi si stiano sviluppando in maniera abbastanza pacifica in paesi come la Cina, la Russia, nel Sud-Est Asiatico e via dicendo, tutt’altro che legati al modello occidentale;
non riesce a spiegare il carattere antinazionale ed individualistico, piuttosto che democratico, della quasi totalità delle rivoluzioni colorate e della loro aperta strumentalizzazione e asservimento alle strategie geopolitiche del paese dominante;
non riesce a comprendere l’inutilità e l’insostenibilità di una politica della domanda, specie di spesa pubblica; dell’incompatibilità di una politica di generale liberalizzazione, anche nei settori strategici, con quella di mantenimento e rafforzamento della sovranità; la necessità, invece, di investimento nei settori strategici che funga da risorsa per la strategia politica e da traino per le economie nazionali.
In realtà, la sopravvivenza di un concetto così generico e generalizzante permette la riesumazione, contro ogni evidenza, di teorie come la proletarizzazione e pauperizzazione sino alla semplificazione progressiva in due classi delle formazioni sociali o come quelle sociologiche tese a nascondere la realtà delle strategie politiche in conflitto e della conseguente sussunzione delle risorse a queste.
I più pragmatici, al contrario, mantengono questo concetto, acquisendone, secondo convenienza e propensione, singoli aspetti parziali senza la capacità di cogliere una visione di assieme del problema e, fomentando anch’essi, di fatto, contrapposizioni sterili o aggregazioni controproducenti, ma con qualche fondamento maggiore nella realtà.
Questo blog, invece, sta cercando nuove vie, con un protagonista in grado di tracciare il solco e far intravedere la direzione e i comprimari di allargarlo e diramarlo verso altre varianti.
In attesa di nuovi termini, legati a definizioni rigorose frutto di una teoria più adeguata delle formazioni sociali la quale individui un ulteriore livello di analisi, forse meno astratto, ma comunque più complesso di quello dei rapporti sociali di produzione, si potrebbe adottare il termine di ceti o strati intermedi avendo come criteri di classificazione il potere decisionale nell’interpretazione e attuazione delle politiche decise dai gruppi strategici dominanti, il livello di competenza professionale tecnica e procedurale, aspetti considerati singolarmente e in combinazione.
Un criterio, quindi, legato al ruolo operativo nella formazione sociale, piuttosto che al reddito, allo status e ai rapporti giuridici più o meno riconosciuti. Questo permetterebbe di inserire con una certa precisione le figure chiave presenti negli apparati burocratici, di servizio pubblici e privati, nonché nelle attività produttive ed economiche di grosse dimensioni nei livelli medio alti, in quelle medio-piccole anche nelle componenti imprenditoriali.
In seconda istanza permetterebbe la classificazione di altre figure importanti magari dal punto di vista sociologico, secondarie, rispetto alle nostre finalità di ricerca; potrebbero essere i commercianti, gli artigiani, i proprietari di una certa importanza, essenziali da un punto di vista numerico, meno da quello della valenza strategica.
Un altro concetto da recuperare, con un significato più ampio di quello attribuito dalla sociologia, è quello di costruzione dei ceti medi; concetto che permette di aprire la strada al progetto politico da costruire, nella fattispecie il nostro, e alle figure che dovrebbero sostenerlo o avversarlo.
Prima di approfondire il concetto di costruzione degli strati intermedi vorrei, però, sottolineare alcuni aspetti essenziali:
non è vero che gli strati intermedi si stiano depauperando nella loro gran parte;
è vero, piuttosto, che stanno aumentando i fattori di rischio e precarietà iniziale legati ai processi di formazione e inserimento, soprattutto nelle attività professionali autonome. Piuttosto che impoverire, questo aspetto crea delle barriere alla mobilità sociale verso l’alto e favorisce i processi di corporativizzazione; più banalmente, una famiglia facoltosa, piuttosto che povera, può sopportare più facilmente i tempi di ingresso ritardati, rispetto a qualche decennio fa, dei propri figli nell’attività professionale a pieno regime; come pure l’ingresso in analoghe figure, come dipendenti, è molto più selettivo sulla base del sostegno familiare.
I ceti intermedi, in realtà, sono quelli che stanno subendo e promuovendo i radicali processi di ristrutturazione, riorganizzazione e ricomposizione delle competenze necessarie; tende a ridursi la necessità di competenza tecnica legata ai procedimenti (“idiotismo di mestiere”), aumenta la richiesta di competenza legata alla conoscenza del servizio o del prodotto, alla loro collocazione.
Il termine “costruzione dei ceti medi” sottende l’estrema importanza delle scelte politiche di fondo (strategiche) nel determinarne ruolo, quantità e composizione.
Una prima interpretazione letterale e ironica del termine, quella più semplicistica eppure ancora drammaticamente attuale nel contesto italiano, porta alla consapevole elefantiasi di interi settori amministrativi dei vari apparati statali, sia di quelli coercitivi che di quelli di servizio, ma anche di alcuni settori operativi di servizio pubblico e parapubblico (scuola, servizi sociali, le stesse forze di sicurezza). Tale ipertrofia, oltre ai costi ormai insopportabili, genera logiche di riproduzione di meccanismi che distorcono pesantemente le modalità e le logiche di erogazione del servizio tese soprattutto al mantenimento e alla crescita della struttura con forzature evidenti delle necessità e distorsioni della “mission”. La scuola, la cultura, l’intrattenimento ed il consumo culturale, i servizi di assistenza sociale, in buona parte la sanità sono settori che soffrono pesantemente di queste logiche. Non riguarda solo i dipendenti diretti, ma gran parte del cosiddetto terzo settore e delle attività private collaterali dove è collocato, comunque, una componente significativa di figure qualificate.
Si tratta, con ogni evidenza, di uno vero e proprio patto sociale scellerato, maturato negli anni ’70 e sviluppatosi ad oggi che, per poter essere in qualche modo mantenuto, porterà, ormai in tempi rapidi, al declino definitivo del paese. È una dinamica che non ha colpito solo gli apparati statali, ma anche alcune delle più grosse aziende come la FIAT sino agli anni ’90, con la prolificazione di quadri e capetti, le Poste degli anni ’90, con la prolificazione impressionante di quadri. È un segno, per quanto deleterio, di come la gestione di gruppi comporti scelte politiche anche nei territori apparentemente asettici delle imprese, nominalmente vincolate al criterio e alla fredda razionalità del “minimax”. La stessa inefficienza statale, la farraginosità e complessità di norme e proc
edure in quasi ogni campo della pubblica amministrazione (dal fisco, alla giustizia, alle concessioni e autorizzazioni) genera la ipertrofia di un ceto tanto preparato professionalmente quanto ridondante in condizioni di gestione più ordinarie.
Non si tratta, purtroppo, soltanto del solito ceto medio semicolto il quale, con modalità più appariscenti, conduce in prima linea la battaglia codina e conservatrice in questo paese, verso cui sempre più spesso, a ragione, si indirizzano gli strali del nostro blog; ma di una base ben più ampia, predominante in ampie zone del paese e radicata in tutti gli schieramenti politici, con qualche lacuna, forse, nella Lega.
Ovviamente e fortunatamente la composizione degli strati non si riduce a questo; vi sono altri milioni di persone inserite in maniera dinamica nei processi, soprattutto personale tecnico, professionale e dirigenziale, inserite in processi più virtuosi.
Resta la necessità di un radicale trasferimento di risorse verso gli investimenti, specie strategici e, quindi, una riorganizzazione e ridimensionamento di ampi settori.
Paesi come gli Stati Uniti, la Cina, in parte la Russia e molto meno l’India, in Europa parzialmente la Germania hanno dimostrato che il perseguimento di una politica di autonomia se non proprio di potenza, come per gli Stati Uniti, la concentrazione di risorse nei settori strategici hanno generato nuovi significativi strati intermedi professionalizzati e di gestione, quegli stessi che l’Italia continua da decenni a ripudiare.
È possibile gestire questa imponente riorganizzazione, rendere possibili i necessari e dolorosi compromessi transitori e soprattutto circoscrivere la resistenza reazionaria solo offrendo una prospettiva di rinascita, autonomia e indipendenza nazionale. È una prospettiva rischiosa in un contesto internazionale così fluido come l’attuale, ma certamente più promettente e dignitosa di un accomodamento servile ai capricci dei dominanti, ormai affamati di ogni briciola. Senza di ciò il paese è destinato a logorarsi e soccombere in una guerra intestina per la pura e in gran parte velleitaria difesa delle prerogative corporative di singoli gruppi, disposti a offrirsi mercenari pur di sopravvivere a scapito dei rivali e degli stessi strati popolari.
I cervelli che guidano la conservazione hanno ben presente la situazione e la necessità di coinvolgere, nei loro disegni, ampi strati intermedi produttivi. La recente relazione della Marcegaglia, presentata nell’ultima assemblea di Condindustria, pur nella sua sconclusionatezza, in diversi punti veramente impressionante, in particolare sulle politiche europee, nella sua polemica indirizzata alla Fiat, in realtà diretta anche al resto della grande industria, compresa quella strategica, contrapposta ai peana sulle virtù della piccola e media impresa impegnata sul mercato e disposta a riprendere il filo concertativo, rappresenta una cartina di tornasole.
Dal punto di vista sociale la realtà è molto più fluida di quello che appare.
Basterebbe osservare i processi di ricomposizione sindacale delle associazioni di artigiani, commercianti e piccoli imprenditori in antitesi alle politiche confindustriali ed affrancatesi parzialmente dalle tutele di partito, i tentativi di questi stessi gruppi sociali di qualificare la loro presenza operativa e politica nei centri urbani con le loro proposte di qualificazione dei centri storici.
La condizione di abbandono politico, culminata nel crollo dell’illusione ultradecennale berlusconiana, potrebbe spingere settori significativi di questi strati a rifugiarsi nell’ovile dove ci sono i lupi a fungere da pastori. Qualche segno inquietante lo si è visto nel trionfo di Pisapia e De Magistris, nonché nell’esito plebiscitario dei referendum. Resta qualche accenno fiducioso e sibillino in vari blog sulla possibilità di emersione di nuove figure politiche.
Un progetto politico e una prospettiva durevoli non si costruiscono, però, con improvvisi escamotages, ma con patti espliciti e solidi con settori dello stato e della grande impresa strategica, aperti alla discussione politica e capaci di influenzare anche gli strati più popolari.
Su questo la sinistra non ha alcuna chance di successo, ottenebrata com’è dal suo cosmopolitismo ideologico e dalla sua diffidenza congenita verso i movimenti di rinascita nazionale che rimettano in discussione le attuali condizioni dell’Italia nel contesto europeo e filoatlantico; tuttalpiù può condurre una esasperata politica dei diritti civili riservata a élites ristrette e una gestione contingente del malcontento comunque difficile da conciliare con l’accettazione delle attuali compatibilità europee e dell’ulteriore cessione di sovranità; questo in un momento in cui una parte degli stessi globalisti dominanti comincia a chiedersi quale ruolo riattribuire, bontà loro, agli stati, non certo quelli dominanti, i quali un peso determinante lo avranno sempre, ma anche quelli di rango inferiore.
La permanenza della vecchia guardia e il sorgere di una nuova ancora peggiore, format
asi alla scuola del FMI, della Comunità Europea e consimili, non lascia presagire cambiamenti positivi; del resto, si sa, che in periferia si tarda regolarmente a comprendere le novità, specie se in preda alla sindrome esterofila; un po’ come i futuristi italiani degli anni ’30 che in Italia vagheggiavano e tracciavano le meraviglie della modernità, salvo scoprire, nei loro viaggi a New York, che lì il futuro era già da tempo realtà.
Quelli, almeno, erano pervasi da spirito nazionale.
Allego il link di tre articoli precedenti con riferimenti allo stesso tema.

L’Araba Fenice del ceto medio (di Giuseppe G.)

L’Italia e l’euro plus ultra (di Giuseppe G.)

Assemblea programmatica PD: poco rumore per quasi nulla…per ora (di Giuseppe G.)

LA TAUMATURGIA DELL’INVESTIMENTO SOCIALE, di Giuseppe Germinario

Riprendo un interessante articolo di Luca Ricolfi apparso su il sole 24 ore del 25 settembre scorso dal titolo “Quando a crescere è il lavoro degli immigrati”, le cui conclusioni hanno provocato a suo tempo in me, devo confessarlo, una certa ripulsa ( http://www.pdmeda.it/pd/2016/09/26/quando-a-crescere-e-il-lavoro-degli-immigrati/ ).
Il testo parte dalla considerazione che il divario tra la pesante situazione occupazionale e la percezione di essa ancora più catastrofica derivi dal dato che la perdita in otto anni di quasi due milioni di posti di lavoro di italiani, i cosiddetti facitori di opinione pubblica è in parte mascherata dall’incremento di ottocentomila occupati tra gli immigrati, estranei alla costruzione mediatica. Il sociologo adduce tre ragioni di queste tendenze divaricanti. La prima è fisiologica, legata alla quota crescente di immigrati stanziati in Italia. Le altre due meritano la citazione integrale:”La seconda ragione è che, durante la crisi, la domanda di lavoro è crollata nelle posizioni ad alta qualificazione (tipicamente ricercate dagli italiani) ed è aumentata sensibilmente in quelle a bassa e bassissima qualificazione (tipicamente accettate dagli stranieri). La terza ragione è più generale, e probabilmente più difficile da riconoscere. Anche se molti si lamentano della situazione e della mancanza di prospettive, la realtà è che la maggior parte degli italiani hanno raggiunto un livello di benessere sufficiente a renderli alquanto “choosy” (copyright Elsa Fornero) nella ricerca di un lavoro. In tanti non cercano semplicemente un lavoro, bensì un lavoro adeguato all’opinione che essi si sono fatti di sé stessi, opinione che scuola e università si incaricano di certificare. L’esatto contrario degli stranieri, che sono disposti ad accettare un lavoro anche al di sotto, molto al di sotto, delle qualificazioni acquisite e certificate.” Da qui il giudizio: “Si può deplorare quanto si vuole questa situazione, e immaginare che quelli degli italiani siano diritti negati, e la condizione degli stranieri sia di puro e bieco sfruttamento (come in effetti talora è: vedi le tante Rosarno, vedi la piaga del lavoro nero). E tuttavia c’è anche un altro modo di raccontare le cose. Gli stranieri immigrati in Italia sono esattamente come noi, solo che vivono in un altro tempo, un tempo che noi abbiamo vissuto negli anni ’50 e ’60, quando il nostro livello di istruzione era più basso e non c’erano genitori e nonni disposti a mantenerci finché trovavamo un lavoro coerente con le nostre aspirazioni. Quanto a noi italiani, è certamente vero che i posti sono pochi, troppo pochi (ce ne mancano circa 6 milioni per diventare un paese appena normale, con un tasso di occupazione in media Ocse), ma purtroppo è anche vero che paghiamo lo scotto di aver liceizzato tutto –scuola e università – senza valutarne le conseguenze. In un paese che, colpevolmente, ha scarso bisogno di laureati e continua ad avere bisogno di innumerevoli competenze tecniche e professionali intermedie, aver svuotato di ogni vero saper fare la maggior parte dei diplomi di scuola secondaria superiore non è stata una grande trovata”; quindi la conclusione:” Forse, l’avanzata occupazionale degli immigrati, con la loro umiltà e determinazione, è anche un silenzioso segnale rivolto a noi, un invito a riflettere sullo scarto fra quel che siamo e quello cui crediamo di avere diritto”.
Si direbbe una salutare immersione nella realtà; dopata però a mio parere da dosi eccessive di senso comune dalle scarse prospettive.
• La crisi ha determinato quindi un crollo nelle posizioni ad alta qualificazione. In realtà il crollo riguarda alcuni paesi, tra questi l’Italia, mentre altri vivono un declino, una riorganizzazione o addirittura una espansione. La crisi, la situazione di rottura, quindi, agisce e produce condizioni e tendenze diverse. Non è la crisi di per sé, ma la condizione di un paese in questa situazione di rottura e transizione e la capacità e l’ambizione della sua classe dirigente a determinare il realismo delle aspettative individuali.

Avviciniamoci dunque al cuore del problema posto da Ricolfi, la schizzinosità (choosy) degli italiani nella ricerca del lavoro. Pur con tutte le tare e le precauzioni da adottare su di un argomento così esposto alla demagogia e al pressapochismo, è indubbio che le dinamiche di sviluppo ed emancipazione del paese degli ultimi trenta/quaranta anni abbiano ingenerato altrettante notevoli aspettative ed aspirazioni individuali, specie in alcune zone e categorie sociali del paese.
Altrettanto vero che tali aspettative siano state alimentate da una concezione della scuola e della università che riduceva spesso e volentieri l’istruzione e la specializzazione ad un sinonimo orientato più verso la prima che la seconda, fermo restando l’indubbio progresso sociale rappresentato da un elevato livello di istruzione.
Le stesse specializzazioni si sono orientate prevalentemente tra l’altro verso ambiti diversi da quelli tecnico-scientifici.
Una combinazione micidiale di orientamenti individuali che hanno distorto pesantemente il mercato del lavoro, spesso sostituito alla professione e alla competenza professionale l’aspirazione all’impiego e concesso prestigio e status a determinati ambiti rivelatisi alla fine pletorici e parassitari.
Da qui l’invito dell’autore a “riflettere sullo scarto fra quel che siamo e quello cui crediamo di avere diritto”.
Si tratta però di un invito che nel migliore dei casi si risolve in un moralismo sterile e inconcludente, giacché una tendenza e un orientamento diffuso se non generalizzato non può essere il mero frutto della sommatoria di scelte individuali. Nel peggiore e purtroppo sempre più corrispondente al clima politico e culturale del paese, non fa che assecondare quel tentativo di salvaguardia della posizione dei ceti intermedi più fortunati nella difesa e preservazione delle proprie prerogative di ceto e di casta le quali stanno bloccando completamente le possibilità di mobilità sociale verso l’alto e soffocando le possibilità di trasformazione e riorganizzazione positiva del paese.
Quegli orientamenti e quelle scelte individuali sono la conseguenza diretta di caratteristiche strutturali del paese e dei suoi ordinamenti che le classi dirigenti succedutesi hanno alimentato e promosso piuttosto che scoraggiato.
A titolo di esempio, l’inflazione di avvocati e commercialisti e il corrispondente alimento di aspettative trova corrispondenza esatta nelle caratteristiche del sistema fiscale e tributario e in quelle del sistema giudiziario e giuridico; una saturazione aggravata dallo scarso peso della grande industria e dal conseguente scarse possibilità di accesso in altri settori di queste professionalità.
L’ambizione all’impiego è solo in parte il riflesso della necessaria natura burocratica delle amministrazioni pubbliche; è soprattutto la conseguenza della particolare e concreta organizzazione burocratica dello Stato Italiano, del suo particolare ordinamento gerarchico, dell’effettivo livello di responsabilità esercitato nelle funzioni, delle procedure di selezione e nomina dei quadri dirigenziali, della sovrapposizione di competenze.
Non siamo giunti però ancora al cuore del problema.
L’errore secondo Ricolfi è “aver liceizzato tutto –scuola e università” “In un paese che, colpevolmente, ha scarso bisogno di laureati e continua ad avere bisogno di innumerevoli competenze tecniche e professionali intermedie”.
Intanto lo stesso autore sembra smentirsi in un altro articolo (http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-10-16/il-problema-e-difficolta-non-latino-112506.shtml?uuid=ADC45JdB&fromSearch) perché il problema maggiore della scuola italiana sembra essere, secondo me a ragione, la svalutazione della difficoltà nello studio.
Uno studio della Fondazione Edison del 2012, con il direttore Marco Fortis non ancora pervaso dall’ottimismo oltranzistico legato alla sua partecipazione al Governo Renzi, quantificava la necessità insoddisfatta di personale qualificato nel Nord-Italia in poco più di centomila unità. Una cifra attualmente, secondo me sovrastimata, visto che in questi ultimi due anni la crisi sta decimando ormai anche aziende sane dal punto di vista organizzativo e tecnologico. Una cifra comunque certamente importante, della quale tener conto negli indirizzi scolastici, ma sicuramente poco significativa rispetto ai “sei milioni di posti mancanti” necessari a raggiungere un tasso di occupazione paragonabile a quello dei paesi del Nord-Europa.
Del resto, l’esodo che sta colpendo da alcuni anni il paese non riguarda più soltanto i laureati, specie quelli in materie tecnico-scientifiche, ma anche i diplomati, buona parte dei quali trovano collocazione nei settori produttivi-manufatturieri dei paesi ospitanti.
Alla luce di queste ultime due considerazioni l’affermazione finale dell’autore assume un tono particolarmente inquietante se non funereo.
Rappresenta soprattutto il de profundis ad un altro caposaldo delle politiche di sviluppo e di progresso tipiche del sodalizio progressista di questi ultimi decenni: l’investimento sociale.

LA TAUMATURGIA DELL’INVESTIMENTO SOCIALE

Negli ultimi anni l’espressione “INVESTIMENTO SOCIALE” ha assunto il valore taumaturgico di uno slogan. Piuttosto che la spesa sociale ex-post mirante a tappare le falle con criteri assistenziali, piuttosto che la tesi liberista di alleggerimento o soppressione del welfare, ritenuto un mero costo, mirante a ripristinare le condizioni di equilibrio tra domanda e offerta di lavoro, “le politiche sociali andrebbero viste come un investimento che la società mette in campo per garantirsi un miglior ritorno economico e sociale nel futuro” (dal libro di Ranci, Ascoli, Sgrata “Investire nel sociale”); nella fattispecie “la strategia dell’investimento sociale lega, invece, la problematica della disoccupazione innanzitutto alla carenza di adeguate qualificazioni e competenze necessarie per trovare lavoro oggi e in futuro… orientata a privilegiare politiche sociali volte alla crescita del cosiddetto capitale umano” (idem). Politiche, si concede tra i più avveduti, “accompagnate da interventi strutturali”, lungi però questi ultimi da essere definiti nel corso di questi decenni.
Il Governo di Renzi, sostenuto dal suo mentore Gutgeld, è stato il più convinto sostenitore di questo indirizzo. Nell’ambito ad esempio della formazione scolastica, l’autonomia degli istituti scolastici, il ruolo dei finanziatori privati, i progetti di alternanza scuola-lavoro, la riforma dell’apprendistato rientrano coerentemente in questi indirizzi; indirizzi che, a prescindere dal merito e tenuto conto dei necessari tempi di attuazione, immediatamente hanno dovuto scontrarsi con la realtà della struttura produttiva e di servizi del paese.
Così, pochi mesi dopo il varo della legge sono stati aboliti gli obblighi formativi esterni all’azienda degli apprendisti; i casi di alternanza scuola-lavoro sono ancora limitati; l’attenzione del mondo imprenditoriale verso la scuola, in particolare gli istituti tecnici e professionali è “ancora” abbastanza residuale; permane l’enorme problema del ruolo delle scuole tecniche e professionali nelle vaste zone del paese economicamente depresse.
Sono politiche, come pure quelle del job act, mutuate da altri paesi; nel migliore dei casi ignorano il contesto produttivo ed imprenditoriale, nel peggiore ne assecondano le tendenze praticamente ormai irreversibili ad un declassamento “spontaneo” delle strutture produttive nel contesto internazionale.
Si tratta di un contesto profondamente mutato rispetto agli scenari di appena trenta anni fa.
• La grande azienda è praticamente scomparsa e soprattutto è pressoché scomparso il loro controllo strategico. Ne consegue la crescente estraneità degli interessi del paese dalle scelte strategiche delle imprese, dalle pianificazioni di marketing e dalle politiche di innovazioni di prodotto con buona pace della beota euforia per le acquisizioni estere espressa dai vari Renzi e Fassino
• Le stesse aziende capofila delle filiere produttive composte da medie e piccole aziende sono sfuggite anch’esse in gran parte al controllo dell’imprenditoria locale
• La stessa gestione delle reti e della logistica integrata, quest’ultima in via di formazione con anni di ritardo, deve subire profondi condizionamenti esterni e risolvere in diversi casi enormi problemi legati alla frammentazione dell’apparato produttivo
• L’innovazione tecnologica e la miglioria di prodotto, già deficitaria, è in buona parte legata all’iniziativa occasionale interna alle piccole aziende difficilmente trasmissibile nei software indispensabili alla digitalizzazione dei processi
Sono una parte importante dei fattori che subordinano la ricerca e soprattutto il riconoscimento professionale ad altri fattori del tutto estranei.
Arretratezza tecnologica e dei criteri di gestione, struttura proprietaria delle aziende, fuga delle posizioni strategiche, politiche sindacali, specie nelle grandi aziende di servizio, le quali assecondano gli interessi delle grosse concentrazioni di dipendenti piuttosto che la collocazione professionale; tutti aspetti che contribuiscono ad accentuare i processi di precarizzazione già presenti nel mondo del lavoro a livello globale con l’aggravante del disconoscimento massivo delle competenze professionali. Il plus proviene dalla confermata beotitudine di gran parte della nostra classe dirigente, tra questi il nostro “bomba” (Renzi) prontissimo a esaltare il bassissimo livello retributivo dei nostri ingegneri e tecnici e ad avallare ad esempio con le ipotesi di appiattimento delle prestazioni previdenziali a prescindere dalle erogazioni contributive e di reddito di cittadinanza tale disconoscimento.
Si tratta di una classe dirigente che non fa che assecondare le peggiori tendenze prevalenti nel paese e nel mondo imprenditoriale tese a trasformare nel migliore dei casi il nostro apparato produttivo in un opificio e in un cultore di nicchie esposti alla peggiore concorrenza, subordinati alle strategie altrui con scarsissime possibilità, grazie alla cessione degli asset strategici, di partecipare con un qualche ruolo decisionale ai processi di concentrazione ed integrazione. Non si tratta, quindi, di scelte economiche neutre, ma di politiche economiche legate al tipo di collocazione e di autonomia decisionale che una classe dirigente intende subire o scegliere.
Una politica di investimento sociale può essere il giusto corollario di una politica generale minimamente ambiziosa e autonoma; slegata da obbiettivi di recupero delle prerogative di un paese o addirittura complementare e propedeutica a questa politica di subordinazione non fa che alimentare sprechi di risorse, formazione di ceti magari pure colti quanto parassitari, corporativi e istupiditi, formazione di quadri e risorse disponibili per altri paesi e di strutture amministrative autoreferenziali. Una politica storicamente attenta alla redistribuzione ma altrettanto apparentemente indifferente alla modalità e alle finalità di produzione delle risorse. In questo si può racchiudere probabilmente la parabola efficientista di Matteo Renzi.
Le politiche degli ultimi due governi, per ultimo il programma di implementazione di industria 4.0, non fanno altro che sancire irreversibilmente tale tendenza e rendere particolarmente duro e problematico un programma di recupero. Stride il silenzio che circonda un programma così importante. Ne parlerò, appena possibile, in un articolo dedicato.
Per concludere, la chiosa finale dell’articolo di Ricolfi più che una presa d’atto realistica per ripartire, mi pare sia la sanzione complice di una cattiva condizione del paese. Il contributo dell’immigrazione mi pare che si risolva anch’esso in questo. Tanto più che la segnalazione di questi sviluppi occupazionali positivi, nascondono un altro esodo del tutto ignorato; quello di una manodopera immigrata, qualificatasi professionalmente nel corso di questi ultimi lustri nel nostro paese e fuggita all’estero attirata da migliori condizioni.

GEOPOLITICA-SPIETATA ( LUCIDA), ANALISI DI MARCO BERTOLINI

tratto dal sito http://www.congedatifolgore.com/it/geopolitica-spietata-lucida-analisi-di-marco-bertolini/#.WGazcU58Hep.facebook
Mi pare l’ulteriore conferma che nei centri vitali dell’amministazione del paese ci siano personaggi e forze sensibili a un recupero delle prerogative nazionali. Manca una espressione politica che possa dare loro espressione e forza

Pubblicato il 30/12/2016
GEOPOLITICA-SPIETATA ( LUCIDA) ANALISI DI MARCO BERTOLINI
Sicurezza Internazionale:
Intervento del Generale Marco Bertolini

edito da http://www.atlantismagazine.it/

Sicurezza Internazionale: Intervento del Generale Marco Bertolini – ATLANTIS

Italia e “Comunità Internazionale”

analisi di una crisi

Attorno a noi, nell’area euromediterranea della quale rappresentiamo il centro, il punto nel quale dalla società romana prima e cristiana poi è nata l’idea stessa di occidente, si stanno verificando crisi di portata epocale che consegneranno ai nostri figli un mondo diverso e molto più difficile e pericoloso di quello nel quale abbiamo vissuto noi, figli della guerra e spettatori della guerra fredda.

E’ una realtà che ormai si sta imponendo alla consapevolezza generale, anche se spesso prevale la tentazione di limitarsi a una microanalisi delle singole situazioni di crisi, nell’illusione di venirne a capo. Così facendo, però, si perde la visione d’insieme di quello che continua a riproporsi come il solito scontro tra gli interessi statunitensi e russi, di antica memoria, che non ci lascia che il ruolo rassegnato delle comparse, e spesso delle vittime, delle frizioni tra i due giganti.

Questa situazione è particolarmente pericolosa per un paese come l’Italia, esposto geograficamente come nessun altro e che nonostante questo pare avere optato entusiasticamente per il rifiuto di individuare “originali” interessi nazionali da difendere. Al contrario, preferisce di norma appiattirsi su quelli di una Comunità Internazionale (CI) volubile, volatile e difficilissima da definire.

Gioca un ruolo chiave in questo approccio passivo una impostazione costituzionale che sembra fatta apposta per tagliarci fuori dalla realtà.

L’esempio dell’inutile articolo 11 della Costituzione è emblematico: al di là dell’inconsistenza di un “ripudio” (della guerra) che non può che essere solo retorico, tale presa di posizione impedisce all’Italia di fare i conti (almeno a parole) con una costante della storia e toglie dignità agli strumenti militari dei quali continua comunque ad essere dotata (le Forze Armate). Conseguentemente, al nostro paese non resta che mettersi disciplinatamente al seguito di coloro che tali remore non nutrono e che continuano ad essere ben determinati a perseguire i propri interessi – ovviamente travestiti da interessi “comuni” – con tutti i mezzi, inclusi quelli bellici. E non parlo di qualche dispotico regime africano o centro asiatico, ma di paesi come la superpotenza statunitense, nonché di Russia, Gran Bretagna e Francia, per rimanere all’ambito europeo. Quanto alla Germania, non si pronuncia in merito per ovvie ragioni, ma continua da tempo a mantenere in salute e in esercizio uno strumento militare decisamente importante che sta ulteriormente potenziando.

Comunità Internazionale sopra tutti e prima di tutto, quindi. Ma di cosa stiamo parlando? L’idea di Comunità che nei desideri di molti illusi dovrebbe assicurare dignità a una nostra supposta vocazione alla passività in campo internazionale è quella che si dovrebbe concretare in una profonda comunanza di valori e di interessi, primo fra tutti quello della pace. Pace innanzitutto, anzi. Ma è effettivamente così? No, e lo confermano proprio le crisi che ci circondano.

Iniziamo da quella più vicina a noi e per la quale stiamo pagando un prezzo notevolissimo, la Libia. La CI fu quella che, smentendo platealmente tutte le precedenti iniziative italiane in quel paese, nella sua connotazione anglo-francese, pseudo-NATO e para-EU, nel 2011 decise unilateralmente di intervenire, prescindendo assolutamente dai nostri interessi e addirittura dal nostro parere di principale vicino a quell’area. C’è da chiedersi se si sarebbe comportata nella stessa maniera, vale a dire mettendoci di fronte al fatto compiuto, se nello Stivale ci fosse stato un altro Stato, non necessariamente uno di quelli rammentati in precedenza. Ma tant’è: in ogni caso, ci ha poi concesso la grazia di saltare sul suo carro di esportatori di democrazia e progresso fino a renderci compartecipi o complici della creazione della situazione che ci sta deliziando da oltre un lustro. In sostanza, la CI ci ha scalzato da una posizione molto favorevole nel mercato degli idrocarburi libici, ha messo a rischio molte nostre imprese che dopo decenni di buio erano riuscite a reimpiantarsi in Libia e ci espone ora ad un flusso migratorio epocale, dal quale gli ottimi rapporti con Gheddafi ci ponevano al riparo.

Oggi, nella sua rappresentazione europea (EU) ci sta supportando nella ciclopica opera di salvamento delle centinaia di migliaia di migranti economici che prendono mare clandestinamente dalla costa della Tripolitania verso le nostre coste, facendo comunque molta attenzione a farli sbarcare solo da noi e a mantenerli confinati al sud delle Alpi. Gran bella prova di solidarietà!

Quanto alla situazione politica in Libia, nella sua rappresentazione ONUsiana la CI, dopo aver supportato a lungo il parlamento di Tobruk e il suo Generale Haftar (uomo degli USA, si diceva), si è esibita nel classico salto della quaglia, passando all’appoggio di Serraj, neo Primo Ministro a Tripoli, a sua volta supportato dalle milizie simil-islamiste di Misurata. Ed è soprattutto a questo punto che la Comunità ha smesso di essere tale: si è divisa infatti in due, con una parte capeggiata da ONU e USA al fianco di Serraj puntando ad una Libia unita e presumibilmente sotto tutela ONU/USA/NATO (la EU si adeguerà), mentre un’altra parte continua ad appoggiare Tobruk. Quest’ultima non nasconde l’aspettativa di una divisione del paese che apra alla Francia la possibilità di sfruttare i giacimenti della mezzaluna petrolifera, consenta alla Russia di evitare un altro paese sotto tutela americana, magari riservandole un ulteriore sbocco mediterraneo alternativo o complementare a Tartus, e non faccia tramontare le mire territoriali egiziane nell’est del paese, almeno a livello di ingerenza. L’Italia, ovviamente e giustamente, si inquadra nel primo gruppo e c’è da chiedersi quanto questa sua collocazione strategica sia collegata alla strana ostinazione con la quale ha iniziato a cavalcare il caso Regeni dopo un lungo periodo di corte spietata all’Egitto, negandogli ora ogni possibilità di scampo onorevole, stretto come l’ha in un angolo fatto di accuse che se sono difficili da provare lo sono altrettanto da confutare.

Sul fronte europeo, la CI subisce fortemente il peso degli interessi globali degli USA che spingono NATO e conseguentemente la sua rappresentazione virtuale locale, l’EU, a una forte contrapposizione con il loro competitor russo. Da qui, il rafforzamento del fianco nord, con la scusa di tacitare le preoccupazioni delle Repubbliche baltiche e della Polonia ma soprattutto per consentire agli US di spostare molto più a destra la propria presenza in quello che vent’anni fa era il territorio del Patto di Varsavia. Poco più a sud, invece, incombe la spaventosa crisi ucraina, per la quale non si vedono ancora vie d’uscita. In questo paese, infatti, balena da un lato una ghiotta opportunità per gli statunitensi di escludere per sempre la Russia dal Mar Nero, privandola delle basi in Crimea, mentre da parte Russa al contrario continua a materializzarsi il rischio di essere tagliata fuori definitivamente dall’Europa e da ogni forma di presenza nel Mediterraneo. Quindi, uno sviluppo da non farsi sfuggire da parte americana e una opposta minaccia da evitare in campo russo che ha portato alla situazione di stallo armato attuale.

Ed ecco, a questo punto, ricomparire la stessa CI, nelle sue manifestazioni NATO ed EU, più che mai determinata a tagliare le unghie all’orso russo utilizzando uno dei più classici strumenti di pressione di sempre, le sanzioni. Peccato che con esse, che non intaccano assolutamente l’economia degli USA che le hanno fortissimamente volute, oltre alle unghie dell’orso cadano pure i denti del resto dell’Europa – e soprattutto dell’Italia – legate alla Russia da stretti vincoli economici e commerciali ora messi a rischio, nonché da una continuità territoriale che al contrario non c’è con “l’isola americana” (un oceano a ovest, uno a est e una munitissima recinzione a sud).

A ben vedere, tale situazione è strettamente collegata a quanto accade anche nel Medio Oriente, con particolare riferimento alla Siria, dove la Russia è intervenuta per mettere una pezza ai guai fatti da un’ipocrita idiosincrasia occidentale per le “dittature”, ma soprattutto per mettere al riparo le sue residue possibilità di essere presente nel Mediterraneo dopo i rischi corsi in Ucraina. La base navale di Tartus, infatti, è il punto di approdo tradizionale delle navi della Flotta russa del Mar Nero, basata a Sebastopoli in Crimea, e la sua perdita rappresenterebbe un vulnus micidiale.

Insomma, la Russia non può ritirarsi dalla Siria per buona parte delle ragioni per le quali non può lasciare la Crimea (e l’Ucraina). In tale contesto si inquadra anche l’attivismo russo volto a ricavarsi altri spazi nel bacino, dopo la richiesta statunitense al Montenegro di entrare nella NATO (il Montenegro nella NATO!), riducendole al lumicino la possibilità di trovare altri approdi in paesi non ostili nel Mare Nostrum. La recente apertura egiziana per l’uso a tal fine della base di Sidi el Barrani potrebbe rappresentare un importante punto di svolta a suo favore.

Non c’è quindi dubbio che il punto più dolente di questa epocale tensione politico-militare è rappresentato dal Medio Oriente (o meglio, Vicino Oriente, per noi), con particolare riferimento a Siria e Irak. Per la prima volta dalla crisi di Cuba, infatti, soprattutto in Siria si corre un rischio concreto di scontro diretto tra statunitensi e russi che potrebbe portare ad una conflagrazione generale. La Russia, per i motivi sopraindicati, è infatti intervenuta militarmente, bloccando l’avanzata dell’ISIS e di Jabath Al Nusra (Jabath Fatah al Sham, dopo una recente operazione di cosmesi terminologica per occultarne le antiche radici qaediste) ma soprattutto congelando il tentativo statunitense (e saudita e turco ed emiratino e qatarino e israeliano e francese e ….) di sostituire Assad con un regime favorevole. E ora, di fronte alla prospettiva di una vittoria siriana (e russa e iraniana ed Hezbollah) con la liberazione di Aleppo dai terroristi come in precedenza avvenuto a Palmira (evento importantissimo da un punto di vista non solo simbolico ma stranamente ignorato da tutti i media), compare sgradevole la prospettiva di un Mediterraneo con una forte presenza della Russia, determinata a giocare ancora alla potenza globale. La campagna mediatica (STRATCOM – Strategic Communication) tesa a presentare come crimini di guerra i tentativi russi e siriani di sgomberare Aleppo est dai terroristi e l’improvviso attivismo contro Mosul, dopo anni di souplesse militare, non possono togliere il dubbio che il tutto sia soprattutto finalizzato ad impedire che di qua a qualche mese ci sia un solo vincitore sul campo, la Russia coi suoi alleati, con le conseguenze del caso per “l’Occidente”, costretto da tempo a considerare alcuni di essi “terroristi”.

Tornando agli interessi nazionali, anche in questo caso non sussiste alcuna significativa coincidenza tra quelli italiani e quelli della Coalizione a guida US. Il regime di Assad è notoriamente molto vicino alle numerose comunità cristiane del paese, cosa che non dovrebbe essere indifferente per quella patria del cristianesimo che è ormai a torto considerata l’Italia, e alle Forze Armate siriane, con il significativo contributo di Hezbollah, si deve la liberazione e la messa in sicurezza di numerose e antichissime comunità cristiane locali. Inoltre, non c’è dubbio che la caduta di Assad ad opera dei terroristi non comporterebbe la fine della guerra ma il probabile inizio di una nuova fase, con curdi, turchi, sunniti e sciti tutti in guerra tra di loro, appassionatamente; senza contare le ovvie ingerenze statunitensi, israeliane, francesi e britanniche da mettere in conto. Le conseguenze di una situazione del genere nel vicinissimo Libano, che è appena riuscito a eleggere un Presidente della Repubblica dopo oltre due anni di crisi, sarebbero devastanti e dalla costa orientale del Mediterraneo potrebbe iniziare un traffico migratorio verso le nostre coste capace di far impallidire quello epocale in atto dalla Libia.

Insomma, è proprio un bel pasticcio.

Per concludere, una riflessione sul gran parlare che si fa in Italia di “Esercito Europeo”, trasposizione militare dell’innamoramento per l’idea stessa di Comunità Internazionale che non si capisce da cosa derivi, visti i precedenti. Si tratta di un tentativo per coinvolgere i paesi europei nei problemi di sicurezza continentale, con soluzioni valide per tutti. In realtà si limita ad una discussione sterile, priva di possibilità di realizzazione per la differente percezione che i singoli paesi hanno di se stessi, nel contesto internazionale. Come mettere d’accordo, ad esempio l’attivismo militare francese nel sud Sahara e in Medio Oriente, o quello britannico nell’ambito della Comunità “five eyes” in tutto il mondo, con l’atteggiamento ripiegato sui propri problemi interni del nostro paese?

Si tratta, a mio modesto avviso, di un tentativo ingenuo e maldestro di conferire dignità al nostro “costituzionale” disinteresse per le questioni militari e inerenti alla difesa; una specie di disperata offerta ad altri della nostra “sovranità militare”, visto il fastidio col quale per mille motivi (tutti assurdi) non ce ne vogliamo far carico da decenni. Si tratta, infine, di un modo per rinforzare una vocazione allo “stare in gruppo” che al contrario non ci possiamo più permettere, vista la pervicacia con la quale “gli altri” pensano prima di tutto ai fatti loro. Ci accontenteranno, magari, con un Comando multinazionale in Italia, come già fatto in passato a Firenze, nel quale fare svernare a rotazione qualche Generale o Colonnello a fine carriera. Ma sulle questioni sostanziali, che incidono sul futuro delle prossime generazioni, le loro generazioni, certamente tutti terranno le carte ben coperte, come sempre.

Invece, è necessaria una riflessione sulla peculiarità dei nostri interessi, selezionando attentamente i paesi in grado di condividerli, se necessario riconsiderando i dettagli di alleanze come la NATO e l’EU se si dimostreranno eccessivamente a trazione atlantica e nord europea. Ciò si renderà necessario e di vitale importanza qualora tali alleanze continuino a non dimostrarsi sensibili alle nostre particolari esigenze, come avvenuto anche nel passato recente, con particolare riferimento a Libia, Siria e Ucraina in primis, senza dimenticare i Balcani, trasformati in un coacervo di staterelli ostili tra di loro e alla mercè dei movimenti jihadisti che durante la guerra alla Serbia si sono radicati nell’area. Oggetto di particolare riflessione dovrebbero essere anche i rapporti con la Russia, come noi interessata, anche semplicemente per mere questioni geografiche, ad avere stabilità nel Mediterraneo e nel Medio Oriente e a prevenire processi migratori dall’Africa come quelli che stiamo subendo. Non si tratta di tradire l’alleanza atlantica, ma di convincerla che gli interessi del nostro continente non possono essere definiti e decisi solo da 6000 km di distanza, oltreatlantico.

Ma la vedo dura!

GLOBALIZZAZIONE E STATI NAZIONALI-CONFLITTI TRA STATI E AUTONOMIA NAZIONALE. PERCHE’?,di Gianfranco La Grassa

Con questo intervento si completa la quadrilogia ripresa dall’incontro di metà aprile organizzato dal gruppo di www.conflittiestrategie.it e da questi già pubblicato. In basso a destra ddi questa pagina web, nella sezione dossier troverete tutti e quattro gli interventi
Incontro di C&S sul tema: Stato, Interesse Nazionale. Perché scegliamo in questa fase l’Autonomia Nazionale.
Questo è l’intervento che farò a Bologna nel seminario del prossimo fine settimana (di fatto domani). Ho preferito scriverlo perché poi, a voce, sarò molto succinto; sia per ragioni di tempo che per le condizioni della mia voce (e anche un po’ fisiche in generale). Consiglio perciò anche ai partecipanti all’incontro di leggerselo per capire quanto sostengo. Spero di essere stato sufficientemente chiaro.
CONFLITTI TRA STATI E AUTONOMIA NAZIONALE. PERCHE’?
Gianfranco La Grassa
1. Tratto normalmente Stato, paese o anche nazione quasi si trattasse di sinonimi. So che non è così, ma per quanto riguarda quanto devo dire in merito al problema dell’autonomia nazionale, credo si capisca comunque il discorso. Ammetto di non sapere mai con precisione che cosa debbo intendere con la parola Stato. Mi sembra che se ne parli sempre in modo metafisico o quasi; e in ogni caso come ci si riferisse ad un vero e proprio soggetto, di cui si possa disquisire quasi avesse volontà, desideri, intendimenti, finalità, ecc. propri, esattamente come quando si parla di un singolo individuo umano o di un determinato gruppo sociale, insieme di individui espletanti funzioni specifiche o che assuma decisioni in comune. Diciamo pure che per Stato si potrebbe intendere un grande raggruppamento di individui, in genere con ben preciso insediamento territoriale definito da confini, spesso (ma non sempre) unito da una sola lingua, che accetta un dato complesso di regole di comportamento fissate da leggi e il cui non rispetto viene sanzionato mediante un sistema di perseguimenti e di punizioni posto in atto da organi unanimemente accettati nel loro funzionamento a tali fini.
Preferirei tuttavia che si specificasse meglio il complesso, strutturato, di apparati che costituisce quello che chiamiamo Stato, sia nell’esercizio dei compiti relativi all’intero territorio posto sotto la sua potestà sia in quello decentrato nelle diverse parti in cui è suddiviso quest’ultimo. In particolare, darei la massima rilevanza a quegli apparati addetti all’esercizio della politica, intesa quale insieme organico di mosse – che possiamo definire strategia – compiute per raggiungere determinate finalità all’interno di un dato paese così come all’esterno d’esso, nei confronti degli altri paesi. Un conto è quella che potremmo definire l’amministrazione di determinati affari riguardanti il coordinamento d’insieme di una data comunità territoriale (suddivisa in diversi gruppi sociali); un altro è il vero potere di esplicare la politica diretta all’interno o all’esterno di quel paese. Il controllo degli apparati dotati di tale potere è il vero oggetto della lotta che si svolge tra diverse associazioni di individui (partiti o altri organismi di vario genere).
Di questi apparati (di potere) si dovrebbe soprattutto discettare per meglio definire i compiti che si pone chi intende perseguire l’autonomia del proprio paese. In questi ultimi anni si era diffusa una particolare concezione, che tuttavia mi sembra oggi un po’ in decadenza. Si sosteneva la fine della funzione degli Stati nazionali. Con ciò s’intendeva sostenere precisamente che quegli apparati di potere (interno ed esterno), di cui ho appena detto, non avevano più alcun reale compito in quanto ormai il potere in questione spetterebbe ad organismi sovranazionali, in particolare di carattere finanziario; vere massonerie che ormai comanderebbero in tutto il mondo o quasi. A tali organismi dovrebbero ribellarsi tutti i cittadini (le “moltitudini”), senza più distinzione di questo o quel paese (di tutto il mondo appunto). Tale tesi, che sembra voler essere una sorta di versione aggiornata e moderna dell’antico “internazionalismo proletario” (essa è in genere propagandata da vecchi arnesi della pseudorivoluzione sessantottarda e sue propaggini ulteriori), mira di fatto a salvaguardare il potere di quei gruppi che, all’interno di ogni paese, controllano gli apparati statali in questione (sia rivolto all’interno che verso l’estero). I “vecchi arnesi” sono ormai parte integrante, reazionaria, dei gruppi dominanti.
In realtà, in ogni paese (o nazione, se si preferisce) vi sono gruppi dominanti dotati di potere (decisionale), che controllano gli apparati statali di cui stiamo parlando; questi sono costantemente in funzione, per nulla superati e riposti in un qualche museo. Il problema è diverso. Esistono complessi (e spesso ben mascherati) legami internazionali tra i vari gruppi decisionali nei diversi paesi. E tali legami assicurano a quelli attivi nei paesi preminenti – oggi sopra tutti stanno gli Stati Uniti – un particolare potere di “influsso” (chiamiamolo così) sui gruppi decisionali di paesi che si pongono in una determinata filiera di potere via via discendente; per cui abbiamo gruppi che potremmo definire subdominanti, subsubdominanti, ecc. fino a quelli via via sempre più subordinati. I gruppi di potere nei vari paesi, anche i più subordinati, hanno pur sempre capacità decisionali nell’ambito degli apparati statali appositamente addetti alla politica, alla strategia, alle mosse da compiere per giungere a certe finalità interne ed esterne. Semplicemente, i loro poteri decisionali si subordinano a quelli dei gruppi dominanti di altri paesi, secondo una gerarchia che muta di fase storica in fase storica; e ha gradazioni differenti anche nell’ambito di ognuna di queste fasi.
Tanto per fare un “banale” esempio, i gruppi decisori italiani sono sempre stati subordinati a quelli statunitensi dalla fine della seconda guerra mondiale. E oggi siamo sempre in quella fase storica iniziata nel 1945, in cui sono stati creati vari organismi per sanzionare la supremazia Usa, fra cui la Nato e poi le varie organizzazioni intereuropee, ecc. Tuttavia, il grado di subordinazione dei gruppi decisori italiani ha avuto un netto scatto in crescita con la fine della prima Repubblica, con la sporca operazione di falsa “giustizia” denominata “mani pulite” e tutto ciò che ne è seguito. E oggi appare in ulteriore continuo accrescimento.
Bene, una volta chiarito questo punto, e dichiarata pura mistificazione la tesi della fine degli Stati nazionali, passerò ad un altro ordine di considerazioni. In effetti, la nostra attuale attenzione ai problemi dell’autonomia nazionale potrebbe sembrare un semplice cambiamento di impostazione teorica. In quanto marxisti, eravamo interessati un tempo alla lotta di classe e al problema dell’abbattimento e trasformazione della società capitalistica; ci siamo oggi innamorati della geopolitica, dell’interazione tra Stati? Oppure siamo stati folgorati da una visione nazionalistica e quindi abbandoniamo ogni discorso di conflitto (in verticale) tra classi per abbracciare quello (in orizzontale) tra comunità nazionali? Non è affatto questa la nostra effettiva posizione.
2. Personalmente, continuo a ritenere importante, in linea di principio, la struttura dei rapporti sociali (rapporti tra diversi gruppi in cui è suddivisa la società). Proprio per questo, malgrado la mia critica non marginale al marxismo, continuo tuttavia ad avere grande attenzione per tale teoria della società. E, sempre in linea di principio, la ritengo più avanzata rispetto all’individualismo tipico delle teorie liberali. Tuttavia, in Marx è fondamentale, nella costituzione di società, la sfera produttiva. Ci si ricordi sempre la sua lettera a Kugelman del 1864 in cui si dice che anche i bambini sanno che, se non si producesse per un breve periodo di tempo, ogni società verrebbe a dissolversi. E’ quindi logico che i rapporti sociali per questo pensatore decisivi sono quelli di produzione. E simili rapporti si annodano intorno al problema della proprietà (potere effettivo di disposizione) o meno dei mezzi produttivi. In base a quest’ultima, Marx distinse, nella società capitalistica, la classe borghese (i proprietari) e quella proletaria (o operaia) solo in possesso della propria capacità lavorativa da vendere in qualità di merce come ogni altro bene circolante nella società in questione. Da qui – corro perché ho scritto in proposito ormai centinaia di pagine – deriva l’ipotesi della dinamica capitalistica che avrebbe condotto infine ad una borghesia assenteista rispetto alla direzione dei processi produttivi, mentre in questa sfera sociale si sarebbe andato consolidando un corpo di produttori associati; dal massimo gradino dirigente fino all’ultimo di carattere esecutivo. Già nel grembo del capitalismo, quindi, si sarebbe formata la condizione base della nuova società socialista, primo gradino di quella comunista.
Nulla di tutto questo si è storicamente verificato; in nessuna delle società a capitalismo avanzato si è mai andato costituendo il “lavoratore collettivo cooperativo” (i produttori associati) così come previsto da Marx. E, soprattutto, le rivoluzioni più radicali si sono avute in società a prevalenza contadina e non operaia. Il cosiddetto socialismo del XX secolo – o quanto meno la “costruzione” dello stesso – si è rivelato essere una società estremamente verticistica, in cui la sfera produttiva era completamente sottomessa alla direzione di quella degli apparati del potere strettamente politico. Non intendo qui diffondermi su che cosa è stata questa particolare formazione sociale venuta a crearsi con le rivoluzioni guidate da partiti comunisti in paesi sostanzialmente precapitalistici. Mi sembra comunque evidente che non si è creata alcuna società socialista nel senso marxiano del termine. Lascio perdere i tentativi di diffondere l’idea (del resto tarda, ultimo sbiadito tentativo di difendere l’indifendibile) che si trattava di un socialismo di mercato.
Di fronte al fallimento storico di un movimento rivoluzionario guidato da una specifica teoria – del resto ormai molto modificata rispetto all’originale e ridotta a pura agitazione di tipo ideologico con presa sempre minore fino al suo azzeramento – ho proposto già da tempo l’abbandono del principio guida della proprietà o meno dei mezzi produttivi, andando invece nella direzione della politica intesa appunto quale conflitto tra le strategie di più gruppi sociali in cerca di una supremazia nel controllo dei vari apparati funzionanti nelle diverse sfere sociali: produttiva, politica, ideologico-culturale. Credo che questo mutamento abbia effetti abbastanza positivi nella considerazione realistica delle lotte sociali sussistenti all’interno della società in cui viviamo; anche perché fa vedere come gli “attori” in conflitto non siano, prevalentemente, quelli attivi nella sfera produttiva, ma vi siano invece svariati rapporti, e spesso piuttosto stretti, tra agenti in opera nelle diverse sfere per la conquista di una supremazia sociale complessiva. Tuttavia, è ovvio che la teoria del conflitto tra strategie non consente alcuna divisione netta tra le classi in lotta, riducendole a due soltanto. E non pone in luce alcuna dinamica, intrinseca all’attuale formazione sociale di tipologia capitalistica, diretta alla sua trasformazione in altra nettamente differente che possa pensarsi quale fase di transizione ad una qualsiasi forma di socialismo o comunismo.
I gruppi sociali, insomma, non possono essere definiti classi nel senso in cui queste erano intese nel marxismo in base al criterio, rivelatosi piuttosto semplicistico, della proprietà o meno dei mezzi produttivi. Inoltre, tali gruppi non possono mai ridursi a due; a meno che il conflitto diventi tanto acuto da spingere vari gruppi ad allearsi tra loro in modo che, alla fine, si trovano a confrontarsi due schieramenti contrapposti, che non saranno mai comunque due classi in lotta, ma due coacervi di gruppi riunitisi per le concrete esigenze “di combattimento” in quella particolare fase storica e in quella determinata formazione sociale, in cui si è prodotto un contrasto così netto e ormai irrisolvibile con semplici mediazioni. Vi è di più. Si possono verificare – per contingenze non riconducibili all’intenzione consapevole di trasformare quella data formazione sociale in un’altra considerata superiore – dei cosiddetti “sollevamenti di masse”, causati dal malcontento e disagio sociale particolarmente acuti, in genere susseguenti all’incapacità ormai manifesta di coloro, che hanno in mano gli apparati del potere, di saperli gestire in modo minimamente appropriato ai bisogni complessivi di quella società. Questi sollevamenti non produrranno mai effetti stabili e di reale trasformazione, se nel loro ambito non agiscono dati nuclei dirigenti di gruppi sociali, che vanno appunto alleandosi e unendosi a fini comuni in risposta alla gravità della crisi provocata dalla suddetta incapacità dei vecchi nuclei al potere.
In ogni caso, sia se si producono, abbastanza raramente, situazioni così estreme sia se ci si trova in una situazione di più “normale” e non sconvolgente conflitto tra strategie per ottenere la supremazia (in base ad esigenze di lungo periodo o invece per risolvere problemi di portata momentanea e d’ambito ristretto), non si è in presenza del semplificato scontro tra dominanti e dominati di cui troppo spesso si blatera. In un certo senso esiste un confronto, più o meno serrato, tra gruppi sociali con maggiori o minori (in certi casi magari nulle) prerogative decisionali. Tuttavia, nel reale conflitto, sempre condotto in base alla politica (cioè secondo varie linee strategiche), si enucleano alcune élites dirigenti, che tendono a rappresentare più gruppi sociali. E anche quando si tratti di gruppi formati principalmente da “non decisori”, le loro dirigenze partecipano comunque, con maggiore o minore forza, alle decisioni sociali di maggiore portata. Esempio tipico ne è la lotta sindacale. I nuclei dirigenti di quei gruppi situati alla base della piramide sociale non sono certo privi di qualsiasi potere decisionale in merito a questioni interessanti l’intera collettività di quel dato paese.
3. Giungiamo adesso al problema centrale che ci interessa. E che ci interessa – almeno per quanto mi riguarda e riguarda, credo, anche coloro che con me hanno dato vita a “Conflitti e Strategie” – proprio in quanto abbiamo dovuto prendere atto del fallimento delle finalità poste al movimento delle cosiddette “masse popolari” da una data concezione dello sviluppo sociale, quella concezione che è appunto il marxismo. Si è dovuto prendere atto che non c’è stata finora alcuna effettiva possibilità di evoluzione dell’attuale società verso strutture di rapporti da definire oltre-capitalistiche. Quello che abbiamo sempre chiamato capitalismo (e così continuiamo a denominarlo) si è andato indubbiamente trasformando profondamente rispetto al suo punto di partenza; o anche semplicemente considerando l’ultimo secolo. Tuttavia, alcuni suoi moduli non si sono modificati; non si è certo giunti al rivolgimento della sua configurazione piramidale caratterizzata dalle concentrazioni imprenditoriali e dal correlato assetto degli apparati politici, fortemente verticistico anche nei paesi dove si ciancia sempre di “democrazia parlamentare” e si esaltano le periodiche “chiamate al voto”, che si fanno passare per espressione genuina della “volontà popolare” in grado di governare gli affari del paese, sempre invece nella sostanza affidati a contrapposizioni tra date élites.
Intendiamoci bene. Nessuno di noi svaluta quelle lotte sociali che mirino a migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle più vaste “masse” situate nei gradini medi e bassi della piramide sociale. E dobbiamo ammettere che oggi, anzi, quelle lotte stentano perfino a mantenere vecchie “conquiste” in tema di benessere. Di conseguenza, un rilancio di queste lotte sarebbe senz’altro visto da tutti noi con estremo favore. Tuttavia, dobbiamo rilevare alcuni semplici fatti. Simili lotte diventano sempre più difficili, sono viepiù spezzettate e condotte spesso in modo da lasciare largo spazio a quella divisione tra strati sociali medio-bassi che favorisce i vertici della società (il ben noto “dividere per imperare”). E’ però un caso che ciò avvenga? E soprattutto nella presente fase storica (che dura da due-tre decenni)? Non posso dilungarmi nella considerazione delle condizioni storiche che avevano consentito un qualche elevamento della posizione degli strati sociali in questione. Noto solo che l’attuale peggioramento di tale posizione dimostra a iosa come non si fosse compiuto alcun decisivo passo in direzione dell’indebolimento di quella società denominata capitalismo.
Si è dovuto constatare un fatto ancora più rilevante per le nostre convinzioni ideologiche (e anche teoriche). Sia l’iniziale successo (relativo) di certe lotte sociali, sia la loro crescente irrilevanza attuale, sono fondamentalmente dipesi dalla predominanza di fatto che sempre hanno mantenuto gli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale in poi. Credevamo che il mondo bipolare fosse un contrasto tra capitalismo e socialismo. Siamo stati messi in crisi dalla rottura tra Urss e Cina, ma non abbiamo interpretato correttamente (e non sappiamo farlo ancora adesso) che cosa in realtà fosse accaduto. Abbiamo preso il successo di certe lotte anticoloniali (vedi Vietnam) come si trattasse di un allargamento del campo “socialista”; un allargamento durato l’espace d’un matin, con conflitto tra Vietnam e Cina e poi il progressivo spostarsi di quel paese verso l’orbita statunitense (sia pure dopo il crollo dell’Urss, che comunque non è stato un caso “sfortunato”). Oggi dobbiamo prendere atto – in una considerazione di più lungo periodo; ed è su questo che la storia deve essere “misurata” nei suoi effettivi andamenti – che gli Stati Uniti sono stati sempre il perno più solido dell’andamento degli affari mondiali.
In definitiva, è ora di ammettere infine che non esiste più da molto tempo (ammesso che sia mai esistita nei termini pensati dai marxisti) la lotta di classe su cui tante speranze erano un tempo riposte. Non esiste soprattutto un antagonismo tra due grandi blocchi sociali alternativi, foriero di trasformazioni anticapitalistiche. Nei paesi a capitalismo sviluppato – che ha conosciuto varie trasformazioni da giudicarsi interne a quel certo “modulo” sociale – si sono verificati contrasti, anche assai forti a volte, che sono sempre stati di tipo redistributivo; soprattutto di reddito, in parte anche di potere. E’ tuttavia mancato proprio l’effetto che alcuni attribuivano a tale conflitto, la trasformazione in senso anticapitalistico. Chiunque ancora ne parli – ormai alcuni rimasugli di dementi – va proprio ignorato. Ripeto che questo tipo di lotte va appoggiato proprio per quello che può al massimo conseguire: la difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei ceti medio-bassi, oggi in deciso peggioramento. E sempre con la precisa consapevolezza che simili conflitti sono diretti da determinati gruppi dirigenti politici e sindacali, i maggiori beneficiari degli eventuali risultati positivi dello scontro.
Cosa invece si nota nettamente nell’attuale fase storica? I conflitti più acuti e più significativi sono quelli tra Stati. Di conseguenza, diventa in un certo senso scopo preminente seguire gli eventi di quella che è la politica internazionale, l’interrelazione tra i diversi Stati, lo stabilirsi di determinati rapporti di forza tra essi, il loro eventuale modificarsi i cui effetti ricadono immediatamente anche sull’andamento dei sistemi economici. Tuttavia, abbiamo già ricordato come gli Stati siano un insieme organico di svariati apparati, di cui alcuni sono quelli adibiti all’effettivo uso del potere (mentre altri hanno un carattere più propriamente amministrativo, diciamo così). E’ allora rilevante la comprensione dei contrasti in atto tra quei gruppi d’élite che si battono per il controllo e l’uso di tali apparati. Poiché questo “battersi” è appunto la politica, è un intreccio tra differenti strategie svolte per conquistare la supremazia, i gruppi d’élite (se tali sono effettivamente) debbono essere strettamente correlati con dati nuclei in cui si elaborano le strategie. E poiché le mosse della politica mirano al successo nell’ambito di uno scontro tra le varie élites, la segretezza è d’obbligo; e ogni venir meno della stessa o è una di queste mosse o è lo sgretolamento della “copertura” (lo sbucciarsi della “corteccia”) dovuto ad un acuirsi del combattimento tra due o più “attori”.
Del resto ho già ricordato un fatto ben noto a chiunque segua minimamente le vicende politiche. Non esistono élites dirigenti dei gruppi sociali nei diversi paesi, che non siano variamente interrelate tra loro in senso economico, politico, culturale. E certamente nel nostro paese, e più generalmente in tutti i paesi europei, in misura maggiore o minore queste élites sono strettamente collegate con quelle statunitensi, ponendosi nei loro confronti in una situazione di maggiore o minore subordinazione. In questo senso, gli Stati Uniti sono ancor oggi il centro di un ampio sistema mondiale di paesi; in particolare, hanno la guida, per quanto a volte appena mascherata, dell’intera UE che, come già detto, è in definitiva un’organizzazione parallela a quella della Nato. E’ impossibile seguire le vicende politiche interne di un qualsiasi paese europeo senza tener conto dei rapporti di subordinazione rispetto al paese predominante. Questo è particolarmente valido per l’Italia, paese la cui subordinazione è di alto livello e va crescendo. E continuerà a crescere per quanto diremo subito appresso.
4. Con quanto appena sostenuto, sia pure succintamente, abbiamo svelato il “segreto” della nostra pretesa preferenza per la geopolitica e per il tema dell’indipendenza o autonomia nazionale. Abbiamo semplicemente preso atto della fine della mitica lotta di classe e constatiamo che attualmente sono in ribasso anche le lotte sindacali per la semplice “redistribuzione”, nel tentativo di evitare l’arretramento delle cosiddette “conquiste sociali” di alcuni decenni fa. Dopo circa mezzo secolo di mondo bipolare e con i pericoli, spesso esagerati e montati a bella posta, relativi alla “guerra fredda”, si è avuto il “crollo” del campo sedicente socialista ed è sembrato che ci si avviasse verso una sorta di monocentrismo Usa. La sensazione è durata poco e ormai, malgrado sia ancora predominante quel paese, pare assai probabile che ci si avvii intanto verso un multipolarismo per quanto ancora imperfetto. Il caos nel mondo va accentuandosi come sempre avviene in epoche del genere; più volte ho fatto il paragone con la fine del secolo XIX.
In una situazione simile, è del tutto evidente un crescente impegno degli Stati Uniti per accentuare la presa sull’Europa e scongiurare quanto indubbiamente sembra serpeggiare al suo interno con il rafforzarsi di movimenti detti “euroscettici”; per quanto essi sembrino ancora abbastanza deboli. Il “Trattato transatlantico” (TTIP) dal punto di vista economico (che ha sempre riflessi politici), gli sconvolgimenti, più o meno ben riusciti, suscitati nel Nord Africa e in Medioriente, la crisi ucraina (dopo il primo approccio in Georgia), l’impulso dato alle organizzazioni islamiche “estremiste” poi ovviamente combattute (con forti ambiguità e senza ancora una conclusiva decisione; e qualche perplessità la nutro pure intorno alle mosse russe), le situazioni estremamente confuse e di sostanziale stallo (pur assai sanguinoso) in Libia e Siria, così come altre egualmente poco chiare (in Egitto come in Turchia o Iran, ecc.), sono operazioni che avranno certo motivazioni legate ai rapporti di forza nelle aree interessate; e tuttavia non vi è dubbio che il principale obiettivo degli Stati Uniti è, in ultima analisi, il mantenimento della presa in Europa e l’isolamento massimo possibile della Russia.
Se veniamo al nostro paese, credo che esso sia massimamente importante per le suddette finalità perseguite dagli Stati Uniti. La posizione geografica dell’Italia è in tutta evidenza significativa per le operazioni nelle aree investite, non sempre direttamente, dagli Usa (con l’Amministrazione Obama ci si è largamente serviti di “sicari”). Tuttavia, con l’operazione “giudiziaria” che mise fine alla prima Repubblica (solo dopo il crollo del campo “socialista”) si è reso del tutto manifesta la funzione che a noi spetta nelle intenzioni americane di tenere strettamente agganciata l’Europa. Dobbiamo essere decisamente affermativi in proposito. L’Europa è l’area in cui ancora si giocheranno i destini del probabile prossimo scontro policentrico per conquistare una nuova centralità preminente (uno scontro non temporalmente vicino, meglio essere espliciti in proposito). E l’Italia è paese fondamentale per il controllo europeo. Ci sono forti tendenze – a mio avviso tutte ben finanziate da chi di dovere – a sostenere l’ormai irreversibile decadenza europea e la crescente irrilevanza italiana.
Se con questo si vuole sostenere che mai si era visto in quest’area e in questo paese un degrado sociale (e culturale) come quello odierno, siamo d’accordo. Tutto questo avviene però proprio perché l’Europa (e, al suo interno, l’Italia) sono aree di importanza decisiva per gli Usa nel loro tentativo di restare preminenti; anzi di arrivare un giorno a porsi in una situazione di sostanziale monocentrismo, magari attraverso un futuro regolamento generale di conti. In questa fase, la pressione Usa sul nostro paese è massima, anche se non viene solitamente rilevata perché ovviamente non si esprime con le vecchie modalità coloniali. Di conseguenza, nella presente fase storica di non breve momento, chiunque straparli di lotta anticapitalistica, inganna scientemente quelle minoranze che cominciano a rendersi conto della situazione di degrado e sfascio sociale (e anche istituzionale), in cui ci hanno condotto le forze politiche padrone dell’andamento degli “affari” nel nostro paese.
Non ci sono per nulla prospettive di superamento del capitalismo in Italia (e in Europa); e nemmeno si saprebbe in che direzione si dovrebbe andare in una simile fantasiosa prospettiva. Ripeto che nessuno (di noi) si oppone a che i ceti medio-bassi difendano le proprie condizioni di vita aggredite dal potere esistente. Questo però non significa abbattere il capitalismo (e di quale si sta parlando, del resto, se non a vanvera?). E non c’è nessuna difesa possibile se restiamo un paese governato da élites che si pongono nella relazione di subordinazione rispetto a quelle del paese predominante. E’ di una evidenza palmare che il primo passo da compiere è (diciamo sarebbe) togliere il governo ai servi del potere statunitense. E vorrei essere preciso. Quando parlo in questo contesto di governo non mi riferisco soltanto a quelle forze politiche che hanno in mano la direzione dell’Italia. Valuto negativamente pure le sedicenti opposizioni, invischiate in quel gioco elettorale che fa dimenticare ogni problema di reale potere, con il mero scopo di conquistare favori nell’“opinione pubblica” onde migliorare la propria posizione all’interno dell’attuale struttura politica, comunque sempre subordinata alla predominanza degli Stati Uniti.
Ecco allora spiegato perché è indispensabile battersi oggi per l’autonomia nazionale. E per porsi in quest’ottica, è necessario dedicare i nostri sforzi soprattutto all’analisi degli intrecci internazionali tra i vari paesi; nelle loro filiere di predominanti, subdominanti, subsubdominanti….ecc. fino alle ultime propaggini della subordinazione, laddove siamo tutto sommato situati noi italiani. E mi sembra lampante che passi in avanti di questa autonomia sarebbero favoriti dall’affermarsi crescente della tendenza al multipolarismo. Quindi ci si deve battere per il rafforzamento delle relazioni – non solo economiche, bensì proprio politiche e di collegamento tecnico-scientifico e di “Informazione” e magari anche militari – con i paesi che hanno maggiori prospettive “oggettive” di ergersi quali antagonisti degli Stati Uniti; e fra questi, a mio avviso, il principale è la Russia. Nessuna particolare simpatia per questa e nessuna particolare antipatia per gli Stati Uniti. Semplicemente, è necessario battersi per l’accentuarsi del multipolarismo e, dunque, per la nostra autonomia. Multipolarismo e indipendenza sono in relazione biunivoca. E sono il primo compito per la fase attuale.
5. C’è poco da aggiungere, io credo. Ritengo auspicabile – nella fase storica che viviamo e che non sarà di breve momento – una politica tesa all’autonomia dei paesi europei rispetto a quello ancora oggi preminente, pur se a mio avviso procediamo, in modo certo non lineare e continuo, verso una situazione multipolare. Qualcuno potrebbe obiettare che sarebbe bene allora battersi per una profonda revisione dell’attuale organizzazione dell’Europa Unita in modo da ottenere l’effetto voluto. Credo che ci si avvierebbe lungo una strada fallimentare. La UE non mi sembra affatto riformabile per come è nata e si è andata configurando sulla base dell’accettazione di una chiara subordinazione – sia pure con accenti diversi nei vari paesi – agli Stati Uniti. Mi sembra anche non molto chiara l’agitazione di alcuni movimenti per l’uscita del proprio paese dalla UE e dall’euro.
Il problema centrale è la lunga subordinazione che, soprattutto i più sviluppati paesi europei (quelli “occidentali”), hanno dovuto subire rispetto agli Usa. Bisogna invertire questo processo – economico, politico, culturale – di subordinazione. Per far questo, nei vari paesi europei devono crescere movimenti consapevoli della difficoltà e complessità di tale compito, che comporterà infine la necessità di abbattere con energia i governi del servilismo. E’ un processo che va sviluppato all’interno dei vari paesi; e che, se avrà successo, lo avrà in modi e tempi specifici per ognuno d’essi. Ogni movimento dovrà rispettare le caratteristiche del proprio paese, delle proprie popolazioni (e, in questo senso, tornerà utile anche l’analisi delle differenti strutture dei rapporti sociali).
I movimenti di autonomia devono senza dubbio ricercare il reciproco collegamento nel contesto europeo, ma senza mai dimenticare le differenze del proprio paese rispetto agli altri; pena il diffondersi di una nuova “mistica” europeista che ha già prodotto in passato i guasti che vediamo oggi sotto i nostri occhi. E’ stata proprio la propaganda di questa idea di una generica Europa unita a consentire il prevalere nella nostra area di élites dirigenti che – oggi finalmente è venuto in chiara luce – si sono piegate, spesso con pingui finanziamenti, agli intendimenti e voleri degli Stati Uniti. Alcuni si saranno anche “venduti”, ma altri hanno superficialmente creduto che, come si erano fatti gli Stati Uniti d’America, si potessero fare quelli d’Europa, i cui paesi hanno ben più complessa e “antica” storia.
Ulteriore problema. Malgrado molti paesi europei siano economicamente piuttosto avanzati, è altrettanto evidente la loro debolezza politica e – perché voler essere pacifisti ad oltranza – bellica. Ogni movimento che si batta per l’autonomia del proprio paese – lo ripeto ossessivamente, autonomia soprattutto in direzione degli Usa – dovrà non soltanto cercare i collegamenti con i propri simili europei, bensì sviluppare precise politiche verso est; in particolare nei confronti della Russia. Inutile nascondersi che simili politiche potrebbero un giorno provocare il passaggio dalla tendenza multipolare all’affermarsi di un reale policentrismo conflittuale, con tutti i rischi che ben conosciamo dal XX secolo. Se si teme questo, è inutile mettersi sulla strada dell’autonomia; si resti subordinati come lo si è adesso.
E veniamo così all’ultimo punto. Ci sono molti sciocchi che credono ad un’Italia di benessere diffuso sulla base del turismo, sfruttando i suoi mari blu, i cieli azzurri, le cosiddette bellezze paesaggistiche (come se altrove mancassero), i suoi cibi (che nemmeno gli italiani più giovani sanno ormai apprezzare); e altre litanie del genere. Se l’Italia rimane a questo livello, resterà pure tranquillamente subordinata; e avvizziranno progressivamente in essa tutti quei settori che consentono il maggiore sviluppo di un qualsiasi paese nell’epoca moderna (a meno che non si tratti di quei paeselli, magari isole, che sono piccole oasi per i “ricchi del mondo”). E mancando l’autonomia e il tipo di sviluppo ad essa connesso, inutile anche pensare a chissà quali possibilità di lotta sociale per difendere le proprie condizioni di vita, soprattutto da parte dei già più volte ricordati ceti medio-bassi.
Lasciamo perdere per favore la lotta anticapitalistica; abbiamo una concezione arretratissima di capitalismo, ancora primonovecentesca se va bene. Non abbiamo assolutamente l’idea di quel che dovrebbe essere una società non più capitalistica (a parte le ubbie anti-grande finanza diffuse oggi). Ho però sostenuto che è approvabile la resistenza dei ceti meno abbienti di fronte ad un chiaro peggioramento delle prospettive nei nostri paesi detti avanzati. E’ bene mettersi in testa che in un periodo di multipolarismo in accentuazione, si amplifica il “caos” nelle relazioni internazionali; e non solo politicamente, ma pure economicamente. In poche parole, quella che chiamiamo crescita (aumento del Pil) non conoscerà andamenti travolgenti per molto tempo. Molti finalmente cominciano ad arrivare a simili conclusioni. Tuttavia, la debole (o nulla) crescita non impedisce uno sviluppo, cioè un miglioramento di certe strutture sociali e l’arresto del progressivo smantellamento delle “conquiste” ottenute già da tempo.
Tuttavia, non vi sarà nulla di tutto questo se si cede sul punto dell’autonomia propria, dello sviluppo di settori innovativi che la subordinazione invece sacrificherà sempre più. Cari “amici delle lotte sociali”, volete che possano essere ancora condotte almeno in un certo grado? Ebbene, battetevi per l’autonomia del paese rispetto all’attuale piatta subordinazione agli Stati Uniti. Battetevi per una diversa politica internazionale. Invece di fissarvi sul superamento del capitalismo (che si supera da solo in sempre nuove forme che vi lasciano poi a mani, e testa, vuote), concentratevi sull’attuale evoluzione dei rapporti di forza tra Stati (paesi), in modo da giocare nel suo ambito con opportune politiche di “nuove alleanze” al fine di non veder peggiorare gravemente le condizioni del vostro paese e, dunque, dei ceti sociali in esso meno favoriti.
E con questo fervorino finale, veramente Amen.

GLOBALIZZAZIONE E STATI NAZIONALI _ I fondamenti dell’idea di nazione a partire dal punto di vista del pensiero liberale e del decisionismo giuridico, di Mauro Tozzato

I fondamenti dell’idea di nazione a partire dal punto di vista del pensiero liberale e del decisionismo giuridico, di Mauro Tozzato
Già apparso sul sito di www.conflittiestrategie.it terza parte del seminario di Bologna su Globalismo e Stati Nazionali, tenutosi a metà aprile ad opera del gruppo di www.conflittiestrategie.it del quale hanno fatto parte Giuseppe Germinario e Luigi Longo

Bozza preparatoria per l’intervento al seminario di Bologna rielaborata con alcune aggiunte.
La tradizione del liberalismo continentale europeo trova nella conferenza su La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni di Benjamin Constant, tenuta nel 1819 all’Ateneo di Parigi il suo manifesto classico fondativo. Per quanto riguarda l’aspetto concernente la tematica della nazione e quindi gli elementi storico-genetici che connettono le idee liberali alla tradizione del costituzionalismo giuridico un ruolo altrettanto decisivo è svolto dal testo della conferenza di Ernest Renan alla Sorbona, del 1882, dal titolo Qu’est-ce qu’une nation? All’inizio Renan elenca le varie tipologie di formazioni storico-politiche a partire dai “grandi agglomerati” come gli antichi imperi orientali caratterizzati da una centralizzazione dispotica; seguono i “gruppi tribali” come gli Ebrei e gli Arabi, le città-stato (polis), gli imperi plurinazionali, le comunità religiose e quelle etno-linguistiche ed infine gli Stati-nazione moderni con le varianti delle loro aggregazioni in federazioni e confederazioni. Il punto di partenza del suo discorso si basa sull’affermazione che l’etnia, intesa come ethnos e come “razza”, non definisce quell’entità coesa determinata territorialmente come insieme di individui (popolazione) che chiamiamo nazione. I gruppi etnico-linguistici non si identificano con i “popoli realmente esistenti”. Il periodo antico e medioevale europeo caratterizzato dalle scansioni che, a partire dalla caduta dell’Impero romano d’occidente, hanno poi visto la “restaurazione” di Giustiniano e l’ascesa e il declino del Sacro Romano Impero carolingio trova la sua risoluzione con l’avvento delle monarchie nazionali assolute agli albori della modernità. A quel punto
<<l’Europa occidentale (e poi anche il resto d’Europa) appare divisa in nazioni [Stati-nazione].>>
Questo tipo di formazione politica appare, quindi, a Renan come un fatto sostanzialmente nuovo, a partire dal quale si è creato un contesto nel quale ogni struttura sovrana territoriale-popolare ha stabilito relazioni conflittuali con le altre, senza che nessuna di esse fosse in grado di assumere una stabile supremazia. Gli imperi asiatici – tra i quali, a partire da Hegel, poteva essere incluso anche l’antico Egitto e la civiltà degli Incas – erano invece
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In queste società secondo lo schema hegeliano “uno solo era libero” anche se l’assoluta “trascendenza” dell’Imperatore era importante prevalentemente a livello simbolico per garantire e mantenere l’unità del corpo politico e l’assoluta centralizzazione della comunità “organica” così costituita. In questa struttura avevano, infatti, un ruolo fondamentale i funzionari amministrativi (scribi e sacerdoti) ed esecutivi (nobili e guerrieri) attraverso i quali si pianificavano le attività economico-produttive e la redistribuzione dei beni prodotti. Nell’antichità classica greco-romana la partecipazione dei cittadini (individui liberi) alle faccende politiche, secondo Renan, aveva portato alla sostanziale mancanza di uno stabile apparato amministrativo fino all’avvento delle istituzioni imperiali a Roma. In precedenza le repubbliche e monarchie municipali e le confederazioni di repubbliche locali avevano garantito la più grande partecipazione del popolo agli affari pubblici ma anche una debole coesione dell’apparato amministrativo-burocratico. Prima dell’Impero romano l’Europa occidentale era formata da “agglomerati di popolazioni, spesso coalizzate tra loro, prive di istituzioni centrali e dinastie”. Solo con l’Impero di Roma ci si avvicinò alla formazione di qualcosa che poteva essere definita “patria”. La “dominazione romana” portò così, dopo le guerre di conquista, a
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Ma un impero esteso come quello romano non poteva portate alla formazione di uno Stato, nel senso moderno del termine. Il vero cambiamento ebbe inizio a partire dalle invasioni germaniche che stabilirono i due fondamentali pilastri del sistema dinastico e del predominio di una aristocrazia militare. Il sistema feudale, con lo spezzettamento del territorio in piccole unità economico-politiche quasi autonome, impedì lo stabilizzarsi delle prime formazioni statali. La Francia, la Burgundia, la Lombardia, la Normandia e poi l’Impero franco-carolingio vissero perciò, nell’Alto Medioevo, una persistente situazione di instabilità e di crisi. Ma piano piano, attraverso questo travagliato processo, presero forma i primi embrionali coaguli che avrebbero portato agli Stati-nazione assoluti di Francia, Inghilterra e Spagna e successivamente – con il superamento della Respublica Christiana e il declino dell’Impero e della Chiesa come entità almeno formalmente sovra ordinate agli Stati – anche all’unificazione di Germania e Italia. Renan poi contrappone il processo che caratterizzò l’Impero turco-ottomano – in cui convivevano Turchi, Slavi, Greci, Armeni, Arabi, Siriani e Curdi e in cui non si realizzò mai una autentica integrazione perché le identità linguistiche e religiose mantennero sempre la loro autonomia seppure, in alcuni periodi, in un clima di sostanziale reciproca tolleranza – a quello che si manifestò nell’occidente cristiano. In occidente, infatti, i vincitori, per lo più, adottarono la religione dei vinti: il cristianesimo. I conquistatori spesso rinunciarono anche alla loro identità linguistica così che in Italia, Francia e Spagna adottarono un “idioma romanzo”. Tra i barbari conquistatori le donne erano in netta minoranza e alla lunga questo risultò un fattore importante di integrazione. In Inghilterra, viceversa, i matrimoni misti risultarono meno necessari e anche il latino non si diffuse molto tra i popoli invasori. Renan ritiene che in Francia nel periodo successivo al regno di Ugo Capeto le differenze etniche avessero perso quasi tutta la loro importanza e i “francesi” si differenziassero prevalentemente in verticale con i due estremi rappresentati dai nobili e dalla plebe rurale. Anche nelle zone oggetto delle conquiste normanne si verificarono fenomeni di rapida integrazione etnica sotto la guida di un ceto nobiliare particolarmente portato alla guerra e ad enfatizzare il patriottismo. La progressiva diffusione di una mentalità che giustificava ed accettava come necessari i fatti di violenza, i conflitti e le guerre che erano stati alla base della fondazione dei nuovi Stati portarono progressivamente alla formazione di una cultura nazionale con la relativa mitizzazione degli eventi fondativi. In maniera realistica bisogna riconoscere che la tirannia e la giustizia sono entrambe necessarie per la nascita e la durata degli stati. Viceversa l’enfatizzazione delle identità religiose come nel caso dell’Impero turco-ottomano ha portato alla rovina del Medio Oriente. L’impero asburgico, invece, bastione di frontiera tra l’occidente e l’islam, ha mostrato la sua debolezza nella persistenza di tradizioni, linguaggi e costumi (ethnos e ethos) diversificati tra le sue varie nazionalità: tedesca, boema, ceca, magiara, slava e austriaca. Comunque all’origine della creazione delle varie identità nazionali sono risultate decisive dinamiche politico-militari del tutto contingenti mentre nei casi in cui è prevalsa la disgregazione è stata la frammentazione etnica, linguistica e religiosa che ha determinato il fallimento di quel processo che avrebbe portato alla costituzione di un blocco nazionale coeso. Ma in definitiva
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Alcuni teorici della politica affermavano che
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In molti casi, afferma Renan, il vincolo che mantenne uniti per un periodo più o meno lungo vincitori e vinti risultò essere quello dinastico ovverosia, specifichiamo noi, una egemonia connessa al prestigio di una élite dominante detentrice di strumenti di coercizione militare. Ma non sempre è così: Svizzera e Stati Uniti che si sono formate come agglomerazione di aggiunte successive non “hanno alcuna base dinastica” e comunque gli Stati-nazione consolidati ed economicamente e culturalmente coesi riescono, per lo più, a sopravvivere alle crisi “dinastiche”. Con il XVIII secolo, poi, la patria e la cittadinanza, in se stesse, divengono elementi decisivi di identificazione e coesione nazionale: il diritto “dinastico” lascia progressivamente posto al principio nazionale. Su che cosa risulta fondato allora il principio e il diritto nazionale? Sappiamo bene che spesso si è messo in primo piano il “criterio etnico”. Il principio etnico può portare a guerre di conquista verso territori abitati da “consanguinei” ma, osserva lo studioso francese, “il diritto primordiale delle razze è un errore gravissimo”. E difatti già con l’Impero romano il principio etnocentrico era stato falsificato: fondata dalla violenza, mantenuta dall’interesse, la Pax romana era diventata una unione di cittadini e stranieri tenuti assieme da un ordinamento giuridico universalistico. Ad esso si aggiunse il cristianesimo con il principio della eguale dignità e “personalità” di tutti gli esseri umani di fronte a Dio. Neanche le invasioni barbariche né Carlo Magno seguirono il principio etnico. Queste formazioni pre-statuali erano basate sui rapporti di forza e infatti la Francia dei capetingi e altre grandi nazioni si sono sviluppate proprio negando le identità dei numerosi gruppi etnici che le avevano originariamente popolate. Ogni gruppo etnico, tra l’altro, è una famiglia ben distinta nella specie umana che, però, si costruisce effettivamente solo nella storia, come unità culturale e linguistica. Rispetto a questa il rapporto stabilito dal legame biologico (fisiologico, genetico) appare incerto e sostanzialmente indecifrabile.
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Anche la “lingua” comune invita ma non forza ad unirsi, come nel caso dell’America Latina e della Spagna oppure di Stati Uniti ed Inghilterra, mentre in alcuni Stati, tipo la Svizzera, possono coesistere anche tre o quattro idiomi. La volontà, la volontà “di stare insieme”, è superiore alla “lingua” a patto che non vengano prese iniziative che mirino ad una unità linguistica forzata. Le “lingue” non stanno in corrispondenza diretta con le etnie: “le lingue sono formazioni storiche che non c’entrano con l’unità di sangue”. Così scrive Renan:
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L’approccio universalistico liberale-borghese si esprime nella convinzione che prima della cultura nazionale c’è la “cultura umana”. Per quanto riguarda le religioni e i riti essi all’inizio erano legati alla famiglia, poi alla città e allo Stato; a Roma la religione di Stato divenne un problema politico e chi la attaccava veniva perseguito e perseguitato. A partire dalla modernità e dalla Riforma la religione è diventata una “questione personale, riguarda la coscienza di ognuno”. La comunanza di interessi non costituisce una nazione e lo Stato che ne comprende una o più d’una (comunità), se è un vero Stato, non è, quindi, soltanto una unione commerciale. Nemmeno la geografia e i confini naturali stabiliscono un criterio fondante per la costituzione di una realtà nazionale ma essi vengono, a volte, usati come una scusa per intraprendere azioni politiche e militari determinate da strategie che hanno lo scopo di accrescere la potenza.
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Il principio “spirituale” che si chiama nazione sussiste perché è presente una comune
<<eredità di ricordi e il desiderio di vivere insieme, la volontà di mantenere indivisa l’eredità ricevuta e le glorie del passato da prolungare nel futuro>>.
Una coesione culturale, di mentalità (ideologia) e modi di vita è quella che costituisce la nazione in senso etico-politico mentre solo in un secondo tempo si può valutare l’importanza di dogane in comune, frontiere conformi ai principi strategici, “razza, “lingua”. Una autentica nazione si fonda sulla solidarietà per i sacrifici compiuti e per quelli da compiere e sul consenso per mantenere questi impegni e restare uniti. Ma i gruppi esterni o esterni allo Stato rimangono uniti o vengono attratti da esso solo se gli abitanti di un territorio, mediante un voto, manifestano la loro volontà in questo senso. Renan pensava che gli Stati-nazione europei potessero evolvere verso una forma confederale ma, con una sorta di preveggenza, nutriva forti dubbi sul valore e sui risultati di simili iniziative. Gli Stati-nazione devono tutelarsi contro i propositi di secessione arbitrari; in questo senso, mi sembra, egli ritiene che essi debbano risultare legittimi, ovverosia conformi a norme universali di diritto e quindi non sottoposti a decisioni che, seppure prese legalmente, sulla base di iniziative della maggioranza della popolazione, vengano determinate da umori contingenti di forze sociali manipolate e manipolabili. Enfatizzando l’elemento etico Renan ripete:
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Essa è, pur tuttavia, anche identificabile tramite una popolazione che risiede permanentemente in un determinato territorio così che l’appartenenza di un suolo ad un determinato popolo, per tradizione, sarebbe un fattore determinante dell’identità nazionale.
Secondo il filosofo e studioso Mario Albertini la nazionalità si fonda sulla fedeltà e sulla “identificazione” degli individui con essa. Esisterebbe una “nazionalità naturale” legata al territorio e alla “lingua” e una “nazionalità artificiale” basata sull’attaccamento al territorio, alla lingua e alle origini comuni e fondamentalmente tesa a svilupparsi in un area più vasta della prima. Albertini partiva da una ideologia di tipo federalista che ipotizzava una “supernazionalità” spontanea dei popoli a partire dalla Respublica Christiana del medioevo e dalla successiva cosiddetta “repubblica europea dei letterati”. In realtà il principio federale e confederale è sempre subordinato a quello statuale: esso ha valore soltanto quando è inserito in una formazione politica coesa capace di esercitare egemonia, “ordine” e “sicurezza” all’interno e forza espansiva verso l’esterno.
Mises osserva che, in Renan, Nazione e Stato risultano praticamente sinonimi. La nazione nasce dalla volontà degli uomini di vivere insieme in uno “stato” comune, ovvero dal diritto inalienabile delle popolazioni di decidere autonomamente del proprio destino. Ma il diritto all’autodeterminazione di cui parla Renan non è un diritto all’autodeterminazione delle comunità linguistiche bensì degli individui. In ossequio ai fondamenti del liberalismo Renan non dà peso alle minoranze e alle migrazioni nazionali, ma, piuttosto, alla volontà di un popolo, che pur risultando delimitato da una autorità statuale, può essere inteso sempre e solo come una somma di “liberi individui”.
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Nel suo saggio Appropriazione/Divisione/Produzione del 1953 Carl Schmitt inizia con alcune precisazione etimologiche e terminologiche. Le parole tedesche Nehmen e Teilen hanno il significato rispettivamente, a partire dal fatto dell’appropriazione, di “prendere” e “divisione” con riferimento al concetto di “partecipazione”. Weilen, invece, rimanda all’idea di “produzione”, a partire del significato arcaico di “pascolare”, con allusione ad un originaria economia nomade riferita alla tradizione germanica antica. Il termine greco Nomos si riferisce normalmente alla nozione di “legge”, come legge scritta oppure come costume e/o consuetudine; la parola si oppone anche a Physis in quanto caratterizzante ciò che ha “valore”. In quanto derivata dal verbo Nemein la parola Nomos ha, però, le sue radici in un concetto almeno apparentemente molto diverso come “prendere”, “conquistare” e da qui il suo collegamento con il termine tedesco Nehmen. L’associazione del verbo Nemein e di Nomos, secondo Schmitt, può essere collegata, per analogia, a Legein e Logos, con i loro corrispettivi tedeschi Sprechen e Sprache, i cui significati sono traducibili sostanzialmente con “parlare” e “lingua”. Il Nomos sembra possa essere letto, perciò, come la “parola” che sanziona e stabilisce formalmente il momento dell’appropriazione e della conquista. Così Schmitt afferma:
<>.
Dal verbo greco Nemein – e dalle parole tedesche Nehmen, Nahme – nel senso di cui sopra proviene, in secondo luogo, lo “spartire”, il “dividere” (Teilen) e da questo anche il “distribuire” e, in ultima istanza, il “giudizio” come “fatto” sociale (Ur-Teil) ed il suo risultato. Schmitt introduce, poi, una lunga citazione da il Leviatano di Hobbes:
<>.
Ma, in terzo luogo, da Nemein deriva ancora la nozione del coltivare/produrre (Weiden), del lavoro produttivo fondato sulla proprietà personale. La giustizia commutativa (l’acquisto, lo scambio) e quindi l’eguaglianza formale degli attori nel mercato presuppone una proprietà che nasce, secondo uno schema che rimanda al diritto naturale, da una divisione “primitiva” coordinata con una corrispondente produzione. Da Nemein “derivano”, quindi, i fenomeni economico-sociali del coltivare, dell’agire economicamente, dell’utilizzare, del produrre così che si può dire che in ogni ordine giuridico e sociale organizzato politicamente si è preso, diviso e prodotto. Questi atti sociali sono il fondamento – in un approccio, diverso da quello schmittiano, denominato comunemente col termine “istituzionalismo” – di quell’agglomerato di istituzioni reali ed effettive che vengono tenute assieme dal potere statuale e che sono caratterizzate da un corpo sociale, da una organizzazione gerarchica e da un sistema normativo disciplinante il funzionamento delle istituzioni stesse. Comunque, a questo punto, Schmitt si domanda:”Dove e come si svolgono gli atti del prendere, dividere e produrre?” Fino al XVIII secolo e alla Rivoluzione Industriale si pensava che l’appropriazione dovesse precedere la “divisione” e la produzione. L’appropriazione veniva intesa come un atto eminentemente politico: essa si presentava come guerra verso l’esterno e come messa al bando, privazione di diritti, spoliazione nei conflitti interni ai vari corpi politici statuali. Essa si presentava come una serie di azioni esercitate tramite la forza coercitiva e, quindi, come un processo non particolarmente differente da quello che caratterizzava l’accumulazione originaria vista all’interno della teorizzazione marxiana. Successivamente, secondo Schmitt, tutti gli ordinamenti e i rapporti giuridici concreti che conseguivano all’acquisizione della terra “sorgono solo dalla divisione, dal mio e il tuo delle stirpi, tribù, gruppi e individui”. Nell’antichità e nel medioevo anche la “divisione” si presenta come un atto di forza, nella forma di guerre e conquiste spesso determinate nel loro risultato dalla “sorte” e culminanti in un ideale “giudizio di dio”. A proposito del colonialismo e dell’imperialismo Schmitt riferisce che per Chamberlain essi rappresentavano la soluzione della questione sociale mentre in Lenin l’appropriazione così intesa doveva essere considerata come un atto di predazione e usurpazione. In maniera corrispondente il socialismo viene qui inteso, non del tutto scorrettamente dal suo punto di vista, secondo una formula pseudo-leniniana che l’interpretava come “sviluppo delle forze produttive, pianificazione ed elettrificazione”. Liberalismo e socialismo darebbero il primato, entrambi, alla produzione e alla distribuzione. Lo sviluppo delle forze produttive “libere”, o “centralizzate”, comporterebbe un aumento tale della produzione, e quindi della massa dei beni di consumo, che porrebbe termine ai conflitti “violenti” per l’appropriazione e al problema dell’equità della “divisione”. In questa ottica, liberale e socialista ad un tempo secondo Schmitt, lo sterminato aumento della produzione mediante la tecnica – ma sarebbe meglio parlare di tecnoscienza – relegherebbe l’”appropriazione” a una sorta di residuo atavico del diritto primordiale di preda, retaggio di una età di miseria. Nel liberalismo, tramite l’aumento delle produzione e del consumo, si risolverebbe la questione sociale mentre nel comunismo, come compimento del socialismo, il telos sarebbe rappresentato dall’aspirazione ad una giusta divisione e distribuzione, ad una redistribuzione che può essere resa possibile solo da una sovrabbondanza di beni. Al di là delle utopie sulla fine della “scarsità” rimane comunque da affrontare un reale problema di divisione e redistribuzione che mette in gioco anche la possibilità di limitazioni e regolazioni dei diritti dei privati alla proprietà, in senso egualitario, partendo da processi politici “democratici” in cui la partecipazione della maggioranza dei cittadini – compresi i membri di gruppi normalmente “esclusi” – alle decisioni politiche avrebbe un ruolo decisivo. Schmitt inizia poi un breve excursus descrivendo alcuni aspetti dei movimenti socialisti a partire dai cosiddetti “utopisti”. Fourier vede la possibilità della realizzazione di una società di giusti e eguali per mezzo di una organizzazione (falansteri) che permetterebbe la realizzazione di una produzione illimitata fondata su uno sviluppo tecnoscientifico incessante. In Proudhon, viceversa, prevale il moralismo, così che la giustizia troverebbe la sua realizzazione in una redistribuzione della proprietà in piccole quote permettendo, perciò, ai lavoratori di rimanere autonomi come liberi produttori – nell’illusoria ipotesi che la piccola produzione mercantile possa permanere indefinitivamente – premiando per l’appunto la laboriosità a detrimento degli oziosi parassiti e dei rentier. Di fronte a questi cosiddetti utopisti si pone Marx che porterebbe avanti la tesi dell’irrazionale tendenza del capitalismo a non redistribuire beni e servizi nonostante che i rapporti di proprietà siano ormai divenuti obsoleti a causa dell’aumento rapido e continuo della produzione. In Marx sarebbe presente, però, anche l’idea dell’appropriazione che si presenta, in effetti, nella forma della riappropriazione a spese dei rentier parassitari. A questo rivoluzionamento seguirebbe una “divisione” e una produzione adeguata e conforme. Così in Marx il momento decisivo è rappresentato dalla “espropriazione degli espropriatori” ovvero dalla “appropriazione industriale” e dalla riconquista del possesso dei mezzi di produzione da parte della massa dei lavoratori. In maniera molto acuta Schmitt pone, poi, un problema che è stato sviluppato in maniera notevole da La Grassa nella sua rivisitazione critica del pensiero di Marx:
<<Tuttavia, tutti i sistemi economici e sociali costruiti sulla base della mera produzione contengono in sé qualcosa di utopico. Se davvero non vi sono altro che problemi di produzione e la semplice produzione dà origine ad una tale ricchezza e a possibilità di consumo così estese che né l’appropriazione né la divisione costituiscono più alcun problema, in tal caso vien meno la stessa attività economica come tale, poiché quest’ultima presuppone sempre una certa scarsità>>.
Un’ altra tesi errata già considerata dal giurista tedesco e che viene in qualche modo riproposta anche nel nostro periodo storico, in quanto caratterizzato dalla mondializzazione e dalla globalizzazione – anche se dominate in questa fase da conflitti multipolari che dimostrano la debolezza della lettura liberale e “cosmopolitica” dei fenomeni suddetti – concerne l’idea che l’”appropriazione” perda d’importanza con l’espansione globale delle relazioni capitalistiche che porterebbero, nell’ottica della retorica liberale classica, a sviluppare una “cooperazione competitiva” in un “sistema commerciale universale” . Nel marxismo questa tesi era, in certo qual modo, esemplificata negli scritti di Rosa Luxemburg ma più in generale essa appare alimentata da una visione che interpreta il conflitto per la supremazia come un effetto di relazioni estrinseche tra forze separate e irrelate che solo casualmente entrano in contrasto. Lo squilibrio incessante, come afferma La Grassa, caratterizza invece tutte le dinamiche di lotta che vengono a generarsi tra gruppi e comunità di individui, statuali o sub-statuali che siano, così che il momento del Nomos – come legittimazione ad intraprendere un azione di ostilità nei confronti dell’avversario per la supremazia economica, territoriale e politica – viene a fondersi con l’agire “politico” in quanto momento che stabilisce la distinzione tra il nemico privato (inimicus) e quello pubblico (hostis). Nel primo tipo di conflitto, quello “privato”, viene a svilupparsi una competizione per quote di mercato, in un ambito solidale di accettazione di regole (e violazione implicite delle stesse) comuni, che vede la centralizzazione dei capitali come risultato di una dinamica impersonale nella quale i soggetti giocano una partita in cui anche gli sconfitti accettano le regole del gioco. All’interno degli Stati-nazione succede però, in determinate congiunture, che quelli che erano soltanto dei nemici privati, a seguito di varie coalizioni tra loro, e successivamente all’acutizzazione di svariate tipologie di conflitti si trasformino l’uno rispetto all’altro in “nemici pubblici”, in nemici dal punto di vista “politico”. I gruppi sociali dominanti all’interno di una formazione sociale particolare difficilmente sono individuabili nelle loro interrelazioni, che implicano schieramenti potenzialmente conflittuali, sino a quando non si faccia avanti una situazione di antagonismo estremo. Solo quando si entra nella situazione in cui il contrasto diventa quasi una “guerra civile” (quella che Agamben analizza a partire dalla parola greca stasis) i gruppi e le coalizioni sociali assumono una forma e una visibilità politica e gli attori del conflitto, che prima si potevano stimare solo in “potenza”, diventano protagonisti dell’atto “politico” decisivo (per la supremazia). Riassumendo, di passaggio, alcune osservazioni tratte da una recensione al suo saggio, intitolato Stasis. La guerra civile come paradigma politico, ricordiamo che il termine stasis, secondo la lettura di Agamben, risulta all’inizio particolarmente ambiguo perché va ad indicare tanto il concetto di immobilità, stabilità e mantenimento dello status quo, quanto quello di sedizione, rivolta e infine rivolgimento politico. Nella sua prima accezione, il termine giunge fino ai nostri giorni nelle forme note di stato ed istituzione (entrambi derivando, come lo stesso termine stasis, dal radicale “–sta” del verbo greco hìstemi [N.d.R. Da internet:<>]. Agamben arguisce però che nel suo secondo senso, il lemma ricade di fatto in una forma di ambiguità concettuale, in base alla quale la guerra civile esulerebbe tanto dall’oikos (ossia dal focolare domestico), quanto dalla pòlis (ossia dalla collettività urbana). Essa sarebbe quindi la zona di indifferenza tra lo spazio impolitico della famiglia e quello politico della città: «nel sistema della politica greca, la guerra civile funziona come una soglia di politicizzazione o di depoliticizzazione, attraverso la quale la casa si eccede in città, e la città si depoliticizza in famiglia» (p.24). In definitiva, la stasis opera come un reagente che rivela l’elemento politico nel caso estremo, ossia come una soglia di politicizzazione che determina di per sé il carattere politico o impolitico di un certo essere. Schmitt comunque ribadisce che le costituzioni politiche, e quindi lo stesso potere costituente, si intrecciano e derivano dall’appropriazione in quanto fenomeno “primario” per cui lo stesso divenire storico non sarebbe altro che il progresso nei mezzi e nei metodi dell’appropriazione. Lo stesso Stato amministrativo – uno dei quattro tipi ideali di Stato secondo il pensatore tedesco – rispetto al quale lo “Stato sociale” rappresenterebbe solo una specificazione, presuppone l’appropriazione di ciò che, poi, viene redistribuito. La relazione e il legame tra il “politico” e il Nomos, intesi nel senso di cui sopra, si oppone al modello dello Stato legislativo inteso come Stato di diritto nella tradizione liberale classica. La legalità, considerata come mera procedura e forma, nel momento in cui surdetermina l’atto politico in quanto creatore ed effetto, ad un tempo, di ogni ordinamento legittimo, impedirebbe l’affermarsi della democrazia “sostanziale” la quale presuppone che il popolo-nazione si presenti come una entità omogenea. La democrazia “identitaria” così intesa, quando si “realizza”, promana da una autorità che “trascende” le singole volontà individuali – in quanto transustanziazione mistica della nazione “una” e “unica” – e tale da risultare, a tutti gli effetti, un potere legittimo che si afferma come indiscusso e indiscutibile agli occhi delle masse. Ma nell’epoca della fine della filosofia, e in particolare della filosofia politica, il politico, inteso come “guerra” per la supremazia e il potere, ha spazzato via ogni ricerca problematizzante di senso legata a considerazioni razionali sul valore dei vari regimi politici ritenuti possibili e/o auspicabili. La politica, come scienza, deve ormai partire dalla contrapposizione tra gruppi sociali alleati tra loro che rappresentano l’antagonista nella modalità del nemico “pubblico” (hostis). Il sistema globale capitalistico a predominanza Usa ha ancora bisogno, però, dell’enorme copertura ideologica in cui viene affermato come dogma la presunta congruenza e armonia prestabilita tra diritto e legge, giustizia e legalità, contenuto e procedura. Questo “corpus” dogmatico viene portato avanti dal pensiero giuridico dominante e dagli estensori e cultori del sistema internazionale dei diritti umani “sacri e inviolabili”. Per concludere e riallacciandomi alla parte iniziale di questo discorso proponiamo la tesi che la nazione – all’interno di uno Stato con gruppi sociali diversi per cultura, lingua, etnia, ecc. – si coagula e costituisce divenendo un popolo solo quando una maggioranza, formatasi storicamente, della popolazione, stabilisce che la minoranza rappresenta, rispetto a essa, il “nemico pubblico” (hostis). Il popolo diviene “nazione” nel momento in cui si identifica, per opposizione, rispetto ad una minoranza che nei casi estremi deve essere “scacciata”, “schiacciata” o comunque “esclusa”, cioè ridotta a un livello di estrema sudditanza.

GLOBALIZZAZIONE E STATI NAZIONALI_ LA NAZIONE E LO STATO: UNA GRANDE ILLUSIONE DEI POPOLI, DI LUIGI LONGO

LA NAZIONE E LO STATO: UNA GRANDE ILLUSIONE DEI POPOLI, DI LUIGI LONGO
LA ROTTURA TEORICA DEL CONFLITTO STRATEGICO. TEMPO E SPAZIO DELLA RICERCA.
Quello presente è il secondo dei quattro saggi e della introduzione presentati in un convegno a tema di metà aprile 2016 dal sito www.conflittiestrategie.it del quale hanno fatto parte sia Luigi Longo, relatore del presente saggio che il titolare di questo sito, Giuseppe Germinario. Il saggio è già apparso sul sito promotore del convegno e potrete trovarlo comodamente unitamente agli atti restanti, quando ripubblicati, nella sezione DOSSIER-GLOBALIZZAZIONE E STATI NAZIONALI in basso a destra della pagina di questo sito. Buona lettura.

Il grande principio che le moderne istituzioni debbono
favorire è quello di tenere a bada le classi povere dando
però la possibilità di farsi strada alle intelligenze superiori
che vi si trovano, ma insieme quello di assicurare la tranquil-
lità delle classi agiate.
Honorè de Balzac*

I vari momenti dell’accumulazione originaria si distribuiscono ora, più o meno in successione cronologica, specialmente fra
Spagna, Portogallo, Olanda, Francia e Inghilterra. Alla fine del
Secolo XVII quei vari momenti vengono combinati sistematicamente in Inghilterra in sistema coloniale, sistema del debito pubblico, sistema tributario e protezionistico moderni. I metodi poggiano in parte nella violenza più brutale, come per es. il sistema coloniale. Ma tutti si servono del potere dello Stato, violenza concentrata e organizzata dalla società, per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico e per accorciare i passaggi. La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. E’ essa stessa una potenza economica.
Karl Marx*

La nazione esiste.[…] Dal momento infatti che il << nazionalismo >> è stato storicamente un prodotto della costituzione delle borghesie in stato (lo stato nazionale, appunto), si è diffusa a lungo l’opinione per cui il proletariato non ha nazione, ma soltanto internazionalismo e rivoluzione.[…] Ebbe invece ragione a suo tempo Stalin, in un saggio pubblicato nel 1914 e approvato da Lenin, quando definì la nazione << una comunità umana stabile, storicamente costituita, nata sulla base di una comunanza di lingua, territorio,, vita economica e formazione psichica che si traduce in comunità culturale >>.
Costanzo Preve*

Premessa

La rottura teorica del conflitto strategico di Gianfranco La Grassa apre strade interessanti per nuovi scenari paradigmatici capaci di leggere sempre più in profondità la coda[1] (1) della realtà e di approntare, con dovute mediazioni relazionali, analisi di fase interessanti foriere di possibili pratiche politiche strategiche.
La rottura teorica, a mio avviso, si orienta in tre direzioni: 1) la eliminazione della relazione verticale tra struttura ( la base produttiva) e sovrastruttura ( relazioni sociali, politiche, ideologiche, culturali, eccetera) prevalentemente a base economica (produttiva e finanziaria) sia pure intesa come rapporto sociale [ciò non inficia completamente la validità dell’affermazione di Karl Marx << Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza >> (2) ]; 2) l’importanza degli agenti strategici dominanti sia delle diverse sfere sociali sia dell’insieme dei rapporti sociali della nazione nelle fasi di storia mondiale (monocentrica, multipolare, policentrica); 3) la concezione dello stato, inteso come luogo e strumento, interno non esterno alle relazioni sociali, ai rapporti sociali dove gli agenti dominanti egemoni realizzano le loro strategie di potere e di dominio sia a livello nazionale sia a livello mondiale.
All’interno di questo quadro interpretativo del conflitto strategico avanzerò alcune riflessioni sullo Stato; le suddette tre direzioni verranno, inoltre, trattate sinteticamente attraverso un caso di studio (che necessita di approfondimenti) su una impresa che era strategica per il nostro Paese: l’Ilva di Taranto.
A proposito di storia locale o casi di studio strategicamente individuati e studiati[2]), riporto dalla prefazione di Benedetto Croce al libro di Giuseppe Carlo Speziale (3) quanto segue: << Ecco un bel libro di storia, intelligente e vivo. E la vita e la chiarezza d’intelligenza gli vengono dal pensiero dell’autore, che tutte le vicende di Taranto, anche quelle edilizie, narra e lumeggia in relazione con l’ufficio militare e assegnato alla città dalla situazione geografica e dallo svolgimento della politica nel Mediterraneo. Si prova di frequente una sorta di diffidenza verso i libri che si chiamano di storia locale o municipale, giudicandoli di scarso o nullo interesse a causa dell’angusto campo in cui si aggirano. Senonchè non meno scarsi o privi di interesse riescono tanti volumi di storia nazionale o universale, quantunque si spazino in amplissime distese; e ciò mostra che il difetto non è già, né potrebbe essere, nella materia storica, sì invece soltanto nel modo incoerente e superficiale onde, in quei casi, è stata considerata […] appunto perché […] non è stata riportata e ricongiunta ai complessi storici a cui appartiene >> [ pp. 7-8].
Il problema diventa la priorità strategica di storia locale o casi di studio che si dà all’interno di una riflessione teorica che di volta in volta si affronta. Il mio caso di studio iniziale sull’Ilva di Taranto si inquadra nella logica del paradigma del conflitto strategico di Gianfranco La Grassa che permette di analizzare, sia nella teoria, sia nella pratica sia nella pratica politica, una situazione concreta della realtà per possibili azioni di pratiche politiche[3].

1. Cosa non sarà

Avverto subito che non sarà una ri-costruzione storica sulla nascita dello stato dalle origini fino ad oggi sia in occidente sia in oriente, cioè, una narrazione che inizia dallo Stato di Dio di Agostino il cui fondatore e sovrano è Cristo (4) allo Stato del conflitto strategico i cui fondatori e sovrani provvisori e dinamici sono gli agenti strategici dominanti (5). Né sarà una analisi sui diversi stati dei diversi capitalismi [per esempio, lo stato cinese[4] è differente da quello statunitense; nel primo ha inciso molto il peso che ha avuto la fase matriarcale e Mao Tsetung ne era molto consapevole più di Karl Marx, di Friedrich Engels e di Vladimir Il’ič Ul’janov (Lenin) (6); nel secondo ha inciso molto la peculiare forma di costituzione della nazione fondata sull’influenza della civiltà spagnola, francese, olandese e inglese (7) ]. Né sarà una analisi delle diverse concezioni dello stato nelle diverse teorie e dottrine che caratterizzano la “conoscenza” della società data [lo stato giuridico, le teorie contrattualistiche, le teorie costituzionaliste, eccetera per non parlare della concezione dello stato liberale, keynesiano e marxista]. Tutto ciò è tenuto sullo sfondo del ragionamento con la consapevolezza che occorre un lavoro immane di ri-pensamento e ri-costruzione critica che può essere svolto solo da un gruppo multidisciplinare.

2. Allora perché lo stato.

Le questioni da affrontare sono molte:
1. dalla conoscenza dei luoghi di potere e dominio allo svelamento dell’interesse generale e di un astratto luogo di potere della classe dominante;
2. dai luoghi del blocco politico e sociale dominante in costante disequilibrio agli strumenti del dominio nelle fasi unipolare, multipolare e policentrica;
 dalla costituzione del blocco politico e sociale degli agenti strategici pre e sub-dominanti come sintesi degli agenti strategici dominanti nelle diverse sfere sociali con relativo ruolo delle sfere egemoni ( fasci di luce che illuminano) alle relazioni interstatali tra le aree mondiali con i loro diversi ordinamenti statali;
1. dalle relazioni geo-politiche, geo-economiche, geo-territoriali al ruolo delle potenze mondiali con le aree di influenza (regioni, poli).
Mi interessa, però, discutere della problematica della sovranità perché in questa fase di multipolarismo da mobilità oscillante è strategicamente prioritaria.

3. Chi è lo Stato

Leggo lo Stato ( va da sé che faccio riferimento a quello italiano come modello), con le sue strutture di funzionamento ( parlamento, governo, pubblica amministrazione, organi ausiliari, magistratura) e le sue articolazioni territoriali istituzionali ( enti locali, enti intermedi, eccetera- le casematte gramsciane[5]-), come luogo e strumento di potere e di dominio per la realizzazione degli obiettivi degli agenti strategici dominanti nel conflitto strategico per l’egemonia nella società storicamente data.

4. Potere e dominio

Il potere vero quello che produce dominio è sempre ben nascosto[6]. Tant’è che lo respiriamo e non ce ne accorgiamo. Gli strumenti statali, con le loro articolazioni territoriali, diventano sempre più macchine complesse per gestire e organizzare il dominio dell’intera società. Il dominio per realizzarsi ha bisogno di emergere attraverso processi istituzionali e produrre ordine simbolico della società data: è un processo di lunga durata [vedasi i vari modelli egemonici mondiali espressi dalle potenze predominanti nelle diverse fasi della storia mondiale (8)]. A questo proposito diventa fondamentale capire quali sono gli agenti strategici dominanti. Mi permetto una digressione: non faccio distinzione tra agenti strategici dominanti nella sfera privata e quelli nella sfera pubblica, tra quelli che delinquono legalmente[7] e quelli che delinquono illegalmente[8] (9), perché l’intreccio è tale che non ha senso la distinzione. Esempi calzanti sono: il ruolo della Confindustria nella filiera del potere-dominio privato-pubblico; le funzioni degli enti locali nel programmare e gestire il potere-dominio; il ruolo della criminalità organizzata come soggetto politico (10): in quest’ultimo esempio per sottolineare la qualità del denaro come espressione e mezzo di rapporto di potere mi piace ricordare quanto detto dall’imperatore Vespasiano al figlio Tito che lo svergognava perché aveva messo una tassa persino sugli orinatoi, mise sotto il naso il primo denaro ricavato, chiedendogli se l’odore gli dava fastidio; e dopo che questi gli ebbe risposto di no, soggiunse Eppure viene dall’orina! (10*). Dicevo degli agenti strategici dominanti che producono dominio[9], attraverso il potere nelle diverse sfere sociali soprattutto quelle dominanti a seconda delle fasi storiche (monocentrica, multipolare e policentrica), sull’intera società. I gruppi di interessi particolari nazionali o mondiali producono potere non dominio. Il dominio delle potenze mondiali non viene certamente prodotto dai gruppi di potere.

5. Società, nazione, popolo, stato

La società storicamente data è la nazione con le sue specificità e peculiarità storiche, culturali, sociali, territoriali, economiche e politiche. Anche se mi rendo conto che vi è l’esigenza di ri-cercare un nuovo concetto in grado di racchiudere meglio l’idea di nazione ( per es. Paese) tenendo presente la interconnessione dei concetti ( la teoria) e del vissuto ( la pratica) nel tempo e nello spazio (11).
Intendo per nazione un popolo, una comunità ( un insieme di persone sessuate, di gruppi sociali sessuati) che vivono su un determinato territorio storicamente delimitato[10]. In essa si creano le istituzioni, le regole e gli strumenti di produzione e controllo delle stesse che chiamiamo Stato con le sue articolazioni territoriali. Non mi interessa adesso discutere chi produce e fa le regole[11] e l’influenza dei modelli sociali egemoni dei pre-dominanti mondiali (per esempio l’americanizzazione della vita italiana ed europea[12]). Mi interessa capire come si produce autonomia nazionale avendo sullo sfondo (non tanto, per adesso) le relazioni mondiali in fase di multipolarità per il configurarsi di stato-potenze in grado di mettere in discussione l’egemonia mondiale degli USA che sta perdendo la funzione di centro di coordinamento mondiale. Non solo, ma, mi interessa capire come si rapporta l’autonomia nazionale all’Europa, che è diventata, diciamo dalla seconda guerra mondiale, una espressione geografica degli USA (estendo all’intera Europa la definizione che il cancelliere di stato austriaco Klemens von Metternich diede dell’Italia). Altro che ruolo determinante tra occidente ed oriente e svolta politica verso quegli stati-potenze che lottano per una visione multipolare delle relazioni mondiali, come la Russia e la Cina! Inoltre, non discuterei, per ora, degli agenti strategici dominanti e sub-dominanti che danno le carte dei rapporti sociali; mi interessa, piuttosto, porre la seguente domanda: gli strumenti istituzionali, i luoghi istituzionali che sono fatti di violenza e consenso, che attraversano tutte le sfere della società e sono interni non esterni ai rapporti sociali, come vengono agiti, modificati, modellati per il controllo e la gestione del potere e del dominio[13] ?. Gli agenti strategici dominanti, storicamente dati, si sono costruiti questi strumenti di potere e di dominio per la loro egemonia interna (agenti pre-dominanti e sub-dominanti) ed esterna (le grandi Potenze) e sono stati così acuti da costruirsi anche istituzioni di coordinamento dei poteri per imporre e gestire la propria egemonia (i greci e i romani in questo sono stati maestri). Coordinamento non significa separazione dei poteri che è una illusione storica come ha dimostrato Louis Althusser rileggendo Montesquieu attraverso Charles Eisenmann (teorico del diritto) << …in realtà Montesquieu non aveva parlato affatto di separazione, bensì di combinazione, di fusione e di collegamento dei poteri…>> (12).

6. Potere di parte e dominio dell’insieme

Uso il termine potere per intendere una forma di rapporti di forza finalizzato all’accrescere delle proprie capacità di incidere nella società ed è limitata ai gruppi sociali che dispongono dei mezzi di produzione e di flussi finanziari (sfera economica produttiva-finanziaria), di strumenti politici ( sfera politica), di sistemi culturali e ideologici ( sfera culturale), eccetera.[ per esempio gli agenti strategici dominanti o sub-dominanti nelle singole sfere sociali[14], le èlites di potere (13) ].
Utilizzo il termine dominio per delineare una egemonia sociale (nell’accezione gramsciana, cioè consenso e coercizione) da parte degli agenti strategici dominanti o sub-dominanti costituitosi in blocco sociale come supremazia sugli agenti strategici delle diverse sfere sociali.
La filiera del potere è diversa nelle singole sfere sociali e il dominio dell’insieme sociale di una nazione è diverso, è altro dal potere delle sfere sociali.
Gli agenti dominanti egemoni (blocco sociale), una sorta di coordinamento dell’equilibrio dinamico[15] tra i diversi agenti strategici delle differenti sfere sociali, realizzano, nelle diverse articolazioni e nei diversi luoghi istituzionali dello Stato, velano le loro strategie con l’illusione dell’interesse del popolo o dell’interesse generale[16] costruendo ordine simbolico sociale.

7. Volontà di potenza

Ipotizzo che il motore del conflitto strategico sia dato dalla “volontà di potenza”, dalla relazione di potere e di dominio che trova la sua essenza primaria nella relazione tra i sessi. In particolare, dalla forma violenta della oppressione maschile su quella femminile (egregie sono le sintesi storiche di questa fase di passaggio sia nella letteratura maschile sia in quella femminile; un esempio per tutti: l’urbanista e sociologo statunitense Lewis Mumford (14) e l’archeologa inglese Margaret Ehrenberg (15).
La volontà di potenza[17] esprime la necessità del potere e del dominio (lunga è la filiera di costruzione di tale concetto da Tucidide a Macchiavelli, da Platone a Hobbes, da Shakespeare a Balzac, eccetera). Tutte le relazioni sociali storicamente date (dalle micro – la famiglia-, alle macro – lo Stato) esprimono questa volontà di potenza. Nei momenti di transizione, di passaggio da un’epoca ad un’altra, da un ordine ad un altro, è stata sempre usata violenza inaudita per la conquista del dominio. Perché? E perché, nonostante queste forme di violenza, c’è un qualcosa che salvaguarda il genere umano sessuato (non sto facendo una riflessione naturalistica, di conservazione, eccetera)?

8. Volontà di armonia

La mia ipotesi è che il pensiero deve ri-partire dalla prima forma di Stato, originatosi con la violenza, nel passaggio dalla fase matriarcale a quella patriarcale[18]; organizzazione statale che né Karl Marx né Friedrich Engels colgono quando collocano l’origine dello Stato nella necessità di proteggere la proprietà privata. E’ questo atto di violenza che ha avuto bisogno di una forma organizzata statale per esercitarsi, che ha permesso il passaggio da un fase egemonizzata dalla “volontà di armonia” (intesa come tensione e condivisione di relazioni e rapporti sociali) ad una dove domina la “volontà di potenza”. E’ nella “volontà di armonia” che va cercata la non “volontà di potenza”.
Storicamente l’uso della forza non sempre è stato il motore della storia. Vi è stato un periodo storico (sostanzialmente il neolitico) dove la prevalenza del pensiero femminile non solo è stato determinante per lo sviluppo dell’umanità ma ha segnato nel profondo l’umanità stessa senza la necessità prevalente della forza. Su questi temi sia Karl Marx sia Friedrich Engels (soprattutto) erano molto sensibili. Poi, il perché Karl Marx (soprattutto) approfondì lo studio delle relazioni sociali della produzione e non anche quello delle relazioni sociali della riproduzione (insieme sono i fattori determinanti del processo di trasformazione umana storicamente intesa) è tutta un’altra questione che interessa, a mio avviso, anche la nascente teoria del conflitto della razionalità strategica (16). Perché Karl Marx ha privilegiato l’aspetto della produzione (sia pure come rapporto sociale)? Perché grandi studiosi, acuti e intelligenti come Karl Marx ed Friedrich Engels non colgono l’aspetto della riproduzione sociale complessiva dove per forza si sarebbero imbattuti nell’altro soggetto della storia, la donna? Sfugge loro anche l’aspetto che la donna è creatrice di quell’individuo sessuato che diventa la merce per eccellenza, fondamentale per lo sviluppo della società a modo di produzione capitalistico, cioè la forza-lavoro? Perché, parafrasando il titolo di uno degli ultimi libri di Gianfranco La Grassa, non bastano centocinquant’anni per uscire da Karl Marx con Karl Marx? Svilupperò in un altro momento questa fondante questione, per il momento mi basta segnalarla.

9. Sovranità

Con la fine della seconda guerra mondiale l’Italia, insieme all’Europa intesa come sommatoria di Stati (17), perde la propria sovranità a favore della potenza egemone dell’Occidente, cioè gli USA usciti vincitori dalla guerra e sostituitisi all’egemonia mondiale inglese (18).
La sovranità perduta, una sorta di servitù volontaria a favore delle strategie dominanti degli USA che aspiravano a diventare potenza egemonica a livello mondiale (aspirazione avvenuta con l’implosione dell’ex URSS e per nostra fortuna durata più o meno un decennio), si materializza attraverso quel processo di lungo periodo che va sotto il nome di americanizzazione e che già Antonio Gramsci aveva visto nel suo “Americanismo e Fordismo”[19] (19).
Questa penetrazione del modello e della visione della società degli agenti strategici dominanti statunitensi viene esportata in tutto il mondo con strumenti di egemonia (politica, culturale, ideologica) con la creazione di agenzie di governance mondiale (Onu, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, eccetera) e con la coercizione per mezzo di strumenti militari (Nato, Servizi Segreti, eccetera).
Una sovranità perduta che va inquadrata nelle diverse fasi della storia mondiale (monocentrica, multipolare, policentrica) e assume aspetti diversi a seconda delle strategie di fase della potenza egemone prima nel mondo Occidentale, poi a livello mondiale con un ruolo di coordinamento, infine nell’attuale fase multipolare avviata, dove nuove nazioni- potenze mettono in discussione questa sua egemonia. Una sovranità perduta limitata nella fase monocentrica accompagnata da una fase di sviluppo e di espansione del modello di società americana che coinvolge le nazioni europee apportando crescita e sviluppo (penso, per esempio, al Piano Marshall).
Una sovranità perduta ampiamente nella attuale fase multipolare dove la strategia del caos[20] degli USA è indirizzata a bloccare il consolidarsi di nuove potenze (Russia e Cina)[21], a ritardare il proprio declino e a rilanciare nuove sfide per riaffermare l’egemonia su basi nuove.
Parafrasando Carl Schmitt (20) si può sostenere che con l’inizio della fase multipolare è giunto al culmine anche l’ammirazione e l’emulazione del modello statunitense.
Voglio dire che abbiamo strategie diverse di dominio nelle diverse fasi storiche mondiali : monocentrica, dove prevale un dominio basato sul consenso e sulla “democrazia” ( rispetto formale della Costituzione); multipolare, dove prevale un dominio basato su una forte riduzione della democrazia e si preparano nuove forme di istituzioni per l’accentramento del potere-dominio ( modifica della Costituzione); policentrica, dove prevale la forza del dominio con annullamento della democrazia attraverso varie fasi di eccezione (annullamento della Costituzione).
Le fasi multipolare e policentrica comportano una prevalenza delle sfere politica, istituzionale e militare nella direzione di un accentramento istituzionale del potere.

10. Caso di studio: Ilva di Taranto[22]

Voglio parlare brevemente della servitù volontaria italiana nell’attuale fase multipolare attraverso un caso di studio emblematico che racchiude in sé tutti gli aspetti a) subordinazione alle strategie USA, b) americanizzazione del territorio alle esigenze strategiche USA nel Mediterraneo e nel vicino Medio Oriente, c) funzione dei sub-dominanti italiani che attraverso i luoghi e le articolazioni istituzionali territoriali creano una filiera di comando in funzione dei pre-dominanti USA.
Il caso di studio è quello dell’Ilva di Taranto.

11. Un Paese subordinato alle strategie USA

La città di Taranto è diventata una città importante per la strategia USA-NATO[23]. Una città NATO. Gli agenti dominanti USA hanno bisogno della piena disponibilità del porto di Taranto, con i suoi Mar Piccolo e Mar Grande, per le loro infrastrutture militari strategiche (sommergibili nucleari, armi, sistemi di sorveglianza)[24]. E’ da un decennio (il tempo non è da leggere in maniera lineare e deterministico) che stanno lavorando a questa trasformazione che si innerva con quelle trasformazioni messe in atto in altre basi militari USA-NATO (soprattutto nelle città Nato-Usa in Italia: Napoli, Sigonella, Niscemi, Vicenza, altre) e alla trasformazione del ruolo della NATO.
Nel porto di Taranto è localizzata, dalla prima metà degli anni sessanta del secolo scorso, l’Ilva che è evidentemente incompatibile con la strategia della trasformazione delle basi NATO.
Noto una certa analogia, da prendere con cautela e calarla storicamente, con la storia industriale della più grande acciaieria di Napoli, l’Ilva di Bagnoli. Anche qui gli obiettivi erano le esigenze strategiche e territoriali della base NATO della città di Napoli (quartier generale della NATO, sede di vari comandi di unità di servizi USA, grande centro per le telecomunicazioni del Mediterraneo dell’US Navy che coordina tutta l’attività di comunicazione, comando e controllo del Mediterraneo, eccetera). In quegli anni si svolgevano fatti di importanza mondiale per il nuovo equilibrio che si andava configurando con la caduta del muro di Berlino e con la successiva implosione dell’ex URSS. Si aprivano nuovi scenari per gli USA come possibilità di un unico centro di coordinamento mondiale e un nuovo ruolo della NATO. La chiusura dell’Ilva di Napoli per le esigenze territoriali della base del quartiere generale della NATO non poteva essere detta. Tutto fu velato dietro un fumoso progetto per il risanamento e il rilancio dello sviluppo della città di Napoli che passava attraverso il conflitto tra i settori economici (industriale, edilizio, turistico) : il progetto Fiat-Partecipazioni Statali degli anni ’80, l’idea della NeoNapoli di Paolo Cirino Pomicino, la fase di Tangentopoli, le lotte di blocchi di potere per i finanziamenti della bonifica di Bagnoli, non realizzata ( dal 2003 sono stati presentati ben 6 progetti di bonifica[25]), gli indirizzi per la pianificazione urbanistica ( impianti di eccellenza per il turismo legato al sistema congressuale alberghiero, grande parco pubblico, rete di attività produttive connesse con la ricerca scientifica, eccetera).
L’Ilva di Bagnoli, una impresa in piena salute, fu chiusa e venduta ai cinesi.
Un sindaco, Antonio Bassolino, e un urbanista, Vezio De Lucia (i nomi sono l’espressione di gruppi di potere in riferimento agli agenti sub-dominanti), gestirono la fase di velamento culturale e ideologico della grande trasformazione della città di Napoli.
Anche qui occorse un decennio per preparare la trasformazione.

12. L’americanizzazione del territorio[26]

Qui torna utile una digressione che aiuta ad inquadrare meglio i processi che portano alla trasformazione da polo siderurgico a polo strategico della NATO. Non nascondo che faccio fatica ad immaginare una Europa che si autodetermina avendo sul suo territorio una miriade di basi militari NATO e NATO-USA (la Germania ne ha 70, l’Italia ne ha 111; sono dati da aggiornare ed escludono quelle che non si sanno)[27]. E’ fuori dubbio che gli USA sono egemoni nella NATO non fosse altro perchè è la potenza mondiale che spende in armamenti più della metà degli interi Stati mondiali (900 miliardi di dollari annui). Gli USA hanno chiesto e ottenuto un aumento della << […] spesa militare dei Paesi europei che fanno parte della Nato [e] aumenterà quest’anno per la prima volta dopo quasi un decennio. Non sono stati diffusi dati ufficiali ma è certo – come ha affermato il segretario generale dell’Alleanza Atlantica Jens Stoltenberg – che le tensioni, non solo economiche, con la Russia di Vladimir Putin e la crisi dei migranti stanno facendo aumentare i problemi di sicurezza in tutto il continente. «Le previsioni per il 2016, sulla base dei dati preliminari che ci hanno fornito le Nazioni alleate, mostrano che ci sarà per la prima volta, dopo molti, molti anni, un incremento delle spese tra i Paesi europei», ha detto Stoltenberg in un’intervista al Financial Times. Una svolta ancora più significativa in vista del vertice che si terrà a luglio in Polonia per decidere i movimenti delle truppe Nato ai confini con la Russia […] Nel 2015 gli alleati europei nella Nato hanno speso per la difesa 253 miliardi di dollari contro i 618 miliardi spesi dagli Stati Uniti. Per rispettare l’accordo che prevede una spesa minima pari al 2% del Pil, i Paesi europei dovrebbero aumentare di 100 miliardi il loro budget militare annuale. Il loro contributo attuale si ferma infatti all’1,43% del prodotto interno lordo >> (21).
Così come è fuori dubbio che le strategie americane di politica estera, che ricalcano il vecchio retaggio da guerra fredda che impone supremazia militare ed economica e strategie regionali tese a proteggere incondizionatamente i Paesi alleati, porteranno, mano mano che avanzerà la fase multipolare, ad una militarizzazione delle città[28] e dei territori europei che esprime capacità militare, capacità di sicurezza e di controllo, capacità economica in funzione prevalentemente anti Russia. Non è un caso che la NATO non fu abolita una volta imploso il vecchio nemico “comunista”, ma fu rifondata probabilmente per meglio prepararsi ad un cambio di politica estera fondata sugli USA come unica potenza mondiale egemone: la nazione “eccezionale” universale. Oggi, per fortuna mondiale, non è così. La fase multipolare si va delineando e le strategie di politica estera americane fanno fatica a confrontarsi con le nascenti potenze mondiali (soprattutto Russia e Cina).
Ho già trattato la infrastrutturazione del territorio europeo in funzione della Nato[29] e le città NATO ( negli scritti summenzionati). Voglio qui aggiungere una riflessione che riguarda la nuova polizia continentale con ampi poteri, l’Eurogendfor, istituita con il Trattato di Velsen (Olanda) e approvata all’unanimità dalla Camera e dal Senato all’assemblea di Montecitorio del 14 maggio 2010 (legge n.84 il “Trattato di Velsen”). Per indicare i caratteri principali del Trattato di Velsen riporterò i seguenti passi dell’articolo di Matteo Luca Andriola:<< […] la Forza di gendarmeria europea (European Gendarmerie Force), conosciuta come Eurogendfor o Egf, che viene ora a proporsi come il primo corpo poliziesco-militare dell’Unione Europea, a cui partecipano cinque nazioni, cioè l’Italia, la Francia, l’Olanda, la Spagna e il Portogallo ai quali, in seguito, si è pure aggiunta la Romania, un’istituzione, quindi, con valenza sovranazionale.[…] Fra il 2006 e il 2007 il processo di genesi dell’Eurogendfor fa passi da gigante: il 23 gennaio 2006 viene inaugurato il quartier generale a Vicenza, la stessa città dove ha sede il Camp Ederle delle truppe Usa, divenendo operativa a tutti gli effetti, mentre il 18 ottobre 2007 viene firmato il trattato di Velsen, sempre in Olanda […]All’art. 3 si legge che «la forza di polizia multinazionale a statuto militare composta dal Quartier Generale permanente multinazionale, modulare e proiettabile con sede a Vicenza (Italia). Il ruolo e la struttura del QG permanente, nonché il suo coinvolgimento nelle operazioni saranno approvati dal CIMIN – ovvero – l’Alto Comitato Interministeriale. Costituisce l’organo decisionale che governa EUROGENDFOR». Questa nuova “super-polizia” è, recita l’art. 1 del Trattato, «una Forza di Gendarmeria Europea operativa, pre-organizzata, forte e spiegabile in tempi rapidi al fine di eseguire tutti i compiti di polizia nell’ambito delle operazioni di gestione delle crisi», al servizio, non tanto dei cittadini dell’Ue o degli Stati firmatari del Trattato (le “Parti”), ma, sostiene l’art. 5, sarà «messa a disposizione dell’Unione Europea (UE), delle Nazioni Unite (ONU), dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e di altre organizzazioni internazionali o coalizioni specifiche». Quindi un’Arma che può essere a disposizione degli Stati Uniti, dato che la Nato è, a tutt’oggi, il braccio armato di Washington in Occidente […] Colpisce, inoltre, il fatto che l’European gendarmerie force goda di una completa immunità internazionale. L’art. 4, recita che l’«EGF potrà essere utilizzato al fine di: condurre missioni di sicurezza e ordine pubblico; monitorare, svolgere consulenza, guidare e supervisionare le forze di polizia locali nello svolgimento delle loro ordinarie mansioni, ivi comprese l’attività di indagine penale; assolvere a compiti di sorveglianza pubblica, gestione del traffico, controllo delle frontiere e attività generale d’intelligence; svolgere attività investigativa in campo penale, individuare i reati, rintracciare i colpevoli e tradurli davanti alle autorità giudiziarie competenti; proteggere le persone e i beni e mantenere l’ordine in caso di disordini pubblici; formare gli operatori di polizia secondo gli standard internazionali: formare gli istruttori, in particolare attraverso programmi di cooperazione»[…] A quali casi si fa riferimento nel trattato di Velsen? A quelli inquadrati «nel quadro della dichiarazione di Petersberg». Cioè? A Petersberg, nei pressi di Bonn, si riunì il 9 giugno 1992 il Consiglio ministeriale della Ue che approvò una Dichiarazione che individuava una serie di compiti precedentemente attribuiti all’Ueo da assegnare all’Unione europea, cioè le cosiddette «missioni di Petersberg», cioè le “missioni umanitarie” o di evacuazione, missioni intese cioè al mantenimento dell’ordine pubblico, nonché operazioni costituite da forze di combattimento per la gestione di crisi, ivi comprese operazioni di ripristino della pace. Ergo, oltre all’intervento in caso di catastrofe naturale, l’Eurogendfor può intervenire per sedare delle manifestazioni in assetto da «forze di combattimento» >> (22).
Questa nuova istituzione europea di polizia continentale, che fa capo alla NATO, di controllo e sicurezza territoriale, con sede in una città NATO simbolo come Vicenza, trova comprensione in tre direzioni da approfondire: 1. Il ruolo della NATO che non è un ruolo direttamente militare (viene sempre più velato) ma economico, di sviluppo di territori, di sicurezza, di controllo, di penetrazione e di ampliamento di territori in funzione di contrasto delle potenze mondiali emergenti, soprattutto la Russia; 2. La perdita della peculiarità territoriale (di città e di territori) europea trova nel modello sociale e territoriale egemonico americano, direttamente e indirettamente tramite l’egemonia nelle istituzioni internazionali, una delle cause fondamentali del suo declino e della sua specificità storica:<< L’Europa si formò con l’emigrazione, l’America con la conquista. Per usare il linguaggio dei geologi, diremo che quella procede da alluvione e questa da azione vulcanica. E’ questo un primo tratto che differenzia la vita europea dall’americana. Eccone un altro: la civiltà dell’America fu un’opera di governo, un’impresa di Stato, un grande atto amministrativo; quella dell’Europa un’opera anonima, popolare, senza azione legislativa […] Ogni civiltà ha un’opera genuina che è la città. La città è la sintesi di una civiltà, il gesto o il ritmo che traduce la sua anima. Atene è la Grecia, come Roma è l’Impero, Firenze è il Rinascimento, Siviglia è l’anima spagnuola (New York è la modernità:” tutto ciò che è di solido, si dissolve nell’aria”, mia aggiunta) >> (23); 3.La politica di coesione e la cooperazione territoriale europea è funzionale alla strategia americana per aprire varchi ad Est risucchiando sempre più territori dalla sfera di influenza Russa ( ultimo caso: l’Ucraina).
Un esempio: si dice che << Una pluralità di questioni è associata alla coesione territoriale: il coordinamento delle politiche in regioni estese come quella del Mar Baltico, il miglioramento delle condizioni lungo le frontiere esterne orientali, la promozione di città sostenibili e competitive a livello mondiale, la lotta all’emarginazione sociale in alcune parti di regioni più ampie e nei quartieri urbani sfavoriti, il miglioramento dell’accesso all’istruzione, all’assistenza sanitaria e all’energia in regioni remote e le difficoltà di alcune regioni che presentano determinate caratteristiche geografiche.[…] Il modello di insediamento europeo è unico. In Europa sono sparse circa 5 000 città piccole e quasi 1 000 città grandi, che fungono da centri di attività economica, sociale e culturale. In questa rete urbana relativamente densa le città molto grandi sono però poche. Nell’UE solo il 7% delle persone abita in città con oltre 5 milioni di abitanti, rispetto al 25% negli USA, e solo 5 città europee sono annoverate fra le 100 più grandi città del mondo. Questo modello di insediamento contribuisce alla qualità della vita nell’UE, sia per gli abitanti delle città, che sono vicini alle zone rurali, sia per i residenti delle zone rurali, che beneficiano della prossimità dei servizi. È inoltre un modello più efficiente dal punto di vista dell’utilizzo delle risorse in quanto evita le diseconomie dei grandi agglomerati e l’elevato uso di energia e di terre che caratterizzano l’espansione urbana; tali diseconomie assumeranno dimensioni ancora più preoccupanti con il progredire dei cambiamenti climatici e l’adozione di misure per adeguarvisi o per contrastarli >> (24), questo modello così delineato cosa ha a che fare con il TTIP che è la distruzione delle aree rurali e la creazione di squilibri territoriali europei? Cosa ha a che fare con la realtà urbana e territoriale sempre più modellata su quella americana? (25).

13. Funzione dei sub-dominanti italiani

Il ruolo della magistratura. L’inizio della fine (che avrà i suoi tempi) dell’Ilva di Taranto è datato dall’azione della magistratura che il 26 luglio 2012 dispone il sequestro preventivo, senza facoltà d’uso, degli impianti dell’area a caldo dell’Ilva. L’azione è intrapresa per tutelare, con mezzo secolo di ritardo, i sacri principi costituzionali di tutela della salute dei lavoratori, della popolazione e del territorio. E’ logico pensare, considerato che la magistratura agisce sull’intero territorio nazionale, che tutti i poli siderurgici e petrolchimici abbiano lo stesso interessamento, se così non fosse rimarrebbe sempre la domanda in sospeso: perché l’Ilva di Taranto?
Se dovessimo tutelare i suddetti sacri principi costituzionali dovremmo chiudere qualsiasi impresa di produzione di merce, ma a questo punto non saremmo più nella società capitalistica. E non credo che la magistratura pensasse ad un’altra società. Infatti la sua azione sembra quella di difendere i sacri principi costituzionali elevandoli su un edificio sociale costruito con fondamenta di ingiustizie, di sperequazioni, di privilegi, di inganni, di ruberie, di pazzie e di guerre.
Giorgio Nebbia, che è un noto merceologo, ha scritto di recente che <<… la produzione dell’acciaio, come di qualsiasi altra merce, è accompagnata, inevitabilmente [corsivo mio], da scorie, rifiuti e nocività: la natura non dà niente gratis [lui essendo un merceologo si ferma alla natura e non pensa ai rapporti sociali che determinano la forma, lo sviluppo della produzione e l’uso della natura, mia critica] >> (26). Ha sostenuto un grande medico e scienziato, Giulio Maccacaro, che << …c’è un solo MAC [Massima Concentrazione Accettabile di una sostanza, mia precisazione] accettabile ed è quello zero…>> (27). Nella società a modo di produzione capitalistico non esiste un processo produttivo a MAC zero.
La magistratura sa che non ci sono le risorse finanziare per risanare e bonificare il territorio, ammesso e non concesso che ciò sia possibile!, e per questo dà la caccia al tesoro finanziario della famiglia Riva la quale metterà in campo, visto il potere che le deriva dal condurre un’impresa di livello mondiale ( il gruppo Riva nel 2011 è il primo nel settore in Italia, quarto in Europa e ventitreesimo nel mondo), tutte le sue relazioni economiche, politiche, finanziarie, istituzionali ( la grande impresa non è solo ciclo economico), per contrastare il sequestro delle sue risorse finanziarie.
La storia economica reale dei poli siderurgici e petrolchimici dimostra che c’è la privatizzazione dei benefici e la socializzazione delle perdite (umane, ambientali e territoriali).
Le risorse finanziarie che la magistratura intende confiscare alla famiglia Riva, tramite la capogruppo Riva Fire, sono pari a 8 miliardi e 100 milioni di euro. La somma stabilita equivale, secondo la magistratura, ad << …un indebito vantaggio economico all’Ilva ai danni della popolazione e dell’ambiente >> e sarebbero destinate agli interventi di risanamento e bonifica territoriale. Dalle risorse finanziarie da confiscare sono esclusi i costi per la bonifica di acqua e suolo ai parchi minerali, oltre al profitto necessario per continuare la produzione. E’ evidente che con queste condizioni l’impresa Ilva non è in grado di pianificare il piano industriale 2013-2018. Ed è evidente che il peso per contrattare a livello europeo, in una fase competitiva sempre più agguerrita [francesi, tedeschi e turchi stanno già beneficiando della crisi dell’ILVA], gli aiuti del piano siderurgico predisposto dalla Commissione Europea sarà pari a zero, per non parlare del ruolo, nella sostanza assente, dello Stato italiano. Ricordo che l’Ilva è stata decapitata del gruppo dirigente strategico e tecnico.
A Napoli fu la sfera economica, intrecciata alla sfera ideologica, la teste di ariete per la base NATO, a Taranto è la sfera della magistratura, innervata alla sfera ideologica, ad essere la testa di ariete della NATO.

Il ruolo del governo. L’Ilva, è utile ricordarlo, è una impresa di livello mondiale, con il più grande impianto siderurgico d’Europa, che produce acciaio, una merce base dell’economia italiana e mondiale. E’ un’impresa strategica per l’economia italiana. Ha una occupazione diretta di circa 12 mila lavoratori, a cui deve aggiungersi un indotto strettamente collegato sul piano verticale che porta l’occupazione diretta a oltre 15 mila unità. A questo dato devono sommarsi 9.200 unità legate all’indotto, per un totale complessivo di occupazione pari a oltre 24 mila occupati.
L’intervento del governo si concentra in tre direzioni: a) l’esproprio di una grande impresa (con la beffa del richiamo agli articoli 32, 41 e 43 della Costituzione, mai vista nella storia dell’industria italiana); b) la bonifica dell’ambiente, la tutela della salute e la salvaguardia del territorio; c) l’applicazione dell’ AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) al processo produttivo dell’Ilva, anticipata e integrata con le migliori tecnologie disponibili da impiegare nel settore della siderurgia a livello europeo per assicurare la protezione dell’ambiente e la protezione della salute così come da decisione della Commissione Europea 2012/135/UE ( la Commissione Europea dà tempo fino 2016 per uniformarsi)[30].
La domanda viene spontanea: perché anticipare di tre anni il recepimento della suddetta decisione della Commissione UE creando uno squilibrio nel mercato della concorrenza tra le imprese del settore siderurgico (scusate il linguaggio neoclassico)? E il recepimento della suddetta decisione della Commissione Europea nell’AIA non significa non rendere competitiva l’Ilva e avviarla alla chiusura? E’ questo il modo di difendere un’industria strategica da parte del governo italiano?
Andiamo avanti nel ragionamento.
Tutto questo, ovviamente, avverrà di pari passo con la elaborazione del piano industriale per il rilancio dell’Ilva e del piano ambientale per la tutela del territorio (città, mare e territorio rurale) e della salute dei lavoratori e della popolazione.
Così ragiona il ministro dello sviluppo economico Flavio Zanonato: << Il costo di un’eventuale chiusura dell’impianto avrebbe conseguenze negative gravi sul piano economico e, comunque, determinerebbe il consolidamento di una situazione che, secondo i magistrati di Taranto, è da considerarsi di disastro ambientale. L’impatto economico negativo è stato valutato attorno ad oltre 8 miliardi di euro annui, imputabili per circa 6 miliardi alla crescita delle importazioni, per 1,2 miliardi al sostegno al reddito ed ai minori introiti per l’amministrazione pubblica e per circa 500 milioni in termini di minore capacità di spesa per il territorio direttamente interessato. In una fase di calo globale del mercato, è evidente che l’eventuale uscita dello stabilimento di Taranto sarebbe guardata con estrema soddisfazione dai maggiori competitor europei e mondiali, che vedrebbero aumentare le proprie prospettive di mercato a tutto danno del sistema produttivo italiano. Anche un’eventuale vendita ad operatori internazionali esporrebbe il nostro Paese al rischio di un forte impoverimento della capacità tecnologica e di innovazione. L’importanza strategica di questo complesso industriale non può, però, far venir meno gli obblighi di tutela ambientale da cui dipende la qualità della vita dei cittadini di Taranto. La crescita economica e la salvaguardia della salute non sono, in particolare in questo caso, due diritti contrapposti e la prima non si può certo perseguire facendo soccombere la seconda [corsivo mio]. Il Governo, quindi, tende ad adottare tutte le azioni utili a tutelare l’ambiente e la vivibilità della città di Taranto nella consapevolezza che un’interruzione della produzione peggiorerebbe ulteriormente la situazione rendendo impossibile la bonifica dei siti inquinati. La sopravvivenza dello stabilimento è, oggi, dunque, legata alla capacità dell’azienda di mettere in atto gli investimenti necessari a rendere compatibile l’impianto con le norme ambientali e di sicurezza sulla salute dei cittadini [ corsivo mio]>> (28).
La priorità del governo nella questione Ilva è tutta incentrata sulla questione ambientale, sulla tutela della salute e sul risanamento della città. Basta avere la pazienza di leggere i dibattiti parlamentari, gli atti delle Commissioni Parlamentari (VIII e X), i decreti legge, i disegni di legge di conversione dei decreti, per rendersene conto direttamente. Anche il Vice presidente della Commissione Europea, Antonio Tajani, privilegia l’aspetto ambientale della questione Ilva anche perché nel piano siderurgico dell’Unione Europea, che illustra uno scenario di grande crisi, non c’è spazio per una grande impresa come l’Ilva, tra l’altro impossibilitata ad agire perchè in fase di esproprio temporaneo, e le condizioni di rilancio del settore siderurgico previste nel suddetto piano necessitano di una forte presenza dello Stato che abbia un minimo di strategia di politica economica sovrana e che sappia difendere le sue industrie strategiche e, in una logica di sviluppo economico, sappia ridurre i costi eccessivi dell’energia che <<… pesa fino al 40% sui costi di produzione di un impianto siderurgico, per cui il settore risente fortemente del trend dei costi energetici che, in Europa, sono tra i più alti al mondo >> e rilanciare i due settori di maggior consumo di acciaio (le costruzioni e la produzione di auto) così come fanno la Germania e la Francia (29).
L’Unione Europea sta indagando sull’Ilva di Taranto e vuole sapere dal Governo italiano, dalla regione Puglia e dall’Arpa/Puglia, come si sta combattendo l’inquinamento, come si gestiscono le discariche, i rifiuti e le acque reflue. Chiede inoltre di sapere se sono stati violati il diritto alla vita e il rispetto della vita privata e familiare (articolo 2 e 7 della Carta dei diritti fondamentali della UE)[31].
Il governo italiano sta chiudendo tutte le imprese strategiche appartenenti ai settori innovativi (inutile fare l’elenco); è in forte crisi anche il tanto lodato e non strategico made in Italy; la Banca d’Italia è preoccupata per la tenuta dell’intero sistema industriale (si vedano gli ultimi bollettini economici della Banca d’Italia). Stiamo in una crisi profonda di portata epocale per la quale l’80% della popolazione non vive bene.
A chi pensate che la UE taglierà la produzione, per ridurre la propria sovraccapacità, che ammonta a 80 milioni e rappresenta oltre 1/3 della produzione complessiva?
Il governo italiano, mentre chiude le sue imprese strategiche, per assecondare gli agenti strategici americani, con grandi perdite nelle relazioni geopolitiche e geoeconomiche, diventando sempre più un territorio dove << i gabinetti stranieri [sono] a decidere la sorte della nazione >> , decide per decreto (articolo 1 del decreto legge del 3 dicembre 2012 n.207) di trasformare l’Ilva in impresa strategica ed espropriarla per affidarla alla gestione pubblica per il risanamento aziendale e territoriale per poi restituirla ai proprietari. Come se i luoghi pubblici, i luoghi dell’interesse generale, i luoghi delle istituzioni ramificate territorialmente, i luoghi dello Stato, fossero luoghi dove si espleta la politica dell’interesse generale del Paese e non invece, luoghi dove i gruppi strategicamente egemonici (pre-dominati e sub-dominanti) realizzano i loro indirizzi strategici di dominio.
Non solo, ma la difesa ambientale e la salute delle popolazioni, per cui è stata espropriata l’Ilva, è ideologica ( nell’accezione negativa del termine) e strumentale da parte del governo italiano, tant’è che all’articolo 41, comma 1, del decreto legge n.69/2013[ il cosiddetto decreto del fare (sic)], si legge <<…nei casi in cui le acque di falda contaminate determinano una situazione di rischio sanitario, oltre all’eliminazione della fonte di contaminazione ove possibile ed economicamente sostenibile…>>. E’ ovvio che l’economicamente sostenibile si riferisce alle imprese. E, allora, i tanto decantati articoli 41 e 43 della Costituzione italiana si applicano soltanto all’Ilva? Se interpreto bene il citato articolo, mi ritorna di nuovo la domanda: perché L’Ilva? E i giuslavoristi, i costituzionalisti, i difensori estremi della Costituzione non hanno niente da dire sulla incostituzionalità del citato comma?
Se fosse vivente il grande storico Carlo Maria Cipolla certamente avrebbe aggiornato il suo magnifico saggio (Allegro ma non troppo) sulle leggi fondamentali della stupidità umana.
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Il ruolo dei Commissari. Per realizzare questo grande disegno di rilancio dell’Ilva e di risanamento ambientale e territoriale vengono nominati un Commissario Straordinario, nella persona di Enrico Bondi, già amministratore delegato dell’Ilva nominato dalla famiglia Riva, e un sub Commissario all’ambiente nella persona di Edo Ronchi ( un confusionario della generazione “sessantottopersa” nel distorto benessere capitalistico, che ha scambiato una rivoluzione di costume e di consumo per una rivoluzione sociale nell’accezione marxiana e leniniana, esperto di sviluppo sostenibile, stimato dagli ambientalisti e dai radicali di sinistra, in quota nel PD). Entrambi traghetteranno, in un continuo gioco delle parti, se le cose dette hanno un minimo di sensatezza, l’Ilva alla chiusura. Sono gli esecutori, insieme ai loro gruppi di potere, degli ordini degli agenti strategici sub dominanti italiani alla mercè dei desiderata dei predominanti USA via NATO. A ciò è servito l’applicazione del citato artico 1 del D.L. n.207/2012, altro che interesse pubblico o interesse generale o bene del Paese.
Enrico Bondi, con il suo gruppo di potere di riferimento, medierà con la proprietà una chiusura dignitosa dal punto di vista economico-finanziario.
Edo Ronchi, con il suo gruppo di potere di riferimento, lavorerà ad un grande piano di risanamento dell’ambiente, della città e del territorio rendendo << … gli stabilimenti Ilva un punto di riferimento in Europa, anticipando di tre anni le migliori tecnologie disponibili (Best Available Technologies, BAT) che saranno applicate in ambito europeo a partire dal 2016. Nella consapevolezza di una situazione di assoluta emergenza, il Governo intende tuttavia giungere alla realizzazione dello stabilimento più avanzato in Europa in termini di compatibilità ambientale…>>.
Oggi la strategia è cambiata, ma la soluzione finale resta sempre la chiusura dell’Ilva: 1. Si passa dalla fase di risanamento ambientale, di applicazione di tecnologie pulite e rilancio dell’impresa con il Commissario Enrico Bondi alla fase di mercato di Pietro Gnudi che dovrebbe vendere l’Ilva di Taranto in una situazione di grave crisi di produzione, di crisi di liquidità, di crisi ambientale, con la spada di damocle della magistratura; 2. Si svende in maniera poco chiara ai privati. Sono favoriti per tutta una serie di ragioni e di combinazioni, tra interessi di impresa, politiche energetiche e strategie mondiali dei grandi gruppi dell’acciaio ( settore che attraversa una fase di crisi), il colosso Arcelor Mittal e il gruppo Marcegaglia ( l’impostazione dei bandi, le offerte presentate, il peso dei soggetti strategici in campo confermano la mia ipotesi per la joint-venture Arcelor Mittal-Mercegaglia). Questa alleanza garantisce di fatto gli affari nel breve-medio periodo ( commessa tubi TAP e quote di produzione di acciaio ) e la chiusura dell’Ilva nel medio-lungo periodo (30).
Le due fasi ipotizzate hanno come obiettivo la chiusura dell’Ilva di Taranto che interessa sia gli equilibri dinamici dei sub-sub dominanti nazionali (flusso finanziario per risanamento ambientale, riqualificazione della città, nuova progettualità portuale, eccetera); sia dei sub-dominanti europei (eliminazione di una quota di 10 milioni/annuo di acciaio dell’Ilva pari al 25% del taglio che la UE si è dato per affrontare la crisi e la concorrenza mondiale); sia dei pre-dominanti USA ( realizzazione del polo USA-Nato per le sue strategie nel Mediterraneo e nel Medio Oriente di contrasto alle potenze mondiali emergenti soprattutto la Russia.

I luoghi istituzionali. La UE, il governo italiano, la regione Puglia e il comune di Taranto sono i luoghi istituzionali dove saranno gestite le risorse finanziarie ( derogando al Patto di stabilità) per il rilancio di uno sviluppo dell’area tarantina nei settori della bonifica ambientale, del risanamento del territorio, della rigenerazione urbana della città, della smart city, del riuso del porto ( l’Autorità Portuale vede con favore la chiusura dell’Ilva per puntare a un riuso del porto e al superamento dell’attuale crisi sul modello di quello di Rotterdam: fare di Taranto, la Rotterdam del Mediterraneo), eccetera, in stretta collaborazione con le strategie di intervento che integrano la dimensione militare e quella civile della NATO.
I sindacati, i partiti convergeranno, per gestire la fase di passaggio dal polo siderurgico al polo NATO, le loro azioni per difendere il lavoro e la dignità della popolazione con i meccanismi di difesa sociale, ridotti all’osso, del fu stato sociale.
I lavoratori e le lavoratrici si chiederanno, come Vincenzo Buonocore dell’Ilva di Bagnoli, perché l’Ilva è stata chiusa?
La popolazione di Taranto continuerà a credere che nella società capitalistica è possibile un modo di produzione rispettoso della salute, dell’ambiente e del territorio e dorme tranquilla perché sa che ha come Presidente della Repubblica un garante intransigente della Costituzione italiana.
La sfera ideologica è già al lavoro.
Non è la marxiana storia che si ripete diventando farsa, ma è la lagrassiana storia che torna in maniera diversa.

Le citazioni che ho scelto come epigrafe sono tratte da:

 Honorè de Balzac, Lettres sur Paris;
 Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975, Libro primo, pp.922-923;
 Costanzo Preve, Il tempo della ricerca. Saggio sul moderno, il post-moderno e la fine della storia, Vangelista, Milano, 1993, pag.25.

NOTE

1. Gianfranco La Grassa, Sempre in coda al flusso reale, inconoscibile, www.conflittiestrategie.it, 22/12/2015; Giorgio Gaber-Romano Luporini, La realtà è un uccello, www.giorgiogaber.org, 1994.
2. Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma, 1974, pag.5.
3. Giuseppe Carlo Speziale, Storia militare di Taranto negli ultimi cinque secoli, Laterza, Bari, 1930, pp.7-8.
4. Ernst Cassirer, Il mito dello Stato, Longanesi, Milano, 1971; Carla Maria Fabiani, a cura di, L’origine dello Stato. Un percorso da Platone a Marx, www.ilgiardinodeipensieri.eu .
5. Gianfranco La Grassa, Gli strateghi del capitale. Una teoria del conflitto oltre Marx e Lenin, Manifestolibri, Roma, 2005; Gianfranco La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, Roma, 2008.
6. Julia Kristeva, Donne cinesi, Feltrinelli, Milano, 1974.
7. Raimondo Luraghi, Gli Stati Uniti, Utet, Torino, 1974, volume sedicesimo.
8. Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e l’origine del nostro tempo, il Saggiatore, Milano, 1996; Giovanni Arrighi, Caos e governo del mondo. Come cambiano le egemonie e gli equilibri planetari, Bruno Mondadori, Milano, 2003.
9. Vincenzo Ruggiero, Perché i potenti delinquono, Feltrinelli, Milano, 2015.
10. Umberto Santino, La mafia finanziaria. Accumulazione illegale del capitale e complesso finanziario industriale, www.centroimpastato.com ; Isaia Sales, Napoli e Marsiglia. Storie criminali urbane a confronto, Limes, n.4/2016, pp.47-59; Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975, libro primo, settima sezione, capitoli XXIII e XXIV, pp. 753-950.
10*. Svetonio, Vite dei Cesari, Rizzoli, Milano, 1982, volume secondo, pag.751.
11. Su questi temi si rimanda alla lettura critica di Ludovica Pellizzetti, Globalizzazione e spaesamento, www.micromega.net ( Filosofia-Il rasoio di Accam, 2016).
12. Louis Althusser, Montesquieu, la politica e la storia, Savelli, Roma, 1974, pag.94; si veda anche Carl Schmitt, Parlamentarismo e democrazia, Marco editore, LUNGRO di Cosenza, 1998, pp.21-49.
13. 13. Giorgio Sola, La teoria delle èlites, il Mulino, Bologna, 2000.
14. Lewis Mumford, La città nella storia, Bompiani, Milano, 1967, tre volumi.
15. Margaret Ehrenberg, La donna nella preistoria, Mondadori editore, Milano, 1992.
16. Per una buona sintesi introduttiva che parte dalla differenza dei sessi e, quindi, dalla soggettività femminile ( che include quello di classe e non viceversa), si rinvia a Cristina Carpinelli, Il processo “bloccato” di emancipazione femminile nella pratica sovietica, www.ecn.org, maggio 2005; Sheila Rowbothan, Donne, resistenza e rivoluzione. Una analisi storica per una discussione attuale, Einaudi, Torino, 1976; Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale, Rivolta Femminile, Milano, 1974.
17. Perry Anderson ed altri, a cura di, Storia d’Europa, Einaudi, Torino, 1993, volume primo; Ludwig Dehio, Equilibrio o egemonia. Considerazioni sopra un problema fondamentale della storia politica moderna, il Mulino, Bologna, 1988.
18. Giovanni Arrighi, Caos.., op.cit.
19. Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, Volume III, quaderno 22, Einaudi, Torino, 1975, pp.2139-2181.
20. Carl Scmitt, Terra e mare, Adelphi, Milano, 2006.
21. Luca Veronese, Nato, torna a crescere (dopo 10 anni) la spesa militare dei Paesi europei in il Sole 24 Ore del 31/5/2016.
22. Matteo Luca Andriola, Il trattato di Valsen e l’Eurogendfor, www.comunismoecomunita.org, 13 marzo 2014.
23. Giovanni B. Teràn, La nascita dell’America spagnuola in Leonardo Benevolo e Sergio Romano, a cura di, La città europea fuori d’Europa, Libri Scheiwiller, Credito Italiano, Verona, 1998, pag.79; Fernand Braudel, Le strutture del quotidiano. Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), Einaudi, Torino, 1982, volume primo.
24. Commissione della Comunità Europee, Libro Verde sulla coesione territoriale. Fare della diversità territoriale un punto di forza, www.europa.eu, 6/10/2008, pp-3-5.
25. David Harvey, Città ribelli, il Saggiatore, Milano, 2013; Mike Davis, Il pianeta degli slums, Feltrinelli, Milano, 2006; Alessandro Petti, Arcipelaghi e enclave. Architettura dell’ordinamento spaziale contemporaneo, Bruno Mondadori, Milano, 2007.
26. Giorgio Nebbia, L’acciaieria non è un salotto, www.ecologiapolitica.org, luglio 2013.
27. Giulio Maccacaro, Per una medicina da rinnovare, scritti 1966-1976, Feltrinelli, Milano, pag. 314.
28. Intervento del Ministro dello sviluppo economico alla Camera dei Deputati del 4 giugno 2013, seduta n.28, www.camera.it
29. Antonio Tajani, Piano d’Azione Acciaio, conferenza stampa, Strasburgo, giugno 2013, www.europa.eu
30. Per una verifica quantitativa (da valutare con un approccio critico), completa della grave crisi dell’Ilva di Taranto, rimando all’articolo di impronta economicistica di Paolo Bricco (storico e giornalista del “Sole-24 Ore”), Ilva, Taranto un caso paradigmatico in “il Mulino” n.1/2016 e al modello econometrico dello Svimez, commissionato dal “Sole-24 Ore”, per valutare l’impatto della vicenda Ilva sul sistema industriale del Paese: per una sintesi in Paolo Bricco, La crisi dell’Ilva è costata 10 miliardi in “Il Sole-24 Ore” del 23/05/2016.
[1] La coda di Gianfranco La Grassa o la realtà è più avanti di Giorgio Gaber o di mia nonna, Ripalta Montano, che diceva che non voleva morire perché non aveva ancora capito tante cose della vita ( significativo perché detto da una donna che aveva attraversato due guerre mondiali. Detto senza parafrasi il senso della realtà delle donne è più avanti).
[2] I casi di studi sono da individuare all’interno delle sfere sociali ( economica, politica, militare, istituzionale, eccetera) che nelle determinate fasi storiche mondiali ( monocentrica, multipolare e policentrica) assumono un ruolo determinante in relazioni alle altre sfere sociali. Cioè sono i fasci di luce che illuminano la sfera sociale complessiva.
[3] Riporto una considerazione dello storico Carlo Maria Cipolla: il punto di vista fu sempre universale, l’occhio spaziò sempre oltre i confini della parrocchia per capire meglio il fenomeno locale nel più ampio tessuto europeo e per arricchire il fenomeno generale con l’apporto dell’esperienza locale.
D’altronde l’impostazione seguita da Karl Marx nel Capitale non coniugava la delineazione teorica della logica di sviluppo del capitale con le indagini empiriche sul modo di produzione capitalistico.
[4] […] In quanto la Cina mi sembra essere la sola grande civiltà che si è sviluppata al di fuori del pensiero europeo. Al di fuori della nostra lingua, la grande lingua indoeuropea, e allo stesso tempo al di fuori della nostra storia, almeno fino a un’epoca relativamente recente, fino al XVII secolo e addirittura, di fatto, fino al XIX secolo. Il vantaggio teorico di passare per la Cina è rappresentato dal fatto che essa offre un altrove distante dai nostri punti di vista di riferimento. Se si cerca un’esteriorità della lingua, non la si potrà infatti trovare in India, visto che il sanscrito appartiene alla famiglia delle lingue indoeuropee. Allo stesso modo, se si cerca un’esteriorità nella storia, non la si potrà rintracciare nel mondo arabo o ebraico, legati da mille fili alla storia dell’Occidente. Per chi intenda uscire dal pensiero europeo, volgendosi tuttavia verso un mondo ugualmente elaborato, civilizzato, testualizzato, come il nostro in Europa, non c’è che la Cina. [ Francois Jullien, Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente, Laterza, Roma-Bari, 2006, pp.3-4]
[5] [ …] nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta/ struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezza e di casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale[…] in Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Volume II, Einaudi, Torino, 1975, quaderno n.7, pag.866.
[6] Kevin Spacey (l’Underwood di House of Cards, gli intrighi del potere) ha affermato in una recente intervista che il suo personaggio si ispira al Riccardo III di Shakespeare ed è molto vicino alla realtà; anzi molte volte la realtà ci supera ancora. House of Cards è una serie televisiva statunitense sugli atroci meccanismi di potere nelle relazioni umane sessuate svolte principalmente nelle istituzioni USA ( Partito democratico, Camera, Congresso, eccetera). L’intervista è apparsa su “il Giornale” del 12/4/2016.
[7] E’ illuminante la scena del film ( La banda degli Onesti, 1956) nel dialogo tra Antonio (Totò) e Giuseppe (Peppino De Filippo) nel quale viene spiegato il ruolo del capitalista, del profittatore, dello speculatore, dei vari ragionieri Casoria (corrotti e prepotenti) che rasentano il codice penale ma non incappano dentro.
[8] Bertolt Brecht, L’opera da tre soldi in Teatro, Volume I, Einaudi, Torino, 1978, pp.412-513. Si veda il ruolo avuto dai derivati “tossici” nello scoppio della crisi finanziaria del 2008 e il ruolo delle società Offshore e delle strutture fiduciarie nel gioco tra legalità e illegalità in Amaru Barahona, Legalità ed illegalità economica nel capitalismo neoliberista in www.controinformazione.info del 19 aprile 2016.
[9] Il fine è il dominio non il profitto: Karl Marx la chiama “smania di dominio del capitale”.
[10] Lo spazio naturale assume valore antropologico, diventa un territorio. L’insieme degli interventi trasformativi che assicurano il passaggio dallo spazio al territorio si chiama territorializzazione. La mia definizione è: lo spazio naturale è uno spazio bianco, vuoto dove le trasformazioni territoriali sono peculiari al modo di produzione e riproduzione dei rapporti sociali dati. La società a modo di produzione capitalistico ( conscio di un significato insufficiente di questo concetto) vede e tratta il territorio come uno spazio vuoto, bianco su cui è possibile intervenire in modo illimitato e irrispettoso. Il territorio, invece, diventa quella territorialità che rispetta lo spazio dato secondo e seguendo le leggi della natura. Per rispettare le leggi della natura e le relazioni sociali, i rapporti sociali devono diventare altro.
La territorialità è l’innervamento di una cultura di una nazione e di una cultura della natura ( animata ed inanimata).
[11] Penso al processo storico di costruzione della Costituzione italiana e allo scarto con la realtà materiale dei rapporti sociali ( la farsa dei diritti e doveri tra rapporti sociali asimmetrici). Forse fu in questa fase che si preparò il lungo cammino che portò il PCI ad abbandonare il blocco dell’URSS e a portarlo nel campo occidentale ad egemonia USA. Il ruolo svolto da Giorgio Napolitano e da Enrico Berlinguer era agevolato da questo cammino storico. L’implosione dell’URSS ha permesso la visibilità di tale passaggio.
[12] Il potere-dominio definisce cos’è la democrazia che non è assolutamente la partecipazione e la decisione della maggioranza della popolazione alle scelte delle relazioni sociali e dei rapporti sociali che determinano l’insieme della vita sociale, si veda: Noam Chomsky, Capire il potere, Marco Tropea editore, 2008; Costanzo Preve, Il popolo al potere. Il problema della democrazia nei suoi aspetti storici e filosofici, Arianna editrice, Casalecchio (BO), 2006; Luciano Canfora, Intervista sul potere, Laterza editore, Bari-Roma, 2013; Anonimo ateniese, la democrazia come violenza, Sellerio editore, Palermo, 1982. Preciso che lo stesso Noam Chomsky definisce gli USA, nazione democratica per eccellenza, una nazione con una popolazione spoliticizzata, fortemente religiosa e profondamente ignorante.
[13] Lo Stato, con le sue articolazioni e i suoi luoghi, non è separato, non è uno strumento tecnico-meccanico, ma è parte del conflitto. L’ideologia lo rende separato, non la realtà. Gli agenti strategici dominanti gestiscono il dominio tramite lo Stato che è sempre difficile da svelare e destrutturare. Senza lo strumento Stato non si realizza il potere e il dominio. Il potere ha bisogno dello Stato per essere dominante ed egemonico. Sviluppa e costruisce funzioni e ruoli nei rapporti sociali. Funzioni e ruoli importanti per le strategie conflittuali tra gli agenti strategici dominanti e tra questi e i gruppi sociali, che formano la popolazione, dominati. Quindi lo Stato non è esterno ai rapporti sociali e ai conflitti tra dominanti e tra dominanti e dominati, ma è interno, è luogo per eccellenza per affermare il dominio degli agenti strategici egemonici. La trasformazione profonda dei suoi apparati, alcuni possono essere eliminati, altri creati, tutti possono essere cambiati o rivoluzionati, non significa la soppressione delle “regole del gioco”. Ho iniziato a ragionare su questa ipotesi dello Stato a partire dalla lettura del saggio di Gianfranco La Grassa, Impresa e Stato. Poli complementari della struttura capitalistica in Edoardo De Marchi, Gianfranco La Grassa, Maria Turchetto, Oltre il fordismo. Continuità e trasformazioni nel capitalismo contemporaneo, Edizioni Unicopli, Milano, 1999, pp.38-98.
[14] Le sfere sociali sono astrazioni che ci costruiamo per interpretare la realtà che sta sempre avanti. Le sfere sociali possono essere diverse a seconda delle ipotesi di ragionamento per costruire il campo di stabilità. Per esempio Gianfranco La Grassa ne utilizza tre (politica, economica, culturale) David Harvey ne utilizza sette, eccetera. Nelle sfere sociali è ipotizzabile parlare di potere non di dominio.
[15] Per analogia sulla dinamicità dell’equilibrio degli agenti strategici dominanti, riporto la descrizione del fisico Francesco Sylos Labini sull’equilibrio dei sistemi fisici << […] Da più di cinquant’anni, infatti, si conoscono e si studiano sistemi fisici complessi per i quali, anche se uno stato di equilibrio stabile esiste in teoria, esso può essere totalmente irrilevante in pratica, perché il tempo per raggiungerlo è troppo lungo. Altrimenti vi sono sistemi che sono intrinsecamente fragili rispetto all’azione di piccole perturbazioni, evolvendo in modo intermittente con un susseguirsi di epoche stabili intervallate da cambiamenti rapidi e imprevedibili. In altre parole, per molti sistemi fisici l’equilibrio stabile non è una condizione raggiunta in maniera naturale: diversi sistemi raggiungono invece una situazione di metastabilità e non un vero e proprio equilibrio, come quello di un gas in una stanza isolata o di una pallina in fondo a una valle, cioè una situazione di temporanea stazionarietà ma di potenziale instabilità, tanto che è sufficiente una piccola perturbazione per causare grandi effetti. Come succede quando, per esempio, si accumula l’energia potenziale per effetto del moto relativo di due faglie tettoniche. Questa energia, quando supera una certa soglia critica, sarà a un certo punto rilasciata sotto forma di onde sismiche e cioè ci sarà un terremoto: la dinamica dei terremoti è dunque rappresentata da periodi di apparente quiete in cui il sistema si carica e terremoti improvvisi (ciclici e non periodici) in cui l’energia accumulata è rilasciata […] >> in L’economia neoclassica? Una pseudoscienza. Conversazione con Francesco Sylos Labini a cura di Francesco Suman e Olmo Viola in www.micromega.it, 20/6/2016. Si veda anche l’interessante libro di Francesco Sylos Labini, Rischio e previsione. Cosa può dirci la scienza sulla crisi, Editori Laterza, Roma-Bari, 2016.

[16] Un esempio tratto da Honorè de Balzac ( La cugina Bette, scritto nel 1846, edito da Newton & Compton Editori, Roma,1994) per illustrare la fase di gestione del potere attraverso le istituzioni: << Il barone Hulot, braccio destro di Napoleone, invia lo zio Johann Fischer in Algeria per << Fornire i viveri della guerra, grani e foraggi; ho il vostro contratto firmato. Troverete nel paese il necessario al settanta per cento in meno del prezzo al quale vi si terrà conto…quanto alla riscossione delle imposte, la vostra probità non ne soffrirà; tutto dipende dalle autorità, e sono io che ho insediato laggiù le autorità: sono sicuro di loro…Le scorrerie, l’achour, i califfati. Vi è in Algeria ( paese poco conosciuto, anche se siamo da otto anni) una grandissima quantità di grano e di foraggi. Ora, quando queste derrate appartengono agli arabi, noi, con mille pretesti, cerchiamo di prenderle; poi quando sono nostre gli arabi tentano di riprendercele. Si combatte per il grano; ma non si sa di preciso le quantità che si sono rubate a vicenda. Non si ha il tempo, in aperta campagna di contare le staie di grano come alla Halle [ mercato coperto parigino, mia precisazione], e il fieno come in rue de l’Enfer [ mercato all’aperto, mia precisazione]. Tanto i capi arabi quando i nostri spahis [ brigate coloniali francesi montate a cavallo in Algeria, mia precisazione], preferiscono il denaro e vendono quelle derrate a un prezzo bassissimo. L’amministrazione della guerra ha dei bisogni fissi: passa i contratti a dei prezzi esorbitanti, calcolati sulla difficoltà di procurarsi i viveri e sui pericoli corsi dai trasporti. E’ un pasticcio temperato dalla bottiglia di inchiostro di una qualunque amministrazione nascente. Non potremo vederci chiaro che fra una decina d’anni, noi amministratori, ma i privati hanno buoni occhi. Dunque vi mando per farvi fortuna; vi metto, come Napoleone metteva un maresciallo povero alla testa d’un regno dove si poteva segretamente proteggere il contrabbando.>> [ pp 232-233].
[17] La volontà di potenza e volontà di dominio, con i relativi rapporti di dipendenza, sono il fine delle relazioni sociali della società data. Ciò significa che il profitto della società a modo di produzione capitalistico è un mezzo e non il fine che resta la volontà di dominio che è intrecciata alla analisi delle fonti del potere che non necessariamente hanno a che fare con la sfera economica.
[18] La civiltà occidentale e gli stati moderni nascono, ci tocca ricordarlo con Freud e Hobbes, da un patto tra uomini violenti, che si emancipano dall’autorità paterna e se ne spartiscono l’eredità escludendo le donne dalla vita pubblica e sottomettendole in quella privata. Nel corso della modernità, la libertà non è stata regalata alle donne dalla civiltà occidentale: sono le donne ad averla conquistata con le loro lotte anche contro la civiltà occidentale ( Ida Dominijanni, Speculum, l’altro uomo. 8 punti sullo spettro di Colonia in www.internazionale.it, 3 febbraio 2016.
[19] Costanzo Preve sosteneva che <<. […] Americanismo non significa assolutamente sostenere sempre servilmente tutto ciò che di volta in volta decidono di fare i governi americani. Il vero americanismo, anzi, consiste nel consigliare all’imperatore cosa dovrebbe fare per essere più amato dai sudditi, più multilaterale, meno unilaterale, ed in genere più portatore di un soft power. Il vero americanista consiglia di chiudere Guantanamo, di scoraggiare il Ku Klux Klan, di eleggere al comando il numero maggiore possibile di neri, donne, gay, eccetera. Il vero americanista vuole potersi riconoscere nella potenza imperiale che occupa il suo paese con basi militari e depositi di bombe atomiche a distanza di decenni dalla fine della seconda guerra mondiale (1945) e dalla dissoluzione di ogni patto militare “comunista” (1991). Il vero americanista vuole essere suddito di un impero buono, e pertanto gli spiace che l’impero a volte sia cattivo ed esageri. Massacrando l’Iraq l’impero non ha commesso un crimine, ma un errore. L’americanista utilizza due registri linguistici ed assiologici diversi, il codice del crimine ed il codice dell’errore. Tutti possiamo commettere errori, che diamine! Hitler, Mussolini, i giapponesi, i comunisti, Milosevic, Mugabe, la giunta militare del Myanmar, i talebani, eccetera, hanno commesso e commettono crimini. Churchill che massacra i curdi e gli indiani, Truman che getta la bomba atomica ad Hiroshima, Bush che invade l’Iraq nel 2003, commettono solo spiacevoli errori. L’americanista accusa di anti-americanismo tutti coloro che affermano che gli USA si comportano come un impero, e non dovrebbero farlo, e comportarsi invece come un normale stato-nazione, affidando il mondo ad un equilibrio fra le potenze, senza velleità messianiche imperiali. Qui l’americanista raggiunge il massimo della cialtroneria, perché accusa di anti-americanismo paradossalmente la stessa cultura americana, che afferma a chiare lettere di essere un impero, di voler essere un impero e di voler continuare ad essere un impero, e non è affatto disposta a rinunciare a questo eccezionalismo messianico […] >> in Costanzo Preve, Contro “il politicamente corretto”, www.petiteplaisance.it, 2010.
[20] Generalmente, il caos è il disordine esistente tra l’ultimo ordine di cui si è a conoscenza e l’ordine futuro ancora da realizzarsi. E’ una fase pericolosa e incerta, nella quale ogni elemento di solidità sembra sgretolarsi (Sun Tzu, L’arte della guerra, Mondadori, Milano, 2003).
[21] Claudio Mutti così analizza << Brzezinski ritiene che gli Stati Uniti debbano balcanizzare lo spazio compreso tra Nordafrica e Asia Centrale, se vogliono impedire il consolidamento della grande alleanza tra Russia, Cina e Iran, alleanza che presidierebbe il continente eurasiatico e ridimensionerebbe in maniera decisiva la potenza statunitense. Brzezinski formula la seguente ipotesi: “Se lo Spazio Centrale [“the middle space“, lo Spazio di Mezzo del continente eurasiatico] respinge l’Occidente, diventa un’unica imperiosa entità [an assertive single entity] ed acquisisce il controllo sul Sud o stabilisce un’alleanza col grande protagonista orientale [“the major Eastern actor“, ossia con la Cina], allora il primato dell’America in Eurasia crollerà in maniera drammatica. Avverrebbe la stessa cosa – aggiunge Brzezinski – se i due protagonisti orientali dovessero in qualche modo unirsi”. In altre parole: se la Federazione Russa riuscisse a respingere ed a far indietreggiare l’avanzata dell’Alleanza Atlantica e cercasse di riorganizzare lo spazio ex sovietico secondo una qualche forma di confederazione o di blocco sopranazionale, guadagnando influenza nel Vicino Oriente o stabilendo un’alleanza con la Repubblica Popolare Cinese, allora l’influenza di Washington in Eurasia verrebbe definitivamente eliminata. Ora, è chiaro che lo “Spazio Centrale”, la Russia, sta recuperando il peso geopolitico che aveva perduto col crollo dell’Unione Sovietica. Non solo, ma lo “Spazio Centrale” (la Russia) e il “Paese di Mezzo” (Zhongguo, la Cina) hanno coordinato da tempo le loro forze. Ciò è avvenuto già prima che si formasse l’Unione Eurasiatica. Alla fine degli anni Novanta la Federazione Russa e una parte dello spazio postsovietico cominciarono a stabilire con la Cina un’intesa che ha prodotto l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai e il coordinamento strategico di Pechino con Mosca al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Il grande accordo russo-cinese del gas naturale non è se non un risultato di questa alleanza fra lo “Spazio Centrale” e il “Paese di Mezzo”>>. Claudi Mutti, Eurasia o euro babele in www.eurasia-rivista.org del 5/4/2006.
[22] Qui viene esposta una sintesi aggiornata dei miei due scritti apparsi su www.conflittiestrategie.it : 1. L’Ilva di Taranto. Dalla Trappola del capitale/lavoro e capitale/ambiente al conflitto strategico (2012), 2. Taranto: da polo siderurgico a polo strategico della Nato (2013).
[23] Nelle fasi della storia mondiale (monocentrica, multipolare e policentrica) si costruiscono le nuove geografie della centralità e della marginalità in cui si collocano luoghi destinati ad emergere e altri a rimanere sullo sfondo del tumultuoso processo di “rivoluzione urbana” mondiale.
[24] Altra infrastruttura in progetto è la piastra logistica per le strategie USA-NATO di Grottaglie ( 23 km da Taranto) con l’utilizzo di Droni con una compressione di tempo e spazio impressionante: si parla di 100 minuti da Los Angeles a Roma attraverso un corridoio nella stratosfera [Programma Ente Nazionale per l’Aviazione Civile (Enac)-USA]. Gli USA-NATO hanno bisogno di piastre logistiche per favorire gli spostamenti veloci nel Mediterraneo e nel Medio Oriente in funzione anti Russia e Cina. Ufficialmente i droni servono per il trasporto di merci.
[25] Ad oggi è da svelare l’intreccio e il conflitto tra i seguenti attori: Comune, Commissario, Governo, Cassa Depositi e Prestiti (Fintecna ex Italsider) e Caltagirone per la bonifica di Bagnoli. La bonifica è il cavallo di Troia per far passare le diverse strategie di intervento che si confrontano nell’intreccio tra pubblico e privato.
[26] Per approfondimenti rinvio al mio scritto, L’americanizzazione del territorio (2014) apparso suwww.conflittiestrategie.it
[27] Sul senso del potere politico e militare dell’occupazione del territorio europeo da parte degli USA attraverso le proprie basi militari e quelle della Nato, si veda l’intervista ad Alexander Dugin, L’occupazione è occupazione, 29/01/2014, www.millennium.org.
[28] Sull’attenzione e sulle problematiche che si aprono nel considerare l’intervento dell’esercito nelle meghe città mondiali si rimanda all’articolo sul dibattito militare negli USA in Federico Petroni, L’esercito degli Stati Uniti alla sfida delle giungle urbane in Limes n.4/2016, pp.245-252.
[29] Il mio scritto,Tav, Corridoio V, Nato e USA. Dalla critica dell’economia politica al conflitto strategico,www.conflittiestrategie.it ,2012.
[30] E’ irritante l’atteggiamento delle Istituzioni europee ( Commissione UE, Consiglio d’Europa) che, formalmente emanano le direttive contro le emissioni industriali, ma di fatto garantiscono alle grandi aziende dell’acciaio la piena libertà di produzione. Aggirano con vari tecnicismi quelle stesse direttive emanate in difesa della salute delle popolazioni, dell’ambiente, delle città e del territorio. E’ evidente che le grandi aziende per utilizzare le loro strategie di aggiramento delle varie direttive europee hanno il loro peso politico, le loro alleanze strategiche, le loro protezioni statali. E, allora, si ripresenta la solita domanda: perché solo all’Ilva di Taranto le istituzioni europee impongono le loro direttive? Sul non rispetto delle direttive europee sulle emissioni industriali si veda Stefano Valentino, L’Europa dal 2012 ha autorizzato le acciaierie a “risparmiare” sui dispositivi contro le polveri sottili, www.lastampa.it, 1 luglio 2016.
[31] Ancora oggi la UE continua a pressare in questa direzione con lo strumento dell’associazionismo ambientalista e pacifista locale.

Le probabilità (scarse) di affermazione di un Fronte Nazionale in Italia (3), di Stefano D’Andrea e Paolo Di Remigio del FSI

Il sovranismo è possibile e desiderabile, tratto da http://appelloalpopolo.it/?p=26256
DI STEFANO D’ANDREA · PUBBLICATO 2 DICEMBRE 2016 · AGGIORNATO 3 DICEMBRE 2016

di STEFANO D’ANDREA e PAOLO DI REMIGIO

In un lungo commento sul blog ‘L’orizzonte degli eventi’, ripreso e fatto suo da Barbara Tampieri, Roberto Buffagni si propone di mostrare l’impossibilità fattuale e l’indesiderabilità etica di un partito sovranista in Italia. Le sue tesi aprono una discussione tra potenziali alleati, quindi hanno almeno il merito di dare occasione a un chiarimento sui fini e i modi della loro azione politica. Per questo gli siamo grati di averle espresse.

A noi sembra che il punto di vista di Buffagni sia un po’ troppo limitato allo scenario politico, che vi siano troppo trascurate la storia e l’economia. Questi limiti si fanno evidenti nell’ultimo capoverso. Scrive infatti Buffagni: ‘… finché la sinistra è maggioritaria nell’opinione italiana, la maggioranza degli italiani continuerà a credere che la UE sia riformabile … non un nemico’; il che è vero, anzi è una tautologia: se il partito che crede nella riformabilità della UE (oggi va da Renzi a Fassina) ha la maggioranza dei consensi degli Italiani, la maggioranza degli Italiani crede che la UE sia riformabile. Se però la sinistra subisce una dura sconfitta, prosegue Buffagni, – e crediamo che si riferisca a una auspicabilissima sconfitta elettorale – allora dovrà dare ascolto e farsi guidare da chi ‘dall’interno della … sinistra ha saputo operarne una profonda revisione e le ha indicato come nemico la UE … ’.

Questa espressioni suscitano perplessità per più ragioni: la sinistra non è affatto maggioritaria nell’opinione italiana: già ora i sondaggi danno i grillini in vantaggio ed è almeno probabile che in futuro gli effetti di una politica economica demenziale contribuiscano a eroderne ancora i consensi; inoltre: dopo aver subito una dura e inequivocabile sconfitta, la sinistra non darà ascolto ai revisionisti perché, semplicemente, sarà finita, come è già successo, per esempio, a Rifondazione Comunista. E se finisce, diventa del tutto irrilevante che dia ascolto o meno ai suoi revisionisti anti UE (ammesso che esistano). La sinistra è morta da tempo e non si può uccidere un cadavere, lo si deve seppellire, per ovvi motivi igienici, perché emana il turpe odore del neoliberalismo.

Cosa intendiamo col dire ‘la sinistra è morta’? Che cos’è la sinistra? La sinistra è l’alone politico e culturale creatosi intorno all’URSS, la fede, più o meno viva, che la rivoluzione creerà una società superiore all’attuale. Se questo è vero, la divisione profonda che ha colpito il popolo italiano non nasce dal 1943, come ritiene Buffagni, ma dal 1917, quando il trauma della Grande Guerra e la presenza di una nuova società battezzata da una rivoluzione creano da una parte l’aspettativa dall’altra il terrore di una prospettiva rivoluzionaria: questa aspettativa è la sinistra, questo terrore è l’alleanza volta a contrastarla – alleanza che in Italia è leggibile nei partiti del primo governo Mussolini.

Cosa implica la rivoluzione di tanto grave da far sì che la sua prospettiva rappresenta un discrimine? Nessuno l’ha meglio espresso del più grande rivoluzionario, Lenin, quando durante la prima guerra mondiale ha esortato a trasformare la guerra tra Stati in guerra civile. La rivoluzione implica la guerra civile, la volontà rivoluzionaria implica una volontà di violenza estrema, che è incompatibile con il riconoscimento della maestà delle istituzioni e delle leggi statali.

Con questo non si vuole dire che l’idea rivoluzionaria sia delittuosa e rifiutarla moralisticamente: la morale riguarda le intenzioni del soggetto, la rivoluzione e la guerra civile sono eventi di massa, che esorbitano dalla sfera della volontà soggettiva, rispetto ai quali il soggetto deve rapportarsi innanzitutto politicamente. In ogni caso, ogni partito che si pretende rivoluzionario, che abbia un programma progressista o reazionario, è un partito che si prepara alla guerra civile: tale è il fascismo, tale è voluto apparire a cittadini e militanti il PCI finché ha potuto intravedere nell’URSS la realtà dell’avvenire: un partito del cambiamento radicale, non il partito riformista che effettivamente era (Pizzorno ha mostrato che in realtà, durante gli anni 1950-1960, nel pieno della guerra fredda, il 90% delle leggi fu approvato dal Parlamento all’unanimità o quasi: storia delle ideologie e delle declamazioni e storia dei fatti e degli atti non coincidono). La fine dell’URSS è dunque la fine dell’ultimo partito che ha nel suo strumentario ideologico (e più al livello di credo che di realtà) la guerra civile.

L’estinzione della sinistra con velleità rivoluzionarie ha un effetto profondo sul panorama politico italiano: scompare con essa la guerra fredda civile che, almeno a livello delle declamazioni ideologiche, ha caratterizzato l’Italia dalla prima guerra mondiale agli anni ’70. In questo senso la preoccupazione di Buffagni sull’irrimediabilità della divisione degli Italiani ci sembra più un’applicazione di uno schema naturalistico che il risultato di un’indagine storica.

Così anche l’altra sua preoccupazione, quella dell’essenza totalitaria di un partito sovranista, di un partito nazione, sembra poco ispirata alla realtà. La necessità dell’esistenza del sovranismo risulta non da un’esaltazione nazionalistica, ma dal fatto che in Italia e nel sud dell’Europa gli Stati non sono più sovrani – a differenza di quanto avviene in Germania, per la quale le disposizioni UE subiscono il vaglio di costituzionalità, sono cioè subordinate alla sovranità dello Stato tedesco. Il recupero della sovranità italiana diventa un programma di una parte politica nel momento in cui essa è smantellata da un‘altra parte politica diretta da poteri transnazionali anziché dalla volontà popolare. Qui non si ripropone dunque la situazione del ventennio fascista, quando una parte politica si identifica con la nazione e ne esclude altre parti che si sentono nazione non meno della prima. La nostra situazione è semmai quella opposta: ricondurre alla coscienza dello Stato una parte del popolo, intendiamo la sinistra europeista, che non si crede più sua parte perché disprezza i confini, perché ignora che i diritti non esistono naturalmente ma solo in quanto è definito un ambito di assunzione di doveri. Nel porsi il problema di restaurare la sovranità il Fronte sovranista italiano non può pensare neanche lontanamente ad escludere alcuno dallo Stato, vuole anzi recuperare chi se ne crede fuori; dunque si concepisce non come unico partito dello Stato nuovamente sovrano, ma come partito tra gli altri, erede di una specifica tradizione, quella della democrazia socialista, accanto ad altre tradizioni, come quella della solidarietà cattolica, quella della meritocrazia liberale, come espressione non soltanto dell’interesse universale, quello della fiducia e della legalità, ma anche di specifici interessi, quelli dei piccoli, accanto a quelli dei grandi.

Alla sinistra estinta è sopravvissuto un ceto politico educato alla retorica della guerra civile, frustrato da decenni di tentativi di appropriarsi della gestione del potere pubblico. Incapace di intendere lo Stato come quadro di fiducia reciproca entro il quale si articolano le differenze interne al popolo, avvelenato dalla concezione dello Stato come strumento con cui una fazione impone la sua dittatura, educato dallo storicismo materialista al disprezzo dell’eticità presente e all’ebbrezza del ‘nuovo’, questo ceto politico è stato cooptato dai poteri transnazionali (banche d’investimento, multinazionali, organismI internazionali che ne rappresentano gli interessi). Questa inedita strumentalizzazione è stata resa possibile dal comune orientamento anti-statalista: la rivoluzione globalista ha fatto degli internazionalisti un proprio strumento. A questo punto la sinistra diventa quel nemico, rispetto al quale è opportuno allacciare qualunque alleanza che abbia a cuore la civiltà.

La rivoluzione globalista non era diretta contro la sinistra nell’accezione ristretta che diamo a questo termine in questo contesto: non è il neoliberalismo ad aver vinto la guerra fredda, esso ha invece approfittato prima della crisi (fin dai primi anni ottanta) e poi della sconfitta dell’URSS per mettere fine all’interventismo statale che le élite occidentali avevano promosso dopo la crisi del 1929 e poi nei primi trent’anni del dopoguerra per rafforzare il fronte interno contro la minaccia comunista. L’antistatalismo ha unito globalisti e internazionalisti. Lo statalismo è dunque lo specifico del nostro sovranismo.

Buffagni non spiega perché la UE sia il nemico, ma sicuramente concorderà con la risposta che la UE è lo strumento con cui i poteri transnazionali e quindi il grande capitale, industriale, finanziario (nonché il capitale “marchio”) si sono imposti in Europa. Questa precisazione conduce però al di là delle sue posizioni, in quanto ci costringe a determinare per quali motivi i poteri mondialisti sono nostri nemici. In fondo hanno fatto propri ideali a cui noi stessi non potremo mai rinunciare: la condanna del razzismo, del sessismo, lo spirito di apertura culturale. Ebbene, il globalismo è nostro nemico perché da un lato, al livello ideologico, ossia delle declamazioni, fa della crescita economica l’obiettivo rispetto al quale ogni valore spirituale è annullato, dall’altro, non paradossalmente ma scientemente, si dimostra non solo del tutto inetto a favorirla, anzi opera sistematicamente in modo da bloccarla. Questo apparente paradosso di una ideologia che sacrifica l’umanità per raggiungere un obiettivo che proprio quel sacrificio impedisce di raggiungere è il riflesso della superstizione del mercato: la stolida credenza nelle capacità di regolazione economica del mercato ha annullato ogni esigenza di regolazione in vista di un bene superiore, di cui solo lo Stato può farsi veicolo; quindi ha emarginato lo Stato dall’economia, e insieme ha prodotto una delle recessioni più profonde della storia moderna. Precarietà, povertà, disoccupazione, insicurezza, miseria intellettuale, abbandono hanno colpito il mondo da quando l’imposizione del libero mercato in nome del primato dell’economia ha bloccato l’economia e ha promosso il trasferimento della ricchezza sociale a sparute minoranze.

Caratterizzare il nemico su questa base economica consente di determinare in termini positivi il programma politico del sovranismo. E questa positività consente di uscire dall’atteggiamento esclusivista di chi identifica partito e nazione: all’interno di chi vuole lottare contro il potere transnazionale che qui in Italia si esprime innanzitutto nella Ue, il Fronte sovranista italiano si segnala per specifici obiettivi per cui si differenzia dai potenziali alleati e non può confondersi con essi.

Secondo noi non basta uscire dalla Ue, non basta dissolvere l’euro; occorre sin d’ora porsi il problema del dopo. La rottura con la UE e della UE deve per noi inaugurare una stagione di intervento statale nell‘economia in vista della piena occupazione, in modo che l’uso statale senza timidezze degli strumenti di politica economica permetta l’uscita dalla crisi, l’esaurimento dell’esercito industriale di riserva e il riequilibrio del rapporto tra capitale e lavoro. Per noi l’ideale della sovranità statale, dopo essersi realizzato rispetto all’estero, dispiega il suo significato all‘interno: essa deve ripristinare la politica economica in modo da ricreare un equilibrio tra le classi, premessa indispensabile della libertà e della democrazia.

Questo programma positivo è qualcosa di più dei tre punti di azione politica proposti da Buffagni: più dell’influsso culturale, più del lavorare per dividere la sinistra (un lavoro in verità superfluo dato che la sinistra è già estinta ed esiste come ectoplasma soltanto nella stampa corrotta), e non può essere perseguito se si aderisce ai partiti anti UE già esistenti. Lega e Fratelli d’Italia possono essere “alleati” nella lotta contro la UE, ma solo alleati temporanei: essi condividono infatti con il capitalismo transnazionale i presupposti liberali, la superstizione del libero mercato; la Lega inoltre conserva la sua avversione allo Stato nazionale e non ha mai rinnegato l’obiettivo di dividere l’Italia settentrionale da quella meridionale. Delle quattro libertà del capitale: il libero movimento delle merci, dei servizi, dei capitali, delle persone, questi due partiti combattono con una certa chiarezza soltanto l’ultima, lasciando sperare molto poco sulle prime tre.

Ci sembra dunque di poter escludere che Lega nord e Fratelli d’Italia, addirittura gli stessi partiti europei anti UE come il Front National, se e quando conseguiranno il potere politico e saranno sorretti da robuste maggioranze parlamentari, agiranno col fine di distruggere l’Unione europea in quanto espressione del progetto neoliberale. Sarebbe necessario che già ora si ponessero come obiettivo una nuova Comunità economica europea, con meno vincoli rispetto a quella precedente, con meno membri, regolata da trattati stabili e priva di organi con poteri normativi e giurisdizionali sugli Stati. I partiti anti UE generati dalla destra tradizionale sono invece troppo avversi al protezionismo per concepire una semplice zona di parziale libero scambio; soprattutto a livello di classi dirigenti, sono troppo legati ai cliché reaganiani per condurre una vera lotta d’indipendenza e per respingere tutti i vincoli europei che impongono il liberalismo economico; si limiteranno dunque a promuovere, assieme ad altre forze, una semplice revisione dell’Unione europea: una timida riduzione o attenuazione dei vincoli, anziché una nuova stagione statalista.

Soltanto la prospettiva sovranista restaurerà lo Stato democratico dirigista e pluriclasse, volto alla piena occupazione, con un generoso stato sociale, con scuole, università, conservatori e istituzioni culturali rispettosi della ricchezza della tradizione culturale italiana.

UNA ANALISI DETTAGLIATA del voto statunitense, una chiosa di Massimo Morigi

Al netto del lucido ragionamento di Gianfranco Campa – il quale, sia detto per inciso, denota una conoscenza diretta dell’odierno scenario politico statunitense, una conoscenza di prima mano e non ridicolmente libresca come quella di molti italici e professorali tromboni che vanno per la maggiore e che inquinano le fonti di una sempre più sprovveduta pubblica opinione e tanto sono graditi al ceto dei “semicolti di sinistra, ma per essere equanimi anche di destra – l’ “Analisi dettagliata del voto statunitense” non è solo un ottimo rapporto di servizio su come sono andate effettivamente le cose in questa elezione e sul perché Trump è stato eletto ma in questa analisi traslùce anche una lezione di teoria (e prassi) politica. Scrive Campa in relazione della vittoria di Trump ottenuta tramite la prevalenza dei voti dei collegi elettorali ma non attraverso la maggioranza dei voti degli elettori (i quali con un buon margine hanno favorita la sua rivale Clinton): “In Italia è difficile da concepire l’idea del collegio elettorale poiché il sistema politico americano, voluto dai suoi padri fondatori, si basa più sul concetto di repubblica federale rispetto ad una democrazia pura. Il collegio elettorale è stato concepito per due motivi: il primo scopo era quello di creare un cuscinetto tra la popolazione e la selezione di un presidente. I padri fondatori avevano paura di una elezione diretta del presidente. Temevano un tiranno che avrebbe potuto arrivare al potere. Il maggior proponente del sistema a collegio elettorale, Alexander Hamilton e il resto dei Padri Fondatori vedevano nel collegio elettorale un baluardo contro l’avvento di un personaggio in grado di manipolare la massa dei cittadini a proprio vantaggio.” Con queste poche righe sono così demolite tutta l’attuale retorica politica italiana che, indifferentemente da destra come da sinistra, indica come uno dei peggiori mali in assoluto il fatto che l’Italia non sia un paese democratico perché la mediazione fra corpo elettorale e ceto politico impedisce l’espressione delle migliori energie del paese e la retorica che ha come sottotitolo la seguente scritta: “bisogna imitare le istituzioni politiche degli Stati uniti, che è il vero paese dove il potere viene espresso direttamente dal popolo”. Nella realtà, non ci potrebbe essere più grande mistificazione; nella realtà, anche non volendo tener conto dell’elementare fatto che nella democrazia americana, in misura immensamente maggiore di tutte quelle che si sono affacciate nell’epoca moderna, sono i grandi apparati e le grandi corporation ad essere i veri decisivi elettori e che il popolo non conta un emerito …, si ignora l’elementare fatto che i padri costituenti di quel paese non vollero costruire una democrazia, che ritenevano potesse cadere in mano della dittatura di una maggioranza o di una minoranza, ma vollero costruire una repubblica che in virtù della presenza nel suo corpo politico di diversi e configgenti interessi – e in virtù del fatto che questi diversi e configgenti interessi erano sparsi su un grande territorio, gli Stati uniti appunto – molto difficilmente sarebbe scivolata in una dittatura, che per la maggior parte di questi padri costituenti era la naturale evoluzione della democrazia. La più significativa espressione di questa modalità di pensiero è la teoria dell’ “extended republic” di James Madison, il quale nel Federalista n. 10 scriveva a proposito dei pericoli della dittatura di una parte politica, non importa se questa parte sia, rispetto alla popolazione, una minoranza od una maggioranza. “A republic, by which I mean a government in which the scheme of representation takes place, opens a different prospect, and promises the cure for which we are seeking. Let us examine the points in which it varies from pure democracy, and we shall comprehend both the nature of the cure and the efficacy which it must derive from the Union. The two great points of difference between a democracy and a republic are: first, the delegation of the government, in the latter, to a small number of citizens elected by the rest; secondly, the greater number of citizens, and greater sphere of country, over which the latter may be extended.” Quindi per Madison repubblica è da contrapporsi a democrazia (potenzialmente illiberale), e deve essere una repubblica basata sulla delega della rappresentanza piuttosto che una democrazia (nella descrizione che ne fa Madison noi diremmo una democrazia diretta, ma, alla luce dell’insoddisfazione non molto meditata delle odierne masse per una democrazia avvertita distante, siamo sicuri che Madison non cogliesse nel segno nella sua critica alla democrazia?) : “A republic, by which I mean a government in which the scheme of representation takes place, opens a different prospect, and promises the cure for which we are seeking. Let us examine the points in which it varies from pure democracy, and we shall comprehend both the nature of the cure and the efficacy which it must derive from the Union. The two great points of difference between a democracy and a republic are: first, the delegation of the government, in the latter, to a small number of citizens elected by the rest; secondly, the greater number of citizens, and greater sphere of country, over which the latter may be extended.”, e deve essere per Madison una repubblica che per estensione di territorio abbia come costituzione materiale il bilanciamento effettivo delle varie forze politiche, economiche e sociali: “The other point of difference is, the greater number of citizens and extent of territory which may be brought within the compass of republican than of democratic government; and it is this circumstance principally which renders factious combinations less to be dreaded in the former than in the latter. The smaller the society, the fewer probably will be the distinct parties and interests composing it; the fewer the distinct parties and interests, the more frequently will a majority be found of the same party; and the smaller the number of individuals composing a majority, and the smaller the compass within which they are placed, the more easily will they concert and execute their plans of oppression. Extend the sphere, and you take in a greater variety of parties and interests; you make it less probable that a majority of the whole will have a common motive to invade the rights of other citizens; or if such a common motive exists, it will be more difficult for all who feel it to discover their own strength, and to act in unison with each other. Besides other impediments, it may be remarked that, where there is a consciousness of unjust or dishonorable purposes, communication is always checked by distrust in proportion to the number whose concurrence is necessary.” L’attuale “extended republic” statunitense ha fatto sì che venisse eletto un uomo che non ha ricevuto la maggioranza dei voti popolari ma, quale che sia il giudizio sul personaggio, ha fatto sì che una maggioranza che per ignoranza si suole definire di sinistra ma che in realtà viene turlupinata con una ideologia (e pratica operativa) composta da un feroce mercatismo e dall’esaltazione di farlocchi diritti non attinenti ai rapporti di forza e/o di collaborazione fra le varie classi ma al pubblico riconoscimento delle proprie intime pulsioni (che proprio perché intime, dovrebbero accuratamente rimanere fuori dalla sfera pubblica) sia rimasta a bocca asciutta facendo invece prevalere rozzi contadini, piccoli proprietari, operai, casalinghe, persone certamente con poca cultura libresca ma con grande cultura per quanto riguarda il senso di responsabilità e la comprensione che una “vita buona” non può certo venire dal proclamare il proprio orientamento sessuale (il quale è una cosa che va praticata e non certo declamata) e facendosi invadere da esotiche masse di disperati ma cercando di costruire col lavoro la propria esistenza. Saprà Trump tenere fede, seppur in minima misura, alle promesse fatte e riorientare nel senso dei padri fondatori, la vecchia “extended republic” che col magnate sta cercando di ottenere una sua reviviscenza? Difficile dirlo, Campa in proposito non è ottimista ma al di là di previsioni sempre molto difficili da formulare, bisogna riconoscere che Trump, nolens volens, ha innestato un processo con grandi potenzialità rivoluzionarie. Ma tornando alla lezione che l’America ha saputo dare in questa occasione al Vecchio continente e all’Italia in particolare, non si può pretendere che ciò venga oggi compreso dai ceti semicolti di sinistra e di destra e tantomeno dalle masse instupidite da settant’anni di pseudodemocrazia (e, ancor peggio, di pseudocomprensione del significato della stessa). Forse la lezione dovrebbe però essere compresa da coloro (molto pochi per la verità, temo) che un tempo furono ammiratori di un tale che sosteneva in politica valeva la massima dell’ “analisi concreta della situazione concreta”. Leniniana “analisi concreta della situazione concreta” che ha permesso a Trump di ottenere la presidenza degli Stati Uniti d’America e rifiuto della quale che fa sì che i ceti semicolti di destra e sinistra possano fare i cani da guardia delle masse sempre anonime e conculcate (brutto sogno quelle della moltitudine negriana!). Anche da Trump e dell’ “extended republic” statunitense (per carità, non dalla democrazia americana, mai esistita, nemmeno nei sogni dei maggiori fra i fondatori di quella nazione) bisogna quindi ripartire per impostare ex novo un discorso ed una pratica rivoluzionaria che basata sul lagrassiano conflitto strategico getti nella pattumiera della storia gli ultimi settant’anni di primitivismo teorico e pratico della politica italiana e dei cosiddetti paesi democratici occidentali.
Massimo Morigi – 15 dicembre 2016

UNA ANALISI DETTAGLIATA del voto statunitense, di Gianfranco Campa

UNA ANALISI DETTAGLIATA del voto statunitense, di Gianfranco Campa
Le elezioni presidenziali americane sono finite da più di un mese e solo ora, escluso qualche centinaia di migliaia di voti rimasti da contare, voti di americani residenti all’estero, i numeri definitivi delle elezioni danno un quadro preciso della situazione politica a stelle e strisce.
In attesa di scoprire tutte i nomi del gabinetto del governo Trump e le circa quattro mila nomine necessarie per riempire le posizioni vitali di competenza della nuova amministrazione, la cosa che possiamo fare è analizzare i dati definitivi del voto per comprendere meglio come l’evolversi della politica Americana e soprattutto cosa aspettarsi nel futuro.
Trump ha vinto la presidenza grazie al maggior numero di voti del collegio elettorale; 306 elettori contro i 232 di Clinton. Il voto popolare invece è appannaggio di Hillary Clinton; con qualche migliaio di voti ancora da contare, la Clinton è avanti di quasi 3 milioni di voti: intorno ai 65,800,000 voti contro i 62,900,000 di Trump. La composizione del collegio elettorale è ciò che ha spostato la bilancia in favore di Trump.
Una curiosita` statistica. Nessun altro candidato presidenziale aveva mai perso il voto popolare con un margine così largo, per poi vincere ugualmente le elezioni grazie ad una schiacciante vittoria nel collegio elettorale. Nel 2000, Bush aveva vinto la maggioranza del collegio elettorale battendo Al Gore, ma aveva perso il voto popolare di qualche migliaio di voti, una miseria.
Con quasi 63 milioni, Trump ha ottenuto il record per un candidato Repubblicano, superando il consenso ottenuto da Bush nel 2004 con poco più di 62 milioni di voti i quali permisero a Bush di battere John Kerry. L’elettorato Repubblicano ha quindi fatto la propria parte andando in massa a votare e raccogliendo anche il voto dei cosiddetti “democratici reganiani” i quali hanno sopperito alla mancanza di sostegno per Trump da parte dell’establishment repubblicano. Clinton d’altro canto non è riuscita a ricreare la coalizione Obamiana del 2008, quando Barak riuscì a portare alle urne una massa di elettori appartenenti sia al blocco democratico tradizionale, sia alle minoranze etniche, sia alla massa dei giovani, particolarmente quelli appartenenti al mondo studentesco. Obama nel 2008 ottenne quasi 69,500,000 di voti, il record assoluto per un candidato presidenziale americano. Obama si confermò Presidente nel 2012 aggiudicandosi quasi 66 milioni di voti contro i quasi 61 milioni di Romney. A conti fatti si deduce che ai democratici mancano 4-5 milioni di elettori rispetto al 2008, mentre Trump ha rivitalizzato il partito repubblicano rendendolo più competitivo rispetto al passato e posponendone l’annunciato declino ancora di qualche anno. Più che il voto sommerso, Trump è stato bravo a raccogliere in massa l’elettorato repubblicano, mentre per la Clinton ha ceduto il muro blu del “Rust Belt.”
In Italia è difficile da concepire l’idea del collegio elettorale poiché il sistema politico americano, voluto dai suoi padri fondatori, si basa più sul concetto di repubblica federale rispetto ad una democrazia pura. Il collegio elettorale è stato concepito per due motivi:
• il primo scopo era quello di creare un cuscinetto tra la popolazione e la selezione di un presidente. I padri fondatori avevano paura di una elezione diretta del presidente. Temevano un tiranno che avrebbe potuto arrivare al potere. Il maggior proponente del sitema a collegio elletorale, Alexander Hamilton e il resto dei Padri Fondatori vedevano nel collegio elettorale un baluardo contro l’avvento di un personaggio in grado di manipolare la massa dei cittadini a proprio vantaggio.
• Il secondo motivo era di dare più equilibrio ai singoli Stati dell’Unione assegnando potere anche agli Stati più piccoli. Per esempio in un sistema maggioritario, stati e centri urbani più popolosi decidono le sorti dell’intera nazione, lasciando larga parte del paese alla mercé decisionale di chi vota in posti come la California, New York, Washington e Chicago. Essendo gli Stati Uniti un paese enorme, ci sono rimarcate differenze culturali ed esistenziali fra le varie zone del paese; i cittadini di San Francisco ad esempio hanno esigenze e ideologie diverse rispetto a chi vive nell’Idhao oppure nella Louisiana. Per quanto riguarda il collegio elettorale, la vittoria di Trump non è stata ancora ufficializzata, poiché il collegio si riunirà solo il 19 di dicembre. In teoria Trump non è ancora il presidente eletto.
Tornando ai numeri. Trump ha vinto in 30 Stati più il secondo distretto congressionale dello Stato del Maine. Clinton ha vinto 20 Stati piu il Distretto di Columbia. Clinton ha vinto in California con più del doppio dei voti, 8,600,000, contro i 4,400, 000 di Trump; da qui la ragione della larga differenza nel voto popolare a favore di Clinton. Trump ha vinto in più contee rispetto alla Clinton, 2,623 contro le 489, dipingendo la mappa poltica americana di un profondo Rosso repubblicano e marginalizzando il potere democratico agli stati costieri e ai grossi centri urbani. Nel mezzo la maggior parte del paese è conservatore, dando così ancor più risonanza alle differenze tra i vari centri del paese. Il contadino texano è lontano anni luce dal professionista High Tech della Silicon Valley. Il metalmeccanico dell’Ohio vede il mondo completamente agli antipodi rispetto al cittadino elitista di Manhattan. Il minatore del West Virginia concepisce la vita in maniera porfondamente diversa rispetto all’intelletuale Bostoniano. Il piccolo imprenditore della Florida vive la vita in maniera più articolata rispetto al fumatore di marijuana del Colorado.
La sconfitta di Clinton è stata sì una sorpresa, ma i sondaggi non erano poi così sbagliati, vista la differenza nel voto popolare tra la Clinton e Trump. Alla fine la Clinton ha vinto il voto popolare con una percentuale di 3-4 punti il che è in linea con i sondaggi preelettorali.
La Clinton ha perso per un motivo tattico più che per uno sbaglio di interpretazione del voto popolare. I democratici sapevano che la larga popolazione minoritaria degli Stati Uniti, in particolare quella latina, avrebbe fatto la differenza in Stati come il Nevada, il Colorado e il Nuovo Messico. L’avanzata dell’immigrazione latina, sempre favorevole ai Democratici, ha trasformato, nell’ultimo decennio, stati tradizionalmente più conservatori come per esempio il Nevada, in Stati solidamente Blu. L’onda blu si è arrestata temporaneamente, grazie agli Stati cosidetti del Rust Belt, cioe` Indiana, Michigan, Pensylvania, Ohio, Wisconsin. Questi sono stati tradizionalmenti democratici, che hanno votato fedelmente il partito democratico per quasi 30 anni. Clinton qui ha commesso il suo errore tattico; considerare come sicuri questi Stati, tanto da visitare, durante tutta la campagna presidenziale, tra gli stati del Rust Belt, una sola volta il Wisconsin.
I democratici hanno fallito nel capire che in questi Stati la perdita di quei posti manifatturieri impacchettati e spediti oltre i confini nazionali, in Messico, Cina, Vietman, Canada ect. ha alienato una popolazione che aveva un disperato bisogno di un cambio epocale. In questi stati la tradizionale classe media bianca, forma ancora la maggioranza della popolazione e non ha subito, per il momento, un impatto decisivo nei flussi immigratori, come per esempio in California. L’ultima volta che questi Stati hanno votato Repubblicano è stato con la candidatura di Reagan; ecco perché gli elettori che hanno eletto Trump, nel Rust Belt, portano la nomina di democratici reganiani.
Quando Trump, nell’ultimo mese della campagna, visitava freneticamente la Rust Belt, i mass media lo tacciavano di essere alla disperazione; in realtà Trump aveva capito che in questi Stati, per la prima volta in decenni, il voto era di nuovo in gioco a favore dei Repubblicani.
Il cambio demografico dell’America avvantaggia i liberali progressisti, la larga maggioranza dei non-bianchi vota democratico. I bianchi ora sono il 62% della popolazione, in 10 anni saranno appena il 48-50%. Il futuro è in mano esclusivamente ai democratici con la conferma di queste dinamiche. Credo fortemente che queste elezioni siano state il colpo di coda di un partito Repubblicano che, se non si rifonda completamente, non governerà più per i prossimi cento anni. Trump ora dovrà, per arginare l’onda blu, posizionarsi verso il centro e ammorbidire alcune delle sue vedute (soprattutto in termini di leggi immigratorie) per potersi assicurare fra quattro anni la rielezione; anche perché difficilmente i democratici rifaranno lo stesso errore due volte, scordarsi cioè di fare appello all’elettorato del Rust Belt.
Nel frattempo, per i prossimi quattro anni i Repubblicani avranno la maggioranza sia alla Camera che al Senato. L’en plein elettorale repubblicano non deve però confondervi. I repubblicani hanno sì il controllo virtualmente dell’intero apparato politico a Washington, ma rispetto alle elezioni intermedie del 2014 hanno perso qualche rappresentante al Senato. I repubblicani passano da 54 a 52 rappresentanti perdendo due senatori; una maggioranza sì, ma striminzita visto che non è a prova di “filibuster”. Va un po’ meglio alla Camera, dove i repubblicani hanno 238 seggi contro i 194 dei democratici. Un margine a prova di qualsiasi ostruzionismo democratico. Anche qui bisogna dire però che i Repubblicani hanno perso, rispetto al voto del 2014, sei seggi andati a favore dei Democratrici.
I numeri quindi ci dicono che i Repubblicani hanno vinto su tutta la linea, anche se il credito va dato non alla capacità dei repubblicani di stimolare i propri votanti, bensì al carisma di Donald Trump che è riuscito con la sua personalità e idea politica a creare un movimento d’urto, uno sbarramento all’avanzata blu democratica che dopo le elezioni di Obama nel 2008 sembrava inarrestabile, portando a votare ai seggi gente che non era stata certamente ispirata ad andare alle urne a votare candidati presidenziali come McCain o Romney.
Le elezioni intermedie per la Camera e Senato del 2018, ci diranno quale giudizio gli americani si saranno fatti della presidenza di Trump. Se i Repubblicani manterrano il controllo del Senato e della Camera, allora il 2020 farà loro meno paura e Trump avrà una seria possibilità di essere rieletto.

DIALECTICUS NUNCIUS, di Massimo Morigi

Alfred Eisenstaedt – ‘Weathervane in Vermont’, early 1940

Dialecticvs Nvncivs, di Massimo Morigi

Il punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico attraverso i Quaderni del Carcere e Storia e Coscienza di Classe per il rovesciamento della gerarchia della spiegazione meccanicistico-causale e dialettico-conflittuale, per il rinnovamento degli studi marxiani e marxisti e per l’ Aufhebung della gramsciana e lukacsiana Filosofia della Praxis

Il momento dialettico è il superarsi proprio di tali determinazioni finite e il loro passare nelle determinazioni loro opposte. La dialettica viene usualmente considerata come un’arte estrinseca che arbitrariamente porta confusione in concetti determinati e produce una semplice apparenza di contraddizioni in essi, in modo che non queste determinazioni, ma quest’apparenza sarebbe un nulla e l’intellettivo invece sarebbe il vero. Spesso la dialettica è anche nient’altro che una sorta di altalena soggettiva di ragionamenti che vanno su e giù e dove manca ogni contenuto effettivo e la nudità viene nascosta semplicemente dalla sottigliezza che produce un tale raziocinare. – Nella sua determinatezza peculiare la dialettica è piuttosto la natura propria, vera, delle determinazioni dell’intelletto, delle cose e del finito in generale. La riflessione è dapprima l’oltrepassare la determinazione isolata e il metterla in relazione; così questa determinatezza viene messa in rapporto e, per il resto, viene conservata nella sua validità isolata. La dialettica invece è questo immanente oltrepassare, in cui l’unilateralità e la limitatezza delle determinazioni dell’intelletto si espone per quello che è, cioè come la loro negazione. Ogni finito è il superare se stesso. La dialettica è quindi l’anima motrice del procedere scientifico ed è il principio mediante il quale soltanto il contenuto della scienza acquista un nesso immanente o una necessità, così come in esso in generale si trova la vera elevazione, non estrinseca, al di là del finito.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Enciclopedia delle Scienze Filosofiche in Compendio, § 81

Dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico,(1) oltre alla “falsificazione” di Marx, innumeri volte rappresentata da La Grassa in tutta la sua opera e ora per ultimo di nuovo molto opportunamente ripetuta nella Intervista (teorica) a Gianfranco La Grassa (di F. Ravelli), la nascita mai avvenuta della nuova classe al potere del lavoratore collettivo cooperativo associato, sulla quale ci soffermeremo fra poco, siamo di fronte a due ulteriori “crampi” del pensiero marxiano che, uniti alla “falsificazione” di cui sopra ci consentono davvero, alla luce dell’impostazione conflittuale-strategica lagrassiana, di compiere un passo decisivo per lo sviluppo delle scienze sociali e storiche che, non solo rivoluzionino gli attuali paradigmi teorici, ma anche possano dare l’inizio ad una reale prassi sociale anch’essa rivoluzionaria rispetto agli stantii paradigmi politici democraticistici. Partiamo, molto semplicemente, dal passo fondamentale del Capitale dove Marx individua il carattere del tutto ideologico dell’allora (e tuttora) imperante economia politica: «Al possessore di denaro, che trova il mercato del lavoro come particolare reparto del mercato delle merci, non interessa affatto il problema del perché quel libero lavoratore gli compaia dinanzi nella sfera della circolazione. E a questo punto non interessa neanche a noi. Noi, dal punto di vista teorico, ci atteniamo al dato di fatto, come fa il possessore di denaro dal punto di vista pratico. Però una cosa è evidente. La natura non produce da un lato possessori di denaro o di merci e dall’altro semplici possessori della propria forza lavorativa. Tale rapporto non risulta dalla storia naturale né da quella sociale ed esso non è comune a tutti i periodi della storia. È evidente come esso sia il risultato d’uno svolgimento storico precedente, il prodotto di molte rivoluzioni economiche, della caduta di una intera serie di più vecchie formazioni della produzione sociale.»(2) Marx ci dice quindi, al contrario di quanto sostenevano gli economisti classici (e di quanto sostengono ancor oggi gli attuali economisti), che è la storia e non la natura a produrre la società dominata dal capitalismo e che, di conseguenza, le presunte leggi economiche non sono per niente naturali ma totalmente dovute all’umana evoluzione storica. Questo totale cambio di paradigma segna ad un tempo la grandezza ed anche l’enorme ed invalicabile limite di Marx (e di tutte le varie scuole di pensiero e di azione che da lui prenderanno origine). Detto in estrema sintesi: vero è che la società capitalistica e le presunte leggi dell’economia non hanno affatto l’ineluttabilità della natura ma sono di pura origine storico-sociale. Falso è, come invece traspare chiaramente dal testo appena citato, che sussista una suddivisione reale fra natura e storia. Come ho già affermato in altri luoghi, questa errata epistemologia è l’errore più grande di tutta la tradizione filosofica occidentale, alla quale, con risultati del tutto insoddisfacenti, cercarono di porre rimedio Hegel e Schelling e che, quindi, non si può fare particolare biasimo a Marx per esservi ricaduto. Ma se non si può certo biasimare in particolare Marx per questo errore, sul piano del giudizio storico sono del tutto da deprecare i problemi derivatine. La conseguenza, veramente nefasta, è stata una visione terribilmente ristretta del metodo dialettico dove da una parte, cioè nel cosiddetto Diamat – sviluppo teorico finale delle cosiddette tre pseudoleggi dialettiche di Engels illustrate nella sua Dialettica della Natura e nell’Anti-Dühring (conversione della quantità in qualità, compenetrazione degli opposti e negazione della negazione, tre leggi che sono la scimmiottatura della logica aristotelica) –, la dialettica è diventata una forma corrotta di pensiero positivistico e che, sulla linea dell’ineluttabilità di queste leggi pseudodialettiche engelsiane, ha smesso, appunto, di essere dialettica per trasformarsi in instrumentum regni dei regimi totalitari del socialismo reale; dall’altra parte, invece, cercando di preservare i limiti di libertà e di creazione prassistica dell’azione che dovrebbe consentire la dialettica stessa, si è cercato di staccare la dialettica dalla comprensione dei fenomeni naturali, gravissima perdita gnoseologica il cui esempio più famoso è quello di György Lukács, dove in Storia e Coscienza di Classe affermò che «Questa limitazione del metodo alla realtà storico-sociale è molto importante. I fraintendimenti che hanno origine dall’esposizione engelsiana della dialettica poggiano essenzialmente sul fatto che Engels – seguendo il falso esempio di Hegel – estende il metodo dialettico anche alla conoscenza della natura. Mentre nella conoscenza della natura non sono presenti le determinazioni decisive della dialettica: l’interazione tra soggetto ed oggetto, l’unità di teoria e praxis, la modificazione storica del sostrato delle categorie come base della loro modificazione nel pensiero, ecc. Purtroppo è qui impossibile discutere di questi problemi in modo più minuzioso.»(3) Altrove, sempre in Storia e Coscienza di Classe, Lukács sembra arrivare quasi ad un passo dallo scioglimento del nodo gordiano fra storia e natura che lo ha bloccato nel passo appena citato. Ad un passo senza mai arrivarci e non ci vuole molta immaginazione per vedere dove poggiasse questa impossibilità di “discutere di questi problemi in modo più minuzioso”: certamente non solo di natura teorica ma, soprattutto, di natura molto, molto pratica …(4) Torniamo ora a Marx, quando afferma nella prefazione alla prima edizione del Capitale con una evidente contraddizione (per niente dialettica) rispetto al passo sempre del Capitale appena citato: «Una parola ad evitare possibili malintesi. Non ritraggo per niente le figure del capitalista e del proprietario fondiario in luce rosea. Ma qui si tratta delle persone solo in quanto sono la personificazione di categorie economiche, che rappresentano determinati rapporti e determinati interessi di classe. Il mio punto di vista che considera lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale, non può assolutamente fare il singolo responsabile di rapporti da cui egli socialmente proviene, pure se soggettivamente possa innalzarsi al di sopra di essi.»(5) Qui la società è quindi per Marx assimilabile ad una sorta di processo naturale, gli uomini piuttosto che agire in esso sono agiti da forze che li sovrastano e la loro natura, insomma, è quella del Gattungswesen, un ente naturale generico determinato dalle leggi e dalle forze che agiscono nella società stessa.(6) In questo passaggio si sviluppa sì una linea di pensiero che unisce società e natura ma è una linea di pensiero similpositivistica, anticipatrice della Dialettica della Natura e dell’ Anti-Dühring di Engels prima e poi del Diamat di cui abbiamo già detto. Veniamo ora ai nostri giorni. IL conflittualismo strategico di Gianfranco La Grassa nasce dopo la definitiva consunzione, filosofica prima che politica, di tutta la tradizione marxista che, se a livello storico-politico, è crollata per la tragicomica inefficienza economica dei vari sistemi socialisti effettivamente storicamente realizzatisi unito alle lusinghe (totalmente) false del paese dei balocchi della forma di stato “democratico-capitalistica”, sul piano teorico e filosofico aveva fatto bancarotta in ragione del suo economicismo, che prendeva le forme ideologiche di stato “diamattine”, di un positivismo degradato, di modelli economici meno inefficienti di quelli del cosiddetto “libero mercato” capitalistico e, last but not the least, di una visione filosofica dell’uomo come Gattungswesen, un ente naturale generico completamente sottoposto alle determinazioni sociali, con la non irrilevante conseguenza che alla mitizzata classe operaia (mito che era una versione degradata del marxiano lavoratore collettivo cooperativo associato) veniva riservato un trattamento da Gattungswesen, appunto, mentre alla nomenklatura veniva, in pratica, violentemente concesso di “elevarsi al di sopra” di essa; realizzando cioè nella prassi, a solo uso e consumo della burocratica classe dominante, un compiuto modello conflittuale-strategico, in cui il dominato era la tanto mitizzata (e presa per il fondelli) classe operaia-gattungswesen. Il conflittualismo strategico di Gianfranco La Grassa, portando esplicitamente il conflitto al centro dell’interpretazione della società, mantiene e approfondisce la fondamentale critica marxiana sulla naturalità dell’economia politica, chiude quindi definitivamente con tutta questa tradizione marxista economicistico-positivistica da una parte (diamat, altrimenti detto marxismo orientale) o dialettico-dimidiata dall’altra (il cosiddetto marxismo occidentale: uno dei massimi esempi di questa seconda – ben più feconda però per il futuro, nonostante le segnalate contraddizioni, della derivazione diamattina – quella avanzata da György Lukács in Storia e Coscienza di Classe) e però, per il completo sviluppo rivoluzionario del suo paradigma, è per il Repubblicanesimo Geopolitico assolutamente necessario un dialettico riorientamento gestaltico sia del conflitto strategico che del suo stesso concetto.(7) Questo riorientamento passa A) attraverso un deciso abbandono della mainstream impostazione della cultura occidentale che vede una suddivisione fra storia e natura (o cultura e natura: sotto questo punto di vista, l’annullamento cioè dell’antidialettico discrimine fra natura e cultura, è possibile ricuperare e superare, rovesciandolo, il significato del concetto di alienazione, facendolo, cioè, poggiare saldamente sui piedi di un sodo realismo politico e di un’altrettanto concreta epistemologia politico-filosofica prassistica anziché su una testa positivista e/o genericamente gattungsweniana; l’uomo, comunque si intenda il marxiano Gattungswesen – in senso deterministico-positivista o come un segno delle sue potenzialità e libertà – non è un ente generico, ma, se vogliamo, un ente naturale strategico, anzi il massimo ente strategico prodotto dalla natura, o per dare conseguente e migliore definizione a quanto fin qui affermato, il massimo ente strategico prodotto dalla natura/cultura – per un approfondimento su questo inestricabile rapporto natura/cultura e sull’uomo ente naturale strategico, il presente nunzio anticipa Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico per una Fenomenologia della Dialettica della Natura e della Cultura attraverso il Conflitto Espressivo-Cognitivo-Evoluzionistico-Strategico. Nuovo Nomos della Terra, Nuovo Principe, Rivoluzione e Dialettica della Filosofia della Praxis Espressiva, Conflittuale e Strategica del Repubblicanesimo Geopolitico (Aufhebung della Rivoluzione e dell’Azione Strategica nello Sviluppo Storico-Dialettico della Cultura e della Natura), di prossima pubblicazione –, una nuova semantica dell’alienazione così interpretata ed indagata, contrariamente all’ accezione negativa marxiana, attraverso il rioerientamento compiuto su di questa dal concetto e dalla prassi dell’azione-conflitto strategico e, perciò, come la felice concreta manifestazione della dialettica di tale conflitto; felice da un punto soggettivo, è ovvio, solo se questo processo alienante è vissuto consapevolmente e strategicamente da un agente alfa-strategico e non risulta, invece, dall’imposizione di un dominio esterno di un agente alfa-strategico su un agente omega-strategico – sulle dinamiche dei rapporti fra agenti alfa-strategici e agenti omega-strategici, i portatori storici, quest’ultimi, del negativo marxiano significato originario di ‘alienazione’ e, quindi, il permanente lato ‘infelice’ dell’alienazione, cfr. la Teoria della Distruzione del Valore. Teoria Fondativa del Repubblicanesimo Geopolitico e per il Superamento/conservazione del Marxismo, riferimenti bibliografici in nota 1) e passa quindi B) attraverso un ripudio delle categorie positivistiche, in primis quella di legge di natura deterministica e immodificabile ed immutabile. Insomma, e qui dissento da La Grassa, il punto non è se il pensiero possa o meno riprodurre la realtà, il punto è che il pensiero, se realmente pensiero strategico, produce la realtà. E ora mi taccio, in parte perché la giustificazione di questa mia ultima affermazione dovrebbe essere trovata nelle parole che l’ hanno qui preceduta (e che, oltre a quanto si è già precedentemente scritto o ora espresso nel presente Dialecticvs Nvncivs – che introduce le prossime Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico che svolgono, attraverso il taglio del nodo gordiano natura/cultura o storia/natura, la dialettica del Repubblicanesimo Geopolitico stesso –, sono sulla falsariga di una filosofia della praxis che, partendo dalle marxiane Glosse a Feuerbach, approda prima in Giovanni Gentile – cfr. del filosofo dell’attualismo La Filosofia di Marx del 1899 – e poi nella filosofia della praxis compiutamente espressa da Antonio Gramsci nei Quaderni del Carcere)(8) e in parte perché, oltre La Grassa, altri grandi (vedi la teoria del rispecchiamento di Lenin(9) in Materialismo e Empiriocriticismo), hanno sempre espresso una differente opinione, un contraddittorio che necessita acribia e una puntuta analisi delle relative fonti e non certo il presente discorso da intendersi solo come inquadramento generale – anche se con tutta la dignità ed autorevolezza che, in via di consolidata storica consuetudine, ogni nunzio merita che gli si accordi – del necessario e, ormai, non più rinviabile dibattito.

Massimo Morigi, luglio-dicembre 2016

NOTE

1-L’occasione per l’elaborazione di questo punto di vista, Dialecticvs Nvncivs, oltre che dai precedenti lavori sul Repubblicanesimo Geopolitico, nasce originariamente come commento di Massimo Morigi in data 16 luglio 2016 all’intervista a Gianfranco La Grassa Intervista (teorica) a Gianfranco La Grassa (di F. Ravelli). Il commento all’intervista è agli URL http://www.conflittiestrategie.it/commento-di-massimo-morigi-allintervista-di-gianfranco-la-grassa-intervista-teorica-di-g-la-grassa-di-f-ravelli-pubblicata-su-conflitti-e-strategie; http://www.webcitation.org/6j4Ecswj9;
http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fwww.conflittiestrategie.it%2Fcommento-di-massimo-morigi-allintervista-di-gianfranco-la-grassa-intervista-teorica-di-g-la-grassa-di-f-ravelli-pubblicata-su-conflitti-e-strategie&date=2016-07-17 ed è presente pure come commento sulla pagina di presentazione dell’intervista stessa caricata su Internet Archive all’URL https://archive.org/details/IntervistateoricaAGianfrancoLaGrassaECommentoDiMassimoMorigi (l’intervista è poi scaricabile direttamente sempre su Internet Archive all’URL
https://ia601204.us.archive.org/32/items/IntervistateoricaAGianfrancoLaGrassaECommentoDiMassimoMorigi/IntervistateoricaAG.LaGrassadiF.Ravelli.html). L’ Intervista (teorica) a Gianfranco La Grassa (di F. Ravelli) è stata inizialmente pubblicata in data 15 luglio 2016 sul sito di “Conflitti e Strategie” e su questo sito è all’URL http://www.conflittiestrategie.it/intervista-teorica-a-g-la-grassa-di-f-ravelli e, vista la sua importanza si è pure provveduto di caricarla, oltre presso i già citati https://archive.org/details/IntervistateoricaAGianfrancoLaGrassaECommentoDiMassimoMorigi e https://ia801204.us.archive.org/32/items/IntervistateoricaAGianfrancoLaGrassaECommentoDiMassimoMorigi/IntervistateoricaAG.LaGrassadiF.Ravelli.html, anche ricorrendo alla ridondanza di WebCite all’URL http://www.webcitation.org/6jFLY1dNh. Per ultimo si segnala che il Dialecticvs Nvncivs è stato preceduto, oltre che da tutta la precedente elaborazione presente nel Web sul Repubblicanesimo Geopolitico, specificatamente da tre lavori: la Teoria della Distruzione del Valore. (Teoria Fondativa del Repubblicanesimo Geopolitico e per il Superamento/conservazione del Marxismo), Repubblicanesimo Geopolitico. Intervista al professor Massimo Morigi e Repubblicanesimo Geopolitico Anticipating Future Threats. Saggio sulla Moralità del Repubblicanesimo Geopolitico più Breve Nota all’Intervista del CSEPI a La Grassa (di Massimo Morigi). La Teoria della Distruzione del Valore, oltre che essere sparsa in vari luoghi del Web, è recuperabile agli URL https://archive.org/details/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore;https://ia800501.us.archive.org/20/items/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore.pdf;http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia800501.us.archive.org%2F20%2Fitems%2FMarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore%2FMarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore.pdf&date=2015-12-04 e http://www.webcitation.org/6dWOlPr8n. L’intervista sul Repubblicanesimo Geopolitico, curata da Giuseppe Germinario, oltre ad essere visionabile su “Conflitti e Strategie” e su YouTube, rispettivamente agli URL http://www.conflittiestrategie.it/repubblicanesimo-geopolitico-intervista-al-professor-massimo-morigi e https://www.youtube.com/watch?v=VeOUHYC8zq8, è stata anche caricata su Internet Archive agli URL https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoIntervistaAlProfessorMassimoMorigi e https://ia600508.us.archive.org/8/items/RepubblicanesimoGeopoliticoIntervistaAlProfessorMassimoMorigi/RepubblicanesimoGeopoliticoIntervistaAlProfessorMassimoMorigi.mp4. Infine Repubblicanesimo Geopolitico Anticipating Future Threats. Saggio sulla Moralità del Repubblicanesimo Geopolitico più Breve Nota all’Intervista del CSEPI a La Grassa (di Massimo Morigi), prima parte sotto l’aspetto di una morale pubblica dialettica e di una conseguente filosofia della prassi che trovi la sua raggiunta entelechia in una pienamente manifestata epifania strategica di un trittico sul Repubblicanesimo Geopolitico che comprende oltre il presente lavoro anche il di prossima pubblicazione Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico (cfr. in proposito la nota introduttiva di Repubblicanesimo Geopolitico Anticipating Future Threats), è anch’esso tramite motori di ricerca reperibile in vari luoghi del Web o può essere direttamente visionabile e scaricabile ai seguenti URL https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoAnticipatingFutureThreatsDialogoSulla_297;https://ia801501.us.archive.org/11/items/RepubblicanesimoGeopoliticoAnticipatingFutureThreatsDialogoSulla_297/RepubblicanesimoGeopoliticoAnticipatingFutureThreatsDialogoSullaMoralitaDelRepubblicanesimoGeopolitico.pdf;http://www.webcitation.org/6lXceRo2L;http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Farchive.org%2Fdetails%2FRepubblicanesimoGeopoliticoAnticipatingFutureThreatsDialogoSulla_297&date=2016-10-26; https://www.researchgate.net/publication/309427489_Repubblicanesimo_Geopolitico_Anticipating_Future_Threats_Dialogo_sulla_Moralita_del_Repubblicanesimo_Geopolitico_piu_Breve_Nota_all%27Intervista_del_CSEPI_a_La_Grassa_di_Massimo_Morigipdf:DOI: 10.13140/RG.2.2.11532.72320.

2- Karl Marx, Il Capitale, trad. it., Roma, Newton Compton, 1970, I, pp. 199-200.

3- György Lukács, Storia e Coscienza di Classe, Milano, Sugar Editore. p. 6. In Codismo e Dialettica, concepito per rispondere alle accuse di chi aveva giudicato Storia e Coscienza di Classe di non essere opera marxista ma bensì idealista, Lukács comincia a rispondere a questi problemi davvero in modo più minuzioso e, a proposito del problema dell’applicabilità nei vari campi del sapere e dell’attività umana del metodo dialettico, fornisce una regola veramente aurea che oggi è anche fatta propria – ma poco merito, un po’ di storia, di tragedie, di filosofia, di scienze biologiche, informatiche, fisiche, di epigenetica, di teoria del caos e di meccanica quantistica sono da allora passate sotto i ponti, discipline per una trattazione delle quali, sotto l’aspetto del loro decisivo apporto per una rifondazione della dialettica, il nunzio rimanda ancora a Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico, cit., di imminente pubblicazione – dalla dialettica del Repubblicanesimo Geopolitico. Questa regola si esprime in questi termini: non è che la spiegazione dialettica debba sostituire in toto la spiegazione meccanicistico-causale ma deve essere in testa, rispetto a quella meccanistico-causale, nella gerarchia della preferenza fra le due (e oltre sotto l’aspetto dell’explanandum per il quale deve occupare questo primo posto, dal punto di vista dell’explanans, cioè della dialettica dell’origine del modello teorico stesso, occupa questo primato gerarchico perché 1) per quanto sia meccanico, un modello esplicativo esso come modello risale come genesi alla struttura dialettica della totalità, se no si è in presenza, per la sua isolata e presunta autosufficienza, ad un principio teologico, valido unicamente in ragione di una cieca fede nello stesso e quindi 2) esso è concretamente ed operativamente costituito da elementi del mondo anch’essi rapportati empiricamente e dialetticamente con la totalità, se no si ricade in fattispecie religiose già evidenziate in 1). Che poi non tutte le spiegazioni impiegate dalle scienze, allo stato attuale dello sviluppo delle conoscenze e del conseguente concreto sviluppo della dialettica della filosofia della praxis, non rispondano formalmente ad una legalità dialettica, poco importa. Quello che importa realmente è essere consapevoli della necessità di questo rovesciamento nella gerarchia delle spiegazione e della dialetticità del reale, quella dialetticità che se assunta come forma mentis ed agendi è la sola condizione necessaria e sufficiente per generare mutamenti autenticamente rivoluzionari e quindi veritativi: «Nel materialismo dialettico il problema strutturale viene risolto storicamente (cioè mostrando la genesi concreta, reale e storica della struttura data), e il problema storico viene risolto teoricamente (cioè mostrando la legge che ha prodotto il contenuto concreto dato) [il Repubblicanesimo Geopolitico dice: cioè mostrando che è il principio dell’azione/conflitto/dialettico/epressivo/strategico – e non una galileana meccanica e predestinante legalità esemplata sul modello di presunte leggi di natura – ad avere prodotto il contenuto concreto dato, ndr]. Ecco perché Marx, a proposito del susseguirsi delle categorie economiche, scrive: “La loro successione è determinata dalla relazione in cui esse si trovano l’una con l’altra nella moderna società borghese, e questo è esattamente l’inverso di quello che sembra essere il loro ordine naturale o di ciò che corrisponde alla successione dello sviluppo storico”. [ndr: Karl Marx, Per la Critica dell’Economia Politica, introduzione di Maurice Dobb, traduzione di Emma Cantimori Mezzomonti, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 196] Da ciò comunque, cioè dal fatto che il processo oggettivamente reale è esso stesso dialettico e che l’origine reale e l’intreccio della conoscenza che gli corrisponde adeguatamente siano essi stessi dialettici, non segue affatto che ogni conoscenza debba apparire nella forma di conoscenza del metodo dialettico [corsivo di Lukács: nel Dialecticvs Nvncivs le evidenziazioni del testo delle citazioni, dove non di mia espressa autoattribuzione, sono di Lukács]. L’affermazione del giovane Marx: “La ragione è sempre esistita ma non sempre in forma razionale” [ ndr: lettera di Karl Marx ad Arnold Ruge scritta nel settembre 1843 da Kreuznach, in Arnold Ruge, Karl Marx, Annali franco-tedeschi, a cura di Gian Mario Bravo e traduzione di Anna Pegoraro Chiarloni e Raniero Panzieri, Milano Edizioni del Gallo, 1965, p.81] vale anche per la dialettica. Dipende dalla struttura economica della società e dalla posizione di classe che il conoscente assume in essa, se fino e a che punto un rapporto oggettivamente dialettico assuma forma dialettica nel pensiero, se e fino a che punto gli uomini possano diventare coscienti del carattere dialettico del rapporto dato. In determinate circostanze può accadere che esso non appaia affatto dal punto di vista del pensiero conoscitivo; oppure può apparire sotto forma di contraddizione irrisolvibile, come antinomia; può essere compreso adeguatamente sotto certi aspetti, senza che possa essere determinato correttamente il suo giusto posto nello sviluppo complessivo etc. Da quanto abbiamo detto finora è chiaro che tali conoscenze possano comunque essere, almeno in parte, oggettivamente giuste. Ma solo quando lo sviluppo storico della società è progredito fino al punto che i problemi reali che stanno alla base di queste contraddizioni etc. sono storicamente risolti, oppure che la loro soluzione non è lontana, solo allora può essere trovata la conoscenza teoricamente giusta e dialettica. In altre parole: la soluzione, il superamento di una contraddizione dialettica viene prodotta dalla realtà nel processo storico reale. Il pensiero può, a certe condizioni, anticipare mentalmente questi processi, ma solo quando il loro superamento esiste oggettivamente nel processo storico effettivo come una reale tendenza di sviluppo (anche se magari come tendenza ancora immatura dal punto di vista della prassi). E se questo rapporto con il processo storico reale non è divenuto pienamente cosciente, se quel problema dialettico non viene ricondotto al suo fondamento concreto e materiale, l’anticipazione mentale deve necessariamente rimanere incastrata nell’astrazione e nell’idealismo (Hegel).»: György Lukács, Codismo e Dialettica (titolo originale del manoscritto: Chvostismus und Dialektik), ed. it. Idem, Coscienza di Classe e Storia: Codismo e Dialettica, postfazione di Slavoj Žižek, Roma, Alegre, 2007, pp. 86-88. Purtroppo, la succitata regola d’oro non doveva risultare, evidentemente, di facile applicazione, perché costante è in Codismo la tensione fra la piena applicazione della predetto ordine gerarchico fra i due tipi di spiegazione e un piegarsi agli idola fori della gnoseologia del tempo che, nonostante quanto avrebbe voluto una conseguente ed integrale applicazione della appena esposta filosofia della prassi, finiva con l’accettare, de facto, una divisione di ambiti – usando un’area semantica compatibile con la Weltanschauung conflittuale/strategica della dialettica del Repubblicanesimo Geopolitico, noi ancor meglio diremmo una divisione delle sfere d’influenza – fra spiegazione meccanicistica e spiegazione dialettica, con complementariamente inevitabile separazione ontologica fra società e natura che da questa impostazione natural-meccanicistica consegue: «Fino a che, tuttavia, non siamo in grado di mostrare in senso storico-genetico l’origine delle nostre conoscenze a partire dalla loro base materiale concreta – cioè non solo il fatto “che” esse siano, ma anche “cosa” e “come” – come fece Marx per le nostre conoscenze storico-sociali, la nostra visuale sarà manchevole di un importante e oggettivo momento della dialettica: la storia. Ribadisco che non mi passa affatto per la testa di negare che le scienze della natura comprendano elementi della visione storica, che in essi ci sono gli inizi (Kant-Laplace, Darwin etc.) di quella “scienza unitaria della storia” richiesta da Marx. Anche la conoscenza sociale premarxista conteneva elementi storici (Steuart, Hegel, gli storici francesi etc.) ma una conoscenza realmente e storicamente dialettica la si trova solo in Marx ed è sorta come conoscenza dialettica del presente in quanto momento del processo complessivo. Nessuno vorrà però sostenere che questi elementi storici si trovino al centro delle problematiche delle moderne scienze della natura o che proprio le scienze naturali più sviluppate e che fanno da modello metodologico per le altre si occupino coscientemente di queste problematiche. Viste tali questioni, sarebbe necessario, da un lato, chiarire per quali epoche o periodi valgano determinate conoscenze, poiché esse colgono col pensiero i loro rapporti specifici, storici, oggettivi e reali; dall’altro comprendere dialetticamente la genesi necessaria delle conoscenze a partire dallo stesso processo storico oggettivo e reale. (Per quanto concerne le conoscenze economiche si esprime chiaramente Engels). In che misura le conoscenze della natura possono essere trasformate in conoscenze storiche, ovvero, se si diano fatti materiali in natura che non mutano mai la loro struttura, oppure soltanto in periodi di tempo così lunghi che essi non possono essere percepiti come mutamenti dalla conoscenza umana, non è questione che possa essere trattata qui, poiché anche laddove ci sembra che sviluppi storici sono avvenuti, il loro carattere storico può ora essere affermato solo in misura molto limitata. Ciò significa che noi siamo spinti fino a conoscere che la storia dell’umanità deve essere preceduta da uno sviluppo storico oggettivo che copre un infinito lasso temporale, ma le fasi di passaggio tra questa storia e la nostra ci sono tuttavia note solo in piccola parte o, addirittura, per nulla. E ciò non avviene perché materiali a disposizione oggi siano ancora insufficienti o a causa del temporaneo sottosviluppo dei nostri metodi di ricerca (molte scienze della natura surclassano le scienze della storia per quanto concerne la precisione [sottolineatura nostra ad evidenziare quanto anche in Lukács agisse prepotentemente il pregiudizio di una maggiore “scientificità” delle cosiddette scienze della natura rispetto alle scienze sociali e storiche: per un definitivo e minuziosamente argomentato rigetto di questo fondamentale e fondante errore di tutta la tradizione filosofica della modernità occidentale, errore che non è altro il negativo fotografico dell’altro fondante e fondamentale errore di questa tradizione, cioè l’illusoria e fantasmatica separazione ontologica ed empirica fra natura e cultura, Dialecticvs Nvncivs rinvia per l’ennesima volta a Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico, cit., di prossima pubblicazione]) ; ciò avviene perché la capacità di scoprire i fondamenti materiali della conoscenza e di derivare dialetticamente quest’ultima dalla sua base materiale, non è stata ancora prodotta dallo sviluppo oggettivo reale. Gli scienziati migliori si trovano perciò dogmaticamente prigionieri, come ad es., Ricardo rispetto alla società capitalistica (i peggiori sono divorati dallo scetticismo e possono essere qui considerati solo come sintomo di una crisi). Ciò non impedisce loro affatto – come mostra l’esempio di Ricardo – di raggiungere conoscenze oggettivamente valide, lo stesso Ricardo ne ebbe in alcuni campi. Ciò che è loro impossibile è di chiarire le contraddizioni che sorgono dal materiale concreto e mostrarle come contraddizioni dialettiche, di mostrare i momenti singoli come momenti di un processo storico unitario e, come è stato indicato prima, di ordinarli al tempo stesso teoricamente e storicamente in un contesto complessivo. Una tale storicizzazione delle scienze della natura, una crescente penetrazione nella loro origine (ad es., la consapevolezza del loro carattere geocentrico) le renderebbe tanto poco “relativiste” quanto lo sono diventate le scienze sociali come risultato della penetrazione marxista nella genesi reale della [sic] loro conoscenze. Tutto l’opposto. »: Ivi, pp. 96-97. È sempre difficile discernere in un autore (come nella vita di tutti i giorni) quanto una scelta sia dettata da convinzione e quanto, invece, dalla preoccupazione – molto concreta e realistica nel caso di Lukács – delle conseguenze personali e politiche del comportamento o del messaggio che si intende rendere pubblico. Le parole conclusive di Codismo appena citate, nel loro incerto e tortuoso procedere teorico, ci fanno propendere per la seconda ipotesi ma non nel senso di una egoistica tutela personale ma nel significato di un tentativo di tutela, anche se solo difensivistico, della dialettica dalla deriva positivistica che poi avrebbe definitivamente preso la forma del Diamat staliniano: «Per Engels, dunque, l’aver parzialmente omesso le mediazioni che gli hanno reso possibile la sua conoscenza dialettica e che appartengono oggettivamente a questa conoscenza, costituisce semplicemente un episodio. E se si trattasse solo di Engels, si potrebbe tranquillamente lasciare cadere la questione, oppure essa potrebbe essere una questione inessenziale da trattare in modo storico-filologico. Poiché però queste lacune vengono ampliate entusiasticamente ed erette a Sistema del Marxismo allo scopo di liquidare la dialettica, allora bisogna sottolineare con forza questi aspetti. La tendenza di Deborin e Rudas è evidente: essi vogliono – usando le parole di Marx ed Engels – fare del materialismo storico una “scienza” nel senso borghese, poiché essi non possono rinunciare a ciò che tiene in vita la società borghese e la sua concezione della storia, né al carattere puramente spontaneo dell’accadere storico, perché essi […: periodo non completo perché la pubblicazione di Codismo si è basata su un manoscritto mutilo di alcune pagine, ndr ]. »: Ivi, p. 118. La realtà teorica e politica era invece molto più cruda e (in tutti i sensi) molto più pericolosa di quella che in queste parole conclusive di Codismo Lukács si sforzava di voler rappresentare. L’abbandono e/o il depotenziamento della dialettica con la conseguente deriva positivistica in Engels non era un episodio ma la sua vera nota di fondo (vedi Anti-Dühring e Dialettica della Natura, opere nelle quale vengono esplicitate, in una vera e propria inconsapevole parodia della logica aristotelica, le tre farlocche engelsiane leggi dialettiche: la legge della conversione della quantità in qualità, la legge della compenetrazione degli opposti, la legge della negazione della negazione) e Deborin e Rudas non intendevano affatto perpetuare culturalmente e socialmente la società borghese ma criticando Storia e Coscienza di Classe (anche se la critica partiva dal corretto presupposto dell’insostenibile e niente affatto dialettica contraddittorietà dell’impostazione lukacsiana di una divisione fra società e natura – separazione, fra l’altro, come abbiamo visto, molto “opportunistica” e alla quale nemmeno Lukács, ad attenta analisi, mostra di credere – dove per la natura non sarebbero valse le impostazioni dialettiche), agivano oggettivamente e con convinzione nel senso di creare sì una dialettica unificata fra questi due ambiti ma una dialettica falsa e positivizzata alla Engels. Il senso profondo quindi della reazione di Lukács, vero e proprio Defensor Dialecticae, era di creare una sorta di ridotta gnoseologica dove almeno lì sarebbe valsa la vera dialettica. Evidenti ragioni storico-politiche del secolo della violenza e degli sterminii organizzati su base scientifica e dei totalitarismi prima ancora che ragioni teoriche, resero questa difesa impossibile. Compito di chiunque voglia lasciarsi per le generazioni future lo strazio novecentesco alle spalle non è tanto proclamare vuoti slogan politici (oggi dopo la caduta dei regimi socialisti, totalmente di marca democratico-liberal-liberista) ma raccogliere quella bandiera dialettica che all’insegna di una vera filosofia della prassi possa costituire un reale progresso (per una volta sia consentito usare questo termine) rispetto agli immani lutti che non solo non ci siamo lasciati alle spalle ma che continuano non contrastati se non dalle vuote retoriche democraticistiche, una “distrazione/distruzione di massa” democraticistica vero frutto autentico e legittimo del secolo che ci ha lasciati poco più di un decennio fa e che non contrastato continua nei suoi nefasti – ma perciò pure rivoluzionari – effetti anche nel presente.

4- Se non arrivò mai a compiere questo passo, Lukács, attraverso il magistero marxiano ed in asprissimo contrasto col revisionismo, comprese assai bene la falsa “naturalità”, la farlocca “inevitabilità” ed il presunto “determinismo” delle presunte “leggi naturali” dell’economia. Storia e Coscienza di Classe è totalmente percorsa da questa consapevolezza prassistica e citando forse il più efficace di uno dei suoi tanti passaggi in proposito, il presente Dialecticvs Nvncivs ribadisce con ancora maggiore energia e convinzione, se possibile, la ridicolaggine della credenza nell’esistenza di leggi di natura economiche che non derivino dalle decisioni degli uomini (o, per meglio dire, da azioni/conflitti strategici che vengono compiuti più o meno consapevolmente da agenti singoli o collettivi: per un primo approccio del Repubblicanesimo Geopolitico sulla problematica del conflitto strategico, cfr. Teoria della Distruzione del Valore agli URL https://archive.org/details/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore;https://ia800501.us.archive.org/20/items/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore/MarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore.pdf;http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia800501.us.archive.org%2F20%2Fitems%2FMarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore%2FMarxismoTeoriaDellaDistruzioneDelValore.pdf&date=2015-12-04;http://www.webcitation.org/6dWOlPr8n). Ovviamente, tutta la filosofia della praxis del discorso marxiano e lukacsiano deve essere riorientato smontando la controdialettica (e veramente oggettivamente controrivoluzionaria) divisione fra natura e cultura: «Solo in questa coscienza [di classe, ndr] infatti viene in luce la profonda irrazionalità che sta in agguato dietro i sistemi razionalistici parziali della società borghese e che si manifesta altrimenti in modo catastrofico, in eruzioni improvvise, e proprio per questo senza modificare alla superficie la forma e la connessione degli oggetti. Si può senz’altro riconoscere questa situazione negli avvenimenti più semplici della vita quotidiana. Il problema del tempo-lavoro che abbiamo considerato provvisoriamente, dal punto di vista dell’operaio, come momento in cui nasce la sua coscienza in quanto coscienza della merce (quindi come coscienza del nucleo strutturale della società borghese), mostra nell’istante in cui essa sorge ed oltrepassa la mera immediatezza della situazione data, concentrato in un punto, il problema fondamentale della lotta di classe: il problema della violenza, come il punto in cui, in seguito al fallimento delle “leggi eterne” dell’economia politica , in seguito al loro dialettizzarsi, la decisione sul destino dello sviluppo viene necessariamente rimessa all’attività cosciente degli uomini. Marx sviluppa questa idea nel modo seguente. “È evidente: prescindendo dai limiti del tutto elastici, dalla stessa natura dello scambio delle merci non risulta nessun limite della giornata lavorativa, quindi nessun limite al plus-lavoro. Quando cerca di prolungare al massimo la giornata lavorativa fino al punto di giungere, se è possibile, a raddoppiarla, il capitalista non fa altro che affermare il proprio diritto di compratore. Dall’altra parte, la natura specifica della merce venduta implica un limite del suo consumo da parte del compratore, e l’operaio afferma il proprio diritto di venditore, quando vuole limitare la giornata lavorativa ad una grandezza normale determinata. Qui ha dunque luogo un’antinomia: diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla legge dello scambio delle merci. Fra diritti eguali decide la violenza. Così nella storia della produzione capitalistica la regolazione della giornata lavorativa si presenta come lotta per i limiti della giornata lavorativa – lotta tra il capitalista collettivo, cioè la classe dei capitalisti, e l’operaio collettivo, cioè la classe operaia. [Karl Marx, Il Capitale, cit., p. 284]”»: György Lukács, Storia e Coscienza di Classe, cit., pp. 234-235.

5-Karl Marx, Il Capitale, cit., pp.6-7.
6-«Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. Ad un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura.»: Karl Marx, Per la Critica dell’Economia Politica, cit., p.5]: per i due maggiori interpreti del marxiano Gattungswesen come un ente generico che proprio in ragione di questa sua genericità non è meccanicamente determinato dalla società ma in questa consapevolmente, culturalmente e pubblicamente vi agisce in analogia all’aristotelico Zoon Politikon e del marxismo come una teoria della libertà in cui questa libertà è data dal rapporto dialettico dell’uomo con la storia e la società, confronta, in particolare, Costanzo Preve e Giorgio Agamben e segnatamente: Costanzo Preve, L’Eguale Libertà. Saggio sulla Natura Umana, Vangelista, Milano, 1994; Id., I Secoli Difficili. Introduzione al Pensiero Filosofico dell’Ottocento e del Novecento, Petite Plaisance, Pistoia, 1999; Id., Marx Inattuale. Eredità e Prospettiva, Bollati Boringhieri, Torino, 2004; Giorgio Agaben, Mezzi senza Fine. Note sulla Politica, Bollati Boringhieri, Torino, 1996; Id., La Comunità che Viene, Bollati Boringhieri, Torino, 2001.

7-Una interpretazione dialettica dimidiata quella di Lukács e, allo stesso tempo, in contraddizione, con una precisa visione di quello in cui deve consistere il metodo dialettico. In vari luoghi successivi al passaggio citato alla nota 1, Storia e Coscienza di Classe mostra ad un tempo la natura totale e “anticosale” della dialettica – che sembra già una prefigurazione della consapevolezza dell’intima natura dialettica del conflitto-scontro strategico che modella di continuo e trasforma la realtà stessa – unita, però, contraddittoriamente, ad una interpretazione del tutto “cosale” dello scontro sociale che inevitabilmente da questa dialettica avrebbe dovuto scaturire (contro una lettura mitologica ed ipostaticizzata delle due classi antagoniste capitalistica ed operaia, il conflittualismo strategico lagrassiano costituisce il primo indispensabile passo per questo riorientamento. Per il Dialecticvs Nvncivs – e come si vedrà poi più per esteso nelle Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico, di prossima pubblicazione – sarà necessario poi riorientare a sua volta anche il conflittualismo strategico di La Grassa sulla falsariga dell’abolizione della divisione fra natura e cultura): «Ma anche in questo caso si deve sottolineare che la violenza, che appare come figura concreta dei limiti di irrazionalità del razionalismo capitalistico, del punto di intermittenza delle sue leggi, è per la borghesia qualcosa di completamente diverso che per il proletariato. Per la borghesia, la violenza è la continuazione immediata della sua vita quotidiana: essa non rappresenta dunque un problema nuovo: d’altro lato, e proprio per questo, essa non è capace di risolvere nemmeno una delle contraddizioni sociali che si autogenerano. Il suo intervento e la sua efficacia, la sua possibilità e la sua portata dipendono del resto dal grado in cui è stata superata l’immediatezza dell’esistenza. Certo, la possibilità di questo oltrepassamento, quindi la estensione e la profondità della coscienza stessa, è un prodotto della storia. Ma questo livello storicamente possibile non consiste qui nella continuazione graduale e rettilinea di ciò che si trova già nell’immediatezza (e delle sue “leggi”), ma nella consapevolezza, raggiunta attraverso molte mediazioni delle tendenze dialettiche dello sviluppo. E la serie delle mediazioni non può concludersi nella contemplazione ma deve dirigersi alla novità qualitativa che scaturisce dalla contraddizione dialettica: essa deve essere un movimento di mediazione tra il presente e il futuro. Tutto ciò presuppone ancora una volta che il rigido essere cosale degli oggetti dell’accadere sociale si scopra come mera parvenza, che la dialettica – la quale rappresenta un’autocontraddizione, un’assurdità logica, finché si tratta del passaggio di una “cosa” ad un altro – trovi la propria conferma in tutti gli oggetti e che le cose si mostrino perciò come momenti che si risolvono nel processo. Siamo così pervenuti al limite della dialettica antica, al punto che separa questa dialettica da quella del materialismo storico. (Hegel rappresenta il momento di transizione metodologica, in lui si trovano cioè gli elementi di entrambe le concezioni in una funzione non interamente chiarita in rapporto al metodo). Infatti, la dialettica eleatica del movimento indica appunto le contraddizioni immanenti nel movimento in generale, ma essa lascia intatta la cosa che si muove. Sia che la freccia in volo si muova o si trovi in quiete – all’interno del vortice dialettico – essa resta nella sua oggettualità, come freccia, come cosa. Stando ad Eraclito, è impossibile bagnarsi due volte nello stesso fiume: ma poiché lo stesso eterno mutamento non diviene, ma è, non produce nulla di qualitativamente nuovo, esso è un divenire soltanto rispetto all’essere rigido delle cose singole. […] In Marx, invece, il processo dialettico trasforma le forme di oggettualità degli oggetti in un processo, in un flusso. Nella riproduzione semplice del capitale appare in tutta la sua chiarezza questa sovversione delle forme di oggettualità che caratterizza in modo essenziale il processo. […] Non appena si abbandona quella realtà immediata, che si presenta come già definita, nasce così l’interrogativo: “Un lavoratore in una fabbrica di cotone produce soltanto cotone”? No, produce capitale. Produce i valori che serviranno di nuovo a comandare il suo lavoro, a creare, per suo mezzo, nuovi valori” [Karl Marx, Lavoro Salariato e Capitale, Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 51]»: György Lukács, Storia e Coscienza di Classe, cit., pp. 235-238. «Hegel stesso distingue tra dialettica meramente negativa e dialettica positiva, dove per dialettica positiva si deve intendere l’emergere di un determinato contenuto, il venire alla luce di una totalità concreta. Ed in sede di esecuzione effettiva, anch’egli percorre quasi sempre nello stesso modo la via che conduce dalle determinazioni della riflessione sino alla dialettica positiva, benché ad esempio, quest’ultima venga direttamente esclusa dal suo concetto di natura come “essere altro”, come essere “esterna a sé stessa” dell’idea (e indubbiamente qui si potrà trovare uno dei motivi metodologici delle costruzioni spesso forzate della sua filosofia della natura). D’altra parte, dal punto di vista storico, Hegel stesso vede chiaramente che la dialettica della natura – dove, almeno al grado finora raggiunto, il soggetto non può essere inserito nel processo dialettico – non è in grado di oltrepassare il piano di una dialettica del movimento che si presenta ad uno spettatore che non vi partecipa. Egli sottolinea, ad esempio, che le antinomie di Zenone si sono elevate sino all’altezza conoscitiva delle antinomie kantiane e che quindi non è possibile qui procedere oltre. Con ciò risulta la necessità della separazione metodologica della dialettica del movimento puramente oggettivo della natura dalla dialettica sociale, nella quale anche il soggetto è inserito nell’interazione dialettica, la teoria e la praxis debbono entrare in un reciproco rapporto dialettico ecc. (Va da sé che lo sviluppo della conoscenza della natura come forma sociale è sottoposto alla dialettica del secondo tipo). Inoltre, sarebbe tuttavia assolutamente necessario per la concreta costruzione del metodo dialettico illustrare concretamente i diversi tipi di dialettica. In tal caso, le distinzioni hegeliane di dialettica positiva e negativa così come quelle relative ai livelli dell’intuizione, della rappresentazione e del concetto (senza che ci si debba necessariamente attenere a questa terminologia) caratterizzerebbero soltanto alcuni tipi di differenze. Per gli altri, nelle opere economiche di Marx si trova un ricco materiale per un’analisi strutturale chiaramente elaborata. In ogni caso, una tipologia di queste forme dialettiche, sia pure presentata con pochi cenni, andrebbe ampiamente oltre i limiti di questo lavoro. »: Ivi, pp. 272-273. Prima Lukács afferma la necessità della separazione fra la dialettica della natura e la dialettica sociale improntata alla filosofia della praxis e poi, sentendo tutta la debolezza di questo ragionamento, rimanda la precisazione del suo pensiero ad un ulteriore lavoro. Conscio quindi della fragilità di tutto il suo ragionamento – e conscio che se si vuole dare una chance al proletariato è assolutamente indispensabile fuoruscire integralmente dal vecchio materialismo meccanicista – immediatamente dopo avere affermato che l’affrontare la questione della separazione fra dialettica della natura e quella sociale sarebbe andare “oltre i limiti di questo lavoro”, riprende il ragionamento sminuendo l’importanza della predetta distinzione dialettica e insistendo sull’importanza del processo di reificazione che, secondo Lukács, avrebbe un intimo legame diretto con la dialettica della natura: «Ma ancora più importante di queste distinzioni metodologiche è il fatto che anche quegli oggetti che si trovano manifestamente al centro del processo dialettico, possono rendere esplicita la loro forma reificata solo in un lungo e difficile processo. In un processo, nel quale la presa del potere del proletariato e la stessa organizzazione socialista dello Stato e dell’economia rappresentano soltanto tappe, certo molto importanti, ma non il punto di arrivo. Sembra anzi che il periodo in cui il capitalismo entra in una crisi decisiva abbia la tendenza ad accrescere ancor più la reificazione, a spingerla ai suoi estremi. All’incirca nel senso in cui Lassalle scriveva a Marx: “Il vecchio Hegel soleva dire: immediatamente prima del sorgere di qualche cosa di qualitativamente nuovo, il vecchio stato qualitativo si raccoglie nella sua essenza originaria puramente generale, nella sua totalità semplice, superando ancora una volta e riprendendo in sé tutte le sue marcate differenze e le sue peculiarità che esso aveva posto quando era ancora vitale”. D’altro lato, ha ragione anche Bucharin quando osserva che nell’epoca della dissoluzione del capitalismo le categorie feticistiche falliscono, ed è necessario risalire alla “forma naturale” che si trova alla loro base. Questi due modi di vedere sono contraddittori solo in apparenza. O più esattamente: il segno che contraddistingue la società borghese al suo tramonto è proprio questa contraddizione: da un lato, il crescente svuotamento delle forme della reificazione – si potrebbe dire, il lacerarsi della loro crosta per via del loro vuoto interno –, la loro crescente incapacità di comprendere i fenomeni, sia pure nella loro singolarità e secondo modi calcolistici-riflessivi; dall’altro la loro crescita quantitativa, il loro vuoto diffondersi estensivamente sull’intera superficie dei fenomeni. E con il crescente acuirsi di questo contrasto, aumenta per il proletariato sia la possibilità di sostituire i propri contenuti positivi a veli svuotati e lacerati, sia il pericolo – almeno temporaneo – di soggiacere ideologicamente a queste vuote ed esautorate forme della cultura borghese. In rapporto alla coscienza del proletariato, non vi è automatismo di sviluppo. Per il proletariato è quanto mai vero che la trasformazione e la liberazione può essere solo opera della sua azione, che “l’educatore stesso deve essere educato”: cosa che il vecchio materialismo meccanicistico-intuitivo non riuscì a comprendere. Lo sviluppo economico oggettivo ha potuto soltanto creare la posizione che il proletariato occupa nel processo di produzione e dalla quale viene determinato il suo punto di vista; esso può solo far sì che la trasformazione della società diventi per il proletariato possibile e necessaria. Ma questa trasformazione può essere operata soltanto dalla libera azione del proletariato stesso.»: Ivi, pp. 273-274. Lukács era completamente nel giusto nel dire che le forme feticistiche e reificate abbiano un intimo legame con la dialettica della natura (volendo, però, così suggerire un legame errato della filosofia della praxis con la filosofia della natura, attraverso cioè il negativo, o meglio, la negazione della filosofia della praxis stessa, la reificazione e le forme di feticismo appunto; reificazione che, invece, non è che una delle manifestazioni della dialettica del confronto/scontro strategico, che a sua volta non è che la traduzione in atto concreto della filosofia della prassi, consapevoli o no che siano di questa Weltanschauung/Forma mentis/Forma mundi gli attori – alfa-strategici o omega-strategici, per i quali cfr. Teoria della Distruzione del Valore, cit. – del confronto/scontro strategico stesso), era però completamente in errore, ma questo è l’errore che attraversa praticamente tutte le varie scuole marxiste, pensando che le forme feticistiche e la reificazione possano e debbano essere superate nella rivoluzione prossima ventura in cui il proletariato avrebbe dovuto essere la classe universale che avrebbe dissolto queste forme alienanti. Alla base di questo errore sta, lo ripetiamo, l’artificiale suddivisione marxiana (ma non di origine marxiana, non ci stancheremo mai di ripetere) fra natura e cultura, uno scenario artificiale nel quale il capitalismo frutto di una “cattiva” cultura umana avrebbe imposto agli uomini delle scelte del tutto innaturali, scelte innaturali alle quali sarebbe stato compito del proletariato, la classe universale ed erede della filosofia classica tedesca, porre rimedio. In realtà, questa suddivisione fra natura e cultura è del tutto innaturale; in realtà l’alienazione/reificazione/feticismo non è, di per sé, un fatto negativo, ma rappresenta il fondamentale momento di trasformazione dialettico-strategica del soggetto per venire incontro e incorporare l’oggetto che inizialmente gli si pone di fronte: insomma l’alienazione/reificazione/forme di feticismo non è che lo sviluppo concreto del processo dell’ Aufhebung; infine, in questo processo dialettico-strategico di conservazione/superamento del soggetto nell’oggetto e viceversa, credere che il proletariato, nelle condizioni storiche di allora, fosse l’unica classe in grado di interpretarlo e di dargli compiuta espressione è stato il più grande errore del marxismo essendo il processo dialettico-strategico un processo – giusto l’attualismo di Giovanni Gentile – cognitivo-attivo-creativo, un processo che può essere sì guidato da una classe – storicamente non è mai stato guidato, ma semmai solo innescato, dalle classi subalterne ma per questo non si può certo affermare che, in un futuro totalmente imprevedibile dal punto di vista di una conseguente antideterministica filosofia della prassi, le classi subalterne, proprio per la natura dialettica e pantocratrice di questo processo, non possano farlo proprio e recitarvi una parte da protagoniste: la dittatura del proletariato altro non è che l’ingenua espressione utopico-mitologica di una potenzialità reale della dialettica del confronto/scontro strategico – ma che attraversa tutte le classi e categorie della società. E volendo far sì che questo processo alienanante-reificante di trasformazione dialettica attraversi in senso rivoluzionario tutti gli strati della società, rende il Repubblicanesimo Geopolitico l’erede diretto – anche se sotto l’insegna dell’ Aufhebung, del suo, cioè, conservazione/superamento nel quadro di un totale rinnovamento che abolisca la suddivisione fra natura e cultura – di quella linea di realismo dialettico-cognitivo che corre lungo Machiavelli, Vico, Hegel e che culmina in Marx, l’erede diretto, quindi, anche di quella tradizione marxista – ci riferiamo in specie al quel marxismo occidentale che al contrario del diamattino marxismo orientale, oppose strenua resistenza alla deriva positivistica del marxismo – che sempre fu ai ferri corti con l’interpretazione meccanicistica e fatalistica del marxismo stesso, quest’ultima conseguenza inevitabile – ed anche voluta per le ovvie ragioni di più facile dominio delle masse Gattungswesen composte da miriadi di esseri naturali generici – della versione positivistica e eterodiretta dall’alto della lezione del pensatore di Treviri. A suivre, anche in Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico, di prossima pubblicazione, ulteriore giustificazione di questa impegnativa affermazione del Dialecticvs Nvncivs …

8- Dai Quaderni del Carcere emerge lo scarto decisivo gramsciano per una filosofia della praxis che non solo aveva superato in maniera definitiva ogni residuo positivistico (consapevolmente ma, purtroppo, come abbiamo visto, in maniera non del tutto conseguente ciò era avvenuto anche nel Lukács di Storia e Coscienza di Classe, di Codismo e Dialettica, per terminare – e in una prospettiva che, complici la sua travagliata vita personale sempre all’insegna, negli anni che seguirono alle critiche a Storia e Coscienza di Classe e fino alla sua morte, di una straussiana ermeneutica della reticenza e le non brillantissime prove che aveva dato il socialismo reale, aveva ridimensionato le originarie speranze millenaristiche e rivoluzionarie del comunismo novecentesco – nel Lukács di Ontologia dell’Essere Sociale – «É anche giusto, anche se del tutto evidente, ricordare che in Storia e Coscienza di Classe si riflette teoricamente il carattere messianico ed ottimistico del comunismo degli anni Venti, mentre nella Ontologia dell’Essere Sociale è presente l’inevitabile metabolizzazione della delusione staliniana e della sensazione di blocco e di crisi del processo rivoluzionario. Sarebbe sciocco se una grande opera filosofica non rispecchiasse anche le attese, le illusioni e le consapevolezze diffuse del tempo.»: Costanzo Preve, Il Testamento Filosofico di Lukács. II Parte, agli URL http://www.kelebekler.com/occ/lukacs02.htm, WebCite: http://www.webcitation.org/6mHHmUGbL e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fwww.kelebekler.com%2Focc%2Flukacs02.htm&date=2016-11-25 –, una Ontologia dell’Essere Sociale anch’essa preda di questa illusoria separazione fra cultura e natura o storia e natura), ma anche che, sull’onda dell’attualismo gentiliano, additava il positivismo come uno dei principali nemici da battere – ma non ricadendo negli errori del filosofo di Castelveltrano di derivazione ficthiana dell’atto puro, dove in Gentile l’atto puro soggettivistico era il creatore di tutta la realtà, la cosiddetta autoctisi, mentre in Gramsci, correttamente, non poteva sussistere l’autoctisi, non poteva esservi un “atto puro” soggettivo che crea la realtà ma un soggetto che agendo sull’oggetto trasforma e crea sé stesso e nel corso di questa attività morfogenetica interna/esterna si unisce inscindibilmente e dialetticamente con l’oggetto: «Idealismo-positivismo [“Obbiettività” della conoscenza.] Per i cattolici: “… Tutta la teoria idealista riposa sulla negazione dell’obbiettività di ogni nostra conoscenza e sul monismo idealista dello “Spirito” (equivalente, in quanto monismo, al quello positivista della “Materia”) per cui il fondamento stesso della religione, Dio, non esiste obbiettivamente fuori di noi, ma è una creazione dell’intelletto. Pertanto l’idealismo, non meno del materialismo, è radicalmente contrario alla religione” (padre Mario Barbera, nella “Civiltà Cattolica” del I°-VI-1929). Per la quistione della “obbiettività” della conoscenza secondo il materialismo storico, il punto di partenza deve essere l’affermazione di Marx (nell’introduzione alla Critica dell’economia politica, brano famoso sul materialismo storico) che “gli uomini diventano consapevoli (di questo conflitto) nel terreno ideologico” delle forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche. Ma questa consapevolezza è solo limitata al conflitto tra le forze materiali di produzione e i rapporti di produzione – come materialmente dice il testo marxiano – o si riferisce a ogni consapevolezza, cioè a ogni conoscenza? Questo è il problema: che può essere risolto con tutto l’insieme della dottrina filosofica del valore delle superstrutture ideologiche. Né il monismo materialista né quello idealista, né “Materia” né “Spirito” evidentemente, ma “materialismo storico”, cioè attività dell’uomo (storia) [sottolineatura nostra] in concreto, cioè applicata a una certa “materia” organizzata (forze materiali di produzione), alla “natura” trasformata dall’uomo. Filosofia dell’atto (praxis), ma non dell’ “atto puro”, ma proprio dell’atto “impuro”, cioè reale nel senso profano della parola. [sottolineatura nostra] »: Antonio Gramsci, Quaderni del Carcere, ed. critica a cura di Valentino Gerratana, vol. I, Torino, 1975, pp. 454-455. Gramsci, in altre parole, era fortissimamente refrattario ad ammettere la separazione fra cultura e natura, e questo profondissimo rifiuto di uno dei più inveterati paradigmi della civiltà occidentale veniva inquadrato in una Weltanschauung dove filosofia della prassi si traduceva direttamente in una prassi, appunto, – al contrario delle visioni elitaristiche alla Mosca, alla Pareto o alla Michels – dove il vertice non doveva regnare dispoticamente ma fra l’alto (il nuovo Principe, cioè il partito comunista, e con questa immagine machiavelliana, unendo la filosofia della praxis con l’insegnamento del realismo politico del Segretario fiorentino Antonio Gramsci si pone anche come il più grande erede, nella teoria e, appunto, nella prassi, del magistero di Niccolò Machiavelli) e il basso della società (la classe operaia e contadina) si doveva dialetticamente istituire un’azione politica e sociale di continuo mutuo arricchimento cognitivo ed accrescimento di potenza politica, che avrebbe costituito, ancor prima e premessa ineludibile della pur necessaria lotta di classe condotta su base ed in prospettiva economicista, la vera ragion d’essere ed energia generatrice del costituito e sempre evolutivamente costituendo partito comunista-Nuovo principe, una dinamica della conoscenza e del potere che è praticamente sovrapponibile con la visione dialettico-conflittualistica-strategica del Repubblicanesimo Geopolitico: «“Marx e Machiavelli”. Questo argomento può dar luogo a un duplice lavoro: uno studio sui rapporti reali tra i due in quanto teorici della politica militante, dell’azione, e un libro che traesse dalle dottrine marxiste un sistema ordinato di politica attuale del tipo Principe. L’argomento sarebbe il partito politico, nei suoi rapporti con le classi e con lo Stato: non il partito come categoria sociologica, ma il partito che vuole fondare lo Stato. In realtà, se bene si osserva, la funzione tradizionale dell’istituto della corona è, negli stati dittatoriali, assolta dai partiti: sono essi che pur rappresentando una classe e una sola classe, tuttavia mantengono un equilibrio con le altre classi, non avversarie ma alleate e procurano che lo sviluppo della classe rappresentata avvenga col consenso e con l’aiuto delle classi alleate. Ma il protagonista di questo “nuovo principe” non dovrebbe essere il partito in astratto, una classe in astratto, uno Stato in astratto, ma un determinato partito storico, che opera in un ambiente storico preciso, con una determinata tradizione, in una combinazione di forze sociali caratteristica e bene individuata. Si tratterebbe insomma, non di compilare un repertorio organico di massime politiche, ma di scrivere un libro “drammatico” in un certo senso, un dramma storico in atto, in cui le massime politiche fossero presentate come necessità individualizzata e non come principi di scienza. [sottolineatura nostra per evidenziare l’antipositivitismo e l’impostazione dialettica del conflittualismo strategico di Antonio Gramsci]»: Ivi, vol. I, p. 432; «Il moderno Principe deve e non può non essere il banditore e l’organizzatore di una riforma intellettuale e morale, ciò che poi significa creare il terreno per un ulteriore sviluppo della volontà collettiva nazionale popolare verso il compimento di una forma superiore e totale di civiltà moderna. Questi due punti fondamentali – formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare di cui il moderno Principe è nello stesso tempo l’organizzatore e l’espressione attiva e operante, e riforma intellettuale e morale – dovrebbero costituire la struttura del lavoro. I punti concreti del programma devono essere incorporati nella prima parte, cioè dovrebbero “drammaticamente”, risultare dal discorso, non essere una fredda e pedantesca esposizione di raziocini [sottolineatura nostra sempre le ragioni di cui sopra]. Può esserci riforma cultuale e cioè elevamento degli strati depressi della società, senza una precedente riforma economica e un mutamento nella posizione sociale e nel mondo economico? Perciò una riforma intellettuale e morale non può non essere legata a un programma di riforma economica, anzi il programma di riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale. Il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico, diventa la base di una laicismo moderno o di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume.»: Ivi, vol. III, pp. 1560-1561; «“La tesi XI”: “I filosofi hanno soltanto variamente interpretato il mondo; si tratta ora di cangiarlo”, non può essere interpretata come un gesto di ripudio di ogni sorta di filosofia, ma solo di fastidio per i filosofi e il loro psittacismo e l’energica affermazione di una unità tra teoria e pratica. […] Questa interpretazione delle Glosse al Feuerbach come rivendicazione di unità tra teoria e pratica, e quindi come identificazione della filosofia con ciò che il Croce chiama ora religione (concezione del mondo con una norma di condotta conforme) – ciò che poi non è che l’affermazione della storicità della filosofia fatta nei termini di un’immanenza assoluta, di una “terrestrità assoluta” – si può ancora giustificare con la famosa proposizione che “il movimento operaio tedesco è l’erede della filosofia classica tedesca”, la quale non significa già, come scrive il Croce: “erede che non continuerebbe già l’opera del predecessore, ma ne imprenderebbe un’altra, di natura diversa e contraria” ma significherebbe proprio che l’ “erede” continua il predecessore, ma lo continua “praticamente” poiché ha dedotto una volontà attiva, trasformatrice del mondo, dalla mera contemplazione e in questa attività pratica è contenuta anche la “conoscenza” che solo anzi nell’attività pratica è “reale conoscenza” e non “scolasticismo”. Se ne deduce anche che il carattere della filosofia della praxis è specialmente quello di essere una concezione di massa, una cultura di massa e di massa che opera unitariamente, cioè che ha norme di condotta non solo universali in idea, ma “generalizzate” nella realtà sociale. E l’attività del filosofo “individuale” non può essere pertanto concepita che in funzione di tale unità sociale, cioè anch’essa come politica, come funzione di direzione politica.»: Ivi, vol. II, pp.1270-1271; «La posizione della filosofia della praxis è antitetica a questa cattolica: la filosofia della praxis non tende a mantenere i “semplici” nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una concezione superiore della vita. Se afferma l’esigenza del contatto tra intellettuali e semplici non è per limitare l’attività scientifica e per mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un blocco intellettuale-morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali. L’uomo attivo di massa opera praticamente, ma non ha una chiara coscienza teorica di questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo trasforma. La sua coscienza teorica anzi può essere storicamente in contrasto col suo operare. Si può quasi dire che egli ha due coscienze teoriche (o una coscienza contraddittoria), una implicita nel suo operare e che realmente lo unisce a tutti i suoi collaboratori nella trasformazione pratica della realtà e una superficialmente esplicita o verbale che ha ereditato dal passato e ha accolto senza critica. Tuttavia questa concezione “verbale” non è senza conseguenze: essa riannoda a un gruppo sociale determinato, influisce nella condotta morale, nell’indirizzo della volontà, in modo più o meno energico, che può giungere fino a un punto in cui la contraddittorietà della coscienza non permette nessuna azione, nessuna decisione, nessuna scelta e produce uno stato di passività morale e politica. La comprensione critica di se stessi avviene quindi attraverso una lotta di “egemonie” politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo dell’etica, poi della politica, per giungere ad una elaborazione superiore della propria concezione del reale [evidenziazione nostra]. La coscienza di essere parte di una determinata forza egemonica (cioè la coscienza politica) è la prima fase per un’ulteriore e progressiva autocoscienza in cui teoria e pratica finalmente si unificano. Anche l’unità di teoria e pratica non è quindi un dato di fatto meccanico, ma un divenire storico, che ha la sua fase elementare e primitiva nel senso di “distinzione”, di “distacco”, di indipendenza appena istintivo, e progredisce fino al possesso reale e completo di una concezione del mondo coerente e unitaria. Ecco perché è da mettere in rilievo come lo sviluppo politico del concetto di egemonia rappresenta un grande progresso filosofico oltre che politico-pratico, perché necessariamente coinvolge e suppone una unità intellettuale e una etica conforme a una concezione del reale che ha superato il senso comune ed è diventata, sia pur entro limiti ancora ristretti, critica [evidenziazione nostra]. Tuttavia, nei più recenti sviluppi della filosofia della prassi, l’approfondimento del concetto di unità della teoria e della pratica non è ancora che ad una fase iniziale: rimangono ancora dei residui di meccanicismo, poiché si parla di teoria come “complemento”, “accessorio” della pratica, di teoria come ancella della pratica. [evidenziazione nostra]. Pare giusto che anche questa quistione debba essere impostata storicamente, e cioè come un aspetto della quistione politica degli intellettuali. Autocoscienza critica significa storicamente e politicamente creazione di una élite di intellettuali: una massa umana non si “distingue” e non diventa indipendente “per sé” senza organizzarsi (in senso lato) e non c’è organizzazione senza intellettuali, cioè senza organizzatori e dirigenti, cioè senza che l’aspetto teorico del nesso teoria-pratica si distingua concretamente in uno strato di persone “specializzate” nell’elaborazione concettuale e filosofica. Ma questo processo di creazione degli intellettuali è lungo, difficile, pieno di contraddizioni, di avanzate e ritirate, di sbandamenti e di riaggrupamenti, in cui la “fedeltà” della massa (e la fedeltà e la disciplina sono inizialmente la forma che assume l’adesione della massa e la sua collaborazione allo sviluppo dell’intero fenomeno culturale) è messa talvolta a dura prova. Il processo di sviluppo è legato a una dialettica intellettuali-massa; lo strato degli intellettuali si sviluppa quantitativamente e qualitativamente, ma ogni sbalzo verso una nuova “ampiezza” e complessità dello strato degli intellettuali è legato a un movimento analogo della massa di semplici, che si innalza verso livelli superiori di cultura e allarga simultaneamente la sua cerchia di influenza, con punte individuali o anche di gruppi più o meno importanti verso lo strato degli intellettuali specializzati. Nel processo però si ripetono continuamente dei momenti in cui tra massa e intellettuali (o certi di essi, o un gruppo di essi) si forma un distacco, una perdita di contatto, quindi l’impressione di “accessorio”, di complementare, di subordinato. L’insistere sull’elemento “pratico” del nesso teoria-pratica, dopo aver scisso, separato e non solo distinto i due elementi (operazione appunto meramente meccanica e convenzionale) significa che si attraversa una fase storica relativamente primitiva, una fase ancora economico-corporativa, in cui si trasforma quantitativamente il quadro generale della “struttura” e la qualità-superstruttura adeguata è in via di sorgere, ma non è ancora organicamente formata. […] Una di queste fasi si può studiare nella discussione attraverso la quale si sono verificati i più recenti sviluppi della filosofia della praxis, discussione riassunta in un articolo di D. S. Mirsckij, collaboratore della “Cultura”. Si può vedere come sia avvenuto il passaggio da una concezione meccanicistica e puramente esteriore a una concezione attivistica, che si avvicina di più, come si è osservato, a una giusta comprensione dell’unità di teoria e pratica [evidenziazione nostra], sebbene non ne abbia ancora attinto tutto il significato sintetico. Si può osservare come l’elemento deterministico, fatalistico, meccanicistico sia stato un “aroma” ideologico immediato della filosofia della prassi, una forma di religione e di eccitante (ma al modo degli stupefacenti), resa necessaria e giustificata storicamente dal carattere “subalterno” di determinati strati sociali. Quando non si ha l’iniziativa nella lotta e la lotta stessa finisce quindi con l’identificarsi con una serie di sconfitte, il determinismo meccanico diventa una forza formidabile di resistenza morale, di coesione, di perseveranza paziente e ostinata [evidenziazione nostra]. “Io sono sconfitto momentaneamente, ma la forza delle cose lavora per me a lungo andare ecc.”. La volontà reale si traveste in atto di fede, in una certa razionalità della storia, in una forma empirica e primitiva di finalismo appassionato che appare come un sostituto della predestinazione, della provvidenza, ecc., delle religioni confessionali. Occorre insistere sul fatto che anche in tal caso esiste realmente una forte attività volitiva, un intervento diretto sulla “forza delle cose” ma appunto in una forma implicita, velata, che si vergogna di se stessa e pertanto la coscienza è contraddittoria, manca di una critica, ecc. Ma quando il “subalterno” diventa dirigente e responsabile dell’attività economica di massa, il meccanicismo appare a un certo punto un pericolo imminente, avviene una revisione di tutto il modo di pensare perché è avvenuto un mutamento nel modo sociale di essere [evidenziazione nostra]. I limiti e il dominio della “forza delle cose” vengono ristretti perché? perché, in fondo, se il subalterno era ieri una cosa, oggi non è più una cosa ma una persona storica, un protagonista, se ieri era irresponsabile perché “resistente” a una volontà estranea, oggi si sente responsabile perché non più resistente ma agente e necessariamente attivo e intraprendente. Ma anche ieri era egli stato mera “resistenza”, mera “cosa”, mera “irresponsabilità”? Certamente no, ed è anzi da porre in rilievo come il fatalismo non sia che un rivestimento da deboli di una volontà attiva e reale. Ecco perché occorre sempre dimostrare la futilità del determinismo meccanico, che, spiegabile come filosofia ingenua della massa e in quanto solo tale elemento intrinseco di forza, quando viene assunto a filosofia riflessa e coerente da parte degli intellettuali, diventa causa di passività, di imbecille autosufficienza, e ciò senza aspettare che il subalterno sia diventato dirigente responsabile [evidenziazione nostra]. Una parte della massa anche subalterna è sempre dirigente e responsabile e la filosofia della parte precede sempre la filosofia del tutto non solo come anticipazione teorica, ma come necessità attuale. Che la concezione meccanicistica sia stata una religione di subalterni appare da un’analisi dello sviluppo della religione cristiana, che in un certo periodo storico e in condizioni storiche determinate è stata e continua ad essere una “necessità”, una forma necessaria della volontà delle masse popolari, una forma determinata della razionalità del mondo e della vita e dette i quadri generali per l’attività pratica reale. »: Ivi, vol. II, pp. 1384-1389; «Non solo la filosofia della praxis è connessa all’immanentismo, ma anche alla concezione soggettiva della realtà, in quanto appunto la capovolge, spiegandola come fatto storico, come “soggettività storica di un gruppo sociale”, come fatto reale, che si presenta come fenomeno di “speculazione” filosofica ed è semplicemente un atto pratico, la forma di un contenuto concreto sociale e il modo di condurre l’insieme della società a foggiarsi una unità morale. L’affermazione che si tratti di “apparenza”, non ha nessun significato trascendente e metafisico, ma è la semplice affermazione della sua “storicità”, del suo essere “morte-vita”, del suo rendersi caduca perché una nuova coscienza sociale e morale si sta sviluppando, più comprensiva, superiore, che si pone come sola “vita”, come sola realtà in confronto del passato morto e duro a morire nello stesso tempo. La filosofia della praxis è la concezione storicistica della realtà, che si è liberata di ogni rediduo di trascendenza e di teologia anche nella loro ultima incarnazione speculativa; lo storicismo idealistico crociano rimane ancora nella fase teologico-speculativa. [evidenziazione nostra]»: Ivi, vol. II, pp. 1225-1226. A parte la mitizzazione della classe operaia e contadina che costituisce la parte oggi caduca dei Quaderni ma nei quali la gramsciana filosofia della praxis segna un decisivo distacco da una visione cosale delle classi e dove decisivo è per queste classi, proprio come nel Repubblicanesimo Geopolitico, il processo cognitivo legato all’aquisizione, mantenimento e creazione di nuovo potere, la forma della filosofia della praxis espressa nei Quaderni del Carcere rappresenta uno dei capisaldi per il Repubblicanesimo Geopolitico. Per l’approfondimento della decisiva importanza della filosofia della praxis per il conflittualismo dialettico-strategico del Repubblicanesimo Geopolitico (e su come sia possibile far definitivamente evolvere questa filosofia della praxis in una dialettica in cui l’azione-scontro strategico – compiendo, sia individualmente che socialmente, la sua piena entelechia attraverso una consapevole ed attiva epifania strategica – sia il principio unificante dell’agire conoscitivo/teorico/pratico dell’uomo e perciò dissolvente della illusoria diarchia cultura/natura e quindi, in ultima istanza, generante quella vera e profonda rivoluzione politica e culturale inseguita con risultati del tutto deludenti – ma non per questo inutili, anzi! – durante tutto il Novecento), si rinvia ancora Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico.

9- Riguardo la teoria leniniana del rispecchiamento, radicale è il rifiuto espresso in Storia e Coscienza di Classe: «La coscienza del proletariato può chiamare in vita, nella sua riconversione pratica, soltanto ciò che viene spinto ad una decisione dalla dialettica storica, ma non può disporsi “praticamente” al di sopra del corso della storia ed imporre ad essa puri e semplici desideri e conoscenze. Infatti, essa stessa non è altro che la contraddizione divenuta cosciente dello sviluppo sociale. D’altro lato, una necessità dialettica non è affatto identica ad una necessità meccanico-causale. Nel passo citato in precedenza Marx dice: “la classe operaia non deve far altro che mettere in libertà gli elementi della società nuova, che si sono sviluppati nel seno della società borghese nella fase del suo crollo”. Alla semplice contraddizione – che è un prodotto automatico secondo legge, dello sviluppo capitalistico – deve dunque aggiungersi qualcosa di nuovo: la coscienza del proletariato che si trasforma in azione. Tuttavia, poiché la semplice contraddizione si eleva così ad una contraddizione dialettica, poiché la presa di coscienza si trasforma in punto di passaggio per la praxis, appare ancora una volta e con maggior concretezza, il carattere essenziale, che abbiamo già più volte ricordato, della dialettica proletaria: la coscienza non è qui coscienza di un oggetto che si contrappone, ma autocoscienza dell’oggetto stesso – e per questo l’atto della presa di coscienza rovescia le forme di oggettività del proprio oggetto.»: György Lukács, Storia e Coscienza di Classe, cit., p. 234; un rifiuto in cui il proletariato è la classe universale che attraverso la sua dialettica realizza con la sua praxis l’unione fra soggetto ed oggetto e dove a sottolineare l’improponibilità di una pensiero che rifletta meccanicamente la realtà, Lukács arriva a cogliere l’inizio dell’ errore della teoria del riflesso nel mito della cosa in sé kantiana e nel mito platonico delle idee, entrambe posizioni che sono queste sì il riflesso di una concezione mitica e cosale della realtà: «Soltanto se comprendiamo tutto ciò siano in grado di penetrare sino all’ultimo residuo della struttura coscienziale reificata e della sua forma concettuale, del problema della cosa in sé. Anche Friedrich Engels si è una volta espresso a questo proposito in modo facilmente equivocabile. Descrivendo il contrasto che divedeva Marx e lui stesso dalla scuola hegeliana, egli dice: “Noi intendevamo i concetti della nostra testa ancora una volta materialisticamente come riflessi (Abbild) delle cose reali in luogo di considerare le cose reali come riflessi di questo o quel grado del concetto assoluto”. [Friedrich Engels, Ludovico Feuerbach e il Punto di Approdo della Filosofia Classica Tedesca, Mosca, Edizioni in lingue estere, 1947, p. 41] Tuttavia, si deve porre qui l’interrogativo che del resto si pone lo stesso Engels ed al quale egli dà anzi, nella pagine [sic] seguente, una risposta del tutto conforme a ciò che noi pensiamo: “Il mondo non è da comprendere come un complesso di cose già definite, ma come un complesso di processi”. Ma se non vi sono due cose – che cosa viene “riflesso” dal pensiero? Qui non è possibile, neppure per cenni, tracciare la storia della teoria della riflessione immaginativa, benché essa sola possa mostrare tutta la portata di questo problema. Infatti, in questa teoria si oggettiva teoricamente la dualità insuperata – per la coscienza reificata – tra pensiero ed essere, coscienza e realtà. E da questo punto di vista è lo stesso che le cose vengano intese come riflessi dei concetti o i concetti come i riflessi delle cose, dal momento che in entrambi i casi questa dualità riceve un’insuperabile fissazione logica. Il grandioso e coerente tentativo di Kant di superare logicamente questa dualità, la teoria della funzione sintetica della coscienza in generale nella creazione della sfera teoretica, non poteva portare alcuna soluzione filosofica alla questione, perché la dualità, allontanata dalla logica, veniva resa eterna come problema filosoficamente insolubile nella forma della dualità tra fenomeno e cosa in sé. Che questa soluzione kantiana possa difficilmente essere riconosciuta come soluzione in senso filosofico, è dimostrato dal destino della sua teoria. Le radici di questo equivoco si trovano tuttavia nella teoria stessa: certo, non direttamente nella logica, ma nel rapporto tra la logica e la metafisica, tra il pensiero e l’essere. Ora, bisogna comprendere che ogni comportamento contemplativo, quindi ogni pensiero “puro” che si assume come compito la conoscenza di un oggetto che gli sta di fronte, solleva al tempo stesso il problema della soggettività e dell’oggettività. L’oggetto del pensiero (come contrapposto) si trasforma in qualcosa di estraneo al soggetto ed ha origine così il problema se il pensiero concordi con l’oggetto. Quanto più il carattere conoscitivo del pensiero viene elaborato nella sua “purezza”, quanto più il pensiero diventa “critico”, tanto più grande ed incolmabile appare l’abisso tra la forma “soggettiva” del pensiero e l’oggettività dell’oggetto (essente). Ora, è possibile, come accade in Kant, intendere l’oggetto del pensiero come “generato” dalle forme del pensiero. Ma con ciò il problema dell’essere non viene risolto, ed in quanto Kant allontana questo problema dalla teoria della conoscenza, sorge per lui la questione filosofica: anche i suoi oggetti pensati debbono concordare con una “realtà” qualsiasi. Ma questa realtà viene tuttavia posta – come cosa in sé – al di fuori di ciò che è “criticamente” conoscibile. Nei confronti di questa realtà (che anche per Kant, come dimostra la sua etica, è la realtà vera e propria, la realtà metafisica) il suo atteggiamento resta lo scetticismo, l’agnosticismo: anche se l’oggettività gnoseologica, la teoria della verità immanente al pensiero ha trovato una soluzione ben poco scettica. Non è dunque affatto un caso che abbiano trovato un aggancio in Kant indirizzi agnostici di genere diverso (basti pensare a Maimon od a Schopenhauer). E lo è ancora meno il fatto che proprio Kant cominciò a reintrodurre nella filosofia quel principio che si trova in netto contrasto con il suo principio sintetico della “generazione”: la teoria delle idee di Platone. Infatti, questo è l’estremo tentativo di salvare l’oggettività del pensiero, la sua concordanza con il suo oggetto, senza essere costretti a ricercare il criterio della concordanza nell’essere empirico materiale degli oggetti. Ora è chiaro che in ogni conseguente riformulazione della teoria delle idee un principio che, da un lato, connette il pensiero con gli oggetti del mondo delle idee, dall’altro questo mondo con gli oggetti della conoscenza empirica (rimemorazione, intuizione intellettuale, ecc.) [errore sintattico, ndr] Con ciò tuttavia la teoria del pensiero viene spinta oltre il pensiero stesso: essa si trasforma in teoria dell’anima, in metafisica, in filosofia della storia. Anziché essere risolto, il problema assume una duplice o triplice forma. Infatti, la comprensione dell’impossibilità di principio di una concordanza, di un rapporto di “riflessione immaginativa” tra forme oggettuali che sono per principio eterogenee, è il motivo che guida ogni interpretazione di questo genere di teoria delle idee. Essa intraprende il tentativo di dimostrare questa stessa ultima essenzialità come nucleo negli oggetti del pensiero o nel pensiero stesso. Così Hegel caratterizza da questo punto di vista molto giustamente il motivo filosofico fondamentale della teoria della rimemorazione: in essa il rapporto fondamentale dell’uomo verrebbe presentato miticamente, “la verità si troverebbe in lui e si tratterebbe perciò soltanto di portarla alla coscienza”[Nota a piè di pagina di Lukács: «Werke, XI, p.160»]. Ma in questo modo è possibile dimostrare nel pensiero e nell’essere questa identità – dopo che, per via del modo in cui si presentano necessariamente all’atteggiamento intuitivo e contemplativo, il pensiero e l’essere sono stati già intesi nella loro reciproca eterogeneità di principio? Qui deve appunto intervenire la metafisica, per unificare ancora una volta in qualche modo, attraverso mediazioni apertamente e implicitamente mitologiche, il pensiero e l’essere, la cui separazione, oltre a formare il punto di vista di avvio del pensiero “puro”, deve anche essere – volenti o nolenti – costantemente mantenuta. E questa situazione non muta minimamente, se la mitologia viene capovolta e il pensiero viene spiegato a partire dall’essere empiricamente materiale. Rickert definì una volta il materialismo un platonismo di segno rovesciato. A ragione. Infatti, finché il pensiero e l’essere mantengono la loro vecchia e rigida contrapposizione, finché essi restano immodificati nella struttura loro propria, ed in quella dei loro reciproci rapporti, la concezione secondo la quale il pensiero è un prodotto del cervello e concorda perciò con gli oggetti dell’empiria, non è meno mitologica di quella della rimemorazione del mondo delle idee. Ed anche questa mitologia non è in grado di spiegare a partire da questo principio i problemi specifici che qui emergono. Essa è costretta ad abbandonarli irrisolti a mezza via oppure a risolverli con i “vecchi” mezzi: la mitologia entra in scena soltanto come principio di soluzione del complesso non analizzato nel suo insieme. [ nota a piè di pagina di Lukács: «Questo rifiuto del significato metafisico del materialismo borghese non muta nulla nella sua valutazione storica: esso fu la forma ideologica della rivoluzione francese e resta come tale praticamente attuale, finché resta attuale la rivoluzione borghese (anche come momento della rivoluzione proletaria). Cfr. in proposito i miei saggi su Moleschott, Feuerbach e l’ateismo in “Rote Fahne”, Berlino; e soprattutto l’ampio saggio di Lenin, Unter der Fahne des Marxismus, in “Die kommunitische Internationale”, 1922, n. 21.»] Ma, come sarà ormai chiaro da quanto precede, è impossibile anche togliere di mezzo questa differenza ricorrendo ad un progresso all’infinito. Allora ha origine una soluzione apparente oppure si ripresenta in una forma modificata la questione della riflessione immaginativa. [nota a piè di pagina di Lukács: «Molto coerentemente Lask introduce nella logica stessa una regione pre-immaginativa e post-immaginativa (Die Lehre vom Urteil). Benché egli escluda criticamente il platonismo puro, la dualità riflessiva tra idea e realtà, essa rivive in lui sul terreno della logica.»] Proprio nel punto in cui al pensiero storico si rivela la concordanza tra pensiero e essere, il fatto che entrambi hanno nell’immediatezza (e solo in essa) una rigida struttura di cosa, il pensiero dialettico viene costretto ad assumere questa insolubile impostazione del problema. Dalla rigida contrapposizione di pensiero ed essere (empirico) segue, da un lato, che essi non possono trovarsi l’uno con l’altro in un rapporto di riflessione immaginativa, ma dall’altro che solo in essa si deve ricercare il criterio del pensiero corretto. Finché l’uomo si comporta in modo intuitivo-contemplativo, egli può riferirsi al suo proprio pensiero ed agli oggetti dell’empiria che lo circondano solo in modo immediato. Egli li assume nel loro carattere di definitiva compiutezza, che è stato prodotto dalla realtà storica. Poiché vuole soltanto conoscere il mondo e non modificarlo egli è costretto ad assumere come inevitabile sia la fissità empirico-materiale dell’essere che la fissità logica dei concetti: e le sue impostazioni mitologiche dei problemi non sono orientate nel senso di accertare da quale terreno concreto abbia avuto origine la fissità di queste due datità fondamentali, quali siano i momenti reali che in esse si celano e che operano nel senso del superamento di queste fissità, ma tendono unicamente ad accertare in che modo l’essenza immutata di queste datità possa essere ricomposta nella sua immutabilità e spiegata in quanto tale. La soluzione che Marx indica nelle sue tesi su Feuerbach è la conversione della filosofia nella praticità. Tuttavia, come abbiamo visto, l’aspetto complementare ed il presupposto strutturale oggettivo di questa praticità è la concezione della realtà come un “complesso di processi”, la concezione secondo cui le tendenze evolutive della storia rappresentano una realtà superiore, la vera realtà rispetto alle fatticità rigide e cosali dell’empiria, pur emergendo dall’empiria stessa, e quindi senza essere al di là di essa. Ora, per la teoria del riflesso ciò significa che il pensiero, la coscienza deve orientarsi appunto alla realtà, che il criterio della verità consiste nell’incontro con la realtà. Tuttavia, questa realtà non è per nulla identica all’essere empirico fattuale. Questa realtà non è, essa diviene. Ed il divenire va inteso in due sensi. Da un lato, in quanto divenire, in questa tendenza, in questo processo si scopre la vera essenza dell’oggetto. E precisamente nel senso – si pensi agli esempi citati, che possono essere moltiplicati a piacere – che questa trasformazione delle cose in un processo porta concretamente a soluzione tutti i problemi concreti posti dal pensiero dai paradossi della cosa essente. Riconoscere che è impossibile bagnarsi due volte nello stesso fiume è soltanto un’incisiva espressione per indicare l’incolmabile contrasto tra concetto e realtà, ma non aggiunge nulla di concreto alla conoscenza del fiume. Invece, riconoscere che il capitale come processo può essere soltanto capitale accumulato o meglio capitale che si accumula, rappresenta una concreta e positiva soluzione di un complesso di problemi concreti e positivi, di contenuto e di metodo, che concernono il capitale. Quindi soltanto se viene superata la dualità tra filosofia e conoscenza particolare, tra metodologia e conoscenza dei fatti, si può aprire la via verso il superamento nel pensiero della dualità tra pensiero ed essere. Ogni tentativo orientato – come nel caso di Hegel, nonostante i molti sforzi nella direzione opposta – verso il superamento dialettico di questa dualità nel pensiero liberato da ogni rapporto concreto con l’essere, nella logica, è condannato al fallimento. Infatti, ogni logica pura è platonica: è pensiero separato dall’essere e fissato in questa separazione. Solo nella misura in cui il pensiero appare come realtà, come momento del processo complessivo, esso può andare dialetticamente al di là della propria fissità, assumere il carattere del divenire. [nota a piè di pagina di Lukács: «Le indagini puramente logiche e puramente metodologiche non fanno dunque altre che contrassegnare il punto nel quale storicamente ci troviamo: la nostra provvisoria incapacità di afferrare e presentare i problemi categoriali nel loro complesso come problemi della realtà che si trasforma storicamente.»] D’altro lato, il divenire è al tempo stesso mediazione tra passato e futuro: tra il passato concreto, cioè storico ed il futuro altrettanto concreto, cioè altrettanto storico. Il concreto qui ed ora nel quale il divenire si risolve nel processo, non è più un istante passeggero ed inafferrabile, sfuggente immediatezza [nota a piè di pagina di Lukács: «Cfr. in proposito, la Fenomenologia di Hegel (in particolare Werke, II, pp. 73 sgg) dove questo problema viene trattato con maggiore profondità, ed anche la teoria di Ernst Bloch dell’ “oscurità del momento vissuto” e del “sapere non ancora cosciente”.»], ma il momento della mediazione più profonda ed articolata, il momento della decisione, della nascita del nuovo. Finché l’uomo rivolge intuitivamente e complessivamente il proprio interesse verso il passato o verso il futuro, entrambi si fissano in una estraneità d’essere – e tra soggetto ed oggetto si estende l’incolmabile “dannoso spazio” del presente. Soltanto se l’uomo è in grado di afferrare il presente, in quanto riconosce in esso quelle tendenze dal cui contrasto dialettico egli è capace di creare il futuro, il presente, il presente come divenire diventa il suo presente. “Infatti, la verità – dice Hegel – consiste nel non atteggiarsi nell’oggetto come verso qualcosa di estraneo”. [nota a piè di pagina di Lukács: «Werke, XII, p. 207.»] Ma se la verità del divenire è rappresentata dal futuro non ancora sorto, che deve essere reso prossimo, dal nuovo che emerge dalle tendenze che si realizzano (con il nostro ausilio cosciente), allora la questione della riflessività immaginativa del pensiero appare completamente priva di senso. Il criterio della correttezza del pensiero è appunto la realtà. Ma questa non è, diviene – non senza l’intervento del pensiero. Qui si realizza dunque il programma della filosofia classica: il principio della genesi e di fatto il superamento del dogmatismo (in particolare nella sua massima figura storica, nella teoria platonica del riflesso). Ma la funzione di questa genesi può essere svolta soltanto dal divenire concreto (storico). Ed in questo divenire, la coscienza (la coscienza di classe divenuta pratica nel proletariato) è un elemento costitutivo necessario ed indispensabile. Il pensiero e l’essere non sono quindi identici nel senso che essi si “corrispondono” reciprocamente, si “riflettono” l’uno nell’altro, procedono “parallelamente” o “arrivano a coincidere” (tutte queste espressioni sono soltanto forme dissimulate di un rigido dualismo): la loro identità consiste piuttosto nel loro essere momenti di uno stesso processo dialettico storico-reale. Ciò che la coscienza del proletariato “riflette” è quindi il positivo e il nuovo che scaturisce dalla contraddizione dialettica dello sviluppo capitalistico. Non dunque qualcosa che il proletariato trova o “crea” dal nulla, ma una conseguenza necessaria del processo di sviluppo nella sua totalità: qualcosa che, non appena arriva alla coscienza del proletariato e viene da esso reso pratico, si trasforma da astratta possibilità in realtà concreta. Questa trasformazione non è tuttavia meramente formale, dal momento che il realizzarsi di una possibilità, l’attualizzarsi di una tendenza significa appunto trasformazione oggettuale della società, modificazione delle funzioni dei suoi momenti e quindi modificazione sia strutturale che contenutistica di tutti gli oggetti particolari. Ma non si deve dimenticare: soltanto la coscienza di classe divenuta pratica del proletariato possiede questa funzione trasformatrice. In ultima analisi, ogni comportamento contemplativo puramente conoscitivo si trova in un rapporto duplice rispetto al suo oggetto: e la semplice introduzione della struttura qui riconosciuta in un altro comportamento qualsiasi che non sia l’agire del proletariato – dal momento che solo la classe nel suo riferirsi allo sviluppo complessivo può essere pratica – riconduce necessariamente ad una nuova mitologia del concetto, ad una ricaduta nel punto di vista della filosofia classica superato da Marx. Infatti, ogni comportamento puramente conoscitivo resta affetto dalla macchia dell’immediatezza: cioè, in ultima analisi, trova di fronte a sé una serie di oggetti finiti, non risolubili in processi. La sua essenza dialettica può consistere soltanto nella tendenza alla praticità, nell’orientamento verso le azioni del proletariato. Nel fatto che esso si rende criticamente cosciente di questa sua tendenza all’immediatezza, insita in ogni comportamento non-pratico e tende di continuo a chiarire criticamente le mediazioni, i rapporti con la totalità come processo, con l’azione del proletariato in quanto classe. Il sorgere ed il realizzarsi del carattere pratico nel pensiero del proletariato è tuttavia anch’esso un processo dialettico. In questo pensiero, l’autocritica non è soltanto autocritica del suo oggetto, la società borghese, ma è anche il riesame critico tendente ad accertare in che misura la propria natura pratica sia realmente arrivata a manifestarsi, quale grado di vera praticità sia oggettivamente possibile e quanto sia stato praticamente realizzato di ciò che era oggettivamente possibile. È chiaro infatti che la comprensione del carattere processuale dei fenomeni sociali ed il disvelamento della parvenza della loro rigida cosalità, per quanto possano essere corretti, non possono tuttavia sopprimere praticamente la realtà di questa parvenza nella società capitalistica. I momenti in cui questa comprensione può realmente convertirsi nella praxis sono determinati appunto dal processo sociale di sviluppo. Perciò il pensiero proletario è anzitutto soltanto una teoria della praxis, per trasformarsi poi a poco a poco (e indubbiamente spesso a salti) in una teoria pratica che trasforma la realtà. Solo le singole tappe di questo processo – che non è possibile qui neppure schizzare – potrebbero mostrare in piena chiarezza la via dello sviluppo della coscienza proletaria di classe (del costituirsi del proletariato in classe). Soltanto qui si illuminerebbero le intime interazioni dialettiche tra la situazione oggettiva, storico-sociale, e la coscienza di classe del proletariato; solo qui si concretizzerebbero realmente l’affermazione che il proletariato è il soggetto-oggetto identico del processo di sviluppo sociale.»: György Lukács, Storia e Coscienza di Classe, cit., pp. 263- 271. Per quanto la critica lukacsiana alla teoria del rispecchiamento arrivi con estrema precisione a minarne le fondamenta filosofiche e, come abbiamo visto, pagando un inevitabile pesantissimo pedaggio al mito del proletariato come classe universale in Storia e Coscienza di Classe non si troverà un passo dove verrà attaccato Materialismo ed Empiriocriticismo. Nella edizione impiegata nel Dialecticvs Nvncivs di Storia e Coscienza di Classe, alla prefazione, alle pp. XXXV-VI, Lukács fornisce il seguente ritratto di Lenin come interprete della filosofia della praxis che, oltre ad avere una indubbia aderenza col personaggio storico reale, rappresenta anche una sorta di Imitatio Lenini, alla quale ogni vero rivoluzionario per Lukács avrebbe dovuto trarre ispirazione seguendo una corretta – e concreta – filosofia della praxis (ma avrebbe dovuto trarre, pure questo traspare dalle parole di Lukacs, se non dalla vita di Lenin, dalla storia del movimento comunista anche motivi di meditata e sorvegliata prudenza: questa prefazione fu apposta da Lukács all’edizione di Storia e Coscienza di Classe del 1967 e dal 1923 fino all’anno dell’edizione del 1967 utilizzata nel presente lavoro Lukács non aveva autorizzato nessun’altra edizione ufficiale: fra l’edizione del 1923 e quella del 1967 tutta l’operato di Lukács fu teso – se escludiamo l’episodio di Codismo e Dialettica, opera, fra l’altro, rimasta per oltre settant’anni solo manoscritta, che se fu verosimilmente conosciuta, direttamente o indirettamente, nei circoli ristretti degli addetti ai lavori della rivoluzione, non poté mai dispiegare quella carica dirompente che avrebbe avuto se, in occasione delle critiche paleodiamattine di Rudas e Deborin a Storia e Coscienza di Classe, fosse stato data allora alle stampe – a smorzare sul piano personale e su quello politico le gravissime potenzialità di frattura che all’interno di un movimento comunista dominato dall’incipiente sovietico Diamat recava con sé Storia e Coscienza di Classe): «Già nella prefazione che scrissi recentemente per la riedizione separata di questo breve studio ho tentato di mettere in luce con una certa precisione ciò che io ritengo ancora vitale ed attuale nel suo atteggiamento di fondo. Ciò che importa a questo proposito è anzitutto intendere Lenin nella sua vera peculiarità spirituale, senza considerarlo come un prosecutore rettilineo sul piano della teoria di Marx e di Engels e neppure come un geniale e pragmatico “politico realistico”. Nel modo più conciso si potrebbe formulare questo ritratto di Lenin come segue: la sua forza teorica poggia sul fatto che egli considera qualsiasi categoria – per quanto possa essere astrattamente filosofica – dal punto di vista della sua efficacia all’interno della praxis umana e al tempo stesso porta l’analisi concreta della situazione concreta data di volta in volta, su cui si basa costantemente ogni sua azione, in una connessione organica e dialettica con i principi del marxismo. Così egli non è nel senso stretto del termine, né un teorico né un pratico, ma un profondo pensatore della praxis, un uomo il cui penetrante sguardo è sempre rivolto al punto in cui la teoria trapassa nella praxis e la praxis nella teoria. Il fatto che la cornice storico-spirituale di questo mio vecchio studio all’interno del cui ambito si muove questa dialettica, porti ancora in sé i tratti tipici del marxismo degli anni venti, altera indubbiamente alcuni elementi della fisionomia intellettuale di Lenin, dal momento che soprattutto nei suoi ultimi anni di vita egli sviluppò molto più di quanto faccia il suo biografo la critica del presente, ma riproduce anche i suoi lineamenti fondamentali in modo sostanzialmente corretto, poiché l’opera teorico-pratica di Lenin è anche oggettivamente inscindibile dai momenti preparatori del 1917 ed associata alle loro conseguenze necessarie. Oggi io credo che il tentativo di cogliere la peculiarità specifica di questa grande personalità riceva una sfumatura non del tutto identica, ma non per questo completamente estranea, attraverso l’illuminazione compiuta a partire dalla mentalità degli anni venti.» : György Lukács, Storia e Coscienza di Classe, cit., pp. XXXV-VI. Gramsci, a differenza di Lukács, non ebbe la felice sorte di vivere abbastanza a lungo per vedere il fallimento dei regimi che iniziarono dalla Rivoluzione d’ottobre; ebbe però la fortuna di consegnarci un pensiero che giganteggia, forse anche per le sue eccezionali sventure personali, su tutti quanti coloro, fra questi indubbiamente Lukács, diedero fondamentali contributi per la fondazione di una filosofia della praxis che sapesse rompere definitivamente con tutti i positivismi e meccanicismi (e, conseguentemente, con tutti i postmodernismi liberal-liberisti) che hanno sempre tarpato le ali a coloro che vollero cogliere il vivo dell’insegnamento di Marx (e, ovviamente, della dialettica di Hegel: fra i giganti di quel marxismo occidentale che felicemente seppero far evolvere l’idealismo in una feconda filosofia della prassi nominiamo qui solo di sfuggita Karl Korsch e il suo Marxismo e Filosofia: autore ed opera che troveranno una ben più completa disamina in Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico). Il conflittualismo dialettico-strategico del Repubblicanesimo Geopolitico, forse immodestamente ma, si spera, anche con la consapevolezza di Bernardo di Chartres, a questo aspira.

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Alfred Eisenstaedt – ‘Weathervane in Vermont’, early 1940

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