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L’UE cede ai dazi statunitensi: Cosa significa davvero il nuovo accordo commerciale_di Horizon Geopolitics

L’UE cede ai dazi statunitensi: Cosa significa davvero il nuovo accordo commerciale

Scoprite come il cambiamento tariffario del 15% ridisegna il commercio UE-USA, ha un impatto sui settori dell’energia e della difesa e segnala una nuova era di riallineamento del potere economico e di pressione strategica.

29 luglio 2025

A digital painting vividly illustrates the EU-U.S. trade conflict, showing the European Union and United States flags torn apart by a fiery rift. A heavy "TARIFF" weight on chains descends over an EU backdrop with industrial smokestacks, while a U.S. tank and fighter jet loom under the American flag. The crack between them glows with intense orange light, symbolizing rising economic tensions and geopolitical power shifts.

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Gli squilibri tariffari cementano il dominio economico degli Stati Uniti.

Il 27 luglio 2025,quadro commercialetra Stati Uniti e Unione Europea ha segnato un momento cruciale nell’evoluzione del panorama del commercio transatlantico. Quella che un tempo era la relazione commerciale più liberale e reciprocamente vantaggiosa del mondo (con tariffe medie vicine allo zero) si è ora trasformata in un accordo strutturalmente squilibrato.

In base al nuovo accordo, gli Stati Uniti impongono una tariffa media del 15% sulla maggior parte delle merci dell’UE, un netto aumento rispetto alla media precedente al 2017 dicirca l’1,5%. Questa riconfigurazione è stata ottenuta per un pelo pochi giorni prima dell’entrata in vigore di una tariffa del 30%, che avrebbe gravemente interrotto il commercio bilaterale.

L’accordo è emerso in un contesto di crescente protezionismo statunitense sotto la guida del Presidente Trump, che ha ripetutamente inquadrato il surplus commerciale dell’UE come prova di concorrenza sleale. Nella politica interna degli Stati Uniti, questo surplus è diventato politicamente saliente, rafforzando la narrativa secondo cui i partner stranieri sfruttano l’apertura del mercato statunitense. Di conseguenza, l’amministrazione Trump ha utilizzato le tariffe non solo come strumento di difesa commerciale, ma come mezzo per imporre concessioni strategiche.

Da un punto di vista strutturale, la posizione dell’UE è stata compromessa dalla sua dipendenza dalla crescita trainata dalle esportazioni e dalla frammentazione politica interna. Se da un lato il mercato unico europeo conferisce al blocco un immenso peso economico, dall’altro la sua diplomazia commerciale è limitata dalla necessità di raggiungere il consenso tra 27 Stati membri sovrani, ognuno dei quali ha interessi settoriali e un’esposizione all’economia statunitense diversi. Questo diffonde la sua coerenza negoziale e permette agli Stati Uniti di imporre risultati asimmetrici con una resistenza limitata.

Pertanto, ciò che appare come un compromesso tariffario temporaneo è, in realtà, la codifica di un equilibrio strategico alterato, in cui gli Stati Uniti, facendo leva sulla loro posizione centrale nel commercio e nella finanza internazionale, ridefiniscono i parametri dell’impegno economico a condizioni che favoriscono i propri interessi.

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Il commercio di energia e difesa riformula la dipendenza strategica

Una caratteristica centrale dell’accordo è l’impegno dell’UE ad acquistare750 miliardi di dollaridi prodotti energetici statunitensi (principalmente petrolio, gas naturale e combustibile nucleare) nei prossimi tre anni, oltre a600 miliardi di dollariinvestimenti nell’economia americana entro il 2029. Questi impegni includono acquisti non specificati di attrezzature per la difesa e di prodotti agricoli, come soia e mais. Sebbene questi obiettivi siano politicamente significativi, la loro effettiva attuazione dipende dalle decisioni prese dalle imprese private piuttosto che dalle istituzioni dell’UE, poiché il commercio e gli investimenti sono attività guidate dal mercato all’interno del blocco.

L’entità di questi impegni è impressionante. Le esportazioni energetiche statunitensi verso l’UE nel 2024 sono state valutate a circa78,5 miliardi di dollari. Per raggiungere l’obiettivo di 750 miliardi di dollari sarebbe necessario un aumento di quasi dieci volte in soli tre anni, uno scenario che mette a dura prova i limiti delle infrastrutture fisiche, della capacità di trasporto e dell’assorbimento del mercato. La strategia di diversificazione energetica dell’Europa, dopo l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022, ha già riorientato l’approvvigionamento verso il gas naturale liquefatto (GNL) statunitense, ma non ai volumi previsti dall’accordo.

In questo contesto, l’accordo trascende l’aspetto economico. Riflette un riallineamento calcolato degli appalti e dei flussi di capitale europei verso le priorità industriali e geopolitiche degli Stati Uniti. I settori presi di mira (combustibili fossili, hardware militare e prodotti agricoli ad alta domanda) sono parte integrante della strategia nazionale americana. Impegnando l’UE al consumo a lungo termine di questi beni, gli Stati Uniti si assicurano una domanda vincolata e approfondiscono la dipendenza.

In particolare, questo allineamento non avviene al servizio dell’efficienza commerciale, ma del disegno strategico. La strumentalizzazione delle catene di approvvigionamento in questo modo permette agli Stati Uniti di proiettare il potere attraverso i canali economici, assicurando che i settori centrali del consumo europeo siano legati alla produzione e alla politica americana. È una forma di mercificazione: i mercati non servono solo per lo scambio, ma anche per l’esercizio dell’influenza.



L’interdipendenza diventa un canale di pressione per gli Stati Uniti

A prima vista, gli Stati Uniti e l’Unione Europea sono economicamente alla pari. Insieme, rappresentano il 43% del PIL mondiale e quasi un terzo del commercio internazionale. Il commercio bilaterale di beni e servizi ha raggiunto1,68 trilioni di euronel 2024, sostenuti da vasti stock di investimenti diretti esteri reciproci per un totale dioltre 7.000 miliardi di dollari. Tuttavia, questa interdipendenza non si traduce in parità.

Il consistente surplus commerciale dell’UE nei confronti degli Stati Uniti è stato una persistente fonte di tensione. Sebbene sia parzialmente compensato da un surplus statunitense nei servizi, lo squilibrio nei manufatti ha alimentato sentimenti protezionistici a Washington. Ma soprattutto, fornisce una giustificazione materiale per le politiche che cercano di correggere il deficit imponendo costi al partner che detiene il surplus, ovvero l’Unione Europea.

Questo rivela la contraddizione che sta alla base dell’interdipendenza: mentre in teoria allinea gli interessi degli Stati, in pratica può rafforzare le asimmetrie. Gli Stati Uniti, che beneficiano dell’egemonia del dollaro, dell’indipendenza energetica e di un ampio mercato interno, possono armare l’interdipendenza con un rischio relativamente basso. L’UE, che fa affidamento su mercati aperti e canali di esportazione stabili, non può permettersi facilmente di subire ritorsioni.

Pertanto, quando l’amministrazione Trump ha minacciato di imporre tariffe del 30%, l’UE è stata strutturalmente limitata. Il suo calcolo del rischio ha favorito il compromesso rispetto allo scontro e questa predisposizione è stata sfruttata. Il nuovo quadro normativo, normalizzando un regime tariffario del 15%, istituzionalizza questo vincolo. Lungi dallo stabilizzare le relazioni, l’interdipendenza in questo contesto limita il margine di manovra dell’UE e approfondisce l’asimmetria del potere negoziale.



Crisi evitata grazie a un compromesso tattico diseguale

La tempistica dell’accordo, pochi giorni prima dell’entrata in vigore delle tariffe del 30%, ne evidenzia la natura tattica. Nessuna delle due parti era pronta ad assorbire le conseguenze economiche di una vera e propria guerra commerciale. L’UE aveva preparato un pacchetto di ritorsioni del valore di93 miliardi di eurotra cui dazi su auto, soia e aerei statunitensi. Inoltreminacciato di invocareil suo strumento anti-coercizione, un meccanismo legale che consente al blocco di limitare le imprese straniere dagli appalti pubblici o dall’accesso ai mercati chiave.

Tuttavia, l’efficacia di questi strumenti dipendeva dal consenso, che era incerto. La Francia ha spinto per una linea più dura, mentre le economie orientate all’esportazione come Germania, Italia e Irlanda hanno dato priorità al contenimento dei danni. L’assenza di unità ha ridotto la credibilità della deterrenza e minato la posizione negoziale di Bruxelles.

Il risultato è stato un compromesso calcolato. Gli Stati Uniti hanno accettato di ritardare un’ulteriore escalation, mentre l’UE ha accettato un onere tariffario più elevato e vaghe promesse di revisione normativa. In particolare, l’accordo ha preservato la più ampia architettura dei legami economici transatlantici: un interesse reciproco in un contesto di deterioramento della stabilità globale.

In questo senso, la crisi è stata evitata, ma l’Unione Europea ha fatto concessioni fondamentali per evitare una rottura immediata, a scapito di un’asimmetria a lungo termine. Quello che emerge non è un partenariato, ma uno squilibrio gestito: un accordo calibrato per evitare le rotture piuttosto che per stabilire l’equità.



L’ambiguità preserva l’influenza degli Stati Uniti e la vulnerabilità dell’UE

Sebbene sia stato definito come una risoluzione, l’accordo rimane un quadro provvisorio. Molti elementi critici, in particolare per quanto riguarda l’applicazione, la copertura settoriale e la risoluzione delle controversie, sono indeterminati o lasciati alla negoziazione futura. Le tariffe sui prodotti farmaceutici, ad esempio,rimangono in attesal’esito di un’indagine sulla sicurezza nazionale degli Stati Uniti ai sensi della Sezione 232, mentre questioni come la tassazione digitale, la governance dei dati e l’armonizzazione dell’IVA sono state completamente escluse.

Questa mancanza di specificità non è casuale. Per gli Stati Uniti, l’ambiguità funziona come strumento di leva. Evitando di assumere impegni dettagliati, Washington mantiene la possibilità di modificare la propria interpretazione dell’accordo in risposta agli sviluppi politici o economici. Può applicare l’accordo in modo selettivo, ritardarne l’attuazione o chiedere ulteriori concessioni con il pretesto di un chiarimento.

Per l’Unione Europea, questo crea un’esposizione. Senza garanzie esecutive o un meccanismo neutrale per le controversie, Bruxelles deve fare affidamento sulla continua benevolenza di un partner imprevedibile. Il quadro, quindi, non stabilizza le relazioni, ma istituzionalizza la volatilità.

L’uso della vaghezza come forma di vantaggio strategico è coerente con la pratica contemporanea dello statecraft economico. L’ambiguità preserva la discrezionalità della parte dominante e riduce la capacità della parte più debole di pianificare, investire o negoziare da una posizione di certezza.



Le divisioni interne minano la coerenza strategica dell’UE

La risposta interna all’accordo all’interno dell’UE rivela il limite fondamentale alla coerenza della sua politica esterna: la frammentazione. La Germania, la cui economia dipende profondamente dal mercato statunitense, soprattutto per quanto riguarda le esportazioni di automobili,ha accolto l’accordocome una tregua. Italia e Irlandahanno sottolineato in modo analogoil sollievo economico derivante dal ritardo dell’inasprimento delle tariffe.

La Francia, al contrario, ha espresso una palese insoddisfazione. Il primo ministro François Bayrou ha descritto l’accordo come “un giorno buio”.un giorno buiointerpretandolo come una capitolazione alle pressioni americane. I funzionari francesi hanno criticato l’asimmetria dell’accordo e la mancanza di progressi sulle questioni fondamentali dell’UE, in particolare sulla politica digitale e fiscale.

Queste risposte divergenti riflettono differenze non solo economiche ma anche politiche. La Germania e l’Irlanda hanno affrontato l’accordo da una prospettiva di accesso al mercato, dando priorità alla stabilità immediata. La Francia lo ha inquadrato in termini di autonomia strategica e sovranità, preoccupata di creare un precedente di subordinazione.

Il risultato è un indebolimento della posizione collettiva. La Commissione europea, responsabile della negoziazione degli accordi commerciali per conto di tutti gli Stati membri, deve navigare in queste contraddizioni interne. Questa frammentazione limita la capacità dell’UE di agire come un’unità coerente nei negoziati commerciali, diminuendo il suo potere contrattuale esterno e rendendola più suscettibile alle tattiche di divisione e conquista degli Stati più forti.


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In effetti, la disunione interna si traduce in vulnerabilità esterna. La struttura dell’UE (governance federata con sovranità nazionale) limita la sua capacità di rispondere strategicamente alla coercizione economica. L’accordo quadro commerciale non rivela quindi solo le asimmetrie tra l’UE e gli Stati Uniti, ma anche quelle all’interno dell’UE stessa.

La vecchia Europa si riscopre Bambina_di Cesare Semovigo

La vecchia Europa si riscopre Bambina
Dai dazi al D.S.A : Chiagni e Fotti

Nel momento di massima frizione tra Stati Uniti ed Europa la narrazione pubblica, oggi dominata da commentatori impulsivi e scarso rigore tecnico, rischia di perdere di vista le vere linee di tensione sistemica che plasmano il continente.

L’accordo commerciale, letto fuori dalle distorsioni emotive e identitarie, mostra una Vecchia Europa che, sotto pressione, riscopre la propria vulnerabilità: non più matrona autorevole ma, complice la miopia gestionale degli ultimi anni, quasi “bambina”, costretta a trattare da posizione di scarsa forza negoziale.

In questo quadro, la strutturazione di dazi reali e nominali segnala il ritorno della politica industriale e della sicurezza strategica: tariffe apparentemente alte mascherano un riequilibrio spesso già consolidato sui settori “golden power”, e il vero tema non è la capitolazione ma la maturazione, la necessità di un’Europa finalmente adulta e responsabile verso i propri cittadini invece che verso le suggestioni del momento.

Questa crisi di consapevolezza si amplifica nel digitale. L’introduzione e la rapida enforcement del Digital Services Act, presentato come scudo democratico dall’Unione ma aspramente criticato dagli USA già dalla “bacchettata” di J.d Vance a Monaco e ora additato dal Congresso come minaccia “censoria della libertà di espressione “ rafforza la dissonanza tra i due blocchi.

La posta in gioco è la capacità di uscire dal frame della “resa per manifesta inferiorità ” e dell’autoreferenzialità emotiva .
Questo è oggi il vero salto di soglia per guidare le policy senza subirle per strumentalizzarle in seguito per politica interna e cabotaggio del dualismo aleatorio dell’alternanza democratico .

L’accordo appena raggiunto, con dazio base fissato al 15% (e non all’abolizione promessa sui media) e fortissimi impegni in campo energetico e negli investimenti, mette l’UE di fronte alla necessità di uscire da un infantilismo gestionale e abbracciare una postura adulta: negoziare in modo trasparente, valutare le conseguenze reali e difendere gli interessi comuni senza cadere nelle trance mediatiche del mantra suprematista censoreo o o nelle indignazioni per la pancia del pueblo .

In questo quadro, etichette come “capitolazione” o “resa” riflettono la vecchia tendenza europea all’autocommiserazione o alla ricerca di colpe esterne, più che un’analisi strutturale dell’intesa e dei propri evidenti deficit sistemici : gran parte delle tariffe zero sono già frutto di precedenti assetti e molti settori golden power restano protetti da vincoli normativi e non solo fiscali.

La responsabilità vera ora è cogliere la crisi come occasione di passaggio di soglia: l’Europa dovrà imparare ad agire come soggetto consapevole e attivo, sviluppando la capacità di valutazione autonoma e la leadership tecnica necessaria per navigare una realtà geopolitica sempre meno protetta da automatismi atlantici garantiti all’infinito e sempre più esposta a scelte avanzate , razionali solo producendo una classe dirigente neomedicea potremmo salvarci . Ma ovviamente non succederà .

I dazi UE verso l’export strategico USA su settori strategici sono già oggi generalmente bassi o nulli, salvo casi particolari.
La narrativa della “concessione” europea ignora che molte di queste condizioni erano già in essere e che il vero impianto dell’accordo riguarda equilibri di governance e sicurezza nazionale, non solo mera fiscalità sugli scambi .
Dal ragionamento prettamente orientato alla concertazione e al controllo digitale escludiamo il tasto NATO e Riarmo Europeo affrontandolo in seguito .

Molti media e commentatori trascurano il fatto che, negli accordi tariffari USA-UE, per vari settori strategici (aerospazio, farmaceutica, high-tech, materie prime) i dazi sono già allo zero reciproco da tempo, e che l’intesa attuale si limita ad allineare formalmente le regole.

La stessa Meloni , se parliamo del Bel Paese , rilascia dichiarazioni al limite della Stand Up Comedy :
“Bene così ma devo ancora studiare i dettagli “
Delega distratta insomma .

Fatti oggettivi (fonti ufficiali)

• L’accordo Usa-Ue appena annunciato prevede una tariffa base del 15% sui dazi applicati agli scambi reciproci.

• L’UE si impegna ad investire 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti e ad acquistare 150 miliardi in energia e armi statunitensi.

• Per acciaio e alluminio i dazi restano al 50%; Trump dichiara che «per queste materie non cambierà nulla»

• Trump e von der Leyen hanno definito l’intesa «il più grande accordo mai raggiunto» e auspicano che porti “stabilità, unità e amicizia”

Sul nuovo accordo USA-UE, la narrativa dominante parla di una grande “concessione” europea sulle tariffe, ma si dimentica spesso di chiarire che molte di queste tariffe “a zero” derivano dal fatto che gli USA già applicano condizioni simili per determinati prodotti oppure che si è raggiunto un equilibrio reciproco su alcuni settori strategici.

Ecco cosa dicono i dati tratti dai documenti ufficiali :

• L’accordo prevede una tariffa base al 15% sulla maggior parte delle merci, ma “dazi zero per zero” su alcuni prodotti strategici:

• Aeromobili e componenti, prodotti chimici, alcuni farmaci generici, apparecchiature per semiconduttori, agroalimentare selezionato, risorse naturali e materie prime essenziali sono esclusi da dazi e vengono scambiati a tariffa zero.

• La questione della reciprocità tariffaria:

• Le dichiarazioni ufficiali riportano esplicitamente che sui prodotti “strategici” l’accordo è di reciprocità: “zero per zero” significa che gli USA già da tempo applicano tariffe zero su questi beni e, ora, anche l’UE viene allineata in piena reciprocità.

• Negli altri settori, il 15% di dazio equivale a una media più bassa sia rispetto alle minacce massime annunciate dagli Stati Uniti (che parlavano anche di 30% e oltre), sia rispetto alle tariffe Usa su altri partner commerciali.
• Nella comunicazione pubblica questo dettaglio viene spesso omesso: Lo storytelling politico e mediatico tende a enfatizzare l’attesa “concessione” europea e il rischio di “capitolazione”, trascurando la realtà tecnica che per i settori più dinamici e hi-tech la prassi dello “zero reciproco” era in gran parte già consolidata negli USA.

• Von der Leyen lo afferma, ma il messaggio non passa:

• La presidente UE lo ha detto chiaramente in conferenza stampa, ma il dettaglio finisce spesso “in nota”, con la conseguenza che la pubblica opinione e gran parte della stampa enfatizzano solo l’aspetto del sacrificio europeo.

La narrativa distaccata dall’oggettività

È particolarmente istruttivo il modo in cui, soprattutto tra i media progressisti e liberali europei , si tende ad addossare la responsabilità per le nuove forme di censura, moderazione forzata e controllo digitale a X o a figure iconiche come Pavel Durov, raffigurandoli come “maestri delle chiavi” del populismo Maga o surfers del web filo russi .

In realtà, la documentazione recente dimostra con nettezza che il baricentro del controllo – almeno sul versante europeo – oggi risiede negli apparati normativi e nelle spinte regolatorie dell’Unione Europea, non nel mero arbitrio delle piattaforme private della Terza Roma o dei CEO-cowboy della Silicon Valley.

Il caso Telegram e l’arresto di Durov in Francia esprimono questa crisalide demenziale che non diventerà mai farfalla : qui non è tanto la big tech a imporsi sulla libertà d’espressione, quanto la pressione crescente dei governi nazionali e, soprattutto, di Bruxelles, che attraverso normative come Chat Control, DSA ed estensione delle responsabilità dei provider pretende che le piattaforme si adeguino a richieste sempre più prescrittive di sorveglianza e collaborazione investigativa.

Paradossalmente, Durov viene accusato proprio di troppa resistenza agli automatismi censorî, difendendo la privacy criptografica contro gli ordini di Stato sia in Russia che in Occidente.

È dunque fuorviante imputare alle big tech statunitensi l’origine del “nuovo ordine censorio” in Europa: è lo stesso legislatore comunitario, nel tentativo (più o meno dichiarato) di controllare i flussi informativi e tutelare la sicurezza nazionale, a introdurre obblighi che ribaltano la narrativa di Silicon Valley come unico arbitro del discorso digitale. I fatti mostrano che il censore europeo oggi agisce, spesso con efficacia superiore a quello americano, introducendo logiche di controllo centralizzato e responsabilità penale dei provider, mentre i CEO delle piattaforme si ritrovano spesso sulla difensiva – quando non proprio perseguiti per resistenza.

In questa fase storica, la retorica dell’“élite tecnocratica californiana” serve più da specchio dell’esercizio duale entropico come attivatore delle paure , che non da reale descrittore dei rapporti di forza nella regolazione concreta della libera espressione digitale.


L’esempio perfetto : Calenda su X dazi Ue – Usa

“Quello presentato da #Trump non è un accordo ma una capitolazione dell’Europa. Tariffe a zero vs 15% e acquisti di energia per 750 mld e armi a piacere, più 600 miliardi di investimenti europei in USA. Stasera mi vergogno di essere europeo. La #vonderLeyen ha fatto la figura della scolaretta e dovrebbe essere mandata via seduta stante.”

Un esempio perfetto di quello che dicevamo: quando il discorso pubblico si affida a tweet e dichiarazioni estemporanee, si crea un mix di informazioni fattuali, giudizi emotivi e slogan che rende più difficile la valutazione obiettiva del quadro complessivo.

Cesare Semovigo

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La nuova strategia di alleanza_di GERMAN-FOREIGN-POLICY

La nuova strategia di alleanza

L’UE e il Giappone annunciano una cooperazione più stretta per garantire le loro catene di approvvigionamento e l’industria della difesa. L’obiettivo è una maggiore indipendenza nei confronti della Cina (terre rare) e degli Stati Uniti (difesa e settore militare).

24

Luglio

2025

TOKYO/BRUXELLES (cronaca propria) – L’UE e il Giappone vogliono intensificare ulteriormente la loro cooperazione e puntare a una maggiore indipendenza dalla Cina e dagli Stati Uniti. Questo è il risultato del vertice UE-Giappone di quest’anno, che si è tenuto ieri, mercoledì, a Tokyo. Secondo il vertice, entrambe le parti vogliono diventare indipendenti dalla Cina per quanto riguarda le terre rare e raggiungere una maggiore indipendenza economica sotto altri aspetti. Allo stesso tempo, stanno spingendo per un ambiente economico “stabile” – un chiaro posizionamento contro l’imprevedibile politica dell’amministrazione Trump, che opera anche con tariffe contro gli alleati. In particolare, l’UE e il Giappone puntano a una più stretta collaborazione tra i loro produttori di armi per espandere rapidamente la loro base industriale di difesa. L’UE punta a fare cose simili anche con altri Paesi, dal Regno Unito al Canada e alla Corea del Sud, utilizzando uno dei suoi programmi di armamento chiamato SAFE, che prevede prestiti agevolati fino a 150 miliardi di euro. In futuro, anche gli alleati non europei dovrebbero poterne beneficiare in una certa misura. I consiglieri governativi di Berlino parlano di una nuova “strategia di alleanza” – senza gli Stati Uniti.

I destinatari del vertice

L’UE e il Giappone vogliono collaborare più strettamente in futuro, in particolare nella politica militare e degli armamenti, nella creazione di catene di approvvigionamento indipendenti e nei tentativi di stabilizzare le organizzazioni internazionali. È quanto hanno deciso le due parti ieri, mercoledì, nel corso del loro incontro al vertice a Tokyo. Secondo l’accordo, è prioritario rafforzare le rispettive “basi industriali della difesa”[1]. A tal fine, sarà avviato un “dialogo sull’industria della difesa” per intensificare la cooperazione tra le industrie della difesa dell’UE e del Giappone. Inoltre, entrambe le parti si sono impegnate per un ordine economico “stabile e prevedibile” e intendono collaborare per “rafforzare e diversificare la catena di approvvigionamento dei minerali critici”. Il primo punto è chiaramente diretto contro la politica degli Stati Uniti, che utilizzano arbitrariamente le tariffe, ad esempio, per estorcere determinati servizi ad altri Paesi. La seconda mira a rendersi indipendenti dalla Cina per quanto riguarda le cosiddette materie prime critiche, in particolare l’approvvigionamento di terre rare. Anche l’UE e il Giappone si battono per un impegno alle Nazioni Unite. “I principali destinatari del vertice”, anche se non sono stati esplicitamente citati, sono stati “la Cina e gli Stati Uniti”, ha commentato seccamente un relatore tedesco[2].

“Stabilità e opportunità

Per spiegare il contesto politico, la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha affermato, in un discorso tenuto in occasione della cerimonia di conferimento della laurea honoris causa all’Università di Keio, che sebbene l’UE stia “ovviamente lavorando per riportare il nostro partenariato commerciale con gli Stati Uniti su basi più solide”,[3] è consapevole del fatto che “l’87% del commercio globale avviene con altri Paesi”, molti dei quali sono alla ricerca di “stabilità e opportunità”. Questo è il motivo per cui l’UE sta cercando di “approfondire i nostri legami” al vertice con il Giappone. È anche il motivo per cui “Paesi di tutto il mondo vengono da noi per fare affari: dall’India all’Indonesia, dal Sud America alla Corea del Sud, dal Canada alla Nuova Zelanda”. Tutti questi Paesi si preoccupano di “consolidare la propria forza e indipendenza”; tuttavia, questo obiettivo può essere raggiunto solo “lavorando insieme”. La Von der Leyen non ha esplicitamente menzionato gli Stati Uniti, il più stretto alleato dell’UE e del Giappone, in questo contesto.

Contesto ambivalente

Il contesto politico del vertice UE-Giappone è ambivalente. Negli ultimi anni, l’UE, ma anche alcuni Stati membri – tra cui in particolare la Germania – hanno cercato di rafforzare le loro relazioni con il Giappone. Il contesto è stato il tentativo di realizzare una stretta alleanza tra le potenze transatlantiche e i Paesi alleati nella regione Asia-Pacifico nella lotta tra grandi potenze contro la Cina. Di conseguenza, la NATO stava intensificando i contatti con il Giappone, la Corea del Sud, l’Australia e la Nuova Zelanda (german-foreign-policy.com ha riportato [4]). L’alleanza militare continua a perseguire questo piano. Tuttavia, di recente tra gli alleati dell’Asia-Pacifico si è diffuso il malcontento per l’amministrazione Trump e la sua richiesta di un aumento eccessivo dei bilanci militari. Tra i Paesi partner della regione, tre dei quattro capi di Stato o di governo hanno annullato con poco preavviso la loro partecipazione al vertice NATO dell’Aia di giugno; solo il primo ministro del governo di destra neozelandese vi ha preso parte. Martedì il Giappone è riuscito a concludere un accordo doganale con l’amministrazione Trump, che non è stato così disastroso come si temeva. Tuttavia, l’accordo sta ancora causando danni all’economia giapponese e nessuno può essere certo che Trump sarà presto in grado di estorcere nuove concessioni ai suoi alleati aumentando arbitrariamente le tariffe statunitensi.

Ampliamento della base industriale della difesa

L’UE ha iniziato a intensificare la cooperazione con i Paesi occidentali e gli alleati della regione Asia-Pacifico a livello bilaterale, senza coinvolgere esplicitamente gli Stati Uniti. Un esempio di ciò è attualmente in corso nel campo della cooperazione in materia di difesa. Il programma dell’UE SAFE (Security Action For Europe) è il fulcro di questa cooperazione, nell’ambito della quale la Commissione europea concede prestiti agevolati per finanziare costosi progetti di armamento. Sebbene i progetti finanziati da SAFE siano in linea di principio aperti solo ai Paesi dell’UE, il programma prevede ogni tipo di eccezione, ad esempio per i Paesi dello Spazio economico europeo (SEE) come la Norvegia, nonché per i Paesi con cui l’UE ha concluso i cosiddetti accordi di sicurezza. Finora si tratta principalmente di Regno Unito, Canada, Giappone e Corea del Sud; l’Australia ha avviato colloqui per un accordo di questo tipo. Il coinvolgimento di altri Paesi è vantaggioso per l’UE perché le consente di accedere alle loro capacità industriali nella produzione di difesa. I Paesi cooperanti, a loro volta, beneficiano di prestiti favorevoli e di un’espansione del loro mercato di vendita. Bruxelles sta valutando di includere anche l’India. Un prerequisito fondamentale a tal fine sarebbe anche la rapida conclusione di un accordo di sicurezza con il Paese[5].

“Un polo a sé stante

A lungo termine, gli sforzi dell’UE per legare maggiormente a sé i Paesi non solo dell’Europa e del Nord America (Canada), ma anche della regione Asia-Pacifico, attraverso il SAFE, non mirano solo ad ampliare la base dell’industria della difesa, come hanno fatto o continuano a fare gli Stati Uniti con la coalizione F-35 o l’AUKUS. A lungo termine, il cartello europeo di Stati vuole anche “creare una nuova rete di partenariati”, secondo una recente analisi dell’Istituto tedesco per gli Affari Internazionali e di Sicurezza (SWP).[6] Tuttavia, il “prerequisito più importante per il successo” di una tale “strategia di alleanze” è “che l’UE stessa diventi attraente”, continua l’analisi: solo i Paesi che fanno grandi investimenti nelle proprie armerie, ad esempio, saranno interessanti per gli altri Paesi in termini di industria degli armamenti. Questo è uno dei motivi per cui l’UE farebbe bene a “collegare la cooperazione nei progetti di difesa con una cooperazione più ampia”, conclude il SWP, “ad esempio nella politica commerciale”. Si tratta di un aspetto strategicamente importante: “Se gli europei vogliono evitare di diventare una pedina di potenze straniere in un mondo sempre più caratterizzato da sfere di interesse, devono trovare la forza di diventare un polo proprio.”

[1] Dichiarazione congiunta del Vertice Giappone-UE 2025. Tokyo, 23 luglio 2025.

[2] Martin Kölling: Pressioni da Cina e Stati Uniti – UE e Giappone cooperano più strettamente. handelsblatt.com 23.07.2025.

[Von der Leyen: Stiamo lavorando per l’accordo con gli Stati Uniti, ma l’87% del nostro commercio è con altri Paesi. agenzianova.com 23.07.2025.

[4] Vedi NATO nel Pacifico e NATO nel mondo.

[5], [6] Nicolai von Ondarza: Contorni di una strategia di alleanza dell’UE. SWP-Aktuell 2025/A 28. Berlino, 10 giugno 2025.

L’estate fumantina, di Morgoth

L’estate dell’accensione

Sullo straordinario disagio e la tensione che hanno caratterizzato la Gran Bretagna quest’estate

Morgoth24 luglio
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Ho cercato di definire e sintetizzare quale sia il sentimento o l’atmosfera che si respira in Gran Bretagna nell’estate del 2025. Non è un’estate felice, ma d’altronde, di questi tempi non lo è mai.

Un nuovo film di Superman è uscito al cinema, colorato e vibrante, ottimista nei toni e nell’atteggiamento. Ho pensato di scriverne qualcosa, ma a nessuno importa di “capeshit” e l’accusa di soffermarsi sull’evasione sarebbe appropriata. Eppure, il nuovo Superman sembrava destinato a una guerra culturale post-woke, post-doom-and-gloom. Rilassiamoci e divertiamoci, smettiamola di prendere tutto così sul serio per qualche ora.

I commentatori, me compreso, hanno ipotizzato cosa avrebbe annunciato la nuova era trumpiana di vittoria populista in termini di “cambiamento di atmosfera”. Hollywood sarebbe tornata ai film di amici di Arma Letale , dove le ferite degli ultimi dieci anni erano state tamponate dal balsamo del nazionalismo civico? Il poliziotto nero avrebbe detto al poliziotto bianco: “Sai, amico, voi pazzi bianchi non siete poi così male!”. In fin dei conti, non importa, perché i social media hanno da tempo sostituito i vecchi media come fonti di creazione culturale. Lo specchio nero ha sostituito il grande schermo, e lo specchio preferisce frammenti di 30 secondi a fatiche di due ore. Non siamo andati verso un nuovo consenso; non c’è consenso. O meglio, c’è una molteplicità di narrazioni e cupole ermeticamente sigillate.

Ci sono stati pochi giorni quest’estate in cui gli Oasis hanno iniziato il loro tour di ritorno, e tutti hanno provato un misto di ottimismo e nostalgia. Non importa se vi piacciano o no gli Oasis; erano il simbolo di un passato collettivo, come una pietra runica arcaica conficcata nella terra. Chi non è nato nel 1997 aveva genitori che c’erano, e se i loro genitori non amavano gli Oasis, forse apprezzavano i Blur, o forse detestavano l’intera era della Cool Britannia. Se così fosse, avevano ancora un’opinione, portavano ancora un’impronta. La reunion degli Oasis è stata un segnale dei tempi passati, non solo del passato, ma di un Paese diverso. I circuiti e le sinapsi, o lo spirito se preferite, di milioni di britannici si sono illuminati con l’hauntologia di ciò che era, e avrebbe potuto essere, ma non è stato.

Gli Oasis hanno suonato con Champagne Supernova e più di una persona ha commentato il testo:

Quante persone speciali cambiano?

Quante vite vivono in modo strano?

Dov’eri mentre ci drogavamo?

In effetti, dov’eravamo rimasti? E, ancora più precisamente, dove siamo ora? Il Deserto del Reale del 2025 si è riaffermato spietatamente mentre scorrevamo oltre “Roll With It” e ci imbattevamo in frammenti e titoli di guerra civile, violenze settarie di massa e accuse di tradimento da parte del governo.

Tutto bene, tesoro? Hai dormito a lungo e hai continuato a blaterare della Guerra Civile, degli stupratori stranieri e della “Yokayificazione” dell’Inghilterra?

Gli spettri di “Prima del Tempo” evaporarono davanti ai nostri occhi come una nuvola di sigaretta elettronica scadente, mentre ci preparavamo ancora una volta allo squallore e alla depravazione del 2025. Sono passati 14 anni da quando ho sentito per la prima volta la gente dire “non possiamo andare avanti così” durante uno scandalo di una gang di adescamento riportato dal Daily Telegraph. Ma andiamo avanti, ce l’abbiamo fatta .

Nell’estate del 2025, il Telegraph invierà newsletter come questa:

Sembrano i notiziari parodistici di un film di Paul Verhoeven, come Robocop o Atto di forza : “Cinquanta coloni su Marte sono stati fucilati per aver scioperato ieri…”. C’è iperrealtà e assurdità, un pizzico di esagerazione mescolato alla solita schiettezza alla Colonel Blimp del Telegraph . Eppure, l’uso del termine “febbrile” per descrivere l’umore del Paese quest’anno non è solo accurato, ma anche onnipresente.

La Gran Bretagna è una “polveriera” perché il governo sembra determinato ad accumulare legna secca che ha solo bisogno di una debole scintilla, per poi esplodere perché sta raggiungendo il punto di ebollizione. Ognuno ha la sua metafora preferita per descriverla, e sembra sempre riferirsi a legna da ardere o fuochi, solidi combustibili e qualche pentola che trabocca.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso l’anno scorso, durante il massacro e le rivolte di Southport; quest’anno, stiamo cospargendo la paglia di benzina e accumulandola in preparazione di quell’unica atrocità commessa da uno straniero. È facile essere superficiali, ma il fatto è che il Paese ha davvero la sensazione che qualcosa stia per esplodere.

Si ha la sensazione che i laboratori e le unità di supporto siano stati ridimensionati, o che la realtà materiale dello Yookay vada oltre la sofisticata applicazione della psicologia per correggere il pensiero degli emarginati. Il fattore aggravante, da Ballymena all’Essex, è l’accoglienza di migranti indesiderati di ogni colore, che poi continuano a incarnare ogni singolo stereotipo negativo che la gente del posto aveva su di loro, provocando proteste e disordini.

Ancora una volta, non si può sottolineare abbastanza che il governo sembra aver rinunciato completamente a cercare di anestetizzare l’opinione pubblica sugli effetti delle proprie politiche attraverso la propaganda o le spinte. Nessuna visione grandiosa o fine che giustifichi i mezzi, né campagne di contropropaganda. Quando si è scoperto che il tradimento della violazione dei dati afghani aveva causato miliardi di sterline e centinaia di migliaia di afghani che si erano trasferiti nel Paese, non c’è stato alcun tentativo da parte del regime di promuoverlo in modo accettabile, di convincerci che sarebbe andato tutto bene.

No, ora ci facciamo estrarre il dente crudo.

Conduttori di talk show orribilmente fuori dal mondo sgridano il pubblico chiamandoli e deridendoli come dinosauri, per le loro opinioni antiquate secondo cui, ad esempio, gli afghani sarebbero i più in alto nella lista nera dei molestatori sessuali stranieri. Eppure è semplicemente vero. In effetti, è l’opinione pubblica mediatica che sembra essere rimasta bloccata in un’epoca passata, l’epoca del primo mandato di Tony Blair, per essere precisi. Lo shorma è ancora una curiosità, la popolazione è ancora al 95% bianca e la vera minaccia della violenza urbana proviene da chav chiamati Wayne. Almeno i Coldplay hanno anche un tour di reunion in corso, anche se, per la classe degli opinionisti, probabilmente non sono mai scomparsi dalle loro playlist.

Di recente, dopo che un immigrato clandestino proveniente dall’Etiopia è stato accusato di aver ritoccato un’adolescente, sono scoppiate delle proteste a Epping. Molti hanno notato che Essex ed Epping erano i quartieri in cui i vecchi Cockney dell’East End si rifugiarono dopo essere stati espulsi da Londra a causa della pulizia etnica. Epping è il capolinea nord-orientale della Central Line della metropolitana di Londra, il che significa che sono letteralmente al capolinea; non c’è più nessun posto dove rifugiarsi. Si potrebbe pensare che le forze dell’ordine locali possano cogliere la tragedia poetica di una tribù di nativi costretta a un’ultima resistenza nella loro verdeggiante periferia; invece, hanno scortato attivisti di sinistra per controprotestare contro di loro.

Nel Regno Unito esiste una categoria di persone pronte a intervenire, come i vigili del fuoco, pronte a difendere la fazione pro-stranieri e molestatori sessuali. Supponiamo che qualche arrogante nativo abbia la temerarietà di protestare contro gli stranieri negli hotel che ritoccano le loro figlie. In tal caso, esiste una squadra d’emergenza di scagnozzi di sinistra con l’astro-turf pronta a essere schierata e a ricevere una protezione speciale dalla polizia.

È una scena straordinaria da vedere. Gli stranieri che arrivano nel paese ricevono i nostri soldi delle tasse, vengono alloggiati in alberghi confortevoli con i nostri soldi delle tasse, la polizia che tiene a bada gli indigeni è pagata con i nostri soldi delle tasse, e non c’è dubbio che i sinistrorsi che stanno riportando a casa in taxi ricevano anche loro qualche introito dalle nostre tasse. Gli unici a non essere pagati da noi sono i poveri bastardi con i cartelli fatti in casa con la scritta “Proteggiamo i nostri figli!”.

E l’incessante flusso di stranieri continua comunque. Il governo svolge il suo compito senza grande entusiasmo né grande zelo ideologico, ma non mostra alcuna riluttanza. La rabbia e la frustrazione crescono, ma crescono anche la confusione e lo sconcerto per quello che è chiaramente un percorso distruttivo. Come accennato in precedenza, non c’è spiegazione, nessuna giustificazione, solo una stupida ostinazione manageriale. C’è un piano in atto? Se sì, quale? Siamo andati oltre il dibattito sulla malizia o l’incompetenza e siamo entrati in un dibattito analogo: “Il governo sta cercando di fomentare il malcontento?”.

Matthew Goodwin , usando anch’egli il termine “febbrile”, si chiede perché una “crisi” venga imposta al popolo britannico e avverte che il contratto sociale si sta sgretolando, con il collante stesso della società che si sta dissolvendo. Alcuni credono da tempo che il governo stia importando una forza per reprimere i nativi, come i giannizzeri. Altri sostengono che si stia creando un problema che le identità digitali devono risolvere. Poi, naturalmente, c’è la teoria della Grande Sostituzione o, ancora più incendiaria, quella del “Genocidio Bianco”.

Questa, dunque, è la natura della miccia che si sta accumulando sulla società britannica. Politiche profondamente impopolari, spesso incomprensibili, e un establishment che continua a procedere incurante dei disordini, degli stupri, dei costi, del capitale politico e della legittimità del governo.

Per quanto io abbia deriso personaggi come Nigel Farage, ha ragione a chiedersi se il governo non stia deliberatamente alimentando le tensioni settarie nel paese.

Neil O’Brien ha recentemente pubblicato un interessante articolo che illustra come la popolazione nativa stia votando con i piedi e abbandonando le città, nonostante gli incentivi economici. Questo articolo meriterebbe un articolo a parte, ma basti dire che se le famiglie hanno subito un duro colpo finanziario per sfuggire alla miseria dei centri urbani, ci sarà senza dubbio un senso di disperazione quando gli stranieri saranno trasferiti nelle loro enclave rurali.

Altri rami secchi, altra esca, fiammiferi e accendifuoco sempre più vicini. Si percepisce un’inevitabilità; possiamo fare i calcoli e considerarlo semplicemente come una roulette, e tutti sanno che prima o poi ci fermeremo sulla casella rossa designata come atrocità.

Nell’estate del 2025, questi sono i tropi culturali che influenzano la nostra percezione del mondo che ci circonda; questo è ciò che occupa lo spazio un tempo occupato dal Britpop, dai blockbuster cinematografici e da Breaking Bad . L’establishment può inveire contro gli eccessi dei social media e la disinformazione, ma in ultima analisi, è lui il responsabile degli input.

Per ora, guardiamo alle piogge autunnali e alla tristezza, come a un traguardo. Se riusciremo a superare la stagione delle rivolte senza troppa violenza e incendi, sarà una vittoria. È un’illusione, ovviamente, socchiudere gli occhi e fissarsi a vicenda mentre la tensione raggiunge l’apice come in un film di Sergio Leone.

Eppure questo vortice in agguato, questo abisso, è la nostra esperienza culturale collettiva.

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Il Kosovo nel (1981-1989):Una secessione silenziosa dalla Serbia e dalla Jugoslavia_ di Vladislav Sotirovic

Kosovo (1981-1989):

Una secessione silenziosa dalla Serbia e dalla Jugoslavia

Prefazione

Il periodo degli anni ’80 nella Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia fu caratterizzato da un governo federale impotente a Belgrado, con tutte e sei le repubbliche che esercitavano la propria politica autonoma e mostravano scarso interesse per gli interessi comuni jugoslavi. La popolazione non albanese della provincia meridionale serba del Kosovo e Metochia (KosMet, in inglese conosciuta solo come Kosovo) si trovava in una posizione isolata, senza una reale protezione politica e fisica. Va ricordato che dal 1974 al 1989 gli albanesi detenevano il potere politico-amministrativo totale nella provincia, che da un lato godeva di uno status formale di autonomia all’interno della Serbia, ma di fatto era indipendente sia dalle autorità repubblicane serbe che dal governo federale jugoslavo.

Proteste dei serbi e dei montenegrini

Nella pratica politica quotidiana, le autorità serbe comunicavano direttamente con i funzionari provinciali locali (di fatto il governo), che ignoravano le lamentele dei non albanesi, in particolare dei serbi e dei montenegrini. Gli attacchi contro serbi e montenegrini divennero sempre più frequenti e violenti, tanto che la popolazione, insicura, cominciò ad abbandonare la provincia a un ritmo costante. Ad esempio, dopo che le autorità repubblicane avevano ignorato numerose denunce, i contadini dei villaggi serbi di Batuse, Klina e Kosovo Polje (non di Pristina) decisero di trasferirsi collettivamente il 20 giugno 1986 dal KosMet alla Serbia centrale per non finire sotto l’amministrazione albanese. Tuttavia, immediatamente, Adem Vlasi, che all’epoca era segretario del partito comunista al potere per il KosMet (Savez Komunista Jugoslavije = Unione dei comunisti jugoslavi), cioè senza alcuna carica ufficiale, arrivò sul posto e fermò il convoglio diretto verso la Serbia centrale. La sua spiegazione del problema fu più che eloquente:

«Potete andarvene, ma uno alla volta, non tutti insieme!»

Allo stesso tempo, il presidente della Presidenza (governo) della Repubblica Socialista di Serbia, Ivan Stambolić (1986-1987), non poté fare assolutamente nulla, se non essere informato che persone indignate e amareggiate stavano tornando al loro “campo di concentramento” nel villaggio di Batuse, Klina e Kosovo Polje. Era davvero triste vedere la sua impotenza nel Paese di cui era il capo. Più tardi, quando Slobodan Milošević prese il potere in Serbia nel 1989, nessuno si preoccupò di ricordare questa scena paradigmatica come possibile spiegazione (se non necessariamente giustificazione) delle misure che prese riguardo agli affari del KosMet, che probabilmente sarebbero state prese in qualsiasi Stato democratico (occidentale) per proteggere i propri cittadini dal terrore inflitto da altri.

Una delegazione non ufficiale serbo-montenegrina giunse dal KosMet a Belgrado e fu autorizzata a parlare all’Assemblea federale, presieduta dal macedone Lazar Mojsov. La scena più toccante si verificò quando una donna di mezza età si alzò davanti al microfono e chiese piangendo:

«Nessuno si cura di noi nel KosMet, nessuno si cura di noi a Belgrado! A chi apparteniamo?!».

Tuttavia, sia il governo federale che quello repubblicano serbo non poterono fare nulla, vincolati dalle costituzioni jugoslava e serba. Il successivo presidente della Serbia, Ivan Stambolić (1936-2000/1986-1987) (che promosse il suo uomo di fiducia, Slobodan Milošević, alla carica di segretario del partito), si recò a Priština (centro amministrativo del KosMet) per cercare di calmare la situazione, ma invano. Iniziarono manifestazioni di massa, con serbi e montenegrini del KosMet che si radunavano sul prato davanti al palazzo del Consiglio comunale di Belgrado (proprio di fronte all’Assemblea federale), chiedendo udienza e aiuto. Ma i funzionari di Belgrado si limitarono a interventi formali nei confronti dei loro omologhi ufficiali del KosMet (di fatto, gli albanesi di etnia albanese). Questi sforzi inutili finirono come previsto: in un vicolo cieco. Poi accadde qualcosa che avrebbe deciso il destino immediato della Jugoslavia e della Serbia. Qualcosa che si sarebbe rivelato fatale sia per la Jugoslavia di Tito che per la Serbia.

Slobodan Milošević in Kosovo (aprile 1987)

Gli abitanti serbi di un villaggio del KosMet chiamato Zubin Potok (in italiano “ruscello di Zuba”) invitarono le massime autorità serbe a fargli visita nell’aprile 1987, per poter denunciare direttamente la loro situazione. Tuttavia, Ivan Stambolić, per qualche motivo, scelse S. Milošević al posto suo. A quel tempo, S. Milošević non ricopriva alcuna carica ufficiale in Serbia (era solo il presidente dell’Unione dei comunisti serbi), proprio come l’albanese Azem Vlasi nel KosMet. Probabilmente Ivan Stambolić aveva semplicemente paura di presentarsi di persona davanti a persone furibonde alle quali avrebbe pronunciato le solite parole di propaganda vuota sulla “fratellanza e l’unità” tipiche della Jugoslavia titista. Tuttavia, sapeva bene che i serbi arrabbiati richiedono molto più di un vuoto vocabolario politico.

I comunisti locali organizzarono una riunione a porte chiuse (faccia a faccia) nel municipio per “discutere la questione”. Tuttavia, naturalmente, la presenza del capo provinciale, Azem Vlasi, era inevitabile sul posto. Era in corso una lunga discussione quando si udirono grida dall’esterno che chiedevano a S. Milošević di uscire. Quando apparve davanti alla folla, che attendeva con ansia i risultati dell’incontro, vide la polizia (di etnia albanese) respingere la gente impaziente (serba). Poi qualcuno (serbo) gridò le parole fatali: “Siamo stati picchiati!”. E S. Milošević esclamò una frase altrettanto fatale, che sarebbe diventata il punto di riferimento della sua carriera:

“Nessuno può picchiarvi!”.

Il lungo incontro non portò a conclusioni immediate, ma questo incidente segnò la svolta nella carriera politica e nel destino di S. Milošević. Se dovessimo paragonarlo a un evento storico, forse il parallelo migliore sarebbe quello della mitologia cristiana, il momento in cui Giovanni Battista battezzò Gesù nel fiume Giordano, con lo Spirito Santo che scendeva dal cielo e entrava nel suo corpo. Secondo alcune interpretazioni, in particolare quelle gnostiche, fu allora che Gesù di Nazareth divenne divino, trasformandosi da uno dei tanti predicatori presenti in Palestina e dintorni in un profeta e Messia. Fantasia religiosa a parte, è ben possibile che Gesù abbia preso coscienza della sua “missione sulla Terra” e abbia iniziato la sua breve ma prolifica liturgia in Galilea.[1] Tuttavia, questo episodio gli fece capire che la questione KosMet, il vero problema del momento, rappresentava un’opportunità promettente su cui basare la sua carriera politica. E lui colse questa opportunità con tutto se stesso. Nel bene e nel male, comunque.

La politica di S. Milošević per l’unificazione della Serbia

Il suo obiettivo immediato era quello di togliere al KosMet la copertura di provincia intoccabile, dotata di tutti i diritti di uno Stato indipendente, tranne il diritto di secessione. La decisione non era facile da realizzare, sia dal punto di vista pratico che ideologico. È saggezza tradizionale che non si privi mai qualcuno dei diritti, dei privilegi, ecc. già posseduti, senza motivi validi.[2] Conoscendo la mentalità bellicosa della popolazione albanese del KosMet (originariamente montanari dell’Alta Albania), non ci si poteva aspettare un accordo molto razionale. La popolazione giovane, sovraffollata, disoccupata e insoddisfatta sotto ogni aspetto, sottoposta fin dalla prima giovinezza al lavaggio del cervello con mantra come “l’odio dei serbi”, ecc., era come un animale selvaggio da domare. E il cane era già stato sguinzagliato: il movimento secessionista.

Gli slogan secessionisti albanesi come “Repubblica del Kosovo” erano già nell’aria (anche in forma modesta fin dalle prime manifestazioni anti-jugoslave degli albanesi del Kosovo nel 1968). D’altra parte, gli attivisti locali non albanesi erano in movimento. Frequenti erano le visite ai funzionari provinciali locali, con richieste di migliori condizioni di vita per i serbi e tutti gli altri non albanesi nel KosMet. Come previsto, si rivelarono inutili, poiché i leader albanesi locali e provinciali (al potere) sapevano di possedere diritti legali, compreso quello di ignorare tutto ciò che non gradivano.

Furono pianificati e realizzati movimenti più massicci, con i serbi del KosMet che organizzarono grandi raduni fuori dalla provincia (nella Serbia centrale e settentrionale, cioè nella provincia autonoma della Vojvodina), con l’approvazione tacita e il sostegno dei leader del partito di Belgrado attorno a S. Milošević. Coloro che criticavano le sue promesse politiche, definite “facili promesse”, furono incautamente allontanati dalla scena politica (e quindi dal partito) serba. Lo stesso Ivan Stambolić fu rovesciato durante l’ottava riunione del partito nel 1987, tenutasi a Belgrado. Si dimise dalla carica di presidente e si ritirò nel settore bancario.[3] Il primo obiettivo politico di Milošević era lo status della Vojvodina come provincia autonoma, controparte serba settentrionale del Kosovo e Metochia, come territorio separatista della Serbia settentrionale. Se la provincia autonoma separatista del KosMet fosse stata abolita solo da un punto di vista politico-amministrativo (e non culturale-etnico-linguistico), ciò avrebbe colpito la Vojvodina separatista a favore dell’unificazione della Serbia, sebbene questa regione multietnica non fosse fonte di disordini e problemi in misura pari al KosMet.[4] La massiccia manifestazione tenutasi a Novi Sad nell’ottobre 1988 (capoluogo della Vojvodina), in cui i serbi del KosMet ottennero il sostegno di gran parte della popolazione locale, portò al rovesciamento del Comitato provinciale del partito e all’affermazione dell’influenza decisiva di S. Milošević (la “Rivoluzione dello yogurt”). Una manifestazione simile era stata programmata in Slovenia, ma fu vietata all’ultimo momento dalle autorità slovene (le autorità croate bloccarono il transito attraverso la Croazia dalla Serbia alla Slovenia), con grande costernazione della popolazione serba, sia sostenitrice che non sostenitrice di Milošević. Alla fine, S. Milošević riuscì a far approvare legalmente dall’Assemblea popolare serba (il Parlamento) l’abolizione di parti essenziali (politiche) delle autonomie provinciali sia del KosMet che della Vojvodina e lo smantellamento delle loro Assemblee. La Serbia tornò ad essere uno Stato unico e compatto. Almeno così sembrava a S. Milošević e ai suoi sostenitori.

La Serbia nella Jugoslavia titista

Il background ideologico della riunificazione della Serbia da parte della cerchia attorno a S. Milošević come Stato si basava sulla “teoria della cospirazione”, ovvero la politica serbofobica delle autorità jugoslave dalla fine della seconda guerra mondiale. Ciononostante, la Serbia era stata divisa dalla Costituzione federale jugoslava (dal 1945 al 1989) in tre parti per indebolirla, in quanto repubblica più grande, più popolata e più forte della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Demagogia a parte, questa divisione non era un esempio splendido di logica politica. Concedendo alla Vojvodina e al KosMet lo status di unità confederate, la Costituzione federale jugoslava lasciava la cosiddetta Serbia centrale in una situazione vaga, per non dire incredibile. La Serbia era un elemento costitutivo della federazione jugoslava, ma lo erano anche le sue due province separatamente. I parlamentari di queste ultime avevano il diritto di prendere decisioni riguardanti gli affari delle loro province, ma anche della Repubblica di Serbia nel suo complesso. Allo stesso tempo, i parlamentari della Serbia centrale potevano influenzare gli affari della Serbia centrale solo indirettamente, ma non quelli provinciali. Le province autonome avevano una propria assemblea. Pertanto, la Serbia non era divisa in tre parti equivalenti, ma aveva una struttura sia verticale che orizzontale, in cui non era possibile stabilire una gerarchia. Fu principalmente per questo motivo che lo slogan dell’epoca, «Oh, Serbia delle tre parti, tornerai ad essere un tutto unico!», guadagnò molta popolarità, non solo nei quartieri di Milošević.[5] Era opinione diffusa, a torto o a ragione, che tale divisione fosse parte di una cospirazione politico-nazionale delle altre repubbliche jugoslave contro la Serbia.

La stessa logica si rivelò operativa nel caso dell’ormai famoso Memorandum dell’Accademia Serba delle Scienze e delle Arti (SANU)[6] del 1986. I principali autori erano Vasilije Krestić, Antonije Isaković, Mihailo Marković, Kosta Mihailović, con il sostegno di Dobrica Ćosić (scrittore) e diversi altri accademici della SANU. Questo Memorandum non è mai stato accettato come documento ufficiale della SANU (era infatti incompiuto quando fu rivelato illegalmente al pubblico dai servizi segreti jugoslavi), ma è stato successivamente utilizzato come testimone chiave del presunto nazionalismo serbo (o di una cospirazione contro il resto della Jugoslavia e gli jugoslavi). In realtà, però, il Memorandum affrontava la situazione reale della Serbia in Jugoslavia, sostenendo che la Serbia era stata relegata in una posizione di inferiorità, in particolare in ambito economico. La logica tacita alla base di tale atteggiamento era la sensazione che le altre repubbliche ritenessero la Serbia troppo dominante e volessero quindi sopprimerla sotto ogni aspetto. In un certo senso, questa logica era vera e comprensibile. (Era la quintessenza, tra l’altro, della strategia britannica nei confronti dell’Europa continentale, che portò alle guerre napoleoniche e anche alla prima e alla seconda guerra mondiale). Lo slogan “Serbia debole – Jugoslavia forte!”, sebbene mai pronunciato pubblicamente, era nell’aria sin dalla fondazione del primo Stato comune jugoslavo, il 1° dicembre 1918.

La farsa del sistema educativo kosovaro

Quando entrarono in vigore le restrizioni all’autonomia delle province, la lotta tra il governo centrale di Belgrado (Serbia) e il governo provinciale di Pristina (Kosovo) acquisì nuovo slancio. Una delle prime misure adottate da Belgrado fu la soppressione della propaganda educativa filo-gran-albanese, che aveva portato a un odio viscerale nei confronti dei giovani albanesi del Kosovo, alimentato dai programmi scolastici filo-albanesi (importati persino dalla vicina Albania) e anti-serbi. La risposta immediata dei leader albanesi del Kosovo fu il ritiro delle scuole e dell’Università di Pristina dagli edifici ufficiali. Le lezioni si tenevano in case private e l’immagine complessiva suggeriva intenzionalmente uno stato di occupazione straniera, soprattutto per i media occidentali.

Un episodio di quel periodo rende bene l’idea della natura del conflitto. Gli alunni delle scuole primarie e secondarie frequentavano le lezioni negli stessi edifici, indipendentemente dalla loro etnia. Poiché i bambini non albanesi erano una piccola minoranza in molte scuole comuni[7], si sentivano a disagio nell’ambiente albanese, che non si mescolava con il resto degli alunni. Qualsiasi incidente poteva facilmente degenerare in qualcosa di grave, e le autorità di Belgrado decisero che gli alunni albanesi e non albanesi non potevano frequentare le stesse scuole contemporaneamente. La reazione degli albanesi locali fu davvero sorprendente. Dichiararono che le autorità serbe avevano intenzione di avvelenare i bambini albanesi depositando una polvere letale nelle scuole (il “veleno etnico-discriminatorio”, come lo chiamavano ironicamente i serbi). Una volta dato l’annuncio, gli alunni albanesi furono radunati e trasferiti negli ospedali vicini, dove i pazienti erano stati evacuati appositamente. Giornalisti, telecamere, ecc. furono invitati a testimoniare questo attacco contro bambini innocenti, che giacevano nei loro letti d’ospedale, quasi morti. Quando le telecamere lasciarono gli ospedali, ai bambini fu ordinato di alzarsi e tornare a casa.

I media pubblici serbi hanno dato molte interpretazioni dei veri obiettivi di questa e altre simili messinscene. Oltre alle motivazioni propagandistiche, sono state avanzate alcune interpretazioni più serie. Una di queste è stata quella di un alto ufficiale dell’esercito, secondo il quale l’intera messinscena era in realtà una prova generale per la situazione reale prevista di una ribellione armata e per la preparazione delle istituzioni mediche ad accogliere e curare i ribelli feriti. Una volta terminato il disastro di un solo giorno, la polvere mortale ha improvvisamente perso il suo potere e gli innocenti bambini albanesi sono tornati alle loro lezioni.

La farsa dello “sciopero della fame”

La farsa successiva, tuttavia, è stata molto più grave e politicamente pericolosa. I leader politici albanesi del Kosovo (Azem Vlasi in testa) organizzarono uno sciopero nella prospera (anche dal punto di vista europeo) miniera di carbone nero di “Stari Trg”,[8] vicino a Kosovska Mitrovica. I minatori albanesi scesero nei pozzi e si rifiutarono di uscire “fino a quando il Kosovo non sarà diventato una repubblica” (all’interno della Jugoslavia), annunciando uno “sciopero della fame” (etnico-politico). Le squadre mediche reagirono rapidamente, furono invitati i giornalisti, ecc. (tutto il necessario per lo spettacolo mediatico, anche all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale). Azem Vlasi, che avevamo incontrato in precedenza (di fatto un leader degli albanesi del Kosovo), si affrettò a scendere nei pozzi e ad annunciare il suo sostegno morale ai patrioti albanesi del Kosovo, ecc. La situazione è durata diversi giorni, fino a quando il governo di Belgrado ha inviato un’unità speciale di polizia che ha tirato fuori i minatori dalle loro “posizioni di sciopero”. Tuttavia, le squadre mediche erano pronte all’uscita e hanno fornito delle bende per gli occhi ai poveri minatori, privati della luce e messi in pericolo dall’oscurità, ecc. È stato sorprendente vedere minatori in condizioni evidentemente buone, che non erano preparati allo scenario e che hanno rifiutato di prendere le misure precauzionali offerte dal personale medico sul posto.

Dopo questo incidente, la situazione sulla scena politica serba si è ulteriormente aggravata. I serbi insoddisfatti della loro posizione nazionale in Jugoslavia, in particolare per quanto riguarda il KosMet, si sono riuniti davanti al palazzo dell’Assemblea federale jugoslava a Belgrado, in una protesta risoluta. Dopo qualche tempo, S. Milošević è apparso all’ingresso e si è rivolto alla folla. Ha parlato degli attuali affari del KosMet e dello sciopero dei minatori, promettendo di portare in tribunale tutti i politici (albanesi del Kosovo) coinvolti nel complotto contro lo Stato serbo. Era un chiaro riferimento ad Azem Vlasi. Continuando sulla stessa linea, S. Milošević fece dimenticare ai lavoratori presenti (parte della folla) le loro lamentele e richieste originarie. In realtà, ciò che S. Milošević fece in quella situazione fu esattamente ciò che i leader albanesi del Kosovo avevano fatto per decenni: trasformare la reale insoddisfazione sociale ed economica della provincia sovrappopolata in odio etnico, accusando i serbi e il governo centrale di Belgrado di tutti i problemi della provincia. Lo stesso è stato fatto in Croazia solo pochi anni dopo, quando le nuove autorità “democratiche” croate, guidate dal dottor Franjo Tuđman e dal suo partito nazionalista, l’Unione Democratica Croata (HDZ), hanno attribuito ai serbi la responsabilità di tutti i problemi della Croazia. Tuttavia, tutte queste manovre politiche si sono rivelate vincenti.

La farsa del processo per “alto tradimento”

La cosa fondamentale era che S. Milošević aveva mantenuto la promessa fatta alla folla di centinaia di migliaia di persone. Il leader politico albanese del Kosovo, Azem Vlasi, fu arrestato e accusato di “alto tradimento” contro l’integrità territoriale della Repubblica di Serbia. Non poteva desiderare di meglio: da apparatchik del partito comunista era diventato l’eroe nazionale (albanese del Kosovo). Mentre era in attesa di processo, in tutta la KosMet cominciarono a circolare canzoni su di lui. Quest’ultimo si è tenuto dopo un anno, a Kosovska Mitrovica, nella parte settentrionale del KosMet abitata dalla maggioranza dei serbi. Il giudice era un albanese che, dopo un lungo processo, ha assolto l’imputato. L’intera farsa è stata una beffa fin dall’inizio. L’obiettivo di S. Milošević era quello di eliminare un nemico politico pericoloso e popolare dalla scena politica sia del KosMet che del resto della Serbia. Ma il risultato fu, come prevedibile, controproducente. Azem Vlasi fu trasformato in un martire nazionale kosovaro, perseguitato dai malvagi serbi. L’intera vicenda mise in luce tutta l’incompetenza politica di S. Milošević, che alla fine avrebbe potuto costare alla Serbia la sua stessa esistenza. All’epoca di questi eventi, il boicottaggio kosovaro della Serbia e delle sue istituzioni era già quasi totale. La gente comune, soprattutto i giovani, smise di comunicare con i non albanesi, in particolare con i serbi della Serbia centrale. Si rifiutavano di parlare con i giornalisti di Belgrado, voltavano le spalle alle telecamere, ecc. L’odio era quasi palpabile nell’aria. La situazione divenne surreale, con la realtà che non corrispondeva affatto a quella ufficiale e amministrativa. C’era un bisogno urgente di risolvere questa situazione surreale. La soluzione arrivò in due fasi. Il primo fu la disintegrazione della Jugoslavia. Il secondo, la guerra del Kosovo del 1998-1999.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex professore universitario

Ricercatore presso il Centro di studi geostrategici

Belgrado, Serbia

© Vladislav B. Sotirovic 2025

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com

Riferimenti

[1] Un paragone più banale potrebbe essere quello con la visita del presidente degli Stati Uniti Robert Kennedy nei sobborghi poveri di New Orleans, quando vide con i propri occhi la miseria dei suoi compatrioti neri (afroamericani).

[2] È questa la logica secondo cui si preferisce sottopagare i dipendenti piuttosto che pagarli troppo.

[3] Prima delle elezioni generali del 2000, è stato rapito e ucciso sulla montagna Fruška Gora, vicino a Novi Sad.

[4] Va sottolineato che una consistente minoranza ungherese vive lì da secoli. Nel 1945, quando furono liberati dall’occupazione tedesca, gli ungheresi erano quasi numerosi quanto gli albanesi nel KosMet.

[5] Oj Srbijo iz tri dela,

ponovo ćeš biti cela!

[6] Srpska Akademija Nauka i Umetnosti (SANU).

[7] Si noti che la percentuale di bambini albanesi superava di gran lunga la media dell’intera popolazione del KosMet, poiché la distribuzione per età favorisce ancora di più i giovani albanesi.

[8] La piazza vecchia (mercato), in serbo.

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Zelensky “annulla” le modifiche anti-corruzione nonostante le pressioni, ma l’ira della mafia non si è ancora placata_di Simplicius

Zelensky “annulla” le modifiche anti-corruzione nonostante le pressioni, ma l’ira della mafia non si è ancora placata

25 luglio
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Oggi, Zelensky avrebbe fatto marcia indietro sulla sua presa ostile delle agenzie anti-corruzione “ucraine” presentando un nuovo emendamento alla legge che pretende di restituire loro “l’indipendenza”. Ma ci sono alcuni problemi.

In primo luogo, la Verkhovna Rada si è “opportunamente” fermata per una pausa di settimane subito dopo aver firmato il disegno di legge precedente diversi giorni fa, quindi resta da capire quale sia il senso delle rapide revisioni di Zelensky se non possono essere ratificate dalla Rada in tempi brevi. Potrebbe essere una tattica dilatoria, ma staremo a vedere.

In secondo luogo, non è ancora chiaro cosa Zelensky abbia modificato esattamente per “garantire” l'”indipendenza” delle agenzie SAPO e NABU. Dalle poche informazioni che ho potuto raccogliere finora, sembra che ripristinerà l’indipendenza annullando la “subordinazione” precedentemente imposta di queste agenzie al procuratore generale ucraino.

Tuttavia, scavando un po’ più a fondo, sembra che Zelensky abbia semplicemente introdotto qualche altro trojan di controllo nelle agenzie con questa revisione. Ad esempio, alcune fonti indicano la presenza di nuove “unità di controllo” interne a queste agenzie, che opererebbero secondo “metodologie approvate dall’SBU”. Possiamo solo ipotizzare cosa significhi esattamente, ma specifica anche che l’SBU avrebbe la possibilità di condurre test della macchina della verità sui membri dell’agenzia. In breve, queste misure potrebbero dare a Zelensky la possibilità di rimuovere agenti indesiderati o che hanno oltrepassato i limiti – ovvero coloro che potrebbero presumere di indagare sui crimini di Zelensky o su quelli della sua cerchia ristretta – attraverso questi “organismi di controllo interno” con apparenti legami con l’SBU. In questo modo, le agenzie potrebbero mantenere una facciata di “indipendenza” in apparenza, ma consentire comunque a Zelensky di disporre di sottili leve di controllo per garantire che non vengano mai usate come strumenti di coercizione contro di lui e la sua cricca.

Detto questo, secondo quanto riportato da Ukrinform , entrambe le agenzie avrebbero approvato le modifiche :

Sia NABU che SAPO hanno espresso il loro sostegno al disegno di legge, affermando che esso ripristina tutte le garanzie di indipendenza per entrambe le istituzioni.

“Il disegno di legge n. 13533, presentato dal Presidente dell’Ucraina come urgente, ripristina tutti i poteri procedurali e garantisce l’indipendenza di NABU e SAPO”, hanno affermato le agenzie in una dichiarazione congiunta.

La domanda è: il danno è già stato fatto? La gente continua a protestare, il popolo online è ancora in rivolta contro Zelensky e i giornali occidentali continuano a gridare richieste di rimozione:

https://www.telegraph.co.uk/news/2025/07/24/zelensky-must-go-for-sake-of-ukraine/

Nonostante la sua “correzione”, Zelensky ha comunque esaurito la sua accoglienza presso molti. Un campione del sentiment online mostra che molti ucraini credono che, nonostante questa apparente inversione di rotta, Zelensky abbia comunque “rivelato il suo vero volto” tentando persino di “sovvertire” o “indebolire” le agenzie anti-corruzione improvvisamente “cruciali”.

Le proteste sono continuate stasera:

Di conseguenza, molte persone sono implacabili e non provano più alcuna simpatia per il loro amato leader di guerra. L’articolo del Telegraph qui sopra, ad esempio, elenca una litania di lamentele: dalle repressioni di Zelensky contro gli oppositori, alla chiusura di media e aziende dell’opposizione, alla protezione dai procedimenti giudiziari di “alti membri del governo” favoriti dallo stesso Zelensky. È come una brutta rottura in cui tutti i torti accumulati iniziano finalmente a riaffiorare in superficie.

Da parte sua, il Politburo dell’UE ha rilasciato una dichiarazione “cauta” che esprime approvazione per le misure adottate “finora” per migliorare la situazione, ma dimostra che l’UE non è ancora pienamente convinta della sincerità di Zelensky:

L’UE ha riconosciuto gli sforzi dell’Ucraina per rispondere alle preoccupazioni sollevate, ma ha affermato esplicitamente la necessità di misure concrete e concrete per garantire l’indipendenza delle sue istituzioni anticorruzione: l’Ufficio nazionale anticorruzione (NABU) e la Procura specializzata anticorruzione (SAP).

Ricordatevi che la sottomissione alla dittatura dell’UE deve essere totale e inequivocabile.

Torniamo brevemente ai progressi in prima linea di cui non abbiamo parlato l’ultima volta.

Le forze russe hanno continuato ad avanzare sul fronte occidentale di Zaporozhye, oltre Kamyanske, appena conquistata:

Come si può vedere, si espansero ulteriormente a nord e a est per irrigidire la linea e attraversarono anche metà della città successiva, Plavni.

Poco più a est di lì, fecero una piccola avanzata attraverso Mala Tokmachka, conquistando nel frattempo altri campi appena a sud per coprire i fianchi dell’avanzata attraverso la città:

Sono emerse riprese del 70° reggimento russo della 42ª divisione fucilieri motorizzata che prende la parte orientale di Mala Tokmachka:

Ecco solo il filmato della battaglia:

Si può vedere un BMP colpito, ma comunque in grado di scaricare i suoi uomini sul bersaglio e ritirarsi. Geolocalizzazione del filmato qui sopra:

Sulla linea Velyka Novosilka, praticamente tutto fu ampliato con nuove conquiste per spianare l’intero fronte:

In particolare, gran parte di Voskresenka fu conquistata, così come le aree appena a nord e a sud. Gran parte di Novokhatske, a nord, e le aree intorno a Tolstoj furono conquistate, con Zeleniy Hai già sotto assedio e i suoi dintorni conquistati:

Qui sopra potete vedere che anche Dachne è stata completata e le aree circostanti sono state conquistate per rinforzare i fianchi.

Gli sviluppi più interessanti si verificarono appena a nord, nella zona assediata di Pokrovsk.

In primo luogo, è già stato confermato che i DRG russi operano in profondità all’interno della città, devastando completamente le comunicazioni e le retrovie ucraine. Le unità dell’AFU lamentano un forte aumento del fuoco amico, reagendo nervosamente a ogni vista e suono.

Il video che ha fatto il giro diversi giorni fa e che ha dato inizio al grande allarme infiltrazione era il seguente: mostrava un’unità ucraina nel profondo di Pokrovsk che veniva colta in un’imboscata mentre percorreva la strada:

Geolocalizzazione dell’imboscata del Deep State ucraino:

È emerso un altro video non confermato che mostra truppe russe, presumibilmente ancora più in profondità a Pokrovsk, mentre parlano con un civile liberato (viene persino fornita una geolocalizzazione).

Un canale televisivo di alto funzionario militare ucraino scrive quanto segue:

Un altro aspetto che la situazione denota è che Pokrovsk non ha più nemmeno una difesa completa, e in una certa misura rappresenta una zona grigia in cui i DRG o gli Spetsnaz russi sono già in grado di operare liberamente. Certo, alcuni canali ucraini continuano ad affermare che questi DRG vengono costantemente “distrutti”, eppure finora sono riusciti a pubblicare solo una foto inconcludente di un solo “soldato russo” eliminato.

Al momento in cui scrivo, l’ultimo aggiornamento afferma che le forze russe hanno catturato sia Leontovychi che Troyanda e hanno già iniziato a entrare in forze nei sobborghi di Pokrovsk:

Bisognerà attendere e vedere se ciò sarà vero, ma in tal caso si tratterà ovviamente di uno sviluppo di portata enorme che potrebbe significare l’inizio della fine di Pokrovsk.

Ciò che ha contribuito a facilitare questi successi è stato l’altro grande successo sul versante settentrionale di Pokrovsk. L’altro ieri le forze russe hanno sfondato nelle aree cerchiate in rosso, secondo alcune fonti interrompendo l’autostrada principale che porta a Nove Shakhove, o quantomeno ponendola sotto il controllo dei droni:

Alcune fonti sostengono ancora oggi che Novoekonomichne sia stata completamente conquistata e che le forze russe stiano entrando nella periferia di Mirnograd. Le informazioni sono particolarmente volatili al momento, data la natura in continua evoluzione, quindi prendete tutto con le pinze finché non ci saranno conferme concrete.

Da uno dei principali canali militari russi:

Direzione Pokrovsk (Krasnoarmeysk) Le unità del raggruppamento “Centro”, dopo aver preso Novoekonomicheskoye, sono entrate a Mirnograd (Dimitrov) da est e da sud.

Si può affermare che le forze russe hanno ormai iniziato l’assalto anche a Mirnograd.

A Pokrovsk, le forze di Kiev stanno allestendo difese direttamente all’interno della città, soprattutto nella zona dei grattacieli. Hanno persino costruito fortificazioni a forma di “denti di drago”.

La situazione in città è estremamente dinamica. Le forze di Kiev non comprendono appieno quali aree siano sotto il controllo russo, il che a volte porta a episodi di “fuoco amico”.

Le unità russe stanno attaccando le posizioni nemiche nella periferia occidentale, vicino all’autostrada T-0406. Tra le altre aree, Pershe Travnya (Leontovichi) è oggetto di lavori da parte delle unità russe. I combattimenti sono iniziati nella periferia orientale di Krasny Liman e continuano nei pressi della miniera di Krasnolimanskaya, di Suvorovo, Nikanorovka e Shakhovo. Le forze russe stanno anche avanzando verso Belitskoye.

È interessante notare che, proprio mentre ciò accadeva, è stata annunciata un’evacuazione di emergenza obbligatoria per un gruppo di città appena a nord di Pokrovsk:

Immagino si possa dire che questo non sia esattamente un buon auspicio per l’Ucraina in questo ambito.

Ci furono altre avanzate intorno a Konstantinovka, in particolare la cattura di Bila Hora, così come nella regione di Kupyansk. Ad esempio, da una fonte ucraina:

️ L’ufficiale militare ucraino Bunyatov riferisce che le forze russe sono entrate a Torske in direzione Lyman e stanno tentando di accerchiare le unità delle Forze Armate ucraine

“Il nemico si è infiltrato a Torske e ha assunto una posizione difensiva circondata: tali azioni contribuiscono a destabilizzare la nostra difesa e l’avanzata nemica in questa direzione. C’è anche un’avanzata che assomiglia a un'”appendicite” verso sud-est, quindi il nemico sta cercando di attuare un piano per “delineare” l’accerchiamento sui fianchi di Torske”, lamenta Bunyatov.

Ma per ora lasciamo perdere, perché è meglio non distogliere l’attenzione dall’escalation dello scontro a Pokrovsk, che molto probabilmente diventerà presto il fulcro della discussione.

Passiamo ora ad alcuni ultimi aggiornamenti:

Le delegazioni russa e ucraina si sono incontrate di nuovo a Istanbul. Questa volta l’incontro è sembrato ancora più banale, durando a quanto pare solo mezz’ora e non ottenendo altro che un altro scambio di prigionieri. Entrambe le parti sono più che mai radicate nelle loro posizioni e non si registra alcun progresso su eventuali “compromessi” per porre fine alla guerra. Il negoziatore russo Medinsky ha infatti evocato la Seconda Guerra Mondiale affermando che, nonostante le numerose sanzioni imposte alla Russia dal 1920 in poi, è comunque riuscita a combattere la Seconda Guerra Mondiale per anni e alla fine ne è uscita vittoriosa.

Per quanto riguarda gli scambi, si dice che la parte ucraina non abbia praticamente più prigionieri russi da scambiare, poiché persistono voci secondo cui l’Ucraina continua a offrire alla Russia di tutto, dai civili catturati ai prigionieri politici, fino ai cadaveri dissotterrati della Seconda Guerra Mondiale, in cambio di prigionieri di guerra ucraini. Nel frattempo, fonti ucraine stesse confermano che la Russia ha ancora oltre 8.000 di questi prigionieri di guerra ucraini:

https://united24media.com/war-in-ukraine/quanti-prigionieri-ucraini-sono-in-cattività-russa-e-cosa-sappiamo-di-loro-7655

Belousov supervisiona l’introduzione di un nuovo sistema di comunicazioni tattiche e di consapevolezza situazionale per i comandanti, anche se non viene specificato di quale si tratti esattamente:

Nel frattempo, i team russi presentano un nuovo sistema EW fai da te per intercettare i segnali dei droni. Per quanto possa sembrare bizzarro, ne dimostrano il funzionamento su un drone campione:

Spiegel conferma le indiscrezioni secondo cui i Patriots promessi da Trump non potranno essere consegnati prima del 2026, e la maggior parte non prima di quella data:

Nel frattempo, anche il ministro della Difesa tedesco Pistorius conferma di essere completamente confuso dalle promesse fatte da Trump a nome della Germania e di non avere idea di cosa sia stato inviato all’Ucraina:

Come sospettato, pare che Trump stesse semplicemente inventando cose al volo, come è solito fare, e altri suoi seguaci e vassalli sono costretti a fare pulizia in seguito, nel tentativo di mantenere le sue vane vanterie o promesse infondate.

Parlando di rifornimenti e munizioni, Syrsky ha dichiarato al WaPo che l’Ucraina sta di nuovo esaurendo le scorte di proiettili da 155 mm, contraddicendo i recenti pareri secondo cui l’Ucraina avrebbe finalmente raggiunto una sorta di “parità” con le capacità di artiglieria russa:

https://www.washingtonpost.com/world/2025/07/23/ukraine-syrsky-interview-war-trump/

A proposito, l’articolo sopra citato evidenzia la grottesca falsità dei resoconti occidentali sulle perdite russo-ucraine. Ci insegnano costantemente che la Russia deve subire perdite più pesanti dell’Ucraina perché la Russia è sempre all’offensiva. Eppure Syrsky afferma con faccia tosta che l’Ucraina ha subito meno perdite della Russia durante l’incursione di Kursk, cosa che il Washington Post non si preoccupa affatto di mettere in discussione, nonostante la natura farsesca della menzogna:

L’occupazione di Kursk alla fine uccise o ferì almeno 80.000 soldati russi, ha detto Syrsky. Si è rifiutato di rivelare le vittime ucraine, ma ha affermato che erano significativamente inferiori a quelle russe.

Che barzelletta! Sia la rivendicazione che il WaPo sono considerati una “pubblicazione” legittima.

Zaluzhny ha rilasciato anche interessanti dichiarazioni in una nuova intervista, tra cui quella secondo cui dalla fine del 2023 la Russia è passata completamente a una guerra di logoramento e che, a suo avviso, la guerra potrebbe durare fino al 2034:

 L’Ucraina è entrata in una nuova fase: la guerra potrebbe durare fino al 2034, – ex comandante in capo delle Forze Armate dell’Ucraina, ambasciatore in Gran Bretagna Zaluzhny

“L’Ucraina è entrata in una nuova fase. Se ci limitiamo a raggiungere un cessate il fuoco senza predisporre una difesa per il futuro, durerà a lungo. È iniziato nel 2014 e, se Dio vuole, finirà nel 2034”, ha detto Zaluzhny.

Ha osservato che la “vecchia” guerra è terminata alla fine del 2023 e ora la Russia sta utilizzando una tattica di logoramento posizionale, non per avanzare, ma per distruggere l’esercito ucraino.

Allo stesso tempo, ritiene che né l’Ucraina né la Russia abbiano abbastanza uomini per una guerra del genere.

RVvoenkor

Menziona l’attuazione di difese sistematiche. Ecco un nuovo video di una delle grandi linee difensive che si dice siano in costruzione lungo il confine di Dnipropetrovsk e oltre. Si può vedere come venga impiegato un lavoro primitivo, ma che la portata dei fossati anticarro sta comunque aumentando:


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GUERRA D’UKRAINA:HA RAGIONE PUTIN_di Michele Rallo

Un interessante compendio storico degli articoli di Michele Rallo riguardanti il conflitto ucraino

BOMBE CONTRO LE
OLIMPIADI INVERNALI,
MA IL VERO BERSAGLIO
É PUTIN

I nostri governanti non se ne sono accorti, ma il
fondamentalismo islamico sta conquistando tutti i territori a
sud dell’Europa e si prepara a cingere d’assedio il Vecchio
Continente. Con la regìa – neanche tanto nascosta –
dell’Arabia Saudita e con la benedizione di USA e Israele.
Hanno cominciato con le “primavere arabe”, che hanno
abbattuto i regimi laici e filoeuropei dell’Africa
settentrionale: quelli di Ben Alì in Tunisia, di Gheddafi in
Libia, di Mubarak in Egitto. Hanno proseguito con l’assedio
al blocco sciita anti-Al-Qaeda: le sanzioni contro l’Iran,
l’aggressione armata alla Siria, le bombe per destabilizzare
l’Irak e il Libano. E adesso tentano il colpo grosso:
incendiare il Caucaso del Nord, cioè la regione più
meridionale della Russia europea, una regione strategica,
vitale per garantire la sicurezza della più orientale e più
grande delle nazioni europee.
Perché l’alleanza saudito-americano-israeliana vuole
attentare alla Russia? Semplice: perché, fino a quando Putin
darà continuità alla diplomazia russa (sempre la stessa, dallo
zarismo al comunismo al postcomunismo) non sarà possibile
annientare l’Iran e, con esso, la dissidenza sciita all’interno
del mondo musulmano e, in particolare, di alcuni staterelli
inzuppati di oro nero. Ma anche perché – cosa forse più
importante – fino a quando la Russia non accetterà la
leadership americano-saudita nel mercato mondiale degli
idrocarburi (petrolio e gas), tutte le nazioni d’Europa e del

  • 10 –

mondo intero disporranno sempre di un’alternativa per i loro
approvvigionamenti, senza essere obbligate a rifornirsi per
forza dagli sceicchi che – com’è noto – sono in società con le
multinazionali americane ed anglo-olandesi.
Ora, Putin non sembra affatto intenzionato a frenare la
produzione russa di idrocarburi. Anzi, pare proprio il
contrario. I dati della produzione 2013 – appena diffusi –
confermano che la Russia rimane al primo posto nella
estrazione complessiva di gas e petrolio, superando sia
l’Arabia Saudita che gli Stati Uniti. Le stime per il 2014 sono
di un ulteriore incremento: e non soltanto della produzione,
ma anche – cosa che immalinconisce le Sette Sorelle – delle
esportazioni. Ecco perché, da qualche tempo a questa parte,
Putin è diventato la bestia nera del circo mediatico mondiale.
Naturalmente, non potendogli contestare genocidi o crimini
di guerra, ci si accontenta di quel che offre il mercato…
Chessò, una condanna a due anni di carcere per le Pussy Riot,
o l’accusa di omofobia (per una legge contraria non
all’omosessualità ma alla sua apologia).
E vedrete cosa succederà a febbraio, quando si
apriranno i giochi olimpici invernali di Sochi, importante
città russa sul Mar Nero. Già il primo ad aprire le danze è
stato il Premio Nobel per la pace Barak Obama, il quale ha
annunziato con grande solennità di voler disertare la
cerimonia inaugurale delle Olimpiadi. Sùbito dopo – con
ammirevole sincronismo – i fondamentalisti islamici hanno
piazzato due bombe devastanti a Volgograd, a due passi da
Sochi. La stampa “democratica” di tutto il mondo, intanto,
affila le armi, pronta a riversare fiumi di fango sulla Russia e
sul suo Presidente. L’operazione è avviata: dipingere Putin
come un bieco dittatore, come un Gheddafi, come un Assad.
Certo, nessuno pensa di inviare eserciti mercenari per
abbattere il potere legittimo (e validato da regolari elezioni)
di Vladimir Putin. La manovra è riuscita in Libia, ma già in

  • 11 –

Siria è andata a sbattere malamente. In Russia non avrebbe
una possibilità su un milione di riuscire. Tuttavia, qualcuno
continua a soffiare sul fuoco dell’islamismo in salsa
caucasica. E noi europei, come al solito, non abbiamo capito
nulla. Così come non abbiamo capito nulla quando lo stesso
“qualcuno” ha distrutto quel pilastro di stabilità che – pur con
tutte le sue pecche – era la Libia di Muhammar Gheddafi.

[“Social” n. 86 – 10 gennaio 2014]

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Ecco come Lindsey Graham ha manipolato Trump contro Putin_di Andrew Korybko

Ecco come Lindsey Graham ha manipolato Trump contro Putin

Andrew Korybko23 luglio
 
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Tutto è iniziato ingannando Trump e facendogli credere che l’Ucraina possiede trilioni di dollari di terre rare.

RT ha pubblicato due articoli critici su Lindsey Graham, “Maestra della guerra mondiale: Ecco la persona più pericolosa d’America” e “Graham minaccia Putin: Il falco di guerra statunitense intensifica la retorica allineandosi alla lobby militare“, poco dopo che Trump ha annunciato il suo nuovo approccio su tre fronti all’Ucraina. Questa analisi qui ha precedentemente accennato a come Graham sia stato uno dei responsabili della manipolazione di Trump contro Putin, mentre la presente elaborerà come ciò sia avvenuto, dato il ruolo di primo piano che ha svolto.

Graham è il beniamino dell’industria della difesa a cui ha fatto generose donazioni nel corso degli anni, come documentato da Yahoo FinanceThe Intercept, e Sputnik, e altri. Forbes ha anche riportato le donazioni che ha ricevuto da oltre una dozzina di miliardari. Il primo gruppo dona a lui perché ha strutture nel suo Stato della Carolina del Sud, mentre il secondo lo fa perché ha investito in quelle aziende. Si sospetta che anche Graham abbia investito in queste società, in quella che è diventata una relazione simbiotica e tossica.

Lui fa il guerrafondaio contro Stati come la Russia per giustificare maggiori spese per la difesa, le aziende della difesa che gli hanno fatto donazioni ottengono più contratti statali, e lui a sua volta trae profitto dall’aumento dei prezzi delle azioni, e così via. Sebbene Trump sia un suo alleato politico, la sua promessa in campagna elettorale di porre fine al conflitto ucraino minacciava di colpire i profitti di Graham se fosse tornato in carica e l’avesse mantenuta, e per questo si è affrettato a fermarlo. Questo spiega perché improvvisamente ha iniziato a parlare dei minerali di terre rare dell’Ucraina nell’estate del 2024.

Prima ha affermato che valgono 10-12 trilioni di dollari, ha ribadito il loro “valore di oltre un trilione di dollari” dopo aver visitato Kiev nell’agosto dello stesso anno, e poi ha dichiarato alla fine di novembre dopo le elezioni che “Donald Trump farà un accordo per riavere i nostri soldi, per arricchirci con i minerali di terre rare”. bne Intellinews e The Telegraph, tra gli altri, hanno dubitato del valore delle terre rare ucraine. Ciononostante, in primavera è stato concordato un accordo modificato che, secondo le previsioni, avrebbe portato a ulteriori pacchetti di armi statunitensi.

Una volta che Trump è stato indotto da Graham a pensare che l’Ucraina possedesse minerali di terre rare per un valore di trilioni di dollari, anche sotto il suolo controllato dai russi che Kiev rivendica come proprio, il beniamino dell’industria della difesa si è messo al lavoro inducendo Trump a pensare che Putin lo stesse “incastrando” durante i loro colloqui. Graham è uno degli alleati più schietti di Trump e sono anche amici di golf , quindi ha ottenuto la sua fiducia che è stata poi sfruttata per manipolarlo contro Putin al fine di far deragliare la “Nuova Distensione“.

Una pace rapida con la Russia senza una guerra per procura o almeno una crisi con la Cina subito dopo avrebbe sollevato interrogativi sul bilancio del Pentagono più grande in assoluto di 1.000 miliardi di dollari che Graham ha sostenuto per volere dei suoi donatori dell’industria della difesa con i quali ha una relazione simbiotica tossica. Favorendo i loro comuni interessi finanziari finanziati dai contribuenti, Graham non solo ha spinto Trump a intensificare il coinvolgimento degli Stati Uniti nel conflitto, ma anche a minacciare tariffe fino al 100% contro i partner commerciali della Russia entro 50 giorni.

Entrambe le cose sono un tradimento della sua base, poiché un’escalation potrebbe coinvolgere gli Stati Uniti in un’altra guerra per sempre, come il leader del pensiero MAGA Steve Bannon ha avvertito a gennaio, per non parlare del rischio di una Terza Guerra Mondiale a causa di un errore di calcolo, mentre i dazi del 100% sulla Cina potrebbero danneggiare notevolmente i consumatori statunitensi se dovessero durare. A Graham, però, non importa, perché un maggiore conflitto con la Russia e le tensioni con la Cina sono redditizie per lui. Il suo amico intimo John McCain almeno credeva veramente nel suo guerrafondaio, mentre Graham lo fa solo per arricchirsi.

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Cinque spunti dalla sessione di domande e risposte di Aliyev al Forum globale sui media di Shusha

Andrew Korybko24 luglio
 
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Il Presidente Aliyev, pur continuando a far arrabbiare la Russia per l’Ucraina e la tragedia dell’AZAL, si è trattenuto dall’andare oltre, per cui potrebbe aprirsi la porta a un riavvicinamento reciprocamente vantaggioso, se entrambe le parti riusciranno a trovare la volontà politica.

Il presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev ha trascorso diverse ore a rispondere alle domande del terzo Shusha Global Media Forum di fine luglio. Il suo Paese è stato recentemente catapultato all’attenzione mondiale a causa delle tensioni politiche con la Russia, che i lettori possono approfondire quiqui e qui, ed è per questo che vale la pena di richiamare l’attenzione su alcune delle intuizioni che ha condiviso. Di seguito sono riportati i cinque punti di forza più significativi a livello internazionale, che sono rilevanti per la più ampia gamma di lettori:

———-

1. L’Azerbaigian svolge un ruolo chiave nella connettività eurasiatica

Aliyev ha dedicato molto tempo a spiegare l’importanza del ruolo dell’Azerbaigian nel Corridoio di Mezzo tra Cina e Turchia e nel Corridoio di Trasporto Nord-Sud tra Russia e India. L’apertura del Corridoio Zangezur completerà entrambi i megaprogetti snellendo la connettività con la Turchia ma anche con l’Iran e quindi con il Golfo, ripristinando un percorso ferroviario di epoca sovietica da Nakhchivan. Egli prevede di fare leva su queste posizioni per trasformare l’Azerbaigian in un hub diplomatico del supercontinente.

È prevista anche una maggiore connettività energetica. L’Azerbaigian spera di costruire cavi sottomarini per l’energia verde sotto il Caspio per collegarsi all’Asia centrale e attraverso la Georgia e sotto il Mar Nero per collegarsi all’UE attraverso la Romania e l’Ungheria. Vuole anche espandere la capacità di gasdotti verso l’Europa, ma poiché le banche dell’UE non finanziano più progetti di combustibili fossili, ha invitato le istituzioni europee a rivedere le loro politiche. Sostiene di non essere in competizione con la Russia, ma è chiaro che intende sfruttare le sanzioni occidentali contro di essa.

2. La pace con l’Armenia rimane tra le sue massime priorità

In base a quanto detto, l’apertura del Corridoio Zangezur è concepita dall’Azerbaigian come il mezzo per potenziare il suo ruolo di connettività fisica in Eurasia, ergo il motivo per cui la pace con l’Armenia rimane tra le sue massime priorità per realizzarla rapidamente. Aliyev ha espresso irritazione per il rifiuto dell’Armenia di firmare un accordo di pace, ma ha anche elogiato i progressi compiuti finora. La cosa più importante per lui è che “dobbiamo avere un accesso senza ostacoli e sicuro dall’Azerbaigian all’Azerbaigian”.

In risposta a una domanda sul suo atteggiamento nei confronti della proposta dell’ambasciatore statunitense in Turchia Tom Barrack di affittare dall’Armenia il corridoio Zangezur per 100 anni e di affidarne il controllo a una società americana, Aliyev ha rifiutato di condividere le sue opinioni, sottolineando solo che si tratta di “una questione per la leadership armena”. Tuttavia, ha ripetutamente elogiato il fatto che Trump abbia contribuito a facilitare un accordo di pace con l’Armenia. Questo porta alla prossima considerazione sul ripristino delle relazioni tra Azerbaigian e Stati Uniti.

3. Trump ha invertito la politica di Biden verso l’Azerbaigian

Aliyev ha spiegato che l’amministrazione Biden ha “quasi rovinato” i legami bilaterali a causa della pressione multiforme che Washington ha esercitato su Baku dopo la fine del conflitto del Karabakh. Egli ha attribuito questo fatto all’influenza che i gruppi di pressione pro-armeni hanno ottenuto sul governo, che si è concretizzata soprattutto nel non rilasciare una deroga per la Sezione 907 del Freedom Support Act come hanno fatto i suoi predecessori da Bush Jr. in poi, tagliando così tutti gli aiuti militari. Tuttavia, gli Stati Uniti continuano ad armare l’Armenia.

Un altro modo in cui l’amministrazione Biden ha danneggiato i legami bilaterali è stato quello di applicare due pesi e due misure nei confronti dell’Azerbaigian e dell’Ucraina per quanto riguarda gli “sforzi per ripristinare la [loro] sovranità”. Contribuendo a facilitare un accordo di pace con l’Armenia e rimuovendo la maggior parte delle pressioni sull’Azerbaigian, “siamo tornati a relazioni normali”, ha valutato Aliyev. Di conseguenza, Aliyev “spera che nel prossimo futuro ci saranno importanti pietre miliari che eleveranno le relazioni tra Stati Uniti e Azerbaigian a un livello superiore. Penso che questo sarà assolutamente naturale”.

4. L’Azerbaigian spera di diventare un esempio per l’Ucraina

Altrettanto naturale, secondo lui, è l’esempio che l’Azerbaigian può diventare per l’Ucraina. Quando gli è stato chiesto quale consiglio avrebbe dato all’Ucraina e agli ucraini dopo essere stati ispirati dall’Azerbaigian che ha ripreso il controllo delle sue terre precedentemente perdute, li ha esortati a “non scendere mai a patti con l’occupazione… non arrendersi mai!”. Date le somiglianze superficiali tra il conflitto del Karabakh e quello ucraino, la sua risposta era prevedibile, così come la sua elaborazione della lunga storia del primo.

A questo proposito, ha affermato che i copresidenti del Gruppo di Minsk dell’OSCE hanno cospirato, ciascuno per i propri interessi, per mantenere lo status quo, ma “poi abbiamo deciso che avremmo creato nuove realtà, e poi voi sareste venuti a patti con esse. Ed è quello che è successo”. L’insinuazione è che l’Ucraina dovrebbe anche diffidare delle intenzioni di tutti coloro che sostengono qualcosa di diverso dalla massima vittoria e non smettere mai di pianificare di riprendere con decisione il conflitto alle proprie condizioni se nel caso fosse costretta a congelarlo.

5. Aliyev non ha menzionato le recenti tensioni con la Russia

Per quanto riguarda i rapporti con la Russia, Aliyev ha affermato che la tragedia dell’AZAL dello scorso dicembre – causata dagli sconsiderati attacchi di droni dell’Ucraina, come spiegato qui all’epoca – “non è utile” per i rapporti con la Russia, alla quale chiede di ammettere le proprie presunte colpe, punire i responsabili e pagare un risarcimento. Non ha menzionato il recente arresto da parte della Russia di presunti criminali di etnia azera, che ha messo in moto il peggioramento dei loro legami, né ha menzionato il capo della TASS russa, finanziata pubblicamente, in una domanda separata.

Queste vistose omissioni possono essere viste come segnali da parte dell’Azerbaigian e della Russia che vorrebbero passare oltre e potrebbero quindi compartimentare la tragedia dell’AZAL anche se Aliyev presentasse un’azione legale internazionale, come ha detto che intende fare se non ottiene ciò che chiede. Dopotutto, avrebbe potuto denunciare la Russia per l’arresto dei suoi co-etnici e/o spingere l’affermazione fasulla che i dipendenti di Sputnik Azerbaijan che sono stati arrestati in seguito sono spie, ma ha scelto di non farlo, il che è importante da notare.

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Riflettendo su quanto sopra, Aliyev potrebbe aver inasprito le tensioni con la Russia non solo come parte di un gioco di potere turco-statunitense, ma anche come tentativo di indurre l’Occidente a fare pressione sull’Armenia per ottenere la pace e gli Stati Uniti a convincere l’UE a finanziare l’auspicata espansione del gasdotto dell’Azerbaigian. Il presidente continua a far arrabbiare la Russia sull’Ucraina e sulla tragedia dell’AZAL, ma si è trattenuto dall’andare oltre, per cui la porta potrebbe aprirsi per un riavvicinamento reciprocamente vantaggioso, se si riuscirà a raccogliere la volontà politica di entrambe le parti.

Ulteriori promesse di aiuti occidentali hanno incoraggiato l’Ucraina a neutralizzare le istituzioni anticorruzione

Andrew Korybko23 luglio
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Il treno della cuccagna dell’Ucraina continuerà a sgommare, alimentato dai fondi dei contribuenti occidentali, anche se tutti questi aiuti promessi non faranno altro che perpetuare la guerra per procura contro la Russia invece di porvi fine.

L’UE e la NATO hanno recentemente promesso maggiori aiuti all’Ucraina. La prima lo ha fatto a fine maggio, dopo che il Consiglio europeo ha creato lo strumento ” Security Action For Europe ” (SAFE), che fornirà fino a 150 miliardi di euro in prestiti a basso interesse per investimenti nella difesa nei membri dell’Unione e anche in Ucraina , mentre la seconda è arrivata a metà luglio, quando Trump ha annunciato che i membri della NATO hanno accettato di pagare il prezzo intero per le nuove armi statunitensi che trasferiranno all’Ucraina. Queste promesse hanno incoraggiato l’Ucraina a saccheggiare il suo ufficio anticorruzione.

Bloomberg ha condannato la mossa in un tagliente articolo d’opinione, mentre The Economist ha avvertito che “qualcosa di sinistro è all’opera” dopo che Zelensky ha poi firmato una legge, approvata in fretta dalla Rada poco dopo, che subordina l’ufficio anticorruzione e la sua controparte, la procura, al controllo presidenziale. Da allora, sono scoppiate proteste in diverse città ucraine per quest’ultima mossa, che sarebbe stata possibile solo con la tacita approvazione dell’SBU, ma è prematuro concludere che sia in corso una lotta di potere.

In ogni caso, un pretesto legato alla sicurezza è stato sfruttato per giustificare l’intimidazione e la successiva subordinazione delle istituzioni anticorruzione alla presidenza, in vista di ulteriori aiuti promessi dall’Occidente. Se quelle promesse non fossero state fatte, ci sarebbero stati molti meno soldi da rubare, rendendo così meno probabile che l’Ucraina rischiasse una copertura mediatica negativa occidentale facendo ciò che ha appena fatto. Dopotutto, quelle mosse hanno generato più attenzione negativa di qualsiasi accusa delle sue istituzioni anticorruzione contro i funzionari statali.

Tuttavia, i precedenti suggeriscono che l’Occidente non taglierà gli aiuti promessi, nonostante le fondate preoccupazioni che una parte di essi venga rubata, comprese alcune armi che la NATO potrebbe presto inviare. Il Primo Vice Rappresentante della Russia all’ONU, Dmitry Polyanskiy, ha affermato lo scorso ottobre che “dal 15% al 20% di tutti i beni militari ricevuti da Kiev finiranno sul mercato grigio e nero entro le prossime due settimane”. Anche l’Iniziativa Globale contro la Criminalità Organizzata Transnazionale, con sede in Svizzera, ha lanciato l’allarme su questa minaccia a febbraio.

Il motivo per cui gli aiuti occidentali continueranno probabilmente ad affluire all’Ucraina, nonostante quest’ultima abbia sfacciatamente neutralizzato le sue istituzioni anticorruzione, è che quel blocco ha già accettato che una parte di essi verrà rubata come prezzo da pagare per continuare la sua guerra per procura contro la Russia. Per quanto l’opinione pubblica contraria a questa campagna possa talvolta diventare netta nella società, la gente comune non ha praticamente alcuna influenza sulla formulazione della politica estera, i cui decisori ignorano sistematicamente le loro lamentele e preoccupazioni.

Molti di loro riponevano le loro speranze nel disimpegno di Trump dal conflitto, portando probabilmente i partner minori degli Stati Uniti a seguirne l’esempio, dato che avrebbero faticato a sostituire gli aiuti persi, eppure li ha profondamente delusi con il suo nuovo approccio a tre punte verso questa guerra per procura, di cui si può leggere qui . Il suo goffo tentativo di trovare un equilibrio tra un radicale aumento del coinvolgimento americano e l’allontanamento ha convinto Zelensky di aver avuto successo nei suoi sforzi per manipolare Trump e spingerlo a procedere a oltranza .

Il risultato finale è che il treno della cuccagna dell’Ucraina continuerà a sgommare, alimentato dai fondi dei contribuenti occidentali, sebbene tutti questi aiuti promessi non faranno altro che perpetuare la guerra per procura contro la Russia invece di porvi fine. Al massimo, potrebbero rallentare il ritmo dei progressi della Russia sul campo, ma non è previsto che li invertano. La soluzione ideale è che l’Occidente riduca le perdite finanziarie costringendo l’Ucraina a scendere a compromessi con la Russia, ma ciò non accadrà senza la leadership di Trump, che ora è più interessato a un’escalation.

Australia e Giappone sembrano avere dei ripensamenti sulla NATO asiatica di fatto

Andrew Korybko22 luglio
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Qualsiasi ruolo, anche logistico, in una guerra sino-americana per Taiwan potrebbe provocare una rappresaglia cinese.

Il Financial Times ha riportato che il Sottosegretario alla Difesa statunitense per la Politica, Elbridge Colby, ha recentemente chiesto ai funzionari della Difesa australiani e giapponesi come risponderebbero i loro Paesi a una guerra per Taiwan. Ha anche chiesto loro di aumentare la spesa per la difesa, dopo che la NATO ha appena accettato di farlo durante il suo ultimo vertice. Colby ha dato credito a questo rapporto twittando di essere “concentrato sull’attuazione dell’agenda del Presidente “America First”, basata sul buon senso, per ripristinare la deterrenza e raggiungere la pace attraverso la forza”.

Questa sequenza dimostra che Trump 2.0 è seriamente intenzionato a “tornare (di nuovo) in Asia (orientale)” per contenere più efficacemente la Cina. Ciò richiede il congelamento del conflitto ucraino e la creazione di una NATO asiatica di fatto, entrambe le opzioni sono tuttavia incerte. Per quanto riguarda la prima, Trump sta venendo trascinato in un “mission creep”, mentre la seconda è ostacolata dalla riluttanza di Australia e Giappone a farsi avanti. Per essere più precisi, apparentemente si aspettavano che gli Stati Uniti facessero tutto il “lavoro pesante”, proprio come si aspettava la NATO fino a poco tempo fa.

Questo spiegherebbe perché non hanno fornito una risposta chiara alla domanda di Colby su come i loro Paesi avrebbero reagito a una guerra per Taiwan. In poche parole, probabilmente non hanno mai pianificato di fare nulla, mettendo così a nudo la superficialità della NATO asiatica di fatto che gli Stati Uniti hanno cercato di creare negli ultimi anni attraverso il formato AUKUS+. Questo si riferisce alla trilaterale AUKUS di Australia, Regno Unito e Stati Uniti, insieme a quelli che possono essere descritti come membri onorari di Giappone, Filippine, Corea del Sud e Taiwan.

Australia e Giappone sono di conseguenza considerati i punti di riferimento di questo blocco informale per il Sud-est asiatico e il Nord-est asiatico, eppure sono evidentemente riluttanti a svolgere i ruoli militari che il loro partner senior, gli Stati Uniti, si aspetta. A quanto pare, ciò che intendevano era almeno un ruolo logistico di supporto nello scenario di una guerra sino-americana, ma i loro rappresentanti, a quanto pare, non lo hanno nemmeno suggerito a Colby. Questo a sua volta rivela che temono ritorsioni da parte della Cina anche se non partecipano al combattimento.

La popolazione giapponese e la conseguente densità economica lo rendono estremamente vulnerabile agli attacchi missilistici cinesi, mentre una guerra non convenzionale potrebbe essere condotta contro l’Australia attraverso sabotaggi e simili. Inoltre, la Cina è il loro principale partner commerciale, il che apre ulteriori possibilità di ritorsione. Allo stesso tempo, tuttavia, nessuno dei due vuole che la Cina prenda il controllo della TSMC di Taiwan (se sopravvivesse anche solo a un conflitto speculativo) e ottenga il monopolio dell’industria globale dei semiconduttori.

Nemmeno gli Stati Uniti lo vogliono, ma il problema è che i due presunti perni della NATO asiatica di fatto non sono disposti ad aumentare la spesa per la difesa né apparentemente ad assistere l’America in una guerra per Taiwan. Questo è inaccettabile dal punto di vista di Trump 2.0, quindi dazi e altre forme di pressione potrebbero essere applicate per costringere Australia e Giappone a spendere almeno di più per le loro forze armate. Il risultato finale, tuttavia, è che accettino di svolgere un qualche tipo di ruolo (logistico o idealmente combattivo) in questo scenario.

Visto che gli Stati Uniti non cederanno sul loro “ritorno in Asia orientale”, probabilmente costringeranno Australia e Giappone a fare le suddette concessioni in un modo o nell’altro. Lo stesso vale per gli altri membri dell’AUKUS+, ovvero Corea del Sud, Filippine e Taiwan, sebbene forse con una spesa per la difesa leggermente inferiore da parte di questi ultimi due. Tutto sommato, ” Gli Stati Uniti stanno radunando alleati in vista di una possibile guerra con la Cina “, come stimato nel maggio 2023, ma è ancora da stabilire se intendano effettivamente scatenare un conflitto su larga scala.

Le ultime dichiarazioni di Trump sul GERD sollevano dubbi sulla sua comprensione di questa controversia

Andrew Korybko20 luglio
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Schierarsi con l’Egitto segnala il sostegno alla prossima guerra per procura contro l’Etiopia, che potrebbe destabilizzare importanti alleati degli Stati Uniti.

Trump ha scandalosamente previsto durante il suo primo mandato che l’Egitto avrebbe bombardato la Grande Diga della Rinascita Etiope (GERD), quindi non sorprende che abbia sollevato la questione tra i due più volte quest’anno. La prima volta è stata durante la sua chiamata con al-Sisi a febbraio, poi ne ha parlato sui social media due volte durante l’estate e infine ne ha parlato di nuovo durante il suo incontro con il segretario generale della NATO Rutte. Ogni volta lo ha descritto come un problema regionale che gli Stati Uniti stanno contribuendo a risolvere per evitare la guerra.

La sua impostazione del problema in questione, in particolare nelle sue ultime dichiarazioni in cui ha dato credito alla screditata posizione dell’Egitto, Il terrore che il completamento del GERD avrebbe interrotto il flusso del Nilo, se la sua costruzione non l’avesse già fatto, solleva dubbi quantomeno sulla sua comprensione di questa controversia. Lo scopo del GERD è contribuire a elettrificare completamente quello che è il secondo Paese più popoloso dell’Africa, con circa 130 milioni di persone e la sua economia in più rapida crescita , non ricattare l’Egitto per ragioni ignote, come ipotizza il Cairo.

Solo il 55% degli etiopi disponeva di elettricità nel 2022, mentre la restante parte risiedeva principalmente nelle aree rurali, soggette a disordini alimentati da forze straniere e persino a insurrezioni terroristiche. L’elettrificazione completa dell’Etiopia è quindi un imperativo economico e di sicurezza, il cui adempimento con successo stabilizza la regione e non solo, riducendo il rischio di massicci flussi di rifugiati e di nuovi santuari terroristici. Purtroppo, l’Egitto aspira da tempo all’egemonia nel Corno d’Africa, e per raggiungere questo obiettivo ha cercato di destabilizzare l’Etiopia.

Ciò ha assunto la forma di sostegno all’Eritrea (sia alla sua precedente causa separatista ribelle che alla sua recente campagna anti-etiope dalla fine del 2022 ), al governo del TPLF trasformatosi in ribelli e poi in governo regionale durante la guerra del Nord. Conflitto del 2020-2022, e in precedenza (e presto di nuovo ?) la Somalia come rappresentante. Il falso allarmismo sul GERD è sempre stato solo un mezzo pubblico per giustificare falsamente le suddette ingerenze, entrambe ancora in atto nel perseguimento di tre obiettivi egemonici interconnessi.

Il primo è “balcanizzare” l’Etiopia lungo linee etno-regionali, che si collega al secondo obiettivo di espandere la sfera d’influenza dell’Egitto sui resti del regime divisi et governati, facilitando così l’obiettivo finale di sfruttare le risorse idrologiche, minerarie e di manodopera presenti nei territori allora ex etiopi. Trump evidentemente non sa che il perseguimento di questi obiettivi da parte dell’Egitto potrebbe destabilizzare i suoi alleati dell’UE e del Golfo, rischiando enormi flussi di rifugiati e portando alla creazione di nuovi santuari terroristici.

Pertanto, affinché la dimensione americana della diplomazia creativa etiope, proposta qui all’inizio di luglio, dia i suoi frutti, è necessario innanzitutto correggere la grave incomprensione di Trump sulla rivalità tra Egitto ed Etiopia e sulla controversia sul GERD al suo interno. Questo obiettivo può essere realisticamente raggiunto attraverso una prossima campagna diplomatica che coinvolga gli Stati Uniti e i suoi due partner sopra menzionati, con interessi più diretti nella stabilità dell’Etiopia, tutti e tre stretti legami con l’Egitto, e che ne discuta apertamente.

Ciò è più urgente che mai dopo che il principale diplomatico etiope ha lanciato l’allarme all’inizio del mese riguardo a un’imminente offensiva eritrea-TPLF che sarebbe stata sostenuta dall’Egitto, dato il contesto regionale. Se la campagna diplomatica proposta non dovesse produrre risultati tangibili, ovvero tutti e tre gli obiettivi, ma soprattutto la costrizione dell’Egitto da parte degli Stati Uniti a riconsiderare questa grave escalation di guerra per procura, allora ciò suggerirebbe che Trump abbia secondi fini nel sostenere l’Egitto e quindi non stia fraintendendo innocentemente questa disputa regionale.

La retorica di Duda su Rzeszow è pensata per supportare la politica estera prevista da Nawrocki

Andrew Korybko21 luglio
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Apparentemente si aspetta che ciò sosterrà gli sforzi del suo successore volti a trasformare la Polonia in una potenza regionale.

Il presidente polacco uscente Andrzej Duda ha recentemente criticato duramente l’Ucraina e l’Occidente, in particolare Germania e Stati Uniti, per aver dato per scontata l’infrastruttura logistica polacca. Ha persino suggerito che Varsavia potrebbe chiudere l’ aeroporto di Rzezsów, attraverso il quale circa il 90% degli aiuti militari esteri dell’Ucraina passa con pretesti infondati a scopo di leva. Sebbene sia improbabile che la Polonia rischi l’ira degli Stati Uniti ricattandola in questo modo, la sua retorica è riuscita a catturare l’attenzione del suo pubblico di riferimento. Ecco le sue parole esatte :

“Credo che sia gli ucraini che i nostri alleati credano semplicemente che l’aeroporto di Rzeszow e le nostre autostrade siano loro, scusate, come se fossero loro. Beh, non sono loro, sono nostri. Se a qualcuno non piace qualcosa, lo chiudiamo e gli diciamo addio. Sì, lo stiamo ristrutturando.

Chiudiamo l’aeroporto di Rzeszow e consegniamo aiuti all’Ucraina via mare, via aria, non so, li lanciamo con il paracadute. Trovate una soluzione se pensate di non aver bisogno di noi.

Credo che ci fossero questioni in cui avremmo potuto chiarire un po’ che non potevamo essere ignorati o aggirati. E non l’abbiamo fatto. Ed è stato un errore. Non si tratta di colloqui con l’Ucraina. Dobbiamo discuterne con i nostri alleati: la Germania, gli americani.

Duda ha poi rivelato che la Polonia non è stata inclusa nei colloqui del vertice NATO di Vilnius del 2023 sull’invio di ulteriori aiuti all’Ucraina, nonostante ciò fosse possibile solo attraverso il territorio del suo Paese. Sembra quindi che abbia molta rabbia repressa da due anni, che sta finalmente esprimendo nelle sue ultime settimane di mandato. Non l’ha fatto prima per evitare di creare problemi ai conservatori allora al potere e poi per evitare di crearsi ulteriori problemi con la nuova coalizione liberal-globalista al potere.

Considerando che la politica estera polacca è formulata attraverso la collaborazione tra Presidente, Primo Ministro e Ministro degli Esteri, dare troppa importanza a questo aspetto quando i conservatori erano ancora al governo avrebbe potuto esacerbare le spaccature all’interno del governo prima delle elezioni di quell’autunno. Allo stesso modo, dopo che i conservatori furono sostituiti da una coalizione liberal-globalista, ciò avrebbe potuto portare il nuovo Primo Ministro e Ministro degli Esteri ad accusarlo di aver provocato spaccature con gli alleati della Polonia per motivi di politica interna.

Il motivo per cui Duda sta prendendo posizione ora è probabilmente legato alla visione del suo successore, Karol Nawrocki. Il presidente entrante ha vinto di misura promettendo di ostacolare l’agenda dei liberal-globalisti al potere, il che potrebbe portare a elezioni anticipate a seconda della gravità della situazione di stallo che ne deriverebbe. Tutte le questioni relative all’Ucraina stanno diventando sempre più importanti per l’elettorato, che è giunto a credere che la Polonia non abbia ricevuto sufficienti benefici da quel Paese e dall’Occidente per il suo ruolo cruciale in questo conflitto.

Di conseguenza, ci si aspetta che Nawrocki faccia tutto il possibile per garantire che la situazione cambi, e a tal fine l’ultima retorica di Duda sull’aeroporto di Rzeszow giustifica il suo ostacolo ai liberal-globalisti al potere su questo fronte. Nawrocki non ricatterà l’Ucraina e l’Occidente minacciando di chiudere quella struttura, ma potrebbe ricordar loro a gran voce la sua importanza come tattica negoziale per convincere la prima a concedere alla Polonia un ruolo privilegiato nella sua ricostruzione e la seconda a includerla nei colloqui sulla loro prevista conclusione.

Il suo obiettivo è che la Polonia si metta sulla strada della guida dell’Europa centro-orientale una volta terminato il conflitto, cosa che può avvenire solo attraverso i mezzi sopra menzionati, non continuando con la subordinazione agli interessi stranieri del precedente governo conservatore e del liberal-globalista al potere. Duda condivide la visione di Nawrocki, ma non è stato in grado di promuoverla per le ragioni politiche sopra menzionate, per le quali ora prova un senso di colpa, motivo per cui cerca di sostenerlo con la sua retorica come regalo di addio.

La Cina potrebbe non volere che la Russia perda, ma potrebbe anche non volere che vinca.

Andrew Korybko18 luglio
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Una sconfitta russa sarebbe catastrofica per la sicurezza della Cina, mentre una vittoria russa potrebbe porre fine alla generosa disponibilità energetica che sta aiutando la Cina a mantenere la crescita economica nonostante il rallentamento, per non parlare dell’accelerazione del “ritorno (in) Asia (orientale)” degli Stati Uniti per contenerla più energicamente.

Il South China Morning Post (SCMP) ha citato fonti anonime per riferire che il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi avrebbe detto alla sua controparte europea che la Cina non vuole che la Russia perda in Ucraina, perché l’attenzione degli Stati Uniti potrebbe spostarsi completamente sulla Cina. Le sue presunte dichiarazioni sono state diffuse dai media mainstream come un’ammissione che la Cina non è così neutrale come afferma, proprio come sospettavano loro e i loro rivali dei media alternativi . Entrambi ora credono che la Cina aiuterà la Russia a vincere, ovvero a raggiungere i suoi obiettivi massimi , ma probabilmente non è così.

Supponendo, per amor di discussione, che Wang abbia effettivamente detto ciò che gli è stato attribuito, ciò sarebbe in linea con la valutazione fatta in occasione del primo anniversario del conflitto nel febbraio 2023, secondo cui ” la Cina non vuole che nessuno vinca in Ucraina “. L’SCMP ha incanalato il succo dell’analisi precedente scrivendo che “un’interpretazione della dichiarazione di Wang a Bruxelles è che, sebbene la Cina non abbia chiesto la guerra, il suo prolungamento potrebbe soddisfare le esigenze strategiche di Pechino, purché gli Stati Uniti rimangano impegnati in Ucraina”.

Per spiegare meglio, non solo gli Stati Uniti non sarebbero in grado di “tornare (di nuovo) all’Asia (orientale)” per contenere la Cina in modo più energico, come previsto da Trump, se il conflitto ucraino dovesse protrarsi, ma la continua pressione esercitata sull’economia russa dalle sanzioni occidentali andrebbe a vantaggio dell’economia cinese. La Cina importa già una quantità impressionante di petrolio russo a prezzo scontato, il che contribuisce a mantenere la sua crescita economica nonostante la recessione che sta attraversando, ma questo potrebbe cessare se le sanzioni venissero ridotte.

Inoltre, quanto più la Cina aumenterà il suo ruolo di valvola di sfogo per la Russia dalle pressioni delle sanzioni occidentali (sia in termini di importazioni di energia per contribuire al finanziamento del bilancio russo, sia di esportazioni che sostituiscono i prodotti occidentali perduti), tanto più la Russia diventerà dipendente dalla Cina. La natura sempre più sbilanciata delle loro relazioni economiche potrebbe quindi essere sfruttata per concludere accordi energetici a lungo termine più vantaggiosi possibili per quanto riguarda il Power of Siberia II e altri gasdotti .

Questi risultati potrebbero ripristinare la traiettoria di superpotenza della Cina che è stata deragliata durante i primi sei mesi della crisi speciale. operazione come spiegato qui all’epoca, rafforzando così la sua resilienza complessiva alle pressioni statunitensi e rendendo quindi meno probabile che gli Stati Uniti possano estorcergli una serie di accordi sbilanciati. È per questo motivo che l’inviato speciale di Trump in Russia, Steve Witkoff, starebbe spingendo affinché gli Stati Uniti revochino le sanzioni energetiche alla Russia, al fine di privare la Cina di questi benefici finanziari e strategici.

Il nascente Russo – USA ” Nuovo La ” distensione ” potrebbe ripristinare la clientela energetica del Cremlino come primo passo attraverso un allentamento graduale delle sanzioni, ampliando così la sua gamma di partner per evitare preventivamente la suddetta dipendenza russa dalla Cina, soprattutto in caso di cooperazione energetica congiunta nell’Artico . L’obiettivo, come spiegato qui all’inizio di gennaio, sarebbe quello di privare la Cina di un accesso decennale a risorse ultra-economiche per alimentare la sua ascesa a superpotenza a spese degli Stati Uniti.

Nel complesso, una vittoria russa (sia essa totale o parziale tramite compromessi) potrebbe porre fine alla carestia energetica a basso costo che sta aiutando la Cina a mantenere la sua crescita economica nonostante il rallentamento, ergo perché Pechino non invierà aiuti militari o truppe per facilitarla (oltre a temere gravi sanzioni occidentali). Allo stesso modo, lo scenario in cui l’Occidente infliggesse una sconfitta strategica alla Russia sarebbe catastrofico per la sicurezza cinese , ergo un’altra ragione per le suddette importazioni, al fine di aiutare la Russia a mantenere la sua economia di guerra.

Analisi dell’ambiguità dell’accordo tra Stati Uniti e NATO sulle armi per l’Ucraina

Andrew Korybko19 luglio
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L’accondiscendenza o la mancanza di accondiscendenza da parte degli europei giocherà un ruolo cruciale nel futuro corso del conflitto.

La dimensione offensiva della nuova strategia a tre punte di Trump L’approccio all’Ucraina prevede la vendita di armi americane alla NATO, che a sua volta le trasferirà all’Ucraina. Ciò è in linea con quanto Trump aveva dichiarato alla NBC diversi giorni prima del suddetto annuncio. Secondo fonti di Reuters , tuttavia, “Trump ha presentato un quadro generale, non un piano dettagliato”, e alcuni dei sei paesi che il segretario generale della NATO Rutte ha menzionato come parteciperanno a questo schema ne sarebbero venuti a conoscenza solo in quel periodo.

Sono poi circolate altre notizie sul rifiuto di Francia , Italia e Repubblica Ceca di partecipare, adducendo vari pretesti: dal loro sostegno di principio all’industria della difesa europea , che avrebbe difficoltà a realizzare il suo potenziale se i paesi dell’UE acquistassero armi statunitensi più costose, a semplici preoccupazioni di bilancio. La conseguente ambiguità sull’accordo di armamenti tra Stati Uniti e NATO per l’Ucraina, annunciato da Trump, solleva interrogativi su cosa stia realmente accadendo. Ci sono tre possibili spiegazioni.

La prima è che ci siano stati innocenti problemi di comunicazione tra gli Stati Uniti, la NATO e i singoli membri del blocco, ma è difficile da credere visto che tutti si sono riuniti per l’ultimo vertice NATO meno di un mese fa. Questo accordo è stato presumibilmente discusso in quel periodo. Contestualizzerebbe anche il loro accordo di aumentare la spesa per la difesa al 5% del PIL, soprattutto se gli europei si aspettassero di acquistare armi più costose da trasferire all’Ucraina nell’ambito di questo accordo.

La seconda spiegazione è che non è stato concordato nulla di concreto, almeno con tutti i membri, durante quel vertice. Questo spiegherebbe perché alcuni di loro sarebbero stati colti di sorpresa e altri si sono rifiutati di partecipare. In questo scenario, l’annuncio di Trump avrebbe dovuto spingerli a sottoporsi a questo accordo redditizio per “salvare la faccia”, poiché tutti, tranne Ungheria e Slovacchia (che a loro volta non parteciperanno), hanno costantemente affermato che sosterranno l’Ucraina “finché sarà necessario”.

Infine, l’ultima possibilità è che i resoconti dei media analizzati facciano parte di una campagna di inganni simile a quella che i media israeliani hanno sostenuto che Trump e Bibi abbiano messo in atto prima di bombardare l’Iran. Questa versione dei fatti presuppone che dietro le quinte ci sia molto più accordo tra i membri della NATO di quanto sia stato riportato. Lo scopo di affermare il contrario sarebbe quello di abbassare la guardia russa in vista di quello che potrebbe essere il rapido riarmo dell’Ucraina da parte della NATO con armi americane.

Qualunque sia la spiegazione scelta, maggiore chiarezza arriverà dai resoconti dei media russi, che riveleranno l’esistenza o l’assenza di queste nuove armi sul campo di battaglia prima della scadenza del termine di 50 giorni imposto da Trump. Se in Ucraina affluissero ingenti quantitativi di armi statunitensi, ciò dimostrerebbe che c’erano sufficienti accordi e capacità per sostenere la sua minaccia. In caso contrario, Trump potrebbe incolpare gli europei per aver commesso errori, e in seguito imporre solo alcune sanzioni secondarie, senza più ricorrere all’escalation militare.

Trump ha ripetutamente affermato che gli europei devono farsi avanti, poiché questo conflitto si combatte nel loro continente. Se un numero sufficiente di persone darà priorità ad altri interessi rispetto al sostegno all’Ucraina “per tutto il tempo necessario”, tuttavia, allora Trump probabilmente non permetterà agli Stati Uniti di “guidare dal fronte”, di fare “il lavoro pesante” e quindi di continuare a “scroccare” i propri interessi, poiché ciò tradirebbe il suo progetto di riforma delle relazioni USA-NATO. La conformità, o la mancanza di conformità, degli europei giocherà quindi un ruolo cruciale nel futuro corso del conflitto.

Gli echi di Maidan segnano l’improvvisa caduta di Zelensky dalla grazia

Gli echi di Maidan segnano l’improvvisa caduta di Zelensky dalla grazia

Simplicius 23 luglio
 
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Sembra che le voci su un’eliminazione di Zelensky da parte di Trump abbiano avuto un senso, dato che questa sera sono usciti i coltelli per Zelensky e la sua banda. Ciò che era iniziato come una lamentela contro le spinte di alcuni organi irrilevanti gestiti da ONG si è trasformato in una sorta di “Maidan” contro l’ormai sfavorito leader ucraino.

Come sempre, i giornali dell’establishment sono stati rapidi nel coordinare la messaggistica per stimolare la spinta:

La cosa più sorprendente di questa caduta di stile è l’audacia con cui gli attori prescelti recitano le loro battute, facendo leva su alcune immaginarie “repressioni” di un paio di organizzazioni che praticamente nessuno ha mai sentito nominare o di cui non si è mai interessato fino a pochi giorni fa, in questo caso il NABU (National Anti-Corruption Bureau of Ukraine) e il SAPO (Specialized Anti-Corruption Prosecutor’s Office). Ci sono una miriade di altre preoccupazioni molto più urgenti per l’Ucraina, senza contare la guerra in sé, eppure la lotta a colpi di “anticorruzione” dell’era Biden è ciò che ha animato l’intellighenzia e la sfera degli “influencer” pagati per scendere in piazza con slogan pre-brandizzati e cartelli in lingua inglese?

Non ha senso ripercorrere l’intera storia perché è solo una copertura contorta per l’ultima rivoluzione psico-politica trasformata in colore. Ma per chi fosse interessato, il resoconto più dettagliato è stato redatto da questo commentatore ucraino, anche se probabilmente è stato copiato da Grok.

Le reali macchinazioni possono essere solo ipotizzate, ma una versione plausibile è stata delineata dall’ex deputato ucraino Artem Dmytruk, fuggito dall’Ucraina alla fine dell’anno scorso dopo aver sfidato Zelensky per la sua persecuzione dell’UOC (Chiesa ortodossa ucraina):

Ruba 10 miliardi di dollari all’anno”: il deputato Dmytruk ha spiegato agli europei perché Ze sta liquidando il NABU (National Anti-Corruption Bureau of Ukraine).

Per quanto riguarda ciò che sta accadendo ora tra l’organismo anticorruzione e il regime di Zelensky, si può dire che l’organismo anticorruzione ha avviato un’indagine, una piccola indagine sui reati di corruzione commessi da Zelensky, sul cosiddetto denaro “nero” che egli presumibilmente ruba all’Ucraina. E stiamo parlando di oltre 10 miliardi di dollari all’anno che Zelensky avrebbe rubato in Ucraina”.

In breve: alcuni ritengono che le organizzazioni anti-corruzione abbiano finalmente ricevuto dall’alto l’ordine di prendere di mira la cricca di Zelensky scavando “fango” su di loro, presumibilmente per avviare il processo di rimozione definitiva di Ze dal potere, o almeno per iniziare a esercitare una forte pressione su di lui come minaccia implicita di allinearsi.

Intuendo il piano, Zelensky si è mosso per iniziare a ostacolare preventivamente i guardiani della corruzione. Ha arrestato il “capo degli investigatori” della NABU perché sospettato di spionaggio per la Russia, non molto tempo prima di presentare alla Rada la proposta di legge per una “acquisizione ostile” di questi organi di controllo “indipendenti”, per metterli sotto il totale controllo dello Stato.

https://www.pravda.com.ua/eng/notizie/2025/07/22/7522933/

La formazione di queste istituzioni è stata richiesta come parte delle “riforme” obbligatorie dall’UE per l’ammissibilità dell’Ucraina al blocco; questo per un motivo. Come le ONG, queste organizzazioni sono progettate dall’establishment per servire come leve di potere, controllo e influenza, lavorando in modo “indipendente” dal governo eletto, il che in realtà significa che non sono responsabili e non sono elette. Questo è in stretta conformità con il classico progetto delle élite per sovvertire i governi e togliere il potere al popolo, non diverso dal sistema di riserva “federale” che è stato imposto al mondo senza alcun dibattito reale.

Questa è solo l’ultima replica dello scandalo Biden, in cui si è apertamente vantato di aver eliminato il procuratore capo Victor Shokin che aveva osato indagare sul Burisma e sui loschi affari di Hunter Biden in Ucraina. La scusa addotta allora fu che Shokin “non era riuscito a indagare correttamente sulla corruzione”, che è il modus operandi preferito dall’establishment ogni volta che ha bisogno di rimuovere un parassita scomodo. I bei idealicome la “riforma” e la “corruzione” vengono divorati dagli hoi polloi come un’infornata di brownies di protesta.

Già nel suo discorso fondamentale del 22 febbraio 2022, Putin aveva rivelato che queste organizzazioni come la NABU erano gestite dall’ambasciata statunitense a Kiev – ascoltate attentamente:

“L’ambasciata statunitense in Ucraina controlla direttamente NABU e SAPO”. – Vladimir Putin, 22 febbraio 2022

L’altra cosa a cui Putin si riferisce conferma quanto ho appena scritto sugli organismi non eletti. Quando si scava nel modo in cui queste organizzazioni sono gestite, e come vengono nominati i loro attori chiave, si scopre che il processo è controllato da una commissione di “specialisti” europei. Anche gli ucraini fanno parte della commissione, ma il voto degli europei è prevalente. Da una fontedescrivendo il processo per l’ESBU, altrimenti noto come BEB o BES, in breve, l’Ufficio di Sicurezza Economica che è stato creato con la forza per volere dell’UE, insieme a NABU e SAPO:

I candidati per l’ESBU sono selezionati da una commissione di selezione composta da tre esperti internazionali e tre esperti nominati dal governo, con i partner internazionali che detengono il voto decisivo.

Un’altra fonte ucraina scrive direttamente che il governo degli Emirati Arabi Uniti ha dovuto chiedere alla commissione internazionale di ripresentare nuovi candidati per la posizione di direttore:

Il Consiglio dei ministri ha chiesto alla Commissione per i concorsi di ripresentare i candidati per la posizione di capo dell’Ufficio per la sicurezza economica (BES).

Scrive inoltre:

Il disegno di legge prevede la ricertificazione obbligatoria dei dipendenti, e stabilisce inoltre che i partner internazionali avranno la voce decisiva nella selezione e nella ricertificazione dei dipendenti.

Quindi, proprio come nella “democrazia” del sistema UE, una commissione non eletta di estranei ha voce in capitolo nel posizionare i propri direttori preferiti di queste organizzazioni ucraine. Questi direttori prendono poi tutti i loro ordini di marcia dall’ambasciata statunitense, come da Putin.

Ecco perché oggi il capo dell’SBU di Zelensky, Vasyl Maliuk, ha negato che le organizzazioni siano state “abolite”, ma piuttosto che siano state reinserite nel “quadro” costituzionale :

“Nessuno ha abolito nulla”: così il capo del Servizio di sicurezza ucraino, Vasyl Maliuk, ha risposto al progetto di legge che eliminerebbe la Procura specializzata anticorruzione (SAPO) e l’Ufficio nazionale anticorruzione (NABU). “Si tratta semplicemente di un ritorno al quadro costituzionale. Né il SAPO né il NABU sono stati aboliti: continuano a esistere e a operare efficacemente. Stiamo collaborando con i dirigenti e gli investigatori della NABU. Credo che sarà uno sviluppo positivo per loro che il Procuratore generale porti idee nuove, basate sulla sua esperienza. A differenza loro, lui ha sostenuto l’incriminazione di Yanukovych – e loro no”, ha dichiarato Maliuk.

Non che ci sia un “bravo ragazzo” in tutto questo, ma non si può negare che le mosse di Zelensky siano in effetti corrette, nonostante abbiano evidenti secondi fini.

In ogni caso, questo potrebbe essere stato il colpo di apertura di quello che potrebbe rivelarsi un colpo di stato, o almeno un periodo di destabilizzazione e di fazioni che si contendono il potere in Ucraina, in mezzo a un grande scossone sociale. Una delle cose da tenere d’occhio sarà la possibilità che una “tempesta perfetta” si abbatta sull’Ucraina in questo momento critico.

Mi riferisco alla situazione sul fronte, dove oggi la linea di Pokrovsk si è “catastroficamente” deteriorata, come dicono le carte del DeepState ucraino. Un analista l’ha addirittura descritta come il più grande sfondamento di un giorno della guerra dopo l’offensiva ucraina di Kharkov alla fine del 2022. Si dice che le forze russe si siano spinte tra i 6 e i 10 km nella regione settentrionale di Pokrovsk, tagliando una strada fondamentale tra Nove Shakhove e Shakhove. Ma mi asterrò dall’approfondire l’argomento fino alla prossima volta, quando si saprà se le forze russe si sono effettivamente insediate in nuove posizioni o meno.

Ma si può vedere il potenziale per questo tipo di tempesta perfetta: un crollo prematuro del fronte proprio nel momento in cui Zelensky sta sopportando le sue pressioni interne più feroci – le cose potrebbero diventare molto interessanti in Ucraina presto.

SONDAGGIODove porteranno le attuali proteste?Dove? Zelensky mantiene il controlloLungo declino e destabilizzazioneRivoluzione dei colori e colpo di stato

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L’Europa tra gloria e decadenza, di Taha

L’Europa tra gloria e decadenza

Taha21 luglio
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Un’eredità plasmata dalla guerra e dalla reinvenzione

L’Europa oggi si erge come un’artista invecchiata su un palcoscenico globale che un tempo dominava. La sua architettura suscita ancora ammirazione, la sua filosofia continua a plasmare il diritto internazionale e le sue rivoluzioni riecheggiano nelle fondamenta della governance moderna. Eppure, sotto la superficie, si cela un continente in silenzioso declino. Dalle trincee della Guerra dei Trent’anni ai tappeti rossi del Congresso di Vienna, dalla carneficina di Verdun alla fredda aritmetica di Yalta, l’Europa ha oscillato tra il collasso e la reinvenzione. Ora, non si trova all’alba di un nuovo capitolo, ma alla deriva verso l’irrilevanza geopolitica.

La pace postbellica che seguì il 1945 non fu opera dell’Europa stessa. A Yalta, i confini globali furono ridisegnati, ma l’azione dell’Europa fu limitata. La Germania fu divisa. L’Europa orientale fu assorbita dall’influenza sovietica. La metà occidentale fu sottoposta alla protezione americana. La cosiddetta Pax Americana fu imposta non dal consenso europeo, ma dal predominio statunitense.

Stalin, Roosevelt e Churchill – Yalta, Russia 1945

L’Unione Europea non è nata da una visione utopica, ma dalla disperazione. I suoi architetti Schuman, Adenauer, De Gasperi non erano idealisti. Erano uomini segnati dalla guerra, alla ricerca di un nuovo sistema per impedire all’Europa di rivoltarsi di nuovo contro se stessa. La soluzione era pragmatica: mercati condivisi, frontiere aperte e governance democratica. Non era un sogno grandioso. Era una fragile tregua.

L’unione fragile sotto la superficie

La pace europea non è stata costruita sulla forza, ma sull’interdipendenza. Eppure rimane ciò che lo storico Abdallah Laroui una volta descrisse come “un puzzle di pezzi delicati”, coeso solo nella calma, vulnerabile sotto pressione. Una singola tempesta può incrinarne l’unità. E quando l’Europa inciampa, le onde d’urto si avvertono ben oltre le sue coste.

Nonostante il suo peso intellettuale, l’Europa è diventata più un museo che una macchina. Parla ancora il linguaggio del potere, ma non lo comanda più. La sua risposta alla guerra in Ucraina riflette questa confusione. Sta liberando una nazione? O sta intensificando una guerra per procura? Cerca la pace o si limita a una posizione?

Le armi nucleari non creano la pace. La diplomazia sì. Nessuno chiede all’Ucraina di rinunciare alla sua sovranità. Ma perché non reimmaginare l’Ucraina non come una linea di scontro, ma come un ponte tra due civiltà? Anche questa è una forma di resistenza alla guerra, alla divisione, alla storia che si ripete.

Ponti, non confini

La storia onora le civiltà che hanno costruito ponti. La Spagna, sotto l’influenza araba, ha trasmesso la conoscenza tra i mondi. La Turchia ha svolto per secoli il ruolo di cerniera tra Oriente e Occidente. L’Egitto, durante l’era mamelucca, era un fulcro del commercio globale prima del Canale di Suez. Tutto, dall’India a Venezia, passava per Il Cairo. Era ricco, strategico e ammirato.

Ma quel potere non è svanito a causa dell’invasione, bensì per l’irrilevanza geopolitica. L’Europa rischia un destino simile: ricordata per la sua bellezza, dimenticata per la sua influenza.

Una questione di scala e realtà

In un mondo multipolare, le dimensioni contano. Il continente europeo, inclusa la sezione europea della Russia, si estende per circa 10 milioni di chilometri quadrati. L’Unione Europea stessa ne occupa circa 4,2 milioni. L’Algeria da sola copre una superficie di oltre 2,3 milioni di chilometri quadrati, più grande di Francia, Germania, Spagna e Italia messe insieme. La popolazione totale europea, di circa 450 milioni di persone, è in calo, invecchia e distribuita in modo disomogeneo.

Non si tratta solo di geografia. Si tratta di proporzioni, influenza e rilevanza futura. L’Europa non ha profondità strategica, non dispone di una vasta base di risorse e ha un controllo sempre più limitato sulle catene di approvvigionamento globali. Dal punto di vista tecnologico, è indietro rispetto a Stati Uniti e Cina. Militarmente, rimane dipendente dalla NATO e, di conseguenza, da Washington.

Eppure, in Ucraina, l’Europa si avvicina allo scontro nucleare con la Russia. Qual è la strategia? Provocare una crisi che giustifichi i reinvestimenti americani? Acquisire rilevanza attraverso il rischio? Anche se fosse vero, i beneficiari non sarebbero europei. Sarebbero cinesi. Forse indiani. Ma non europei.

Una scommessa con le vite americane

Sotto la guida di Donald Trump, gli Stati Uniti hanno ricalibrato il proprio ruolo nella NATO, segnalando che l’Europa deve iniziare a reggersi in piedi da sola. È stato un campanello d’allarme. Il legame transatlantico, fondato su legami ancestrali e una storia comune, non è più garantito.

Gli Stati Uniti sono stati costruiti dagli europei, ma non ruotano più attorno all’Europa. Il sentimento non può sostituire la strategia.

Europa orientale: pedina o alleato?

L’Europa non ha mai abbracciato pienamente la sua frontiera orientale. Per secoli, la regione è stata un territorio conteso, conteso, diviso, sfruttato. L’Ucraina, in particolare, è stata trattata come un cuscinetto piuttosto che come un partner. La sua scrittura cirillica, la fede ortodossa e i legami culturali la radicano più a Mosca che a Bruxelles.

Negli anni ’90, l’Ucraina divenne una preda geopolitica. L’Occidente la corteggiava non per l’integrazione, ma per ottenere influenza. Ogni cambio di leadership diventava una mossa strategica. E ogni provocazione aggravava la faglia.

Per comprendere questa guerra è necessario considerare la Russia non come un nemico, ma come una forza di civiltà.

Russia: la geografia come potenza

Statua della Madre Patria che chiama – Volgograd, Russia

La Russia non è solo un paese. È una geografia, una visione del mondo, un sistema a sé stante. Con i suoi 17 milioni di chilometri quadrati, si estende su due continenti e undici fusi orari. Si estende dai confini della Norvegia alla Corea del Nord, dal Caucaso al Pacifico. Confina con più di una dozzina di nazioni e domina contemporaneamente lo spazio artico, asiatico ed europeo.

La Russia non può essere sottomessa con sanzioni, né sconfitta con le armi. Napoleone ci provò. Hitler ci provò. Entrambi furono sconfitti non solo dagli eserciti, ma anche dallo spazio e dall’inverno. La forza russa non risiede solo nel suo esercito, ma nella sua capacità di assorbire, sopravvivere e tornare più forte.

Svolge anche il ruolo di protettore del cristianesimo ortodosso, dell’identità eurasiatica e della continuità slava. Con lo spostamento del centro spirituale dell’Ortodossia da Costantinopoli a Mosca, l’autorità del Patriarca russo cresce. In luoghi come la Serbia, la Grecia e i Balcani, Mosca ha un’importanza simbolica che l’Europa spesso trascura.

La sottile ascesa dell’Arabia Saudita

Mentre l’Europa esita e la Russia si trincera, un altro attore emerge, silenziosamente e con calma: l’Arabia Saudita.

Il suo ruolo nell’OPEC Plus la lega a Mosca. Il suo rapporto con Washington rimane intatto. La sua influenza a Parigi e Londra si sta rafforzando, alimentata da contratti per armi, leva energetica e capitale strategico.

A differenza dell’Europa, l’Arabia Saudita non si affida alla memoria. Sta costruendo capacità. Non si limita più ad acquistare armi, ma tempo, alleanze e opzioni. La sua economia si sta diversificando. La sua diplomazia sta maturando. E in un’epoca di frammentazione globale, questo pragmatismo misurato potrebbe rivelarsi più duraturo di un atteggiamento militare.

E mentre il mondo post-Yalta decade, forse è tempo di una nuova Yalta. Una nuova conferenza non pianificata da vincitori con governanti, ma da realisti con visione. Il mondo non appartiene solo all’Europa. L’equilibrio di domani deve includere le voci dei silenziosi e degli ignorati.

In fin dei conti, il potere non è solo una questione di forza. È una questione di posizione. E l’Europa, un tempo cuore del mondo, ora si ritrova alla deriva, aggrappata a un passato che non garantisce più il suo futuro.

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