Ucraina, 33a puntata! Ultime ore per Bakhmut, il resto in sospeso_Con Max Bonelli e Stefano Orsi

Questione di giorni, se non di ore, Bakhmut non ci sarà più. Tornerà ad essere Artemosk. Non sarà la fossa nel quale sprofonderà l’esercito ucraino e con esso, probabilmente, il regime. E’ certamente un duro colpo alla loro solidità e allaloro possibilità di sopravvivenza. Sia Zelensky che la NATO hanno profuso enormi energie in una narrazione epica molto lontana dalla tragica realtà. Gli stessi tempi di una controffensiva, mai così preannunciata e sbandierata, sono tarati a prescindere dalle possibilità di successo soprattutto in funzione del contraccolpo negativo determinato dalla perdita dell’importante centro urbano. Nel frattempo persiste un gioco di posizionamento di truppe e materiali, indispensabile quantomeno ad avviare la reazione, cui corrisponde una puntuale opera di distruzione dei centri logistici e di comunicazione ad opera delle forze militari russe. I volti dei militari ucraini direttamente impegnati sul campo e le distese di caduti sui campi di battaglia documentati in numerosi filmati, specie di militari che non riescono nemmeno a vedere in faccia il loro avversario, valgono più dei bollettini di guerra trionfalistici cui ci sta abituando il regime ucraino. Cresce a livello internazionale la pressione per fermare la guerra; ma cresce ancora di più l’ostinazione di una amministrazione statunitense ormai intrappolata su una strada obbligata senza vie di uscite alternative. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Lula, gli Stati Uniti, i BRICS_a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto una serie di articoli di varia estrazione riguardanti il ritorno di Lula a Presidente del Brasile e i suoi primi atti nello scacchiere geopolitico. So bene che buona parte di questi articoli susciterà le perplessità se non l’avversione di tutta quell’area politica attratta, ormai da generazioni, dalle azioni e dai proclami della sinistra rivoluzionaria e populista dell’America Latina. Una attrazione determinata più da una visione romantica di quelle spinte, rivoluzionarie o riformiste che siano, che dai reali successi conseguiti in termini di solidità del potere eventualmente conseguito e di reale trasformazione positiva dei rapporti sociali di quelle formazioni. Un abbaglio che ha impedito di cogliere i trasformismi e gli opportunismi che regolarmente seguono a prese di posizione velleitarie o mal poste. E’ troppo presto per esprimere un giudizio definitivo sul senso reale del ritorno di Lula alla presidenza; come pure appare troppo sbrigativo qualificarlo come un mero strumento statunitense all’opera all’interno dei nuovi schieramenti geopolitici in via di formazione. I dubbi, però, sono tanti e giustificati. Lula fungerà, comunque, da una sorta di cartina di tornasole. Attualmente lo scacchiere geopolitico vede uno schieramento occidentale, a guida statunitense, in fase di contrazione, ma ancora coeso politicamente e militarmente in un suo proprio sistema di alleanze. Dall’altra parte si assiste ad aggregazioni crescenti, tra queste i BRICS, ma ancora eterogenee nei fini e nei mezzi, le quali riescono ad assumere con relativa efficacia il compito di destrutturare la forma di dominio tuttora dominante, con minore efficacia quella propositiva. Diventano, così, al contempo, esse stesse un campo di azione delle varie potenze attive nello scacchiere, comprese quelle che intendono avversare. Man mano che negli Stati Uniti dovesse crescere la consapevolezza di una competizione geopolitica impensabile solamente venti anni fa, tanto più si intensificheranno le azioni diversive e dirompenti all’interno di quei nuovi schieramenti in formazione. Lula potrebbe rientrare in queste dinamiche. Staremo a vedere. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Non siamo obbligati a seguire tutte le opinioni degli Stati Uniti”, dice Celso Amorim

BAHIA

 

A 80 anni, l’ex ministro degli Esteri Celso Amorim è il diplomatico con più esperienza in Brasile. È anche il più vicino a Lula (PT), che lo ha scelto come consigliere speciale per rappresentare il presidente nelle delicate missioni internazionali.

 

Amorim ha comandato il Ministero delle Relazioni Estere nel governo di Itamar Franco tra il 1993 e il 1995, ha ricoperto la stessa carica nei due precedenti mandati di Lula come Presidente della Repubblica ed è stato Ministro della Difesa sotto Dilma Roussef (PT).

 

In questa intervista, difende la posizione di Lula sulla guerra in Ucraina e afferma che le critiche del presidente non riguardano solo la posizione degli Stati Uniti e dell’Unione Europea in relazione al conflitto.

 

Afferma che le critiche sono già state rivolte a gran voce alla Russia, che ha invaso il Paese confinante, e che il Brasile ha persino accompagnato i Paesi occidentali nella condanna dell’atto alle Nazioni Unite.

 

Tuttavia, afferma che bisogna cercare la pace e che le “sanzioni” o l’insistenza per “sconfiggere la Russia” non risolveranno la questione.

 

“Che cosa volete? Una vendetta? Dare una lezione?”, dice a proposito della posizione dei Paesi occidentali nel conflitto. “L’ultima volta che ci si è provato [con il Trattato di Versailles dopo la sconfitta della Germania nella Prima guerra mondiale] è andata proprio così”, afferma.

 

Amorim afferma inoltre che il Brasile riconosce l’importanza del ruolo degli Stati Uniti, che hanno riconosciuto il risultato delle elezioni presidenziali brasiliane quando queste erano messe in discussione dall’ex presidente Jair Bolsonaro (PL). Questo, però, non obbliga il Brasile a seguire gli interessi statunitensi negli affari internazionali.

 

“Non c’è stato alcun patto”, afferma.

 

Leggete, di seguito, i principali estratti dell’intervista.

 

RICEVERE

 

Il coordinatore delle comunicazioni strategiche del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ha dichiarato che le dichiarazioni del presidente brasiliano sulla guerra in Ucraina sono profondamente problematiche e che sta “ripetendo a pappagallo” la propaganda di Cina e Russia sul conflitto. Lula sta dicendo verità scomode o sta ripetendo ciò che interessa a questi due Paesi?

 

Non ho intenzione di entrare in polemica con l’addetto stampa della Casa Bianca. Lasciamogli pensare ciò che vuole.

 

Ma, in realtà, la posizione del Presidente Lula è molto chiara: è una difesa degli interessi brasiliani e della percezione del Brasile rispetto al mondo. È la difesa di un mondo multipolare, che ha a che fare anche con la questione della dollarizzazione o della de-dollarizzazione di parte delle relazioni economiche [tra Paesi].

E ha anche a che fare con la ricerca di equilibrio nel mondo, [con il tentativo di] contribuire a renderlo più equilibrato.

 

Per quanto riguarda specificamente la guerra, la nostra ricerca è la pace. Il Brasile ha condannato [la guerra tra Russia e Ucraina] innumerevoli volte e in innumerevoli occasioni.

 

Il Presidente Lula ha criticato verbalmente l’azione russa di invasione dell’Ucraina. Il Brasile difende il principio dell’integrità territoriale degli Stati. Su questo non ci sono dubbi.

 

INCONTRO TRA LULA E IL CANCELLIERE RUSSO

 

Lula ha ripetuto le sue critiche al Cancelliere russo Sergei Lavrov, con cui si è incontrato lunedì (17)?

 

Mettiamola in prospettiva: il cancelliere russo non è venuto in Brasile come emissario [del presidente russo Vladimir Putin].

 

Il suo ospite è stato il ministro Mauro Vieira [delle Relazioni estere]. I due hanno parlato a lungo e ciò che hanno detto in seguito è stato divulgato alla stampa. Entrambi.

 

L’incontro del Cancelliere russo con il Presidente [Lula] è stata una visita di cortesia. Non entrerò nei dettagli [della conversazione tra i due].

 

Ma il nostro atteggiamento è chiaro. Abbiamo già votato le risoluzioni dell’ONU [che condannano l’aggressione russa all’Ucraina], lui [Lula] ha già parlato [condannando l’azione della Russia]. Non c’è dubbio che il Brasile sia critico.

 

Il Brasile difende la Carta delle Nazioni Unite e il diritto internazionale.

 

Ora, quello che pensiamo è che non serve a nulla rimanere fermi su questo, o continuare ad applicare sanzioni, o voler sconfiggere la Russia. Questo non porterà la pace. La Russia è un Paese molto importante e molto grande, oltre ad essere partner del Brasile. E bisogna cercare un modo per avere [negoziati di pace]. Questo è stato il senso delle parole del Presidente Lula.

 

Perché c’è la percezione, da parte sua e del Presidente Lula, che gli Stati Uniti e l’Unione Europea non stiano cercando la pace in questo momento?

 

Ci sono dichiarazioni specifiche [da parte di funzionari degli Stati Uniti e dei Paesi europei], come “dobbiamo sconfiggere la Russia” o “dobbiamo indebolire la Russia”. Questo è variato nel tempo.

 

Ora, nell’ambito della concezione che la Russia ha sbagliato, la nostra posizione è quella di far dialogare i Paesi.

 

La guerra non è una soluzione né per la Russia né per l’Ucraina. Questa è la domanda del Brasile.

 

Lavorare solo per rafforzare militarmente una parte [come hanno fatto gli Stati Uniti e i Paesi europei], o per, ad esempio, imporre sanzioni all’altra, non contribuisce alla pace. Non si contribuisce alla conversazione, non si crea un clima favorevole alla ricerca di negoziati.

 

E [queste autorità] finiscono, volontariamente o involontariamente, per contribuire al prolungamento della guerra.

 

RICERCA DELLA PACE IN UCRAINA

 

Una parte della stampa statunitense afferma che l’ambizione del Brasile di negoziare la fine della guerra e la pace è ingenua, non è alla portata del nostro Paese.

 

Non credo che sia ingenua. C’è buona fede nelle nostre azioni, nella ricerca della pace.

 

C’è una grande chiarezza sul fatto che non sarà il Brasile a fare la pace. Deve essere un gruppo di Paesi.

Rileggete la dichiarazione congiunta del Presidente Lula e del Presidente cinese Xi Jinping, in cui si afferma che entrambi i Paesi sostengono tutti i movimenti per la pace e invitano altri Paesi a unirsi a questo sforzo.

È chiaro che non si tratta di un’azione che il Presidente Lula farà da solo.

 

Ora, contrariamente a quanto dicono certi editoriali, il Brasile è un Paese importante, è uno dei cinque Paesi più grandi del mondo in termini di territorio, insomma è un Paese molto rispettato a livello internazionale.

 

Si dà il caso che, in questo caso [di guerra], l’Unione Europea abbia adottato un partito.

 

Non dico che sia sbagliato criticare l’azione specifica [della Russia contro l’Ucraina].

Ma bisogna farlo in modo da non rendere impossibile la pace.

 

Cosa volete? Una vendetta? Volete dare una lezione?

 

L’ultima volta che è stata tentata una politica del genere, dopo la Prima guerra mondiale, con il Trattato di Versailles [in cui i Paesi vincitori della guerra imponevano dure condizioni alla Germania], ha portato a quello che è successo dopo [l’ascesa al potere di Adolf Hitler]. Ha dato origine a questo sentimento di rancore e risentimento.

 

Noi non crediamo che le cose stiano così.

 

Quali sono i limiti del Brasile in questo scenario?

 

Molte volte, per fare la pace, c’è bisogno di un po’ di denaro per aiutare la ricostruzione [dei Paesi distrutti dai conflitti]. E questo il Brasile non ce l’ha.

 

Abbiamo una capacità di dialogo che fa parte della nostra storia, che è una storia di pace con i suoi vicini, di mediazione, di ricerca di soluzioni pacifiche ai conflitti, come è nella nostra Costituzione e anche nella Carta delle Nazioni Unite.

 

Quindi, se aggiungiamo un Paese come la Cina, che ha una forte capacità di persuasione, e Paesi come il Brasile… Per esempio, la troika del G20 oggi è composta da Indonesia, India e Brasile. Possiamo anche aggiungere il Sudafrica.

 

Quando si dice “c’è una reazione molto forte” [alle dichiarazioni di Lula], si tratta di una forte reazione occidentale. Ora, se si va a vedere cosa pensano gli indiani, gli africani e molti altri che magari non hanno le stesse condizioni per esprimersi, la visione non è la stessa.

 

MONDO MULTIPOLARE

 

Gli Stati Uniti non hanno capito la posizione del Brasile? O il Presidente Lula non ha usato bene le parole? O ancora, gli Stati Uniti non sono realmente interessati alla pace?

 

Non lo so, né posso dare giudizi sugli altri.

 

Penso che sia una visione diversa, sì, da quella brasiliana.

 

È una differenza di visione nel senso seguente: vogliamo un mondo equilibrato e multipolare, perché è quello che interessa di più al Brasile. Naturalmente, il Brasile non avrà la forza di creare questo mondo. Ma può contribuire a un mondo che non sia diviso in una “guerra fredda”, tra buoni e cattivi.

 

Questa non è la politica storica del nostro Paese. Il Brasile storicamente, anche durante il governo militare, ha evitato di adottare una politica del genere.

 

Nel caso [dell’indipendenza] dell’Angola, il Brasile ha riconosciuto il governo angolano. E gli Stati Uniti lo aborrivano, perché si definiva marxista-leninista. Noi volevamo la pace, fin da allora.

 

Nelle attuali condizioni mondiali, dell’economia e di molti altri aspetti, interessa al Brasile lavorare per un mondo multipolare.

 

La nostra voce sarà ascoltata meglio lì che in un mondo diviso da una guerra fredda tra buoni e cattivi.

 

Un mondo multipolare interessa agli Stati Uniti?

 

È curioso. L’ex presidente [Barack] Obama ha persino usato questa espressione in un’occasione.

 

Negli Stati Uniti non c’è una visione univoca su questo tema. E quello che abbiamo detto non è molto diverso da quello che ha detto l’ex Segretario di Stato Henry Kissinger, soprattutto all’inizio di questo conflitto, in relazione all’idea che bisogna cercare soluzioni pacifiche, non provocatorie.

 

Ad esempio, sull’espansione della NATO [alleanza militare dei Paesi occidentali]: sono d’accordo con Kissinger.

 

Kissinger è di sinistra, è comunista, è antiamericano? No. Ma non pensiamo che questa [espansione della NATO] contribuisca alla pace, perché crea più tensioni.

 

Giustifica l’invasione [dell’Ucraina da parte della Russia]? Anche no. Ecco perché siamo a favore della soluzione pacifica.

 

È una cosa complicata, perché bisogna riconoscere gli interessi e le preoccupazioni delle varie parti, e allo stesso tempo garantire il rispetto delle norme fondamentali del diritto internazionale – non regole inventate e poi cambiate da un Paese o dall’altro.

 

Questo è ciò che stiamo cercando di fare.

 

Non saremo all’unisono con tutti, ma, ad esempio, con la Cina c’è stata un’ottima intesa.

 

Contrariamente a quanto a volte si pensa, la Cina non è impegnata solo a sconfiggere gli Stati Uniti o altro.

 

C’è una competizione, non c’è dubbio. Non sono ingenuo a non vederlo. Ma la Cina è il Paese che è cresciuto di più con la globalizzazione. E la globalizzazione dipende dalla pace.

 

La nostra posizione in merito, anche se da punti di vista diversi o differenti, è vicina a [quella della Cina], perché anche noi vogliamo la pace. Non vogliamo una guerra fredda e non vogliamo scegliere [una parte del conflitto].

 

In molte cose, gli Stati Uniti sono un partner eccellente per il Brasile.

 

Se si considera la politica sociale ed economica del presidente [Joe] Biden, abbiamo molte coincidenze con essa.

 

Riconosciamo l’atteggiamento positivo dell’amministrazione Biden nei confronti del processo elettorale in Brasile.

 

Ora, questo non ci obbliga a seguire tutte le loro opinioni. Possiamo divergere, come facciamo in altre cose, nei negoziati commerciali e in altre questioni.

 

I Paesi hanno interessi e per il Brasile una guerra fredda non è interessante.

 

Guardate il nostro settore agroalimentare: esporta [molto in Cina] e ha raggiunto delle posizioni.

 

È chiaro che non venderemo i nostri principi per questo. Ma non abbiamo nemmeno intenzione di lanciarci in provocazioni e conflitti inutili.

 

DIFESA DELLE ELEZIONI BRASILIANE DA PARTE DEGLI STATI UNITI

 

Si dice che i diplomatici statunitensi invochino il fatto che il loro governo abbia riconosciuto l’elezione del presidente Lula, come se fossero i garanti della nostra democrazia, e che ora si infurierebbero. Avrebbero un’altra alternativa? Appoggerebbero un colpo di Stato?

 

La nostra democrazia è una responsabilità brasiliana, fondamentalmente.

 

Ora, non c’è dubbio che la posizione americana, la posizione degli Stati Uniti, abbia influenza in Brasile. Ha influenza in tutti i settori della vita brasiliana.

 

Hanno assunto un atteggiamento corretto nei confronti del processo elettorale brasiliano, e questo è positivo.

 

Tra l’altro, non sono stati solo gli Stati Uniti. Sono stati loro e tutta la comunità internazionale. Loro e i tifosi del Flamengo, come si dice a Rio de Janeiro.

 

E questo non vincola il Presidente Lula alle posizioni americane.

 

Certo che no. Non c’è stato alcun patto per dire: “Guardate, noi sosteniamo il processo elettorale e voi ci sosterrete nel nostro conflitto contro la Cina”. No. Ogni Paese ha la propria opinione e ha il diritto di discutere civilmente. Di poter essere in disaccordo.

 

Discutiamo, vediamo e parliamo. Più partner abbiamo, meglio è.

 

Anche l’Unione Europea ha reagito alle posizioni del Brasile. Potrebbero esserci delle ritorsioni contro il Brasile?

 

L’Unione europea non ha una posizione unica [sulla guerra in Ucraina], vero? Cerchiamo di essere obiettivi.

 

Ad esempio, il presidente francese [Emmanuel] Macron è stato in Cina e ha parlato molto più a lungo di noi con Xi Jinping. Ed è tornato [in Francia] dicendo che è importante affermare l’autonomia strategica dell’Europa.

 

Ha detto che l’Europa non è in grado di risolvere i propri problemi, riferendosi all’Ucraina, e quindi non deve intromettersi a Taiwan.

 

Immagino che a Washington ci siano persone che non hanno gradito. Ma è normale. Non è ostilità. È una ricerca di difesa degli interessi del proprio Paese.

 

Il Presidente Lula ha parlato spesso con gli europei. Lui stesso si sta recando di nuovo in Europa, in Portogallo e in Spagna, e ha avuto contatti con il cancelliere tedesco, con il primo ministro [Olaf Scholz], con il presidente Macron e anche con il presidente ucraino Volodimir Zelenski.

 

Abbiamo parlato con tutti.

 

IN UCRAINA

 

L’Ucraina ha invitato Lula a visitare il Paese e a vedere da vicino la guerra, e anche la Russia vorrebbe la sua presenza e un forum economico a San Pietroburgo. Quante possibilità ci sono che questi viaggi avvengano?

 

Non posso dare certezze  su questo, perché queste cose a volte si evolvono.

 

Ma, al momento, il Presidente Lula, personalmente, non ha in programma alcun viaggio in quest’area. Al momento no. Per quanto ne so, non ci sono piani.

https://politicalivre.com.br/2023/04/nao-somos-obrigados-a-seguir-todas-opinioes-dos-eua-diz-celso-amorim/#gsc.tab=0

Lula annuncia le condizioni per visitare Russia e Ucraina

Il presidente brasiliano afferma che i futuri viaggi in uno dei due paesi dipenderanno dall’avanzamento dei colloqui di pace

 

Il presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva (L) incontra il presidente portoghese Marcelo Rebelo de Sousa (R) prima di un colloquio al Palazzo Belem di Lisbona il 22 aprile 2023. © Stringer/Agenzia Anadolu via Getty Images

Il presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva, comunemente noto come Lula, ha dichiarato sabato, durante una visita diplomatica in Portogallo, che rimane necessario che una coorte di Paesi aiuti a guidare sia la Russia che l’Ucraina verso la pace. Ha anche riservato critiche al ruolo di Mosca nell’istigare “una guerra con l’Ucraina”.

 

“Il Brasile vuole trovare un modo per stabilire la pace”, ha detto Lula sabato durante una conferenza stampa con il suo omologo portoghese Marcelo Rebelo de Sousa, con il quale aveva appena concluso un incontro a porte chiuse.

 

“È meglio trovare una via d’uscita al tavolo dei negoziati che una via d’uscita sul campo di battaglia”, ha dichiarato Lula. “La guerra distrugge soltanto, non costruisce nulla”, ha aggiunto, affermando che si rifiuterà di visitare Mosca o Kiev finché una o entrambe non faranno passi concreti verso la cessazione delle ostilità.

 

I commenti di Lula arrivano dopo che è stato criticato in Occidente per aver suggerito, poco dopo una visita di Stato in Cina questo mese, che gli Stati Uniti e i loro alleati europei stavano “incoraggiando la guerra” in Ucraina con la fornitura di armi alle forze di difesa di Kiev.

 

Il suo progetto di una roadmap verso la pace è stato elogiato dal ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, in visita a Brasilia all’inizio della settimana, ma un portavoce della Casa Bianca ha accusato il presidente brasiliano di “ripetere a pappagallo la propaganda russa e cinese senza guardare ai fatti”.

 

 

Leggi tutto La Casa Bianca si scaglia contro il Brasile per l’Ucraina

Tuttavia, venerdì la Reuters ha riferito che Lula avrebbe ammorbidito la sua posizione sulle critiche al ruolo dell’Occidente nel conflitto ucraino. Due funzionari di Brasilia hanno dichiarato all’agenzia di stampa che i commenti di Lula hanno provocato “rumore inutile” e hanno minato la posizione del Brasile come potenziale mediatore di pace.

 

Ciononostante, sabato Lula ha ribadito che “se non si fa la pace, si contribuisce alla guerra” e ha detto di aver rifiutato la richiesta del cancelliere tedesco Olaf Scholz di fornire aiuti militari all’Ucraina. Ma ha aggiunto che il suo governo si oppone fermamente alle azioni di Mosca; una posizione che, a suo dire, si è riflessa nei “voti dell’ONU” del Brasile.

 

“La Russia ha commesso un errore”, ha detto Lula sabato. “Tutti pensiamo che la Russia abbia commesso un errore. Non avrebbe dovuto invadere, ma lo ha fatto. Il Brasile non vuole scegliere da che parte stare. Vuole un gruppo di Paesi con cui parlare”.

 

L’arrivo di Lula in Portogallo venerdì è stato accolto da un’ondata di proteste da parte di cittadini e sostenitori ucraini fuori dall’ambasciata brasiliana a Lisbona, molti dei quali erano irritati da ciò che consideravano l’incapacità di Brasilia di affrontare la vera causa del conflitto. Venerdì Lula ha annunciato che il suo principale consigliere di politica estera avrebbe incontrato il presidente ucraino Vladimir Zelensky a Kiev.

 

La visita del leader brasiliano in Portogallo sarà seguita da un soggiorno di due giorni in Spagna, dove incontrerà il re Felipe IV e il primo ministro Pedro Sanchez.

https://www.rt.com/news/575189-brazil-lula-ukraine-russia/?utm_source=substack&utm_medium=email

 

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Lula ha appena screditato la politica estera del Brasile ponendo condizioni alla sua visita in Russia

ANDREW KORYBKO

23 APR

DETTAGLI

Lula sta essenzialmente dicendo che l’espansione globale delle relazioni economiche tra Brasile e Russia dipende dal fatto che la Russia comprometta gli obiettivi di sicurezza nazionale che cerca di portare avanti attraverso l’operazione speciale in corso in Ucraina, che Mosca considera ufficialmente come esistenziale. Questa posizione contraddice tutto ciò che la comunità multipolare rappresenta, ponendo così il Brasile dalla parte politica dell’Occidente nella dimensione russo-statunitense della nuova guerra fredda, nonostante i suoi crescenti legami con la Cina.

 

La transizione sistemica globale verso il multipolarismo ha visto decine di Paesi abbandonare il paradigma occidentale-centrico delle relazioni internazionali, tristemente noto per l’imposizione di condizioni unilaterali agli altri e per l’influenza che il pensiero a somma zero esercita sulla formulazione delle politiche. Il Brasile si annovera formalmente tra gli Stati che si concentrano sulla costruzione di un ordine mondiale più equo, in particolare nel coordinamento congiunto con i partner BRICS, ma il Presidente Lula lo ha appena screditato durante il suo viaggio in Portogallo.

 

Mentre si trovava lì, RT ha riferito che ha posto delle condizioni alla sua visita in Russia che gli erano state estese dal Presidente Putin attraverso il Ministro degli Esteri Lavrov durante la recente visita di quest’ultimo in Brasile. Il principale consigliere di Lula per la politica estera ha recentemente rivelato, in una lunga intervista sulla visione del mondo del suo capo, che al momento non ha in programma di recarsi in Russia o in Ucraina, ma sabato il leader brasiliano ha chiarito che potrebbe riconsiderare l’idea se i due paesi compiranno progressi tangibili verso la pace.

 

Probabilmente pensava che questo lo avrebbe fatto apparire “equilibrato”, “neutrale” e “pragmatico”, ma se da un lato questo approccio gli farà probabilmente guadagnare una proverbiale pacca sulla spalla dai suoi partner occidentali, dall’altro scredita completamente la politica estera del suo Paese agli occhi della Russia e del resto della comunità multipolare. La ragione di questa valutazione è che questa seconda categoria di Paesi non crede nell’imposizione di condizioni unilaterali ai propri partner, tanto meno che coinvolgano le loro relazioni con terze parti.

 

Ciò che Lula ha appena fatto dimostra quanto la sua visione del mondo sia strettamente allineata con i Democratici liberali-globalisti al potere negli Stati Uniti, con i quali avrebbe proposto di lanciare una rete di influenza globale durante il suo viaggio a Washington a febbraio, secondo quanto riportato recentemente da Politico, che ha citato esponenti del Congresso che hanno partecipato all’incontro. Invece di inventare un pretesto “pubblicamente plausibile” per rifiutare “gentilmente” l’invito del suo omologo a partecipare al Forum economico internazionale di San Pietroburgo di metà giugno, Lula sta facendo delle richieste al Presidente Putin.

 

In sostanza, sta dicendo che l’espansione globale delle relazioni economiche tra Brasile e Russia dipende dal fatto che la Russia comprometta gli obiettivi di sicurezza nazionale che cerca di portare avanti attraverso l’operazione speciale in corso in Ucraina, che Mosca considera ufficialmente come esistenziale. Questa posizione contraddice tutto ciò che la comunità multipolare rappresenta, ponendo così il Brasile dalla parte politica dell’Occidente nella dimensione russo-statunitense della Nuova Guerra Fredda, nonostante i suoi crescenti legami con la Cina.

 

A questo proposito, la grande strategia di Lula (che può essere approfondita attraverso le due analisi ipertestuali precedenti) è fondamentalmente quella di “bilanciare” i suoi principali partner cinesi e statunitensi – per quanto maldestramente – attraverso la de-dollarizzazione con i primi e il proselitismo del “wokeismo” con i secondi. Le relazioni con la Russia sono considerate sacrificabili, poiché la sua importanza in questo paradigma impallidisce rispetto a quelle dei due paesi, essendo per lo più relegata alla sfera della cooperazione sulle materie prime (compresa l’energia).

 

Anche se il Brasile e la Russia hanno interessi comuni nell’accelerare il multipolarismo finanziario, soprattutto attraverso il progetto della nuova valuta di riserva dei BRICS, Lula ha chiaramente lasciato che la sua preferenza ideologica per l’Occidente avesse la precedenza su questo, imponendo le condizioni che ha appena fatto per partecipare all’evento di metà giugno. Non c’è assolutamente alcuna possibilità che la Russia scenda a compromessi sui suoi obiettivi di sicurezza nazionale in Ucraina solo per fargli prendere in considerazione l’idea di presentarsi a quel forum di investimenti, quindi si dovrebbe dare per scontato che non ci andrà.

 

Anche se i propagandisti del suo schieramento potrebbero tentare di distorcere la situazione ricordando a tutti che non andrà in Ucraina a meno che la Russia non faccia progressi tangibili verso la pace, le relazioni del Brasile con Kiev non sono così importanti per la transizione sistemica globale come lo sono quelle con Mosca. Si può quindi affermare che Lula non sta solo tenendo in ostaggio i legami bilaterali con la Russia attraverso la sua richiesta unilaterale, ma sta anche rallentando il ritmo di realizzazione dei loro comuni obiettivi di multipolarità finanziaria.

 

La cosa più dannosa di questa intuizione è che ogni osservatore obiettivo sa che non si può fare affidamento sul Brasile durante il terzo mandato di Lula, che sta formulando la politica estera sotto l’influenza di paradigmi occidentalocentrici obsoleti a causa del suo allineamento ideologico con i democratici statunitensi. Nessun membro della comunità multipolare può dare per scontati i legami con questo Paese, nemmeno la Cina, perché c’è sempre la possibilità che gli Stati Uniti facciano pressioni per replicare questa politica ostile anche nei loro confronti.

 

Se dovesse scoppiare un conflitto caldo nel Mar Cinese Meridionale o nello Stretto di Taiwan, ad esempio, ci si aspetta che Lula riduca unilateralmente i legami del Brasile con la Cina con il falso pretesto di voler apparire “equilibrato”, “neutrale” e “pragmatico”. Dopo tutto, la NATO guidata dagli Stati Uniti sta attivamente conducendo una guerra per procura contro la Russia attraverso l’Ucraina, eppure non ha permesso che questo gli impedisse di visitare Washington all’inizio di febbraio o il Portogallo questo fine settimana. Questo dimostra che sta davvero applicando ipocritamente due pesi e due misure.

 

Alla luce di ciò, la sua retorica pacifista non può essere considerata altro che una copertura per il suo allineamento politico con gli Stati Uniti contro la Russia nel conflitto geostrategicamente più importante dalla Seconda Guerra Mondiale. È solo una tattica per ingannare i creduloni della comunità Alt-Media e facilitare le operazioni di gaslighting dei suoi propagandisti, volte a manipolare le percezioni popolari sulla verità della sua politica estera. Ponendo condizioni alla sua visita in Russia, Lula ha dimostrato che i legami con il Paese BRICS sono sacrificabili.

https://korybko.substack.com/p/lula-just-discredited-brazils-foreign?utm_source=post-email-title&publication_id=835783&post_id=116678834&isFreemail=true&utm_medium=email

Il piano di Lula: Una battaglia globale contro il trumpismo

Ispirati dal presidente brasiliano, gli americani di sinistra stanno valutando se rispondere alla destra internazionale con un proprio movimento.

 

Il presidente Joe Biden, a destra, cammina con il presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva.

I presidenti Joe Biden e Luiz Inácio Lula da Silva hanno profonde divergenze politiche, soprattutto sull’Ucraina. Per ora, hanno messo a tacere le loro differenze per presentare un fronte unito contro le forze autocratiche e insurrezionali locali. | Foto Alex Brandon/AP

 

Di ALEXANDER BURNS

 

13/04/2023 04:30 AM EDT

 

Aggiornato: 04/13/2023 10:25 AM EDT

 

Alexander Burns è redattore associato per la politica globale di POLITICO. La sua rubrica Domani esplora il futuro della politica e i dibattiti politici che attraversano i confini nazionali.

 

Luiz Inácio Lula da Silva è arrivato a Washington all’inizio di quest’anno nel bagliore di un glorioso ritorno. Liberato dal carcere, eletto per un nuovo mandato come presidente del Brasile e trionfatore di un’insurrezione in stile 6 gennaio, il populista di sinistra sembrava incarnare la resistenza della democrazia in un’epoca di estremismo.

 

Ma negli incontri privati con i legislatori progressisti e i leader dei lavoratori, Lula ha lanciato un messaggio terribile, secondo quattro persone presenti alle discussioni.

 

Sebbene demagoghi velenosi siano caduti sia in Brasile che negli Stati Uniti, Lula ha avvertito che una rete globale di forze di destra continua a minacciare la libertà politica. Gli elettori schiacciati dalla disuguaglianza economica e confusi da un torrente di disinformazione sui social media sono rimasti vulnerabili a figure come Donald Trump e Jair Bolsonaro, il brutale uomo forte che Lula ha sconfitto a fatica lo scorso autunno.

 

“Mi suona familiare”: Biden scherza con Lula su Bolsonaro e le “fake news”.

 

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A Washington, il 77enne leader brasiliano ha lanciato un appello alla battaglia: La sinistra deve costruire una propria rete transnazionale, ha detto Lula, per combattere per i suoi valori politici e affrontare crisi come la privazione economica e il cambiamento climatico.

 

I leader dell’estrema destra come Trump e Bolsonaro nelle Americhe si sono cercati a vicenda e hanno trovato compagni di viaggio negli integralisti europei come la francese Marine Le Pen e il primo ministro ungherese Viktor Orbán. A sinistra non è esistito un club analogo. Secondo Lula, è giunto il momento di cambiare le cose.

 

La rappresentante Pramila Jayapal (D-Wash.), capo del Congressional Progressive Caucus, ha detto che Lula voleva mobilitare le forze di sinistra contro “una rete internazionale di persone e movimenti di destra” che sta cercando di “impadronirsi dei Paesi democratici”.

 

“Si è rivolto a noi chiedendo al Caucus Progressista di costruire qualcosa che possa contrastare questo fenomeno”, ha ricordato Jayapal.

 

Un primo passo potrebbe essere compiuto nel corso dell’anno, con un possibile viaggio in Brasile dei progressisti del Congresso. Il deputato californiano Ro Khanna, uno dei principali liberali della Camera che ha incontrato Lula, ha dichiarato che il presidente brasiliano ha sollecitato tre volte i legislatori a recarsi in visita.

 

Khanna ha detto di aver chiesto al suo staff di esplorare altri forum internazionali in cui i progressisti statunitensi dovrebbero far sentire la loro presenza.

 

L’esortazione di Lula rappresenta una sfida attesa da tempo per la sinistra statunitense. Per tutta l’influenza che hanno esercitato sulla politica interna, i Democratici di sinistra non sono ancora riusciti ad articolare un programma transnazionale distintivo.

 

Questa è stata un’occasione mancata.

 

Non è che ai progressisti non interessi il resto del mondo. È solo che tendono a coinvolgerlo come un insieme sparso di punti nevralgici e cause personali, senza raccontare una storia più universale sulle lotte del XXI secolo.

 

A Washington, molti progressisti hanno abbracciato la narrazione scelta dal Presidente Joe Biden di una grande competizione tra democrazia e autocrazia, lamentando al contempo l’abisso tra la retorica di Biden e la sua tolleranza verso tirannie strategicamente utili come l’Arabia Saudita. Tuttavia, essi hanno fatto solo tentativi stentati di delineare un programma generale di sinistra che parta dal cambiamento negli Stati Uniti e si estenda al resto del mondo.

 

Il senatore del Vermont Bernie Sanders ha fatto lo sforzo più sviluppato, chiedendo nel 2018 un “fronte progressista internazionale” contro oligarchi, despoti e multinazionali. Ma il suo ruolo principale in questi giorni è quello di presiedere il Comitato per la Salute, l’Educazione, il Lavoro e le Pensioni del Senato, una carica potente che si concentra sull’economia degli Stati Uniti.

 

Matt Duss, ex consigliere di Sanders per la politica estera, ha detto che c’è una “crescente sensibilità a sinistra” per un impegno più coerente con i partner di altri Paesi, “non solo in Sud America ma nel Sud globale”. Il momento sembra propizio per i progressisti per far valere le loro ragioni per una politica transnazionale ancorata a idee economiche tradizionalmente di sinistra.

 

Ma i progressisti statunitensi non dispongono attualmente di una ricca rete di relazioni all’estero a cui attingere.

 

“È un’area in cui la sinistra in particolare deve fare un lavoro molto, molto migliore”, ha detto Duss.

 

È facile sopravvalutare l’influenza globale della destra statunitense. Provocatori legati a Trump come Steve Bannon possono irrompere in altri Paesi, dichiarare l’alba di una nuova era di nazionalismo di ultradestra e generare una copertura ansiosa nella stampa tradizionale. Ma è stato più difficile per queste forze conquistare il potere e governare. Gli appoggi di Trump alle elezioni straniere non sono serviti a molto.

 

All’inizio di quest’anno, la mia collega Zoya Sheftalovich ha riferito che il panico per l’ingerenza in stile Bannon era diminuito in Europa: Věra Jourová, vicepresidente della Commissione europea, ha ricordato il timore che, dopo il 2016, un personaggio come Bannon potesse contribuire ad accendere un movimento continentale. “Non è successo”, ha detto Jourová.

 

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Tuttavia, per i conservatori estremi ha avuto un valore politico pensare a se stessi in termini globali. Li ha aiutati a identificare le tendenze e gli atteggiamenti culturali che hanno guidato le elezioni oltre i confini nazionali – la rabbia per la crisi dei rifugiati siriani, la paura della Cina, il risentimento verso le grandi tecnologie – e ad affinare un vocabolario comune per discuterne.

 

A livello intangibile, ha dato a un gruppo di ideologi un tempo emarginato un certo esprit de corps che può tradursi in ciò che gli americani chiamano spavalderia.

 

Guarda: I manifestanti pro-Bolsonaro assaltano gli edifici governativi del Brasile

 

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Lula, che in precedenza è stato presidente del Brasile dal 2003 al 2010, potrebbe trovarsi in una posizione unica tra i leader stranieri per chiamare la sinistra statunitense alle barricate.

 

Anche prima del suo ritorno al potere, Lula occupava un posto speciale nell’immaginario dei progressisti statunitensi: un crociato populista in una delle più grandi democrazie del mondo, un difensore dell’Amazzonia, uno schietto esponente della sinistra americana durante l’era di George W. Bush. La sua incarcerazione nel 2018, frutto di un discutibile processo per corruzione, lo ha reso un martire politico.

 

C’è una componente estetica nel suo fascino per i progressisti che aiuta a oscurare altre realtà scomode, come la sua visione equivoca dell’invasione russa dell’Ucraina.

 

Si pensi alle immagini dell’ultima candidatura di Lula, che mostrano un ruggente combattente di sinistra che fa campagna nei quartieri poveri e saluta folle estasiate da un’auto scoperta. Sono scene sconosciute agli elettori statunitensi del nostro tempo. Per molti progressisti, sembrano la versione migliore della politica.

 

La detenzione di Lula ha rafforzato il suo rapporto a distanza con i legislatori di sinistra di Washington, che hanno sposato la sua causa. Sanders ha guidato lo sforzo, chiedendo ripetutamente il rilascio di Lula durante la sua campagna presidenziale. Dopo il suo rilascio, il politico brasiliano ha ringraziato Sanders.

 

“Spero che i lavoratori americani ti facciano diventare presidente degli Stati Uniti”, ha scritto Lula a Sanders su Twitter.

 

Nella foto il presidente della Commissione Salute, Istruzione, Lavoro e Pensioni del Senato, Bernie Sanders, I-Vt.

Il ruolo principale del senatore Bernie Sanders è quello di presiedere il Comitato per la salute, l’istruzione, il lavoro e le pensioni del Senato, una carica potente che si concentra sull’economia degli Stati Uniti. | J. Scott Applewhite/AP Photo

 

Quest’anno ha continuato a esprimere gratitudine a Washington, incontrando Sanders e ringraziando lui e altri progressisti per il loro sostegno. Quando Lula si è riunito con i leader sindacali, è stato effusivo. “Voleva ringraziare il movimento sindacale per essere al suo fianco”, ha detto Randi Weingarten, presidente della Federazione americana degli insegnanti.

 

Anche con i dirigenti sindacali, Lula ha sollecitato una mobilitazione transnazionale. Ha fatto pressione su di loro affinché conducano una “lotta per i lavoratori e per sollevare le loro aspirazioni economiche, i loro salari di sussistenza”, oltre a proteggere l’Amazzonia, ha detto Weingarten.

 

Nel suo incontro con i progressisti del Congresso, Khanna ha detto che Lula ha descritto una certa forma di politica progressista – incentrata sull’avanzamento economico della classe operaia e sulla lotta al cambiamento climatico – come l’antidoto allo stato di disperazione che alimenta le politiche autoritarie.

 

“Una delle intuizioni interessanti che ha avuto è che c’è un movimento, non solo in Brasile ma in tutto il mondo, di antipolitica”, ha detto Khanna, “e che le persone hanno perso la fiducia nell’organizzazione e nell’attività politica, e si sono bevute il racconto che tutto è corrotto, tutto è rotto e la politica non conta”.

 

La soluzione, secondo Lula, è una “politica di speranza e di aspirazioni” che dia agli elettori la fiducia “di poter migliorare le condizioni economiche della gente”, ha detto Khanna.

 

Per certi versi, questo sembra un personaggio molto vicino a noi: Joe Biden.

 

Il Presidente degli Stati Uniti e Lula hanno profonde divergenze politiche, soprattutto sull’Ucraina. Per ora, hanno messo a tacere le loro differenze per presentare un fronte unito contro le forze autocratiche e insurrezionali locali. Alla Casa Bianca, ciascuno ha salutato l’altro come un campione della democrazia.

 

Quando ho contattato il portavoce di Lula, José Crispiniano, in merito ai suoi incontri a Washington, ha condiviso una dichiarazione che sottolinea l’ammirazione di Lula per Biden: “È rimasto colpito e soddisfatto dell’impegno del Presidente Biden nei confronti dei sindacati e dei lavoratori”. Ha rifiutato di commentare le osservazioni di Lula sulla costruzione della sinistra globale.

 

Manifestanti, sostenitori dell’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro, prendono d’assalto l’edificio del Congresso nazionale a Brasilia, in Brasile.

CASA BIANCA

 

L’amministrazione Biden condanna l’assalto agli edifici governativi della capitale brasiliana

DI OLIVIA OLANDER E NAHAL TOOSI

Biden e Lula sono simili per un altro aspetto importante. Sono entrambi leader nazionali di lunga data che hanno portato alla vittoria coalizioni di centro-sinistra, in parte perché hanno saputo resistere agli attacchi della destra che avrebbero potuto abbattere qualsiasi candidato meno familiare agli elettori.

 

Il ministro delle Finanze brasiliano, Fernando Haddad, che ha raggiunto Lula a Washington, lo ha fatto notare ai progressisti del Congresso. “Ha detto che nessun altro oltre a Lula avrebbe potuto vincere”, ha detto Khanna. Secondo Haddad, solo Lula era in grado di superare la valanga di bile e disinformazione diretta contro la sua candidatura.

 

In nessuno dei due Paesi è garantito che un messaggio di sinistra o di centro-sinistra possa avere successo con un altro messaggero.

 

Anche questo è un monito e una sfida per i progressisti.

https://www.politico.com/news/magazine/2023/04/13/lula-global-battle-against-trumpism-00091794?utm_source=substack&utm_medium=email

L’ultima guerra ibrida contro il Brasile è condotta da forze dichiaratamente pro-Lula

 

ANDREW KORYBKO

4 MAR 2023

 

La seconda guerra ibrida in Brasile è in realtà il risultato di una lotta di potere non dichiarata all’interno del partito, iniziata dai sostenitori del “Nuovo Lula” contro la base di sostenitori del partito che pensano ancora che sia il “Vecchio Lula”, il cui esito determinerà la traiettoria del Brasile nella Nuova Guerra Fredda. Continuerà a muoversi in una direzione allineata con gli Stati Uniti in mezzo all’imminente triforcazione delle relazioni internazionali o si ricalibrerà più vicino all’Intesa sino-russa e/o al Sud globale.

 

Chiarire il significato di guerra ibrida

 

La prima guerra ibrida in Brasile è stata condotta dagli oppositori del Presidente Lula per effettuare un cambio di regime contro il suo Partito dei Lavoratori (PT), il che rende l’ultima guerra ibrida in Brasile ancora più intrigante, poiché è condotta da forze apparentemente pro-Lula per rafforzare il regime. Prima di procedere, è necessario un chiarimento sulla terminologia precedente, per evitare qualsiasi malinteso sul modo in cui viene descritto lo stato attuale delle cose.

 

Per Guerra Ibrida si intende la manipolazione non convenzionale dei processi socio-politici di uno Stato preso di mira per far avanzare l’agenda degli operatori. Per quanto riguarda la parola “regime” nei termini “cambio di regime” e “rafforzamento del regime”, essa si riferisce semplicemente al governo e non viene utilizzata nel modo in cui i propagandisti occidentali l’hanno usata per delegittimare le autorità. Tenendo conto di ciò, l’osservazione che ci sono due guerre ibride in Brasile ha più senso.

 

La prima e la seconda guerra ibrida contro il Brasile

 

La prima è stata orchestrata dagli Stati Uniti con l'”Operazione Autolavaggio” per rimuovere il PT attraverso un colpo di Stato post-moderno guidato dalle forze dell’ordine, come punizione per la politica estera relativamente più multipolare dell’epoca. La seconda, invece, è condotta su prerogativa indipendente di forze apparentemente pro-Lula, al fine di manipolare le percezioni della base del PT sulla politica estera di Lula, relativamente più allineata agli Stati Uniti, durante il suo terzo mandato, in modo da scongiurare preventivamente il dissenso interno.

 

La prima guerra ibrida contro il Brasile si è basata su presunte rivelazioni anti-corruzione per mettere in moto la dimensione “lawfare” del processo di cambio di regime, che ha poi catalizzato una combinazione di proteste organizzate indipendentemente contro il PT e di quelle organizzate da agenzie di intelligence straniere mascherate da “ONG”. Al contrario, la seconda guerra ibrida contro il Brasile si basa esclusivamente su teorie del complotto armate per impedire alla base del PT di protestare contro Lula.

 

La realtà dell’approccio di Lula alla guerra per procura tra NATO e Russia

 

“Lula ha chiarito nella sua telefonata con Zelensky che è contrario all’operazione speciale della Russia”, che ha fatto seguito al voto del Brasile a sostegno di una risoluzione ONU anti-russa, che a sua volta è arrivata poco dopo che lui stesso aveva condannato l’operazione speciale della Russia nella sua dichiarazione congiunta con Biden all’inizio di febbraio. Invece di rimanere neutrale nei confronti del conflitto ucraino, astenendosi come hanno fatto i suoi colleghi BRICS, ha ordinato ai suoi diplomatici di allinearsi apertamente con gli Stati Uniti su questa delicata questione.

 

“La visione multipolare ricalibrata di Lula lo rende favorevole ai grandi interessi strategici degli Stati Uniti”, come spiegato nella precedente analisi ipertestuale e dimostrato dalla sua politica nei confronti della guerra per procura tra NATO e Russia in Ucraina. I lettori possono saperne di più esaminando le opere citate in questo pezzo. Il punto è che la sua politica nei confronti di questo conflitto non è quella che si aspettava la base del PT, che sperava che avrebbe invertito la posizione del suo predecessore Bolsonaro di votare contro la Russia alle Nazioni Unite, astenendosi invece.

 

Alla fine è successo l’esatto contrario: Lula ha ribaltato la posizione relativamente più neutrale del suo predecessore nei confronti della guerra per procura tra NATO e Russia, condannando senza precedenti la Russia nella sua dichiarazione congiunta con Biden, cosa che Bolsonaro non ha fatto dopo il suo incontro con il leader statunitense la scorsa estate. Ogni pretesa di neutralità che il Brasile avrebbe potuto tentare di invocare nei confronti di questo conflitto è stata screditata dal momento che Lula ha deciso di andare contro la tendenza dei BRICS diventando il primo leader a condannare ufficialmente la Russia.

 

La teoria del complotto sulla presunta posizione “segreta” di Lula

 

Il suo approccio indiscutibilmente allineato agli Stati Uniti nei confronti del conflitto geostrategicamente più trasformativo dalla Seconda Guerra Mondiale ha turbato molti tra la base del PT, soprattutto perché ha sollevato preoccupazioni su tutto ciò che questa posizione potrebbe comportare. Ad esempio, suggerisce che nell’imminente triforcazione delle relazioni internazionali tra il Miliardo d’oro dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti, l’Intesa sino-russa e il Sud globale guidato informalmente dall’India, il Brasile si allineerà molto più vicino al blocco statunitense che agli altri due.

 

Al fine di evitare preventivamente il dissenso interno tra i suoi ranghi, sia che si esprima attraverso il cyberspazio sotto forma di critiche sui social media, sia che si esprima nelle strade sotto forma di proteste, le forze dichiaratamente pro-Lula hanno elaborato una teoria del complotto sulla sua posizione. Nonostante i fatti oggettivamente esistenti e facilmente verificabili, insistono sul fatto che Lula sostiene “segretamente” l’operazione speciale della Russia e che tutte le mosse pubbliche che lo riguardano sono solo un suo gioco di “scacchi 5D”.

 

Questa teoria del complotto è fondamentalmente un’imitazione brasiliana di quella messa in giro dal famigerato QAnon, secondo il quale ogni mossa fatta pubblicamente da Trump nella direzione opposta alle aspettative della sua base era solo un suo presunto gioco di “scacchi a 5D” per “psicologizzare” i suoi avversari, ma che “solo loro” e non i loro rivali “conoscono la verità”. Entrambi sono avulsi dalla realtà, sono stati inventati solo per evitare preventivamente il dissenso interno tra le file dei loro sostenitori e funzionano essenzialmente come “religioni secolari”.

 

Quest’ultima caratterizzazione è più azzeccata di quanto gli osservatori possano inizialmente pensare. Proprio come la base del Movimento MAGA era così disperata da credere che il suo “eroe” Trump fosse il suo “salvatore” che avrebbe invertito tutte le politiche odiate del suo predecessore Obama, così anche la base del PT è così disperata da credere che il suo “eroe” Lula sia il suo “salvatore” che invertirà tutte le politiche odiate del suo predecessore Bolsonaro.

 

In realtà, Trump ha finito per diventare il presidente più duro nei confronti della Russia sin dalla vecchia guerra fredda, prima della nuova guerra fredda in corso, che ha raggiunto la sua ultima fase sotto Biden dopo l’inizio dell’operazione speciale di Mosca. Quanto a Lula, ha abbandonato la posizione relativamente più neutrale di Bolsonaro nei confronti della guerra per procura tra NATO e Russia, condannando senza precedenti la Russia nella sua dichiarazione congiunta con Biden e diventando così il primo leader dei BRICS a farlo. Entrambi hanno finito per deludere le loro basi sulla Russia.

 

Il complotto per prevenire disperatamente il dissenso interno al PT

 

Per essere assolutamente chiari, non è realistico immaginare che la base del Movimento MAGA avrebbe protestato contro la politica ostile di Trump nei confronti della Russia se non fosse stata ingannata dalla teoria cospirativa degli “scacchi 5D” di QAnon, né avrebbe fatto alcuna differenza se lo avesse fatto. La base del PT è molto più consapevole e attiva dal punto di vista politico, quindi c’è la possibilità che alcuni protestino contro la politica ostile di Lula nei confronti della Russia, e questo potrebbe fare la differenza.

 

Anche se il loro dissenso interno rimane nell’ambito del cyberspazio, potrebbe comunque avere un impatto notevole sul ridisegno della percezione di Lula e della politica estera di questo terzo mandato, che potrebbe quindi cambiare le dinamiche interne al partito nel lungo periodo. Coloro che hanno architettato la teoria del complotto sulla sua posizione nei confronti della Russia, l’hanno armata contro la base del PT e impiegano aggressivamente attacchi tossici ad hominem contro chiunque li verifichi, vogliono disperatamente evitare questi due scenari.

 

Stanno letteralmente conducendo una guerra ibrida non solo contro lo stesso partito che dicono di sostenere, ma contro tutti i brasiliani attraverso i mezzi non convenzionali con cui mirano a manipolare i processi socio-politici del Paese attraverso la campagna di disinformazione appena descritta. Sebbene non si possa escludere che elementi di alto livello del PT abbiano incoraggiato o orchestrato questi ultimi sviluppi, questo non si può sapere con certezza e rimane quindi una pura speculazione.

 

Prove inconfutabili dell’esistenza della seconda guerra ibrida contro il Brasile

 

Tuttavia, l’esistenza di questa seconda guerra ibrida contro il Brasile non può essere negata da nessun osservatore onesto, poiché è indiscutibile che questa teoria cospirativa armata stia circolando in modo virale in tutto l’ecosistema informativo del Paese. Ecco tre esempi di oggi, che sono stati riciclati da “utili idioti” che hanno creduto a questa disinformazione sull’approccio di Lula alla guerra per procura tra NATO e Russia, oppure deliberatamente spinti da persone che intendevano consapevolmente fuorviare il loro pubblico.

 

Anche una setta nota come “Partito della Causa dei Lavoratori” (“PCO”, secondo l’abbreviazione portoghese) ha assunto questa teoria del complotto come causa principale, nel tentativo di reclutare nuovi membri e di accattivarsi il favore delle élite del PT, senza che nessuno dei due obiettivi sia garantito. Il punto è che la guerra ibrida descritta nel presente articolo, alimentata dal disperato desiderio politico di scongiurare preventivamente il dissenso interno alla base del PT, è attivamente condotta contro i brasiliani in questo momento.

 

Per ricordare al lettore che questo processo può essere tranquillamente descritto come una guerra ibrida, poiché si tratta di mezzi non convenzionali per manipolare i processi socio-politici dello Stato preso di mira al fine di portare avanti l’agenda degli operatori, che è stata appena riassunta sopra. A differenza della prima guerra ibrida contro il Brasile, non è orchestrata da alcun soggetto esterno, non mira a provocare proteste e non ha l’intenzione di promuovere un cambio di regime contro il PT.

 

“Sostenitori del “nuovo Lula” e sostenitori del “vecchio Lula

 

Piuttosto, questa seconda guerra ibrida contro il Brasile viene condotta sulla base di una prerogativa indipendente delle forze apparentemente pro-Lula (presumendo che non siano coinvolte figure di alto livello del PT) per scongiurare preventivamente il dissenso interno alla base del PT (compreso quello che potrebbe assumere la forma di proteste) a fini di rafforzamento del regime. Il motivo per cui questi agenti sono descritti come solo apparentemente a favore di Lula è che chi lo sostiene sinceramente non sentirebbe il bisogno di mentire sulle sue posizioni.

 

Un vero credente aspirerebbe sempre ad articolare accuratamente le sue politiche, anche quelle con cui potrebbe non essere d’accordo, invece di manipolare le percezioni degli altri su di esse, per non parlare di quelle della base del PT. Opinioni contrarie espresse in modo responsabile, attraverso critiche costruttive come quelle contenute nel presente articolo, potrebbero portare a cambiamenti significativi per il meglio o, almeno, a modellare in qualche modo i parametri per dibattiti a lungo attesi su questioni delicate come l’approccio “politicamente scomodo” di Lula alla guerra per procura tra NATO e Russia.

 

Ciò che invece sta accadendo è che gli opportunisti politici (sempre supponendo che non siano coinvolte figure d’élite del partito al potere) stanno impedendo che ciò accada per paura che i processi socio-politici risultanti all’interno del PT possano alla fine portare a ricalibrare la politica estera di Lula. Essi sostengono davvero il “Nuovo Lula”, incarnato dal suo approccio relativamente più allineato agli Stati Uniti durante il suo terzo mandato, in contrapposizione al “Vecchio Lula” che la maggior parte della base del PT apparentemente pensa ancora che sia.

 

Riconcettualizzare la seconda guerra ibrida contro il Brasile

 

Questa intuizione (a prescindere dalle speculazioni sul coinvolgimento di figure di alto livello del PT in quest’ultima guerra ibrida) consente agli osservatori di riconcepire il tutto come una lotta di potere interna al PT volta a manipolare la base del partito affinché ignori le prove inconfutabili che la sua visione del mondo è cambiata. Ciò di cui questi operatori non si rendono conto è che anche la consapevolezza di questa spiacevole realtà da parte della sua base non li porterebbe ad abbandonare il sostegno a Lula, poiché il loro feroce odio per Bolsonaro lo rende impossibile.

 

In questo senso, si può quindi affermare che le forze che stanno dietro a questa ultima guerra ibrida al Brasile sono pro-Lula nel senso che sostengono il “Nuovo Lula”, mentre la base del PT è anch’essa pro-Lula, ma soprattutto perché sostiene il “Vecchio Lula”. La seconda maggioranza dei suoi sostenitori non lo abbandonerebbe di certo per Bolsonaro o per chiunque altro anche se venisse a sapere che la sua visione del mondo è cambiata, ma potrebbe comunque cercare di fargli pressione per ricalibrare la sua politica estera più vicina alle loro aspettative.

 

Osservazioni oggettive

 

Da un punto di vista esterno, i sostenitori del “Nuovo Lula” che si armano di teorie cospirative sul suo approccio alla guerra per procura tra NATO e Russia sembrano avere la coscienza sporca, poiché si aspettano che la base del PT rifiuti questa politica, e quindi mentono per nasconderla. Quello che avrebbero dovuto fare è articolare la sua nuova visione del mondo e soprattutto la sua posizione nei confronti di questa delicata questione, avviando così un dibattito relativamente controllato all’interno del PT su tutto questo.

 

Conducendo una guerra ibrida guidata dalla disinformazione sui loro compagni di partito in particolare e sul resto dei loro compatrioti in generale, questi sostenitori del “Nuovo Lula” stanno facendo un gioco di potere per il controllo del PT, che a sua volta può essere descritto come un gioco di potere per il controllo della politica estera del Brasile. Sanno di essere in minoranza e che la maggioranza della base del PT rifiuterebbe la direzione allineata agli Stati Uniti in cui Lula sta portando il Paese, ergo perché stanno ricorrendo alla guerra ibrida per mantenere il loro potere.

 

Questa osservazione dà credito a quella che al momento è una pura speculazione sulla complicità di alti membri del partito nell’ultima guerra ibrida contro il Brasile, che appare probabile se si concettualizzano le dinamiche socio-politiche analizzate – soprattutto quelle interne al PT – in questo modo. Le loro teorie cospirative vengono utilizzate non per rafforzare il regime in sé, poiché la base del PT non abbandonerà mai Lula, ma specificamente per rafforzare il controllo di questa minoranza ideologica sul partito.

 

Riflessioni conclusive

 

Alla luce di ciò, la seconda guerra ibrida in Brasile è in realtà il risultato di una lotta di potere non dichiarata all’interno del PT, iniziata dai sostenitori del “Nuovo Lula” contro la base dei sostenitori del partito che lo ritengono ancora il “Vecchio Lula”, il cui esito determinerà la traiettoria del Brasile nella Nuova Guerra Fredda. Continuerà a muoversi in una direzione allineata con gli Stati Uniti in mezzo all’imminente triforcazione delle relazioni internazionali o si ricalibrerà più vicino all’Intesa sino-russa e/o al Sud globale.

https://korybko.substack.com/p/the-latest-hybrid-war-on-brazil-is?utm_source=substack&utm_medium=email

La restaurazione della politica estera brasiliana

Come Lula può recuperare il tempo perduto

Di Hussein Kalout e Feliciano Guimarães

15 marzo 2023

Il Presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva a Brasilia, marzo 2023

Il Presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva a Brasilia, marzo 2023

Adriano Machado / Reuters

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Il trionfo di Luiz Inácio Lula da Silva, noto come Lula, alle elezioni presidenziali brasiliane del 2022 ha segnato niente meno che il salvataggio della democrazia del Paese. La presidenza del suo predecessore, Jair Bolsonaro, aveva indebolito i pilastri fondamentali del sistema brasiliano: lo Stato di diritto e la coesione delle istituzioni statali, il consolidamento democratico raggiunto da quando il Paese è uscito nel 1988 da decenni di dittatura militare. In effetti, la vittoria di Lula ha rappresentato una rinascita della democrazia e un rifiuto dell’autoritarismo atavico.

 

Il 77enne presidente brasiliano ha ora iniziato il suo terzo mandato (due mandati tra il 2003 e il 2010). Deve affrontare sfide importanti su tutti i fronti. Come negli Stati Uniti, il Paese è polarizzato e molti sostenitori di Bolsonaro si rifiutano di accettare il risultato delle elezioni, una convinzione rabbiosa che ha portato a rivolte nella capitale Brasilia a gennaio. Il Brasile è cambiato dall’ultima volta che Lula è stato al potere e così anche il mondo. La politica estera di Lula deve tenere conto di un ordine internazionale che è più frammentato, competitivo e fragile di quanto non fosse due decenni fa.

 

Bolsonaro ha lasciato la politica estera del Brasile alla deriva. Quando ha lasciato il suo incarico, Brasilia non aveva ancora stabilito come posizionarsi nel contesto della crescente rivalità tra Cina e Stati Uniti. Aveva voltato le spalle a un’azione concertata nel suo cortile sudamericano. E grazie al negazionismo climatico di Bolsonaro e dei suoi luogotenenti, la sua politica ambientale era a pezzi.

 

Rimanete informati.

Analisi approfondite con cadenza settimanale.

Il governo di Lula deve ora raccogliere i cocci. I politici brasiliani hanno a lungo insistito sulla virtù di un ordine mondiale multipolare, ma questa insistenza sarà messa alla prova dall’ineluttabile competizione tra Cina e Stati Uniti, le due maggiori potenze mondiali. Lula deve tracciare una rotta tra questi due Paesi, che sono entrambi partner essenziali per il Brasile. Sulla scena globale, il Brasile può tornare a svolgere un ruolo chiave nello sforzo di contenere il cambiamento climatico, un progetto ampiamente abbandonato da Bolsonaro. E nel suo vicinato, il Brasile dovrebbe usare le sue dimensioni e il suo peso economico per contribuire a sostenere la stabilità e la prosperità della regione. Se Lula riuscirà a trovare un equilibrio tra idealismo e pragmatismo, potrà mettere il Brasile sulla strada per recuperare il prestigio e la rilevanza persi sotto il suo predecessore.

 

A PIEDI LA LINEA

Quando Lula è diventato presidente, nel 2003, Washington e Pechino non erano ancora rivali quasi alla pari. Gli Stati Uniti si comportavano ancora come l’unica superpotenza mondiale. Sebbene in rapida crescita, la Cina non chiedeva di essere riconosciuta alla stregua degli Stati Uniti. Né i responsabili politici brasiliani dovevano preoccuparsi di come le loro decisioni avrebbero potuto giocare contemporaneamente in Cina e negli Stati Uniti. Oggi, la competizione tra le grandi potenze ha invariabilmente influenzato gli interessi del Brasile in varie arene internazionali, anche in America Latina, dove i due Paesi si contendono l’influenza. La competizione tra Stati Uniti e Cina rappresenta una sfida enorme per il governo Lula nel breve periodo e per la politica estera brasiliana nel lungo periodo.

 

La politica estera della nuova amministrazione Lula dovrebbe basarsi soprattutto sul bilanciamento tra le potenze. Non può sperare di sostituire l’una con l’altra: entrambe sono indispensabili. Gli Stati Uniti sono il principale investitore del Brasile e la Cina il suo principale partner commerciale. Entrambi i Paesi sono ugualmente importanti per lo sviluppo tecnologico del Brasile. Ad esempio, per quanto riguarda i semiconduttori, sia la Cina che gli Stati Uniti vogliono aumentare i loro investimenti per espandere gli elementi della catena di fornitura dei chip in Brasile. L’amministrazione Lula non può permettersi di perdere nessuno di questi investimenti nel tentativo di reindustrializzare il Paese.

 

Il Brasile può recuperare il prestigio e la rilevanza che ha perso sotto Bolsonaro.

Certo, il Brasile è stato deluso dal comportamento degli Stati Uniti negli ultimi 20 anni. Da tempo i politici brasiliani ritengono che Washington abbia trascurato il loro Paese e, più in generale, l’America Latina, che riceve l’attenzione degli Stati Uniti solo quando una grande potenza straniera – oggi la Cina – cerca di estendere la propria influenza. Il Brasile e gli Stati Uniti si trovano ora ad affrontare due sfide importanti nelle loro relazioni bilaterali. In primo luogo, Brasilia e Washington devono identificare e poi definire le aree importanti in cui entrambi possono cooperare. In un incontro di febbraio a Washington, Lula e il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden hanno convenuto che entrambi i Paesi sono impegnati ad affrontare il cambiamento climatico e a difendere la democrazia. In secondo luogo, entrambe le parti devono avere una chiara percezione dei punti di disaccordo e di quelli che potrebbero sorgere in futuro. I diplomatici statunitensi, ad esempio, non sono riusciti a convincere il Brasile a sostenere apertamente l’Ucraina nella sua guerra con la Russia, un conflitto di cui il Brasile non vuole far parte. Brasilia e Washington possono istituire un gruppo di lavoro permanente per mitigare questi punti di attrito e, a poco a poco, smussare le potenziali tensioni. Ovviamente, i diplomatici non saranno in grado di risolvere ogni questione. Non ci si può aspettare che Paesi delle dimensioni del Brasile e degli Stati Uniti siano d’accordo su ogni aspetto dell’ordine internazionale e regionale.

 

Il Brasile deve evitare alleanze rigide e abbracciare partenariati più flessibili, in linea con l’idea che l’ordine internazionale sta diventando sempre più multipolare. In alcuni casi, il Brasile guadagnerà di più lavorando con i Paesi del Nord globale. Entro la metà di quest’anno, Lula cercherà di finalizzare l’accordo di libero scambio tra l’Unione Europea e i Paesi del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay). L’amministrazione di Lula potrebbe anche prendere in considerazione l’adesione all’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, un piano avviato dai suoi predecessori ma deriso da settori della sinistra brasiliana. In altri casi, tuttavia, il Brasile cercherà partnership più adatte nel Sud globale. La Cina ha segnalato, ad esempio, il suo interesse a firmare un accordo commerciale con il Mercosur.

 

La guerra in Ucraina ha messo il Brasile in una posizione difficile. Non può non condannare l’invasione russa, né opporsi completamente alla Russia, suo partner in iniziative come il gruppo BRICS (che riunisce Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Lula ha ventilato l’idea che un gruppo di Paesi non allineati, tra cui il Brasile, potrebbe contribuire a portare le due parti in conflitto al tavolo delle trattative e a porre fine alla guerra. Una cosa è avere una posizione sulla guerra a livello multilaterale e un’altra è cercare di mediare un conflitto molto intricato, in cui il Brasile ha una capacità limitata di influenzare gli eventi sul campo. Le innegabili qualità di negoziatore di Lula potrebbero scontrarsi con i duri limiti dell’incompatibilità degli interessi russi e ucraini.

 

Nei forum multilaterali, come il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il Brasile aspira ad assumere nuove responsabilità in materia di sicurezza globale. Sotto la guida di Lula, non dovrebbe deviare dai principi fondamentali della sua politica estera, tra cui l’impegno per la risoluzione pacifica delle controversie, il diritto internazionale, il multilateralismo e i diritti umani. A livello più ampio, i funzionari brasiliani hanno chiesto che le organizzazioni internazionali, in particolare il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, affrontino meglio le minacce alla pace, così come le pandemie, le crisi dei rifugiati, le guerre commerciali, la sicurezza informatica, l’insicurezza alimentare e, soprattutto, i cambiamenti climatici.

 

POTERE CLIMATICO

Sotto Bolsonaro, il Brasile ha abbandonato la sua posizione di attore principale nell’affrontare la crisi climatica. Lula spera di raddrizzare la situazione e di riconquistare il rilievo che il Brasile aveva e il ruolo di leadership nella lotta al cambiamento climatico prima della presidenza di Bolsonaro.

 

Le foreste amazzoniche brasiliane, secondo il luogo comune, sono “i polmoni della Terra”, assorbono enormi quantità di anidride carbonica ed espirano ossigeno. Eppure queste foreste sono sotto pressione, minacciate da allevatori, agricoltori e minatori. La lotta alla deforestazione in Brasile è di interesse mondiale. Il governo di Lula, a differenza di quello di Bolsonaro, probabilmente applicherà le severe leggi esistenti volte a proteggere l’Amazzonia. Ma al di là dell’applicazione delle protezioni legali, la società brasiliana deve comprendere meglio il valore e lo scopo della conservazione della foresta. Per raggiungere questo obiettivo sociale più ampio, lo Stato deve incoraggiare gli sforzi per sviluppare bioindustrie in Amazzonia che sfruttino le sue risorse senza portare alla deforestazione – come la coltivazione delle bacche di acai – e dare potere alle comunità locali e ai gruppi indigeni. In questo modo, la nuova amministrazione Lula ritiene di poter affrontare la crisi climatica nel modo più efficiente possibile.

 

Purtroppo, i necessari investimenti pubblici e privati in scienza, tecnologia e innovazione per realizzare questa iniziativa sono ancora molto al di sotto di quanto necessario. Il Brasile e i suoi vicini amazzonici devono approfittare degli impegni assunti da tutti i firmatari dell’Accordo di Parigi per cercare finanziamenti sufficienti e tecnologie verdi. A tal fine, il governo Lula spera di dare nuovo impulso all’Organizzazione del Trattato di Cooperazione Amazzonica, un forum multilaterale con sede a Brasilia che promuove lo sviluppo sostenibile nel bacino amazzonico, ma che non è mai stato pienamente utilizzato dalla sua creazione nel 1995. Il Brasile potrebbe portare la sua politica climatica a un nuovo livello creando un’iniziativa multilaterale che potrebbe chiamarsi Forum mondiale dell’Amazzonia, una sede per riunire tutti i Paesi e gli attori politici interessati a garantire l’Amazzonia per le generazioni future.

 

ESSERE UN BUON VICINO

In questo contesto, il Brasile deve raddoppiare gli sforzi nel proprio cortile, in Sud America, il suo spazio d’azione naturale. Un Brasile disinteressato al Sudamerica, come è stato durante l’amministrazione di Bolsonaro, non fa che approfondire i possibili problemi. Impegnarsi nel dialogo con democrazie fragili e imperfette, e persino con Stati autocratici come il Venezuela, è meglio che ostracizzarli. Isolare questi attori porta solo alla rinascita dell’autoritarismo e genera instabilità politica e sociale.

 

Tuttavia, il Brasile deve stabilire come vuole esercitare la sua leadership e promuovere lo sviluppo nella regione. Bolsonaro ha trattato il Sudamerica come un ostacolo al futuro del suo Paese. Lula deve cercare un nuovo approccio al Sud America, riconoscendo che il suo Paese può guidare l’integrazione della regione. Il Brasile può offrire ai Paesi del Sudamerica vantaggi che nessun altro Stato sudamericano può offrire: un grande mercato di consumo, la capacità finanziaria della sua banca nazionale di sviluppo, la cooperazione su questioni di sicurezza più ampie e il peso diplomatico.

 

Per poter proiettare il proprio potere e conservare la propria influenza, il Brasile dovrà fare delle concessioni. La leadership regionale ha un costo. Queste concessioni, per la maggior parte, sono di natura economica e potrebbero danneggiare gli interessi di alcuni settori economici brasiliani. L’apertura del mercato interno a particolari esportazioni dai vicini, come le banane dall’Ecuador o i prodotti tessili dal Perù, potrebbe segnalare la volontà del Paese di pagare il prezzo della leadership. Se il Brasile non offre ai suoi vicini ulteriori incentivi per integrare le loro economie con il mercato brasiliano, il governo Lula corre il rischio di vedere potenze esterne alla regione prendere il controllo delle catene di approvvigionamento e interrompere ulteriormente l’integrazione sudamericana.

 

IL BRASILE È TORNATO

Naturalmente, quando tutto è una priorità, niente è una priorità. Il nuovo governo Lula deve stabilire come incanalare le proprie energie e risorse verso le iniziative giuste. La politica estera è una politica pubblica e, in quanto tale, deve rappresentare le richieste dei brasiliani e soddisfare le loro esigenze più pressanti. La priorità numero uno del Brasile è quella di ridurre la vergognosa disuguaglianza; come misurato dal coefficiente Gini, il Paese è uno dei più disuguali al mondo. La politica estera del Brasile dovrebbe guidare tutte le sue iniziative verso questo obiettivo essenziale, concentrandosi sui temi della sicurezza alimentare, del cambiamento climatico, dell’agricoltura sostenibile, dell’integrazione regionale, dello sviluppo tecnologico e dell’accesso al mercato. Qualsiasi azione che si discosti da questo obiettivo fondamentale non dovrebbe essere considerata una priorità.

 

Dopo il tumulto degli anni di Bolsonaro, il Brasile può riaffermarsi come una forza preziosa sulla scena internazionale. Il mondo è cambiato dal primo mandato presidenziale di Lula e la politica estera del Brasile deve adattarsi alle sfide attuali e future. Lula ha ora la grande opportunità di costruire una nuova dottrina, coesa, credibile e innovativa. Il Brasile è tornato e può svolgere un ruolo positivo, persino indispensabile, nella regione e nel mondo.

https://www.foreignaffairs.com/south-america/restoration-brazilian-foreign-policy

In Focus: i commenti dell’Ucraina di Lula

Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva gesticola durante un evento al Palazzo Planalto di Brasilia il 20 aprile.

Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva gesticola durante un evento al Palazzo Planalto di Brasilia il 20 aprile. EVARISTO SA/AFP TRAMITE GETTY IMAGES

Mentre Lula ha cercato di posizionarsi come un arbitro neutrale e degno di fiducia per aiutare a mediare la fine della guerra della Russia in Ucraina, una serie di suoi commenti nei giorni scorsi ha suscitato aspre critiche da parte di funzionari statunitensi ed europei, che hanno accusato il presidente brasiliano di schierarsi dalla parte di Mosca .

Sabato a Pechino, Lula ha detto che gli Stati Uniti dovrebbero smetterla di “incoraggiare la guerra”; domenica, durante una sosta negli Emirati Arabi Uniti, ha affermato che la decisione di fare una guerra “è stata presa da due paesi”. Lunedì, il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov è arrivato in Brasile per un viaggio precedentemente programmato e ha affermato che Russia e Brasile hanno una “visione simile” della guerra.

I commenti di Lula sono stati “semplicemente fuorvianti”, ha detto lunedì il portavoce della sicurezza nazionale degli Stati Uniti John Kirby. Martedì, la portavoce della Casa Bianca Karine Jean-Pierre ha affermato che una conferenza stampa tenuta il giorno precedente dal ministero degli Esteri brasiliano sulla guerra non presentava “un tono di neutralità”.

In Europa, i funzionari hanno criticato pubblicamente i commenti e, secondo quanto riferito , un briefing interno dell’UE ha espresso preoccupazione per la posizione del Brasile sull’Ucraina. Martedì il ministero degli Esteri ucraino ha affermato che “l’approccio che mette sullo stesso piano vittima e aggressore” non è “in linea con la reale situazione” e ha invitato Lula a visitare il Paese.

Martedì Lula aveva rilasciato una nuova dichiarazione in cui condannava “la violazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina” e mercoledì il suo consigliere per gli affari esteri Celso Amorim ha discusso della guerra con il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan, dove c’è stata una “franca discussione in un tentativo di chiarire i malintesi”, ha riferito Bloomberg .

Sullivan e Jean-Pierre hanno affermato che il rapporto Brasile-USA è rimasto forte, ma i commentatori hanno concordato in modo schiacciante che il Brasile ha bruciato parte della benevolenza occidentale di cui godeva inizialmente dopo l’insediamento di Lula a gennaio. Il Brasile dovrebbe assumere “impegni reali nei confronti delle democrazie liberali che hanno contribuito a sconfiggere il golpe di Bolsonaro”, ha twittato il giornalista brasiliano João Paulo Charleaux . “È necessario prendere posizione nelle relazioni internazionali”.

Catherine Osborn è la scrittrice del settimanale Latin America Brief di Foreign Policy . È una giornalista di stampa e radio con sede a Rio de Janeiro. Twitter:  @cculbertosborn

Il Brasile corteggia la Cina per rafforzare i legami tecnologici

Lula crede che Pechino possa aiutare, non ostacolare, le ambizioni industriali di Brasilia.

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Di Catherine Osborn , autrice del settimanale Latin America Brief di Foreign Policy .

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Il ministro delle finanze brasiliano Fernando Haddad parla durante una conferenza stampa presso l’ambasciata brasiliana a Pechino il 14 aprile.

Il ministro delle finanze brasiliano Fernando Haddad parla durante una conferenza stampa presso l’ambasciata brasiliana a Pechino il 14 aprile. TINGSHU WANG-POOL/GETTY IMAGES

21 APRILE 2023, 8:00

Bentornati al  Latin America Brief di Foreign Policy .

I punti salienti di questa settimana: esaminiamo gli alti e bassi del recente viaggio in Cina del presidente brasiliano Lula, compresi i suoi commenti su tutto, dal commercio alla guerra in Ucraina, e incontriamo una rivoluzionaria pop star cilena palestinese .

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Il legame Pechino-Brasilia

La megadelegazione brasiliana che si è recata in Cina la scorsa settimana comprendeva una sfilza di uomini d’affari, sette ministri, cinque governatori statali, 27 legislatori e, naturalmente, il presidente Luiz Inácio Lula da Silva. Mentre i commenti di Lula sulla guerra in Ucraina hanno forse ricevuto la maggior copertura sulla stampa occidentale (ne parleremo più avanti in “In Focus”), il viaggio ha anche ripristinato le relazioni del suo governo con il suo più grande partner commerciale. A Pechino, Brasile e Cina hanno firmato una serie di memorandum e accordi che secondo i funzionari valgono circa 10 miliardi di dollari.

Lula ha molta esperienza nel trattare con la Cina e si è avvicinato al paese durante le sue due precedenti amministrazioni presidenziali, dal 2003 al 2010. In quel periodo, i due paesi hanno firmato un accordo per essere partner strategici, hanno visto un aumento del commercio e degli investimenti bilaterali e co -ha fondato il gruppo BRICS insieme a Russia, India e Sud Africa.

A quel tempo, Lula ei suoi consiglieri celebravano i crescenti legami tra Brasile e Cina. Ma alcuni nelle comunità di politica estera ed economica del Brasile hanno anche iniziato a chiedersi se il Brasile fosse abbastanza attento nel suo commercio bilaterale con la Cina. La stampa fine dei vari accordi firmati la scorsa settimana suggerisce che le loro preoccupazioni hanno plasmato l’approccio del nuovo governo Lula a Pechino.

Durante il primo periodo in carica di Lula, la Cina aveva un appetito travolgente per le materie prime brasiliane come la soia, il minerale di ferro e il petrolio. Ma alcuni produttori di manufatti brasiliani hanno segnalato difficoltà a vendere sul mercato cinese. Nel frattempo, la quota manifatturiera del PIL brasiliano si stava riducendo rapidamente. Quando il ministero degli Esteri brasiliano ha pubblicato una raccolta di saggi sulle relazioni Brasile-Cina nel 2011, molti hanno discusso se le relazioni economiche con la Cina stessero contribuendo alla deindustrializzazione del Brasile.

Gli studiosi hanno avvertito che la deindustrializzazione prematura è rischiosa per i paesi in via di sviluppo. Molti paesi che sono passati da poveri a ricchi hanno prima costruito i loro settori manifatturieri e hanno iniziato a lasciarli indietro solo quando le persone sono migrate verso lavori altamente qualificati e ad alto salario in altri settori. (Il Brasile si è mosso lungo la prima parte di questo percorso dagli anni ’50 agli anni ’80, quando sono cresciuti settori come la lavorazione dei metalli, la produzione di automobili, la produzione tessile e la produzione di macchinari pesanti.)

Ma in alcune parti del mondo in via di sviluppo che vedono una deindustrializzazione prematura, come il Brasile, le persone spesso lasciano i settori industriali per lavori a bassa retribuzione e bassa produttività piuttosto che lavori con salari più alti. Ad esempio, un ex operaio potrebbe ora lavorare come cassiere, autista Uber o venditore ambulante. Un enorme 39% dei lavoratori brasiliani oggi lavora nel settore informale.

Un documento del 2022 dell’economista ed esperta di Cina Tatiana Rosito e Vinicius Mariano de Carvalho del Kings College di Londra, entrambi brasiliani, sostiene che mentre il Brasile e la Cina hanno mantenuto “un’agenda complementare di successo”, i dati commerciali degli ultimi due decenni mostrano che il Brasile “non è stato in grado di diversificare in modo significativo le sue esportazioni” verso la Cina.

Rosito ha ora un’opportunità privilegiata per cambiare rotta: lei e altri che hanno chiamato a perfezionare la strategia del Brasile nei confronti di Pechino sono stati nominati a posizioni di rilievo nella nuova amministrazione Lula.

Tra i volti nuovi di Brasilia c’è Tatiana Prazeres, segretaria per il commercio estero del Ministero dello Sviluppo, Industria, Commercio e Servizi del Brasile. Prazeres ha detto a Foreign Policy che la nuova amministrazione sta cercando competenze e investimenti cinesi in Brasile che possano promuovere “una neo-industrializzazione del Paese” incentrata sulle tecnologie verdi e altri settori ad alta tecnologia. Ha definito queste le “industrie del futuro”.

Il Brasile è stato il maggior destinatario di investimenti diretti esteri cinesi nel 2021, secondo un rapporto del China-Brazil Business Council . Tra il 2007 e il 2021, il gruppo ha calcolato che gli investimenti cinesi in Brasile sono andati principalmente nei settori dell’elettricità e del petrolio, e i due paesi stanno pianificando un fondo di investimento congiunto per l’energia verde.

Uno dei memorandum firmati la scorsa settimana si impegna a facilitare progetti che includono trasferimenti di tecnologia; separatamente, sono stati annunciati accordi che includono un impianto di idrogeno verde, progetti eolici offshore e l’ultima fase di un programma satellitare prodotto congiuntamente, nonché un impegno per facilitare le start-up brasiliane a commercializzare i loro prodotti in Cina e un piano per creare un binazionale azienda di logistica agricola.

Molte delle idee annunciate “sono ancora intenzioni” piuttosto che piani concreti, come ha detto a Foreign Policy l’economista Paulo Morceiro dell’Università di Johannesburg , “ma è generalmente positivo”. Ha detto che il Brasile dovrebbe trarre vantaggio dal fatto che ha molti dei minerali critici necessari per la transizione energetica, “e la Cina ha la tecnologia”.

Tuttavia, i frequenti discorsi dell’amministrazione Lula sulle nuove politiche industriali – in collaborazione o meno con la Cina – innervosiscono alcuni economisti. Tali politiche sono molto difficili da calibrare con successo, ha dichiarato a Foreign Policy l’economista Emanuel Ornelas della Fondazione Getúlio Vargas Ha detto che l’attuale discorso sulla politica industriale gli dà “un po’ di pelle d’oca” e ha aggiunto che la storia del Brasile è disseminata di politiche industriali fallite che hanno portato a industrie che sono state “protette per decenni e sono sopravvissute senza diventare competitive a livello internazionale”.

Indipendentemente da come Lula progetta le sue ultime politiche industriali, il governo non ha i soldi per lanciare i pacchetti di stimolo verde multimiliardari che vanno di moda negli Stati Uniti e in Europa. Quello che ha sono le materie prime, un mercato interno di 215 milioni di persone e, se si fa attenzione, la capacità di contrattare a livello internazionale.

https://foreignpolicy.com/2023/04/21/brazil-china-lula-xi-trade-lavrov-russia-ukraine/

 

La Cina fa sul serio! Il percorso verso una soluzione politica del conflitto Russia-Ucraina sta diventando più chiaro, di Wang Meng

La Cina fa sul serio! Il percorso verso una soluzione politica del conflitto Russia-Ucraina sta diventando più chiaro

Fonte: rete di osservatori

27-04-2023 16:02

[Testo/Osservatore Wang Hui, Zhang Jingjuan, Wang Meng Redattore/Feng Xue] Quando la crisi ucraina è stata ritardata e intensificata, una telefonata tra i leader di Cina e Ucraina ha attirato l’attenzione diffusa della comunità internazionale.

Il 26 aprile, il presidente Xi Jinping ha avuto una conversazione telefonica con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky su sua richiesta. Le due parti hanno scambiato opinioni sulle relazioni Cina-Ucraina e sulla crisi ucraina.

Lo stesso giorno, Zelensky ha anche emesso un decreto presidenziale che nomina Pavlo Riabikin nuovo ambasciatore ucraino in Cina.

“Ho avuto una lunga e sostanziale conversazione telefonica con il presidente cinese Xi Jinping. Credo che questa telefonata e la nomina dell’ambasciatore ucraino in Cina daranno un forte impulso allo sviluppo delle relazioni bilaterali”, ha scritto Zelensky su Twitter il 26.

Questa è la prima telefonata tra i leader di Cina e Ucraina da quando è scoppiato il conflitto tra Russia e Ucraina nel febbraio dello scorso anno. Dopo la chiamata, molti paesi hanno immediatamente espresso commenti positivi.

Il portavoce del ministero degli Esteri russo Zakharova ha affermato che la Russia ha notato che la Cina si sta preparando a stabilire un processo negoziale per risolvere il conflitto. La posizione di principio della Russia è sostanzialmente coerente con il documento di posizionamento della Cina pubblicato il 24 febbraio. “È una buona cosa.” John Kirby, coordinatore delle comunicazioni strategiche del Consiglio di sicurezza nazionale, ha affermato che gli Stati Uniti accolgono con favore gli sforzi di entrambe le parti per raggiungere una pace giusta “purché sia ​​sostenibile e credibile”.

Il presidente finlandese Niinisto ha twittato che questa era “una buona notizia”. “I colloqui Cina-Ucraina sono molto importanti. Tutti vogliono la pace. Sono contento che abbiano avuto questo colloquio”, ha dichiarato Josep Borrell, alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la sicurezza.

Il 26 aprile 2023, nella regione di Donetsk, Bahmut ha combattuto ferocemente con le truppe russe e dall’edificio si è alzato un denso fumo.

La Cina è seriamente intenzionata a promuovere i colloqui di pace

Observer.com ha notato che questa volta il presidente Xi ha avuto una telefonata con il presidente Zelensky “su appuntamento”.

“In una certa misura, questa telefonata è ragionevole.” Cui Hongjian, direttore dell’Istituto europeo del China Institute of International Studies, ha affermato che da un lato si tratta di un requisito inevitabile per lo sviluppo delle relazioni bilaterali; d’altra parte, questo è ciò per cui la Cina è disposta a spendersi. È una parte importante degli sforzi per promuovere una soluzione politica alla crisi ucraina.

Le relazioni Cina-Ucraina hanno attraversato 31 anni di sviluppo e hanno raggiunto il livello di partenariato strategico.

“Prima che scoppiasse la crisi, Cina e Ucraina avevano una buona base per la cooperazione economica e commerciale. Dopo lo scoppio della crisi, le relazioni sino-ucraine sono state effettivamente sottoposte a maggiori pressioni e alcuni paesi hanno cercato di sfruttare la crisi per indebolire le relazioni tra i due paesi. Tuttavia, dal contenuto della chiamata, il rapporto tra Cina e Ucraina rimane ancora molto stabile, la motivazione interna è ancora forte e la crisi non ha influenzato le relazioni bilaterali”, ha detto Cui Hongjian.

Crede che questa telefonata dimostri che la Cina è seriamente intenzionata a promuovere i colloqui di pace.

“Non solo abbiamo presentato la nostra posizione, ma abbiamo anche creato una buona atmosfera e condizioni attraverso la diplomazia del capo di stato, dimostrando che la Cina non pone la vicinanza e la distanza con altri paesi come priorità assoluta e non mette in secondo piano gli interessi comuni della comunità internazionale, come hanno inventato gli Stati Uniti. Invece, hanno sempre visto e affrontato la crisi ucraina da un punto di vista giusto e obiettivo. Questo è anche un potente contrattacco contro l’opinione pubblica statunitense e occidentale”.

Li Haidong, professore presso l’Istituto di relazioni internazionali della China Foreign Affairs University, ha affermato che la parte ucraina ha mostrato un desiderio più urgente e sincero che la Cina svolga un ruolo più attivo nel conflitto Russia-Ucraina.

“L’attuale situazione dell’Ucraina ha davvero bisogno di più attenzione e assistenza umanitaria da parte della comunità internazionale. Allo stesso tempo, l’Ucraina si è gradualmente resa conto che l’intenzione e lo scopo degli Stati Uniti e della NATO nell’aiutare l’Ucraina è in realtà quello di usare l’Ucraina come una pedina, consumando l’Ucraina consumando la Russia. Quindi l’Ucraina deve pensare in modo pragmatico alle strade per risolvere effettivamente la crisi”.

Li Haidong ha analizzato che è impossibile per l’Ucraina risolvere la crisi attraverso i canali della NATO e degli Stati Uniti. Anche la Russia ha difficoltà a inserirsi in questo canale. La Turchia è considerata un canale importante, ma l’effetto finale è limitato. Ora, quando si pensa ai modi per risolvere la crisi Russia-Ucraina, sempre più attenzione si concentra sulla Cina.

This handout picture taken and released by Ukrainian Presidential press-service in Kyiv on April 26, 2023 shows the President Volodymyr Zelensky talking by phone with the President of the People’s Republic of China. – Ukrainian President appointed a new ambassador to Beijing on April 26, 2023, after his first call with Chinese leader since Moscow’s invasion. (Photo by Handout / UKRAINIAN PRESIDENTIAL PRESS SERVICE / AFP) / RESTRICTED TO EDITORIAL USE – MANDATORY CREDIT “AFP PHOTO / UKRAINIAN PRESIDENTIAL PRESS SERVICE” – NO MARKETING NO ADVERTISING CAMPAIGNS – DISTRIBUTED AS A SERVICE TO CLIENTS

Fonte del presidente ucraino Zelensky: Visual China

Il pensiero razionale e le voci di tutte le parti stanno aumentando e il momento è un importante “periodo finestra”

Ora, le maggiori potenze del mondo sono coinvolte nel conflitto Russia-Ucraina a vari livelli. La Cina non è parte coinvolta del conflitto nella crisi Russia-Ucraina, ma non è rimasta a guardare e ha sempre compiuto sforzi attivi per promuovere una soluzione politica della crisi.

Il presidente Xi ha sottolineato durante la telefonata che non guarderemo l’incendio dall’altra parte, né aggiungeremo benzina sul fuoco, figuriamoci sfruttare l’opportunità di realizzare profitti.

Li Haidong ritiene che si possa dire che la Cina sia in una posizione migliore per risolvere politicamente la crisi Russia-Ucraina:

Da un lato, Europa, Russia e Ucraina hanno un alto grado di fiducia nella mediazione cinese della crisi ucraina, e anche gli Stati Uniti hanno difficoltà a rifiutare gli sforzi della Cina per promuovere i colloqui di pace. La Cina non ha alcun interesse personale a risolvere il conflitto tra Russia e Ucraina; solo la Cina gode veramente della fiducia di tutte le parti ed è in una posizione adeguata per bilanciare gli interessi.

D’altra parte, anche il prestigio della Cina è riconosciuto da tutte le parti. La Cina è un membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e sta svolgendo un ruolo sempre più importante in diversi affari regionali e globali.

In terzo luogo, la crisi ucraina dura da più di un anno e la situazione potrebbe degenerare senza controllo. I paesi responsabili nel mondo sperano di vedere un modo che risolva il conflitto.

Come ha sottolineato il presidente Xi nella telefonata, ora che il pensiero razionale e le voci di tutte le parti stanno aumentando, dovremmo cogliere l’opportunità di accumulare condizioni favorevoli per la soluzione politica della crisi.

“Oggi, ci sono voci razionali e calme nella comunità internazionale, che chiedono più colloqui di pace. Poiché la Cina è disposta a svolgere un ruolo e inizia a svolgere un ruolo, questa forza crescerà ulteriormente. Si può vedere che la posizione avanzata da Cina, la direzione indicata è nell’interesse della maggior parte dei membri della comunità internazionale”, ha detto Cui Hongjian.

Una donna ucraina è fuggita in Romania con il suo bambino avvolto in una coperta. Fonte: Bloomberg

Soluzione politica alla crisi ucraina, la linea della Cina si fa sempre più chiara

Il presidente Xi ha sottolineato che la Cina invierà un rappresentante speciale del governo cinese per gli affari eurasiatici in Ucraina e in altri paesi per condurre una comunicazione approfondita con tutte le parti sulla soluzione politica della crisi.

Questa notizia ha attirato l’attenzione diffusa dei media in patria e all’estero e ha persino fatto notizia su molti media stranieri.

Cui Hongjian ritiene che, a giudicare dalla situazione attuale, la considerazione della Cina di risolvere la crisi ucraina, compreso il piano generale, stia diventando sempre più chiara.

La posizione centrale della Cina è promuovere la pace e i colloqui. Concentrandosi sulla promozione della risoluzione della crisi, il presidente Xi ha successivamente avanzato i “quattro doveri”, i “quattro beni comuni” e le “tre considerazioni”. Su questa base, la Cina ha anche pubblicato il documento “Posizione cinese sulla risoluzione politica della crisi ucraina “. Testo integrale cina crisdi ucraina

“Questo è il primo passo. Nell’esprimere la nostra posizione, la parte cinese si batte per la maggioranza nella comunità internazionale e trova la convergenza degli interessi di tutte le parti”. Il secondo passo è comunicare con i leader di tutte le parti interessate e chiarire le reali preoccupazioni della Cina, quindi formulare un piano d’azione più specifico sulla base del documento di posizione della Cina.

Dal 20 al 22 marzo Xi Jinping ha effettuato una visita di Stato in Russia su invito del presidente Vladimir Putin. Dalla fine dello scorso anno, leader europei come il cancelliere tedesco Scholz, il presidente del Consiglio europeo Michel, il primo ministro spagnolo Sanchez, il presidente francese Macron e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen hanno visitato la Cina uno dopo l’ altro .

Observer.com ha notato che tra i suddetti scambi di alto livello, la crisi ucraina è stata uno degli argomenti importanti.

Nel pomeriggio del 21 marzo, ora locale, il presidente Xi Jinping ha tenuto colloqui con il presidente russo Vladimir Putin al Cremlino di Mosca.

“Oggi, tutte le parti disposte a risolvere i conflitti attraverso la politica hanno comunicato e scambiato con la Cina, dalla Russia all’Europa, all’Ucraina”. Creare un’atmosfera e creare le condizioni; questo passaggio è stato ora implementato.

Ritiene che il prossimo rappresentante speciale per gli affari eurasiatici nominato dalla Cina lo tradurrà in primo luogo in una soluzione più specifica a livello di lavoro basata sul documento di posizione cinese e combinata con i risultati della recente comunicazione tra il presidente Xi e i leader delle parti coinvolte.

“Durante questo processo, la Cina continuerà a comunicare con tutte le parti e unirà le preoccupazioni e gli interessi di tutte le parti per trovare la massima intersezione. In questo modo, la soluzione politica al conflitto tra Russia e Ucraina diventerà sempre più chiara”. Ha detto Cui Hongjian.

“Per quanto riguarda gli Stati Uniti, sembra che finora non credano che una soluzione politica sia l’unica via d’uscita. Vogliono ancora raggiungere i loro obiettivi strategici attraverso l’Ucraina e sperano di conquistare alleati per assistere l’Ucraina e imporre sanzioni alla Russia.”

Ha aggiunto che l’approccio degli Stati Uniti è più basato sugli interessi degli Stati Uniti piuttosto che sugli interessi comuni della comunità internazionale; mettono persino i propri interessi al di sopra degli interessi comuni della comunità internazionale. Pertanto, non importa come gli Stati Uniti si uniscano, ci sarà un piccolo numero di paesi che staranno con gli Stati Uniti. Ciò che la Cina sottolinea è l’accordo politico e il negoziato pacifico: questa è la strada principale e ci saranno sempre più sostenitori e seguaci.

“Ora, la ‘palla’ è dalla parte degli Stati Uniti. Se questa volta gli Stati Uniti non faranno la scelta giusta, credo che in futuro diventeranno sempre più passivi e la loro strada diventerà sempre più stretta.” Ha detto Cui Hongjian.

https://m.guancha.cn/internation/2023_04_27_690195.shtml

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Se avessimo più di un martello… Forse non saremmo in questo guaio, di AURELIEN

Se avessimo più di un martello…
Forse non saremmo in questo guaio.

AURELIEN
19 APR 2023

Forse avete osservato la politica occidentale nei confronti dell’Ucraina nell’ultimo anno o giù di lì con stupefacente incredulità, e di tanto in tanto vi siete posti domande come: Si accorgono che non funziona, perché continuano così? Perché non accettano l’ovvio? Perché non provano almeno a fare qualcosa di diverso? Non sarete stati i soli. Non sorprende quindi che Internet, alla ricerca di qualsiasi spiegazione, abbondi di teorie cospirative di europei ricattati da Washington o altro. In realtà, quello che stiamo vedendo accade in molte crisi politiche. Io la chiamo la teoria dell’inerzia della politica, e spesso incoraggia gli Stati e le alleanze a continuare a fare cose stupide, perché non riescono a mettersi d’accordo collettivamente su qualcosa di meno stupido.

Si potrebbe pensare che ormai le leadership politiche occidentali abbiano iniziato a nutrire qualche piccolo dubbio sull’utilità della loro politica di confronto con la Russia, soprattutto dopo l’intervento di quest’ultima in Ucraina. Ci sono fattori di complicazione, naturalmente: per la classe dirigente europea, come ho spiegato, questa è una guerra santa contro l’anti-Europa a est. Per molte nazioni più piccole, con poche o nessuna fonte di informazione indipendente e poca influenza, c’è poca alternativa all’assecondare ciò che vogliono gli Stati più grandi. Allo stesso modo, alcuni Stati sono guidati principalmente da uno storico razzismo anti-slavo. (Non pretendo di capire cosa stia succedendo a Washington). Ma si potrebbe comunque pensare che ormai i dubbi si stiano insinuando: dopo tutto, gli europei alla fine hanno interrotto le Crociate quando è diventato chiaro che la Terra Santa non sarebbe mai stata liberata dagli invasori arabi.

Ma, come ho suggerito, questo schema è molto comune nelle crisi internazionali, e tra poco fornirò alcuni esempi passati. La teoria dell’inerzia della politica afferma che le istituzioni e i gruppi politici continueranno sempre a seguire le politiche esistenti, a meno che non venga esercitata una forza contraria sufficiente a farle cambiare. Pensate a una politica come a un oggetto che si muove nello spazio libero. Continuerà il suo percorso fino a quando qualche altra forza non lo colpirà. Maggiore è la velocità e maggiore è la massa, maggiore è la forza che deve essere esercitata. Ciò implica che il contenuto effettivo della politica, che sia sensato, fondato o addirittura praticabile, non è importante. Ciò che conta è l’inerzia accumulata della politica: quanto sostegno ha, da quanto tempo è in vigore e quanto è determinato questo sostegno. Nel caso dell’Ucraina (e non è l’unico) le forze che hanno agito sulla politica hanno di fatto aumentato la sua massa e la sua velocità nella stessa direzione. (Questo ha una relazione con le teorie di Jacques Ellul, di cui ho già parlato in precedenza, che sosteneva che quella che lui chiamava tecnica consiste in processi che pensiamo di sviluppare perché ci sono utili, ma che alla fine finiscono per controllarci).

Perché? Perché la politica è essenzialmente una questione di compromessi e di interessi condivisi. Ogni volta che è coinvolta più di una nazione, è necessario un compromesso di qualche tipo, perché, per definizione, gli obiettivi e le situazioni di due Paesi non possono mai essere identici. Aumentando aritmeticamente il numero dei Paesi, aumentano geometricamente le relazioni tra di essi. Questo significa che qualsiasi politica collettiva è un po’ come un iceberg: si vede la parte pubblica, che è il consenso, spesso faticosamente raggiunto, ma non si vede la massa privata, molto più grande, fatta di riserve, di accomodamenti inopportuni, di sordidi accordi di retroguardia, di eccezioni e trattamenti speciali richiesti, di resistenze nascoste e di molte altre cose. È normale che il consenso sia complesso e fragile, e questo va bene finché tutti vanno nella stessa direzione. Ma cosa succede quando ci si trova nella condizione di dover cambiare qualcosa?

Pensate a un esempio classico: La NATO alla fine della Guerra Fredda. L’intera giustificazione pubblica della NATO era stata la minaccia sovietica, che era appena scomparsa. Era dunque giunto il momento di chiudere i battenti? Beh, come ho già sottolineato in precedenza, la NATO presentava diversi vantaggi, non dichiarati ma importanti, per tutta una serie di Paesi, e di conseguenza c’erano preoccupazioni reali su ciò che sarebbe potuto accadere in Europa occidentale se fosse improvvisamente scomparsa. Ma in ogni caso, la NATO non poteva scomparire all’improvviso, perché i suoi membri avevano firmato, individualmente e in blocco, il Trattato sulle Forze Armate Convenzionali in Europa, che di fatto imponeva alla NATO di amministrarne la metà. Molto bene, quindi, ma che dire del futuro? I problemi fondamentali erano due. Uno era il ritmo isterico degli eventi dell’epoca e la proliferazione dei problemi. Oltre alla fine della Guerra Fredda in sé, alla fine del Patto di Varsavia e alla caduta dell’Unione Sovietica, all’unificazione della Germania e al piccolo problema di cosa fare delle armi nucleari sovietiche al di fuori della nuova Russia, c’erano banalità come la Prima Guerra del Golfo e le sue conseguenze, e (per gli europei) i Trattati di Maastricht sull’Unione Politica e Monetaria, oltre alla solita schiera di problemi transitori che reclamavano l’attenzione dei governi occidentali venticinque ore al giorno. Anche solo liberare un po’ di spazio nelle menti dei governi per iniziare a pensare al futuro della NATO sarebbe stato uno sforzo erculeo.

Il secondo problema era che non c’erano alternative. O meglio, ce n’erano un numero quasi infinito, senza possibilità di scelta. Chiudere la NATO significava molto di più che vendere un edificio per uffici a Bruxelles. C’era un’intera infrastruttura militare e politica con istituzioni ovunque, un regime giuridico in base al quale le forze straniere erano stanziate in Germania e un sistema di comando che comprendeva, ad esempio, la subordinazione di tutte le forze tedesche al comando diretto della NATO (e quindi degli Stati Uniti): non tutti in Europa erano contenti di rinazionalizzare la difesa. Anche solo gestire questo aspetto sarebbe stato un incubo amministrativo e politico che avrebbe richiesto anni di sforzi. E cosa l’avrebbe sostituita? All’epoca si chiedeva di sostituire la NATO con la nuova OSCE, ma sarebbe stato come sostituire l’auto di famiglia con un aereo ultraleggero. Non ho mai parlato con nessuno che avesse la più pallida idea di come l’opzione OSCE potesse funzionare in pratica.

Non è stata solo la complessità intrinseca del problema e l’inerzia del passato, e nemmeno la massa e la complessità di altre questioni, a uccidere l’idea: è stato che nessuno era in grado di articolare quale fosse l’alternativa e come avrebbe dovuto funzionare, e non c’era alcuna possibilità di ottenere un accordo collettivo su un’alternativa anche se fosse stata identificata. Quindi, sebbene la NATO abbia subito enormi cambiamenti interni nel corso del tempo, ha continuato a esistere per la mancanza di un’alternativa condivisa.

Questo vale sia per le politiche e le idee che per le istituzioni. Se si dovesse stilare una lista di politiche davvero, davvero, pessime e fallimentari adottate per fare pressione sugli Stati, le sanzioni economiche sarebbero in cima alla lista di chiunque. È stato così praticamente fin dall’inizio. Naturalmente i blocchi navali facevano parte della guerra da molto tempo, ma la novità era l’idea, promulgata per la prima volta durante i negoziati di Versailles del 1919, che le sanzioni potessero essere un sostituto della guerra, un modo per fare pressione sugli Stati senza l’uso della forza. In effetti, alla maniera dei liberali, si toglieva la coercizione dalle mani dei militari e la si metteva nelle mani di avvocati ed esperti commerciali che operavano sulla base di regole dettagliate.

È difficile pensare a un caso in cui si possa dire che le sanzioni abbiano “funzionato” nel senso previsto dai loro ideatori. Nella maggior parte dei casi (il Sudafrica sotto l’apartheid è un buon esempio) ciò che hanno fatto è stato semplicemente incitare i governi e il settore privato a trovare alternative creative per qualsiasi cosa strategica, infliggendo al contempo difficoltà alla gente comune. Un decennio dopo, le sanzioni contro l’ex Jugoslavia hanno distrutto l’economia serba e consegnato il controllo effettivo del Paese alla criminalità organizzata. Una mossa intelligente. (In effetti, una delle conseguenze inevitabili delle sanzioni di qualsiasi tipo è che chi ha soldi e conoscenze non ne risente, mentre la gente comune ne soffre).

Eppure, le sanzioni vengono utilizzate ancora oggi, probabilmente più che in qualsiasi altro momento della storia. Perché? Tutto dipende dalla definizione di “successo”. I governi, e ancor di più i gruppi di Stati, raramente possono permettersi il lusso di non affrontare i problemi. I media e il complesso industriale delle ONG sanno bene che le loro incessanti richieste di “fare qualcosa” saranno ben accolte dal pubblico, oltre a conferire superiorità morale a coloro che fanno le richieste. Così, ogni volta che si verifica una crisi nel mondo, un gruppo di stanchi rappresentanti nazionali si riunisce per produrre proposte per “fare qualcosa”. Esagero solo un po’ quando dico che spesso la discussione si svolge come segue:

Dobbiamo fare qualcosa.

Questo è qualcosa.

Ok, facciamolo.

Dopodiché, il gruppo di Stati, l’organizzazione internazionale o qualsiasi altra cosa, può dichiarare il proprio successo sulla base del fatto che ha fatto qualcosa e non è “rimasto a guardare” mentre accadevano o meno cose terribili. Questo può sembrare cinico, ma in realtà non lo è. La realtà è che gli attori esterni hanno molta meno capacità di influenzare positivamente le crisi di quanto si creda, ma che ci sono molte forze potenti nella politica e nei media che hanno un forte interesse a fingere il contrario. Pertanto, è politicamente meglio fare qualcosa di inutile e persino controproducente che non fare nulla. Non si tratta semplicemente del fatto che se tutto ciò che si ha è un martello ogni problema sembra un chiodo. Piuttosto, se tutto ciò che avete è un libro su come curare i problemi piantando chiodi, e nessuno vi permette di provare altri metodi di risoluzione dei problemi, allora tutte le vostre iniziative dovranno riguardare i martelli, e i gruppi di lavoro saranno impegnati a progettare martelli migliori e tecniche di martellamento più efficaci.

Inoltre, soprattutto in caso di crisi, c’è un ovvio vantaggio nel fare qualcosa che si è già fatto e che si sa fare. Potrebbe non esserci il tempo, e certamente non ci sarà molta voglia, di cercare reazioni nuove e innovative alle crisi. Le decisioni devono essere prese e annunciate rapidamente, e attuate il prima possibile. Inoltre, devono essere ampiamente comprese e accettate. Infine, per una nota autosuggestione psicologica, diamo per scontato che le cose che sappiamo fare saranno necessariamente efficaci, e che se non sembrano funzionare bene, bisogna dar loro tempo, e se ancora non funzionano, allora dobbiamo solo provare di più. Una franca ammissione che le sanzioni non hanno funzionato in Ucraina, ad esempio, non significherebbe solo che una particolare politica ha fallito, ma comporterebbe l’ammissione che l’Occidente non ha leve economiche efficaci sulla Russia. Allo stesso modo, l’ammissione che le forniture di armi occidentali all’Ucraina sono servite solo a prolungare la guerra, ma non a vincerla, comporterebbe l’ammissione che tutta una serie di decisioni politiche per diversi anni sono state sbagliate e fuorvianti, e che l’Occidente non può fare altro che ritardare l’inevitabile.

Ammissioni come questa, che avrebbero un impatto su un gran numero di persone in molti governi, vengono estratte con la stessa facilità con cui si estraggono i denti e con altrettanto entusiasmo. E poi lasciano una domanda fondamentale: che cosa facciamo adesso? L’inerzia che ho descritto in precedenza, che aumenta con il passare della crisi, con dichiarazioni pubbliche feroci (“Non faremo mai…” “In nessun caso…” “Faremo sempre…”) che in qualche modo devono essere gettate in un buco della memoria, fa sì che non sia mai veramente il momento giusto per una rivalutazione fondamentale della situazione. Dopo tutto, le cose potrebbero non essere così brutte come sembrano, e chi sa cosa potrebbe accadere domani, o la prossima settimana? Quindi continueremo la politica attuale alla prossima riunione, e a quella successiva, e a quella ancora successiva, tenendo le dita incrociate e fischiettando nel buio.

Perché qual è l’alternativa? Con qualcosa come trenta governi diversi coinvolti, quali sono le possibilità di concordare rapidamente una strategia alternativa efficace? Sono così vicine allo zero che non vale la pena misurarle. Ora, se, per esempio, gli Stati Uniti elaborassero una nuova strategia sensata da discutere prima in modo informale con gli alleati più stretti, con l’UE e la NATO, e poi da presentare in qualche conferenza internazionale, ci sarebbe una ragionevole possibilità che la politica occidentale si muova in una nuova e più ragionevole direzione. Ma questo genere di cose non accade più, anche perché Washington è irrimediabilmente divisa sulla questione e molti dei responsabili delle decisioni sembrano vivere in un universo parallelo. Data l’enorme disparità di interessi e punti di vista tra gli Stati e la totale mancanza di soluzioni alternative, è probabile che prima della fine dell’anno assisteremo a un brutto incidente stradale. Un gruppo di Stati più illuminato e meno eccitabile starebbe già lavorando a piani di emergenza, ma non ne vedo traccia. La cosa migliore che l’Occidente può sperare è che tutte le nazioni accettino un’enorme operazione di pubbliche relazioni volta a convincere l’opinione pubblica occidentale che la sconfitta è in realtà una vittoria se si cambiano i criteri di vittoria. Ma se ciò sarà accettabile, ad esempio, per i nazionalisti polacchi è un’altra questione.

Come per le sanzioni, un altro vecchio strumento di difesa è il potere aereo. Fin dall’inizio dell’aviazione militare, è stato chiaro che ci sono dei vantaggi nel poter colpire un avversario che non può rispondere. Sebbene la prima letteratura popolare sull’argomento avesse toni stridenti e apocalittici, l’esperienza reale dell’uso del potere aereo nella Seconda Guerra Mondiale fu, come minimo, deludente. Rimaneva il fatto che aveva dei vantaggi politici, in particolare perché non era necessario rischiare la vita del proprio personale. Inoltre, la mitologia dell’uso moderno del potere aereo (ad esempio in Iraq nel 1990-91) era sufficientemente forte da far credere a molti in Occidente che la semplice minaccia dell’uso del potere aereo occidentale fosse sufficiente a risolvere le crisi.

Così, quando alla fine degli anni Novanta le potenze occidentali volevano disperatamente provocare la caduta di Slobodan Milosevic, considerandolo il principale ostacolo all’instaurazione di un regime di pace e sicurezza nei Balcani, le minacce di azioni militari vennero prese in considerazione come un modo per umiliare il suo governo e fargli perdere le elezioni presidenziali del 2000. Dopo il 1996, in Kosovo era scoppiata un’insurrezione, piccola ma sgradevole, e la NATO aveva sviluppato l’idea di minacciare la Serbia di intervenire militarmente se non avesse consegnato la provincia al controllo internazionale (in pratica occidentale). Tuttavia, poiché l’uso di truppe di terra avrebbe comportato delle perdite e quindi era impensabile, l’unica minaccia militare possibile era l’uso del potere aereo. In generale si riteneva che la sola minaccia dei bombardamenti sarebbe stata sufficiente a costringere il governo serbo a ritirarsi, a consegnare il Kosovo e quindi a consegnare il controllo del Paese ai “moderati filo-occidentali” nelle prossime elezioni. L’opinione più scettica, minoritaria, era che sarebbero stati necessari un paio di giorni di bombardamenti simbolici. Con sorpresa e costernazione delle autorità della NATO, è iniziata un’intera guerra aerea, che è durata tre mesi. Fu in gran parte inefficace, non da ultimo a causa delle restrizioni sugli obiettivi: gli aerei volavano solo di notte, per evitare vittime, e non potevano bombardare attraverso le nuvole perché non potevano essere sicuri dei loro obiettivi. Chi è stato in quella parte del mondo sa che tempo fa in primavera, e in molte occasioni gli aerei sono tornati indietro senza aver lanciato le armi.

Quello che nessuno aveva capito è che la Jugoslavia aveva passato quarant’anni a prepararsi e ad esercitarsi per un’invasione aerea di terra da parte dell’Unione Sovietica, e aveva fatto ampi preparativi per sopravvivere. La stragrande maggioranza degli obiettivi colpiti dalla NATO erano esche e si scoprì che, ad esempio, sotto l’aeroporto di Pristina era nascosta un’intera base aerea militare di cui la NATO non era a conoscenza. Le forze serbe si sono infine ritirate in buon ordine dopo che la Russia è venuta in soccorso della NATO, facendo pressione politica sul governo serbo affinché cedesse. Se ciò non fosse accaduto, la NATO avrebbe dovuto prendere in seria considerazione un’invasione di terra, che avrebbe probabilmente distrutto ciò che rimaneva della fragile solidarietà all’interno della NATO stessa.

Si potrebbe quindi pensare che, dopo questa scoraggiante esperienza, l’idea di utilizzare il solo potere aereo per risolvere le crisi sarebbe diventata meno attraente. Invece no, poiché il potere aereo continuava ad avere il vantaggio di essere essenzialmente privo di vittime dal punto di vista dell’Occidente, perché era qualcosa che sapevamo fare e perché l’Occidente godeva generalmente di un dominio aereo totale, è diventato una politica consolidata. Tuttavia, la Libia nel 2011 e la Siria successivamente, hanno dimostrato che il potere aereo da solo non può ottenere molto: quando i russi sono intervenuti in modo decisivo in Siria, è stato utilizzando il potere aereo tattico a sostegno delle forze di terra. Non sorprende quindi, anche se è deludente, che non appena è scoppiato il conflitto in Ucraina, le solite voci chiedano la magica costruzione di una No-Fly Zone, senza sapere che esiste già e che viene fatta rispettare dai russi, non con gli aerei ma con i missili. In effetti, una delle tante conseguenze della crisi ucraina è stata la consapevolezza che non solo l’uso del potere aereo, ma anche tutti i metodi di intervento tradizionali (anche se inefficaci) preferiti dall’Occidente non funzionano contro un avversario potente e pronto a colpirti.

È difficile spiegare perché questi fallimenti non abbiano ancora portato a cambiamenti politici senza addentrarsi in un po’ di psicologia politica. Una componente importante è la fallacia dei costi irrecuperabili: la stessa fallacia per cui si rimane al cinema a guardare la fine di un film di cui si è delusi, perché si è già pagato il biglietto. In breve, in politica, quanto più a lungo una politica è stata in vigore, tanto più è psicologicamente difficile per coloro che l’hanno ideata accettare il fallimento o la necessità di cambiarla, a prescindere dal suo successo o fallimento, perché il loro ego individuale e collettivo è legato ad essa. Nel caso della Russia, l’ego, l’autostima e il senso di diritto morale delle élite politiche occidentali richiedono che le sanzioni e le forniture di armi continuino, indipendentemente dalle loro conseguenze pratiche. È già chiaro che, alla fine di questo episodio raccapricciante, nessun politico dirà “ci siamo sbagliati”. Qualche persona intelligente verrà mandata a redigere una dichiarazione del tipo: “Sebbene le sanzioni non abbiano avuto il successo inizialmente sperato in alcuni settori, hanno contribuito a porre fine alla guerra prima e a condizioni più accettabili di quanto sarebbe stato altrimenti, e hanno fornito una dimostrazione concreta della volontà delle nazioni occidentali di resistere all’aggressione” o qualcosa del genere.

Il secondo è il rifiuto istituzionale di imparare dall’esperienza, perché l’esperienza potrebbe insegnare la lezione sbagliata. Questo è pervasivo in tutto il campo dei meccanismi di risposta alle crisi occidentali ed è, ovviamente, una caratteristica del liberalismo, le cui idee non possono fallire, possono solo essere fallite. Questo non significa che istituzioni come l’ONU e l’UE non abbiano la capacità di “trarre lezioni” (anche se di questi tempi il termine generalmente utilizzato è il più modesto “lezioni individuate”). Ma il peso dell’inerzia politica, l’investimento egoico e la natura intrinsecamente autocompiaciuta del pensiero liberale fanno sì che queste “lezioni” siano, alla fine, altamente tecniche e procedurali. Così, ad esempio, è quasi universale che i rapporti sulle “lezioni individuate” identifichino la necessità di un “migliore coordinamento” tra gli attori internazionali, che altrettanto universalmente non avviene mai. L’intero apparato degli interventi post-conflitto occidentali (forze di mantenimento della pace, dialoghi nazionali inclusivi, elezioni anticipate, disarmo, smobilitazione e reintegrazione, riforma del settore della sicurezza, combinazione di diverse forze in un nuovo esercito nazionale, tribunali penali, commissioni per la verità e la riconciliazione e molti altri) è un guazzabuglio di idee diverse e spesso in conflitto tra loro, provenienti da diverse comunità di donatori, legate solo da una comprensione vagamente liberale delle questioni di guerra e pace. C’è una resistenza attiva a qualsiasi tipo di valutazione indipendente del successo di tali idee, nel caso in cui si ottenga la risposta sbagliata.

Dopo aver scritto questo paragrafo, ho notato dal mio feed RSS che un altro progetto di riforma del settore della sicurezza, organizzato in fretta e furia e sponsorizzato dall’Occidente, è fallito e ha portato a nuove violenze, questa volta in Sudan, dove uno sforzo affrettato e mal consigliato di fondere l’esercito con un gruppo paramilitare dell’opposizione ha portato a un nuovo conflitto. Questo tipo di iniziativa va avanti da trent’anni e funziona (come in Sudafrica) solo in presenza di condizioni particolari. Non è solo che alcune persone non possono imparare, è che sono attivamente resistenti all’apprendimento.

Oppure prendiamo le elezioni. La teoria politica liberale vede le elezioni come una forma di competizione tra squadre di professionisti per presentare la formula migliore per la gestione del Paese, al termine della quale uno si aggiudicherà un contratto in esclusiva. Quindi, qualunque sia la questione, le elezioni sono la risposta, perché a quel punto la comunità internazionale può affidare il problema ai locali, che avranno la legittimità che le elezioni conferiscono automaticamente, e tornare a casa. Il fatto che le elezioni dopo un conflitto siano solitamente divisive, che possano mettere a nudo ed esacerbare le tensioni che hanno causato il conflitto in primo luogo, e che siano solitamente combattute su divisioni locali, etniche e culturali, sono cose che il concetto liberale di politica non può accettare, e che quindi non esistono. I problemi causati dalle elezioni vengono quindi liquidati come il risultato di “guastatori” e “disturbatori” che non accettano la volontà democraticamente espressa dal popolo. Sembra incomprensibile, ad esempio, che dopo trent’anni l’Occidente stia ancora cercando di raggiungere la pace in Bosnia attraverso le elezioni. La fantasia occidentale di uno Stato unitario “multietnico” con partiti politici “multietnici” gestiti da politici di stampo occidentale ha probabilmente avuto molto a che fare con lo scatenarsi del conflitto ed è stato il sogno impossibile a cui molte cose sono state sacrificate da allora. La labirintica complessità del sistema politico emerso dalla guerra bosniaca, con le sue numerose e diverse gerarchie di voto, potrebbe essere considerata una prova di distruzione della convinzione che le elezioni promuovano la stabilità: in tutta la storia dell’umanità, non è mai stato richiesto a così pochi di votare così tanto, così tante volte, per un risultato così scarso. Il problema era che gli elettori continuavano a dare la risposta sbagliata, quindi era necessario farli votare di nuovo. Questo è dipeso soprattutto dalla mancanza di alternative politiche evidenti: pare che quando a un alto funzionario dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa è stato chiesto perché la sua organizzazione organizzasse incessantemente elezioni in Bosnia, abbia risposto “beh, è quello che sappiamo fare”.

Infine, prendiamo il mantenimento della pace: o “operazioni di sostegno alla pace” o “operazioni di pace” o anche “applicazione della pace”, a seconda di chi si parla. Questo deriva in ultima analisi dalla convinzione che il semplice fatto di inviare una forza militare in un’area di conflitto possa stabilizzare la situazione. In pratica, la forza diventa un ostaggio o semplicemente congela il conflitto, consentendo che continui più a lungo di quanto sarebbe stato altrimenti. Le missioni con mandati precisi e mirati (come l’UNTAG in Namibia) possono funzionare, ma la tendenza ad avere aspettative enormi e mandati ambiziosi, insieme a risorse inadeguate, fa sì che la maggior parte di esse fallisca, spesso malamente, diventando talvolta parte del problema. Il classico è stato, ovviamente, l’UNPROFOR in Bosnia, dove le richieste stridenti di “fare qualcosa”, il crescente militarismo umanitario e la totale ignoranza delle basi del problema hanno portato al dispiegamento di una forza incapace di adempiere a un mandato ambizioso, ambiguo e in continua evoluzione. Soprattutto, la Forza è stata sovradimensionata dai combattenti locali: anche con un massimo teorico di 20.000 effettivi, solo il dieci per cento della Forza poteva essere impiegato nelle operazioni, e la maggior parte delle nazioni si è rifiutata di permettere alle proprie truppe di entrare in combattimento o di essere messe in pericolo. Almeno nel caso del mantenimento della pace, c’è stato un serio tentativo di trarre lezioni, nella forma del rapporto Brahimi, ed è un peccato che quel rapporto non abbia avuto un’influenza più pratica. Le missioni di “pace” continuano a proliferare in tutto il mondo.

Può darsi che uno dei molti sottoprodotti inattesi del disastro ucraino sia la brutale constatazione che l’intero modo occidentale di pensare ai problemi della pace e della sicurezza, guidato come è da presupposti liberali a priori, non solo è completamente irrilevante per l’Ucraina, ma non ha comunque alcuna possibilità di svolgere un ruolo. La “cassetta degli attrezzi” per la risoluzione dei conflitti di cui l’Occidente ama parlare, di cui ho fornito alcuni esempi sopra, e il manuale in tre volumi costantemente aggiornato sulle tecniche di martellamento, semplicemente non saranno presenti. Già adesso, in alcuni ambienti, c’è la curiosa e ingenua supposizione che la fine dei combattimenti in Ucraina porterà al dispiegamento del menu standard di misure occidentali. Ci sarà una conferenza di pace a cui si inviteranno gli Stati Uniti e l’Europa, la NATO e l’UE, ci sarà un rappresentante speciale delle Nazioni Unite a presiedere la conferenza, ci saranno accordi per il ritiro delle truppe, la smobilitazione delle milizie dei separatisti russi, misure di rafforzamento della fiducia, processi e commissioni per la verità, una missione delle Nazioni Unite nel Paese per promuovere questo e quello, l’OCSE organizzerà elezioni libere ed eque, una forza internazionale sotto l’egida dell’ONU o dell’UE riqualificherà le Forze Armate ucraine …. E perché, di grazia, i russi dovrebbero accettare tutto questo?

La combinazione di inerzia politica e di un insieme indiscusso di assunti normativi a priori sulla pace e sul conflitto spiegano perché l’Occidente sembra sfrecciare su una traiettoria suicida che non mostra segni di arresto, o addirittura di rallentamento, nonostante il disastro sia chiaramente visibile davanti a noi. Se siete il Ministro degli Esteri di un Paese di medie dimensioni, probabilmente sentite dire dieci volte al giorno che “le sanzioni funzionano”, leggete che “le sanzioni funzionano” sui media, e le vostre stesse note informative vi dicono di rassicurare gli altri che “le sanzioni funzionano”, e dopo un po’ arrivate ad accettare che le sanzioni funzionano. Se non funzionano, se l’intero approccio occidentale all’Ucraina sembra crollare, allora si aprirebbe un buco esistenziale sotto i vostri piedi. Inoltre, cosa si potrebbe dire? Quali altre opzioni sono possibili?

Alla fine, molti crolli politici hanno un’origine intellettuale piuttosto che pratica e istituzionale. Le rivoluzioni francese e russa sono avvenute in ultima analisi perché le strutture di potere tradizionali erano intellettualmente incapaci di immaginare qualche modifica del sistema politico e qualche compromesso con i suoi sfidanti. L’inerzia politica accumulata in centinaia di anni di monarchia assoluta era tale che i sistemi erano effettivamente paralizzati mentre il disastro incombeva su di loro. Qualcosa di simile sembra essere accaduto quando la stessa Unione Sovietica è crollata nel 1991: c’era la possibilità di una riforma, ma i responsabili non hanno capito come gestire una transizione politica al di fuori del quadro intellettuale molto ristretto che l’inerzia politica aveva lasciato loro, e il risultato, quando è arrivato, è stato brutale e violento.

Non credo che oggi in Occidente si stia andando incontro a qualcosa di così grave. Ma il treno liberale, che notoriamente non ha freni né retromarcia e che ha accumulato un’inerzia politica senza precedenti nell’ultima generazione, sta per schiantarsi contro le barriere e il risultato, sospetto, sarà una sorta di esaurimento nervoso politico di massa da parte della classe dirigente. E, mentre si affannano ad uscire dai rottami, cominceranno a riconoscere una semplice e nauseante verità. I russi hanno un martello dannatamente grande.

https://aurelien2022.substack.com/p/if-we-had-more-than-a-hammer?utm_source=post-email-title&publication_id=841976&post_id=115583092&isFreemail=true&utm_medium=email

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UCRAINA RUSSIA 32A PUNTATA il conflitto e la società Con Max Bonelli e Flavio Basari

Oggi continueremo a parlare del conflitto in Ucraina attraverso alcune immagini significative. Soprattutto, vi racconteremo della Russia e dei russi. Di un’altra Russia, diversa dalla scarna e faziosa narrazione che ci viene propinata. Cercheremo di constatare di aver eletto senza ragione un paese ed un popolo a nemico. Non solo! Di averne sottovalutato, a dispetto degli insegnamenti dai precedenti storici, la forza morale, la determinazione, la coesione e la capacità di adattamento. Un errore ancora non del tutto irreparabile, la cui protrazione rischierà di portare in casa propria quel collasso che il mondo occidentale, gli statunitensi in particolare, sta cercando di procurare in quel paese. Buon ascolto, con l’attenzione che meritano il contenuto e la statura dei partecipanti. Giuseppe Germinario

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Slittamento di paradigma, di Piero Pagliani

Slittamento di paradigma

Paradossi, nonsense e pericoli di una svolta storica

di Piero Pagliani

b10bb0598ea2cb70aeb46311c0d51d78Nell’analisi che segue enuncio quelli che mi sembrano dei dati di fatto, tiro alcune somme, pongo una domanda per rispondere alla quale avanzo un’ipotesi sull’oggi e due sul domani concludendo con un’assunzione che in modo irrituale espongo alla fine e non all’inizio. In specifico:

Primo dato di fatto: la guerra contro Kiev ha sancito la fine del monopolio statunitense della violenza planetaria.

Secondo dato di fatto: la guerra stessa ha neutralizzato le sanzioni contro la guerra perché ha ampliato istantaneamente il campo d’attrazione russo.

Terzo dato di fatto: La Russia ha trasformato in una guerra sistemica quella che per lei è alla base una guerra esistenziale.

Prima conclusione: gli Stati Uniti stanno giocando la propria egemonia globale sul terreno più favorevole al proprio avversario, quello che lo ha sempre visto vincitore.

Ipotesi dello sfasamento cronologico: Lo sviluppo ineguale e i meccanismi del circuito globalizzazione-finanziarizzazione hanno suddiviso il mondo in due parti con processi di accumulazione disallineati, cosa che ha portato a una sfasatura rispetto al loro posizionamento nella crisi sistemica: economie finanziarizzate quelle più mature (Occidente collettivo) ed economie reali quelle più giovani (Sud collettivo).

La domanda fondamentale: si tratta solo dello scontro tra blocchi con sviluppo disallineato (cosa che lo avvicinerebbe a un classico conflitto interimperialistico) o da questo conflitto sistemico uscirà (obbligatoriamente?) uno scenario socio-economico che poggia su basi diverse?

Quinto dato di fatto: una nazione oggi può essere egemone globalmente solo a costi altissimi e quindi per un periodo molto limitato di tempo.

Ipotesi sulla conseguenza del quinto dato di fatto: dallo scontro sistemico attuale uscirà un ordine multipolare, cioè non ruotante attorno a un unico centro egemone.

Ipotesi derivata: nel mondo multipolare i rapporti sociali ed economici saranno sensibilmente diversi da quelli che hanno dominato fino ad oggi, oppure il mondo multipolare si esaurirà in un nuovo e più ampio scontro.

Assunzione: Se si rimetterà al centro di questa architettura l’accumulazione senza (un) fine tutte le contraddizioni riemergeranno, ancora più gigantesche e in condizioni che renderanno la loro soluzione ancora più difficile.

 

1. L’ammiraglio statunitense Robert Bauer, presidente del Comitato militare dell’alleanza Atlantica, ha dichiarato alcuni giorni fa che la Nato «è pronta per un confronto diretto con la Russia». Questa dichiarazione segue di pochi giorni la previsione del generale a 4 stellette Mike Minihan riguardo una guerra con la Cina tra due anni. Immediatamente dopo il segretario della Nato, Jens Stoltenberg ha iniziato a preparare il terreno per trascinarci piano piano nel delirio ventilando che sebbene la Cina non sia un avversario della Nato, «la sua crescente assertività e le sue politiche coercitive hanno delle conseguenze». Parole che, in un gioco di squadra, si inserivano nella scia delle accuse di Ursula von der Leyen contro Pechino, rea di voler «rimodellare l’ordine internazionale a proprio vantaggio [così che] dobbiamo rafforzare la nostra resilienza», sottraendoci in modo crescente alla dipendenza dal commercio con la più grande economia mondiale a parità di potere d’acquisto (PPP) [1].

Seppure la minaccia di confronto diretto con la Russia e l’ipotesi di guerra con la Cina sembrino due follie o addirittura due nonsense, tuttavia hanno entrambe, separatamente e congiuntamente, una logica. O meglio una doppia logica i cui due versanti non sono sempre semplici da discernere, sia per la confusione di interessi che essi rappresentano, sia per la situazione caotica della politica statunitense.

Le due dichiarazioni hanno evidentemente degli scopi, non sono state rilasciate con leggerezza.

Uno di essi è mantenere i membri della Nato in stato di soggezione tramite una sorta di mobilitazione permanente e l’evocazione continua di nemici comuni. E’ una mossa classica, prima l’Unione Sovietica, poi il terrorismo, oggi la Russia e domani la Cina. Tuttavia ripetere la stessa mossa in condizioni drasticamente mutate può portare a risultati opposti a quelli sperati.

Io sono convinto che alle varie cancellerie europee arrivino (anche) notizie veritiere su cosa sta succedendo nel mondo e in Ucraina in specifico [2]. La domanda più immediata è allora: a parte il governo polacco benedetto da Radio Maria, quanti paesi della Nato se la sentono di fare una guerra senza speranza alla Russia per difendere gli interessi di alcune élite cosmopolite che fanno capo agli Stati Uniti e distruggere definitivamente i propri di interessi?

Ce la sentiremo di difendere la traballante egemonia mondiale di un Paese disastrato, che sta perdendo la sua ciambella di salvataggio, cioè il predominio del Dollaro, e che ci sta spingendo alla rovina assieme a lui e prima di lui? [3]

Ce la sentiremo di andare a combattere a migliaia di chilometri di distanza, in Ucraina e nel Mar Cinese Meridionale, minacciando l’integrità della Russia e della Cina nei loro stessi giardini di casa se non addirittura sul loro stesso territorio e sui loro mari? Che tradotto vuole anche dire: ce la sentiremo di sfidare per l’ennesima volta le lezioni della Storia, proprio mentre la congiuntura storica stessa è tutta a nostro sfavore?

 

2. Le risposte dipendono dal concorso di ciò che succede in varie dimensioni.

Una dimensione è legata al caso (qualche incidente può sempre esserci quando si gioca con l’alta tensione, qualche disastro naturale può sempre avvenire), mentre un’altra dimensione è legata alla personalità e alla caratura dei governanti occidentali, purtroppo drammaticamente bassa in termini di rettitudine, preparazione, capacità di analisi, e consiglieri di cui si circondano. Possiamo chiamarle “gruppo di dimensioni A” (da “aleatorie”, anche se in realtà sono semi aleatorie, dato che raramente i “disastri naturali” sono esclusivamente naturali ed è il sistema che seleziona le classi dirigenti, le coopta). Un’altra dimensione riguarda i rapporti di forza militari tra la potenza delle parti in conflitto. La chiameremo “dimensione V” (da “violenza” – credo che sia il termine più onesto). Collegata ad essa abbiamo i rapporti di forza economico-finanziari che costituiscono la “dimensione D” (da “denaro”). Infine abbiamo la differenza delle loro strutture sociali e politiche, una dimensione che non è meccanicamente deducibile dalla dimensione D, ma è ovviamente ad essa collegata; la chiameremo “dimensione T” (da “territorio”). Alla base di tutto ci sono i differenti rapporti sociali (chiamati spesso, in modo inesatto, “modelli di sviluppo”).

Collettivamente possiamo allora chiamare il compito di analisi “AVDT” e consiste nello sbrogliare il groviglio esistente individuando dove agiscono, come agiscono e come evolvono le varie dimensioni sopra accennate, descrivendo al meglio tramite esse le parti che si contrappongono, i motivi della contrapposizione (le sue origini storiche e logiche) e, infine, cercare di capire cosa uscirà da questo confronto, non per divinazione ma per applicazione della razionalità all’analisi dei processi in essere.

Un compito difficile, ma per fortuna ci sono lavori che aiutano a non brancolare del tutto nel buio. Sto parlando delle classiche analisi di Lenin, di Rosa Luxemburg, di Karl Polanyi, di Giovanni Arrighi e Samir Amin, della coppia Shimshon Bichler-Jonathan Nitzan, di David Harvey, di Jason Moore, di Gianfranco La Grassa e di Michael Hudson e, in Italia, delle recenti proposte interpretative di Raffaele Sciortino, Pierluigi Fagan, Gianfranco Formenti, del gruppo Brancaccio-Giammetti-Lucarelli, per fare alcuni nomi e, di nuovo, di Michael Hudson e di altri autori, spesso apparsi su Sinistra-in-rete, che coi loro contributi permettono di gettare luce su un aspetto o l’altro di questo complesso problema [4].

Purtroppo, non essendoci un organismo coordinante, questi contributi non riescono a consolidarsi in una lettura, per l’appunto, organica. E questo è un problema squisitamente politico. Se la guerra in Ucraina ha fornito la scusa per ampliare e approfondire l’emarginazione e addirittura la criminalizzazione delle voci dissenzienti, la nostra capacità di opporci a quello che ormai a tutti gli effetti è un regime totalitario, nel senso che impone una visione totale del mondo (sociale, politica, economica, scientifica e valoriale), è indebolita dalla suddivisione in una miriade di “voci” che non si coordinano nelle modalità di presentazione e rimangono scollegate [5]. Queste voci presentandosi prive di un moderatore politico che quanto meno le inquadri e le metta in correlazione le une con le altre, appaiono isolate anche quando concordano tra loro e anche quando sono offerte in un unico involucro, come ad esempio un medesimo portale (cosa in sé meritoria). Anche questo è un segno dei tempi.

Oltre che a rimandare alla bibliografia (che si trova agevolmente sul web) dei singoli autori sopra citati e a raccomandare la visita a portali come questi, l’esposizione che segue è in forma di note dove le varie dimensioni saranno implicite e non chiamate per nome.

 

3. La Nato che affronta direttamente la Russia e muove guerra alla Cina è un’idea folle. Tuttavia è veramente il sogno proibito dei crazy freaks neo-liberal-con al potere attualmente a Washington. Per gli ambienti statunitensi meno psicopatici è invece una minaccia per cercare di compattare gli alleati, far vedere al mondo che non si intende cedere il posto di comando e infine per spaventare Mosca e cercare di farle accettare un compromesso ed evitare il completo collasso dell’Ucraina (con eventuale spartizione tra Russia, Polonia, Ungheria e Romania) e quindi l’umiliazione dell’Alleanza Atlantica.

Una richiesta di compromesso che Mosca ha già rinviato al mittente perché giudicata poco seria, specialmente dopo l’ammissione occidentale (Hollande e Merkel riguardo gli accordi di Minsk) che noi tradiamo i patti in modo premeditato (da parte Russa potrebbe essere una scusa, o meglio un utilizzo ai propri fini della sbalorditiva provocazione franco-tedesca istigata dalla Nato).

Bisogna anche sottolineare che le politiche di sicurezza nazionale svolgono un ruolo di potente barriera unitaria protezionistica militare ed economica. Da questo punto di vista, per gli Stati Uniti il conflitto attuale è un mezzo per perseguire un fine economico più ampio dell’ovvio arricchimento dell’apparato industriale-militare: cercare di re-industrializzarsi ai danni principalmente dell’Europa.

Dualmente, l’innalzamento di una barriera unitaria protezionistica militare ed economica è stata per la Russia e la Cina una reazione obbligata all’aggressività statunitense, che ha creato ex novo percorsi che non erano previsti, ha accelerato tendenze latenti che avevano altre tempistiche o sbloccato processi che altrimenti difficilmente avrebbero visto la luce. E tutto questo si riversa e riverbera nella configurazione sociale, economica e politica dei due principali Paesi competitor degli Stati Uniti.

Siamo di fronte alla “larger picture”, cioè al quadro di quanto succede al di fuori dell’Ucraina, il quadro che spiega la guerra e che a sua volta è influenzato da ciò che avviene sui campi di battaglia. Per inserire il conflitto armato stesso nella larger picture occorre per prima cosa, accettare quanto segue:

Primo dato di fatto: la guerra contro Kiev ha sancito la fine del monopolio statunitense della violenza planetaria.

Questo è uno dei monopoli fondamentali del dominio mondiale. Gli altri sono quello dell’accesso alle fonti energetiche e alle altre risorse fondamentali (come il settore chimico-agricolo-farmaceutico), quello dei sistemi finanziari e di pagamento, quello della cultura e dell’informazione/comunicazione e infine quello dell’innovazione scientifica e tecnologica. Monopoli diversi ma collegati tra loro.

Questo collegamento spiega la famosa “resilienza” (termine che detesto) della Russia:

Secondo dato di fatto: la guerra stessa ha neutralizzato le sanzioni contro la guerra perché ha ampliato istantaneamente il campo d’attrazione russo.

E’ un’osservazione che vale in questo caso, non in generale. Un paradosso, nel senso di contraddizione reale, che non può essere né concepito né spiegato se non si ha una visione sistemica degli eventi. Infatti gli esperti occidentali di scuola canonica (economisti, politologi, geostrateghi e chiromanti d’altro tipo) si sentono spersi: “Le sanzioni non funzionano. Ma come?”. E cercano spiegazioni nelle minuzie.

Il fatto è che attorno a questa guerra tutto il sistema-mondo si muove, e velocemente, per un terzo motivo:

Terzo dato di fatto: La Russia ha trasformato in una guerra sistemica quella che per lei è alla base una guerra esistenziale.

Se non si capisce, o si fa finta di non capire, che per la Russia questa guerra è esistenziale sarà un disastro di ampiezza mai vista perché le guerre esistenziali la Russia le ha sempre vinte indipendentemente dal prezzo da pagare. Non solo dobbiamo ricordarci di Napoleone, di Hitler o dei Cavalieri Teutonici, ma è meglio che Varsavia e i Paesi baltici si ricordino di come sono finite le mire espansionistiche di Sigismondo III e della sua Confederazione Polacco-Lituana durante il “Periodo dei Torbidi” quando pure la Russia versava in stato di debolezza [6].

Ma Mosca è anche perfettamente consapevole che questa guerra si inserisce diritta nel cuore della crisi sistemica ed è quindi destinata a rivoluzionare il sistema-mondo. Basta rileggersi uno qualsiasi dei discorsi di Putin dell’ultimo anno. Anche gli Stati Uniti lo sanno perfettamente e ciò lascia sbalorditi, perché la potenza egemone non poteva concepire una strategia peggiore:

Prima conclusione: gli Stati Uniti stanno giocando la propria egemonia globale sul terreno più favorevole al proprio avversario, quello che lo ha sempre visto vincitore.

Ciò che è stupefacente è che questo esito era stato ampiamente previsto con molta precisione da uno dei maggiori geopolitici statunitensi, Georg Kennan, uno dei “padrini” della Nato, che già nel 1997 aveva avvertito: «L’opinione, per dirla senza mezzi termini, è che l’espansione della NATO sarebbe l’errore più fatale della politica americana nell’intera era post-guerra fredda. Ci si può aspettare che una tale decisione infiammi le tendenze nazionaliste, antioccidentali e militariste dell’opinione pubblica russa, abbia un effetto negativo sullo sviluppo della democrazia russa, riporti l’atmosfera della guerra fredda nei rapporti Est-Ovest, e spinga la politica estera russa in direzioni decisamente non di nostro gradimento» [7].

Durante la guerra esistenziale contro Napoleone la Russia si compattò attorno allo zar Alessandro I Romanov. Durante la guerra esistenziale contro Hitler la Russia si compattò attorno al segretario del Partito Comunista Josif Stalin. Oggi nella guerra esistenziale contro la Nato, la Russia si è compattata attorno al presidente Vladimir Putin. Difficilmente si può sostenere che non fosse prevedibile.

Questa strategia suicida dice pressoché tutto dello stato misto di disconnessione epistemologica e dissonanza cognitiva della leadership occidentale. Uno stato ormai patologico dovuto a un gioco di hubris e di disperazione che avvitandosi una sull’altra rendono impossibile l’elaborazione di un percorso alternativo, di una via di fuga non distruttiva.

 

4. Se dunque la nazione russa si compatta attorno ai suoi leader per combattere una guerra esistenziale, attorno alla guerra in Ucraina in quanto guerra sistemica la larger picture si muove.

Si pensi, ed è un solo esempio, alla recente “Dichiarazione dell’Avana” dei banchieri centrali, presidenti e parlamentari di 25 Paesi riuniti a Cuba il 27 gennaio scorso. E’ un programma per la creazione di un blocco planetario «led by the South and reinforced by the solidarities of the North».

«Il Congresso riconosce l’opportunità critica offerta dalla presidenza cubana del Gruppo dei 77 più la Cina per guidare il Sud fuori dalla crisi attuale e incanalare gli insegnamenti della sua Rivoluzione verso proposte concrete e iniziative ambiziose per trasformare il più ampio sistema internazionale». «La liberazione economica non sarà concessa ma conquistata».

Quando ci entrerà in testa che non ci sopporta più nessuno e facciamo di tutto per non essere sopportati? Quando capiremo che la maggior parte del mondo, in Ucraina ci vuole vedere umiliati, anche chi all’ONU vota secondo creanza o pressione?

La ribellione al cosiddetto “ordine internazionale” ha come protagonisti Paesi che si sentono minacciati e Paesi che si sentono soffocati dall’architettura di potere occidentale. Il verbo “sentire” è però impreciso, perché le minacce occidentali sono da tempo aperte, esplicite, spudorate, così come lo è la rapina. Dietro a questo disastro c’è l’abnorme finanziarizzazione dell’economia occidentale che è stata la via d’uscita “naturale” (in senso capitalistico) dalla crisi di sovraccumulazione degli anni Settanta. Ovviamente esiste un rapporto tra la disconnessione dell’economia dai valori reali e la disconnessione del pensiero occidentale dalla realtà. Lo studio dei suoi particolari è un tema seducente ma purtroppo non ho sufficienti conoscenze per affrontarlo e lo lascio quindi ad altri [8].

Il grosso ostacolo a una “revisione” interna all’Occidente della sua politica, suicida oltre che omicida, è dunque un blocco cognitivo e culturale connesso all’esasperante livello di finanziarizzazione raggiunto dall’economia. La bolla finanziaria incombe come un mostruoso ordigno nucleare pronto a scoppiare. Nel tentativo di depotenziare lo scoppio, le élite finanziarie obbligano l’ambiente esterno al centro capitalistico occidentale ad estrarre quanto più profitto e a sequestrare quanta più ricchezza sociale sia possibile per devolverli al centro egemone in crisi in cui la rendita finanziaria ha sostituito l’estrazione di profitto alimentando la sovraccumulazione, e parimenti obbligano l’Occidente stesso a un’operazione di auto-cannibalizzazione che consiste nell’avvitarsi in politiche di austerity e deflazione salariale e nella privatizzazione selvaggia del dominio pubblico (welfare, capitale sociale fisso, servizi).

Se l’inizio della crisi sistemica fu segnalato dal decennio di stagflazione (stagnazione con inflazione, superata dall’avvio della finanziarizzazione dell’economia), oggi, dopo poco più di mezzo secolo, nello show-down della crisi concorrono stagnazione, inflazione e finanziarizzazione, un triangolo devastante esasperato dallo scardinamento della globalizzazione dovuto allo scontro sistemico stesso.

Oggi la finanziarizzazione non può più essere un rimedio perché è stata utilizzata fino all’eccesso (come già avvertiva Thomas Friedman nel 2004 sul New York Times: “gli elefanti possono volare, ma solo per poco tempo” [9]). Non solo, ma il Paese dove oggi sono concentrati i mezzi di pagamento mondiali, la Cina, è largamente al di fuori del raggio d’azione politico imperiale e quindi della possibilità di far fagocitare le sue risorse dal sistema finanziario occidentale ormai fuori controllo.

Ecco allora un disperato tentativo imperiale di re-industrializzazione che essendo ostacolato dalla neo-compartimentazione dell’economia mondiale alimentata dagli scontri geopolitici, avviene ai danni dei vassalli in Europa e in Giappone e deve fare i conti con ritardi tecnologici, con mancanza di materie prime e con perdita di know how [10].

Negli Stati Uniti si rendono conto dell’impossibilità di una strategia coerente e solida per mantenere l’egemonia mondiale. Esclusa una guerra nucleare dalla quale i generali sanno perfettamente che gli Stati Uniti uscirebbero totalmente distrutti, l’unica speranza sarebbe un collasso interno della Russia e della Cina, inverosimile per mille ragioni, storiche, geografiche, antropologiche, culturali, economiche e politiche ampiamente studiate.

L’unica regione che è ripetutamente collassata nella Storia è stata l’Europa, il continente più violento del pianeta, suddiviso in mille poteri e con la possibilità idro-orografica di fare e disfare mille confini. Gli Stati Uniti si trovano in una situazione, anche geografica, più vantaggiosa di noi, ma il suo sistema economico-sociale ha assunto da subito un andamento “estrovertito”, cioè dipendente dalla conquista diretta o indiretta di crescenti spazi esterni, nonostante spesso si parli delle tendenze “isolazioniste” statunitensi. L’espansionismo è un fenomeno che era comprensibile per la piccola Inghilterra ma è abbastanza sorprendente in una nazione che nasce e si consolida su spazi enormi (“confederazione” e “impero” erano termini intercambiabili per i fondatori degli Stati Uniti). La spiegazione più verosimile è che esso sia dipeso dalla grande capacità di accumulazione degli Stati Uniti messa definitivamente in moto a livello internazionale proprio dal periodo protezionistico che seguì quella Guerra Civile in cui furono sconfitti gli interessi legati alla preminenza dell’impero britannico e alla triangolazione atlantica (manufatti inglesi scambiati con schiavi africani, schiavi africani scambiati con prodotti tropicali americani, prodotti tropicali americani scambiati con manufatti inglesi). E’ la ragione per cui considero la fine della Guerra Civile Americana l’inizio dell’era contemporanea, o meglio ancora dell’era “attuale”.

 

5. La necessità di “estroversione” degli Stati Uniti si scontra ora con la resistenza di due enormi competitor che storicamente non sono dipesi da un’esigenza simile. Ciò che sovente viene chiamato “imperialismo russo” e “imperialismo cinese” sono in realtà relazioni economiche internazionali di natura differente. Ad esse viene dato l’appellativo di “imperialismo” per pigrizia, per comodità, per incapacità di concepire fenomeni diversi da quelli che hanno caratterizzato l’Occidente nella sua particolare traiettoria storica. Le cose stanno in modo differente e non casualmente Giovanni Arrighi intitolò la sua ultima monografia “Adam Smith a Pechino” e non “Karl Marx a Pechino”. Per quanto riguarda la Russia mancano analisi precise che comunque non dovrebbero sottostimare l’influenza di oltre 70 anni di bolscevismo. La stessa reazione di Putin alla shock therapy messa in atto da Eltsin ha risentito, sebbene in modo altalenante, di quella tradizione e dell’attaccamento della popolazione russa ad essa (innanzitutto ai servizi statali e all’assistenza sociale, ma anche ideale, a giudicare dal fatto che il Partito Comunista della Federazione Russa col 19% è il secondo partito [11]).

L’ultima grande stagione di estroversione statunitense è stata la cosiddetta “globalizzazione”, «another name for the dominant role of the United States», come affermò candidamente Henry Kissinger in una conferenza al Trinity College di Dublino il 12 ottobre del 1999. Ma la globalizzazione ha avuto come esito inintenzionale proprio la crescita dei grandi competitor strategici degli Usa e dei competitor minori che attorno ad essi si stanno aggregando. Questo ha portato a un deterioramento della globalizzazione e a una neo-compartimentazione del sistema-mondo dove le economie giovani e dinamiche stanno da una parte e quelle mature e obsolescenti dalla parte opposta.

Ipotesi dello sfasamento cronologico: Lo sviluppo ineguale e i meccanismi del circuito globalizzazione-finanziarizzazione hanno suddiviso il mondo in due parti con processi di accumulazione disallineati, cosa che ha portato a una sfasatura rispetto al loro posizionamento nella crisi sistemica: economie finanziarizzate quelle più mature (Occidente collettivo) ed economie reali quelle più giovani (Sud collettivo)[12].

Il deterioramento della globalizzazione ha provocato quello dei processi di alimentazione delle prime da parte delle seconde. Se la globalizzazione serviva a sopperire a ciò che non potevano più fare le singole società nazionali occidentali né il loro assemblaggio/coordinamento nell’economia-mondo centrata sugli Stati Uniti, ovvero “pompare energia” sufficiente dai processi di creazione del valore a quelli di accumulazione monetaria, il suo scardinamento sta obbligando il centro dominante a ricorrere alla “accumulazione per espropriazione” ai danni dei suoi stessi vassalli. Ma facendo ciò gli Stati Uniti si stanno ritraendo dalla posizione di Paese “egemone” per assumere le vesti di Paese “dominante”. Se l’egemonia è sempre “corazzata di coercizione”, oggi gli Stati Uniti devono usare un massimo di forza dato che ormai godono di un minimo di consenso, pur avendo ancora una notevole presa culturale [13]. Detto in termini generali, il problema che si è trovato di fronte l’Occidente è stato l’impossibilità di inglobare altre economie-mondo nella propria, un’impossibilità di tipo geopolitico (la sconfitta nel Vietnam è forse stato il suo segnale più precoce).

Il problema che il mondo invece si trova oggi di fronte è proprio l’impossibilità dell’economia-mondo occidentale di coesistere con altre economie-mondo, un’impossibilità che ha le sue radici nella logica dei processi di accumulazione che si sono storicamente strutturatati in Occidente.

L’Occidente è quindi in preda a un giro vizioso perfetto: i tentativi di bloccare l’ascesa dei competitor inducono un indebolimento della sua economia e un approfondimento della crisi e questo diminuisce la sua capacità di contrastare i competitor. O l’Occidente cambia strategia, ovvero accetta di negoziare la propria posizione in un mondo multipolare, pagando ovviamente un prezzo in termini di privilegi, comunque destinati a sparire con la forza, o la situazione diventerà sempre più disperata. E questo è pericolosissimo. Il cambio di strategia deve quindi essere rapido.

La disperazione che serpeggia tra le élite occidentali ha infatti già fatto evaporare le loro residue capacità diplomatiche/egemoniche, quasi che si fosse ormai consapevoli che è meglio essere espliciti e brutali dato che non c’è più possibilità di far identificare il bene degli Usa col bene dell’Occidente e il bene dell’Occidente con quello di tutti.

Se si leggono i rapporti dell’FMI e delle altre istituzioni preposte all’ordine mondiale occidentale, si vede un quadro di desolazione che grazia solo pochi Paesi [14]. La maggior parte delle nazioni del mondo sono considerate un “problema”. Problema che deve essere risolto con macellerie sociali e, in definitiva, con l’aggravamento del problema stesso, in un giro vizioso a beneficio dei soliti pochissimi noti.

Se durante la reaganomics un Paese in via di sviluppo dopo l’altro dovette ricorrere ai prestiti delle banche di New York e Londra che riciclavano i petrodollari, accettando di pagare tassi d’interesse inauditi, mentre oggi invece la coda è a Pechino e anche a Mosca, il motivo è proprio questo: in Cina e in Russia non sono considerati come dei problemi e dei polli da spennare. Il BRICS, il BRICS+, la SCO, l’Unione Economica Eurasiatica, trattano i Paesi come soggetti legittimi, con esigenze e aspirazioni legittime.

Cos’altro è l’architettura monetaria che da alcuni anni viene studiata da Sergej Glazyev, il responsabile per l’integrazione e la macroeconomia della Commissione Economica Eurasiatica, l’organo esecutivo dell’Unione Economica Eurasiatica, e che provvisoriamente possiamo definire “Diritti Speciali di Prelievo Multipolari”, se non una sorta di Bancor, quella moneta orientata al debito, cioè ai Paesi che devono svilupparsi, anche in deficit, e non sottoposta a una singola nazione, proposta da Keynes a Bretton Woods e rifiutata a favore del Dollaro (il gold-dollar exchange standard), ovvero una moneta internazionale orientata al credito e al sostegno geopolitico di una parte sola, gli USA, che allora erano la più grande potenza creditrice del mondo?

Il BRICS, il BRICS+, la SCO e la UEE sono impetuosi corsi d’acqua che finiranno per confluire in un unico fiume, assieme al G77, la ridestata Organizzazione dei Paesi non Allineati. Ridestata, che lo si voglia o no, dall’Operazione Militare Speciale russa in Ucraina. Un fiume rappresentabile (e non certo metaforicamente) con le Nuove Vie della Seta, la Belt and Road Initiative (BRI) cinese, alla quale già aderiscono 140 Paesi in Asia, Europa e America Latina. Un’area potenzialmente allargabile a quell’80% di Paesi che non applicano nessuna sanzione alla Russia.

 

6. Gli Stati Uniti, o meglio le sue élite, o meglio ancora le sue élite neo-liberal-con legate allo strapotere della finanza e/o a una mentalità eccezionalista, le élite cresciute, spesso anche anagraficamente, e diventate potentissime con la crisi sistemica, guardano a questi processi non capendoli, considerandoli semplicemente degli insulti a un ordine “naturale” che non poteva e non doveva essere perturbato.

E li guardano sempre più impotenti e spaventate. E questo è molto pericoloso, perché può portarle ad atti disperati di cui nemmeno riuscirebbero a calcolare tutte le conseguenze, per via della loro arroganza e dalla loro inesistente, insufficiente o inadatta preparazione culturale e intellettuale.

Che ciò sia evitato dipende soprattutto da come agirà quella parte degli Stati Uniti – e quella parte dei suoi interessi – che vede meno pericoloso e più conveniente adattarsi a un mondo multipolare che cercare di lanciarsi a testa bassa contro il muro di contraddizioni politiche, economiche e militari che la crisi e la sua gestione neoliberista hanno eretto. Si farebbe per lo meno guadagnare al mondo tempo prezioso anche se una soluzione più duratura richiederà un patto che ponga la società al centro. E lo stesso vale per l’Europa.

A questo punto si passa a un altro tema d’analisi che deve rispondere alla domanda seguente:

La domanda fondamentale: si tratta solo dello scontro tra blocchi con sviluppo disallineato (cosa che lo avvicinerebbe a un classico conflitto interimperialistico) o da questo conflitto sistemico uscirà (obbligatoriamente?) uno scenario socio-economico che poggia su basi diverse?

Innanzitutto dobbiamo domandarci se tutti questi soggetti nazionali che si stanno ribellando all’ordine globale occidentale sperano che la Russia, o la Cina se per questo, prenda il posto degli Stati Uniti come nazione egemone. La risposta molto semplice è No. Ma questo non sembra nemmeno essere nelle intenzioni. Saggiamente, perché la Storia è arrivata a un punto particolare:

Quinto dato di fatto: una nazione oggi può essere egemone globalmente solo a costi altissimi e quindi per un periodo molto limitato di tempo.

E’ un dato storico. Si pensi all’egemonia statunitense entrata economicamente in crisi dopo meno di trent’anni, e si sta parlando di una potenza di primissimo livello che alla fine della II Guerra Mondiale concentrava quasi tutti i mezzi di pagamento mondiali e aveva una produttività che surclassava il resto del globo messo assieme.

La Russia e la Cina vedono perfettamente cosa sta succedendo agli Stati Uniti (ad esempio al suo Dollaro, una volta padrone del mondo). E non vogliono ripetere l’esperienza. Comunque per la Russia i costi sarebbero inaffrontabili se volesse sostituirsi agli USA (tra l’altro litigherebbe subito col suo principale alleato, la Cina, a cui si applica lo stesso ragionamento). Ne segue un’ipotesi:

Ipotesi sulla conseguenza del quinto dato di fatto: dallo scontro sistemico attuale uscirà un ordine multipolare, cioè non ruotante attorno a un unico centro egemone.

Se ciò è confermato, come molte cose fanno pensare, ci sarà (o dovrebbe esserci) di conseguenza un drastico cambio di paradigma sia nei rapporti internazionali sia nei rapporti economico-sociali interni alle singole nazioni, due aspetti dialetticamente collegati, perché da cinquecento anni a questa parte un’economia-mondo è proceduta sempre attorno a un centro egemone, si identificava con esso.

Ipotesi derivata: nel mondo multipolare i rapporti sociali ed economici saranno sensibilmente diversi da quelli che hanno dominato fino ad oggi, oppure il mondo multipolare si esaurirà in un nuovo e più ampio scontro.

In Russia la guerra stessa sta facendo rivedere il “modello” economico. È troppo presto per un giudizio, ma le cose stanno cambiando, ad esempio riguardo al ruolo dello Stato. Sono movimenti da tener d’occhio in modo critico.

Siamo di fronte a una ribellione planetaria che obbligherà i futuri studiosi a rivedere la periodizzazione storica e qualche persona non riflessiva o con scarsa capacità di raziocinio potrebbe chiedersi se io, che sono e mi considero occidentale, faccio il tifo per una parte. Di sicuro non faccio il tifo per l’ipocrisia dei bombardatori “umanitari”, per chi ritiene che mezzo milione di bambini morti in Iraq sono “un prezzo giusto”, per chi dal 1945 ad oggi ha provocato con le sue guerre 20 milioni di morti, per chi a Washington dava l’ordine di bombardare con droni matrimoni in Afghanistan, per chi ha massacrato milioni di civili in Vietnam. E non faccio il tifo per chi sventola la svastica.

Faccio allora il tifo per il compimento di un processo storico che da oltre due decenni ritengo inevitabile? Che senso avrebbe? Sarebbe come fare il tifo per il moto di rotazione della Terra attorno al proprio asse. Sarebbe del tutto insensato. Certo, quando torna la luce del giorno si possono fare cose impossibili durante la notte al buio. Ma, per l’appunto, tutto dipende da cosa si fa.

E’ troppo presto per prevedere che tipo di architettura multipolare nascerà dalla ribellione in corso contro il plurisecolare ordine internazionale occidentale.

Posso solo fare ipotesi in base alla Storia e alla logica, ma credo che nessuno possa onestamente dire che le cose sono chiare. Ci separano ancora anni da una bozza di progetto alternativo sufficientemente precisa, e anni per implementarlo, anni che saranno pieni di eventi difficili da prevedere. Anni in cui questo conflitto si amplierà e di conseguenza si approfondirà. Un decennio? Due decenni?

Sulla carta dovrebbe uscirne un sistema più equo. Ma quali livelli di equità sono necessari?

Una cosa per me è certa:

Assunzione: Se si rimetterà al centro di questa architettura l’accumulazione senza (un) fine tutte le contraddizioni riemergeranno, ancora più gigantesche e in condizioni che renderanno la loro soluzione ancora più difficile.

Non tifo dunque perché venga il giorno. Il Sole sorgerà da solo, non ha bisogno di incoraggiamenti. Io posso solo sperare che durante la notte si smetta di uccidere, si cessi di provocare sofferenze e che prevalgano il buon senso e la pietà.

Tifo invece perché durante il giorno, per parafrasare Karl Polanyi, si riesca a trovare il modo perché la società con mercato (cosa naturale) prenda il posto della società di mercato (cosa innaturale, dove i rapporti tra esseri umani sono sostituiti dai rapporti tra merci).

Altrimenti, come si suol dire, in poco tempo saremmo da capo a quindici e tutte queste sofferenze sarebbero servite solo a mettere alla luce un essere ancor più mostruoso.

«Superare il capitalismo è dunque non soltanto “correggere la ripartizione del valore” (ciò che produce solo un immaginario “capitalismo senza capitalisti”) ma anche liberare l’umanità dall’alienazione economica»(Samir Amin).


NOTE
[1] Qui le dichiarazioni di Bauer. Qui le dichiarazioni di Minihan. Qui le dichiarazioni di Stoltenberg. Per quelle della von der Leyen si veda qui e qui. I discorsi di Ursula von der Leyen sono casi di studio esemplari sul tema “ipocrisia”. Notevole, ad esempio, questo passaggio: «Il sabotaggio del Nord Stream ha dimostrato che dobbiamo assumerci maggiori responsabilità per la sicurezza della nostra infrastruttura di rete». Realmente fantastico: persino i sassi, anche quelli americani, sanno che questo sabotaggio (e disastro ambientale) è stato opera di Stati Uniti/Nato. Ai sassi che ancora non lo sanno consiglio l’inchiesta investigativa del Premio Pulitzer Seymour Hersch. Questa inchiesta è piena di dettagli che possono essere conosciuti solo da “insider”. Che alcune “gole profonde” abbiano permesso in questo momento a Hersh di produrre il suo “scoop”, la sua “bombshell”, è evidente sintomo di una lotta interna all’establishment statunitense. Mi è immediatamente ritornato in mente lo scandalo Watergate e la sua copertura da parte di Bob Woodward e Carl Bernstein per il “Washington Post” (da sempre legato alla CIA) e dallo stesso Hersh per il “New York Times”. In quel caso si è saputo che la “gola profonda” era niente meno che il vicedirettore della CIA, Mark Felt.
Per quanto sia incredibile, persiste ancora un mito condensato nella celeberrima frase «È la stampa, bellezza! E tu non puoi farci niente! Niente!» (Ed Hutcheson-Humphrey Bogart alla fine del film di Richard Brooks L’ultima minaccia, 1952): la (libertà di) stampa può mettere in ginocchio il potere. Vedremo in un’altra nota che fine ha fatto la libertà di stampa negli USA e in Occidente, ma anche all’epoca del Watergate ci voleva ben altro che un’inchiesta-bomba, come ha ammesso la stessa editrice del “Washington Post”, Katharine Graham: «A volte la gente ci accusa di “aver abbattuto un presidente”, cosa che ovviamente non abbiamo fatto e non avremmo dovuto fare. I processi che hanno causato le dimissioni [di Nixon] erano costituzionali». E persino dallo stesso Woodward: “La mitizzazione del nostro ruolo nel Watergate è arrivata al punto di assurdità, in cui i giornalisti scrivono … che io, da solo, ho abbattuto Richard Nixon. Totalmente assurdo”.
Per mettere in ginocchio il potere ci vuole una rivoluzione o un altro potere che vuole scalzarlo, eventualmente “utilizzando” ottimi giornalisti (o comprandone di spregiudicati o vili, cosa che avveniva fin dai primordi della professione come ci racconta Rossini nella sua opera lirica “La pietra di paragone”).
Il fine dell’estromissione di Nixon è ancoro dibattuto negli Stati Uniti (l’anno scorso c’è stato il cinquantenario dello scandalo). Io sono convinto che si volesse impedire il suo disimpegno dal Vietnam. Per altri non è così, ma è la stessa caoticità delle forze e dei decisori statunitensi che non permette una lettura univoca.
Tornando alla von der Leyen, nei suoi interventi si possono notare anche stupidaggini terminologico-concettuali come «la guerra brutale della Russia». La signora von der Leyen sa indicarci una guerra che non sia stata brutale? Forse quella del Vietnam col 67% di vittime civili? O quella in Iraq col 77%? Tutte le guerre sono brutali!
Si noti che il termine composto “guerra della Russia” è accompagnato da due tic, da due automatismi. Il primo è, appunto, aggiungere l’aggettivo “brutale”, il secondo è aggiungere l’aggettivo “non provocata” (unprovoked). Da linguista e scienziato cognitivista geniale qual è, Noam Chomsky ha subito commentato: «Of course, it was provoked. Otherwise, they wouldn’t refer to it all the time as an unprovoked invasion. By now, censorship in the United States has reached such a level beyond anything in my lifetime».
Per quanto riguarda invece la potenza economica dei contendenti, la Cina supera del 20% gli USA per PIL calcolato in PPP e di 8 volte gli UK (noi siamo al 12° posto). Ma nonostante il confronto sulla base del PPP sia più preciso rispetto a quello in base ai valori nominali, tuttavia è incompleto. Come la stessa RAND Corporation ammette «[Il] PIL fornisce solo un limitato quadro del potere. Dice poco sulla composizione dell’economia, come ad esempio se è guidata da settori di punta o è invece dominata da quelli vecchi e in declino». Lo stesso discorso riguarda il budget per la difesa (cfr. RAND Corporation, Measuring National Power”, 2005).
Ma se si prendono sul serio questi “caveat” notiamo un ulteriormente aggravamento della posizione statunitense dato l’altissimo grado di finanziarizzazione della sua economia che significa ridotte capacità produttive reali. Si pensi solo alla produzione statunitense legata all’industria militare comparata a quella Russa. Inoltre, la logica di produzione, guidata dai profitti privati e non dall’efficacia del risultato, spinge i produttori a sviluppare sistemi d’arma complicatissimi e costosissimi ma operabili con difficoltà nei conflitti reali contro un avversario alla pari.
[2] I dati catastrofici per le forze armate ucraine, ancor più allarmanti se confrontati con le perdite russe inferiori di un ordine di grandezza, fuoriescono ora non solo dagli ambienti del Pentagono ma anche da quelli del Mossad e non sono nascosti nemmeno dalla BBC. Per quanto riguarda l’economia, l’FMI ha dichiarato che nonostante la Russia sia la nazione più sanzionata della Storia il suo PIL è più alto di quello della Germania. In compenso il PIL dei bellicosi e revanscisti UK è in zona negativa. Inflazione, fallimenti, disoccupazione, collasso dei servizi pubblici, strette sulle pensioni, il quadro europeo è disastroso e con prospettive foschissime. Non oso nemmeno pensare a cosa succederà quando gli Stati Uniti ci obbligheranno alle sanzioni contro la Cina: dopo la perdita dell’energia a buon mercato russa andremo incontro alla perdita delle merci a buon mercato cinesi. Al di là di ogni altra conseguenza, la produzione di profitto in queste condizioni sarà impossibile a meno di far ritornare i lavoratori ai tempi di Dickens. E in un sistema capitalistico il profitto è la molla dell’economia reale.
Voglio far notare incidentalmente che un rapporto speciale dell’ONU sulla povertà negli UK già comparava la situazione del 2019 alle situazioni descritte da Dickens:
«Ad alcuni osservatori potrebbe sembrare che il Dipartimento del lavoro e delle pensioni sia stato incaricato di progettare una versione digitale e sterilizzata del laboratorio del diciannovesimo secolo, reso famigerato da Charles Dickens, piuttosto che cercare di rispondere in modo creativo e compassionevolmente ai bisogni reali di coloro che affrontano una diffusa insicurezza economica in un’epoca di profonde e rapide trasformazioni indotte dall’automazione, dai contratti a zero ore e da una disuguaglianza in rapida crescita» (UN Report of the Special Rapporteur on extreme poverty and human rights: Visit to the United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland, pag. 5). Ed è del tutto inutile consolarci con scuse come l’uscita degli UK dalla UE: Italia, de te fabula narratur.
La situazione degli Stati Uniti non è molto più rosea, se non dal punto della forza geopolitica relativa e quindi della loro capacità di far pagare il più possibile la crisi a noi. Ma mentire è ormai una questione di vita o di morte. E si mente in modo così spudorato ed esagerato che gli esperti si grattano scettici la testa: “ ‘Too good to be true’ jobs report draws skeptics on data quirks”, titola “The Philadelphia Inquirer” il 3 febbraio scorso, un articolo che riporta le stime di Bloomberg che parlano di un aumento di oltre mezzo milione di posti di lavoro in Gennaio, cosa che porterebbe il tasso di disoccupazione addirittura ai livelli più bassi dal 1969, cioè da inizio crisi! L’Inquirer fa notare però che si tratta di un dato “aggiustato” e che la stessa Bloomberg ammette che «Su base non rettificata, le buste paga sono in realtà diminuite di 2,5 milioni il mese scorso» (“On an unadjusted basis, payrolls actually fell by 2.5 million last month).
[3] I BRICS stanno elaborando un sistema di pagamenti alternativo al Dollaro, notizia che non si trova nei media occidentali ma che potete trovare sul media outlet indiano “Business Standard”.
Comunque il “Financial Times” ci informa che le due più grandi economie dell’America Latina, Brasile e Argentina, hanno iniziato la preparazione di una moneta comune, che si dovrebbe chiamare “Sur”, per incrementare il commercio regionale e “ridurre la dipendenza dal Dollaro”.
L’Arabia Saudita sta considerando di vendere petrolio in divise diverse dal Dollaro.
La Cina sta trattando per comprare energia dai Paesi del Golfo in Yuan.
Le banche centrali di Russia e Iran alla fine dello scorso gennaio hanno firmato un accordo per connettere le banche dei due Paesi attraverso un sistema alternativo allo SWIFT.
Intanto le riserve cinesi in bond governativi statunitensi sono diminuite in un anno di 92 miliardi di dollari.
Ovviamente l’Euro non se la passerà meglio: il vice-ministro russo delle Finanze, Vladimir Kolychev ha dichiarato che entro l’anno la quota di Euro nei Fondi Nazionali Russi sarà azzerata nell’ambito di una revisione della composizione del fondo che alla fine ammetterà solo Rubli, Yuan e oro.
Per un’analisi generale recente si veda il rapporto “The Future of the Monetary System”, pubblicato niente meno che dal Credit Swiss e redatto da un team diretto da Zoltan Pozsar, un autore che consiglio di seguire.
[4] Su un versante politico-filosofico dobbiamo aggiunge Gramsci come classico (la fondamentale nozione politica di “egemonia” è sua) e Costanzo Preve come pensatore contemporaneo.
Questi autori non dicono le stesse cose, né hanno le stesse preoccupazioni. Ad esempio, se Lenin e la Luxemburg sono dei politici, Arrighi è un economista e storico, Shimshom e Bichler sono economisti, Harvey è un geografo mentre Moore si occupa di sistemi socio-ecologici. Ma se invece di dare al loro pensiero una lettura tutta interna alla dimensione delle idee, incasellando i loro ragionamenti sui rami di un albero col tronco ben piantato sottosopra con le radici nel cielo, si cercano di capire i problemi concreti, materiali, su cui si sono concentrati, e di localizzare sia i problemi che i punti di vista, (localizzare in senso storico e geografico), allora oltre ai punti di divergenza si potranno notare anche gli elementi comuni senza necessariamente rischiare di cadere nell’eclettismo. Specie se si traguarda la loro lettura coi problemi che devono essere affrontati oggi. Per parafrasare Marx, non bisogna dividere in quattro le idee, i concetti, per collocarli in una tassonomia accademica («Prima di tutto, io non parto da “concetti”, quindi neppure dal “concetto di valore”, e non devo perciò in alcun modo “dividere” questo concetto», Marx, “Glosse marginali al Manuale di economia politica di Adolph Wagner”).
[5] Riguardo lo sprofondamento in un regime da Ministero della Verità orwelliano, si pensi innanzitutto a Julian Assange. O si pensi a Seymour Hersh, il più grande giornalista investigativo statunitense, il Premio Pulitzer che svelò il massacro di My Lai e i bombardamenti segreti della Cambogia durante la guerra del Vietnam e denunciò le torture di Abu Ghraib. Autore di inchieste che comparivano in prima pagina sul “New Yorker” e sul “New York Times”, oggi è emarginato come un paria essendosi opposto alle versioni ufficiali degli attacchi chimici in Siria, del caso Skripal e del sabotaggio del Nord Stream. Si pensi ancora al giornalista britannico Graham Phillips, accusato di “crimini di guerra” per aver detto che il mercenario britannico in Ucraina Aiden Aslin era, per l’appunto, un mercenario. Gli hanno anche bloccato il conto in banca. Alla giornalista tedesca Alina Lipp oltre che congelare il conto in banca hanno sequestrato il computer e rischia la galera con l’accusa di aver “diffuso notizie false atte a turbare l’ordine pubblico” per non essersi uniformata alla copertura dei media Minculpop sulla guerra. Sorte simile per la cineasta francese Anne-Laure Bonnell, acclamata nel 2016 persino dal “New York Times” per un suo documentario sul Donbass e oggi esclusa da ogni evento cinematografico con la colpa di voler continuare a dire la verità sul Donbass. Ha anche perso il posto all’università parigina dove insegnava. Il giornalista italiano Giorgio Bianchi è entrato nella kill list dei servizi segreti ucraini che appare nel sito “Myrotvorets” (“Il pacificatore”), senza che il nostro ministero degli Esteri si sia sentito in dovere di protestare.
La cosa più inquietante è la velocità con cui siamo passati dal pluralismo all’intolleranza.
[6] «A noi non interessa un mondo senza la Russia», ha dichiarato Putin, ma questo è il sentire del 99% dei Russi e lo hanno dimostrato in 1.000 anni di storia. Che quella in Ucraina sia una guerra esistenziale, ai Russi glielo abbiamo fatto capire con abbacinante chiarezza dichiarando esplicitamente: 1. che la guerra in Ucraina è stata deliberatamente preparata per anni, tradendo ogni accordo, per indebolire la Russia; 2. che vogliamo abbattere il legittimo governo che i Russi hanno eletto; 3. che vogliamo smembrare la Russia come abbiamo fatto con la Jugoslavia; 4. che odiamo o ci è estraneo tutto ciò che è russo.
[7] George F. Kennan, “A Fateful Error”, The New York Times, 5 febbraio 1997.
[8] Riguardo questo tema posso fare solo alcune considerazioni di metodo. La classica dottrina della “verità” si basa sulla definizione aristotelica di “adaequatio rei et intellectus” dove il soggetto che parla (intellectus) è distinto dalle cose (res) di cui questo soggetto parla. In tempi moderni, questa distinzione è stata rielaborata dal logico tedesco Gottlob Frege in quella tra “Sinn”, cioè “senso”, e “Bedeutung”, cioè “riferimento”, e l’interpretazione “realistica” del concetto di “riferimento” era sottintesa anche nella semantica formale del grande logico e matematico polacco Alfred Tarski. Ma col post-strutturalismo (Jacques Derrida, Gilles Deleuze, Jacques Lacan, Michel Foucault, ecc.) il “riferimento” viene relativizzato (o “intenzionalizzato”) abbandonandone l’interpretazione “realistica”. La semiotica post-strutturalista di Umberto Eco, ad esempio, riallacciandosi alla “semiosi illimitata” di Charles Sanders Peirce, sostiene che l’enunciato “La neve è nera” è rifiutato non perché si riferisce erroneamente a uno stato di cose, ma perché altrimenti dovremmo «riorganizzare le nostre regole di comprensione”, dato che questa affermazione romperebbe una “unità culturale”» (“Trattato di semiotica generale”, Bompiani, 1975 § 2.5). L’interpretazione diventa un riferimento interno in una sorta “antinomia del mentitore” metodologica. La critica post-strutturalista, che ha lati interessanti e altri cialtroni, specialmente quando mima il rigore delle scienze esatte, ha condotto a quelle posizioni relativistiche che oggi sono sfociate nei concetti di “narrazione” e di “post-verità”.
Già nel 1994 Noam Chomsky era esterrefatto da questa deriva:
«Se finisci per dirti: “è troppo difficile occuparsi dei problemi reali” ci sono un sacco di modi per non farlo. Uno di essi consiste nel disperdersi in affari di scarsa importanza. Oppure impegnarsi in culti accademici completamente avulsi dalla realtà e che costituiscono un riparo al doversi occupare delle cose come stanno. E’ pieno di comportamenti di questo genere, anche all’interno della sinistra. … Oggi nel Terzo Mondo predomina un senso di profonda disperazione e di resa. Il modo in cui si è estrinsecato questo atteggiamento, nei circoli colti che hanno contatti con l’Europa, è stato di immergersi completamente nelle ultime follie della cultura parigina e di concentrarsi totalmente su di esse. Per esempio, se dovevo parlare di attualità, anche in istituti di ricerca che si occupassero di aspetti strategici, i partecipanti volevano che li traducessi in vaneggiamenti postmoderni. Per fare un esempio, piuttosto che sentirmi parlare dei dettagli dell’azione politica statunitense in Medio Oriente, cioè a casa loro – che è una cosa sporca e priva d’interesse – preferivano sapere in che modo la linguistica moderna fornisse un nuovo paradigma argomentativo riguardo gli affari internazionali, capaci di soppiantare il testo poststrutturalista. Questo li avrebbe davvero incantati… . Tutto ciò è deprimente.» (Keeping the Rabble in Line: Interviews With David Barsamian”. Questo passaggio è citato opportunamente da Alan Sokal e Jean Bricmon nel loro “Imposture intellettuali” (Garzanti 1999) nel loro tentativo di “mettere in guardia la sinistra da se stessa” (Nota: quasi 30 anni dopo, come stiamo vedendo, il Terzo Mondo è meno disperato e vede la possibilità di sottrarsi agli artigli dell’Occidente e alle sue “follie parigine” sempre più fuori controllo).
Non era necessario che finisse così male, ma così è stato, per questioni storiche: questo modo di concettualizzare fa comodo al Potere, perché la narrazione, la post-verità, è in mano a chi controlla i media, a chi gestisce il “soft power”. Il “politicamente corretto” fa parte di questi esiti: non è corretto dire “negro” (piano linguistico), ma ciò non evita che la stragrande maggioranza relativa di condannati a morte negli USA sia composta da “neri” (piano della realtà). Il grande sforzo ideologico di politici e mass media è convincere il pubblico a lasciar perdere lo stato dei fatti e a concentrarsi solo sul linguaggio. Le contraddizioni devono essere espunte dal linguaggio non dalla realtà. Si potrebbe pensare che quanto meno è un inizio. No! E’ già la fine, pura forma senza sostanza.
Allo stesso modo la sinistra si è progressivamente concentrata sugli aspetti più superficialmente “culturali” del conflitto, privilegiando le sottoculture e la difesa dei diritti (e dei bisogni) individuali e di gruppi specifici che non creano nessun reale fastidio, sostituendo con tutto ciò la visione materialista del mondo e la difesa dei diritti e dei bisogni sociali e alienandosi le simpatie popolari a beneficio della destra. Secondo Michael Hudson il tradimento dei propri patti costitutivi è il compito e la ragion d’essere attuale dei partiti di sinistra. Questa deriva era stata ampiamente prevista da Pier Paolo Pasolini. E’ significativo che negli eventi per il centenario della sua morte si sia glissato su questo aspetto del suo pensiero o lo si sia ridotto a fatto di costume o a polemica.
Purtroppo lo scollamento economico e culturale dalla realtà ha indotto equivoci anche in parecchi compagni che assieme ad abbagli sulla globalizzazione si sono messi a teorizzare sul “capitale immateriale”, sulla “infosfera” e sul “lavoro cognitivo” in modi che troppe volte riecheggiavano i vuoti slogan accattivanti dell’avversario.
Faccio notare che a volte persino gli studi statunitensi di geostrategia erano, anche se solo parzialmente, influenzati dall’approccio, diciamo così, “finanziarizzato-poststrutturalista” (si veda ad es. Ashley J. Tellis, Christopher Layne, “Measuring National Power in the Postindustrial Age”, Foreign affairs (Council on Foreign Relations), January 2001.
Una volta messi in circolo questi guasti culturali, agendo sulla de-concettualizzazione promossa dalla “pedagogia progressista” e sull’ideologizzazione indotta da infotainment e tecniche di marketing centrata sull’identificazione di desiderio individuale e diritto, contando sull’ignoranza imposta dalla censura e da un sistema d’informazione uniformato e normalizzato e infine garantite da un meccanismo di punizione-premiazione che obbliga al conformismo ideologico e politico, le élite dominanti hanno trascinato nel loro stato di disconnessione epistemologica e dissonanza cognitiva il corpo della società, pressoché nella sua interezza.
[9] Thomas Friedman, “The 9/11 Bubble”. The New York Times, 2 dicembre 2004.
[10] La decentralizzazione negli Usa delle industrie europee comporterà anche un’emigrazione di forza lavoro qualificata e uno avvilimento/smantellamento del ciclo istruzione-ricerca-sviluppo nel Vecchio Continente.
[11] Ovviamente occorre tener conto dei dati anagrafici. Ricordo che nel referendum del 1991 la media di chi chiese il mantenimento dell’Unione Sovietica fu di circa l’80% dei votanti. E faccio anche notare la cautela con la quale Putin ha affrontato il tema dell’aumento dell’età pensionabile (da 60 a 65 anni per gli uomini e da 55 a 60 per le donne).
[12] Lo sviluppo ineguale è indotto dal fatto che l’accumulazione si basa su differenziali di sviluppo (economici, finanziari, culturali, politici e geopolitici), sia all’interno delle singole società sia tra Paesi e blocchi di Paesi. Per il concetto di “differenziali di sviluppo” e il loro ruolo nei conflitti si può vedere i miei “La logica della crisi” in “Dopo il neoliberalismo”, a cura di C. Formenti, Meltemi 2021 e “Al cuore della Terra e ritorno”, 2013, in due volumi scaricabili gratuitamente qui e qui.
[13] L’espressione “pompare energia” è usata da Fernand Braudel nel suo “La dinamica del capitalismo”, Il Mulino, 1988, pag. 63: «Il capitalismo è, per natura, congiunturale, cioè si sviluppa in rapporto- alle pressioni esercitate dalle fluttuazioni economiche… .[P]enso che nella vita mercantile tendesse ad affermarsi solo un tipo di specializzazione: il commercio del denaro. Il suo successo però non è mai stato di lunga durata, come se l’edificio economico non fosse in grado di pompare energia fino a queste alte vette».
Il concetto di “accumulazione per espropriazione” è stato introdotto da David Harvey rielaborando idee di Rosa Luxemburg, Fernand Braudel e il noto capitolo del Capitale di Marx sulla cosiddetta “accumulazione originaria”, interpretata, come da altri esponenti della scuola del sistema-mondo, come un processo in realtà ricorrente. Si veda “The ‘new’ imperialism: accumulation by dispossession”. Socialist Register 40, 2004, pp. 63-87.
La fondamentale elaborazione gramsciana del concetto di “egemonia” si trova, come è noto, nei “Quaderni del carcere”.
[14] Senza contare che una nazione ricca come la Libia, la più sviluppata dell’Africa, è stata devastata deliberatamente dall’Occidente (compresa vergognosamente l’Italia di cui era la maggior alleata nel Mediterraneo).

https://sinistrainrete.info/geopolitica/24927-piero-pagliani-slittamento-di-paradigma.html

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Macerie e retorica, di Lee Slusher

Traduciamo e pubblichiamo questa eccellente analisi della situazione militare in Ucraina, che comprende una previsione, più che condivisibile, di quali giustificazioni verranno date dalle dirigenze occidentali quando sarà inequivocabilmente chiara “la verità effettuale della cosa”. Roberto Buffagni

 

https://deepdivewithleeslusher.substack.com/p/rubble-and-rhetoric

Macerie e retorica

Tanti morti per niente

di Lee Slusher[1]

8 febbraio 2023

La guerra in Ucraina potrebbe prendere due direzioni. La prima l’ho descritta nel mio ultimo articolo, “Armageddon all’ora del dilettante”[2]. In questo caso, l’Occidente continuerebbe l’escalation fino al conflitto diretto con la Russia, che potrebbe sfociare in una guerra nucleare, nel qual caso tutte le scommesse sarebbero annullate. La seconda opzione è che la Russia vinca in modo abbastanza deciso da stabilire le condizioni per il completamento della guerra, sia attraverso una vittoria militare schiacciante sia forzando un accordo che soddisfi le richieste fondamentali di Mosca. Perché non ci sono altre opzioni? Considerate quanto segue, che ho scritto in una spiegazione dettagliata delle origini della guerra, solo pochi giorni dopo l’invasione russa del febbraio 2022[3]:

Per essere chiari, la Russia ha i mezzi per conquistare tutta l’Ucraina, anche usando solo forze convenzionali. La Russia potrebbe scatenare il suo esercito di un tempo e impiegare massicciamente un’artiglieria, seguita da masse di fanteria di massa e da masse di forze corazzate (carri armati). Un approccio di questo tipo aumenterebbe esponenzialmente le vittime militari e civili e distruggerebbe la maggior parte, se non tutte, le infrastrutture dell’Ucraina.

Tutto ciò rimane vero oggi, anche se quando ho scritto il brano, l’Occidente non si era ancora impegnato completamente in una guerra per procura con la Russia. All’epoca, i leader occidentali si aspettavano ancora che Kiev cadesse nel giro di pochi giorni e il governo statunitense aveva da poco offerto al Presidente Zelensky l’assistenza necessaria per lasciare il Paese. La situazione iniziò a cambiare, prima gradualmente e poi improvvisamente. Un abbondante flusso di armi occidentali e di informazioni mirate divenne il sostegno vitale su cui poggiava l’intero sforzo bellico ucraino. Gli aiuti militari occidentali hanno creato il miraggio di un’imminente vittoria ucraina, ma, come tutte le illusioni, anche questa è stata fugace. Oggi rimane visibile solo attraverso il caleidoscopio della propaganda e la nebbia febbrile del fanatismo. La verità ora è quella che è sempre stata: In una guerra tra Russia e Ucraina, la Russia vince facilmente. In una guerra per procura tra Russia e Occidente in Ucraina, la Russia vince alla fine, ma con molta più morte e distruzione, soprattutto per l’Ucraina.

La Russia ha sicuramente commesso degli errori militari. Il principale di questi è stato il presupposto che l’Occidente non avrebbe alimentato una guerra per procura, soprattutto in una misura così ampia. È sulla base di questo presupposto errato che la forza d’invasione russa era inadeguata, sia per dimensioni che per tenacia. Ma ora la Russia si è riorientata e la sua mobilitazione in corso è formidabile. Nel frattempo, l’Occidente sta lottando per mantenere le forniture di materiale necessarie all’Ucraina per sostenere una guerra ad alta intensità. Per farlo ancora a lungo sarebbe necessaria una mobilitazione industriale su larga scala nei Paesi occidentali, in particolare negli Stati Uniti. Tuttavia, la popolarità della guerra sta svanendo, soprattutto perché l’attenzione si concentra più strettamente sulle preoccupazioni economiche e su altre questioni interne.

 

C’è poi la questione delle cifre spaventose delle vittime dell’Ucraina. La guerra industriale produce perdite su scala industriale. Nessuno dispone di cifre precise per entrambe le parti, ma una stima prudente e di basso livello è che l’Ucraina, in meno di un anno, abbia subito più di 150.000 morti in azione e un numero di feriti molte volte superiore. Questo per un Paese che, secondo i dati, aveva una popolazione di meno di quarantaquattro milioni di abitanti [4] il giorno dell’invasione e che da allora ha visto più di sette milioni di persone fuggire come rifugiati[5]. Le forze armate ucraine del 2014-2022, addestrate ed equipaggiate dalla NATO, non esistono più e lo stesso vale per la forza sostitutiva che Kyiv ha assemblato e schierato in fretta e furia l’anno scorso. Le manovre ad armi combinate sono difficili anche per eserciti esperti, e l’Ucraina non ha più un esercito di questo tipo.

Molti commentatori di spicco concludono stupidamente che, poiché le più recenti e migliori intuizioni sulla guerra ad alta intensità si trovano attualmente in Ucraina, gli ucraini sono in grado di raccogliere e mettere in pratica queste lezioni. Questo è falso, almeno in un senso diffuso e sostenibile. Il ritmo e l’intensità della guerra impediscono all’Ucraina di sviluppare una simile memoria istituzionale o capacità di apprendimento. Lo sforzo bellico ucraino è un paziente che si avvale di una terapia intensiva. Peggio ancora, questo paziente ora si affida a frequenti e importanti trapianti di organi e trasfusioni di sangue per sopravvivere. Nessuna quantità di addestramento in altre parti d’Europa o negli Stati Uniti può risolvere il problema dell’Ucraina, che ha troppo poco personale per vincere o anche solo sostenere questa battaglia. Nessun addestramento può sostituire la morte di massa di ufficiali esperti e soldati professionisti. Le bande di giornalisti che ora si aggirano per le strade delle città e dei paesi dell’Ucraina non possono colmare questo divario. La potenziale introduzione di sistemi d’arma finora inutilizzati, compresi i carri armati occidentali, non modificherà l’esito finale della guerra in modo significativo o anche solo percettibile. Nel frattempo, la Russia sta costruendo metodicamente una forza di centinaia di migliaia di uomini all’interno e intorno all’Ucraina e continua a degradare il personale militare e le capacità critiche dell’Ucraina, in particolare l’artiglieria e la difesa aerea.

 

L’orologio di Kiev sta per fermarsi, probabilmente più presto che tardi.

 

Come siamo arrivati a questo punto?

 

Ancora oggi, molti occidentali, sia leader che semplici cittadini, credono a una serie di falsità sulla situazione attuale della Russia. Credono che l’esercito russo sia incompetente e sull’orlo del fallimento. Credono che l’economia russa sia paralizzata dalle sanzioni e, allo stesso modo, sull’orlo del fallimento. Credono che la Russia sia diventata un paria internazionale, anziché solo occidentale. Ritengono che Putin sia malato di mente, forse addirittura malato terminale, e che sia sempre sotto la costante minaccia di essere assassinato o rimosso con la forza dal suo incarico. Alcuni insistono addirittura affinché il mondo si prepari all’imminente collasso e smembramento della Russia moderna, alla quale – chiedono – non dovrà mai essere permesso di risorgere dalle proprie ceneri.

 

La maggior parte dell’Occidente non ha mai capito veramente la Russia. A ciò ha contribuito, in misura non trascurabile, l’insistenza incrollabile dei russi stessi sul fatto che nessun altro potrebbe mai capire cosa significhi essere russi, come se si trattasse di un piano mistico dell’esistenza. Per quasi venticinque anni ho dovuto contestare questa convinzione – sia in inglese che in russo – con molti dei miei amici e conoscenti russi. Nel mio articolo “On Appeasement: The Fallacy of Modern Munich Moment[6], ho descritto in dettaglio come l’Occidente abbia trascorso ben quindici anni ignorando o comunque attenuando gli avvertimenti e le reazioni sempre più aggressive di Mosca alla continua espansione dell’Occidente lungo la periferia della Russia. Nel frattempo, gli affari sono andati avanti come al solito, anche per i produttori di armi europei, alcuni dei quali hanno continuato a esportare armi in Russia almeno fino al 2020. Alla fine del 2021, Angela Merkel, desiderosa di portare a termine il Nord Stream 2, ha promesso al mondo che la Russia non avrebbe osato sfruttare il suo nuovo gasdotto verso la Germania per emarginare l’Ucraina, attraverso la quale per lungo tempo è transitato gran parte del gasdotto destinato all’Europa. La Merkel lo disse mentre le forze russe si stavano ammassando al confine con l’Ucraina. Nel luglio del 2022, mesi dopo l’invasione, il capo dell’ente normativo tedesco per l’energia ha dichiarato: “Siamo in una situazione in cui il gas è ora parte della politica estera russa e forse della sua strategia di guerra”. Ora fa parte della politica estera? Forse parte della strategia di guerra?

 

Per non essere da meno, gli Stati Uniti sono impazziti sulla scia delle elezioni presidenziali del 2016. Non si è trattato di un evento organico o spontaneo. Dal dossier Steele alle bufale dei bot online, l’ufficialità americana si è affidata a uno spauracchio russo fabbricato per condurre una campagna di propaganda sul pubblico durata anni. Si trattava di Rocky e Bullwinkle[7], di orsi ballerini e, naturalmente, di vodka – quei russi pazzi! Non c’è mai stata una comprensione comune, tanto meno un’accettazione, del fatto che la Russia – nonostante i suoi difetti – si è guadagnata da tempo la sua posizione tra le grandi nazioni del mondo. La Russia ha contribuito come ogni altro Paese al progresso delle arti, delle scienze e della tecnologia. La Russia ha prodotto atleti di livello mondiale (nonostante i recenti scandali sul doping) e controlla un esercito formidabile e un arsenale nucleare vasto e capace. I proclami banali secondo cui la Russia è una stazione di servizio mascherata da Paese dovrebbero meritare a funzionari e opinionisti un posto permanente al tavolo dei bambini della politica.

È in questa miscela di ignoranza, autoinganno e manipolazione che è nata la percezione occidentale della guerra in corso. Negli ultimi decenni ho osservato come l’establishment della difesa statunitense abbia cercato di influenzare il pubblico straniero. Questi sforzi sono stati quasi uniformemente infruttuosi, spesso in modo ridicolo. Nuovi giornali e stazioni radiofoniche, impegno online, volantini, sensibilizzazione delle comunità: queste cose semplicemente non funzionano molto bene. Sembra che la gente di tutto il mondo sia un buon arbitro del “test dell’odore”. Il vero potenziale di sfruttamento è a livello nazionale, come abbiamo visto con il Russiagate.

 

I media occidentali non solo ripetono ubbidienti le parole dei funzionari di sicurezza degli Stati Uniti e di altri Paesi della NATO, ma pubblicano abitualmente articoli basati su informazioni provenienti esclusivamente dai servizi di sicurezza ucraini. I giornalisti lo fanno nonostante sappiano, ad esempio, che Kiev gestisce una sofisticata macchina di propaganda. Non ci sono media avversari, non c’è un quarto potere. La stampa è ora in gran parte impegnata a promuovere gli obiettivi dell’establishment: l’Ucraina è solo una fissazione del momento. Il monolite politico-culturale composto da governo, grandi aziende, media di informazione e intrattenimento, tecnologia e università ha creato e imposto una rappresentazione della guerra degna di un cartone animato. Questo Leviatano ha emarginato e screditato i tentativi di indagine, discussione e dibattito sostanziali.

 

La triste e semplice verità è che l’Ucraina non avrebbe potuto vincere mai.

 

Perché questo è importante?

Molte persone, ucraine e russe, sono morte per niente.

 

La continuazione del sostegno militare all’Ucraina è stata condizionata, in parte, dalla percezione pubblica in Occidente che l’Ucraina potesse vincere – che i miliardi di aiuti avrebbero fatto qualcosa di diverso dal perpetuare un massacro fino alla scomparsa definitiva di Kiev. Sì, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno già condotto guerre impopolari in passato. Per esempio, il cittadino medio occidentale ha perso rapidamente interesse per le guerre in Afghanistan e in Iraq e, ancora oggi, rimane in gran parte ignaro dell’orrendo numero di vittime non occidentali di queste guerre, ma le guerre si sono trascinate comunque. Tuttavia, il concetto di mission creep aveva allora un significato molto diverso. Sprofondare sempre di più in un pantano nazionale in una terra lontana è ben diverso dal lanciare i dadi della Terza Guerra Mondiale. La narrazione dell’Ucraina doveva essere positiva, a prescindere dai fatti, altrimenti la spinta per una guerra per procura sarebbe morta prima di cominciare.

 

C’è un’altra ragione per cui questo è importante. Le bugie e le offuscazioni che circondano la guerra in Ucraina hanno mascherato pericolose realtà sulle capacità militari, sia della NATO che della Russia. Un recente rapporto[8] ha concluso che l’esercito britannico potrebbe resistere un solo pomeriggio sul campo di battaglia contro la Russia prima di rimanere senza munizioni. Qualcuno potrebbe essere tentato di ignorare il rapporto, perché proviene da un think tank dell’esercito britannico. Sarebbe sciocco. Decenni di tagli al bilancio hanno ridotto l’esercito britannico a una sola divisione di prima linea, con un fatale difetto di sostenibilità.

 

La storia è la stessa o peggiore per la maggior parte delle forze armate europee della NATO. Questo è stato un disegno intenzionale. Le nazioni europee hanno incassato il “dividendo della pace” prodotto dalla fine della Guerra Fredda, e il denaro che era stato utilizzato per finanziare grandi eserciti permanenti è stato destinato ai servizi sociali. Gli eserciti non si concentrarono più sulle manovre ad armi combinate. Il loro obiettivo non era più “andare a contatto con il nemico e distruggerlo”, almeno non su larga scala. Quindi, questa capacità si è atrofizzata. La maggior parte delle forze armate europee, invece, si è concentrata sulla fornitura di capacità specialistiche, spesso di concerto con i Paesi vicini, in modo che complessivamente queste forze armate potessero sostenere operazioni “fuori area” (cioè, fuori dall’Europa). Questo approccio potrebbe essere sufficiente per sostenere operazioni di peacekeeping o guerre a bassa intensità nei Paesi in via di sviluppo, ma “la potenza fa il diritto” negli impegni ad alta intensità. Gli Stati Uniti affrontano sfide che si sono preparati da sé. Ecco alcune dure verità:

  • Sebbene la NATO disponga di un numero consistente di truppe nell’insieme totale, la maggior parte di esse sono riservisti, non forze in servizio attivo. Questo tipo di personale richiederebbe una mobilitazione massiccia, che comprende l’addestramento di aggiornamento, l’equipaggiamento, lo scaglionamento, il trasporto e così via. Al momento, la NATO non si addestra attivamente né si prepara in altro modo per un’impresa di tale portata gigantesca: un piano su uno scaffale non è un sostituto.
  • Le forze della NATO non si addestrano per schierarsi direttamente in combattimento in Europa, almeno non in dimensioni e modalità adeguate. I sistemi d’arma della Russia che hanno portata oltre l’orizzonte (ad esempio, i missili) coprono efficacemente gran parte dell’Europa. Pertanto, la NATO non potrebbe contare su aree di sosta avanzate in caso di conflitto diretto con la Russia. In guerra i gruppi e gli individui non si mettono istantaneamente “all’altezza della situazione”, ma restano al loro livello di addestramento più efficace. Tuttavia, le forze NATO in Europa non hanno un addestramento tale da poter essere schierate in combattimento direttamente dalle loro guarnigioni.
  • Anche prima che l’Occidente svuotasse le sue scorte di armi per sostenere la guerra in Ucraina, non aveva materiale sufficiente per impegnarsi in una guerra prolungata e ad alta intensità. Da allora, in nessun Paese della NATO si è verificata una mobilitazione industriale interna. Ciò mette in discussione la possibilità che tale mobilitazione possa avvenire abbastanza rapidamente da evitare la sconfitta in caso di guerra improvvisa con la Russia.
  • Inoltre, naturalmente, c’è il problema di portare il materiale dove è necessario. La Russia ha iniziato solo di recente a degradare le infrastrutture civili dell’Ucraina e non ha attaccato alcuna infrastruttura nei Paesi della NATO. La situazione cambierebbe rapidamente. Anche in assenza di un attacco russo, l’Europa non ha la capacità di trasporto ferroviario e di veicoli cargo per sostenere un’operazione di questo tipo. La maggior parte dei ponti europei non può nemmeno sostenere il peso di alcuni carri armati principali, come gli Abrams.
  • Gli Stati Uniti sono sempre stati destinati ad essere il peso massimo della NATO. Gli altri membri non avrebbero mai dovuto sottrarsi alle loro responsabilità, come hanno fatto a lungo, ma il loro scopo principale era quello di “tenere la linea” fino a quando l’America non avesse potuto mobilitare la sua enorme forza militare. Ma di quella forza ne è rimasta ben poca, sia in termini numerici che di capacità. La maggior parte del personale statunitense attualmente in servizio si è arruolato dopo l’abbandono dei conflitti ad alta intensità. In effetti, molti di coloro che si sono arruolati in risposta agli attacchi dell’11 settembre hanno completato la carriera e sono andati in pensione. L’attuale versione delle forze armate statunitensi sa come condurre una guerra a bassa intensità utilizzando sistemi ad alta tecnologia in un ambiente in gran parte incontrastato. Le truppe statunitensi sono arrivate a fare affidamento su un facile accesso al supporto aereo, oltre che al rifornimento e al trasporto aereo: tutto ciò si basa proprio sulla superiorità aerea che sarebbe messa in pericolo dalle difese aeree della Russia. Le forze statunitensi si troverebbero soggette ad attacchi aerei sostenuti per la prima volta da generazioni. Una realtà simile si applica alla dipendenza degli Stati Uniti dalla navigazione e dal puntamento GPS, che subirebbe non solo disturbi e spoofing[9], ma anche le armi anti-satellite della Russia.

Ci sono altre carenze critiche, ma queste sono sufficienti a illustrare gli scarsi livelli di preparazione, addestramento, logistica e così via della NATO. Il sontuoso quartier generale in vetro della NATO a Bruxelles smentisce queste realtà. Se è vero che la Russia ha le sue carenze, dovremmo ricordare il vecchio adagio militare sulla necessità di “arrivare per primi con il massimo numero”. In Europa, attualmente, la Russia ha fatto questo. Ha centinaia di migliaia di uomini sul campo, supportati da linee di rifornimento ben consolidate, e la sua industria della difesa si è già mobilitata. In patria, la popolazione è in gran parte favorevole a questo atteggiamento bellico, nonostante la propaganda contraria.

 

Alcuni potrebbero far notare le capacità avanzate che la NATO potrebbe scatenare contro la Russia. Esse esistono, certo, ma la Russia ha le sue, non limitate ai missili ipersonici. Consideriamo la guerra elettronica. Non solo le capacità della Russia sono probabilmente più avanzate, ma il Paese dispone di una serie stratificata di sistemi – tattici, operativi e strategici – lungo tutta la sua periferia occidentale. Questi sistemi “arrivano” in Ucraina e nei Paesi della NATO. Ciò evidenzia una differenza fondamentale tra l’esercito americano e quello russo. L’esercito statunitense è una forza di spedizione per concezione: è destinato a combattere altrove. L’esercito russo è progettato per difendere la Russia. Affinché la struttura delle FFAA degli Stati Uniti sia efficace in un conflitto prolungato, è necessario un massiccio accumulo di forze, che richiede mesi. Questo è evidente in ogni parte della macchina da guerra statunitense, dall’architettura amministrativa dettata dalla legge Goldwater-Nichols[10] alle attrezzature che gli Stati Uniti acquistano. Tutto è progettato per essere utilizzato in un’operazione all’estero che può essere liberamente sostenuta da un supporto logistico internazionale. Ma la Russia contesterebbe proprio le rotte marittime e aeree su cui si basa questo supporto. Nel frattempo, la Russia non solo può combattere nel suo cortile, ma è anche pronta a sparare da casa sua. Con questo non voglio dire che la Russia vincerebbe necessariamente un conflitto prolungato con la NATO: non ho la sfera di cristallo. Si tratta di una verifica della realtà delle circostanze attuali, una verifica necessaria e terribile.

 

Si consideri, inoltre, che l’Europa vede già massicce proteste contro le sanzioni alla Russia, le armi per l’Ucraina e persino l’adesione alla NATO. Quanta voglia c’è di guerra con la Russia, in particolare per persone abituate alla pace e alla prosperità che, fino a poco tempo fa, non avevano mai immaginato che la guerra potesse arrivare alle loro porte? Se la Russia dovesse ottenere qualche rapida vittoria o se la NATO dovesse subire anche solo una frazione delle perdite del livello del Donbass, cosa accadrebbe? La guerra finirebbe o, forse, la NATO si dissolverebbe in una coalizione di volenterosi? A quel punto, la geometria del campo di battaglia dell’Europa cambierebbe in modi non ancora immaginati, poiché porti, campi d’aviazione e rotte terrestri critici potrebbero essere chiusi alle forze della NATO. L’incrollabile ossessione e dedizione dei leader occidentali al progetto atlantista ha prodotto una pericolosa mancanza di immaginazione.

 

Alcuni lettori potrebbero ancora essere sconcertati dalle mie argomentazioni. Se la Russia è così capace, perché non ha ancora preso l’Ucraina? Alcuni insistono sul fatto che se la Russia avesse un “easy button”, un bottone che basta premerlo per vincere in questa guerra, lo avrebbe già usato. L’implicazione, ovviamente, è che le forze armate russe sono in qualche modo carenti e non dovrebbero preoccuparci troppo. Queste persone non colgono il punto, anzi due.

 

In primo luogo, le capacità avanzate della Russia, come i missili ipersonici e la guerra elettronica, sono state una risposta alla superiorità degli Stati Uniti nelle categorie della guerra totale e delle capacità di attacco globale, in particolare come si è visto nella prima guerra del Golfo. All’epoca, gli Stati Uniti disponevano ancora di un’imponente forza armata permanente, straordinariamente capace di condurre guerre ad alta intensità. Il modo in cui questa forza ha smembrato l’esercito iracheno, allora uno dei più grandi al mondo, ha terrorizzato i leader non solo di Mosca ma anche di Pechino. La Russia sapeva di non poter affrontare questo colosso senza ricorrere alle armi nucleari e, pertanto, doveva cercare vantaggi in altri settori. Così, la Russia ha fatto buon uso dell’enorme talento STEM della sua popolazione per produrre sistemi d’arma avanzati. Anche in questo caso, si tratta di sistemi destinati a essere utilizzati contro gli Stati Uniti in un conflitto esistenziale. Sebbene alcuni di questi sistemi siano stati utilizzati in Ucraina, molti altri non lo sono stati, altrimenti gli Stati Uniti e altri avrebbero avuto l’opportunità di sviluppare contromisure. La Russia ha combattuto una campagna molto limitata.

In secondo luogo, se un nemico rifiuta di arrendersi, le sue forze devono essere distrutte – e questo è un processo molto doloroso. Noi in Occidente abbiamo ampiamente dimenticato questa lezione, ma la Russia no. Anzi, eccelle in questo compito, proprio come il suo predecessore, l’Armata Rossa. Ecco perché, nei primi giorni di guerra, ho notato che “la Russia poteva scatenare il suo esercito di un tempo e impiegare la massa dell’artiglieria, seguita dalla massa della fanteria di massa e dalla massa delle forze corazzate”. C’è voluto un po’ di tempo perché la Russia si mobilitasse adeguatamente, ma le sue decantate forze di artiglieria sono ora impegnate, sostenute da un numero sempre crescente di fanteria e corazzati. Chi fa riferimento alla mancanza di un “easy button” da parte della Russia non coglie i limiti delle capacità sofisticate e delle vittorie rapide in una guerra ad alta intensità. Questo tipo di conflitto, nella sua essenza, richiede la capacità di assemblare grandi formazioni e di muoverle “al suono dei cannoni” in manovre coordinate e ad armi combinate. Le forze armate russe lo sanno fare molto bene, non sono dilettanti.

 

L’imminente svolta

 

I leader occidentali hanno spostato il palo della porta per tutta la durata della guerra. Nei primi giorni, l’amministrazione Biden ha offerto a Zelensky un “passaggio” fuori dal Paese, in seguito alle notizie secondo cui squadre di sicari ceceni si aggiravano per Kiev alla sua ricerca. Nel giro di pochi mesi, abbiamo sentito proclami quasi fiduciosi sul fatto che l’Ucraina potesse essere in grado di vincere. Dopo altri mesi, non solo l’Ucraina stava vincendo, ci è stato detto, ma generali in pensione e altri hanno iniziato a parlare di riportare Donetsk, Luhansk e persino la Crimea sotto il dominio di Kiev.

 

Supponendo che la guerra non degeneri in un conflitto diretto tra la NATO e la Russia, i leader occidentali saranno costretti a cambiare rotta quando il rullo compressore russo renderà chiaro a tutti quale sia stato l’esito finale per tutto il tempo. Questo involontario disimpegno dell’Occidente dall’Ucraina provocherà un gioco di addebito delle colpe. Il processo sembrerà controverso e, forse, per alcuni individui lo sarà. Ma, per lo più, si tratterà di teatrino politico. L’apparenza di introspezione e responsabilità è un passo necessario in questo atto di autoassoluzione di massa. È probabile che sentiremo alcune variazioni di quanto segue:

  • Da un lato dello spettro delle scuse stanno gli irriducibili, che continueranno a sostenere che la NATO sarebbe dovuta intervenire direttamente, al diavolo le conseguenze. Queste persone rappresentano gran parte del gruppo di elettori che attualmente respinge tutte le preoccupazioni sul potenziale di escalation nucleare.
  • Poi ci sono quelli che sosterranno che la NATO non ha fatto nulla di male, perché “dovevamo fare qualcosa”. Continueranno a sostenere che la democrazia e l’ordine internazionale liberale sono la stessa cosa. Non faranno alcun riferimento al colpo di Stato del 2014 o alle profonde e antiche divisioni all’interno dell’Ucraina, che invalidano le affermazioni secondo cui la guerra è stata combattuta per l’autodeterminazione. Non diranno nulla degli immensi costi umani del “fare qualcosa”.
  • Poi arrivano gli strateghi geopolitici molto più sanguigni per i quali ne è valsa la pena per “indebolire la Russia”. Queste persone attualmente presentano delle argomentazioni intelligenti per far sembrare che la guerra sia un affare finanziario per gli Stati Uniti. Lo fanno senza menzionare le spaventose perdite o il modo in cui i loro appelli allo smembramento della Russia hanno contribuito a rafforzare la determinazione del governo e del popolo russo, accelerando probabilmente la realizzazione dell’obiettivo russo di un mondo multipolare. Allo stesso modo, ignoreranno la ritrovata forza, dimensione ed esperienza di combattimento dell’esercito russo. Questo gruppo avrà una corsa molto più limitata, poiché gli eventi in corso minano le sue affermazioni principali.
  • I più tecnici del gruppo saranno i tattici che hanno seguito le varie battaglie della guerra nei minimi dettagli. Questo è il gruppo dei “se solo”. Se solo la NATO avesse fornito prima questo o quel sistema d’arma, tutto sarebbe andato diversamente.
  • Infine, ci sono i sedicenti visionari che chiederanno di “reimmaginare” la NATO e l’UE. È stato un errore, diranno, aver insistito sulla necessità di rispettare tutti gli standard per essere ammessi. Invece, le nazioni dovrebbero essere accolte in base alla necessità di una difesa collettiva, con l’obiettivo finale di soddisfare altri requisiti necessari in tempo utile. Molti di questi chiedono attualmente che a ciò che resta dell’Ucraina venga concessa l’adesione alla NATO alla fine della guerra, come se questa non fosse stata una delle principali violazioni delle linee rosse di Mosca fin dall’inizio. Questa continua intransigenza della NATO indica a Mosca che l’operazione militare non deve cessare troppo presto.

Washington DC, come le capitali dei suoi Stati vassalli europei, non esita ad allontanarsi da politiche disastrose. Per esempio, chi discute ancora di ciò che è accaduto a Kabul meno di due anni fa? Tuttavia, l’Ucraina è diversa per l’Occidente, non solo perché fa parte dell’Europa, ma anche perché il sostegno alla guerra si è rapidamente trasformato in uno spettacolo pubblico di delirio massimalista senza precedenti. I leader occidentali hanno assecondato una visione immaginaria del mondo in cui si consideravano troppo sofisticati per giocare con regole diverse da quelle da loro stabilite. Le loro richieste normative e moralistiche superavano tutti gli imperativi e le considerazioni pratiche. Risultato, solo una delle due parti ha capito di essere in una lotta a coltello.

 

La realtà si sta ora facendo strada man mano che i vertici del governo statunitense acquisiscono una visione molto più completa della portata della distruzione in Ucraina. Questo è particolarmente vero per quanto riguarda il numero reale di vittime, che non può essere tenuto nascosto ancora a lungo. Questi funzionari comprendono la necessità politica di distanziare le proprie politiche sconsiderate dall’imminente collasso dell’Ucraina. Altrimenti, sarà fin troppo evidente che l’Ucraina ha perso una generazione di giovani – e anche la sua sovranità – per un’idiozia delle élite straniere che non dovranno sostenere alcun costo personale per aver orchestrato la calamità.

 

 

 

 

 

 

 

[1] “25 anni di intelligence/rischio geopolitico. Poliglotta. Esperienza in diverse zone di combattimento, NATO, Ucraina, Taiwan. Pratico, non teorico.”

[2] https://deepdivewithleeslusher.substack.com/p/amateur-hour-armageddon

[3] https://deepdivewithleeslusher.substack.com/p/analysis-the-russia-ukraine-conflict

[4] https://www.macrotrends.net/countries/UKR/ukraine/population

[5] https://www.statista.com/statistics/1312584/ukrainian-refugees-by-country/

[6] https://deepdivewithleeslusher.substack.com/p/on-appeasement

[7] https://it.wikipedia.org/wiki/Rocky_e_Bullwinkle [N.d.C.]

[8] https://nationalinterest.org/blog/the-buzz/russia-could-defeat-the-british-army-afternoon-19580

[9] https://www.britannica.com/technology/spoofing [N.d.C.]

[10] https://www.encyclopedia.com/history/encyclopedias-almanacs-transcripts-and-maps/goldwater-nichols-act [N.d.C.]

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Due righe sul video della decapitazione di un prigioniero ucraino, di Roberto Buffagni

Due righe sul video della decapitazione di un prigioniero ucraino

Due righe sul video che registra la decapitazione di un prigioniero ucraino. Non l’ho visto. Do per scontato, in questa sede, che sia autentico, e che la decapitazione sia realmente avvenuta. Brevissime considerazioni.

  1. Il video significa che le truppe russe commettano sistematicamente atrocità? No. Motivi:
  2. a) non è nell’interesse della Russia e delle sue FFAA. Le atrocità sui prigionieri rafforzano la determinazione e la volontà di combattere del nemico, ne rendono più improbabile la resa, provocano ritorsioni, aiutano la propaganda nemica.
  3. b) la propaganda russa non disumanizza il nemico, che non viene rappresentato come un Untermensch razzialmente inferiore (questo semmai avviene nella propaganda ucraina, improntata a un nazionalismo radicale su base etnica). L’ideologia prevalente in Russia è lato sensu cristiana e umanistica. Molte famiglie russe sono imparentate con ucraini. La Russia non combatte una guerra di sterminio, né una guerra assoluta, come prova il basso numero di vittime civili. Se la Russia volesse spezzare il morale della popolazione ucraina col terrore ne avrebbe i mezzi, gli stessi impiegati dai tedeschi contro l’URSS o dagli Alleati contro la Germania e il Giappone (“terror bombings”, bombardamento indiscriminato dei civili) nella IIGM.
  4. Allora perché vengono perpetrate atrocità simili?
  5. a) Combattono anche persone sadiche e malvage, alle quali la guerra offre un’occasione d’oro per sfogarsi, o magari per scoprire di essere sadiche e malvage. La guerra “gratta via la vernice” e fa vedere quel che c’è sotto. Infatti vi si verificano atti di straordinaria abnegazione ed eroismo, e atti di abissale malvagità, più tutto l’ampio ventaglio della mediocrità morale. È una considerazione di elementare buonsenso ma di solito non la si fa.
  6. b) Vendetta, ritorsione. Circolano analoghe testimonianze video di atrocità di parte ucraina. Pochi moventi sono forti come la vendetta, specie quando si è stati diretti testimoni dell’evento che la innesca (in guerra avviene spesso).
  7. c) La guerra ucraina è anche una guerra civile. Il livello di atrocità, nelle guerre civili, è molto più elevato, perché i nemici si conoscono personalmente e sviluppano un odio molto più radicato e violento che nelle guerre tra Stati combattute tra eserciti regolari. Ricordo che in tempo di pace, la gran parte dei delitti avviene in famiglia, tra persone che si conoscono benissimo e sono legate da vincoli di sangue. Negli anni tra il 2014 e il 2022 sono circolate testimonianze video e verbali di terrificanti atrocità tra le opposte milizie del Donbass, a paragone delle quali questa decapitazione impallidisce. Io stesso ho visto un video in cui veniva crocefisso e poi bruciato vivo un nemico (non dico da chi, in questo contesto è identico). Ho anche ascoltato la testimonianza di un mercenario italiano che se ne è andato “perché era troppo”, troppo atroce il costume bellico dell’una e dell’altra parte. Cose analoghe sono avvenute in tutte le guerre civili di cui ho notizia, es. Libano, Jugoslavia. Non riporto i fatti per non fare il catalogo degli orrori, ma non è difficile trovarne testimonianza affidabile.

Conclusione. I responsabili di queste atrocità vanno puniti come meritano. Non sarà facile che lo siano, per l’estrema difficoltà di instaurare un tribunale imparziale in tempo di guerra, e nell’immediato dopoguerra. Chiunque sostenga che le atrocità vengono perpetrate da una parte sola, mente. Bisogna porre termine il più presto possibile a questa guerra, anche per prevenire il ripetersi e l’aggravarsi delle atrocità.

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Fermiamo questa guerra!_a cura di Giuseppe Germinario

Il materiale reso pubblico recentemente sulla stampa statunitense si annuncia essere  solo parte, nemmeno la più importante, di una notevole mole di documenti, presumibilmente sottratti dal bunker del Comando Strategico USStratCom. Siamo di fronte, probabilmente, ad un nuovo clamoroso caso Snowden, ma ben più importante e che lascia pensare al coinvolgimento nella vicenda di alti ufficiali delle forze armate. Le stesse modalità di riproduzione e di diffusione dei documenti confermerebbero questa tesi. È la conferma di uno scontro durissimo e drammatico presente nei centri decisori di quel paese. Lo stesso fatto che siano grosse testate giornalistiche a diffondere il materiale rappresenta un ulteriore indizio della gravità di quanto sta avvenendo.

Non è la prima volta che accade. Già ai tempi della crisi dei missili a Cuba, nel 1962, la virulenza del confronto si manifestò anche in superficie. Allora la parte politica istituzionale, nella fattispecie il Presidente americano Kennedy e il segretario del PCUS Krushev, furono i moderatori delle rispettive componenti oltranziste presenti nei ranghi militari e dell’intelligence, specie americana. Questa volta, purtroppo, la situazione appare capovolta e ben più pericolosa e drammatica. È il vertice politico-amministrativo statunitense, unitamente al centro comando della NATO e di ampi settori della sicurezza, ad assumere la postura avventurista e provocatoria, sempre più sfacciata man mano che il regime ucraino si avvicina alla disfatta e i centri decisori si rendono conto di essersi cacciati in un vicolo cieco dal quale non potranno uscire indenni o con danni relativi. Ne parleremo con Gianfranco Campa. È l’intera redazione del blog, compresi gli scritti di Roberto Buffagni, le conversazioni con Campa e i numerosi saggi tratti dall’editoria mondiale, a seguire la falsariga di questa interpretazione. Mai come ora sarebbe necessario che uscisse qui in Europa una iniziativa politica efficace che interrompesse questa inesorabile dinamica. Non si tratta di “ripudiare la guerra”, ma di “fermare questa guerra”, resa possibile dalla insulsaggine di una classe dirigente e di un ceto politico europeo nella sua gran parte inetto, miserabile e connivente. Giuseppe Germinario

 

“Gli Stati Uniti hanno appena iniziato la prima esercitazione nucleare “GLOBAL THUNDER” dall’inizio della guerra in Ucraina. Almeno 150.000 persone in tutto il mondo simuleranno una guerra nucleare. L’anno scorso il capo dello STRATCOM ha dichiarato: “Il mio comando è ai posti di combattimento da gennaio circa in modalità di azione di crisi” (è da  oltre tre anni che non si effettuavano questo tipo di esercitazioni; mai di queste dimensioni e in un contesto di guerra aperta e così a ridosso dei confini della NATO_corsivo nostro).

Un recente studio sul Bulletin of the Atomic Scientists ha rilevato il “costante aumento” dei bombardieri nucleari statunitensi che STRATCOM stava schierando in Europa, comprese “operazioni di bombardieri sempre più provocatorie… in alcuni casi molto vicino al confine russo”.

Gli Stati Uniti hanno appena iniziato la loro prima esercitazione nucleare “GLOBAL THUNDER” dall’inizio della guerra in Ucraina. Almeno 150.000 truppe in tutto il mondo simuleranno una guerra nucleare. L’anno scorso, il capo STRATCOM ha dichiarato: “Il mio comando è stato nelle postazioni di battaglia da gennaio in modalità azione di crisi”.

Nelle osservazioni dell’anno scorso, il comandante della STRATCOM Charles A. Richard ha condiviso la sua teoria secondo cui fare affidamento sulla “moderazione” non era più praticabile, perché “l’assenza di una provocazione non è deterrenza”. Presumibilmente significa che l’ammiraglio credeva che gli Stati Uniti dovessero “provocare” attivamente Russia e Cina

A proposito, l’esercitazione di guerra nucleare si sta svolgendo contemporaneamente alla più grande esercitazione militare congiunta tra Stati Uniti e Filippine nel Mar Cinese Meridionale a ridosso di quella cinese intorno a Taiwan.

Impercettibile. Gli Stati Uniti eseguiranno esercitazioni nel Mar Cinese Meridionale che “comporteranno assalti alla spiaggia e la riconquista di un’isola conquistata dalle forze nemiche” ”

Da oltre tre anni non si svolgevano esercitazioni di questo tipo. Mai di queste dimensioni e a ridosso di un teatro di guerra aperta. A scaldare ulteriormente l’atmosfera le esercitazioni russe nell’Artico e l’arrivo di un sommergibile atomico statunitense nel Golfo Persico in un momento in cui le relazioni tra i due paesi principali di quell’area, Iran e Arabia Saudita, grazie all’iniziativa diplomatica cinese, sembrano acquietarsi. Giuseppe Germinario

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DA CHI SONO STATI DIFFUSI I DOCUMENTI NATO, E PERCHE’?_di Roberto Buffagni

 

DA CHI SONO STATI DIFFUSI I DOCUMENTI NATO, E PERCHE’?

 

Ringrazio dell’utilissimo, esauriente report, che riporto in calce, il professor Francesco Dall’Aglio. Sono chiarificatori soprattutto gli articoli del “Daily Telegraph” e del “Washington Post”, che il prof. Dall’Aglio riassume con perspicuità.

Premetto che le mie sono soltanto ipotesi, che possono benissimo rivelarsi errate; ma a questo punto direi che si può cominciare a capire:

  1. a) da chi sono stati diffusi i documenti
  2. b) a quale scopo sono stati diffusi.

Mia ipotesi su a): i documenti sono stati diffusi con la benedizione di qualcuno molto in alto, che appartiene al gruppo che capeggia la fazione contraria all’escalation della guerra, incardinata sul Pentagono.

Sono stati diffusi così perché:

1) plausible deniability

2) cresce la pressione per l’escalation (intervento diretto di forze occidentali nella guerra) della fazione oltranzista avversa, incentrata sull’establishment bipartisan che dirige la politica estera USA + i suoi alleati oltranzisti ucraini.

Mia ipotesi su b): la fazione del Pentagono più contraria all’escalation teme che l’ accordo tra le fazioni ucraine e USA più oltranziste e più favorevoli all’escalation metta i decisori USA di fronte al fatto compiuto: ossia, sferri un’offensiva con tutto quel che rimane all’Ucraina, la conduca sull’orlo della sconfitta militare decisiva, e costringa gli USA a una scelta immediata: o intervenire con truppe occidentali, o accettare una sconfitta politica colossale e di essere incolpati di “non aver salvato l’Ucraina & la democrazia”.

In estrema sintesi: la fazione oltranzista ucraina e USA vuole iniziare un’offensiva chiaramente condannata a fallire per provocare un intervento diretto occidentale nella guerra. In effetti, soltanto l’intervento diretto occidentale può modificare il contesto della guerra, che altrimenti ha come esito predeterminato la sconfitta militare decisiva dell’Ucraina.

La fazione avversa all’escalation, incardinata sul Pentagono, dissemina i documenti NATO per attestare pubblicamente che:

  1. a) gli USA e la NATO hanno sconsigliato agli ucraini di intraprendere azioni offensive su grande scala
  2. b) gli USA e la NATO non possono fare molto di più di quel che stanno facendo ora, non ne hanno le capacità materiali
  3. c) dunque gli ucraini oltranzisti, e la fazione USA con la quale sono alleati, devono scendere a più miti propositi, evitare azioni offensive su grande scala, e sostanzialmente dare tempo agli USA di districarsi dalla trappola in cui si sono cacciati.

Soprattutto, essi NON devono sperare di poter mettere gli Stati Maggiori riuniti e il Pentagono di fronte al fatto compiuto di un’offensiva che porti l’Ucraina sull’orlo della sconfitta, e credere che ciò basti a provocare un intervento diretto occidentale nella guerra, probabilmente nella forma della “coalition of the willing” (truppe polacche, rumene, baltiche, etc. che intervengano sotto la propria bandiera ma non come membri NATO in seguito a richiesta di aiuto militare del governo ucraino).

C’è una analogia storica molto istruttiva, l’operazione “Baia dei Porci” del 1961. CIA e Stati Maggiori riuniti sapevano benissimo che lo sbarco degli esuli cubani sarebbe stato sconfitto, senza un intervento diretto americano. Sapevano anche che il presidente appena insediato, John F. Kennedy, era contrario a far intervenire le forze statunitensi a Cuba.

Così, fecero due cose: 1) ingannarono Kennedy, dicendogli che lo sbarco poteva riuscire, che il popolo cubano sarebbe insorto appoggiando gli esuli cubani 2) diedero per scontato che appena sarebbe stato evidente il fallimento dello sbarco, Kennedy, per evitare una grave sconfitta politica, li avrebbe autorizzati a intervenire con forze USA sul territorio cubano. JFK si rifiutò e accettò la sconfitta.

Qui le parti sono rovesciate: sono i politici ad essere oltranzisti, e i militari a essere moderati, perché dall’altra parte non c’è Cuba ma la Russia, e probabilmente anche perché con tutti i difetti delle FFAA USA, negli SM riuniti non ci sono dei pazzi criminali come il gen. Curtis Le May.

 

 

Dalla pagina Facebook del professor Francesco Dall’Aglio:

Tra ieri e oggi sono venuti fuori altri “leaks”, finalmente un po’ più interessanti di quanto fatto trapelare in precedenza – anche qui vale il discorso fatto ieri: interessanti ma nulla di trascendentale e resta sempre da chiedersi se siano informazioni vere, false, alterate o mescolate, un po’ vere e un po’ false (che, come sanno i bugiardi, è la maniera migliore di mentire).

Senza seguire un ordine particolare, abbiamo appreso che:

– L’Egitto aveva (ha?) intenzione di vendere alla Russia 40.000 missili Sakr-45, ossia la versione egiziana dei missili per i BM-21 “Grad” russi ( https://www.washingtonpost.com/…/10/egypt-weapons-russia/ ). Stando al rapporto, al-Sisi in persona ha istruito lo stato maggiore, il Ministro della Difesa Zaki e gli operai delle fabbriche a fare tutto in segreto “per evitare guai con l’Occidente”. Chissà se ha fatto anche l’accento svedese. Il rapporto è del 1 febbraio: non si sa se i missili e altri armamenti siano stati effettivamente consegnati. Non si ha notizia da parte di fonti ucraine dell’impiego dei Sakr-45, ma potrebbero non essere stati ancora consegnati se al 1 febbraio bisognava ancora produrli.

– Stando alla NBC ( https://www.nbcnews.com/…/leaked-documents-show-us… ) le JDAM, Joint Direct Attack Munition (di cui avevo scritto il 29 marzo) fornite dagli USA all’Ucraina non stanno funzionando, cosa in effetti vera. I motivi andrebbero ricercati o in un difetto nell’armamento delle spolette o nella capacità dei russi di disorientare il GPS che le guida e fargli fallire il bersaglio. Non viene menzionato quello che probabilmente resta il motivo principale, ossia che gli aerei ucraini che le lanciano non raggiungono mai l’altezza prevista per il massimo effetto e la massima gittata, perché restando troppo tempo in volo verrebbero individuati e distrutti – e questo era il motivo per cui, dal lato del Cremlino, non ci si era disperati troppo quando era stato annunciato l’invio delle JDAM. Nell’articolo della NBC ci sono altri “leak” meno interessanti, o già riportati.

– Secondo la CNN ( https://edition.cnn.com/…/pentagon-leaked…/index.html ) il 23 febbraio la Bulgaria avrebbe espresso la sua disponibilità a “donare” all’aviazione ucraina i suoi vecchi Mig-29. Il Ministro della Difesa bulgaro ha negato che la cosa sia vera: https://sofiaglobe.com/…/bulgaria-denies-report-it…/ . Bulgarianmilitary (che è un sito generalmente affidabile su queste cose) a sua volta smentisce la smentita: https://bulgarianmilitary.com/…/bulgaria-has-promised…/ .

– Politico ( https://www.politico.com/…/10/ukraine-intel-leak-00091229 ) ha un articolo interessante sulle conseguenze diplomatiche della fuga di notizie per gli USA nei rapporti coi loro alleati.

– Ho tenuto la cosa più interessante per ultima. Secondo il Daily Telegraph ( https://www.telegraph.co.uk/…/ukraine-russia-pentagon…/ ) la fuga di notizia avrebbe costretto il comando ucraino ad “alterare i piani” per la prevista controffensiva, anche se non viene specificato in che maniera, mentre secondo il Washington Post ( https://www.washingtonpost.com/…/leaked-documents…/ ) ci sarebbero dei dubbi nell’amministrazione USA sulla possibilità che la controffensiva abbia successo, o quantomeno che riesca in tutti i suoi obiettivi (che sono in realtà piuttosto irrealistici: isolare la Crimea dal resto dei territori occupati e conquistarla, e poi prendere tutto il resto fino a tornare ai confini del 1991). La manovra ucraina, dice il WaPo, sarebbe costosissima in termini di perdite sia per le “manchevolezze” di addestramento e munizioni ucraine che per le linee di difesa predisposte dalla Russia, e porterebbe solo “modesti guadagni territoriali”. Gli USA avrebbero tenuto una serie di riunioni ad altissimo livello coi vertici ucraini per capire in che modo vorrebbero muoversi, esprimendo i loro dubbi ai quali i vertici ucraini hanno riposto con la solita risposta: la colpa è dei rifornimenti occidentali che sono arrivati tardi. L’offensiva si farà comunque: “All parties came away from those conversations with a sense that Ukraine was beginning to understand the limitations of what it could achieve in the offensive and preparing accordingly, U.S. officials said. While severing the land bridge is unlikely to happen, these people said, the United States is hopeful that incremental gains could at least threaten the free flow of Russian equipment and personnel in the corridor, which has been a lifeline for invading forces”. A questo proposito il Segretario per la Sicurezza Nazionale Oleksiy Danilov, il più falco dei falchi, ha twittato ieri che la controffensiva viene fatta ogni giorno, che non si aspettano “date magiche” per il suo inizio e che tutta questa smania di informazioni non va a vantaggio delle FFAA ucraine ( https://twitter.com/OleksiyDan…/status/1645397186304196613 ), mentre oggi ha detto che non c’è una sola opzione ma ce ne sono almeno tre. Il Ministro della Difesa Oleksij Reznikov, ad ogni modo, si è un po’ irritato e gli USA sono corsi subito ai ripari: secondo la Reuters ( https://www.reuters.com/…/ukraine-says-blinken…/ ) nel corso di una telefonata col Segretario di Stato Blinken quest’ultimo ha riaffermato il sostegno “blindato” degli USA nel sostenere l’Ucraina e respinto ogni dubbio sulle sue capacità militari. Da qualche parte, in tutto questo discorso, c’è una menzogna. La menzogna è che non si crede alla controffensiva, o che ci si crede? Questa fuga di notizie (che è stata certamente favorita e che viene diffusa ad arte, con i files distribuiti un po’ per uno alle varie testate) segnala o certifica un cambio di rotta nella strategia USA, una possibilità di sganciamento, o al contrario, vista l’insistenza continua su questo dettaglio, la necessità di continuare a inviare rifornimenti, e anzi ad aumentarli?

 

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