Italia e il mondo

DILEMMI MULTIPOLARI, di Pierluigi Fagan

DILEMMI MULTIPOLARI. Inizia oggi la tre giorni di Xi Jinping in Arabia Saudita. Raro Xi prenda l’aereo e vada fuori il suo Paese. La visita si articolerà in tre giorni e tre riunioni: bilaterale, Cina e Paesi del Golfo, Cina a Paesi arabi. la composizione di quest’ultimo non è al momento chiara. Vediamo in breve il significato.
Il primo e più importante è il venirsi a formare di due modelli di relazioni internazionali. Da una parte quello centrato sugli USA che di recente sembra propendere per una astiosa contrapposizione contro tutti coloro che non uniformano alle forme del modello lib-dem e dall’altra tutti gli altri. Questi altri procedono condividendo relazioni economiche e finanziarie di mercato, in modalità “doux commerce” à la Montesquieu. La formula delle relazioni bilaterali tra questi Paesi è “il rispetto per la sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale e la non interferenza negli affari interni reciproci” che è il focus di IR cinese ma che già lo fu alla fondazione settanta anni fa del forum dei paesi non allineati, una configurazione terza rispetto alla contesa tra i due blocchi della guerra fredda che i più si dimenticano di considerare nelle analisi su gli ultimi settanta anni di storia.
Questo punto è assai rilevante. La Cina si presenta non come modello ma come partner, una posizione basata sul principio di reciprocità. Il mondo è pieno di diversità, ma tutti vogliamo star meglio. Star meglio significa sostanzialmente pace e sviluppo economico da riversare in consenso sociale e politico. Questo sul piano formale, su quello sostanziale, la Cina è oggi il principale soggetto statale dotato di capacità di investimento. Ognuno poi a casa sua fa come crede ma ci si incontra poi al crocevia degli scambi, al mercato potremmo dire, antichissima istituzione umana che risale alla notte dei tempi e su cui arabi e cinesi sono storicamente maestri.
Per la Cina, il “mondo arabo” è triplicemente importante: in sé per sé, per sottrarlo all’egemonia occidental-americana, come cerniera verso l’Africa. Quanto all’in sé per sé si declina in questioni energetiche sulle quali gli USA sono ormai autonomi mentre la Cina ha interesse a diversificare i fornitori e non legarsi in maniera troppo esclusiva alla Russia. Ma intorno a questo nucleo ci sono altri tre aspetti. Il primo è il reciproco sviluppo. Il giovane bin Salman, ma è questione che riguarda anche tutte le altre monarchie del Golfo, sa che in prospettiva la rendita energetica diminuirà ed è ora che bisogna avviare ipotetici progetti di diverso sviluppo economico il che, per paesi mono-risorsa e con ben poco di dotazione naturale e tradizione culturale economica moderna, non è facile.
Il secondo è la nascente convinzione che anni e decenni di conflitto armato da quelle parti non hanno portato alcun vantaggio. Dalla fine del conflitto siriano, in generale, da quelle parti soffiano venti di pace sostanziale. Si va dalla riappacificazione tra Qatar e sauditi, ai viaggi israeliani di qui e di là, ai colloqui riservati che vanno avanti da tempo tra sauditi ed iraniani, iraniani e turchi e così via. Fatti apparentemente banali di semplice soft power come i mondiali di calcio in corso, la stessa vittoria ieri del Marocco che è diventato il simbolo della rinascenza arabo-musulmana, forse anche i crescenti dubbi iraniani sulla c.d. “polizia morale”, sembrano dire che da quelle parti si sta formando una idea di comunità internazionale a modo suo simile a quella storicamente intesa dagli stessi occidentali, ma senza gli occidentali dentro. Sauditi ed affini sono da un po’ i maggiori acquirenti di armi, ma prima o poi si presenterà il dilemma tra spesa in armi e spesa in sviluppo.
Il terzo è molto rilevante e poco conosciuto. Noi stessi abbiamo a lungo scritto anni fa di come dietro al Qaida e soprattutto ISIS ci fossero chiari segni di presenza saudita-emiratina. Questo nucleo salafita-wahhabita era poi collegato a quello di diversa origine ma sostanziale similarità pakistano. Questa interpretazione integralista e ultra-tradizionalista dell’islam arrivava a turbare vaste porzioni del mondo musulmano non solo arabo o africano ma anche asiatico, i quattro “-stan” e ovviamente il Xinjiang cinese. Sappiamo che molta manovalanza ISIS nel conflitto siriano proveniva da quelle parti via Turchia. Forse poco noto a noi autocentrati sui destini occidentali ma più del 90% delle vittime di attentati di queste galassie di organizzazioni armate islamiche negli ultimi anni, erano nei paesi musulmani. La stessa penetrazione cinese in Africa deve farci i conti di convivenza. Sembra ora che in accordo anche con gli altri due punti, la strategia geopolitica di questa parte del mondo stia cambiando, la leva ideologico-religiosa sembra diventare meno importante, la cooperazione è in ascesa.
Quanto alla relativizzazione occidental-americana la faccenda è complicata e forse anche non così come l’abbiamo espressa sbrigativamente. Di fatto, l’Europa si sta sottraendo o tentennando ai legami progettuali sul progetto Vie della Seta, nel frattempo però i cinesi puntano all’Asia minore e l’Africa. Le strategie giocano su tempi medio-lunghi e nei fatti, l’Europa potrebbe trovarsi accerchiata dalla rete cinese-multipolare.
Ad un osservatore terzo, tutto ciò non potrà che esser giudicato come sostanzialmente positivo. Che questi Paesi cerchino la loro Via, commercino, si allaccino in reti di reciproco investimento, si scambino culture, è il modo penso auspicato da tutti di trovare un modo di convivenza planetaria in un mondo complesso. Ma forse, “l’osservatore terzo” è una astrazione, siamo tutti geo-storicamente e geo-politicamente collocati.
E veniamo appunto ai “dilemmi”. Qualche giorno fa, le cancellerie tedesco Scholz, ha rilasciato un lungo articolo sulla testata principe delle IR occidentali cioè americane: Foreign Affairs. Scholz ha introdotto un nuovo concetto: lo Zeitenwende, lo “spostamento tettonico epocale”, unitamente al riconoscimento ormai stabilito che la cifra della fase storica è il mondo multipolare, suoi ordini, assetti, problemi ed opportunità.
Lo Zeitenwende è tutta colpa di Putin, la rottura dei principi di convivenza stabiliti dalla carta dell’ONU e per altro anche dal semplice buonsenso. Non una parola sulla responsabilità europee o sulle comprensibili paturnie russe in fatto di sicurezza come fatto di recente da Macron, anzi, è colpa di Mosca se non si sono implementati gli Accordi di Minsk che erano l’unica strada perseguibile in Ucraina.
Da leggere la lunga requisitoria di Scholz contro Putin, un saggio di argomentazioni accusatorie perfettamente in linea con la posizione americo-anglosassone ed anche sintoniche con le idee dell’est Europa su cui Berlino ha rischiato di perdere la storica egemonia con i tentennamenti iniziali. Il pezzo di Scholz vale la pena di esser letto anche perché disegna una strategia del riarmo tedesco e la sua chiara volontà di porsi come futura forza armata di riferimento per l’intera Europa, fatto di non secondaria importanza a cui è legato anche un certo tipo di sviluppo di ricerca tecnologica e produzione industriale. Forse è questa prospettiva imposta nei primi giorni dagli americani che ha portato i tedeschi a cambiare atteggiamento da un giorno all’altro, quasi un anno fa. Ipotizzo che a Macron la lettura dell’articolo non piacerà, ma non è delle questioni interne la nostra area che qui volevamo parlare.
Se Scholz si mostra allineato e coperto nella strategia antirussa degli USA con portati energetici importanti ed altrettanto in termini NATO-Europa centro-nord/orientale, si smarca con decisione dall’idea di accettare il format democrazie-vs-autocrazie americano, quindi di iscriversi alla guerra fredda 2.0 voluta da Washington per mettere ordine al -per loro- “disordine” del mondo complesso. Per Berlino quindi, Europa dentro, Russia sotto ma NON Cina fuori. Infatti, l’ha visitata da poco con codazzo di industriali e banche a ribadire gli storici legami. Tutta l’industrializzazione cinese anni ’80-’90 quella a capitale 51% cinese e 49% partner nelle zone industriali speciali e poi in tutto il paese, era coi tedeschi. Insomma, il mercantilismo tedesco non ha alcuna intenzione di uscire dai circuiti finanziario-commerciali globali.
Le cronache del mondo nuovo multipolare e complesso ci impegneranno molto nei prossimi anni. Un vero peccato che la cultura politica media del nostro Paese ne sia completamente estranea nel pensiero quando ne è e sempre più ne sarà, dipendente nella sostanza.

Golpe e colpi di mano, di Antonio de Martini

Il tentativo di golpe in Germania somiglia come una goccia d’acqua alla favola del “ golpe Borghese” organizzato dal capo della Polizia di allora, Vicari ai primi del 1971, per rendere plausibile la “ minaccia” fascista” e far accettare l’entrata del PCI nell’area della maggioranza prima e del governo poi.
Anche nel caso del “ Golpe Borghese” – a seguito della confessione registrata di tale Remo Orlandini consegnata al capitano dei CC , Antonio La Bruna, prima di scomparire nel nulla-  si arrestarono “ ex ufficiali” ( i tenenti colonnelli Rosa e De Rosa, avanzi della Repubblica sociale di trenta anni prima), c’era un parà (il solito Saccucci) e, ovviamente, nessun esponente delle Forze Armate.
In Italia aggiunsero il gustoso dettaglio dell’occupazione del ministero dell’interno e del “ prelevamento” di quattro mitra ( MAB) dall’armeria centrale del Viminale in guisa di souvenir da parte di “ un nostalgico”.
Si trattava di quattro mitra Beretta catturati dagli studenti Pacciardiani sulle “campagnole” abbandonate dai poliziotti in fuga durante lo scontro di Valle Giulia nel 1968 e “ trasferiti “in un primo tempo all’armeria centrale del Viminale per nascondere l’ammanco, la diserzione e l’0abbandono del materiale avuto in consegna.
Un ingegnoso soggetto, suggerì di aggiungere il dettaglio per poter scaricare l’imbarazzante mancanza che prima o poi avrebbe potuto nuocere al Capo.
La Marina, sottrasse la sua medaglia d’oro ( Borghese) al ludibrio, trasferendolo in sottomarino, sulle coste spagnole in un giorno in cui il comandante, il vice e il capo di SM della base di La Spezia, risultarono contemporaneamente assenti per licenza.
Anche in questa vicenda tedesca non c’é ombra di Forze armate coinvolte. Non c’é ombra di colpo di mano. Nulla.
In Italia si coinvolse la Forestale comandata dal colonnello Berti ( la battuta dell’epoca che affondò l’accusa era “ doveva occupare la RAi , perché é lì che c’é il sottobosco”) e il tenente colonnello Amos Spiazzi , un bello spirito privo di truppe che nei salotti si presentava :” Amos Spiazzi, extraparlamentare di destra”.

Se non si verifica un colpo di stato, impossibile che si realizzi la fattispecie del reato.
La magistratura sgonfiò il palloncino, ma L’Espresso ed altri fogli di estrema sinistra diedero la cosa per assodata e la manovra di avvicinamento del PCI  al potere proseguì, tramite Rodano e compagni,  come se il pericolo di un golpe fascista esistesse davvero.

Il fatto che questa grottesca sceneggiatasi ripeta pedissequamente in Germania mezzo secolo dopo, mi legittima il sospetto che la matrice  e la motivazione siano le stesse: cooptare l’estrema sinistra nell’area di governo.
E quel che l’Italia del 1970 ha in comune con la Germania2022, é la NATO. Non altro.

Il manifesto per gli affari esteri di Olaf Scholz conferma le ambizioni egemoniche della Germania, di ANDREW KORYBKO

Il leader tedesco ha appena pubblicato quello che può essere interpretato come il suo manifesto in cui spiega perché il suo Paese debba presumibilmente ripristinare il suo precedente status egemonico, ed è stato pubblicato nientemeno che dalla stessa rivista del Council on Foreign Affairs, considerato tra le piattaforme politiche più influenti nel Golden Billion dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti. Il fatto stesso che abbiano pubblicato il suo manifesto può essere considerato come il tacito sostegno di questo blocco della Nuova Guerra Fredda alle ambizioni egemoniche della Germania.

La Polonia non è così paranoica come qualcuno ha ipotizzato

Il cardinale grigio polacco Jaroslaw Kaczynski non ha sbagliato a mettere in guardia di recente contro il dominio tedesco dell’Europa in commenti che hanno fatto eco a quelli di un anno fa con i quali- accusava quel Paese di voler costruire un “ Quarto Reich ”. Il suo paese in precedenza aveva esaltato la minaccia militare del suo vicino all’Europa centrale in modo che Varsavia consolidasse la sua influenza regionale, ma il manifesto del cancelliere Olaf Scholz per la rivista Foreign Affairs dimostra che le ambizioni egemoniche di Berlino esistono davvero.

La nuova cultura strategica della Germania

Intitolato ” The Global Zeitenwende: How to Avoid a New Cold War in a Multipolar Era “, il leader tedesco ha articolato la gamma di mezzi che il leader de facto dell’UE è pronto a impiegare per rafforzare in modo completo la sua influenza in tutto il blocco sulla base di presunte reazioni al conflitto ucraino . Il primo terzo del pezzo è solo una spiegazione di come tutto sia arrivato a questo punto dal punto di vista del suo governo, ma poi passa a parlare di politiche tangibili.

Nelle parole di Scholz, “il nuovo ruolo della Germania richiederà una nuova cultura strategica, e la strategia di sicurezza nazionale che il mio governo adotterà tra qualche mese rifletterà questo fatto”, che inquadra tutto ciò che segue nel suo articolo. La Russia è l’obiettivo principale di questa strategia, come dimostrato dal Cancelliere dichiarando che “la domanda guida sarà quali minacce noi e i nostri alleati dobbiamo affrontare in Europa, più immediatamente dalla Russia”.

Si è poi dato una pacca sulla spalla per aver promosso le riforme costituzionali all’inizio dell’anno per facilitare i piani del suo governo di esporre circa 100 miliardi di dollari per modernizzare la Bundeswehr, che ha accuratamente descritto come “segnare [ing] il più netto cambiamento nella politica di sicurezza tedesca dai tempi del costituzione della Bundeswehr nel 1955”. Il due percento del PIL sarà anche investito nella difesa in conformità con le precedenti richieste degli Stati Uniti ai suoi partner della NATO.

“Diplomazia militare”

Complementare al rafforzamento militare senza precedenti della Germania dopo la seconda guerra mondiale è la politica di Scholz di revocare il suo precedente rifiuto di esportare armi nelle zone di conflitto attive per equipaggiare Kiev. Non solo, ma il suo paese addestrerà anche un’intera brigata di truppe ucraine sul suo territorio come parte di una nuova missione dell’UE insieme alla sostituzione delle armi dell’era sovietica che i paesi dell’ex blocco di Varsavia danno a Kiev con quelle tedesche moderne.

Al di là dei suoi confini, Scholz ha affermato che “la Germania ha notevolmente aumentato la sua presenza sul fianco orientale della NATO, rafforzando il gruppo di battaglia della NATO a guida tedesca in Lituania e designando una brigata per garantire la sicurezza di quel paese. La Germania sta anche contribuendo con truppe al gruppo di battaglia della NATO in Slovacchia, e l’aviazione tedesca sta aiutando a monitorare e proteggere lo spazio aereo in Estonia e Polonia. Nel frattempo, la marina tedesca ha partecipato alle attività di deterrenza e difesa della NATO nel Mar Baltico”.

Di particolare preoccupazione è stata la riaffermazione del cancelliere che “la Germania continuerà a mantenere il suo impegno nei confronti degli accordi di condivisione nucleare della NATO, anche acquistando aerei da combattimento F-35 a doppia capacità”, che è destinato a scuotere la Russia. Abbastanza chiaramente, Scholz intende che la Germania competa con la Polonia come principale rappresentante militare degli Stati Uniti nell’UE, a tal fine spera che le capacità militari più impressionanti di Berlino e l’attuale partnership di condivisione nucleare con Washington le diano un vantaggio su Varsavia.

Espansione istituzionale

Questa osservazione non dovrebbe essere interpretata come un intento di rivedere l’esito geopolitico della seconda guerra mondiale come alcuni in Polonia hanno ipotizzato rispetto a quelli che chiamano i “territori recuperati” del loro paese che ora formano il suo confine con la Germania. Piuttosto, significa solo che la Germania sta diventando più fiduciosa nel mostrare la sua potenza militare nel senso di migliorare in modo completo le capacità difensive dei suoi partner su richiesta delle loro leadership, anche se è vero che questo rischia di renderli vassalli.

Molto probabilmente, Scholz cercherà di replicare questa stessa identica strategia nei Balcani occidentali favorendo l’adesione definitiva di quegli aspiranti stati all’UE de facto guidata dalla Germania dopo aver completato il cosiddetto Processo di Berlino, come ha parlato di aver rilanciato nel suo articolo . Nonostante abbia riconosciuto le difficoltà di ammettere nuovi membri, il Cancelliere ha parlato della promessa che questo risultato avrebbe per rafforzare il potenziale del blocco di stabilire nuovi standard globali per il commercio e l’ambiente, et al.

Questa ambiziosa agenda sarà portata avanti in piena collaborazione con la Francia, secondo Scholz, che ha descritto come “condivisa [ing] la stessa visione di un’UE forte e sovrana”. Le politiche migratorie e fiscali devono essere riformate, ha affermato, al fine di impedire a forze esterne come la Russia di esacerbare presumibilmente le divisioni all’interno del blocco. La sua soluzione proposta per razionalizzare i progressi su queste questioni delicate è “eliminare [e] la capacità dei singoli paesi di porre il veto a determinate misure”.

Influenza radicata

Non c’è altro modo per descrivere la suddetta riforma se non come un gioco di potere politico senza precedenti, esattamente del tipo da cui l’ Ungheria e la Polonia avevano precedentemente messo in guardia. In caso di successo, si tradurrà nella completa sottomissione di tutti i membri dell’UE al duopolio franco-tedesco, eliminando così quelle vestigia di sovranità che ancora conservano. In altre parole, questo asse della Grande Potenza diventerà l’unico che conta in Europa.

Sarà probabilmente impossibile per gli stati più piccoli ripristinare i propri diritti perduti nel caso in cui la Germania assuma il controllo diretto sui propri eserciti in futuro, come la proposta di Scholz per la standardizzazione dei sistemi d’arma dell’UE suggerisce fortemente che accadrà inevitabilmente. L’espansione della presenza militare dell’egemone in ascesa lungo la periferia orientale del blocco, di cui ha parlato così bene all’inizio dell’articolo, potrebbe inevitabilmente portare a ciò per rafforzare l’influenza politica di Berlino.

Simili cosiddetti “complotti di colpo di stato” come quello che le sue autorità affermano di aver sventato mercoledì potrebbero diventare il pretesto con cui la Germania assume il controllo diretto sulle forze armate dei paesi dell’Europa centrale sulla base del presunto aiuto a garantire in modo sostenibile “legge e ordine”. . Visto che quelle forze avrebbero potuto a quel punto standardizzare i loro sistemi d’arma, sarebbero perfettamente interoperabili con quelli della Germania, soprattutto se a quel punto hanno già effettuato più esercitazioni congiunte.

La vera connessione con la Cina

Il resto dell’articolo di Scholz parlava un po’ dell’imminente approccio della Germania alla Cina, ma quei piani non sono così direttamente rilevanti per le ambizioni egemoniche del suo paese come quelli che è pronta ad attuare contro la Russia, ecco perché rimarranno al di fuori dell’ambito del presente analisi. Esaminando l’intuizione che è stata condivisa finora, è chiaro che ” il complotto secolare della Germania per catturare il controllo dell’Europa è quasi completo “, con ogni giorno che passa riducendo la probabilità di controbilanciare questo scenario.

Il suo leader ha appena pubblicato quello che può essere interpretato come il suo manifesto che spiega perché la Germania debba presumibilmente ripristinare il suo precedente status egemonico, ed è stato pubblicato nientemeno che dalla stessa rivista gestita dal Council on Foreign Affairs, che è considerato tra le più influenti piattaforme politiche nel Golden Billion dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti . Il fatto stesso che abbiano pubblicato il suo manifesto può essere considerato come il tacito sostegno di questo blocco della Nuova Guerra Fredda alle ambizioni egemoniche della Germania.

La conclusione è che l’America aspira a ripristinare la sua egemonia unipolare in declino facilitando la rinascita egemonica della Germania al fine di fare affidamento su quel paese come suo principale delegato ” Lead From Behind ” (LFB) per la gestione degli sforzi di contenimento anti-russi del Golden Billion in Europa. Questa politica mira a consentire agli Stati Uniti di concentrarsi maggiormente sull’espansione della NATO nell’Asia-Pacifico in modo da portare avanti i propri sforzi di contenimento anti-cinesi nell’altra metà dell’Eurasia.

Questo sviluppo incipiente ha lo scopo di rendere più probabile che la Repubblica popolare accetti i termini dell’America per la serie di compromessi reciproci tra di loro per stabilire un equilibrio di influenza che alla fine diventerà la “nuova normalità”. È importante che queste due superpotenze facciano progressi tangibili sulla Nuova Distensione in vista del viaggio programmato del Segretario di Stato Blinken a Pechino all’inizio del prossimo anno, ergo la tempistica dietro la pubblicazione del manifesto di Scholz da parte di Foreign Affairs.

Pensieri conclusivi

Il grande contesto strategico all’interno del quale ha articolato le ambizioni egemoniche della Germania è quindi quello di facilitare il graduale riorientamento del suo mecenate americano dall’Eurasia occidentale verso la sua metà orientale mentre il suo paese assume il ruolo di principale procuratore LFB degli Stati Uniti in Europa per contenere la Russia. Questa sequenza di eventi per migliorare il contenimento della Cina da parte dell’Occidente è tacitamente approvata dall’élite del Golden Billion, come evidenziato da Foreign Affairs che pubblica il suo articolo correlato, confermando così che il piano degli Stati Uniti è in atto.

https://korybko.substack.com/p/olaf-scholzs-manifesto-for-foreign?utm_source=post-email-title&publication_id=835783&post_id=89191551&isFreemail=true&utm_medium=email

Incertezze del gas algerino e l’ipotesi di un gasdotto, di Bernard Lugan

Abbiamo più volte sottolineato la dabbenaggine sconcertante e penosa del quadro politico della Unione Europea e, con rare eccezioni, dei relativi stati nazionali, pari solo al servilismo più abbietto nei confronti, non degli Stati Uniti, ma della parte del suo establishment più avventurista e guerrafondaio. Il varo e la gestione delle sanzioni ai “danni” della Russia, in particolare quelle in materia energetica, rappresentano l’apice dell’autolesionismo consapevole di queste élites, cadute in un paradosso disarmante. Hanno varato le sanzioni sulle importazioni di gas e petrolio russi per punire il loro intervento in Ucraina, per destabilizzarla economicamente e, ridere per non piangere, acquisire l’agognata indipendenza energetica da un paese inaffidabile. Nella fattispecie hanno in realtà rinunciato ai più che stabilizzanti ed economici contratti di lunga durata per ricorrere almeno in parte alla stessa fonte per vie traverse e a prezzi moltiplicati; hanno semplicemente indotto i russi a spostare la loro offerta energetica verso altri paesi, in particolare Cina ed India, e con essa il loro baricentro geopolitico. Alla penuria e ai costi energetici provocati artificialmente nell’immediato presente, contrappongono un futuro incerto di nuove rotte energetiche incerte e  di alternative ecologiche tutt’altro che risolutive. Rivendicano l’acquisizione di una indipendenza energetica dalla Russia, per cadere in una condizione di acquirenti in un mercato di fornitori artatamente ristretto e dalla posizione contrattuale ulteriormente rafforzata. Vogliono liberarsi dall’abbraccio russo, per legarsi mani piedi al loro “amico americano”, quello stesso amico che sta brigando per condizionare le rotte energetiche europee del Mediterraneo Orientale verso la Turchia e l’Ucraina; per orientarsi verso aree geopolitiche, in particolare il Nord-Africa, particolarmente instabili, sempre più ostili all’influenza euro-statunitense, in primis la Francia, e sempre più allettate da collaborazioni con Russia, Cina, India e Turchia.
Un quadro drammaticamente fosco, capace di illuminare solo la grettezza e l’insulsaggine, la rapacità distruttiva di chi ci governa. Nella sua essenzialità, Bernard Lugan è una delle poche voci competenti in grado di additare il re nudo. Buona lettura, Giuseppe Germinario
LE INCERTEZZE DEL GAS ALGERINO
Approfittando del pesante contesto geopolitico, l’Algeria ha affermato di poter compensare parte dei volumi di gas russo aumentando le proprie esportazioni verso l’UE attraverso il gasdotto Transmed che la collega all’Italia. Tuttavia, essendosi esaurite le sue riserve che sarebbero di quasi 2.400 miliardi di metri cubi [1] , e essendo la sua produzione consumata per tre quarti localmente, l’Algeria non è in grado di compensare la Russia nella fornitura di gas all’UE.
Nel 2021 l’Algeria ha prodotto ufficialmente 130 miliardi di metri cubi (bn m3) di gas su una produzione mondiale di 3850 miliardi di m3, molto indietro rispetto alla Russia con i suoi 604,8 miliardi di metri cubi (dati 2013). Ovviamente, l’Algeria non può sostituire la Russia. Tanto più che sui 130 miliardi di m3 prodotti dall’Algeria, dovrebbero essere prelevati 93,4 miliardi di m3, ovvero: – 48 miliardi di m3 per la produzione di gas di città consumato localmente. – 20 miliardi di m3 per la produzione di elettricità, l’Algeria produce il 99% della sua elettricità da gas naturale. – 20 miliardi di m3 per la reiniezione in pozzi petroliferi o sacche di gas. – 5 miliardi di m3 per il flaring, ovvero la combustione dei gas non utilizzati. Ciò significa che l’Algeria dispone solo di circa 40 miliardi di m3 di gas da esportare, ovvero appena il 7,7% dei 520 miliardi di m3 di gas che l’UE importa ogni anno [2] . In queste condizioni, a meno che non operi drastiche restrizioni sui suoi consumi interni, è difficile vedere come, se non marginalmente, l’Algeria possa aumentare le sue consegne verso l’UE e pretendere quindi di compensare una quota significativa delle consegne russe… shale gas, non può essere la soluzione. Certo, l’Algeria dispone di enormi riserve in quest’area, ma per produrre un miliardo di metri cubi di gas (MBTu o Million British Thermal Unit) occorre un milione di metri cubi di acqua dolce. Tuttavia, come tutti i paesi del Maghreb, l’Algeria è gravemente carente di acqua e ne resterà sempre più a corto a causa dell’aumento della sua popolazione e del cambiamento climatico. Per l’Algeria, non riuscendo a rilanciare la produzione di gas, l’urgenza è quindi quella di farla durare il più a lungo possibile, e quindi di razionalizzarne l’utilizzo e non certo di aumentarne i volumi di esportazione. Tanto più che per preservare la pace sociale, il governo mantiene prezzi artificialmente bassi che portano a destinare una parte considerevole e crescente delle risorse di gas al consumo delle famiglie e non all’esportazione che genera valuta estera. Producendo sempre meno gas, l’Algeria intende riorientarsi verso un ruolo di intermediario tra alcuni produttori sud-sahariani e il mercato europeo. Da qui il suo progetto di gasdotto trans-sahariano che le consentirebbe di diventare il punto di esportazione del gas dalla Nigeria e dal Niger (si veda l’articolo nella pagina accanto).
[1] A meno che le recenti scoperte annunciate dalle autorità algerine non si rivelino veramente significative. Nell’immediato futuro regna una grande opacità in quest’area. Comunque sia, anche se queste scoperte, presentate come promettenti, fossero messe in funzione, non sarebbero state trasportate in Europa per diversi anni. Inoltre, secondo alcuni esperti indipendenti, le riserve algerine disponibili sono in realtà meno importanti dei volumi annunciati. [2] Questa cifra deve essere confrontata con i dati ufficiali che rappresentano dall’11 al 12% delle importazioni europee.
UN GASODOTTO TRANS-SAHARIANO O COSTIERO?
L’Africa è un continente gasifero sempre più promettente, ma la questione è come far arrivare il proprio gas agli acquirenti europei [1] Sono allo studio quindi tre progetti di gasdotti: uno algerino, un altro libico, il terzo marocchino. Sullo sfondo ci sono importanti problemi politici, geopolitici, geostrategici e di sicurezza. La diplomazia del gas dell’Algeria si oppone a quella del Marocco [2] e della Libia.
Il progetto algerino L’Algeria, che sta vedendo diminuire le sue riserve come abbiamo visto nel precedente articolo, cerca di installare il terminale dell’eventuale gasdotto transahariano che la collegherebbe alla Nigeria attraverso il Niger, il che ne farebbe un fornitore indiretto essenziale verso l’Europa. Per questo è particolarmente coinvolta nel progetto del gasdotto trans-sahariano. Con una lunghezza di 4.128 chilometri, questo gasdotto potrebbe collegare la Nigeria all’Algeria, passando per il Niger dove catturerebbe il gas di questo paese lungo il percorso. Un gasdotto che sarebbe in grado di trasportare 30 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno verso i porti algerini, quindi verso i mercati europei attraverso due gasdotti che già collegano l’Algeria all’Europa. Si tratta del gasdotto TransMed che collega Hassi R’Mel in Algeria a Mazara del Vallo in Sicilia via Tunisia, e del gasdotto Maghreb Europe (GME), che collega Hassi R’Mel a Cordoba in Spagna, via Marocco. Tuttavia, un tale progetto sembra irrealistico, non a causa del suo percorso, ma a causa del contesto terroristico subregionale. Questo gasdotto dovrebbe infatti attraversare regioni in guerra o addirittura in una situazione di totale anarchia, che, oltre al suo problema di costruzione, porrà inevitabilmente quello del suo funzionamento. In effetti, la stessa Nigeria è uno stato che non controlla tutto il suo territorio. Da sud a nord regna dunque l’insicurezza in tutta la regione di Wari da cui si estrae il gas, mentre più a nord c’è il problema di Boko Haram e dei suoi dissidenti che controllano diversi stati della federazione da dove deve passare questo gasdotto? Per quanto riguarda il Sahel, la sua situazione di sicurezza è fuori controllo… In queste condizioni, che gli investitori sarebbero disposti a rischiare decine di miliardi di dollari per portare a nord il gas prodotto nella regione costiera della Nigeria quando il più sicuro è esportare direttamente dal gasdotto marino? Il progetto alternativo libico La Libia si oppone al progetto del gasdotto trans-sahariano guidato dall’Algeria perché vorrebbe che il terminale terminasse sulla costa libica già collegato all’Italia dal Greenstream, un gasdotto lungo 520 chilometri che dalla Tripolitania trasporta il gas verso Sicilia.
La Libia ha quindi presentato un’opzione alternativa al tracciato del progetto del gasdotto trans-sahariano destinato a trasportare il gas dalla Nigeria all’Europa e che, dalla Nigeria, attraverserebbe comunque il Niger, ma per terminare non più in Algeria, bensì in Libia. Tuttavia, qui si presentano gli stessi problemi di sicurezza appena evidenziati con il progetto algerino. Ancor di più, bisognerebbe aggiungervi la questione dell’irredentismo Toubou nel nord del Niger e quella derivante dall’anarchia libica sia nel Fezzan che in Tripolitania. Il progetto marocchino Al momento, il progetto più realistico sembra essere quello portato avanti congiuntamente da Marocco e Nigeria. Un progetto colossale che riunirebbe tutti i paesi dell’Africa sahariana occidentale produttori di gas. Si tratta del Nigeria Morocco Gas Pipeline (NMGP), che dalle coste della Nigeria correrebbe lungo la costa dell’Africa occidentale, gravando sulla produzione di gas dei paesi costieri. Qui non ci sono problemi di sicurezza perché, essendo offshore, questo gasdotto sarebbe quindi indipendente dai rischi per la sicurezza regionale. L’unico problema è che utilizzerebbe le acque territoriali marocchine del Sahara occidentale, ma l’Algeria, che vuole la creazione di un immaginario stato saharawi, sta facendo pressioni sugli investitori internazionali affinché non finanzino questo progetto.
Un progetto colossale
Il progetto del gasdotto Nigeria-Marocco (Tangeri) è nato durante una visita del re Mohammed VI in Nigeria nel dicembre 2016. È stato seguito da un accordo di cooperazione tra Marocco e Nigeria firmato a Rabat il 15 maggio 2017. Con una lunghezza di 5.500 chilometri , 569 km già esistenti tra Nigeria e Ghana via Benin e Togo, la costruzione di questo gasdotto è stimata tra i 25 ei 50 miliardi di dollari. Il progetto è entrato nella fase di studi di dettaglio affidati a ditte specializzate. Ad oggi, dei 7 tracciati originariamente previsti per questo gasdotto, tre sono attualmente selezionati ma non sono stati ancora presentati ufficialmente. In totale, 16 paesi sono interessati da questo progetto, inclusi tutti i paesi dell’ECOWAS che potrebbero beneficiare delle sue ricadute, in particolare paesi senza sbocco sul mare come il Mali, il Burkina Faso e il Niger che beneficeranno dei collegamenti terrestri. Questo gasdotto permetterebbe di elettrificare intere regioni e creare poli industriali integrati. Una prima fase di questo gasdotto potrebbe collegare i giacimenti di gas offshore Grande Tortue Ahmeyim (GTA) situati su entrambi i lati del confine marittimo tra Mauritania e Senegal a Tangeri in Marocco, il suo punto finale.
[1] Un’opzione è ovviamente il gas liquefatto, ma ciò richiede una pesante infrastruttura di trasporto per liquefazione e deliquefazione.
[2] Dopo aver interrotto le sue esportazioni di gas attraverso il GME per privare il Marocco di questa fonte di energia, la Spagna ha riattivato il gasdotto per portare il gas al regno, questa volta in direzione nord-sud. Martedì 5 luglio 2022 il Marocco ha annunciato il ritorno in servizio di due grandi centrali elettriche grazie al gas naturale liquefatto (GNL) trasportato dalla Spagna attraverso il gasdotto Maghreb Europe (GME), dopo la decisione di Algeri di non fornire più il regno con il gas.

LA STRATEGIA USA, VIA NATO, PIANIFICA LE INFRASTRUTTURE MILITARI E CIVILI DEI TERRITORI EUROPEI IN FUNZIONE DEL CONFLITTO CON LA RUSSIA E CON LA CINA. IL CASO DEL TERRITORIO ITALIANO. a cura di Luigi Longo

LA STRATEGIA USA, VIA NATO, PIANIFICA LE INFRASTRUTTURE MILITARI E CIVILI DEI TERRITORI EUROPEI IN FUNZIONE DEL CONFLITTO CON LA RUSSIA E CON LA CINA. IL CASO DEL TERRITORIO ITALIANO.

a cura di Luigi Longo

 

La lettura dell’articolo di Antonio Mazzeo, Basi di guerra da nord a sud. L’unità d’Italia rifatta dalla NATO pubblicato sul sito www.marx21.it, del 15/11/2022, che propongo, è interessante perché fa riflettere sul ruolo della NATO come strumento di gestione della pianificazione strategica dei territori europei da parte degli USA. In particolare si sofferma sull’utilizzo del territorio italiano, disseminato di infrastrutture e basi militari (senza considerare quelle segrete), come avamposto delle strategie statunitensi nel Mediterraneo, nei Balcani, nel Vicino, Medio ed Estremo Oriente. Mi interessa sottolineare quattro questioni: la prima, la fase, che corrisponde a quella pre-multicentrica (che dato nel 2011 con l’emergere in maniera chiara delle due potenze mondiali, Cina e Russia, in grado di contrastare l’egemonia mondiale degli USA), dove lo strumento statunitense dell’Unione Europea (UE) era funzionale alle sue strategie, caratterizzata dall’approntamento delle infrastrutture (i corridoi europei) finalizzate alla costruzione di una rete di mobilità per gli scenari di allargamento della NATO nell’Europa centrale e dell’est per costruire quel cordone militare di isolamento e contrasto della Russia (per approfondimenti rimando ai miei scritti su Tav, Corridoio V , NATO e USA. Dalla critica dell’economia politica al conflitto strategico; L’americanizzazione del territorio. Appunti per una riflessione; Le infrastrutture militari nella fase multicentrica; I corridoi europei e la strategia USA pubblicati sui siti www.conflittiestrategie.it e www.italiaeilmondo.com); la seconda, il sabotaggio ai gasdotti Nord Stream rappresenta sia un atto di rottura da parte degli USA-UE delle relazioni con la Russia (di tipo prevalentemente economico), sia l’inizio della fase di passaggio dalla fine del progetto statunitense della UE (con il declino del sistema-euro conseguenza del declino del sistema-dollaro) alle relazioni dirette con le singole nazioni europee (iniziata dall’amministrazione di Donald Trump) e la sua sostituzione, di fatto, con il progetto NATO più funzionale alle strategie della fase multicentrica; la terza, il progetto NATO della fase multicentrica comporterà un nuovo equilibrio dinamico con nuove architetture istituzionali sovranazionali che gestiranno l’attuale spazio europeo; nuove organizzazioni territoriali (ne circolano da tempo diverse configurazioni) si prevedono per il futuro dell’Europa, espressione geografica a servizio delle strategie statunitensi; la quarta, l’assenza della ricerca (pubblica e privata) sia sulle relazioni tra basi militari Usa-Nato e sviluppo locale, regionale, nazionale e internazionale, sia sulle relazioni politiche, militari, industriali, economiche, sociali e culturali nei territori di localizzazione delle basi e delle loro proiezioni nei sistemi di valori territoriali.

Oggi c’è la necessità per l’Italia e per l’Europa (che è bene ricordarlo non è l’Europa delle nazioni, ma un luogo istituzionale sovranazionale nato da un progetto pensato, finanziato e guidato dagli Stati Uniti e gestito da sub-agenti dominanti soprattutto tedeschi) di uscire dalla NATO per costruire la possibilità di una Europa che cessi di << […] continuare a essere un mito, un sogno staccato dalla realtà di popolazioni molteplici e diverse, un continente fatto di europei senza un’Europa>> (Jacques Le Goff, L’Europa raccontata ai ragazzi, Laterza, Roma-Bari, 1996, pag.25) e sia capace di porsi come un piccolo continente di intersezione e di dialogo tra Occidente e Oriente.

<< Nel 1313 […] i nuovi statuti del comune di Treviso trovarono un’immagine efficace per definire la dialettica fra individuo e la collettività […] la società è come un concerto: gli strumenti e le voci sono tutti diversi fra loro, e così dev’essere perché valga la pena di ascoltare la musica; allo stesso modo sono diversi fra loro gli esseri umani, ma se obbediscono alla ragione […] dalla loro diversità risulterà una società armoniosa >> (Alessandro Barbero, Donne, madonne, mercanti e cavalieri. Sei storie medievali, Editori Laterza, Roma-Bari, 2013, pag. 130). Provo a immaginare l’Europa come un grande concerto: le nazioni sono tutte diverse fra loro, e così deve essere perché valga la pena ascoltare una musica di costruzione, di cambiamento, di coordinamento finalizzata ad una società più sensata e più attenta alle esigenze della maggioranza delle popolazioni.

Chi mette in musica un progetto alternativo di una nuova idea di organizzazione sociale nella fase multicentrica affinchè l’Europa cessi di essere un mito e diventi un piccolo continente autodeterminato in relazione all’Occidente e all’Oriente?

Occorre un soggetto sessuato in grado di offrire una partitura come fondamento solido e meditato per i suoi obiettivi tenendo conto del grande e attuale insegnamento di Karl Marx quando sostiene che << È né più né meno che un inganno sobillare il popolo senza offrirgli nessun fondamento solido e meditato per la sua azione. Risvegliare speranze fantastiche […] lungi dal favorire salvezza di coloro che soffrono, porterebbe inevitabilmente alla loro rovina: rivolgersi ai lavoratori senza possedere idee rigorosamente scientifiche e teorie ben concrete significa giocare in modo vuoto e incosciente con la propaganda, creando una situazione in cui da un lato un apostolo predica, dall’altro un gregge di somari lo sta a sentire a bocca aperta: apostoli assurdi e assurdi discepoli. In un paese civilizzato non si può realizzare nulla senza teorie ben solide e concrete; e finora, infatti, nulla è stato realizzato se non fracasso ed esplosioni improvvise e dannose, se non iniziative che condurranno alla completa rovina la causa per la quale ci battiamo. L’ignoranza non ha mai giovato a nessuno!>> (Hans Magnus Enzensberger, a cura di, Colloqui con Marx e Engels, Einaudi, Torino, 1977, pag. 53).

 

 

 

 

BASI DI GUERRA DA NORD A SUD. L’UNITÀ D’ITALIA RIFATTA DALLA NATO*

di Antonio Mazzeo**

 

Il sempre più evidente coinvolgimento nella guerra fratricida Russia-Ucraina di alcune delle principali basi ospitate in territorio italiano si accompagna al colpo di acceleratore che le forze armate nazionali, USA e NATO hanno dato ad alcuni programmi (vecchi e nuovi) di ampliamento e potenziamento del dispositivo bellico.

L’ultima missione di spionaggio sui cieli dell’Europa dell’Est è stata tracciata dai radar lo scorso 14 ottobre. Un Gulfstream E.550 CAEW del 14° Stormo dell’Aeronautica militare italiana dopo essere decollato dallo scalo romano di Pratica d Mare ha raggiunto prima i confini della Polonia con l’Ucraina e poi quelli con l’enclave russa di Kaliningrad. Un’operazione ormai di routine da quando le forze armate di Mosca hanno invaso l’Ucraina. Il velivolo in dotazione ai reparti di volo italiani aveva fatto il suo debutto nelle aree di conflitto l’8 marzo 2022 con una missione d’intelligence nello spazio aereo della Romania fino ai confini con Moldavia e Ucraina e le sempre più agitate e militarizzate acque del Mar Nero. Da allora i Gulfstream E.550 di Pratica di Mare sono uno degli attori più richiesti dai comandi NATO che coordinano le operazioni aeree di sorveglianza e “contenimento” dei reparti di guerra della Federazione russa in territorio ucraino.

Basati sulla piattaforma del jet sviluppato dall’azienda statunitense Gulfstream Aerospace, appositamente modificato e potenziato dalla israeliana Elta Systems Ltd. (società del gruppo IAI), i velivoli in dotazione all’Aeronautica italiana non sono semplicemente dei “radar volanti”, ma possiedono anche compiti di “gestione” delle missioni alleate nei campi di battaglia e di disturbo delle emissioni elettroniche “nemiche”. “Gli aerei CAEW hanno funzioni di sorveglianza aerea, comando, controllo e comunicazioni, strumentali alla supremazia aerea e al supporto alle forze di terra”, spiega lo Stato maggiore dell’Aeronautica.

“In altre parole, essi sono un assetto di straordinario valore sia per l’Italia che per la NATO per conseguire quella che è definita come Information Superiority, cioè il vantaggio che deriva dall’abilità di raccogliere, processare e trasferire un flusso ininterrotto di informazioni mentre si impedisce al nemico di poter fare lo stesso”.

Non sono solo i sofisticati e costosissimi aerei di produzione israelo-statunitense a consolidare il ruolo di cobelligerante dello scalo militare di Pratica di Mare nel sanguinoso conflitto russo-ucraino. E’ da qui infatti che decollano con sempre più frequenza i velivoli cisterna KC-767A dell’Aeronautica utilizzati per il rifornimento in volo dei cacciabombardieri italiani e NATO impiegati nella Air Policing Mission anti-russa nello spazio aereo di Polonia, Romania, Bulgaria, Ungheria e delle Repubbliche baltiche. Velivoli cargo dello stesso tipo vengono impiegati da Pratica di Mare anche per trasportare i sistemi d’arma “donati” dal governo italiano alle forze armate ucraine e gli uomini, i mezzi pesanti e gli armamenti destinati ai battaglioni di pronto intervento che la NATO ha insediato a mò di tenaglia alle frontiere occidentali di Russia e Bielorussia (attualmente i reparti italiani d’élite dell’Esercito sono presenti in Ungheria, Bulgaria e Lettonia).

Ma in Italia non c’è solo Pratica di Mare a fare da trampolino di lancio degli assetti aerei impiegati nella pericolosa escalation bellica in Europa orientale e nel Mar Nero. Dalla stazione aeronavale di Sigonella, in Sicilia, con cadenza ormai quotidiana e fin da prima dell’aggressione russa del 24 febbraio scorso, decollano i droni d’intelligence AGS della NATO e “Global Hawk” di US Air Force e i nuovi pattugliatori marittimi P8A “Poseidon” di US Navy e delle forze aeronavali di Australia e del Regno Unito. Anch’essi ricoprono le stesse rotte fino ai confini con il territorio ucraino, rumeno, bulgaro e moldavo, per operazioni di intelligence e ricognizione. Così come avviene con i CAEW Gulfstream di Pratica di Mare, i dati sensibili raccolti dai “Poseidon” e dai droni USA e NATO di Sigonella vengono messi a disposizione delle forze armate di Kiev per pianificare le operazioni contro l’invasore russo. Sono cioè una specie di occhio e orecchio non poi tanto segreto contro le manovre dell’esercito di Mosca e una sorta di consigliere-guida della controffensiva ucraina che ha già consentito di ottenere sul campo rilevanti “successi” sugli avversari.

Questi velivoli hanno pure moltiplicato gli interventi nel Mediterraneo orientale in prossimità del porto di Tartus, Siria, utilizzato per le soste tecniche della flotta militare russa. In particolare proprio un pattugliatore P-8A di US Navy è stato protagonista di quella che, per il valore politico-simbolico ma soprattutto per le conseguenze in termini di vite umane, ha rappresentato una delle azioni di guerra più significative e drammatiche del conflitto: l’affondamento dell’incrociatore russo Moskva a largo di Odessa, mercoledì 13 aprile, presumibilmente dopo essere stato colpito dai militari ucraini con uno o più missili anti-nave. Sono ancora fittissimi i misteri sulle dinamiche e sulle unità protagoniste dell’attacco, così come è ancora ignoto il numero delle vittime. E’ tuttavia certo che l’operazione militare contro la nave ammiraglia russa nel Mar Nero è stata “monitorata” e registrata a poche miglia di distanza da un “Poseidon” statunitense decollato dalla stazione aeronavale siciliana.

Il sempre più evidente coinvolgimento nella guerra fratricida Russia-Ucraina di alcune delle principali basi ospitate in territorio italiano si accompagna al colpo di acceleratore che le forze armate nazionali, USA e NATO hanno dato ad alcuni programmi (vecchi e nuovi) di ampliamento e potenziamento del dispositivo bellico. Dalle Alpi al Canale di Sicilia non c’è comando, centro radar e telecomunicazione, aeroporto e scalo portuale che non ospiti o stia per stia per ospitare milionari cantieri infrastrutturali. La NAS – Naval Air Station di Sigonella è forse l’esempio più eclatante: per ospitare i nuovi pattugliatori “Poseidon” sono state realizzate alcune aree di parcheggio e un maxi-hangar con annesso centro di manutenzione del costo di 26,5 milioni di dollari, inaugurato ufficialmente a metà gennaio 2022.

Nella base siciliana è divenuto pienamente operativo l’AGS – Alliance Ground Surveillance, il sistema avanzato di sorveglianza terrestre e intelligence dell’Alleanza Atlantica basato su cinque grandi velivoli senza pilota RQ-4 “Phoenix” realizzati dal colosso aerospaziale Northrop Grumman.

Questi nuovi droni sono lunghi 14,5 metri e possono volare in tutte le condizioni ambientali e ininterrottamente per più di 30 ore, fino a 18.280 metri di altezza e a una velocità di 575 km/h. Il loro raggio d’azione è di oltre 16.000 km. Inoltre, poche settimana fa, il Dipartimento dell’US Air Force ha firmato un contratto del valore di 177 milioni di dollari con una società controllata dal colosso militare industriale Raytheon Technologies, per migliorare l’efficienza dei 14 terminali mondiali (tra cui Sigonella) inseriti nel sistema High Frequency Global Communications (HFGCS). Le stazioni terrestri dell’HFGCS trasmettono i cosiddetti EAM (messaggi di azione di emergenza) e altri tipi di codici di rilevanza strategica, compresi quelli per la conduzione di un attacco nucleare.

A Vicenza, dopo la realizzazione presso l’ex aeroscalo “Dal Molin” di un enorme complesso militare riservato ai paracadutisti della 173^ Brigata aviotrasportata di US Army, ha preso il via un megaprogetto del valore stimato di 373 milioni di dollari per la realizzazione entro cinque anni di 478 alloggi per il personale militare statunitense e famiglie (villette a schiera e diverse nuove palazzine all’interno della caserma Ederle e del cosiddetto Villaggio della Pace). Sono previste inoltre nuove infrastrutture viarie per rendere più rapido e “sicuro” il collegamento delle basi USA di Vicenza con l’aeroporto NATO di Aviano (Pordenone), sede di alcuni reparti aerei dell’US Air Force dotati dei cacciabombardieri di quarta generazione F-16 a capacità nucleare, nonché utilizzato per i grandi aerei cargo che trasportano i parà della 173^ Brigata verso i maggiori scacchieri di guerra internazionali (recentemente in Iraq e Afghanistan, attualmente in Europa orientale e in Africa). E ad Aviano, così come a Ghedi (Brescia), sono in via di completamento i lavori di “rafforzamento” dei bunker che ospitano le bombe nucleari tattiche B-61 delle forze aeree statunitensi, attualmente in fase di aggiornamento per essere impiegate a bordo dei cacciabombardieri di quinta generazione F-35 in dotazione alle forze USA e italiane.

Bibliche colate di cemento a fini bellici sono previste anche per un’altra città dall’incomparabile patrimonio storico, artistico, architettonico e paesaggistico: Pisa. Secondo quanto previsto dal Comando generale dell’Arma dei Carabinieri, in un’area di 73 ettari a Coltano, all’interno del parco regionale di Migliarino–San Rossore–Massaciuccoli, saranno realizzati innumerevoli caserme e alloggi per militari e famiglie, poligoni di tiro e basi addestrative.

Tre i reparti d’assalto dei Carabinieri che saranno insediati a Coltano ci sono il 1° Reggimento Paracadutisti “Tuscania”, il G.I.S.-Gruppo di Intervento Speciale e il Centro Cinofili, da decenni impiegati nei maggiori teatri di guerra internazionale in azioni di combattimento e nell’addestramento “anti-terrorismo” del personale militare di alcuni ingombranti regimi africani e mediorientali. Il progetto di Pisa è funzionale al rafforzamento del ruolo geo-strategico della regione Toscana per la proiezione extra-area delle forze armate nazionali, USA e NATO. La nuova cittadella dei reparti d’assalto dei Carabinieri si aggiungerà infatti alla grande base di stazionamento dei mezzi pesanti di US Army di Camp Darby, agli aeroporti di Pisa-San Giusto e Grosseto, al porto di Livorno, alle tante caserme dei parà della “Folgore”, al centro di ricerca militare avanzato (già nucleare) di San Piero a Grado, al comando fiorentino della Divisione “Vittorio Veneto” prossimo ad operare come Multinational Division South NATO per gli interventi dell’alleanza nel Mediterraneo e in Africa.

Un hub toscano per la guerra globale che si aggiunge a quelli veneto-friulano (con Vicenza e Aviano); siciliano (Sigonella, il MUOS di Niscemi, la baia di Augusta, lo scalo di Trapani-Birgi e le isole minori di Pantelleria e Lampedusa); pugliese (le basi navali NATO di Taranto e Brindisi, gli aeroporti di Amendola, Gioia del Colle e Galatina); campano (il porto di Napoli e Capodichino, il Comando interalleato di Lago Patria); sardo (gli innumerevoli poligoni sparsi per tutta l’isola, Decimomannu, l’arcipelago della Maddalena). L’Italia armata e ipermilitarizzata per gli interessi strategici del Pentagono e dell’Alleanza Atlantica ma anche per i profitti e i dividendi del complesso militare-industriale nazionale e internazionale.

A esclusivo beneficio delle industrie di morte sorgerà a Torino l’ultimo tempio dedicato ad Ares, dio di tutte le guerre, che convertirà parte del territorio dell’Italia nord-occidentale nell’ennesimo hub militare del paese (in quest’area esistono già il centro di Cameri-Novara per la produzione degli F-35, il quartier generale dei NATO Rapid Deployable Corps di Solbiate Olona, i complessi Leonardo- Agusta a Varese, la base nucleare di Ghedi, le fabbriche di pistole, mitra e fucili nel bresciano). Lo scorso 7 aprile i ministri degli Esteri e della Difesa della NATO hanno approvato un documento strategico che pone le basi del “Defence innovation accelerator for the North Atlantic” (DIANA), cioè l’Acceleratore di innovazione nella difesa per l’Atlantico del Nord), dotato di una prima tranche di un miliardo di euro circa grazie al NATO Innovation Fund, il fondo di investimenti finanziari varato dall’Alleanza. Con il DIANA sarà promossa la ricerca scientifico-tecnologica di centri accademici, start up e piccole e medie imprese sulle cosiddette deep technologies, le tecnologie emergenti che la NATO ha identificato come “prioritarie”: sistemi aerospaziali, intelligenza artificiale, biotecnologie e bioingegneria, computer quantistici, cyber security, motori ipersonici, robotica e sistemi terrestri, navali, aerei e subacquei a pilotaggio remoto, industria navale e delle telecomunicazioni, ecc.

“Gli investimenti e la ricerca del progetto DIANA serviranno a dare vita a quelle tecnologie nascenti che hanno il potere di trasformare la nostra sicurezza nei decenni a venire, rafforzando l’ecosistema dell’innovazione dell’Alleanza e sostenendo la sicurezza del nostro miliardo di cittadini”, ha dichiarato il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg. E proprio la città di Torino è stata scelta come prima sede europea degli acceleratori DIANA. L’avvio dell’ambizioso programma è previsto per l’inizio del prossimo anno, quando saranno definiti i progetti da finanziare. In una prima fase la sede di DIANA sarà ospitata in un’area di 9.000 mq ricavata all’interno delle storiche Officine Grandi Riparazioni, il complesso industriale sorto a Torino a fine Ottocento. A partire dal 2026 l’incubatore-acceleratore DIANA sarà trasferito nella Città dell’Aerospazio in via di realizzazione in un’area di 184.000 mq alla periferia ovest del capoluogo piemontese, grazie ad un finanziamento di 300 milioni di euro del Piano Nazionale Ripresa e Resilienza (PNRR), più altri 800 milioni che dovrebbero giungere da una settantina di aziende del settore aerospaziale interessate al progetto industriale.

Tra queste ultime in pole position c’è ovviamente l’holding Leonardo SpA, leader nella produzione di sistemi d’arma tecnologicamente avanzati. “Leonardo, azienda partecipata al 30% dal Ministero dell’economia coordinerà tre progetti del nuovo sistema di difesa europeo: il sistema di navigazione satellitare Galileo, finanziato dall’Unione europea con 35,5 milioni di euro; quello di tecnologia sicura Essor, che ha ricevuto 34,6 milioni; e il progetto degli anti-droni Jey Cuas (13 milioni)”, ha riportato l’Indipendente in un ampio servizio pubblicato il 17 luglio 2022. “Una parte degli spazi della città sarà destinata al nuovo campus del Politecnico di Torino, mentre l’altra sarà occupata dagli uffici del programma DIANA e da alcune aree per la sperimentazione di nuove tecnologie di terra e di volo”.

A fianco dei laboratori e degli spazi per le start-up, si insedierà nella Città dell’Aerospazio pure il Business Incubation Centre dell’Agenzia Spaziale Europea. Secondo quanto dichiarato dal ministero della Difesa italiano, verrà messo a disposizione del progetto pure il neo costituito acceleratore Takeoff – Aerospace & Advanced Hardware (una creatura di Cdp Venture Capital, Fondazione CRT e UniCredit) e “saranno rese disponibili le capacità di sperimentare tecnologie innovative” presso il Centro di Supporto e Sperimentazione Navale della Marina Militare di La Spezia e il Centro Italiano Ricerche Aerospaziali (CIRA) di Capua, società partecipata dell’Agenzia Spaziale Italiana, del Consiglio Nazionale delle Ricerche e della Regione Campania.

Un mixer – letteralmente esplosivo – di organizzazioni militari internazionali, grandi, medie e piccole industrie, istituzioni pubbliche e private, banche e gruppi finanziari, autorità statali, regionali e locali, università e centri di ricerca scientifica che farà di Torino la capitale europea delle guerre globali aerospaziali del XXI secolo. Guerre ancor più automatizzate e disumanizzate di quelle a cui abbiamo assistito, impotenti e inorriditi, in questi ultimi decenni.

*I corsivi e i grassetti presenti nell’articolo sono i mei (LL).

**Giornalista e saggista. Ecopacifista e antimilitarista.

 

Trump, ora più che mai!_di Roger Stone

Qui sotto pubblichiamo l’appello lanciato da Roger Stone a sostegno della ricandidatura di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti. Roger Stone è stato, assieme al Generale Flynn, una figura chiave della prima elezione di Trump. Non tutti lo hanno compreso nel movimento MAGA; forse nemmeno appieno lo stesso Trump, almeno sino a quando lo ha graziato dalla persecuzione giudiziaria allo scadere del suo mandato presidenziale. Lo hanno capito benissimo al contrario i suoi avversari portandolo con ferocia e spietatezza alla rovina economica e ad una condizione di salute precaria. Non ostante, assieme a qualche altro fondatore, abbia scelto di mettersi saggiamente in disparte al momento dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca, è rimasto comunque nel mirino spietato dei suoi avversari. Ricordiamo tutti la vergognosa spettacolarità della vera e propria operazione militare che lo ha condotto agli arresti in piena notte nella sua abitazione. Roger Stone è stato un alto funzionario dello stato federale con incarichi chiave sin dalla lontana amministrazione Nixon. Conosce benissimo i meccanismi di funzionamento delle dinamiche politiche americane ed ha intuito, tra i primi, la via del disastro verso la quale stavano conducendo il paese le varie amministrazioni, a partire da quella di Bush Senior e i centri decisori presenti negli apparati nevralgici. A settanta anni Stone getta sul terreno il peso della sua autorevolezza per sostenere ancora una volta Trump e diradare almeno in parte la cortina fumogena stesa sulle candidature alternative, o presunte tali che stanno emergendo. Non conoscendo bene, nei particolari, le dinamiche interne al movimento, nutriamo qualche dubbio, però, sulla giustezza di questa ricandidatura di un personaggio dai limiti, pari alla sua tenacia, evidenti e sulla maturità di eventuali candidature realmente alternative. Tanto più che, alla sua seconda riproposizione, non sembra disporre del sostegno e del supporto di un gruppo ben organizzato, strutturato ed esperto. La dinamica dello scontro politico negli Stati Uniti vive una fase di stallo, ma solo apparente. Di fatto la polarizzazione geografica del conflitto interno si è ulteriormente accentuata con l’ulteriore fattore dirompente di un movimento che continua ad estendersi nei ceti popolari produttivi delle varie etnie. L’alterazione dei risultati elettorali con brogli ormai su scala industriale sta facendo il resto, insinuando il dubbio sulla effettiva efficacia di un impegno politico fondato e dettato esclusivamente sulle scadenze elettorali in un movimento che ha compreso l’importanza di un radicamento nei centri amministrativi e di potere e di una connessione con quelle élites dissenzienti con l’attuale politica avventurista. Il movimento MAGA vive all’interno profonde contraddizioni tra chi punta ad una azione tendente semplicemente a dividere il fronte geopolitico avversario che si sta compattando, più per la costrizione esterna americana che per affinità dei componenti, attorno al polo russo-sino-indiano e chi, mosso probabilmente da una impostazione economicista e un po’ ingenua, tende a ridurre le dinamiche geopolitiche ad una serie di relazioni bilaterali mutevoli. Una interpretazione, quest’ultima, probabilmente accettabile e praticabile solo in una fase temporanea di transizione verso una ricomposizione multipolare degli schieramenti e non a caso sostenuta, paradossalmente, anche dalla attuale leadership cinese. Un aspetto che avrebbe dovuto far riflettere meglio la dirigenza cinese, riguardo al suo comportamento nei confronti di Trump. Un movimento il cui successo, però, potrebbe condurre ad una dinamica meno tragica le relazioni geopolitiche e spostare più all’interno degli Stati Uniti un conflitto che, altrimenti, coinvolgerà il mondo intero. Una classe dirigente e un ceto politico serio e legato agli interessi fondamentali dei paesi europei più importanti dovrebbe sostenere ed agevolare convintamente la strada di questo movimento proprio per gli spazi che un suo successo definitivo aprirebbe ad una condizione più autonoma ed indipendente dell’Europa. Il carattere miserabile, stupido, insipiente e compradore di questi, già visibile in quei quattro anni, sta emergendo, purtroppo, sempre più alla luce del sole condannando, con poche eccezioni, un intero continente al disastro inconsapevole ed autolesionistico a vantaggio di una élite sempre più arroccata. Buona lettura, Giuseppe Germinario

 

ROGER STONE: TRUMP, ORA PIÙ CHE MAI

Trump non è accettato o sostenuto dai membri titolari di tessera dell’establishment repubblicano di Washington. Questa è una virtù, non una pecca.

 

Nel suo discorso di annuncio alle sua corsa alle presidenziali 2024, un discorso ordinato e perfettamente disciplinato, Donald Trump si è riformulato come un outsider politico pronto a tornare alle guerre politiche di vecchia stagione e a sfidare gli interessi politici e mediatici radicali che hanno sistematicamente ribaltato e neutralizzato il progressi fatti durante la sua prima presidenza.

Quelli del movimento MAGA riescono a percepire, attraverso la narrativa accuratamente orchestrata, implacabile e completamente falsa, la tesi che cerca di incolpare l’ex presidente per la sottoperformance del partito repubblicano nelle elezioni di medio termine. Com’è conveniente che la vittoria relativamente facile del candidato appoggiato da Trump J.D. Vance in Ohio, così come la dura, ma riuscita rielezione del senatore Ron Johnson (forse il più grande difensore di Trump al Senato degli Stati Uniti) in Wisconsin sono così facilmente trascurate dai media.

Quelli della cabala corporativa/governativa/mediatica ora elevano lo spettro di una candidatura del governatore della Florida Ron DeSantis. La scelta di De Santis come principale nemico di Trump è un riconoscimento del fatto che il collegio elettorale dell’America Prima (MAGA) è ancora dominante alla base del Partito Repubblicano. DeSantis, nonostante il suo pedigree, ha governato in Florida seguendo il manuale del MAGA.

L’establishment, che ora cerca di distruggere Trump, ha già riconosciuto la non fattibilità di presentare come alternativa a Trump l’ex vicepresidente Mike Pence o l’ex direttore della CIA e segretario di Stato Mike Pompeo, tutte e due potenziali candidature assolutamente impopolari tra la base di MAGA. L’ascesa di una potenziale candidatura di De Santis, toglie prezioso ossigeno che una delle loro candidature richiederebbe.

L’unico altro potenziale candidato, dietro cui la cabala repubblicana/mediatica poteva schierarsi, il senatore della Florida Marco Rubio, è stato sostanzialmente neutralizzato da Trump quando l’ex presidente ha tenuto un comizio caloroso a favore di Rubio, in Florida, nel momento in cui  la rielezione del Senatore Rubio era in bilico. La sfida contro la candidata Democratica si presentava problematica poiché la deputata della sinistra radicale; Val Demings era ben finanziata e organizzata. L’intervento di Trump ha tolto dalla pentola bollente Rubio forzando poi Rubio ad essere in debito con Trump e quindi ora fedele all’ex presidente.

Prima del comizio di Trump a Miami, i sondaggi mostravano che Rubio era in vantaggio su Demings di soli tre punti, ma dopo il comizio di Trump, il senatore Rubio ha ottenuto una vittoria finale di 16 punti rispetto alla Demings.

Con Pence e Pompeo che mancano del necessario appeal nella base repubblicana e con Rubio dipendente ora da Trump,altro non rimane che DeSantis.

Ieri sera ho partecipato allo storico annuncio del presidente Trump a Mar-a-Lago della sua candidatura per le presidenziali del 2024. C’era elettricità nell’aria che non vedevo né sentivo dall’inizio del 2016. I media hanno rapidamente sottolineato che mentre io e Mike Liddell, descritti come “i sostenitori di Trump”, eravamo tra il pubblico, nessun membro del nuovo Congresso era presente . Ancora una volta, i media giudicano male l’umore degli elettori;  il fatto che Trump non sia appoggiato o sostenuto da membri tesserati dell’establishment repubblicano di Washington è un pregio, non un difetto.

L’assalto organizzato dall impero mediatico NewsCorp di Rupert Murdoch, tra cui Fox News, il Wall Street Journal e il New York Post, mette in mostra una chiara impressione errata del ruolo svolto da Fox e dalle altre testate giornalistiche di Murdoch nell’ascesa iniziale di Trump.

Fox News ha cercato sistematicamente di promuovere più sfidanti a Trump nelle primarie del 2016. Tuttavia, ha visto svanire quegli sforzi quando hanno scoperto che trasmettere dall’inizio alla fine i comizi di Trump faceva guadagnare gli indici più alti di ascolto mai registrati prima nella storia di Fox News, consentendo così a Murdoch di addebitare molto di più per la pubblicità sulla sue reti. Fox News ha  beneficiato della nomina e dell’elezione di Donald Trump più che Trump abbia beneficiato delle dirette fatte dalle emittenti di Murdoch.

Qualcuno crede che qualsiasi candidato diverso da Donald Trump potrebbe affrontare coloro che traggono grandi profitti dall’immigrazione illegale e frontiere aperte?

Qualcuno crede che qualsiasi candidato diverso da Donald Trump smaschererà e correggerà la corruzione nelle nostre agenzie di intelligence e negli uffici delle forze dell’ordine, come la CIA e l’FBI?

Qualcuno crede che qualsiasi candidato diverso da Donald Trump organizzerà una campagna nazionale per porre un limite temporale per  i membri eletti del Congresso?

Qualcuno crede che qualsiasi candidato diverso da Donald Trump imporrebbe il divieto agli ex membri del Congresso, o del ramo esecutivo, di esercitare pressioni dopo aver lasciato le alte cariche del governo?

Qualcuno crede che qualsiasi candidato diverso da Donald Trump sfiderà il duopolio bipartitico che sta cercando di cancellare la nostra eredità, cancellare la nostra Costituzione e distruggere le stesse libertà che garantiscono lo stile di vita americano?

Ecco perché sono con Trump, ora più che mai.

 

Roger Stone

In “Competizione sistemica” con gli USA, di German-Foreign-Policy

Lo stiamo ripetendo da tempo. Ora c’è la conferma ufficiale. Non è però solo guerra commerciale. Le modalità di azione della guerra economica non si limitano ai dazi, alla politica monetaria, alla guerra dei tassi, alla regolamentazione dei flussi commerciali. Le sanzioni e le stesse scelte geopolitiche agiscono sulle scelte economiche. Queste ultime sono sempre più parte integrante delle dinamiche geopolitiche. Più la base egemonica si restringe, più i sottomessi sentiranno sulla propria pelle il peso del dominio.

Giuseppe Germinario

Si espande la guerra commerciale tra l’UE e gli Stati Uniti sui programmi di investimento statunitensi che attirano le industrie del futuro lontano dall’Europa. I manager avvertono di un “esodo industriale” negli Stati Uniti.

23
NOV
2022

BERLINO/WASHINGTON restringendo l’UE ai negoziati con gli USA. Secondo gli economisti, alla fine sono in gioco “un gran numero di industrie del futuro”. L’ex CEO di Siemens Joe Kaeser avverte persino di un “esodo industriale e di capitali dall’Europa” verso gli Stati Uniti.

“Compra americano”

I programmi di investimento statunitensi, del valore di centinaia di miliardi, che l’amministrazione statunitense ha lanciato nell’ultimo anno, sono ancora al centro del conflitto. Attualmente il dibattito si concentra sull’Inflation Reduction Act, che prevede quasi 400 miliardi di dollari USA per la decarbonizzazione, in particolare per l’energia verde e le auto elettriche.[1] Questi fondi sono estremamente attraenti per l’industria. L’acquisto di auto elettriche viene sovvenzionato con 7.500 dollari USA ciascuna. Tuttavia, solo le auto prodotte negli Stati Uniti sono sovvenzionate. Questo vale anche per i componenti, come le batterie. Anche le loro materie prime devono essere inizialmente estratte e lavorate al 40 e – a lungo termine – all’80 per cento negli Stati Uniti, o in alternativa in un Paese legato agli USA da un accordo di libero scambio. Ciò esclude la Cina, ma anche Germania e UE – non solo per singoli prodotti ma anche per intere catene di fornitura. Per poter beneficiare di questi programmi di investimento unici, alcune aziende hanno già iniziato ad espandersi all’interno oa creare nuovi siti negli Stati Uniti: si profila un trasferimento sistematico di segmenti significativi delle strutture produttive in Nord America.

„Un aspirapolvere per investimenti”

Ciò non riguarda solo l’industria automobilistica, compresi i suoi subappaltatori e la produzione di batterie. Si profilano già i primi ritardi nella costruzione pianificata di entrambe, una fabbrica di batterie Northvolt a Heide e l’espansione dello stabilimento Tesla a Grünheide vicino a Berlino, perché entrambe le società stanno dando la priorità alle loro attività negli Stati Uniti. I produttori di turbine eoliche possono anche sperare in sovvenzioni dall’Inflation Reduction Act se producono negli Stati Uniti. Secondo i rapporti, gli esperti della Commissione europea prevedono che le principali aziende di questo settore trasferiranno i loro siti produttivi negli Stati Uniti.[2] Christian Bruch, CEO di Siemens Energy, ha affermato che le risorse del settore per la transizione energetica saranno distribuite nei prossimi dodici mesi e “se l’Europa non reagisce, si investirà di più negli Stati Uniti che qui. ”[3] Uno sviluppo identico sta diventando evidente nell’industria dell’idrogeno, a causa degli alti sussidi e dell’energia molto più economica negli Stati Uniti. Jorgo Chatzimarkakis, segretario generale di Hydrogen Europe, prevede che gli Stati Uniti attireranno “investimenti… come un aspirapolvere”. potenziale è particolarmente problematico. Gli Stati Uniti potrebbero invece ora diventare i pionieri globali. l’UE vuole trasformarsi in industrie di punta della transizione energetica con un potenziale di espansione globale è particolarmente problematico. Gli Stati Uniti potrebbero invece ora diventare i pionieri globali. l’UE vuole trasformarsi in industrie di punta della transizione energetica con un potenziale di espansione globale è particolarmente problematico. Gli Stati Uniti potrebbero invece ora diventare i pionieri globali.

Cooperazione costosa

I programmi di investimento statunitensi potrebbero avere conseguenze ancora più gravi nell’Asia orientale, dove avranno un impatto su due stretti alleati degli Stati Uniti: il Giappone e la Corea del Sud. Considerando che almeno alcune delle case automobilistiche tedesche possono già beneficiare di questi sussidi, perché stanno producendo negli Stati Uniti – ad esempio la BMW 330e o presto la Mercedes EQS – questo varrà solo per la Nissan Leaf, tra le case automobilistiche asiatiche. Il governo giapponese ha presentato una protesta attraverso i canali diplomatici, senza alcun risultato. Tuttavia, i principali produttori giapponesi come Toyota e Honda hanno da tempo in programma di creare impianti di auto elettriche e batterie negli Stati Uniti. La Corea del Sud è più gravemente colpita. Hyundai, ad esempio, ha alcuni modelli di auto elettriche di successo, con i quali l’azienda è in competizione con la statunitense Tesla. Tuttavia, questi non vengono prodotti negli Stati Uniti e, pertanto, sono totalmente esclusi dai programmi di sovvenzione.[5] Ciò si è rivelato motivo di imbarazzo per il presidente della Corea del Sud Yoon Suk-Yeol. Da quando è entrato in carica lo scorso maggio, ha sostenuto le misure di Washington di ogni tipo, ad esempio favorendo la produzione di chip statunitense, correndo così il rischio di tensioni con la Cina. Ora si rende conto che la cooperazione con gli Stati Uniti è economicamente costosa per il suo paese.[6] C’è una rabbia enorme a Seoul. Ora si rende conto che la cooperazione con gli Stati Uniti è economicamente costosa per il suo paese.[6] C’è una rabbia enorme a Seoul. Ora si rende conto che la cooperazione con gli Stati Uniti è economicamente costosa per il suo paese.[6] C’è una rabbia enorme a Seoul.

“Compra europeo”

Un approccio deciso e consolidato, adottato da tutti gli Stati interessati, finora non ha avuto successo a causa della disunione all’interno dell’UE. La Francia preme per un’azione risoluta. A ottobre, il presidente Emmanuel Macron, in reazione alle normative statunitensi “Buy American”, aveva lanciato un appello per legiferare un “Buy European Act”, per proteggere il mercato dell’UE dalla concorrenza statunitense, o almeno fino a quando Washington lo sostiene il suo corso.[7] Il commissario francese per il mercato interno dell’UE, Thierry Breton, si è espresso a favore della “gestione del problema nell’ambito dell’OMC”, possibilmente anche presentando una denuncia all’OMC.[8] Tuttavia, il governo tedesco sta minimizzando. Ad esempio, il ministro dell’Economia tedesco, Robert Habeck, avrebbe affermato che “sono state avviate discussioni con gli americani”, in modo da “non entrare in una sorta di guerra commerciale. ”[9] Il ministro delle finanze tedesco, Christian Lindner, ha avvertito che una guerra commerciale crea solo perdenti, “nessuno ne trarrà vantaggio”.[10] Il commissario europeo per il commercio Valdis Dombrovskis sta seguendo la linea di Berlino. “Vogliamo un accordo negoziato”, ha dichiarato Dombrovskis. “Sono favorevole a procedere per gradi. Ora stiamo discutendo”. Solo allora, quando “i risultati non soddisfano le nostre aspettative”, “prepariamo il passo successivo”. Naturalmente, forse allora sarebbe troppo tardi.[11] ” sarà “prepariamo il passo successivo”. Naturalmente, forse allora sarebbe troppo tardi.[11] ” sarà “prepariamo il passo successivo”. Naturalmente, forse allora sarebbe troppo tardi.[11]

Colloqui senza alcun risultato

Dal 4 novembre, infatti, si riunisce regolarmente una task force transatlantica, per trovare il modo di evitare danni all’Ue, fino ad ora – per quanto si sa – senza risultati tangibili. Un emendamento all’Inflation Reduction Act è considerato fuori discussione, anche perché il Congresso Usa dovrebbe essere favorevole, cosa ancora meno ipotizzabile ora, visti i risultati degli ultimi mid-term, in cui i repubblicani hanno ottenuto la maggioranza al Camera dei Rappresentanti. Teoricamente, sarebbero possibili modifiche ai regolamenti di attuazione, ma non c’è nulla che indichi che Washington sarebbe d’accordo su qualsiasi cosa al di là di semplici aggiustamenti estetici. Il 5 dicembre, il Consiglio per il commercio e la tecnologia (TTC) UE-USA dovrebbe riunirsi per affrontare la questione, ma le aspettative sono basse.

“Esodo industriale negli USA”

Nel frattempo, diversi economisti e manager hanno commentato le dimensioni della disputa commerciale. Ad esempio, Gabriel Felbermayr, direttore dell’Istituto austriaco di ricerca economica (WIFO) di Vienna, ritiene che questo conflitto offuschi la controversia sui sussidi Airbus-Boeing,[12] che aveva coinvolto solo “un singolo settore”, mentre nell’attuale conflitto , sono in gioco “molte industrie del futuro”.[13] Si dice che l’ex capo della Siemens Joe Kaeser abbia affermato che “in una certa misura” l’UE non è solo in “concorrenza sistemica” con la Cina, ma anche con gli Stati Uniti. Se si guarda ai programmi di investimento degli Stati Uniti e al dissenso all’interno dell’UE, si profila chiaramente “un esodo industriale e di capitali dall’Europa verso gli USA”.[14]

 

[1] Vedi anche Lotte di potere dietro il fronte (II) .

[2] Silke Wettach: Der falsche Freund. WirtschaftsWoche 18.11.2022.

[3], [4] Warum ein Handelskrieg zwischen USA und EU droht. spiegel.de 18.11.2022.

[5] Martin Kölling: „Verräter, Bastarde“ – Wie die USA enge Verbündete gegen sich aufbringen. www.handelsblatt.com 14.10.2022.

[6] Ellen Kim: la legge sulla riduzione dell’inflazione viene messa a fuoco all’UNGA. csis.org 22.09.2022.

[7] Clea Caulcutt: Emmanuel Macron chiede un “Buy European Act” per proteggere le case automobilistiche regionali. politico.eu 26.10.2022.

[8] Moritz Koch: „Die USA eröffnen faktisch ein Subventions-Rennen“ – Il commissario dell’UE ha detto a Washington. www.handelsblatt.com 03.11.2022.

[9] Dana Heide, Silke Kersting, Moritz Koch, Annett Meiritz, Klaus Stratmann: USA stemmen „größte Investitionen aller Zeiten“ fürs Klima – und lösen in Europa Ängste aus. www.handelsblatt.com 03.11.2022.

[10] Lindner befürchtet Blockbildung durch US-Gesetz. n-tv.de 17.11.2022.

[11] Markus Becker, Michael Sauga: Rechnen Sie mit einem Handelskrieg, Herr Dombrovskis? spiegel.de 18.11.2022.

[12] Cfr. anche Die nächste Strafzollrunde .

[13], [14] Warum ein Handelskrieg zwischen USA und EU droht. spiegel.de 18.11.2022.

https://www.german-foreign-policy.com/en/news/detail/9092

COSA È CAMBIATO?_di Pierluigi Fagan

COSA È CAMBIATO? (Spoiler: non lo so). Due post fa ricordavo le dichiarazioni di Biden ad inizio ottobre che segnavano un deciso cambio di atteggiamento verso Russi, Putin e guerra in Ucraina. “Deciso” non sarà sembrato a chi non si interessa di questioni internazionali dove vige un codice simbolico per il quale anche piccoli accenni di qua e non di là fanno segnale, differenza, quindi informazione. Da allora, continuo il flusso di segnali, alcuni in una direzione, altri a mantenere calda l’atmosfera, ma seguendo chi diceva cosa e che potere ha, sempre più di un tipo e sempre meno dell’altro. Il generale Milley ha alla fine messo giù carte decise dicendo che era giunto il tempo di trattare, che gli ucraini avevano dato il massimo e di più non si poteva pretendere, ieri ha apertamente detto che la situazione sul campo non è credibilmente migliorabile. Attenzione, trattare non è pace, si può trattare per anni ed anni e così rendere di fatto una situazione che non si può accettare ufficialmente. Russia e Giappone non hanno ancora firmato la pace dopo 77 anni dalla IIWW.

Nel frattempo, i russi si ritiravano da Kherson, sia segnale di accettazione del presunto stato del campo ovvero darsi il Dnepr come confine, sia ovvia mossa di logistica militare. La questione del missile polacco ha mostrato come il dibattito pubblico non capisce quasi nulla di ciò che succede. Ho letto la notizia a tutta pagina prima di andare a letto ed ho pensato “ma perché mettere a tutta pagina una stupidaggine del genere?”. Un singolo missile a pochi chilometri dal confine di un paese in guerra è evidentemente un errore, non importa fatto di chi, certo non si attiva l’art. 5 della NATO per una cosa del genere. Viepiù in un clima generale che stava andando verso il sedersi al tavolo, anzi proprio questo generale andare verso il tavolo (USA-Russia), poteva ben spiegare chi aveva intenzione di sparare un missile dove non doveva.
Che Zelensky (nome collettivo dell’élite ucraina al potere) non abbia alcuna voglia di andare al tavolo e sostanzialmente accettare lo stato del campo o giù di lì (trattando qualcosa potrebbe ottenere se gli americani su un altro tavolo dessero qualcosa ai russi in termini di architettura di sicurezza generale), si comprende. Tuttavia, si spera siano abbastanza intelligenti da capire che affidarsi alle volontà strategiche di una iper-potenza dominante, comporta accettare questi cambi repentini di postura. Probabilmente, più si scende lungo la scala di rilevanza politica di questa scala, meno intelligenza si trova. Questo era noto e ne scrivemmo mesi fa, difficile per i vertici del potere ucraino richiamare ora le frange eccitate dal conflitto, armate, eroizzate, rese protagoniste, eccitate dal traffico d’armi e relativi introiti ed ora destinate a tornare nell’ombra. In questi casi capita anche che ti lancino un razzo a tua insaputa rendendo così palese che tu certe cose non le controlli.
Il che vale anche per il corteo di quelli che una volta si chiamavano “servi sciocchi” dell’establishment europeo e mediatico. Hanno preso tutti a vibrare all’unisono al segnale che forse, sì, era giunta “l’ora più buia” l’altra sera. Poi si sono resi conto che gli americani avrebbero sostenuto la tesi dell’incidente di tiro degli ucraini anche se il razzo fosse stato avvolto nel tricolore blu-bianco-rosso. Si capisce le opinioni pubbliche non siano veloci a cogliere i mutamenti di quadro, ma quelli che hanno responsabilità politiche e di interpretazione mostrano semmai più stupidità il che è sconfortante una volta di più.
Gente che in questi mesi è andata a dire che ii russi volevano andare a Berlino, poi che volevano prendere tutta l’Ucraina, che Putin aveva evidenti segnali di malessere psichico e fisico, poi che sarebbero crollati sotto le sanzioni, poi che ci sarebbe stato un colpo di stato contro Putin, poi che i russi avevano finito i missili, i soldati, i carrarmati, che ci si sarebbe fermati solo riconquistando la Crimea, che forse si poteva nuclearizzare Mosca preventivamente o forse anche solo con le armi convenzionali. Tonnellate e tonnellate di sciocchezze emesse 7/24 con sciami di replicatori su i social a creare nuvole di falsa percezione, altro che fake news. Anche loro, come gli eroi ucraini al fronte, ora presi in contropiede.
L’altro giorno a Bali, riunione dei G20, Biden ha dato altri segnali con Xi Jinping. E vabbe’ ci sarà competizione accesa ma forse conviene rimanere dentro quadrati predefiniti di ciò che si può e non si può dire o fare. Se ne riparlerà in un prossimo incontro sino-americano tra addetti ai lavori tecnici. La Dichiarazione di Bali, che si disperava si potesse avere in comune e che invece gli americani volevano fortemente, ammette che non tutti erano d’accordo, specie sulle unilaterali attribuzioni di colpe e sulle sanzioni ma che sì, la guerra perturba l’economia mondiale (che è l’oggetto per cui esiste il formato G20). Già, ne parlammo tempo fa a proposito della “pace multipolare”, la grande parte del mondo questa guerra non la voleva, non la vuole, la rifiuta come perno per operare in logica geopolitica contro la logica geoeconomica che dà speranze di sviluppo a tutti loro. Atteggiamento che vale verso gli americani, gli europei, i russi. Molti non hanno capito cosa significa “multipolare”, ovvero che gli attori sono tanti diversi, ognuno col proprio interesse e punto di vista. È da questa pluralità che può emergere un mondo sì dinamico (il mondo statico-ordinato tocca scordarcelo per sempre) ma più equilibrato come si conviene ad ogni sistema iper-complesso.
Biden se l’è sentito dire e ripetere a soggetto specifico Asia ed atteggiamento verso la Cina, nell’incontro precedente a Bali con gli ASEAN, gli 11 paesi asiatico orientali senza i quali la strategia di contenimento dei cinesi pensata a Washington non va da nessuna parte. Ma per la verità quella strategia era noto non andasse da nessuna parte. Da tempo penso che i circoli geopolitici di Washington sappiano qualcosa di Europa, Russia, Medio Oriente ma quanto all’Asia, mostrano di non saperne quasi nulla. Una cosa come quella della “Pelosi goes to Taiwan” la fai solo se non conosci i minimi termini di base della mentalità asiatica, asiatico confuciana diciamo. Tutta la storia dell’Indo-Pacifico ed i corteggiamenti multipli ai vicini del gigante di Beijing, mostra inquietanti segnali di wishful thinking. Ma si sono mai presi i dati di import-export di questi Paesi prima di pianificare strategie? Taiwan, per dirne una, a parte distare poche miglia dalla costa cinese, ha il 40% tanto dell’import che dell’export con RPC-Hong Kong. Alle brutte, basta un blocco navale totale e la sospensione totale di ogni scambio con l’isola che dopo due-tre settimane il capitalismo taiwanese farebbe un colpo di stato in favore di “una nazione, due sistemi” altro che Terza guerra mondiale. Se sottrai di colpo il 40% di un sistema, il sistema crolla per implosione.
Rimane la domanda: cosa ha cambiato la postura americana? Attenzione, di nuovo, in politica internazionale non puoi mai esser certo e definitivo, potrebbe esser un “buying time” in favore di cosa non so dire, ma un cambio moderato e però significativo c’è.
In questi due mesi pendeva la spada di Damocle delle elezioni in USA. Ora sappiamo che: 1) i democratici hanno salvato il Senato; 2) i repubblicani hanno preso la Camera; 3) l’area Trump ha problemi interni allo schieramento repubblicano. Tante altre cose del complesso ambiente economico e finanziario stelle e strisce non le sappiamo anche se possiamo intuire che siano, a parte ovviamente il complesso militar-industriale, più o meno sulle stesse posizioni di chi questo innalzamento della temperatura del conflitto non lo vuole per niente. Si fa presto a dire “friendshoring”, farlo è tutt’altro conto. Di questi tempi la nostra attenzione è strapazzata di qui e di là, forse pochi hanno registrato che Facebook ha operato 11.000 licenziamenti, più quelli di Musk a Twitter ed i prossimi di Amazon verso cui comincia qui in Europa a montare un certo fastidio allargato visto che chiudono negozi, gente va per strada, quei camioncini con lo sbaffo del sorriso inquinano e complicano il traffico, rubano dati, le vendite mondiali di smartphone sono in decisa contrazione etc.. Ma come? L’Era dei Dati, il mondo digitale e metaversico, il “Futuro”? Il Grande Reset è durato lo spazio di un mattino? Non ci sono più le distopie di una volta. Ma poi, questo comparto, non era poi il principale sponsor anche finanziario del partito democratico?
Andranno fatte ricerche ed analisi più a grana fine. I dem, forse, vedono la possibilità di spaccare i repubblicani tra l’area old style conservatrice ma sennata e l’area populista arruffona dissennata e quindi vedono luce per le elezioni fra due anni che prima erano buie. Gli alleati o i potenziali tali, stanno facendo sapere che qui ognuno ha i suoi problemi, tanti, economici, sociali, climatico-ambientali, politici. Forse è il caso di rallentare l’impeto della strategia “democrazie vs autocrazie” ovvero Cold War 2.0 che poi da Cold ad Hot ci mette un attimo. Russia va bene, ma con la Cina aspetta un attimo, come ha mostrato Scholz andando in Cina coi vertici delle sue multinazionali, i tedeschi sono lì per primi, erano tutte tedesche le aziende che aprirono le prime industrie a capitale misto (51% cinese) quando andai lì nel 1990. Magari meglio buttarla sulla diplomazia. Ne scrivemmo, ci pareva una strategia eccessivamente semplificante ed ambiziosa, difetti tipici di certi strateghi americani, lo si dice dal punto di vista “tecnico” che in questo periodo di grandi passioni ideali è un punto di vista poco frequentato ma che è sempre quello che, realisticamente, detta le partiture di gioco che è e rimane razionale.
Ai dem che ragionano ad elezioni, conviene ora metterla giù morbida, tanto internamente che esternamente. I mesi più difficili, dal punto di vista economico, finanziario, energetico, debbono ancora arrivare. Le olimpiadi greche sospendevano i conflitti, facciamo i mondiali, aspettiamo primavera, poi vediamo. Forse…

 

La Russia e l’Africa, di Bernard Lugan

Con tutte le difficoltà che sta incontrando il regime di Putin dispone di un fattore fondamentale: il tempo e, quindi, la possibilità di resistere. Con esso la possibilità di portare il confronto anche lontano dai propri confini in aree sempre più vitali per i paesi europei man mano che accentuano il loro scisma dalla Russia ma dove la credibilità delle classi dirigenti occidentali è ostaggio del proprio retaggio coloniale e neocoloniale. La tentazione li porterà ad assumere un ruolo sempre più destabilizzante, fondato sull’istigazione delle divisioni etniche, tribali e religiose. L’Italia e la Francia, ancora una volta, sono destinate ad assumere il ruolo delle vittime sacrificali; la prima in silenzio, la seconda con la spocchia. Il paradosso più impresentabile dei profeti delle “società aperte” e della democrazia. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Un cartone animato russo in francese proiettato nei cinema centrafricani raffigura un leone – implicando l’Africa – attaccato dalle iene – implicando paesi occidentali. L’orso russo interviene quindi, aiutando il padrone della boscaglia a riportare l’ordine delle cose, cioè il rispetto che dobbiamo al leone. L’allegoria è stata ben compresa dagli spettatori entusiasti. È così che, attraverso il sostegno incondizionato dato alle potenze forti, le uniche rispettabili e rispettate in Africa, la Russia sta gradualmente cacciando gli occidentali. Tanto più facilmente poiché gli africani sono stufi del diktat democratico-moralizzante che pretende di far loro cambiare natura. Basta con le follie della “teoria del genere” e le delusioni patologiche LGBT che sono diventate i “valori” sociali di un Occidente che ha perso ogni riferimento all’ordine naturale. Ecco perché, come ha affermato il generale Muhoozi Kainerugaba, figlio del presidente dell’Uganda Museveni, “la maggioranza dell’umanità sostiene l’azione della Russia in Ucraina. Putin ha assolutamente ragione”. Tanto più che la politica russa non ha come alibi il miraggio dello sviluppo. Russi e africani sanno benissimo che è impossibile “sviluppare” secondo i criteri definiti dall’Occidente, un continente che, entro il 2030, vedrà la sua popolazione aumentare da 1,2 miliardi a 1,7 miliardi, con oltre 50 milioni di nascite per anno. E che, per governare queste masse umane, i principi democratici occidentali sono sia inefficaci che crisogenici. In realtà, se Vladimir Poutin riesce in Africa, è perché ha preso esattamente il contrario del diktat democratico che François Mitterrand ha imposto nel 1990 al continente durante la conferenza di La Baule. Un diktat che ha causato un caos infinito perché, poiché le elezioni in Africa sono tanti sondaggi etnici a grandezza naturale, portano quindi automaticamente all’etnomatematica elettorale. Da qui la crisi permanente. I popoli meno numerosi essendo infatti esclusi dal potere, o non si riconoscono negli Stati, o si ribellano contro di loro. Al contrario, lontana dalle nuvole ideologiche, la politica africana della Russia è centrata sulla realtà, sulle forze armate che costituiscono i circoli del vero potere. E mentre la NATO avanza le sue pedine contro la Russia ottenendo nuove adesioni o domande di adesione nel Nord Europa, Mosca muove le sue pedine in Africa, contro l’Occidente, firmando accordi militari con la maggior parte dei paesi del continente. Quanto alla Francia, si è estromessa dal continente a causa della nullità dei suoi dirigenti e dei continui e colossali errori politici che non ho mai smesso di evidenziare nei successivi numeri di Real Africa. Tanto più che, essendosi completamente sottomessa alla NATO, e quindi agli Stati Uniti, si è mostrata ostile agli interessi russi, in particolare in Libia, Siria, Bielorussia e oggi in Ucraina. In Africa, Mosca ha restituito quindi in un certo senso “la sua moneta”…

http://bernardlugan.blogspot.com/

Politica estera tedesca in vendita _ Di  Ryan Bridge

Attendere sulla riva del fiume. Chi? Il cadavere o la pecorella smarrita? O la carcassa della pecorella?. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Politica estera tedesca in vendita

Berlino sta cercando di assicurarsi le migliori offerte per se stessa in un mondo sempre più biforcato.

Il mondo si sta dividendo in due campi rivali, uno guidato dagli Stati Uniti e l’altro dalla Cina, ma sembra che nessuno lo abbia detto ai tedeschi. Questa settimana, il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha firmato l’acquisto da parte del colosso navale cinese COSCO di una partecipazione del 24,9% in un terminal portuale di Amburgo , annullando nel processo i suoi partner della coalizione e sei ministeri. Indignati, i ministeri controllati dai partner della coalizione di Scholz avrebbero apparentemente fatto trapelare i dettagli di una lettera formale in cui esponevano le loro obiezioni, affermando che l’investimento “espande in modo sproporzionato l’influenza strategica della Cina sulle infrastrutture di trasporto tedesche ed europee, nonché la dipendenza della Germania dalla Cina”.

Ma non è tutto. Dal 3 al 4 novembre Scholz guiderà una delegazione d’affari tedesca in Cina. Lo accompagneranno il presidente della Federazione delle industrie tedesche e gli amministratori delegati di Siemens e Volkswagen: Mercedes, Deutsche Bank e SAP hanno rifiutato di aderire. La visita solleva diversi interrogativi. Perché Berlino aveva fretta di approvare l’accordo sul porto di Amburgo prima del viaggio? Perché andare ora, quando l’unità occidentale contro la Russia e i suoi sostenitori (inclusa la Cina) è così critica, e quando Scholz vedrà comunque il presidente cinese Xi Jinping al vertice del G-20 a Bali alla fine di novembre? Perché andare da soli, e non come parte di un fronte comune, almeno con il presidente francese Emmanuel Macron? (Ricordate che quando ha invitato Xi a visitare Parigi nel 2019, Macron ha invitato l’allora cancelliera Angela Merkel e il presidente della commissione a partecipare, cosa che hanno fatto.) E perché portare dirigenti aziendali, quando la Germania è già fortemente dipendente dalla Cina,

Le esportazioni sono la linfa vitale dell’economia tedesca e le sue grandi aziende manifatturiere e chimiche hanno una forte influenza sulla politica tedesca. Inoltre non sono timidi nell’usarlo. Ad esempio, BASF ha affermato questa settimana che ridurrà “permanentemente” le sue operazioni europee a causa della debole crescita del mercato chimico europeo, dei picchi nei prezzi regionali del gas naturale e dell’elettricità e, in modo indiscutibile, dell’incertezza normativa indotta dall’UE. L’industria tedesca si è lamentata tutto l’anno che la perdita di gas russo a buon mercato rappresenta una minaccia esistenziale per le sue operazioni e, a sentire i capi dell’industria, per la nazione tedesca. Nonostante ciò, l’accordo sul porto di Amburgo e il viaggio d’affari a Pechino sono in definitiva decisioni politiche, che Scholz non ha dovuto prendere. Non c’è fretta: COSCO ha detto agli investitori che stava riconsiderando l’accordo dopo che Berlino ha ridotto la sua quota nel terminal portuale dal 35%, il che gli avrebbe dato una minoranza di blocco, per tranquillizzare i critici all’interno del gabinetto. E pubblicamente, almeno, non ci sono affari urgenti tra Berlino e Pechino che non possano aspettare che Scholz e Xi siano entrambi a Bali 12 giorni dopo. L’urgenza e il campanilismo si autoimpongono.

La dipendenza della Germania dalle esportazioni |  1970-2021
(clicca per ingrandire)

È anche inconcepibile che Scholz non sia a conoscenza degli attriti che questi sviluppi causeranno con gli alleati della Germania negli Stati Uniti, in Europa e in Asia. Ciò lascia due possibilità: in primo luogo, che Berlino stia tracciando una rotta non allineata nella nuova guerra fredda tra Stati Uniti e Cina. O in secondo luogo, che sta tentando di assicurarsi il miglior rapporto possibile con la Cina ora, mentre c’è ancora tempo, al fine di bloccare opportunità economiche e rafforzare la sua posizione futura rispetto ai suoi partner.

Berlino ha un po’ di spazio di manovra. Un interessante effetto collaterale del pantano russo in Ucraina è che nel tempo diminuisce un elemento chiave dell’influenza degli Stati Uniti sulla Germania. La sicurezza tedesca ed europea è garantita dalla NATO, vale a dire dall’esercito americano. Ma l’alleanza è stata alla ricerca di una giustificazione per se stessa per gran parte del 21° secolo. L’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia ha scioccato la NATO per la sua obsolescenza, ma la Russia sembra ogni giorno meno minacciosa. Le forze russe stanno cercando disperatamente di mantenere il misero territorio ucraino che hanno conquistato in otto mesi di combattimenti fino all’arrivo di rinforzi scarsamente addestrati. Lungi dal minacciare in modo credibile la NATO con la terza guerra mondiale, La strategia di Mosca sembra essere quella di sopravvivere fino a quando le società occidentali non perderanno interesse per l’Ucraina o non saranno sufficientemente allarmate per le minacce nucleari russe per fare marcia indietro. Tra cinque o 10 anni, è dubbio che la Russia rappresenterà una minaccia maggiore per la Germania di quanto non rappresenti oggi o di quanto si credeva all’inizio dell’anno. La pressione interna negli Stati Uniti per ridurre i propri impegni in Europa non farà che aumentare, ed è concepibile un cambiamento improvviso sotto un’amministrazione repubblicana. Ma questa minaccia non avrà la stessa risonanza immediata a Berlino come quando l’allora presidente Donald Trump ce l’ha fatta nel 2020. È sempre meno chiaro da cosa le decine di migliaia di truppe statunitensi di stanza in Germania stiano proteggendo i tedeschi. è dubbio che la Russia rappresenterà per la Germania una minaccia maggiore di quella che rappresenta oggi o di quella che si credeva all’inizio dell’anno. La pressione interna negli Stati Uniti per ridurre i propri impegni in Europa non farà che aumentare, ed è concepibile un cambiamento improvviso sotto un’amministrazione repubblicana. Ma questa minaccia non avrà la stessa risonanza immediata a Berlino come quando l’allora presidente Donald Trump ce l’ha fatta nel 2020. È sempre meno chiaro da cosa le decine di migliaia di truppe statunitensi di stanza in Germania stiano proteggendo i tedeschi. è dubbio che la Russia rappresenterà per la Germania una minaccia maggiore di quella che rappresenta oggi o di quella che si credeva all’inizio dell’anno. La pressione interna negli Stati Uniti per ridurre i propri impegni in Europa non farà che aumentare, ed è concepibile un cambiamento improvviso sotto un’amministrazione repubblicana. Ma questa minaccia non avrà la stessa risonanza immediata a Berlino come quando l’allora presidente Donald Trump ce l’ha fatta nel 2020. È sempre meno chiaro da cosa le decine di migliaia di truppe statunitensi di stanza in Germania stiano proteggendo i tedeschi.

Allo stesso tempo, mentre Washington cerca di superare in astuzia Pechino, sta diventando più protezionista. I tedeschi sono furiosi per le disposizioni “Compra americani” nella legge sulla riduzione dell’inflazione del presidente Joe Biden, che favoriscono i veicoli elettrici di produzione nazionale. Può avere senso per la Casa Bianca difendere la propria base industriale per competere con la Cina, ma le case automobilistiche tedesche non capiscono perché dovrebbero essere escluse anche loro. Ciò è tanto più allarmante per la Germania perché, lungi dall’abbandonare il suo modello di crescita trainata dalle esportazioni, Berlino vuole raddoppiare, come dimostrano le sue considerazioni sulla riapertura dei colloqui di libero scambio con Washington .

Il problema della Germania è che il suo modello economico è così dipendente dal commercio che la sua politica estera è effettivamente in vendita, ma può solo prendere seriamente in considerazione un’offerta: quella americana. La NATO potrebbe non essere necessaria per la sicurezza immediata della Germania, ma fornisce comunque l’ordine su cui la Germania ha costruito la sua intera grande strategia. Il fulcro della forza economica della Germania è il suo dominio sul mercato europeo, che viene a costo di dare il veto ad altri 26 governi su aspetti della sua definizione delle politiche. La Russia potrebbe non spaventare la Germania ora o nei prossimi anni, ma i paesi tra di loro non si sentiranno allo stesso modo. Costretti a scegliere tra, diciamo, un controverso accordo di investimento UE-Cina o garanzie di sicurezza americane contro Mosca, gli europei dell’est sceglieranno gli americani. Il governo di Scholz non ha dato all’est alcuna ragione per ritenere che Berlino sia in grado o sia disposta a sostituire le garanzie statunitensi. Berlino sta cercando di indebolire il veto dei suoi partner con aproposta di procedura accelerata di approvazione del commercio , che metterebbe da parte i parlamenti nazionali e interromperebbe gli accordi commerciali in modo che le parti che contano di più per la Germania possano essere votate separatamente (e solo dai leader nazionali). Tuttavia, ciò non eliminerebbe la leva statunitense. Forse ancora più importante, nel frattempo, la leva energetica degli Stati Uniti sull’Europa è destinata a salire, poiché il Continente aspira il gas naturale liquefatto degli Stati Uniti al posto del gas russo.

L’economia tedesca farà fatica a far fronte a un mondo diviso in blocchi rivali. Potrebbe ancora negare il disaccoppiamento tra Stati Uniti e Cina. Più probabilmente, sta cercando di sfruttare al meglio il tempo e di sfruttare al meglio le sue possibilità per ottenere il miglior affare possibile per se stesso. Con un po’ di fortuna, la Cina gli farà concessioni nel disperato tentativo di rompere il fronte USA-UE. I flirt di Scholz con Xi potrebbero spingere gli Stati Uniti a prendere in considerazione le preoccupazioni dei suoi alleati quando faranno mosse future per danneggiare la Cina o aiutare se stessa. Ma alla fine, la Germania non ha nessun altro posto dove andare e non ha la volontà di provare a creare una terza via.

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